RASSEGNA STAMPA

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Rassegna Stampa del giorno 4 FEBBRAIO 2010
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
pag.1
UN AFORISMA AL GIORNO
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più che il morire,
è da coraggiosi il vivere!!
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Rassegna Stampa del giorno 4 FEBBRAIO 2010
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
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CORRIERE DELLA SERA
pag. 31 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di Daniele Manca
«L’Europa ha retto meglio,
la priorità è la coesione sociale»
Passera: i politici facciano le regole, separare chi dà credito da chi specula
«Molto realismo nell’affrontare i problemi e altrettanta incertezza sulla ripresa, soprattutto in Europa».
«Consapevolezza diffusa che la disoccupazione è l’emergenza numero uno». «Progressiva convergenza sulla necessità di regole forti nella finanza». «Sostenibilità e coesione sociale altrettanto importanti della produttività e della competitività». «Un forte no al protezionismo». «Necessità di costruire
una nuova governance mondiale». In sintesi un Occidente ancora alle prese con una crisi tutt’altro che
passata per Corrado Passera. Ma che, secondo il numero uno di Intesa Sanpaolo, dopo i giorni passati
al World Economic Forum di Davos e alla vigilia del G7 in Canada «nonostante l’insufficiente ruolo
dell’Europa, apre molte opportunità di crescita anche per l’Italia, ricostruendo la fiducia necessaria nel
futuro».
Sarà anche così, ma l’impressione è che dalle cronache di Davos ne sia uscito un mondo
dove il solco tra politica e finanza si è approfondito.
«Il solco è solo tra gli estremisti: a me sembra che tutte le persone di buon senso ormai concordino sulla necessità di regole globali per evitare il ripetersi dei disastri degli ultimi anni».
Sì, ma il presupposto è quello del presidente francese
Nicolas Sarkozy che non è stato affatto tenero nei confronti
di un capitalismo e di una finanza orientata solo al profitto.
Auspicando per questo nuove regole.
«Sarkozy, come Obama, ma anche Draghi, distinguono tra le
banche dell’economia reale, che raccolgono depositi e fanno credito, da quelle che forse non dovrebbero nemmeno chiamarsi banche perché fanno solo o prevalentemente finanza, trading, speculazione. Sono attività del tutto diverse ed è ora che abbiano regole
e controlli del tutto diversi. Le vere banche commerciali, e soprattutto quelle che non hanno mai smesso di esserlo anche quando
non era più di moda, devono essere messe in condizione di sostenere al meglio famiglie e imprese».
Sta dicendo che può funzionare la ricetta di Obama che vuole impedire alle banche commerciali di accumulare in modo incontrollato rischi?
«Certo che può funzionare, come ha scritto Francesco Giavazzi lunedì sul vostro giornale. Possiamo
affermare a buon diritto che se il mondo avesse avuto le regole e i sistemi di controllo italiani e di qualche altro Paese in Europa, la grande crisi non ci sarebbe stata o non sarebbe stata così grave. Mi riferisco, ad esempio, ai limiti messi ai debiti, ufficiali e fuori bilancio, e alle norme a tutela della liquidità. Le
banche saltano in aria prima per problemi di liquidità che di patrimonializzazione».
Già ma chi le deve fare queste regole? Il ministro Tremonti è stato chiaro: spetta alla politica non ai banchieri.
«Certo che deve essere la politica. E ci aspettiamo che lo faccia e che assicuri controlli efficaci attraverso autorità adeguate in tutti i Paesi. Se l’avessero fatto per tempo come a casa nostra, la crisi
non ci sarebbe stata».
Ormai però se ne parla da troppo tempo e anche quello di Obama è ancora un annuncio.
«L’auspicio è che si facciano alla svelta per togliere l’estrema incertezza che oggi fa male a tutti. E
che lo facciano in maniera coordinata e coerente perché i mercati sono globali, che lo si voglia o no.
Bene ha fatto Sarkozy a ricordare anche le mostruosità contabili che hanno contribuito a distruggere
trilioni di dollari. Come si può andare avanti valutando in tempo reale il valore e il merito creditizio di
aziende e banche sulla base delle quotazioni di borsa anche quando imercati sono illiquidi o del tutto
paralizzati?»
Siamo ancora però alle premesse. Il problema è che va ripristinata la fiducia elemento
fondamentale per la crescita.
«Il livello di fiducia è molto diverso nelle diverse parti del mondo. Ed è soprattutto legato alle aspettative di crescita. L’acronimo LUV è quello che rende meglio il senso di quella che è, purtroppo, la
nostra debolezza relativa. L’Europa è alle prese con una recessione a L, siamo caduti e ora siamo in
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una sorta di stasi. L’America sta vivendo una recessione a U: dopo la caduta il rimbalzo che si spera sia
duraturo. Per l’Asia la crisi è stata a V: frenata e subito reazione. Con questo livello di crescita, in Europa non ci sarà ripresa di occupazione e l’emergenza economica potrebbe diventare emergenza sociale e
poi politica».
Fatto sta che si torna a parlare e a dare bonus milionari per i banchieri mentre in Europa
ci sono 25 milioni di disoccupati.
«Quella dei bonus, soprattutto — ma non solo — ai traders americani è un’enormità socialmente
insopportabile».
Anche in Europa e in Italia non si è scherzato con bonus e premi.
«Sbagliando e comunque con grandi differenze tra Paese e Paese e tra le diverse tipologie di banche».
Allora è buono il tetto imposto con un emendamento dal Parlamento italiano?
«No, quella proposta dimostra l’incapacità di affrontare razionalmente il problema e la volontà di
fare solo populismo, che è il peggior modo di rispondere alla crisi. Legare un manager ai risultati è corretto purché ci sia una visione di lungo periodo. Andando anche contro le pretese delle Borse che tendono a premiare i risultati a brevissimo termine. L’orientamento al brevissimo termine è una malattia
sia dell’economia sia della politica che impedisce di costruire il futuro» E allora? «E allora ci vogliono
coraggio e creatività. Coraggio per imparare le lezioni della storia anche recente e creatività per trovare
soluzioni nuove a problemi che sono del tutto nuovi. Mi ha fatto piacere che anche a Davos si sia consolidata la convinzione che sostenibilità e coesione sociale siano sullo stesso piano di competitività e selezione. Il modello europeo nelle sue varie sfaccettature ha mostrato la sua solidità di fondo anche se
deve ritrovare la spinta della crescita. La Ue potrebbe giocare, anche grazie al suo sistema sociale, un
ruolo da "grande" del mondo, ma fino ad oggi non ha trovato la capacità di farlo. L’Italia in Europa può
e deve fare di più e l’Europa ha bisogno dell’Italia».
Ma con il G2 l’Europa stessa sembra destinata a essere marginalizzata.
«Che America e Cina si parlino mi sembra scontato, anche se oggi sono divise da differenze incolmabili. Ma guai se creassero un vero G2 a discapito del resto del mondo. La grande invenzione di portata storica degli ultimi anni è stato il G20, dove c’è ben più che Stati Uniti e Cina. In quella sede
l’Europa potrebbe giocare un ruolo fondamentale».
Noi sembriamo però distratti. Abbiamo perso l’opportunità di indicare Giulio Tremonti alla presidenza dell’eurogruppo. E non sembra salire la tensione per sostenere Draghi alla presidenza della Banca centrale europea.
«In Europa ci siamo persi l’opportunità di Tremonti e ora non dobbiamo perderci quella di Draghi, anche se ce lo terremmo volentieri in Italia. Purtroppo noi italiani sappiamo
lavorare insieme solo di fronte alle grandi emergenze, mentre per il resto siamo disuniti e
perdiamo nei confronti dei Paesi che sanno essere sistema. L’Italia crede poco in se stessa. Siamo la terza economia europea, abbiamo persone, capacità che potrebbero far rivivere e potenziare l’Unione. Ma facciamo l’errore, comune ad altri Paesi occidentali, di
guardarci l’ombelico».
Con due milioni di disoccupati e vertenze come quelle dell’Alcoa e non solo è quasi
d’obbligo guardare entro i propri confini.
«L’occupazione viene soprattutto dalle imprese, da quelle esistenti che dobbiamo incoraggiare a
crescere, a innovare, a internazionalizzarsi. Da quelle nuove che dobbiamo facilitare nella loro nascita.
Da quelle del resto del mondo che dobbiamo attirare in Italia».
Sta pensando alla Fiat di Termini che potrebbe essere ceduta a un gruppo cinese?
«Non conosco i dettagli, ma credo che Termini non abbia sbocchi automobilistici. Si dovrà comunque trovare una soluzione per quell’insediamento. Per attirare capitali esteri dobbiamo offrire interlocutori certi, tempi decisionali definiti, sicurezza sul territorio, giustizia efficiente. Non sono più il costo del
lavoro e le rigidità sindacali gli ostacoli principali, che fanno preferire altri Paesi europei rispetto
all’Italia, soprattutto al nostro Meridione».
Sarà anche vero. Ma solo se la torta cresce, se ci sarà sviluppo si creerà occupazione. E il
prodotto interno lordo langue.
«Questo è il tema dei temi. Con lo "zero virgola" di crescita non creiamo occupazione, non paghiamo il welfare, non costruiamo futuro. E le opportunità di crescita sia in Europa che nel mondo ci sono:
dalle nostre quattro "A" (Agribusiness, Automazione, Arredamento e casa, Abbigliamento e moda), alla
green economy, dalle biotecnologie alle infrastrutture, al turismo. In tanti settori con prospettive di
crescita il nostro Paese se la può giocare tra i leader».
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CORRIERE DELLA SERA
pag. 33 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di Giulio Benedetti
«Lavoro, padri e figli
divisi dall’articolo 18»
Brunetta: «I genitori sono ipergarantiti, basta scaricare la flessibilità sui giovani»
ROMA— «L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori protegge i padri e non i figli». Il ministro
della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ospite di Porta a Porta, lancia una nuova
proposta per il riscatto dei «bamboccioni». Dopo i cinquecento euro al mese per aiutarli a uscire prima di casa, da ricavare risparmiando sui pensionati precoci, questa volta butta lì
l’idea di rivedere l’articolo 18, la norma che impedisce il licenziamento senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti.
«Abbiamo un welfare pessimo e costoso tutto a vantaggio dei padri e per i figli non c’è
nulla»: Brunetta ha appena cominciato a parlare della sua idea che i telefoni della redazione
cominciano a squillare. È in gioco l’articolo più strenuamente difeso
dai sindacati. Non a caso la manifestazione più partecipata nella loro
storia recente è stata quella organizzata nel 2002 dalla Cgil di Cofferati proprio a sostegno di quella parte dello statuto dei lavoratori.
«Basta con queste strumentalizzazioni stupide — sbotta il ministro, quando Bruno Vespa legge alcuni dei commenti —. Non sono
ipocrita e dico quello che penso. Ho detto che l’articolo 18 protegge i
padri e non protegge i figli. Ed è la sacrosanta verità. Io sono per
una modifica dell’articolo 18 che monetizzi (chi perde il posto ndr) e
non che difenda con il reintegro». L’arringa pro-bamboccioni è inarrestabile: «Non dobbiamo scaricare la flessibilità del mercato sui più
deboli e non sindacalizzati: spendiamo tantissimo per finte pensioni
di invaliditá ma non diamo quasi nulla ai giovani tipo incentivi per
mettersi in proprio, prestiti d’onore, borse di studio, affitti. Non ce la
fanno a uscire di casa, con il risultato che sono proprio i genitori, per
compassione, a tenerli nella propria abitazione fino a tarda età».
Otto anni fa, secondo la Cgil, a scendere in piazza per difendere l’articolo 18 dalle modifiche proposte dal governo Berlusconi furono 3milioni di persone. Sergio Cofferati, nel 2002 alla
guida del sindacato ed ora europarlamentare per il Pd, non può fare a meno di rispondere al
ministro della Pubblica amministrazione. «Che c’entra l’articolo 18 col presunto ipergarantismo — si chiede —. Quella dell’articolo 18, come Brunetta dovrebbe sapere, è una norma che
vieta il licenziamento senza giusta causa, è una norma di civiltà del lavoro». Duro il commento del successore Guglielmo Epifani, intervenuto a Otto e mezzo: «Quella lanciata dal ministro
Brunetta è una provocazione ma non c’è dubbio che se si dovesse riaprire una discussione su
questo capitolo la Cgil sarebbe pronta a dare battaglia». «Brunetta— continua Epifani— non si
accorge che siamo in un tempo in cui i padri perdono lavoro e i figli anche, da precari».
«Quello di Brunetta è in realtà un attacco ai lavoratori, un’offensiva contro i diritti», afferma il capogruppo Idv alla Camera Massimo Donadi. Nella polemica è intervenuta anche Renata
Polverini, candidato del Pdl alla presidenza del Lazio: «A mettere in discussione l’articolo 18 ci avevano pensato i radicali, lo dico anche a Sergio
Cofferati». Un messaggio polemico nei confronti
dell’avversaria alle elezioni regionali Emma Bonino.
Sergio Cofferati era segretario generale
della Cgil quando nel 2002 il governo propose di modificare lo Statuto dei Lavoratori
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CORRIERE DELLA SERA
pag. 33 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di Renato Brunetta ministro per la Pubblica Amministrazione
la lettera
Cominciare dal Fisco
per avere salari più pesanti
Caro Direttore, La crisi globale non ha intaccato i salari reali dei dipendenti italiani. Anzi,
questi hanno avuto un certo recupero, sia in termini assoluti sia in termini relativi. Può apparire paradossale, ma è così. Ciò non cancella la «questione salariale», di cui si parlava prima
della crisi e che torna al centro dell’attenzione anche per l’annuncio di sciopero generale da
parte della Cgil. Ma mi spinge a fare chiarezza su un tema dominato dalla confusione delle
contrapposte retoriche. Esiste davvero una «questione salariale», ma il suo carattere è strutturale e dipende poco o per nulla dalle fluttuazioni del ciclo economico. Se si considera
l’andamento congiunturale delle retribuzioni contrattuali (ovvero delle voci salariali definite
dai contratti nazionali di lavoro), le statistiche ufficiali (Istat) mostrano l’evidenza indiscutibile
di una resistenza dei redditi reali dei lavoratori dipendenti rispetto alla crisi. Tra il 2008 e il
2009 vi è stato addirittura un aumento intorno ai 2 punti percentuali del «potere d’acquisto»
(le retribuzioni nominali sono cresciute del 3 per cento mentre l’inflazione è stata dello 0,8).
Certo, i dati medi riflettono andamenti differenziati. Le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono cresciute meno di quelle del settore privato (3,0 contro 3,2 per cento). Se si guardano invece le retribuzioni di fatto (ovvero tutte le voci retributive), l’aumento è stato maggiore per i
dipendenti delle piccole imprese, per i quali il grosso della retribuzione è fissato dai contratti
nazionali, che per i dipendenti delle grandi imprese, per i quali, viceversa, la crisi ha ridimensionato le voci variabili del salario (in primo luogo straordinari e contratti decentrati). Tuttavia, la sostanza del problema non cambia. L’effetto combinato della chiusura di numerosi contratti nazionali di lavoro e della frenata dell’inflazione ha determinato un recupero non trascurabile del "salario reale" dei dipendenti (circa 17 milioni). Un’evoluzione simile si è registrata
per i redditi dei pensionati (circa 16,8 milioni). In termini reali, per quasi 34 milioni di italiani
salari e pensioni sono aumentati in media di circa due punti percentuali. Questo scenario positivo non consente però di trascurare i punti di difficoltà. Intanto, per i lavoratori dipendenti in
cassa integrazione (più di mezzo milione di equivalenti a zero ore) la crisi si è fatta sentire
nonostante le tutele rafforzate del welfare. Ancor più gli effetti negativi del ciclo si sono scaricati sui redditi dei lavoratori autonomi (e sui profitti). Nel terzo trimestre 2009 i redditi misti
(profitti più redditi da lavoro autonomo) sono diminuiti, in termini nominali, del 3,9 per cento
rispetto al corrispondente trimestre 2008. Inoltre, e qui emerge la "questione salariale" di
lungo periodo, le retribuzioni di fatto sono al lordo delle tasse (imposte e contributi). Una volta depurato del prelievo fiscale, il reddito disponibile (netto) di un lavoratore dipendente senza carichi familiari risulta tra i più bassi nel club dei paesi più industrializzati (il 17 per cento in
meno della media Ocse nel 2008). In Italia, l’onere fiscale colpisce in modo non proporzionato
e non equo (anche a causa dell’evasione fiscale) il lavoro, in particolare quello dipendente. È
questa la fonte principale del divario con gli altri paesi. Il riequilibrio del carico fiscale, assieme all’aumento della produttività, è la strada maestra per affrontare la «questione salariale»,
soprattutto se con la ripresa economica mondiale si prospetterà una fase di minore stabilità
dei prezzi. Alleggerendo il costo del lavoro, appesantito in termini unitari dalla fiacca dinamica
della produttività, si dà un forte contributo alla capacità competitiva del sistema produttivo italiano, in un momento in cui è messo duramente alla prova. Anche se non è questa la sede
per scendere in dettagli, non dimentico che il riequilibrio nella distribuzione del carico tributario è un’azione complessa e delicata (e quale intervento sul fisco non lo è?), non solo dal punto di vista tecnico. Non è quindi il caso di cedere all’improvvisazione e alla fretta. Ma si può
cominciare con lo sgombrare il terreno da qualche equivoco.
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pag.6
CORRIERE DELLA SERA
pag. 33 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di Enrico Marro
La prima frenata della cassa integrazione
A sorpresa l’utilizzo è inferiore alle richieste
A gennaio chiesto il 186% di ore in più rispetto al 2009, calo del 17% su dicembre
ROMA— Nel 2009 sono state autorizzate 915,7 milioni di ore di cassa integrazione, il massimo storico, ma quelle effettivamente utilizzate sono state 515,7 milioni, cioè il 56,3%. Ci
sono insomma 400 milioni di ore di cassa integrazione domandate dalle aziende, autorizzate
dall’Inps, ma non usate. Il cosiddetto tiraggio, che era stato del 73,1% nel 2008, è sceso appunto al 56,3% l’anno scorso. Ma a sorprendere di più è il fatto che il tiraggio più basso si è
avuto in alcune delle regioni maggiormente industrializzate. A guidare la classifica c’è infatti la
Lombardia con il 43,1% di ore utilizzate (121,1 milioni contro 280,8 milioni richieste). Al secondo posto il Piemonte con il 47,9% (90 milioni invece di 187,8). I queste due regioni, quindi, le aziende usano meno della metà della cassa ottenuta.
Al terzo posto la Liguria con il 55,8%, al quarto il Lazio col 58,5%. Tassi più elevati, invece, in Emilia Romagna (73,8%) e Campania (80,4%). Al 60% il tiraggio della Puglia. Questi
dati nulla tolgono alla gravità della crisi, alle centinaia di migliaia di posti di lavoro persi e al
milione di operai e impiegati toccati l’anno scorso in vario modo dalla cassa integrazione, secondo le stime sindacali. Crisi che non è affatto finita. Basti pensare che a gennaio del 2010
sono state autorizzate 84,5 milioni di ore di cassa integrazione, il 186,6% in più rispetto a
gennaio del 2009. Ma segnalano, dice il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, «la forte
paura iniziale, che ha spinto le aziende a chiedere più ore del necessario». Negli ultimi mesi,
prosegue, si registra «una frenata: rispetto a dicembre del 2009 la cassa integrazione richiesta è scesa complessivamente del 17%, quella ordinaria è in flessione da quattro mesi e a
gennaio, per la prima volta, abbiamo visto una diminuzione delle richieste della cassa straordinaria e di quella in deroga».
Per la Cgil la situazione rimane drammatica. «Gli 84,5 milioni di ore autorizzate di cassa
integrazione autorizzate a gennaio sono pari al 40% di tutte le ore del 2008 — dice Fulvio
Fammoni —. Inoltre, la disoccupazione ordinaria supera 1.213.000 unità nel 2009, ovvero il
doppio dell’anno precedente, e sommata a mobilità e disoccupazione con requisiti ridotti arriva a circa 2 milioni di domande presentate». Anche per Giorgio Santini (Cisl) è presto per parlare di ripresa, «anche se i dati sul tiraggio mostrano qualche segnale positivo». Susanna Camusso (Cgil) dice che un tiraggio così basso è dovuto anche al fatto che «fino a poco tempo fa
le richieste di cig si facevano per settimane anche se le aziende ne avevano
bisogno per qualche giorno, poi le regole sono cambiate e adesso si fanno sui
giorni previsti».
Mastrapasqua sottolinea invece l’effetto grandi aziende, nel senso che
sono soprattutto queste «a presentare richieste di cig a zero ore per tutti i
lavoratori che poi non hanno seguito», e la novità della cig in deroga, estesa
a settori che prima non l’avevano e che, anche loro, tendono a fare scorta di
ore che poi non utilizzano (il tiraggio qui è al 53,5%): «Le Regioni che concedono la cig in deroga ci mandano i decreti, ma poi le aziende spesso non ci
fanno avere i nomi dei lavoratori perché non usano più la cig».
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CORRIERE DELLA SERA
pag. 35 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di Ivo Caizzi
Sì dell’Europa al piano per salvare la Grecia
«Ora sorvegliata speciale»
Freddi i mercati, la Borsa di Atene cede l’1,9%
BRUXELLES — Per la prima volta l’Unione Europea mette sotto stretta tutela la politica economica di un Paese membro per evitare conseguenze negative sull’euro. Il commissario per
gli Affari economici, lo spagnolo Joaquín Almunia, ha annunciato l’adozione di questo «nuovo
strumento» comunitario nei confronti della Grecia aggiungendo comunque un parere positivo
sul piano d’emergenza «ambizioso» presentato a Bruxelles dal governo di Atene, che punta a
riportare il deficit pubblico (schizzato al 12,7% del Pil nel 2009) sotto il rapporto massimo del
3% entro il 2012.
Almunia ha giustificato l’attuazione di questa linea «severa», che consente di «emettere raccomandazioni per la correzione delle decisioni di politica
economica di un Paese quando queste non sono compatibili con il buon funzionamento della zona euro», un po’ con le pressioni degli altri Stati e dei
mercati finanziari, un po’ perché «alcune delle misure non sono solo difficili
da adottare politicamente, ma anche da applicare». I tagli richiesti da Bruxelles dovrebbero coinvolgere le retribuzioni del settore pubblico e il sistema
pensionistico-sanitario. Il premier greco George Papandreou ha annunciato anche l’imminente
aumento della tassa sui carburanti.
Le prevedibili tensioni sociali e i già annunciati scioperi di protesta hanno mantenuto scettici i mercati davanti al rischio di un’insolvenza della Grecia. A complicare il quadro c’è
l’inattendibilità delle statistiche di Atene sui conti pubblici nazionali per il
2009, che hanno provocato una specifica procedura d’infrazione comunitaria
e moltiplicano i dubbi sulle effettive dimensioni dei problemi dell’economia ellenica. Almunia ha però escluso la necessità di far intervenire il Fondo monetario internazionale di Washington sostenendo che «l’Ue e la zona euro hanno
strumenti adeguati a disposizione per fronteggiare la situazione». Il commissario spagnolo, che nella Commissione entrante passerà alla Concorrenza, ha
fatto intuire la possibilità di interventi di sostegno alla Grecia qualora fossero necessari per
sostenere la moneta unica europea. Ha ammesso che altri Stati, come Spagna e Portogallo,
presentano dei rischi e che «se ne potrebbero aggiungere altri». A preoccupare è soprattutto
la Spagna, che ha un peso economico finanziario nella zona euro ben più ampio rispetto a
Grecia, Portogallo o Irlanda. Il governo di Madrid deve fronteggiare gravi problemi di deficit e
una disoccupazione dilagante, ma vanta un debito pubblico avviato verso un non drammatico
74% del Pil nel 2012.
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pag.8
CORRIERE DELLA SERA
pag.35 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di Mario Sensini
Scudo fiscale, dubbi Ue
Ma il governo chiarisce
Le Entrate: già fornite le spiegazioni sull’Iva
ROMA — Il governo italiano mette le mani avanti per tranquillizzare la Commissione Europea, che dubita che dietro lo scudo fiscale possa nascondersi una sanatoria anche per l’Iva,
vietata dalle direttive Ue perché una parte dell’Iva, che finanzia il bilancio Ue, è considerata
come un "tributo comunitario". Con sei righe nella circolare diffusa il 29 gennaio scorso,
l’Agenzia delle Entrate ha precisato che l’adesione allo scudo fa comunque «salva la conformità alle disposizioni comunitarie in materia di imposta sul valore aggiunto, nonché le relative
interpretazioni della Corte di Giustizia».
Una precisazione dovuta, anche se il governo resta «assolutamente tranquillo»
sull’evoluzione della vicenda. tanto più, si fa notare, che non c’è alcuna contestazione formale
da parte di Bruxelles al governo. Ametà dello scorso dicembre c’è stato solo un incontro tecnico, ed interlocutorio, tra la Commissione ed il Governo. Nulla di burrascoso, assicura l’Agenzia
delle Entrate in una nota, con cui ieri ha definito «destituite di fondamento le indiscrezioni di
stampa» sull’esito dell’incontro con la Commissione europea, con la quale, sottolinea ancora
la nota dell’Agenzia, «i rapporti si sviluppano in modo positivo e costruttivo».
In quell’occasione la Commissione raccomandò al governo di chiarire alcuni passaggi controversi della normativa sullo scudo, come quelli che riguardano l’Iva e gli obblighi di segnalazione antiriciclaggio. Come poi è stato fatto nella circolare del Direttore dell’Agenzia, Attilio
Befera, del mese scorso, che fa salvo appunto anche il rispetto delle direttive sul riciclaggio.
L’esposto alla Commissione sullo scudo fiscale italiano fu presentato nello scorso autunno
da tre eurodeputati, tra i quali Luigi De Magistris dell’Italia dei Valori e Vittorio Prodi del Pd,
convinti che il nuovo scudo fiscale possa nascondere anche un’evasione Iva, per la quale le direttive Ue escludono qualsiasi tipo di sanatoria.
Il governo, tuttavia, si dice tranquillo. Lo scudo fiscale, si spiega, non è un condono, ma si
risolve con un’imposta straordinaria sui capitali rientrati in Italia dopo essere stati nascosti
all’estero. Risorse di cui, salvo per casi legati ai reati più gravi che non vengono scudati dalla
normativa, sarà impossibile stabilire la reale provenienza. Sono soldi, spiegano al ministero
dell’Economia, che potrebbero essere frutto di un’evasione Iva in Italia, ma anche in qualsiasi
altro paese comunitario. Considerato che lo scudo può essere opposto all’accertamento fiscale, che in principio non è affatto precluso, all’atto pratico sarà impossibile determinare
l’eventuale evasione dell’Iva.
A sostegno della posizione italiana c’è il precedente dello scudo del 2001-2002. Anche in
quel caso l’operazione finì sotto la lente di Bruxelles e non se ne fece nulla. L’Italia venne invece condannata per il condono tombale del 2003, che riguardava esplicitamente anche l’Iva
(e quindi anche la quota parte destinata alla Ue). Ma questo costituisce un precedente ben diverso. E, semmai, un conforto per i contribuenti. Il condono dell’Iva nel 2003 fu cassato da
Bruxelles, ma siccome il soggetto passivo dell’Iva comunitaria non è il contribuente ma il governo, a pagare fu lo Stato italiano. E la faccenda si risolse con il pagamento di una cifra pari
a circa 20 milioni di euro.
Rassegna Stampa del giorno 4 FEBBRAIO 2010
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
pag.9
la Repubblica
pag. 24 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di ANDREA BONANNI
Sì di Bruxelles al piano della Grecia
Ma Atene resta sotto tutela. Bernanke:"Difendere l´autonomia della Fed"
Procedura di infrazione per la non attendibilità dei dati statistici diffusi a suo tempo
DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES - L´Europa lancia un doppio salvagente alla Grecia. Ieri infatti la Commissione ha approvato il
piano di risanamento del governo di Atene, che si propone di riportare il deficit pubblico dal 12,7 per cento
attuale al di sotto del tre per cento entro il 2012. Ma l´esecutivo comunitario ha anche posto il Paese sotto
strettissima sorveglianza, offrendosi dunque in qualche modo come garante politico nei confronti dei mercati della credibilità della manovra. «E´ la prima volta che mettiamo in atto un sistema di sorveglianza così intenso e quasi permanente, ma era necessario farlo, date le circostanze», ha spiegato il commissario europeo agli affari economici, Joaquin Almunia. Ma ha anche aggiunto: «sono assolutamente convinto che
l´Unione europea e l´eurozona hanno strumenti più che adeguati per affrontare la questione e risolvere il
problema». Un modo per escludere che la Grecia debba ricorrere all´assistenza del Fondo Monetario Internazionale: ipotesi che intaccherebbe il prestigio e la credibilità dell´euro.
Il piano greco, secondo la Commissione di Bruxelles. «è ambizioso ma realizzabile». Tuttavia la Commissione non si accontenta delle promesse, e impone un monitoraggio costante sulle misure concrete che il
governo intende adottare per la riduzione del debito. Il primo rapporto, comprensivo anche del dettaglio dei
provvedimenti che verranno presi nel 2011 e nel 2012, Atene dovrà presentarlo già il 16 marzo. A seguire,
dovranno esserci aggiornamenti trimestrali sull´andamento dei conti pubblici e sul rendiconto della manovra
in corso. Inoltre l´Europa chiede alla Grecia di essere pronta a varare ulteriori tagli se quelli già previsti non
dovessero rivelarsi sufficienti.
Finora, una volta approvato il piano di stabilità di un Paese, le verifiche sulla sua effettiva attuazione erano
annuali. Qui si passa ad un esame trimestrale. Ma mettendo Atene sotto una così stretta tutela, Almunia si
prefigge un triplo obiettivo. Per prima cosa intende irrobustire il «vincolo esterno», in modo di rafforzare la
posizione del governo nei confronti delle fortissime resistenze alla prossima maxi-stangata. In secondo luogo, la strettissima sorveglianza comunitaria dovrebbe avere l´effetto di calmare le apprensioni dei mercati. Il
terzo obiettivo di Bruxelles è quello di far passare il principio di un rafforzamento generalizzato della sorveglianza comunitaria.
Ieri, intanto, alla cerimonia di giuramento, il presidente della Fed, Ben Bernanke, appena riconfermato, ha
detto che bisogna difendere e tutelare «l´indipendenza della Federal Reserve» e che in Usa ci sono «incoraggianti segnali di ripresa ma ancora troppi disoccupati»
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pag.10
la Repubblica
pag. 24 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di REINT GROPP, professore di Economia Finanziaria e Fisco presso la European Business School, Oestrich-Winkel,
JAN PIETER KRAHNEN, professore di finanza presso l’Università Goethe, Francoforte.
Traduzione di Guiomar Parada
Eurointelligence
Salvare le banche senza pentirsene
Possiamo stabilizzare le banche senza compromettere la concorrenzialità e senza premiare l´assunzione di
rischio eccessiva? Secondo noi è possibile se si modificano alla base e in maniera diretta le attuali politiche
e si riparte dal semplice concetto secondo il quale, per salvare gli istituti deboli, è meglio premiare quelli forti: un salvataggio di cui nessuno si pentirà.
La politica di salvataggio invertita qui proposta colloca le banche forti in condizioni di risolvere in prima persona il fallimento di banche concorrenti. A questo fine, nei periodi di crisi, sarebbero gli istituti forti, e non
quelli deboli, a essere premiati con un capitale addizionale condizionato. Se, in un paese nel quale fosse
presente un numero sufficiente di banche in sofferenza, il governo fornisse alla banca più forte un´aggiunta
di capitale azionario, ne rafforzerebbe la capacità di tenuta di fronte al rischio e la metterebbe in grado di
acquistare le banche a rischio fallimento.
Questa politica di salvataggio invertita affronterebbe entrambi gli effetti collaterali delle attuali politiche di
salvataggio. Innanzitutto, premierebbe le banche che si espongono meno al rischio e soprattutto quelle
meno esposte al rischio sistemico, ossia l´opposto di quanto accade con le attuali politiche. Chiaramente,
l´erogazione alla banca più forte dovrebbe essere soggetta a condizioni: una potrebbe essere l´obbligo per
la banca ricevente di utilizzare il capitale azionario ricevuto solo per acquistare asset o linee di attività da
banche in fallimento.
Come potrebbe essere finanziato un salvataggio invertito? Nei periodi normali, sarebbe chiesto a tutti gli istituti finanziari un contributo per il rischio sistemico, assimilabile a un premio assicurativo. L´importo del
contributo sarebbe stabilito da un supervisore nazionale del sistema bancario, dalla Commissione Europea
per il Rischio Sistemico o da un istituto assicurativo per le attività e le passività nazionale o europeo, che
potremmo chiamare "Fondo per il rischio sistemico". Questi premi annui sarebbero quindi reinvestiti da
questo Fondo negli istituti che vi hanno contribuito, e diventerebbero una protezione del capitale presente
in ogni banca. Tra le varie forme possibili, noi preferiremmo quella di obbligazioni "per il rischio sistemico"
contingenti e convertibili. A lungo termine, costituirebbero una passività nei confronti del Fondo e l´agenzia
di supervisione non dovrebbe considerarle inizialmente mezzi propri. Grazie alla loro natura di strumento
convertibile, tuttavia, durante una crisi e in presenza di istituti deboli, le autorità le "attiverebbero" trasformando il debito in capitale azionario e azzerando, contestualmente, gli interessi dovuti, per un effetto immediato sul flusso di cassa dell´istituto. Grazie all´effetto combinato sul capitale e sulla liquidità, gli istituti
forti acquisirebbero la capacità di avanzare proposte di acquisto per le banche a rischio fallimento e di acquistarle o liquidarne gli asset, assumendo il ruolo di compratori in situazioni di mercato nelle quali, secondo le attuali politiche di salvataggio, sono presenti soltanto venditori. Ciò stabilizzerebbe i prezzi nel mercato riducendo l´impatto negativo sulle altre banche e sull´economia reale.
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pag.11
la Repubblica
pag. 26 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
di BARBARA ARDÙ
Il governo ad Alcoa:
se chiudete la pagherete
Fiat ferma 4 ore per Termini. L’esecutivo non esclude lo stop agli incentivi auto
ROMA - Il futuro di Termini Imerese e dell´Alcoa si giocherà a cavallo della settimana. Domani il governo
tornerà a sedersi al tavolo con Fiat e sindacati, mentre lunedì prossimo incontrerà l´amministratore delegato dell´Alcoa, volato negli Stati Uniti, dove si decidono i destini dei due siti produttivi italiani. Fabbriche che il
governo è deciso a salvare a tutti i costi. Martedì la riunione con i rappresentanti dell´Alcoa a palazzo Chigi
è finita a tarda notte e con un nulla di fatto. I manager dell´azienda sono stati due ore al telefono con
l´amministratore delegato Usa, ma sono tornati al tavolo con le facce torve e un pugno di mosche. Gli americani, è stata la risposta arrivata da Oltreoceano, se ne vogliono andare e le proposte italiane non gli interessano.
È a questo punto che il ministro Sacconi è sbottato. Parole di fuoco. «Non potete fare come c... vi pare - ha
tuonato il responsabile del Welfare - se lo fate, lo faremo anche noi e ve la faremo pagare». Una sfuriata,
apprezzata dai sindacati e ribadita ieri sia da Brunetta, che da Scajola. «Se Alcoa, avendo ottenuto quello
che voleva, andasse via, non andrà via gratuitamente», ha ribadito il responsabile delle Attività Produttive. Il
prezzo da pagare sono quei 300 milioni di multa della Ue per la vicenda dei prezzi differenziati dell´energia.
Soldi che secondo Brunetta l´Italia può pretendere. Una posizione unitaria, quella del governo, «impegnato
«a mantenere lo stabilimento anche se Alcoa andasse via». Tant´è che nella notte di martedì, quanto i toni
si sono alzati, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Letta, non ha mosso un dito per calmare gli
animi. C´è anche la Ue a muoversi. Il presidente Barroso si è impegnato con Berlusconi. «Anche se - si avverte da Bruxelles - la rapidità della decisione dipende pure dalle autorità italiane, che non hanno ancora
notificato il decreto». Nodi che verranno sciolti lunedì a palazzo Chigi.
Domani si riapre invece la partita su Termini Imerese. Ieri gli operai dello stabilimento siciliano hanno ricevuto la solidarietà delle tute blu del Lingotto. Per quattro ore la Fiat s´è praticamente fermata aderendo alla
protesta indetta da Fim Fiom Uilm e Fismic contro il piano industriale e la chiusura dello stabilimento siciliano. Secondo la Fiom, l´adesione è stata tra il 50 e l´80 per cento, con punte elevate in alcuni siti produttivi:
alla lastratura di Grugliasco è stata del 100%, del 70% in alcune aree di Mirafiori, dell´80% alla Ferrari. Davanti ai cancelli della fabbrica c´era il leader Fiom Rinaldini, che ha mandato un messaggio chiaro: «Fiat e
governo sappiano che non ce ne frega niente di supermercati o strutture cinematografiche. A noi interessa
che si producano auto». E mentre le tute blu incrociavano le braccia Scajola ha fatto vacillare le attese dei
produttori di auto sul rinnovo degli incentivi. Moral suasion all´indirizzo della Fiat. «Stiamo valutando se siano ancora utili», ha detto. Una decisione che secondo il leader della Cgil Epifani, va presa in fretta. «Bisogna fare presto, altrimenti - ha detto - si finisce che, oltre al calo stagionale, nessuno più compra un´auto».
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pag.12
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pag.26 – sez. ECONOMIA
GIOVEDÌ, 4 FEBBRAIO 2010
Sarà un collegio di giudici a decidere sulla richiesta di fallimento
Burani chiede ancora tempo
I pm: i debiti a 40 milioni
L’azienda spera di chiudere un accordo con i creditori. Spunta un fondo alle Cayman
MILANO - La famiglia Burani chiede tempo. I pubblici ministeri hanno ribadito il fallimento, dicendo che il
tempo è finito. Il giudice ha rinviato la decisione davanti a un collegio, senza però indicare quando si riunirà.
Fatto sta che la telenovela del gruppo della moda Mariella Burani Fashion Gorup continua.
Nell´udienza di ieri, i legali della Bdh, la holding che controlla il gruppo Burani e che i pm Luigi Orsi e Mauro
Clerici ritengono fallita dall´aprile dello scorso anno, hanno depositato una memoria con la quale sperano di
convincere il giudice a convocare in aula gli amministratori e i dipendenti che hanno sostenuto davanti ai
pm la esterovestizione della Bdh. La questione è di estrema importanza perché da questa dipende il radicamento dell´eventuale fallimento a Milano (la supposta sede di Bdh) o a Reggio Emilia. Questa richiesta,
tuttavia, sarebbe stata presentata anche con l´intento di guadagnare tempo, in modo che Giovanni Burani
possa perfezionare gli accordi con i creditori di Bdh. L´ex amministratore delegato del gruppo starebbe lavorando a un pagamento a stralcio con le banche, un´operazione che secondo i pm potrebbe però portare
al reato di bancarotta preferenziale.
I principali creditori della Bdh sono Deutsche Bank e Jp Morgan, ma ieri i pm Orsi e Clerici, durante
l´udienza hanno accennato alla possibilità che il debito della società, pari a una ventina di milioni, raddoppi
entro l´estate per via degli impegni presi dalla holding con tre fondi (il caymanense Abs Wealth
management, il cui rappresentante è il marito di una ex segretaria del gruppo Burani, l´Igi di Giorgio Cirla e
la Jh Partners) ai tempi dell´offerta di acquisto sul 15% della Mariella Burani Fashion Group. Un prestito da
20,6 milioni di euro, remunerato col 12,5% annuo. I fatti verranno ora esposti dal giudice Roberto Fontana a
un collegio del Tribunale fallimentare di Milano, composto da tre giudici.
(w. g.)
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pag.13
La Fiba-Cisl Vi augura
una giornata serena!
Arrivederci a domani
per una nuova
rassegna stampa!
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