II CLASSICO GAIO VALERIO CATULLO
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II CLASSICO GAIO VALERIO CATULLO
II CLASSICO GAIO VALERIO CATULLO MATERIALI PER L’INTERROGAZIONE DI FEBBRAIO Carme 1, pag. 105 (endecasillabo falecio) Cùi donò lepidùm novùm libèllum àridà modo pùmice èxpolìtum? Còrnelì, tibi: nàmque tù solèbas *meàs èsse aliquìd putàre nùgas, iàm tum cum àusus es ùnus ìtalòrum òmne aevùm tribus èxplicàre chàrtis dòctis, Iùppiter, èt labòriòsis. Quàre habè tibi quìdquid hòc libèlli, quàlecùmque quod ò patròna vìrgo plùs unò maneàt perènne saèclo. A chi dedicare questo grazioso, nuovo libretto appena ora levigato dall’aspra pomice? A te, Cornelio; infatti tu eri solito considerare di un certo valore queste mie coserelle (nugae) già da quando osasti, unico tra gli Italici, illustrare la storia universale in tre libri grondanti scienza, per Giove, .. e sudore. Dunque, eccoti questo libretto, così com’è, qualunque valore abbia; e tu, Vergine Musa, mia protettrice, (fa’ che) possa vivere più di una generazione. Nella poetica ellenistica, ispirata all’epicureo “vivi nascostamente”, viene rifiutato l’ideale tradizionale di gloria imperitura e si punta a panorami più quotidiani e familiari. Da qui deriva la supplica per una fama che superi almeno una generazione, non di più; da qui derivano anche l’autoironia e l’ironia con cui il topos dell’invocazione e della dedica è trattato. Catullo è consapevole di sviluppare un genere “minore”, come l’epigramma (le nugae): ciò non ostante sa anche che solo in questo genere letterario gli sarà possibile toccare i temi psicologici e personali che più gli stanno a cuore: l’amicizia e l’amore. Inoltre la brevità dei componimenti gli consente di raggiungere una perfezione formale impossibile da ottenere nel poema epico (“Anche Omero talora sonnecchia” è appunto un detto ellenistico). Quanto all’ironia, essa è tipica dei rapporti più intimi e sinceri, dove è consentito anche lo scherzo e persino lo “sfottò”. Anche in questo caso la motivazione deriva dall’influenza epicurea, che ricerca una “voluptas” nei rapporti umani. Catullo quasi sempre domina questo strumento con grande raffinatezza, come qui (le chartae laboriosae!, che ispirano “le sudate carte” leopardiane o “l’opera d’inchiostro” ariostesca), anche se in altri componimenti l’italum acetum dà vita a versi più violenti e beffardi. Carmi 2 e 5, pag 113 e 116. (end. falecio) Pàsser, dèliciaè meaè puèllae, quìcum lùdere, qui ìn sinù tenère, cùi primùm digitùm dare àdpetènti èt acrìs solet ìncitàre mòrsus, cùm desìderiò meò nitènti càrum nèscio quìd libèt iocàri èt solàciolùm suì dolòris, crèdo ut tùm gravis àcquièscat àrdor: tècum lùdere sìcut ìpsa pòssem èt tristìs animì levàre cùras! O passero, gioia della mia ragazza, col quale ella è solita giocare, che suole tenere tra le braccia, a cui suole offrire la punta del dito quando chiede (il cibo) e stuzzicare le beccate pungenti, quando al mio splendido amore piace scherzare non so che gioco caro e trovare un minimo sollievo al suo dolore, credo, per alleviare la passione molesta: oh, potessi anch’io scherzare con te come fa lei e alleviare le cupe angosce dell’animo! Lùgete, ò Venerès Cupìdinèsque, èt quantùmst hominùm venùstiòrum! pàsser mòrtuus èst meaè puèllae, pàsser, dèliciaè meaè puèllae, quèm plus ìlla oculìs suìs amàbat: nàm mellìtus eràt suàmque nòrat Piangete, o Veneri e Amorini, e tutti voi uomini che siete un po’ più sensibili! E’ morto il passero della mia fanciulla, il passero, delizia della mia fanciulla, che ella amava più dei suoi occhi. Infatti era delizioso (= dolce come il miele) e conosceva la sua padrona così bene ìpsam tàm bene quàm puèlla màtrem, nèc sese à gremio ìllius movèbat, sèd circùmsilièns modo hùc modo ìlluc àd solàm dominam ùsque pìpiàbat. Quì nunc ìt per itèr tenèbricòsum ìlluc, ùnde negànt redìre quèmquam. àt vobìs male sìt, malaè tenèbrae Òrci, quae òmnia bèlla devoràtis: tàm bellùm mihi pàsserem àbstulìstis. Ò factùm male, ò misèlle pàsser: tùa nùnc operà meaè puèllae flèndo tùrgidulì rubènt ocèlli. come una figlia (conosce) sua madre, e non si muoveva dal suo grembo, ma saltellando ora qua ora là pigolava sempre (rivolto) alla (sua) sola padrona. Ora egli va per quel cammino tenebroso da cui dicono che non torni nessuno. Ma sia maledizione a voi, malvagie tenebre dell’Orco che divorate tutte le cose graziose; mi avete portato via un passero così grazioso. Che disgrazia! O povero il mio passerotto! Ora per causa tua gli occhietti della mia fanciulla sono rossi e un po’ gonfi per il pianto. Nel mondo ellenistico era diffusa la vendita di cicale, grilli e uccellini come trastulli per i bambini, ma graditi anche agli adulti, che nelle metropoli ellenistiche sentivano la mancanza di un rapporto diretto con la natura. Vari poeti e poetesse alessandrini hanno trattato dei giochi infantili ispirati a questi animaletti o della loro morte. Catullo, pur traendo spunto da questa tradizione, arricchisce la tematica con un aspetto più personale e una lettura polisemica (cioè a diversi livelli di interpretazione, come in Dante). Tradizionalmente, il dono di un passero, animale totemico sacro a Venere, sanciva l’unione di una nuova coppia. Le vicende e la morte del passero assumono così diversi significati: 1. il senso letterale dell’epigramma vive della freschezza e dell’immediatezza che promana dal quadretto intimo e familiare (tema caro all’ellenismo). In tal senso sono da leggere anche i molti diminutivi, propri del linguaggio colloquiale (v. epistolario di Cic.); 2. la morte dell’animale, poi, assume valore universale: diventa una meditazione sulla caducità della vita umana e sul “carpe diem” epicureo (altra tematica tradizionale); 3. l’animale è emblema del rapporto tra Catullo e Lesbia: l’atteggiamento disimpegnato e superficiale della donna verso il passero allude al rapporto contrastato con il poeta. Così la sua morte sembra divenire presagio della fine dei rapporti tra i due giovani (è questo l’aspetto più innovativo e moderno, perché rende più soggettivo e personale il tema, indicando la via alla grande poesia elegiaca latina successiva). L’EPIGRAMMA ELLENISTICO Di grande fascino sono le due raccolte di epigrammi greci sopravvissute al Medioevo: l’Antologia Palatina (15 libri e 3700 componimenti!) e l’Antologia Planudea, l’unica conosciuta in epoca rinascimentale. Numerosi e di tutte le epoche gli autori che vi sono presenti. Tra i primi in ordine cronologico, compare la poetessa Anite, che fiorì intorno al 300 a. Cr. Ella canta il sentimento bucolico per una natura perduta (nei grandi centri ellenistici) ed esprime simpatia e amore per gli animali e per i bambini. Accanto ad epitafi reali, compose anche epitafi fittizi, tra cui quelli che qui ho citato. Leonida, nato a Taranto nel 320 a. Cr., fu poeta alla corte di Pirro, ma alla morte del suo protettore si diede a una vita errante e di miseria. Possediamo un centinaio di suoi componimenti. Celebre è quello riportato, che scherza con la sua miseria e con il povero topo penetrato nel suo tugurio: il tipo di autoironia qui rappresentato può ritrovarsi in Catullo nell’epigramma dell’invito a cena (“il borsellino del tuo Catullo è pieno… di ragnatele”). Spesso però Leonida è solo un pedante versificatore che crea quadretti di genere, così come Aristone. ANITE (Ant. Pal. VII, 90) A un grillo, usignolo dei campi, e a una cicala, ospite delle querce, piangendo molte lacrime infantili, una tomba comune fece Miro. Ade crudele le strappò di colpo i suoi cari giocattoli. ANITE (Ant. Pal. VI, 312) Misero briglie di porpora e un morso alla tua bocca ispida alcuni fanciulli, o capro, ed ora giocano alle corse dei cavalli davanti al tempio del dio. Vogliono che impari a portarli paziente mentre giocano. LEONIDA (Ant. Pal. 302) Via dalla mia tana, topo notturno: nella misera dispensa di Leonida c’è poco. Una presa di sale e due pani d’orzo: la dieta che i miei avi mi lasciarono; e di questa mi vanto. E allora perché piccolo goloso frughi in questo buco? Qui non ci sono avanzi di banchetti. ARISTONE (Ant. Pal. VI, 303) Se siete usciti qui in cerca di pane, o topi, andate a fare un altro buco; la mia è solo una povera capanna. Formaggio grasso troverete altrove e fichi secchi, ed una buona cena con briciole abbondanti. E se tentate d’affondare ancora i denti nei miei libri, piangerete Fila in altra casa (io ho povere cose): là troverai grande abbondanza. poi per il vostro misero festino. Agli epigrammi antichi mi piace abbinare due liriche di Umberto Saba tratte da “Trieste e una donna”, perché anche in questo componimento leggo sentimenti di affetto, l’esaltazione della semplicità e del mondo quotidiano, l’amore profondo, che lega il poeta sia alla sua donna che agli animali domestici. Nella ricerca di sincerità, semplicità e immediatezza, il poeta triestino (in muta polemica col vate D’Annunzio), fino al limite estremo della regressione all’infanzia, esalta le similitudini più banali, quelle con gli animali da cortile (la gatta, la cagna, la gallina, la giovenca, la coniglia, la rondine, l’ape). Sono “i sereni animali che avvicinano a Dio”, cioè che rispecchiano meglio la purezza e l’innocenza originale del Creato. L’effetto complessivo si avvicina molto a quello dell’epigramma ellenistico, sia per il tema dell’amore (qui però domina quello coniugale), sia per il quadretto domestico e quotidiano, sia per l’approfondimento filosofico - religioso (qui prevale il secondo), che arricchisce il componimento. L’apparente semplicità delle immagini poetiche cela invece la profonda sensibilità e l’originalità del poeta, che sfrutta queste similitudini in modo inedito. UMBERTO SABA da Trieste e una donna A MIA MOGLIE Tu sei come una giovane una bianca pollastra. Le si arruffano al vento le piume, il collo china per bere, e in terra raspa; ma, nell'andare, ha il lento tuo passo di regina, ed incede sull'erba pettoruta e superba. È migliore del maschio. È come sono tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio, Così, se l'occhio, se il giudizio mio non m'inganna, fra queste hai le tue uguali, e in nessun'altra donna. Quando la sera assonna le gallinelle, mettono voci che ricordan quelle, dolcissime, onde a volte dei tuoi mali ti quereli, e non sai che la tua voce ha la soave e triste musica dei pollai. Tu sei come una gravida giovenca; libera ancora e senza gravezza, anzi festosa; che, se la lisci, il collo volge, ove tinge un rosa tenero la tua carne. se l'incontri e muggire l'odi, tanto è quel suono lamentoso, che l'erba strappi, per farle un dono. È così che il mio dono t'offro quando sei triste. Tu sei come una lunga cagna, che sempre tanta dolcezza ha negli occhi, e ferocia nel cuore. Ai tuoi piedi una santa sembra, che d'un fervore indomabile arda, e così ti riguarda come il suo Dio e Signore. UMBERTO SABA da Trieste e una donna LA GATTA La tua gattina è diventata magra. Altro male non è il suo che d’amore: male che alle tue cure la consacra. Quando in casa o per via segue, a chi solo tenti avvicinarsi, i denti candidissimi scopre. Ed il suo amore soffre di gelosia. Tu sei come la pavida coniglia. Entro l'angusta gabbia ritta al vederti s'alza, e verso te gli orecchi alti protende e fermi; che la crusca e i radicchi tu le porti, di cui priva in sé si rannicchia, cerca gli angoli bui. Chi potrebbe quel cibo ritoglierle? chi il pelo che si strappa di dosso, per aggiungerlo al nido dove poi partorire? Chi mai farti soffrire? Tu sei come la rondine che torna in primavera. Ma in autunno riparte; e tu non hai quest'arte. Tu questo hai della rondine: le movenze leggere: questo che a me, che mi sentiva ed era vecchio, annunciavi un'altra primavera. Tu sei come la provvida formica. Di lei, quando escono alla campagna, parla al bimbo la nonna che l'accompagna. E così nella pecchia ti ritrovo, ed in tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio; e in nessun'altra donna. Non provi un’accorata tenerezza? Non la senti vibrare come un cuore sotto alla tua carezza? Ai miei occhi è perfetta come te questa tua selvaggia gatta, ma come te ragazza e innamorata, che sempre cercavi, che senza pace qua e là t’aggiravi, che tutti dicevano: “E’ pazza”. E’ come te ragazza. Carme 51 p. 120 (strofa saffica) Ìlle mì par èsse deò vidètur, ìlle, sì fas èst, superàre dìvos, quì sedèns advèrsus idèntidèm te spèctat et àudit Mi sembra che sia pari a un dio e, se è lecito dirlo,mi sembra che superi gli dei, quell’uomo che, sedendo di fronte a te, ti contempla e ti ascolta dùlce rìdentèm, miserò quod òmnes èripit sensùs mihi: nàm simùl te, Lèsbia, àspexì, nihil èst supèr mi <vòcis in òre;> sorridere dolcemente, e questa (visione) mi impedisce ogni sensazione; infatti, non appena ti vedo, o Lesbia, non mi resta un filo di voce, lìngua sèd torpèt, tenuìs sub àrtus flàmma dèmanàt, sonitù suòpte tìntinànt aurès, geminà tegùntur lùmina nòcte. ma la lingua mi si paralizza, un fuoco penetrante scorre per le membra, le orecchie rimbombano di un ronzio interno, gli occhi sono avvolti da una duplice (impenetrabile) notte. Òtiùm, Catùlle, tibì molèstumst: òtio èxsultàs nimiùmque gèstis: òtium èt regès prius èt beàtas pèrdidit ùrbes. L’ozio, Catullo, ti fa male; è per l’ozio che smani e troppo ti ecciti. Già altre volte l’ozio ha mandato in rovina re e città felici. Delle due odi saffiche presenti nel liber, questa è quella che canta l’emozione dell’amore ai suoi inizi; l’altra, “Furi et Aureli, comites Catulli” segna invece il duro e sdegnato commiato dall’infedele Lesbia. Se Saffo aveva scandalizzato e affascinato con la confessione della sua passione attraverso l’elenco delle sensazioni fisiologiche che l’accompagnano, a Roma nessun poeta prima di Catullo aveva mai osato dichiarare con tanta sincerità e immediatezza i suoi sentimenti più intimi, rivelati dalla fisiologia dell’amore. Il confronto con la lirica di Saffo è obbligato: vedi il libro. Il tema dell’otium, tipicamente romano, arricchisce il finale catulliano, che per il resto è una traduzione, seppur libera, del modello greco (v. la poetica dell’imitazione negli appunti): nell’originale greco invece la poetessa esprime rassegnazione (“ma tutto bisogna sopportare…”) Questa tematica si spiega forse contrapponendola alla mentalità ciceroniana (dove l’otium è quello filosofico e letterario, ma strettamente correlato al negotium, cioè alla carriera forense, politica o militare) Nella concezione di Catullo e dei neoteroi, vivere è fare poesia e dedicarsi all’amore, anzi è questo l’unico modo di rendere la vita accettabile, in una forma di estetismo ante litteram; vengono così rifiutati gli impegni politici e istituzionali, secondo il dettame epicureo (lathe biosas). Tuttavia Catullo sente che questa vita bohémienne, sregolata e passionale, pur essendo l’unica che egli si sente di intraprendere, lo consuma intimamente e rischia di portarlo alla morte. Carme 72 p. 125 (distico elegiaco) Dìcebàs quondàm | solùm te nòsse Catùllum Dicevi un tempo che il solo Catullo tu volevi, o Lesbia, e che al mio posto non avresti voluto abbracciare neppure Giove. Lèsbia nèc prae mè | vèlle tenère Iovèm. Dìlexì tum tè | non tàntum ut vùlgus amìcam, sèd pater ùt gnatòs | dìligit èt generòs. Nùnc te cògnovì: | quare ètsi impènsius ùror, mùlto mì tamen ès | vìlior èt leviòr. Quì potis èst? | inquìs.| Quod amàntem iniùria cògit amàre magìs, | sèd bene vèlle minùs. Allora ti amai, non soltanto come la gente fa con un’amica, ma come un padre (che) adora i figli e i nipoti (generi). Ormai a fondo ti conosco: perciò, anche se ardo di un desiderio più intenso, pure sei per me molto più infida ed insignificante. Com’è possibile, mi chiedi? tàlis Perchè una tale offesa costringe l’amante ad amare di più, ma a voler meno bene! L’epigramma è giocato sulle antitesi, che consentono di indagare meglio tra le sfumature di un sentimento intenso ed esacerbato. Io-tu; dicebas-cognovi (inteso come contrasto tra passato e presente, tra affermazioni soggettive e verità oggettive); tum-nunc; vulgus-pater; amica-gnati; magis-minus; amare-bene velle: delle varie antitesi, la più significativa è naturalmente l’ultima, posta come punta epigrammatica. Dopo la lirica dedicata al foedus amicitiae (giuramento di tenerezza), questa accenna all’iniuria (violazione del giuramento, offesa intima). E’ stato sottolineato che il tema della fedeltà al giuramento d’amore rivela un sentimento tipico dell’uomo romano, particolarmente sensibile a questo valore. Ancora un abbinamento con Saba, che tratta spesso del tema della gelosia (l’abbiamo già citato nella sua lirica precedente). “Di te mi parla una voce importuna” sembra proprio una traduzione libera dell’epigramma catulliano, anche se con premesse diverse: Catullo si scopre tradito, Saba solo deluso e amareggiato da un rapporto difficile che non offre tutta la gioia che inizialmente egli sognava. Anche qui l’alternanza dei pronomi di 1°, 2° e 3° persona sembra oggettivare sentimenti o atteggiamenti interiori dell’animo del poeta stesso (la “voce” della ragione interroga il “tu” passionale). UMBERTO SABA NUOVI VERSI ALLA LINA Di te mi parla una voce importuna. Dice: Tu l’ami, e non ne hai gioia alcuna. Solo il pensiero di lei ti consuma. Tu non l’odii: perchè? La fede che le porti è ben tenace. Ma non l’onesto, il torbido a lei piace. Che mai non ama più della sua pace? Tu non l’odii: perchè? E’ bella sì, ma ne vediamo tante più leggiadre di lei, di lei men stanche. Dice: un amore come il nostro grande immortale, perchè? Carme 8 pag. 126 (trimetro giambico ipponatteo o scazonte) Misèr Catulle dèsinas inèptìre et quòd vides perìsse perditùm dùcas. Fulsère quondam càndidi tibì sòles cum vèntitabas quò puella dùcèbat amàta nobis quàntum amabitùr nùlla. Ibi ìlla multa tùm iocosa fìèbant, quae tù volebas nèc puella nòlèbat. Fulsère vere càndidi tibì sòles. Nunc iam ìlla non vult: tù quoque impotèns nòli nec quaè fugit sectàre, nec misèr vìve, sed òbstinata mènte perfer òbdùra. Infelice Catullo, smettila di fare follie, e ciò che vedi perduto, consideralo perduto. Brillarono un tempo per te splendidi giorni, quando tu correvi dove voleva la tua ragazza, amata da noi quanto nessun’altra sarà amata. E là allora avvenivano quei molti giochi d’amore che tu bramavi e che la ragazza non rifiutava. Davvero brillarono per te splendidi giorni! Ora ella non vuole più: anche tu, se non puoi, non volere, non continuare a cercare ciò che ella evita, non vivere infelice, Valè puella. Iàm Catullus òbdùrat, nec tè requiret nèc rogabit ìnvìtam: at tù dolebis cùm rogaberìs nùlla. Scelèsta vae te, quaè tibi manèt vìta? quis nùnc t_adibit? cùi videberìs bèlla? Quem nùnc amabis?cùius esse dìcèris? quem bàsiabis? cùi labella mòrdèbis? At tù Catulle, dèstinatus òbdùra. ma con cuore ostinato sopporta, resisti! Addio, ragazza. Ormai Catullo resiste e non tornerà a cercarti, non ti supplicherà, se tu non vuoi: ma tu te ne dorrai, quando non sarai supplicata più! Maledetta, guai a te! Che (razza di) vita ti resta? Chi ora verrà da te? A chi sembrerai carina? Chi amerai ora? A chi si dirà che appartieni? Chi bacerai? A chi morderai le labbra? Ma tu, Catullo, ostinato, resisti! Il trimetro giambico scazonte fu scelto da Catullo per quel ritmo spezzato, come ad imitare il singhiozzo che ferma le parole in gola per la commozione. Il ricco gioco dei piani temporali (presente, passato e futuro) intensifica l’emozione del poeta tradito e abbandonato, tanto più sofferente in quanto all’inizio aveva conosciuto la felicità. Anche l’uso del tu è significativo: il poeta sembra sdoppiarsi, per cui l’io razionale consiglia al tu passionale di abbandonare un amore infelice. E’ il topos poi imitatissimo dell’oggettivazione dei sentimenti. L’epigramma termina con lo stilema ipponatteo dell’ αρα, αρα la maledizione. Eppure, anche nel finale domina l’eros deluso che si fa pensiero ossessivo, gelosia, follia della passione. Le anafore di pronomi e di intere frasi simboleggiano appunto il tornare sterilmente dei pensieri al passato perduto (perisse perditum). Il confronto più naturale con la letteratura italiana, in questo caso, mi pare quello con l’episodio della follia di Orlando. Carme 85 pag. 130 Òdi et amò. | Quare ìd faciàm | fortàsse requìris. Nèscio, sèd fierì | sèntio et èxcruciòr. Odio ed amo. Perché faccia questo, forse ti chiedi. Non so, ma sento che avviene e mi tormento. Tornano ancora numerose antitesi, come emblema del dilemma interiore del poeta: odi-amo; ego-tu; faciam-fieri; requiris-nescio o requiris-sentio. Ragione e passione ancora una volta sono simboleggiate dai pronomi io-tu, in cui sembra che l’animo del poeta sia scisso. Il verbo excrucior indica l’esito finale del rovello interiore: un tormento doloroso che porta alla morte, come in croce. Molto interessante è il confronto con una delle liriche di Ungaretti dedicate al figlio morente (un’appendicite mal curata durante il soggiorno brasiliano del poeta). Nel linguaggio essenziale ed ermetico, il gioco delle antitesi resta sottinteso, intuibile solo grazie al confronto col modello classico; compare invece solo uno dei termini, intensificato dall’anafora: “E t’amo, t’amo”. Il pensiero sottinteso è “T’amo, ma non posso salvarti”. L’esito del dilemma insolubile è sempre un dolore devastante (lo “schianto”). Che Ungaretti abbia ripreso il distico catulliano è giustificato dal fatto che questa lirica appartiene al secondo periodo, quello degli anni Trenta e Quaranta, in cui il poeta riscopre il valore della classicità, dopo il suo arrivo a Roma come insegnante. GIUSEPPE UNGARETTI da Il dolore (8) E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!... Carme 76 pag. 134 (distico elegiaco) Sìqua recòrdantì | benefàcta priòra volùptas èst hominì, cum sè | cògitat èsse piùm, nèc sanctàm | violàsse fidèm | nec foèdere in ùllo dìvum ad fàllendòs | nùmine abùsum hominès, mùlta paràta manènt | in lònga aetàte Catùlle, èx hoc ìngratò | gàudia amòre tibì. PREGHIERA AGLI DEI Se il bene compiuto dà qualche gioia nel ricordo (lett.: Se un qualche piacere c’è per l’uomo che ricorda le buone azioni del tempo passato), pensando di essere onesto, di non aver violato un sacro patto, né di aver invocato la potenza degli dei, in un patto giurato, per ingannare gli uomini, Nàm quaecùmque hominès | bene cùiquam aut dìcere pòssunt e àut facer , haèc a tè | dìctaque fàctaque sùnt; òmniaque ìngrataè | perièrunt crèdita mènti. allora, o Catullo, ti restano molte gioie già pronte per lungo tempo a venire a causa di questo sventurato amore. Infatti tutto ciò che di bene gli uomini possono dire e fare, è stato detto e fatto da te; e tutto è andato perduto, per essere stato offerto Quàre cùr te iàm | àmplius èxcruciès? ad un’anima ingrata. Quìn tu animum òffirmàs | atque ìstinc tèque E allora perché dovresti tormentarti sempre più? redùcis perché non ti fai coraggio nell’animo e non ti èt dis ìnvitìs | dèsinis èsse misèr? stacchi da lei (da qui) e non smetti di essere infelice e e contro il volere divino? E’ difficile troncare di Dìfficilè_ st longùm | subitò depòner amòrem. e um colpo un lungo amore. Difficile: ma lo devi fare in Dìfficilè st, ver hòc | quà lubet èfficiàs. ùna salùs haec èst, | hoc èst tibi pèrvincèndum (es. qualunque modo. E’ l’unica salvezza, devi vincere tu: spondaico) fallo, sia che ci riesca, sia che non ci riesca! hòc faciàs, sive ìd | nòn pote sìve potè. O dei, se è vostra prerogativa provare pietà, o se mai ò di, sì vestrùm est | miserère aut sì quibus ùmquam nel (giorno) estremo, proprio in punto di morte èxtremàm iam ipsa ìn | mòrte tulìstis opèm aiutaste qualcuno, volgete gli occhi verso me, mè miserum àspicite èt, | si vìtam pùriter ègi, infelice, e e se davvero sono vissuto onestamente, sradicate èripit _hànc pestèm | pèrnicièmque mihì, dall’animo questa peste che m’annienta, quaè mihi sùbrepèns | imòs ut tòrpor in àrtus che insinuandosi a fondo nelle carni, come un èxpulit èx omnì | pèctore laètitiàs. torpore, Nòn iam illùd quaerò, | contrà me ut dìligat ìlla, mi ha sottratto ogni gioia da tutto il mio cuore. àut, quod nòn potis èst, | èsse pudìca velìt: Ormai non chiedo più che ella contraccambi ìpse valère opto èt | taetrum hùnc depònere mòrbum. il mio amore, né, cosa impossibile, che accetti ò di, rèddite mi hòc | prò pietàte meà. di essere onesta: io voglio star bene e liberarmi da questo male orribile. O dei, accordatemi questa (grazia), in cambio della mia fede in voi! E’ forse il componimento più complesso, se escludiamo i “carmina docta”. Anche in questo caso lo spunto letterario fa capo a Saffo e alla sua splendida preghiera ad Afrodite. La struttura delle liriche è analoga, tipica degli stilemi eucologici: La preghiera inizia presentando in forma dubitativa e ipotetica i meriti passati del supplice (i bene facta, l’essere pium, cioè fedele, non aver violato il foedus), Viene poi presentata la situazione dolorosa in cui si trova il poeta, per l’ingratitudine di Lesbia. Seguono l’invocazione diretta agli dei, esaltati per i loro meriti (la pietas, cioè la misericordia, e l’aver donato salvezza in passato) e la richiesta di grazia (strappare dal cuore quella passione rovinosa). La precisazione che ormai ha rinunciato a chiedere la grazia di poter godere dell’amore di Lesbia non suona come rimprovero agli dei, perché è cosa impossibile: è la donna ad essere insensibile (tuttavia sembra una preterizione: nell’animo di Catullo forse alberga ancora un’ultima speranza?). Il finale rivela il tipico sentimento religioso degli antichi: la religione è seguita per utilitarismo. Il “do ut des”, lo scambio di favori era alla base di questa mentalità abbastanza infantile e meschina. Saffo Frammento 1 O mia Afrodite dal simulacro colmo di fiori, tu che non hai morte, figlia di Zeus, tu che intrecci inganni, o dominatrice, ti supplico, non forzare l'anima mia con affanni né con dolore; ma qui vieni. Altra volta la mia voce udendo di lontano la preghiera ascoltasti, e lasciata la casa del padre sul carro d'oro venisti. Leggiadri veloci uccelli sulla nera terra ti portarono, dense agitando le ali per l'aria celeste. e che cosa un'altra volta invocavo, e che più desideravo nell'inquieta anima mia. " Chi vuoi che Péito spinga al tuo amore, o Saffo? Chi ti offende? Chi ora ti fugge, presto t'inseguirà, chi non accetta doni, ne offrirà, chi non ti ama, pure contro voglia, presto ti amerà." Vieni a me anche ora: liberami dai tormenti, avvenga ciò che l'anima mia vuole: aiutami, Afrodite. E subito giunsero. E tu, o beata, sorridendo nell'immortale volto chiedesti del mio nuovo patire, Anche se i contenuti del carme sono analoghi a quelli della preghiera catulliana (invocazione agli dei, rievocazione dei meriti trascorsi del supplice e della divinità, richiesta di aiuto), si possono notare differenze sostanziali. 1. Catullo insiste sui suoi meriti: i bene facta e i bene dicta, l’aver mantenuto la fides e la pietas, insomma l’aver tentato tutto il possibile. Al contrario le benemerenze delle divinità (genericamente non specificate) sono citati in forma vaga ipotetica. Saffo invece si rivolge alla sola Afrodite, a cui ha dedicato la sua vita, ne magnifica la potenza e l’aiuto, ne rievoca l’apparizione miracolosa in un’occasione precedente, ne accompagna il nome con epiteti affettuosi (mia, beata). 2. Catullo dice che gli dei non hanno risposto al suo desiderio più intimo, che Lesbia lo ami e gli sia fedele; Saffo invece ricorda l’aiuto ricevuto in un’occasione precedente e quindi il suo tono è più convinto ed entusiasta. 3. Per questo le due richieste sono di natura opposta: Catullo chiede di essere liberato dall’amore, Saffo di ottenere l’oggetto del suo desiderio. 4. Anche il fatto che Catullo non nomini alcun dio specifico rivela un atteggiamento di tipo epicureo: forse gli dei esistono, ma di essi l’uomo non conosce nulla. E allora che senso assume la sua preghiera? Non mi pare che sia un atto formale, come quando ci si rivolgeva agli aùguri per tradizione, anche se non si credeva più alle loro capacità oracolari; piuttosto sembra addirittura un atto disperato, l’ultimo tentativo di salvarsi da una passione malsana. La preghiera potrebbe anche sgorgare spontanea da un animo che per il dolore e la debolezza è regredito all’infanzia, con le sue innocenti e spontanee manifestazioni; ancora, potrebbe essere motivata dal fatto che, essendo la passione un atto irrazionale, possa suscitare il desiderio di un gesto altrettanto irrazionale, cioè la preghiera (anche se il ragionamento di Catullo è perfettamente logico e suona come un sillogismo: se Catullo ha meritato un premio, se gli dei premiano chi se lo merita, allora Catullo deve essere esaudito!). Carme 46 pag: 140 (endecasillabo falecio) Iàm ver ègelidòs refèrt tepòres, iàm caelì furor aèquinòctiàlis iòcundìs Zephirì silèscit àureis. Lìnquantùr Phygiì, Catùlle, càmpi Nìcaeaèque ager ùber aèstuòsae; àd claràs Asiaè volèmus ùrbes. Iàm mens praètrepidàns avèt vagàri, Iàm laetì studiò pedès vigèscunt. Ò dulcès comitùm valète coètus, lònge quòs simul à domò profèctos dìversaè variaè viaè repòrtant. Già la primavera riporta i tepori che sciolgono le nevi, già l’impeto tempestoso del clima equinoziale si placa ai dolci soffi dello Zefiro. Lascia, Catullo, le pianure della Frigia e il fertile suolo della torrida Nicea: voliamo verso le (più) famose città dell’Asia! Già il cuore in affanno smania di viaggiare, già i piedi, lieti e ardimentosi, prendono vigore. O dolci compagnie di amici, addio! voi che, partiti insieme a me di casa, per terre lontane, diverse e varie strade riporteranno (pres.) indietro. E’ una delle liriche ispirate allo sfortunato viaggio nella Troade: rievoca il momento in cui Catullo saluta gli amici, provato nella salute fisica (e morale) proprio quando torna la bella stagione, che consente la navigazione. Sono presenti tre temi tradizionali: il ritorno della primavera, il viaggio di ritorno a casa e l’addio agli amici. Il primo è presentato con un contrasto tra immagini invernali e primaverili (vi si può accostare l’inizio del sonetto “Alla sera” del Foscolo). Il tema del ritorno a casa è sviluppato con immagini gioiose, dinamiche (volemus, vagari), percorse da una tensione verso la meta e sostenute da un ritmo incalzante. Nel finale si attenua la serenità del componimento per il pensiero della momentanea perdita degli amici: l’addio, l’aggettivo dulces, gli avverbi longe e simul, rendono il rammarico per l’abbandono della compagnia da parte di Catullo, dopo le lunghe peripezie vissute insieme: diverse vie riporteranno tutti a casa. Il ritmo nel finale rallenta, fino quasi a spegnersi delicatamente nel verso conclusivo, grazie alle tre parole in rima e alle allitterazioni, che sembrano prolungare la durata del verso. Il confronto con il decadente Pascoli è scelto in base al finale, dove emerge, dopo la descrizione festosa della stagione rinnovata, un sentimento malinconico: il pianto della vite potata. La vite sembra esclusa dalla gioia e dalla festa di primavera, dal “favellar sonoro” delle api (simbolo dell’umanità) e il suo pianto simbolicamente richiama l’infelicità della vita, anche nei momenti di letizia, il senso di solitudine del poeta, la memoria dei lutti subiti che impedisce un totale e ubriacante abbandono alla stagione propizia. Il sonetto del Foscolo è richiamato solo per la contrapposizione dei due aspetti della natura, quello sereno e lieto accanto a quello inquietante e tempestoso. Questa contrapposizione compare anche in una pagina celebre dell’Ortis. Il tema del ritorno in patria potrebbe essere stato di ispirazione al Foscolo (in chiave negativa) anche per “A Zacinto” (vedi dopo). Primavera di Giovanni Pascoli Ed ecco che un susino bianco sbocciò sul verzicar del grano. Come un sol fiore gli sbocciò vicino un pesco, e un altro. I peschi del filare parvero cirri d'umido mattino. Uscìano le api. Ed or s'udiva un coro basso, un brusìo degli alberi fioriti, un gran sussurro, un favellar sonoro. Dicean del verno, si facean gl'inviti di primavera. Per le viti sole era ancor presto, e ne piangean, le viti, a grandi stille, in cui fioriva il sole. Alla sera di Ugo Foscolo Forse perché della fatal quiete tu sei l’immago, a me sì cara vieni, o Sera, e quando ti corteggian liete le nubi estive e i zefiri sereni, e quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all’universo meni, sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai coi miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. Carme 31 pag. 143 (trimetro giambico scazonte) Paenìnsularum, Sìrmio insulàrùmque ocèlle quascumque ìn liquentibùs stàgnis marìque vasto fèrt uterque Nèptùnus, quam tè libenter quàmque laetus ìnvìso, vix mi ìpse credens Thìniam atque Bìthìnos liquìsse campos èt videre te ìn tùto. O quìd solutis èst beatiùs cùris, cum mèns onus repònit ac perègrìno labòre fessi vènimus larem àd nòstrum desìderatoque àcquiescimùs lècto. Hoc èst quod unum est prò laboribùs tàntis. Salve ò venusta Sìrmio atque erò gàude gaudète vosque o Lìdiae lacùs ùndae: ridète quicquid èst domi cachìnnòrum. O Sirmione, perla di tutte le isole e le penisole, che su limpide acque e sul vasto mare sorreggono l’uno e l’altro Nettuno, con quanta gioia e quanto volentieri ti rivedo, a stento credendo a me stesso di aver abbandonato la Tinia e le terre bitiniche e di poterti contemplare al sicuro. Oh, che cosa c’è di più divino di quando, dimenticati gli affanni, l’animo depone il suo fardello (di dolori) e, stanchi per gli strapazzi del viaggio, torniamo a casa nostra e riposiamo nel nostro letto sospirato! Questo (mi) resta in compenso di tante fatiche! (Foscolo: Questo di tanta speme oggi mi resta) Ti saluto, mia bella Sirmione, rallegrati per il (ritorno del) tuo padrone; e gioite anche voi, onde lidie del lago; ridete con tutte le risate che la casa può contenere. Gli elementi tipici, non solo in Catullo, usati per celebrare il proprio luogo natale sono: 1. mettere in relazione il luogo con un mito, una divinità (uterque Neptunus) o un sentimento religioso; 2. celebrarne la bellezza e lo splendore naturali, il clima salubre; 3. la gioia del ritorno dopo un viaggio o la gioia di viverci; 4. l’accoglienza festosa che si riceve, il fatto che la terra natale è nodo di affetti; 5. i ricordi d’infanzia; 6. l’allusione al fatto che la terra patria diventerà anche il luogo della sepoltura. Numerosissimi potrebbero essere i brani da accostare a questo celebre epigramma celebrativo della terra natale, che a sua volta riprende e perfeziona un topos diffusissimo. UGO FOSCOLO A ZACINTO Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, ed il diverso esiglio, per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. GIOSÙE CARDUCCI Traversando la Maremma toscana Dolce paese, onde portai conforme l’abito fiero e lo sdegnoso canto e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme, pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. Ben riconosco in le usate forme con gli occhi incerti tra ‘l sorriso e il pianto, e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme erranti dietro il giovenile incanto. Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; e sempre corsi, e mai non giunsi il fine; e dimani cadrò. Ma di lontano pace dicono al cor le tue colline con le nebbie sfumanti e il verde piano ridente ne le piogge mattutine. V. CARDARELLI LIGURIA E’ la Liguria una terra leggiadra. Il sasso ardente, l’argilla pulita, s’avvivano di pampini al sole. E’ gigante l’ulivo. A primavera appar dovunque la mimosa effimera. Ombra e sole s’alternano per quelle fonde valli che si celano al mare, per le vie lastricate che vanno in su, fra campi di rose, pozzi e terre spaccate, costeggiando poderi e vigne chiuse. In quell’arida terra il sole striscia sulle pietre come un serpe. Il mare in certi giorni è un giardino fiorito. Reca messaggi il vento. Venere torna a nascere ai soffi del maestrale. O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate! O aperti ai venti e all’onde liguri cimiteri! Una rosea tristezza vi colora quando di sera, simile ad un fiore che marcisce, la grande luce si va sfacendo e muore. GIUSEPPE UNGARETTI Da L’Allegria CASA MIA Sorpresa dopo tanto d’un amore Credevo di averlo sparpagliato per il mondo In Foscolo i miti greci (omerici) hanno ampio spazio, mentre le tematiche del ritorno e della tomba Sono presentate in forma negativa: il “né più mai” iniziale, con la triplice negazione, è fortissimo. Il ricordo del tempo infantile, grazie al verbo “giacque”, allude già alla concezione pessimistica e all’idea della morte illacrimata. Ungaretti propone due soli stilemi, come sempre concentrati nel giro di pochi versi: il ritorno e la sorpresa di trovare nel cuore uno speciale vincolo d’affetti per la terra patria. Bisogna ricordare che il poeta si sente un po’ egiziano, un po’ parigino, un po’ Italiano (legato ai luoghi dei sacrifici bellici, il Carso) e solo per tradizione toscano (v. I fiumi). Carducci propone una lirica più complessa dei quanto sembri a prima lettura: il “dolce paese” di Maremma è tale solo per chi ci è nato e cresciuto, mentre per tutti ha nomea di luogo duro e inospitale (v. i successivi termini “fiero, sdegnoso, odio” e in Dante Pia de’ Tolomei o i versi di Inf. 13 « Non han sì aspri sterpi né sì folti/quelle fiere selvagge che 'n odio hanno/tra Cecina e Corneto i luoghi colti. »). I ricordi d’infanzia sono evocati in un clima di disperazione totale: sogni e amori giovanili sono andati perduti e la morte è ormai imminente. L’unico sollievo sembra venire proprio dal rapporto con la natura e la terra natale. Cardarelli è il poeta che, nel suo tentativo di sintetizzare classicismo e modernità (fa capo alla rivista classicista “La ronda”, pubblicata fino al 1923), rielabora il tema in maniera quasi completa: sono presenti tutti gli stilemi tradizionali, venati da un sentimento semplice di affetto, ma anche di mistero. Si alternano toni epici (“è gigante l’ulivo”) ad altri elegiaci (nel finale), temi mitici (la nascita di Venere, simbolo di fecondità e di potenza vitale) ad altri più oggettivi. Al poeta manca però, nello sforzo di comporre un’opera perfetta sotto ogni aspetto, una partecipazione personale più intensa e partecipata: nella sua riservatezza, nulla egli ci dice della sua vita o della sua infanzia.
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