N. 7 data editoriale 18 febbraio 2016
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N. 7 data editoriale 18 febbraio 2016
Settimanale Nuova serie - Anno XXXX - N. 7 - 18 febbraio 2016 Fondato il 15 dicembre 1969 L’Italia di Renzi pronta a inviare altri soldati in Iraq e a guidare l’intervento armato in Libia Vertice imperialista a Roma per “distruggere” l’IS Kerry: “L’Italia è stata grandiosa. Il suo impegno nella coalizione anti-Isis è sostanziale, uno dei più grandi” Aumentano i rischi delle ritorsioni terroristiche in Italia PAG. 2 Visita in Nigeria, Senegal e Ghana Renzi alla conquista dell’Africa Il nuovo duce invoca un “più forte ruolo nello scacchiere mondiale” per l’imperialismo italiano PAG. 3 Un crimine del regime fascista di al-Sisi, grande amico di Renzi Assassinato al Cairo il giovane ricercatore Regeni Ucciso con un colpo alla testa dopo 7 giorni di sevizie Rompere le relazioni diplomatiche con l’Egitto PAG. 14 VOTATE PER IL PMLI E IL SOCIALISMO ASTENENDOVI di Giovanni Scuderi PAG. 7 Milano L’alternativa non è “Chiara” ma il socialismo La pentastellata Sala, votato dalla destra, vince le primarie PD Appendino candidata dall’alto alla carica di Movimenti a destra e a “sinistra” in vista sindaco di Torino delle elezioni comunali a Bologna Majorino, Balzani e Iannetta lo sosterranno rivendicando un posto in giunta. Pisapia sottoscrive l’appello a unirsi attorno al beniamino della borghesia PAG. 8 I 5 stelle puntano a tranquillizzare la borghesia torinese PAG. 9 SEL spaccata. Nella “Coalizione Civica” anche chi vuole “buttare via le bandiere rosse” PAG. 9 Benedetta da Renzi che nomina sottosegretario l’alfaniano Tonino Gentile PD e NCD verso l’alleanza elettorale a Cosenza PAG. 8 Mentre Alfano, De Luca e De Magistris sono univoci circa “sicurezza”, repressione e militarizzazione del territorio Ancora sangue a Napoli nella guerra di camorra L’EX PM CANTONE: “NON BASTANO GLI ARRESTI, SERVE UN PIANO STRAORDINARIO DI RIQUALIFICAZIONE DEL TERRITORIO” PAG. 11 2 il bolscevico / intervento imperialista in libia N. 7 - 18 febbraio 2016 L’Italia di Renzi pronta a inviare altri soldati in Iraq e a guidare l’intervento armato in Libia Vertice imperialista a Roma per “distruggere” l’IS Kerry: “L’Italia è stata grandiosa. Il suo impegno nella coalizione anti-Isis è sostanziale, uno dei più grandi” Aumentano i rischi delle ritorsioni terroristiche in Italia L’Italia imperialista di Renzi è sempre più coinvolta nella guerra allo Stato islamico (IS), esponendo sempre di più il nostro popolo alle ritorsioni terroristiche. Lo dimostra il recente vertice dei ministri degli Esteri della coalizione internazionale anti-Daesh tenutosi a Roma, il terzo dopo quelli di Londra del gennaio 2015 e di Parigi del giugno 2015: in questo momento, cioè, l’Italia è da molti punti di vista la base più avanzata in Europa per la guerra all’IS, vuoi per la sua vicinanza ai teatri in cui questa guerra si svolge, vuoi per le dimensioni del suo impegno militare (con circa 1.000 uomini è il più alto in Iraq dopo gli Usa), e vuoi per le sue sempre più scoperte ambizioni espansionistiche nel Mediterraneo e in Nord Africa, e in particolare verso la Libia, dove punta a guidare l’imminente intervento militare internazionale contro l’espansione dello Stato islamico. È in segno di riconoscimento di questo ruolo di punta dell’Italia, che il vertice del cosiddetto “Small Group” (piccolo gruppo), la Coalizione globale anti-Daesh di Stati impegnati nella guerra all’IS, si è svolto alla Farnesina, co-presieduto dal ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, e dal segretario di stato Usa, John Kerry. Vi hanno preso parte i rappresentanti di 23 paesi: Australia, Bahrain, Belgio, Canada, Danimarca, Egitto, Francia, Germania, Iraq, Italia, Giordania, Kuwait, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Norvegia, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Svezia, Turchia, Emirati Arabi, Regno Unito e Stati Uniti, più l’alto rappresentante Esteri della UE, Federica Mogherini e un rappresentante delle Nazioni Unite come osservatore. Guerra totale all’IS Al termine dei lavori il vertice dei ministri degli Esteri ha emesso una dichiarazione in cui sono stati vantati grandi progressi nella guerra all’IS, grazie al “grande impeto, con un forte impatto” delle azioni militari della coalizione, che avrebbero respinto Daesh dal 40% del territorio iracheno e ottenuto “risultati tangibili” in Siria, “anche con bombardamenti aerei”. La guerra e i bombardamenti quindi “funzionano”, secondo loro, e non c’è motivo di cercare altre vie, come eventuali trattative, per riportare la pace nella regione. I ministri ribadiscono anzi l’impegno “a combattere questa barbara organizzazione fino alla sua definitiva sconfitta”, escludendo cioè qualsiasi altra soluzione che non sia la guerra totale e a qualsiasi prezzo allo Stato islamico fino alla sua distruzione completa. A chi toccherà poi pagare questo prezzo – le popolazioni civili arabe e (per ritorsione) europee – non è una questione che li riguardi. I ministri si dicono infatti “consapevoli che Daesh rappresenta una minaccia terroristica nei nostri confronti, come dimostrato dagli attacchi terroristici barbari ed efferati in Turchia, Francia e in altri paesi”, ma rassicurano le popolazioni dei rispettivi paesi che “Daesh sta perdendo sia territori che credibilità in Iraq e Siria”, e che tali minacce saranno sventate grazie al contrasto alle fonti di finanziamento dell’IS, alla riduzione del flusso di combattenti stranieri, alla “cooperazione tra i nostri servizi di intelligence” (di cui elencano una sfilza di organismi internazionali creati ad hoc) e alle agenzie di pro- paganda, basate in particolare negli Emirati e in Gran Bretagna, per “mettere a nudo la falsa ideologia e la narrativa di Daesh”. I ministri ribadiscono altresì il sostegno incondizionato al governo fantoccio e corrotto di Haider al-Abadi in Iraq, accolgono “con soddisfazione” la decisione dell’Afghanistan di unirsi alla coalizione e, infine, dichiarano di seguire “con preoccupazione l’influenza crescente di Daesh in Libia”, prefigurando così che questo sarà il prossimo obiettivo da colpire per la coalizione imperialista anti-IS. “Il mondo si aspetta sicurezza da noi e noi distruggeremo Daesh”, ha detto bellicosamente Kerry, aggiungendo senza mezzi termini che il tema da discutere a Roma era quello di come “aumentare gli sforzi per vincere questa guerra”. Una dichiarazione in linea con la notizia contemporanea che il ministero della Difesa Usa ha aumentato del 50% il budget per la guerra all’IS, salendo a 7,5 miliardi di dollari. Come dire in pratica che siamo un’altra volta alla “guerra infinita” di Bush, tant’è che Kerry ha avvertito che “cercheremo di schiacciare l’IS in ogni angolo, ma questa guerra sarà lunga, ci vorrà del tempo, abbiamo già provato a farlo per smantellare Al Qaeda, è un impegno più lungo per tutti”. Nessuna “ritrosia” a bombardare Più diplomatico nella forma, ma concorde nella sostanza, è stato Gentiloni, che nell’aprire il vertice ha detto che nella lotta al Daesh sono stati fatti “importanti progressi, ma di fronte abbiamo un’organizzazione molto resistente e quindi non dobbiamo sottovalutarla”. In ogni caso l’Italia sta facendo la sua parte, come ha ribadito il ministro alla vigilia del vertice in un’intervista a “Il Messaggero”, in cui alla domanda se vi fosse della ritrosia nel governo italiano a rispondere alle sollecitazioni fatte dal capo del Pentagono Carter alla sua collega Pinotti lo scorso dicembre a partecipare attivamente ai bombardamenti in Iraq, come rivelato recentemente dal “New York Times”, il titolare della Farnesina ha risposto: “Nessuna ritrosia. L’Italia è uno dei 5 o 6 paesi al mondo più impegnati nel contrasto a Daesh... siamo leader nella formazione delle forze di polizia irachene che devono riprendere il controllo delle aree liberate. Cerchiamo di farlo coordinando anche lo sforzo di altri Paesi. Abbiamo addestrato oltre 2mila peshmerga curdi, e continuiamo a farlo”. Gentiloni ha confermato anche l’imminente invio in Iraq, probabilmente a primavera, di altri 450 uomini per la protezione dei lavori di riparazione della diga di Mosul, il cui appalto è stato affidato a una ditta italiana, la Trevi. Inoltre il Consiglio dei ministri ha disposto l’invio di altri 130 soldati specializzati in ricerca e soccorso elitrasportato, con piloti, meccanici, medici e una squadra di protezione: a che scopo, se non nel quadro dell’imminente partecipazione dei Tornado italiani di stanza in Kuwait ai bombardamenti in Iraq, e/o allo scontro diretto delle truppe inviate a Mosul con i guerriglieri dell’IS? Non a caso, durante il vertice di Roma, Kerry ha rivolto un elogio sperticato all’Italia, in omaggio al suo eccezionale impegno militare nella “guerra al terrori- smo”, e anche in riconoscimento delle sue ambizioni egemoniche regionali nel Mediterraneo e in Nord Africa, a cominciare dalla Libia: “L’Italia è stata grandiosa, il suo impegno nella coalizione è sostanziale, uno dei più grandi in termini di persone, di contributi finanziari e militari in Iraq e, in particolare, per il suo ruolo di leadership in Libia”, ha detto infatti il segretario di Stato Usa. Via libera all’intervento in Libia Le parole di Kerry suonano come un eloquente via libera degli Usa al comando italiano dell’intervento militare in Libia, che i governi imperialisti occidentali stanno preparando e che scatterà non appena il governo di coalizione libico, che però fatica a trovare un accordo, ne farà formalmente richiesta. Intervento che comunque è già in fase avanzata e che avverrà presto, in un modo o nell’altro, come ha lasciato intendere la guerrafondaia Pinotti in un’intervista al “Corriere della Sera”, in cui ha detto: “Non possiamo immaginarci di far passare la primavera con una situazione libica ancora in stallo. Nell’ultimo mese abbiamo lavorato più assiduamente con americani, inglesi e francesi. Non parlerei di accelerazioni, tanto meno unilaterali: siamo tutti d’accordo che occorre evitare azioni non coordinate, che in passato non hanno prodotto buoni risultati. Ma c’è un lavoro più concreto di raccolta di informazioni e stesura di piani possibili di intervento sulla base dei rischi prevedibili”. Fermo restando che l’intervento potrebbe scattare in qualsiasi momento “nel caso di un’emergenza”, quale potrebbe essere un’improvvisa avanzata dello Stato islamico in Libia: “La stessa missione Mare Sicuro - ha aggiunto a questo proposito la ministra della Difesa - nata come operazione anti-scafisti (sic), prevedeva sin dall’inizio l’eventualità della lotta al terrori- smo: ci dà infatti una capacità di intervento nel caso di rischi per le nostre piattaforme o di altro genere. Per lo stesso motivo abbiamo già spostato degli aerei a Trapani e costantemente aggiornato la raccolta di informazioni sul terreno”. L’Italia, insomma, aumenta la sua presenza militare e il grado di intervento bellico in Iraq, e nello stesso tempo intensifica i preparativi per guidare una missione di guerra in Libia: un’escalation imperialista, giustificata con la guerra santa all’IS, alla quale occorre opporsi risolutamente e senza ambiguità, anche perché espone il nostro Paese e il nostro popolo a sanguinose ritorsioni terroristiche. Renzi concede Pantelleria ai militari Usa come base aerea per la guerra in Libia Dal nostro corrispondente della Sicilia La Sicilia, a causa della sua posizione strategica nel mezzo del Mediterraneo, è la regione italiana che subisce la presenza del più alto numero di basi militari sul territorio. In previsione dell’imminente intervento militare in Libia, Renzi ha concesso ai militari statunitensi l’uso della base aerea dell’isola di Pantelleria, in provincia di Trapani, a 110 km a sud ovest della Sicilia e 70 a est nord est della Tunisia. L’isola siciliana viene usata indirettamente dai militari, come base di un nuovo sistema di spionaggio aereo statunitense, progettato per operare con scopi top secret di “intelligence e sorveglianza”, cioè spionaggio di guerra, nelle regioni del Nord Africa, dalla Libia, alla Tunisia, all’Egitto, all’Algeria. La presenza militare statunitense a Pantelleria è malamente oc- cultata dietro i voli di ricognizione di una società privata, la Aircraft Logistics Group LLC, interamente controllata dal gruppo finanziario statunitense Acorn Growth Companies (AGC), presente nel settore militare aeronautico, che riceve grossi finanziamenti da parte del governo americano. Ne usufruiscono i signori della guerra, interessati a tenere alta la tensione nel Mediterraneo, tra cui anche esponenti dell’esercito. Presidente del comparto difesa e aerospazio dell’AGC è l’ex generale dell’US Air Force, Darryl Wilkerson. Vicepresidente il generale Peter J. Hennessey, che ha diretto tutte le attività logistiche dell’US Air Force durante l’aggressione imperialista all’Afghanistan. L’aereo usato per le operazioni di spionaggio sulla Libia è il Beech King air 300, lungo 15 metri con un’apertura alare di 17 e che può trasportare fino a 15 spie. Ormai i voli, come denuncia la popolazione locale, sono quasi quotidiani. Su disposizione del governo, la compagnia privata di spionaggio ha l’assistenza logistica dell’Aeronautica militare italiana, ne usa le piste e gli strumenti di supporto. Prima di ogni decollo gli statunitensi consegnano il loro piano di volo ai militari italiani che cooperano alle attività di preparazione della guerra che gli USA conducono nei confronti della Libia e le supportano attivamente. Mentre freme di avere il comando dell’intervento imperialista in Libia, l’Italia di Renzi sta assumendo giorno dopo giorno un ruolo di punta nella santa alleanza contro lo Stato islamico. È questa l’ennesima conferma che ci troviamo ormai in guerra, anche se Renzi lo nega per tranquillizzare le masse, sapendo che esse sono in maggioranza nettamente contrarie, e per non suscitare troppo allarme di fronte all’escalation interventista e bellicista che sta imprimendo alla sua politica estera e militare. Occorre che le masse siciliane comprendano che Renzi, col silenzio complice del governatore PD Crocetta, sta trascinando la Sicilia nell’occhio del ciclone di un intervento imperialista contro lo Stato islamico e la espone a un’ulteriore militarizzazione del territorio e alle inevitabili ritorsioni da parte dell’IS. Bisogna dire no a questa strategia e comprendere che l’imperialismo è il vero nemico dei popoli, la vera causa di tutte le guerre, la barbarie che genera ogni barbarie. Bisogna combatterlo, e le masse popolari siciliane devono fare la loro parte, incentivando la battaglia per lo smantellamento del MUOS e la chiusura della base di Sigonella, rifiutandosi di ospitare le operazioni militari degli USA e di avallare la politica interventista e guerrafondaia del governo imperialista del nuovo duce Renzi, che va mandato a casa. imperialismo italiano / il bolscevico 3 N. 7 - 18 febbraio 2016 Visita in Nigeria, Senegal e Ghana Renzi alla conquista dell’Africa Il nuovo duce invoca un “più forte ruolo nello scacchiere mondiale” per l’imperialismo italiano “Usciamo da questa due giorni in Africa con la consapevolezza che l’Italia è un grande paese e che in questo essere grande paese abbiamo bisogno di essere più forti nello scacchiere mondiale, più forti in particolar modo nella relazione con l’Africa”. Questa dichiarazione di Renzi al termine della visita di Stato effettuata dal 1° al 3 febbraio in Nigeria, Ghana e Senegal, al di là dei pur cospicui accordi economici firmati, rivela l’ambizioso disegno politico celato nella sua politica estera, che mira a guadagnare nuovi spazi di espansione all’imperialismo italiano ispirandosi alla politica colonialista ed espansionista di Mussolini verso l’Africa. Una politica che il nuovo duce persegue da quando è alla guida del Paese, e non a caso ha messo l’accento sul fatto che è già la terza volta che si reca in Africa, dopo la visita in Mozambico, Congo e Angola nel 2014 e quella in Etiopia e Kenya dell’anno scorso, al termine della quale ebbe a dichiarare che “una strategia di politica estera degna di questo nome non può che mettere al centro dell’interesse italiano l’Africa, le sue potenzialità, le sue contraddizioni, le sue ricchezze. Dopo anni di immobilismo finalmente si riparte”. Dopo l’Africa centrale e quella orientale è ora la volta dell’Africa occidentale, e non appare casuale la scelta di questi tre paesi, Nigeria Ghana e Senegal, come ex colonie ancora nella sfera di influenza di Gran Bretagna e Francia, per farsi largo tra le potenze che contano, contendere loro il terreno di conquista acquisito, e permettere anche all’Italia di sfruttare le enormi ricchezze di petrolio, gas e materie prime, ma anche di potenzialità agricole e commerciali, che possiede questa immensa regione. A questo scopo Renzi si è fatto accompagnare da uno stuolo di dirigenti delle più importanti aziende pubbliche, dall’Eni del suo amico Descalzi, un gruppo che è col 7% il primo produttore di idrocarburi del continente tra tutte le compagnie internazionali, presente da 60 anni in Africa e da 40 in Nigeria, a Enel Green Power, da Italferr del gruppo FS a Cassa depositi e prestiti, di manager di aziende private come Ice, Sace, Simest, Anas International, Cnh Industrial, Trevi, Ge Nuovo Pignone, Maire Technimont e Telecom, nonché da una nutrita delegazione di Confindustria e di imprenditori e uomini d’affari con interessi nell’Africa subsahariana. “L’Africa è la priorità e l’Italia ci deve essere” Questa visita l’ha spiegata così lo stesso Renzi, sul suo sito di news alla vigilia della partenza: “Per la terza volta in meno di due anni una delegazione di Palazzo Chigi scende sotto il Sahara (non era mai accaduto nei 70 anni precedenti), allo scopo di rafforzare il ruolo, l’amicizia, gli interessi, i valori dell’Italia”. Roma, ha aggiunto, “può giocare un ruolo se ha il coraggio di avere una strategia politica di ampio respiro. Non due battute buone per fare un po’ di demagogia in tv. Noi investiamo sull’Africa perché pensiamo che sia doveroso per il nostro posizionamento geografico e geopolitico. Se vogliamo combattere la povertà, sradicare il terrorismo, affermare valori condivisi l’Africa oggi è la priorità. E dopo anni di assenza, l’Italia ci deve essere”. Ma oltre ai lucrosi affari economici in questa visita c’erano in ballo importanti questioni politiche, come gli accordi con questi paesi sulla lotta comune al “terrorismo islamico” e il rimpatrio dei migranti respinti dall’Italia, tanto che a questo scopo Renzi si era portato dietro il capo della polizia Pansa, e ha firmato un primo memorandum d’intesa con il primo ministro nigeriano: “Il nostro sostegno va a voi nella lotta contro Boko Haram e in particolare nella lotta contro terrorismo”, ha detto a questo proposito Renzi al presidente nigeriano. “Io credo sia priorità per la comunità internazionale considerare l’Africa come una priorità. Abbiamo molti attacchi che avvengono nel mondo, abbiamo toccato con mano questi tragici attacchi compiuti dai terroristi, ma io considero personalmente una priorità dare molta attenzione a questa regione del pianeta”. E soprattutto in ballo c’era la questione della candidatura dell’Italia a un seggio non permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu per il 2017-2018, una partita che sarà giocata al Palazzo di vetro il prossimo giugno e per il successo della quale l’appoggio dei paesi africani potrebbe essere decisivo. Il nuovo duce considera questa partita come prioritaria nel quadro di far entrare l’imperialismo italiano nel club ristretto delle nazioni che determinano la politica globale. Lo aveva detto chiaro e tondo anche nel luglio scorso alla conferenza degli ambasciatori italiani. “Vorrei che tutti voi sentiste questa (la battaglia per il seggio al Cds dell’Onu, ndr) come una priorità assoluta. Questa non è la battaglia di un singolo governo, ma di un intero Paese”, li aveva arringati Renzi, proclamando poi con enfasi nazionalista mussoliniana che “comunque vada la discussio- ne politica, penso che l’Italia abbia un futuro straordinario: tra 20 o 30 anni saremo leader in Europa e nel mondo”. Tribuna africana per sfidare Bruxelles La sua terza visita in Africa è avvenuta subito dopo l’incontro con la Merkel e in contemporanea con le polemiche ingaggiate con la Commissione europea sulla questione della “flessibilità” dei conti dell’Italia, polemiche che sono continuate anche a distanza e anzi si sono intensificate nel corso delle varie tappe africane di Renzi. Il nuovo duce, che alla stregua di Craxi a Sigonella nei confronti degli americani, ha ormai indossato con la Germania e la Commissione europea la casacca del nazionalismo mussoliniano per rivendicare un maggior peso dell’imperialismo italiano nella UE e nel mondo, ha approfittato della tribuna mediatica africana per alzare la posta e lanciare sfide sempre più sfrontate ai “burocrati” di Bruxelles che richiamano l’Italia al rispetto dei rigidi limiti di bilancio imposti dai trattati europei. Prendendo spunto dalla precisazione piccata di Bruxelles, seguita alla decisione di Roma di sbloccare i contributi italiani alla Turchia per tenersi i rifugiati siriani, che quei soldi non sarebbero stati conteggiati nel deficit, ma che per le spese relative al salvataggio dei migranti nel Tirreno, per le quali l’Italia rivendica analogo trattamento, ogni decisione era rimandata alla prossima sessione di bilancio di primavera, Renzi ha commentato con sarcasmo che “se non fosse una cosa seria scapperebbe da ridere a pensare che si vuole operare una distinzione tra i morti nel mare Egeo e i morti nel mar Tirreno”. E dicendo no a “polemicucce da quattro soldi” ha aggiunto in tono sferzante: “Non voglio fare polemiche che lasciano il tempo che trovano. Noi siamo l’Italia e l’Italia è un grande paese che ogni anno dà a Bruxelles molti più soldi di quelli che riceve”. Lo facciamo, ha proseguito Renzi, perché crediamo in essa. “Ma proprio per questo non prendiamo lezioncine da nessuno dei nostri amici europei. Siamo pronti a imparare da tutti ma il tempo in cui da Bruxelles ci dicevano cosa fare e cosa no è finito”. Dottrina neocolonialista mussoliniana Quello di Renzi non è semplice bullismo parolaio, o una tattica elettoralistica consistente nel fare la voce grossa con l’Europa per nascondere le difficoltà e alzare i sondaggi in casa propria, come è stato detto da molti, o almeno non è solo questo. La sua è invece una vera e propria rivendicazione mussoliniana del riconoscimento di un maggior ruolo dell’imperialismo italiano nel mondo, del riconoscimento delle sue storiche sfere di interesse e di espansione. A cominciare dall’Africa, e in particolare dalla Libia, dove ha ottenuto di guidare l’imminente missione militare internazionale contro lo Stato islamico. Un riconoscimento che il nuovo duce conta di essersi ormai guadagnato e che pretende di far valere anche per merito della massiccia presenza militare dell’Italia in Afghanistan, Iraq e in altri teatri della guerra al “terrorismo”, come ha riconosciuto Kerry al vertice anti-Daesh di Roma e come ha confermato subito dopo Obama a Mattarella. Non per nulla, parlando ad una conferenza stampa durante la visita in Ghana, il nuovo duce ha svelato la sua dottrina neocolonialista mussoliniana verso l’Africa con queste parole: “Noi come Italia dobbiamo ricordarci chi siamo. Ovunque siamo considerati un punto di riferimento importante. Per anni siamo stati assolutamente decisivi nella vita di alcuni di questi paesi, e possiamo esserlo ancora”. In polemica con Renzi che decide di mantenere la norma xenofoba introdotta da Maroni col governo Berlusconi ANM: “Il reato di clandestinità inutile e dannoso” “Il reato di clandestinità è una norma inutile e dannosa”! Lo ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli il 9 gennaio e lo ha ribadito anche il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio il 27 gennaio nella sua relazione per l’apertura dell’anno giudiziario. In risposta al nuovo duce Renzi e al gerarca del Viminale Alfano che hanno deciso di mantenere la norma xenofoba e razzista contenuta nell’articolo 10 bis del Testo unico sull’immigrazione, introdotto nel 2009 dal quarto governo Berlusconi e dal fascio-leghista Maroni, Sabelli, nel rilanciare l’opinione quasi unanime della stragrande maggioranza di giudici e pubblici ministeri, ha fra l’altro sottolineato che: “Capisco che la politica si faccia carico dei timori della gente, ma quando le paure sono populiste e infondate vanno combattute, spiegando come stanno realmente le cose... Bisogna innanzitutto chiarire che depenalizzare il reato non significa volere un’immigrazione incontrollata e illimitata, ma eliminare una norma inutile e dannosa; e occorre spiegare che la clandestinità è una contravvenzione punita con l’ammenda: e mai nessun straniero rinuncerà ad entrare illegalmente davanti a una sanzione pecuniaria che non è in grado di pagare e che lo Stato non è in grado di riscuotere”. Non solo. Sabelli ha aggiunto che, oltretutto: si tratta di un reato inutile che ingolfa i tribunali con migliaia di cause e costi enormi per lo Stato; e che ostacola le indagini contro gli scafisti, visto che il clandestino, in quanto indagato, non può essere sentito come testimone”. Dunque ha concluso Sabelli: “Gli ingressi illegali non si combattono con la minaccia ridicola di un’ammenda, ma con una seria gestione del fenomeno migratorio nel quadro europeo e con provvedimenti amministrativi di controllo dei migranti e, se del caso, di espulsione”. Grottesca la posizione assunta da Palazzo Chigi e dal Viminale che, pur considerando “logica” l’abolizione del reato, hanno comunque deciso di mantenere la norma con grande soddisfazione di Alfano che fra l’altro era guar- Numero di telefono e fax della Sede centrale del PMLI e de “Il Bolscevico” Il numero di telefono e del fax della Sede centrale del PMLI e de “Il Bolscevico” è il seguente 055 5123164. Usatelo liberamente, saremo ben lieti di comunicare con chiunque è interessato al PMLI e al suo Organo. dasigilli all’epoca in cui il reato di clandestinità fu introdotto. “Evitiamo di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi negativi per la percezione di sicurezza in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa” ha tuonato Alfano. Mentre per Renzi il problema è soprattutto di comunicazione. Perché se è vero che “la logica vorrebbe la scelta della depenalizzazione”, è altrettanto vero che “nella componente sicurezza l’elemento psicologico è molto importante”. Da sempre il PMLI sostiene l’apertura delle frontiere italiane ed europee ai rifugiati e ai migranti e permettere il loro ingresso libero e sicuro in Italia e in Europa. Per il PMLI sono necessarie e urgenti però altre misure, a cominciare dall’abolizione definitiva e completa del reato di immigrazione clandestina, la sanatoria generalizzata per tutti i migranti senza permesso di soggiorno, la parità di diritti sociali, civili e politici per tutti i migranti e il diritto di cittadinanza ai figli di immigrati nati nel nostro Paese. 4 il bolscevico / interni N. 7 - 18 febbraio 2016 Rapporto Adepp sulla previdenza privata Professionisti sempre piu’ poveri L’Adepp, l’associazione delle casse di previdenza private che tutelano gli iscritti agli albi professionali, nel suo V rapporto pubblicato lo scorso 15 dicembre ha certificato quanto la crisi del sistema capitalista iniziata nel 2008 abbia colpito duramente non soltanto le masse popolari, ma anche un settore che fino a dieci o venti anni fa era ritenuto dai più estremamente redditizio e al riparo da qualsiasi crisi: quello delle libere professioni. Il reddito medio dei professionisti, secondo le analisi dell’Adepp, è diminuito in termini reali - ossia considerando il valore al netto dell’inflazione - del 18,35% tra 2007, prima del deflagrare della crisi, e il 2014, anno per cui è disponibile l’ultimo aggiornamento, e si attesta attualmente in media, sempre in termini reali, a 28.960,02 euro annui. La flessione, si spiega nel rapporto, è dovuta soprattutto agli effetti erosivi della crescita dei prezzi, perché i guadagni (nel 2014 il reddito nominale si ferma 34.549,30 euro annui) non hanno fatto fronte all’avanzata dei prezzi, minando la capacità di spesa della categoria. È ciò che di fatto è avvenuto anche nella stragrande maggioranza dei comparti produttivi, dove il mancato rinnovo dei contratti collettivi ha determinato la perdita del potere effettivo dei salari. Il numero dei professionisti, iscritti alle casse di previdenza che l’Adepp rappresenta, è costantemente salito negli anni, fino ad arrivare nel 2014 a 1.469.637 professionisti, aumentati del 20% nel decennio che va dal 2005 al 2014, ossia oltre 50mila iscritti in più ogni anno, per cui si tratta di una presenza ormai numericamente importante a livello sociale. In tale numero poi sono compresi sia coloro che svolgono esclusivamente una attività professionale in modo totalmente autonomo (ad esempio notai, avvocati, commercialisti, la maggior parte degli architetti e degli ingegneri) sia coloro che, pur iscritti al relativo albo professionale, svolgono attività dipendente (ad esempio giornalisti, medici e infermieri), e lo studio dell’Adepp non manca di sottolineare come le maggiori difficoltà economiche le incontrino coloro che fanno parte del primo gruppo menzionato, ossia i professionisti che esercitano in regime di piena autonomia. È la tendenza graduale, per una notevolissima percentuale di professionisti, di scivolare in uno stato di vera e propria povertà, che si manifesta sotto la forma di guadagni sempre minori e incerti, l’assenza di qualsiasi ammortizzatore sociale, l’obbligo di versamento di contributi pensionistici minimi non legati al reddito (che, solo per fare un esempio, per gli avvocati sono di quasi 3.700 euro l’anno) e le incognite pensionistiche comuni a tutti gli altri lavo- ratori. Sono sufficienti a tal proposito due dati relativi a professioni un tempo ritenute estremamente redditizie e che ora presentano aspetti di estrema contraddittorietà: i notai e gli avvocati. I primi, nonostante in Italia siano circa solo 5.000, hanno visto scendere dal 2007 al 2014 i loro redditi di circa il 45%, ma con profonde contraddizioni all’interno della categoria, in quanto i più penalizzati sono i professionisti che esercitano nelle piccole città dove il crollo del mercato immobiliare ha tolto loro la maggior parte dei loro redditi, derivanti dai rogiti degli atti immobiliari. Gli avvocati, dal canto loro, hanno visto un calo dei loro redditi nello stesso periodo di circa il 18%, tanto che ormai alcuni ordini forensi, come quelli di Roma, Milano e Bari, hanno creato Onlus per sostenere gli avvocati travolti dalla crisi, finanziate con il cinque per mille della dichiarazione dei redditi. Il calo dei redditi degli avvocati, pur se di gran lunga più contenuto rispetto a quello dei notai, ha inciso però su una platea di gran lunga più vasta, perché in Italia ci sono circa 230mila avvocati, e la crisi ha semmai creato un divario insanabile tra la maggioranza dei professionisti - soprattutto trentenni e quarantenni e anche donne, che fanno fatica a sopravvivere a causa degli alti costi degli affitti degli studi, degli oneri previdenziali e della sempre maggiore difficoltà a riscuotere i loro onorari dai loro clienti - e una minoranza di avvocati legati a studi professionali di punta che supportano la media e grande imprenditoria, i quali al contrario non hanno conosciuto crisi. Tutto questo spiega perché negli ultimi due anni oltre seimila giovani avvocati si sono cancellati dagli albi professionali in Italia, e alcune stime prudenti ritengono che a breve si raggiungerà la soglia delle diecimila cancellazioni. Attualmente - a conferma delle drammatiche contraddizioni interne alla categoria, contraddizioni che la crisi ha ampliato - oltre il 50% del reddito complessivo prodotto dall’avvocatura va ad appena l’8,6% per cento della categoria mentre il restante 91,4% degli avvocati deve dividersi l’altra metà del fatturato. È chiaro che le contraddizioni ormai insanabili del sistema capitalista, dopo aver generato all’interno della classe operaia una situazione di crescente disoccupazione di massa e - contemporaneamente - di perdita di tutele e di diritti per i lavoratori, dopo aver spazzato via centinaia di migliaia di piccole aziende e avvantaggiato al contempo i grandi operatori economici, si sta ripercuotendo anche nel mondo delle libere professioni creando miseria e precarietà crescenti tra questi lavoratori. La posizione del Sindacato è un’altra cosa sulla Carta della Cgil Pubblichiamo di seguito la posizione di Sindacato è un’altra cosa sulla Carta dei diritti della Cgil. Quantunque risulti critica nei confronti del Nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori tale posizione si rivela opportunistica laddove evita di indicare esplicitamente di bocciare le proposte del Nuovo Statuto dei lavoratori invitando le lavoratrici e i lavoratori a votare due No ai due quesiti, un’indicazione che il PMLI ha propagandato fin da subito (vedi “Il Bolscevico” n. 5/2016 pag. 6). Il direttivo nazionale Cgil che ha varato la proposta di legge sul nuovo statuto dei diritti del lavoro e sulla consultazione straordinaria degli iscritti lo ha fatto con il nostro voto contrario. La ragione è semplice ma va articolata bene. In primo luogo abbiamo ritenuto drammaticamente sbagliato che tutta l’iniziativa di contrasto al Jobs Act ed alle profonde modifiche della legislazione Fornero-Renzi sulle tutele dal licenziamento si risolvesse con una semplice raccolta firme su una proposta di legge da consegnare al parlamento. Il primo compito del sindacato è dare gambe e forza alla propria iniziativa su tutti i terreni su cui è impegnata: sociale, contrattuale, politico. Una proposta di legge di iniziativa popolare che affida al parlamento, a questo parlamento o, peggio ancora, a quello che avremo dopo la riforma istituzionale Renzi-Boschi, la ricostruzione di diritti perduti è chiaramente destinata ad essere sconfitta se non è parte di una straordinaria mobili- Accade nulla attorno a te? RACCONTALO A ‘IL BOLSCEVICO’ Chissà quante cose accadono attorno a te, che riguardano la lotta di classe e le condizioni di vita e di lavoro delle masse. Nella fabbrica dove lavori, nella scuola o università dove studi, nel quartiere e nella città dove vivi. Chissà quante ingiustizie, soprusi, malefatte, problemi politici e sociali ti fanno ribollire il sangue e vorresti fossero conosciuti da tutti. Raccontalo a “Il Bolscevico’’. Come sai, ci sono a tua disposizione le seguenti rubriche: Lettere, Dialogo con i lettori, Contributi, Corrispondenza delle masse, Corrispondenze operaie e Sbatti i signori del palazzo in 1ª pagina. Invia i tuoi “pezzi’’ a: Via A. del Pollaiolo 172/a - 50142 Firenze Fax: 055 5123164 - e-mail: [email protected] tazione di resistenza e riconquista. Dalla contrattazione aziendale ai contratti nazionali si deve riaprire nel paese la partita della condizione del lavoro per imporre un cambio radicale dell’agenda alla politica ed alle imprese. Solo cosi è possibile riconquistare diritti. La Cgil chiede davvero di riconquistare i diritti perduti? No, ed è la seconda ragione che ci ha portato a votare contro questa scelta. Purtroppo la proposta della Cgil su un nuovo statuto dei diritti del lavoro rappresenta l’adeguamento del sindacato alla situazione esistente. Si accetta e si legittima l’esistenza di tipologie contrattuali precarie nate per consentire ai padroni di non applicare i contratti nazionali di lavoro e si accetta il mare di flessibilità che in questi decenni si è rovesciato sulla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici. Si certifica così la fine della lotta alla precarietà per l’applicazione dei contratti collettivi. Persino sulle tutele dal licenziamento la Cgil non si propone più il ritorno alla formula originaria dell’art.18 della legge 300 (statuto dei diritti dei lavoratori) la più tutelante in assoluto, prima delle manomissioni della Fornero e del Jobs Act di Renzi. In sostanza siamo davanti ad una proposta che si pone il tema di estendere alcuni diritti generali al mondo del lavoro subordinato e autonomo ma dentro il nuovo regime di ricattabilità e precarietà. Infine la proposta di legge è fondata sul Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 cioè sulla negazione della democrazia e delle libertà sindacali e sul modello della contrattazione di restituzione. Rispetto all’ipotesi referendaria La Cgil, con la consultazione straordinaria, chiede agli iscritti cosa pensano di un eventuale referendum per l’abrogazione del Jobs Act ma senza che il risultato del voto sia davvero vincolante per le sue scelte. Come può un’organizzazione di 6 milioni di iscritti non riuscire ad avere una propria posizione su un tema così importante? Crediamo che la Cgil avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di decidere insieme alle lavoratrici ed ai lavoratori la costruzione di quella necessaria battaglia generale contro la legislazione del governo Renzi che va dalla contrattazione al referendum. Questa consultazione appare invece come un sondaggio ad uso tutto interno a gruppi dirigenti che non sono d’accordo tra loro. Per queste ragioni la campagna referendaria è molto rischiosa Non abbiamo contrarietà di principio sullo strumento referendum. La campagna referendaria per abrogare le leggi del governo Renzi contro il lavoro potrebbe essere un’occasione importante per riaprire la battaglia generale nel paese. Tuttavia ha bisogno di una nuova politica contrattuale della Cgil, ha bisogno di coerenza e radicalità, di un cambiamento profondo della linea che in questi mesi ha abbandonato il conflitto e fatto accordi al ribasso sui contratti nazionali. I referendum, come ci insegna la storia, non possono sostituire l’iniziativa sociale. Ogni lavoratore deciderà come esprimersi su questa consultazione. noi intendiamo denunciare i rischi di una campagna referendaria avviata senza convinzione e senza una coerente battaglia sociale! Il tribunale di Ferrara: “Atto ritorsivo, preordinato per far cessare la sua presenza al negoziato” Reintegrato il delegato Cgil licenziato dalla LyondellBasell Il 30 gennaio 2016 è arrivata la sentenza del tribunale di Ferrara del giudice Alessandro D’Ancona che reintegra Luca Fiorini, sindacalista della Filctem Cgil e delegato Rsu, nel posto di lavoro alla multinazionale della chimica LyondellBasell di Ferrara, che lo aveva licenziato lunedì 4 gennaio con la motivazione di “violenza sul posto di lavoro”. Un’importante vittoria sindacale contro il tentativo della Lyondell di estromettere con un atto fascista il sindacalista dalla trattativa e dall’azienda. A portarla a compimento è certamente contata anche la larga solidarietà, manifestata con scioperi, e mobilitazioni dei lavoratori e dei sindacati che da settimane imperversa nelle piazze e su internet. La sentenza del giudice D’Ancona ha evidenziato l’inconsistenza della motivazione dell’accusa mossa dalla Lyondell, l’aggressione che di fatto non c’è stata, dall’altro ha smascherato chiaramente il tentativo della multinazionale di attivare un’azione antisindacale che “rivela l’uso abusivo e strumentale del potere disciplinare, con chiara finalità ritorsiva” nei confronti del sindacalista, per allontanarlo dalla trattativa e avere mano libera nei licenziamenti. La sentenza stabilisce il reintegro di Fiorini nel posto di lavoro, l’obbligo da parte di Basell di riprenderlo in azienda e di rifondere la spese processuali sostenute da CGIL e la pubblicazione del decreto nelle bacheche aziendali e su alcuni dei principali quotidiani italiani I dirigenti del gruppo Basell hanno detto di fare riferimento al codice interno di “etica” aziendale, molto in voga in Usa, dove è noto non esistono tutele sinda- cali come in Italia. Ma di fatto il loro atteggiamento antisindacale e antioperaio è in perfetta linea con l’arroganza padronale italiana e con le controriforme come il Jobs Act imposto da Renzi. Anche se la sentenza ha bloccato questo tentativo quello che si profila all’orizzonte, con l’arrendevolezza dei vertici dei tre maggiori sindacati confederali, è un nuovo modello di relazioni industriali basato sul collaborazionismo e la flessibilità funzionale al capitalismo che di fatto cancella ogni diritto sindacale e normativo. interni / il bolscevico 5 N. 7 - 18 febbraio 2016 L’eurodeputato Caputo (PD) indagato per voto di scambio Il governatore PD della Basilicata Arrestato per corruzione il senatore De Siano (FI) Pittella indagato per corruzione elettorale Redazione di Napoli L’ennesimo scandalo che coinvolge la destra e la “sinistra” del regime neofascista travolge il PD e FI per i gravissimi reati di voto di scambio e corruzione. Nel primo caso trattasi dell’eurodeputato Nicola Caputo (PD) promosso da Villa di Briano, in provincia di Caserta, a Strasburgo con 85.897 voti dopo quasi due legislature nel consiglio regionale campano. In questo paese dell’hinterland casertano Caputo ha uno dei suoi principali serbatoi di preferenze, raccolte in passato anche grazie a sfarzose feste elettorali tra cui un banchetto di ben 1.800 invitati, risalente al 2010 e raccontato dall’intercettazione di un imprenditore vicino ai clan, finita dritta nelle carte dell’inchiesta della Dda di Napoli, condotta dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, e dai pubblici ministeri Cesare Sirignano e Catello Maresca, che hanno iscritto, a metà gennaio, l’europarlamentare nel registro degli indagati in uno stralcio dell’indagine madre sul Comune di Villa di Briano. Secondo gli inquirenti le attività dell’amministrazione PD erano di fatto nelle mani della fazione del clan dei Casalesi guidata dal boss Antonio Iovine ’o Ninno, attualmente in carcere. L’accusa è di voto di scambio elettorale: infatti è stato accertato che il 18 febbraio 2010, un mese e mezzo prima del voto amministrativo a Villa di Briano, un dirigente della Regione Campania aveva firmato il decreto di approvazione della graduatoria dei progetti ammissibili a finanziamento, e tra questi c’era anche lo svincolo sulla Nola-Villa Literno, importo di quasi due milioni di euro. All’epoca Caputo era vice capogruppo del PD in consiglio regionale e componente della commissione Bilancio: alcune intercettazioni ambientali metterebbero nei guai l’europarlamentare, atteso che il 21 maggio 2010 una cimice piazzata in una Peugeot 307 registra una conversazione tra alcuni esponenti del PD dove si accenna al patto politico e di affari tutto interno ai neoliberali. I fratelli Magliulo che avevano retto le sorti dell’amministrazione corrotta di Villa di Briano tramite il sindaco Daniele, avrebbero sostenuto con 100mila euro la campagna elettorale di Caputo alle regionali del 28 e 29 marzo 2010 e Caputo in cambio sarebbe intervenuto in Regione Campania per assicurare i fondi per la realizzazione dello svincolo sulla statale Nola-Villa Literno. Verrà arrestato perché ha annunciato di rinunciare alla propria immunità di parlamentare il senatore di Forza fascisti Domenico De Siano, già coordinatore regionale di Forza Italia, nell’ambito di un’inchiesta su presunte irregolarità negli appalti per la nettezza urbana. Nello stesso procedimento è indagato l’altro parlamentare Luigi Cesaro, ex presidente della Provincia. La richiesta di arresto è stata inviata in Parlamento dalla Procura di Napoli e in particolare dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e dai sostituti Maria Sepe e Graziella Arlomede che contestano al parlamentare i reati di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. L’ordinanza con la quale verranno disposti gli arresti domiciliari è stata emessa dal gip Claudia Picciotti: un’azienda per la raccolta dei rifiuti sarebbe stata sistematicamente agevolata per fargli aggiudicare appalti in vari comuni del napoletano, tra cui Ischia nel periodo 2010-2014. Le misure cautelari sono in tutto nove: tre arresti domiciliari e sei obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria. Luigi Cesaro è indagato a piede libero. I destinatari sono, oltre a De Siano, Oscar Rumolo, responsabile finanziario del Comune di Lacco Ameno; Vittorio Ciummo, titolare della società Ego Eco, che si è aggiudicata vari appalti nel settore dei rifiuti; Salvatore Antifono, già consigliere comunale di Torre del Greco; Vincenzo Rando, responsabile della Ragioneria di Forio d’Ischia; Giulia Di Matteo, segretario generale di Monte di Procida; Francesco Iannuzzi, ex sindaco di Monte di Procida ed ex parlamentare; Carmine Gallo, legale rappresentante della società Cite, pure aggiudicataria di appalti, e Carlo Savoia, dipendente della Cite. Coinvolto anche l’ex sindaco PD di Potenza Santarsiero C’è anche il nome di Marcello Pittella, presidente piddino della regione Basilicata, tra i 35 indagati dell’inchiesta avviata dalla procura della Repubblica di Potenza in seguito al dissesto finanziario dichiarato dal consiglio comunale del capoluogo lucano nel novembre del 2014. Il boss del PD lucano, fratello minore dell’eurodeputato Gianni, eletto alla guida della Basilicata nella primavera del 2014, è accusato di corruzione elettorale in riferimento al patto di sangue sancito alla vigilia delle scorse elezioni regionali tra il PD e il Centro democratico di Bruno Tabacci. I termini dell’accordo prevedevano che Pittella (e con lui Vito De Filippo, allora presidente uscente e oggi sottosegretario alla Salute, e Roberto Speranza, deputato bersaniano e boss politico del PD) garantivano a Tabacci che avrebbe ottenuto un posto in giunta e il diritto di indicare anche il nome del suo futuro assessore, come contropartita del ritiro dall’agone elettorale di Nicola Benedetto, un imprenditore di Ferrandina. Oltre a Pittella, tra gli indagati figurano anche l’ex sindaco di Potenza e attuale consigliere regionale, Vito Santarsiero, anch’egli esponente del PD, l’ex assessore al bilancio Federico Pace e una trentina fra amministratori, funzionari e imprenditori. L’inchiesta è articolata in diversi filoni e riguarda tutto il sistema corruttivo messo in atto dalle giunte di “centro-sinistra”: dalla scandalosa gestione del trasporto pubblico, al servizio di pulizia fino alle modalità con cui si è giunti alla dichiarazione di dissesto finanziario. Referendum: ordalia o democrazia? Accettiamo la sfida! Se qualcuno aveva ancora un dubbio, ha provveduto lui stesso a toglierlo nel discorso di fine anno 2015, in cui, parlando del referendum confermativo sulla “sua” riforma (in)costituzionale approvata dal succube parlamento, ha detto: “Se perderò considero fallita la mia esperienza politica”. Parole gravi e pericolose, perché un capo di governo, per definizione “provvisorio”, lega la sorte del suo governo al voto più importante per un Paese Democratico e di Diritto, in quanto sancisce le regole “istituzionali” che per loro natura sono “sovrane”, cioè libere da condizionamenti di sorta e di governi. Dicendo queste parole, Renzi ha lanciato un’ordalìa di stampo medievale: o con me o il diluvio; se non di Paolo Farinella, prete Speravamo che la fine del berlusconismo al governo diretto del Paese dovesse portare un minimo di regole democratiche, eliminando lo scempio alla dignità della legalità e curando le ferite inflitte a ogni istituzione civile e organizzazione dello Stato. Circa metà degli Italiani ha coscientemente tenuto al governo dell’Italia un evasore fiscale, un alleato di mafia, attraverso il suo diretto braccio destro Dell’Utri (ora in carcere). Ora abbiamo anche il conforto di Sandro Bondi, testimone qualificato indiscusso che gli fu vate, “servo volontario” ed ex PCI, il quale quatto quatto, cacchio cacchio, viene a dirci con lirica innocenza che a Berlusconi nulla importava dell’Italia, perseguendo il fedifrago un solo interesse: il suo e quello delle sue aziende. Quando lo dicevamo noi in epoca non sospetta, eravamo tacciati di antiberlusconismo ideologico; ora che tutti sanno, fanno finta. Speravamo che il PD volesse riparare lo sfascio, come è sempre accaduto nella storia d’Italia: la destra dilapida e la sinistra aggiusta. Speravamo da impenitenti illusi perché non volevamo rassegnarci alla disfatta dei “principia” per cui abbiamo vissuto e spesso anche dato la vita. L’arrivo al governo del PD, nel frattempo mutato geneticamente in “cosa renziana-boschiana”, costringe a prendere atto che il partito “che fu” delle lotte operaie e della difesa a oltranza della Costituzione, ha fretta di dismettere il vocabolario “di sinistra” perché se ne vergogna, rincorrendo la destra fino all’incesto contro natura, battezzato - ironia della sorte! - “Nazareno”, col nome di uno che si è fatto crocifiggere pur di restare fedele a sé, senza perseguire interesse personale di alcun genere. Per la terza volta consecutiva, dopo Monti e Letta, il PD smania per andare al governo con uno che non è mai stato Vignetta che circola in internet eletto (se non per fare il sindaco di una media città come Firenze) e da qual momento perde la bussola e si ammala di labirintite. Nei primi tre anni di malgoverno, l’allegra brigata ha fatto una scelta di classe: stare dalla parte di Confindustria, precarizzare il lavoro e punire i Sindacati. I numeri mirabolanti di giovani al lavoro sono stati ridimensionati dall’Istat, la furia iniziale (“una riforma alla settimana”) si è acquetata nelle braccia del marpione Marchionne nel proscenio della Borsa del Cavallino Rosso (l’unico rosso che questo governo riconosce). Nella finanziaria vi sono più normative a favore delle mafie, degli evasori e dei suoi parenti e del babbo della Boschi Maria Etruria che a tutela dei piccoli risparmiatori. Con la controriforma costituzionale e la legge elettorale, il governo si è posto espressamente contro la democrazia e l’ordine costituzionale. Renzi, infatti, contraddicendo tutto quello che aveva dichiarato e promesso prima di prendere il partito e il governo, ha sopraffatto il Parlamento, la Giustizia, addirittura la Corte Costituziona- le e la TV di Stato, dandosi ruoli e compiti che non gli spettavano, allargando la propria azione anche dove non gli è lecito. È riuscito così dove Berlusconi ha tentato senza risultato completo perché aveva le piazze piene degli iscritti del PD, della sedicente sinistra e degli uomini e delle donne di buona volontà democratica. La riforma costituzionale, infatti, non è materia di governo, ma esclusiva prerogativa del Parlamento, dove non vige il vincolo di partito, ma la libera convinzione e la libertà di coscienza al momento del voto, che comunque, è sempre superiore alla disciplina di partito. Ora sappiamo bene che la riforma costituzionale, anzi la distruzione della Costituzione repubblicana - unita alla legge elettorale che prevede di fatto la trasformazione del Senato della Repubblica in dopolavoro per servitori fedeli e proni, è un obiettivo che riguarda la perpetuità di Renzi - lo statista di Rignano sull’Arno! - come prosecuzione ideale e storica del berlusconismo (senza cene eleganti o almeno evidenti). mi votate, accettando le “mie” riforme, succederà il finimondo, perché dopo di me non vi è futuro e l’Italia può sprofondare nell’abisso dell’anarchia. Ne prendiamo atto e non ci lasciamo sconvolgere. Accettiamo la sfida. Vogliamo mobilitarci per battere la controriforma (in) costituzionale a firma “Renzi/ Boschi”, decisi a prendere due piccioni con una fava sola: sconfiggere lo stravolgimento della Carta del ’48, nata dalla Resistenza, e mandare a casa Renzi e la sua ghenga che, insieme, sono spuri alla vita democratica e al Diritto della Decenza. Se è guerra, guerra sia! Con una differenza - questa sì abissale! - Renzi lotta per il potere per sé, per la sua famigliola, il babbo della Boschi e i suoi amici, noi lotteremo senza alcun interesse solo per amore della dignità della Carta Suprema, garanzia di Democrazia, baluardo della dignità del lavoro utile e orizzonte del futuro della nostra Italia. Renzi, che è stato sindaco di Firenze, non dimentichi Carlo VIII e Pier Capponi del 1494 perché come allora, se Renzi suonerà le sue trombe e trombette, anche noi oggi suoneremo le campane delle nostre coscienze e della nostra libertà votando “NO” al referendum confermativo. A quel punto, dovrà essere lui a prendere atto che esiste un popolo d’irriducibili e dovrà tornarsene a Rignano a giocare con i figli sulle rive dell’Arno, magari accompagnato da Boschi Maria Elena Etruria in veste di Baby Sitter a tempo pieno. L’ANPI per il referendum popolare: “No” alla riforma del Senato ed alla legge elettorale Riportiamo estratti del comunicato del Comitato nazionale dell’ANPI sulla riunione del 21 gennaio scorso, nella quale ha deciso con larghissima maggioranza (solo tre astenuti) di sostenere il No nel referendum popolare sulla controriforma del Senato. L’ANPI si schiera per il referendum popolare, per dire “no” alla legge di riforma del Senato ed alla legge elettorale. La decisione è stata presa nel- la riunione del Comitato nazionale del 21 gennaio dove si è ampiamente ed approfonditamente discusso circa la riforma del Senato e la legge elettorale e sulla proposta di aderire ai Comitati referendari già costituiti. In una associazione pluralista come la nostra ci saranno certamente opinioni anche diverse da quella prevalsa nel Comitato nazionale; e del resto, alcune perplessità e preoccupazioni sono emerse anche in quella sede. Ebbene, la parola chiave è: “rispetto” di tutte le opinioni, pur nel contesto dell’attuazione delle decisio- ni assunte. Ognuno sarà libero di votare come crede, quando verrà il momento; ma oggi sono da evitare azioni ed iniziative che contrastino con la linea assunta dal massimo organo dirigente, così come devono essere - da parte di chi è convinto della bontà e della giustezza della decisione adottata – evitati toni e comportamenti che in qualche modo possano apparire prevaricatori. L’ANPI è perfettamente in grado di mantenere la sua preziosa unità se tutti rispettano le regole, le decisioni adottate e - al tempo stesso - le opinioni diverse. 6 il bolscevico / carta dei diritti cgil N. 7 - 18 febbraio 2016 Inciucio tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil per favorire il governo e gli imprenditori L’accordo sulla rappresentanza e’ un freno alla lotta sindacale e al diritto di sciopero La Cgil a rimorchio di Cisl e Uil. Emarginati i sindacati minori. Attuato di fatto l’articolo 39 della Costituzione. Napolitano e Letta si spellano le mani per il risultato L’accordo va rigettato In questi giorni gli iscritti alla Cgil sono chiamati nei loro posti di lavoro a esprimersi con voto palese sulla “Carta dei diritti universali del lavoro”. Per comprendere meglio le radici dell’indicazione del PMLI a votare No ai due quesiti referendari della Cgil in questa pagina ripubblichiamo l’articolo sulla rappresentanza sindacale, cavallo di battaglia appunto del Nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori proposto dalla Cgil, apparso su “Il Bolscevico” n. 25/13. Il 31 maggio è stato firmato l’accordo sulla rappresentanza sindacale tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria. Camusso, Bonanni e Angeletti per i confederali e Squinzi per gli industriali hanno siglato ufficialmente un’intesa che di fatto era già stata raggiunta e che stravolge completamente da destra le relazioni industriali nel nostro Paese. Nella sostanza si tratta dell’applicazione, in materia di rappresentanza, dell’accordo del 28 giugno 2011 che a sua volta riprendeva quello separato del 2009 che tra le altre cose prevedeva i “patti in deroga”, ossia la possibilità di modificare a favore delle esigenze aziendali quasi tutta la materia contenuta nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) che veniva disarticolato e ridimensionato fino a diventare una “scatola vuota”. Sindacato delle larghe intese L’intesa sulla rappresentanza non ha niente a che vedere con la democrazia sindacale, anzi ne è la sua negazione, è bene chiarirlo subito. Questo accordo nasce con il chiaro intento di eliminare o quantomeno limitare e prevenire le lotte dei lavoratori delle fabbriche più combattive che non si piegano di fronte ai padroni e di quei sindacati che non accettano le logiche collaborazioniste e cogestionarie di Cgil, Cisl e Uil. Il tutto per assicurare agli industriali un clima di pace sociale quando invece le conseguenze della crisi capitalistica spingono i lavoratori alla ribellione e permettono ai padroni di affrontare la competizione con i capitalisti delle altre nazioni senza avere i conflitti nelle proprie fabbriche. È questo l’indirizzo di fondo che sta alla base del patto che non a caso è stato raggiunto in questo preciso momento, durante il governo delle larghe intese, che vede le maggiori fazioni della borghesia, rappresentate da PD e PDL, assieme al governo. Come abbiamo detto la sostanza di questo accordo era già scritta in quelli del 2009, non firmato dalla Cgil nel suo insieme, e del 2011 osteg- giato dalla Fiom. Ma la presenza di Berlusconi e del PDL alla guida dell’esecutivo non aiutavano certo l’unità dei sindacati confederali; la politica del neoduce è sempre stata improntata all’emarginazione della Cgil privilegiando accordi con Cisl, Uil e Ugl. L’avvento del Governo LettaBerlusconi, con i suoi richiami al “patto tra i produttori”, ovvero l’alleanza innaturale tra padroni e lavoratori, le esternazioni e i diktat del nuovo Vittorio Emanuele III, vero promotore, regista e garante di questo governo, Giorgio Napolitano, all’unità nazionale e al “bene comune” hanno cambiato le carte in tavola e creato un clima favorevole a una nuova unità tra i confederali e in special modo al riavvicinamento della Cgil a Cisl e Uil, puntualmente avvenuto. Fermo restando la politica governativa fatta di lacrime e sangue per i lavoratori e la linea collaborazionista di Cisl e Uil che non sono certo cambiate, piuttosto è avvenuta la capitolazione della Cgil, Fiom compresa. Le definizione “sindacato delle larghe intese”, usata da alcuni osservatori per definire la ritrovata unità appare quindi perfettamente appropriata. Uno stop al conflitto sociale Questo accordo sancisce il monopolio sindacale di Cgil, Cisl e Uil ed è fatto per allineare categorie che si ribellano come ad esempio i metalmeccanici della Fiom che con queste nuove regole a Pomigliano avrebbero dovuto ubbidire a Marchionne e non avrebbero potuto nemmeno scioperare contro la Fiat. Se ci addentriamo nel protocollo d’intesa lo possiamo capire bene. Anzitutto ai sindacati viene misurata la rappresentatività, da calcolare per il 50% con le deleghe delle quote versate dai lavoratori e per l’altro 50% con i voti ottenuti nelle elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU). E già qui c’è una discriminazione perché i “sindacati di base” non possono contare sulle trattenute sindacali in busta paga. Poi, fatta la media si dovrà raggiungere almeno il 5% per essere ammessi al tavolo dove si decidono i contratti nazionali. Ma questo 5% è solo fittizio perché occorre prima dare il proprio assenso a queste regole. Difatti nel documento si ricorda continuamente che sono ammesse al tavolo delle trattative solo le “organizzazioni sindacali firmatarie della presente intesa”. Quindi prima bisogna sottostare alle regole scritte da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, dopodiché, se si raggiungono i requisiti, si potrà sedere al tavolo, ovviamente in posizione minoritaria e da semplice spettatore. La stessa regola della firma dei tre principali. Nello stesso tempo, la Cgil di Camusso e la Fiom di Landini con questo vogliono rientrare in pieno nelle grazie del padronato, da cui hanno rischiato di essere emarginati. Un accordo da rigettare Milano, 14 novembre 2014. Sciopero generale dei metalmeccanici. Il PMLI tiene alta la propria bandiera insieme a quella della Fiom preventiva vale per la misurazione dei voti nelle elezioni delle Rsu quindi, rimanendo ancora al caso Pomigliano, la Fiom non avrebbe il diritto ad essere rappresentata in Fiat. Ai sindacati che vogliono presentare liste alle elezioni delle Rsu si chiede una sottomissione, un’abiura preventiva della difesa degli interessi dei lavoratori, un’accettazione a priori e comunque degli accordi svendita. Questa è la certificazione della dottrina mussoliniana di Marchionne. Di sicuro non è la “consultazione certificata dei lavoratori”, come ha affermato Landini che con il suo assenso all’intesa si è rimangiato tutte le lotte che proprio sul tema della democrazia sindacale hanno visto la Fiom in prima fila. Il segretario dei metalmeccanici si ripara dietro il paravento della consultazione dei lavoratori necessaria per approvare a maggioranza i contratti nazionali le cui modalità “saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto”. Quindi non è nemmeno vero che ad ogni firma seguirà un referendum. Insomma, il consenso finale dei lavoratori è solo una foglia di fico. Esistono invece altre clausole come quella che prevede che potranno presentare la piattaforma contrattuale solo le organizzazione che da sole o unitariamente supereranno il 50% e solo queste potranno trattare con la controparte. Ma la parte forse peggiore è quella che riguarda la limitazione del diritto di sciopero. Difatti, dopo tutte queste clausole antidemocratiche, quando l’accordo viene firmato ha “piena esigibilità”, cioè tutti devono rispettarlo e s’impegnano a “non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti”, cioè non devono scioperare e tutti devono stare zitti. Ma addirittura i contratti firmati con questa modalità “dovranno stabilire clausole e/o procedure di raffreddamento”: tradotto dal lin- guaggio burocratico vuol dire che ci saranno penali per i sindacati (e anche per i singoli lavoratori?) che si azzardano a metterlo in discussione. Capitolazione della Cgil Basterebbero le dichiarazioni che ci sono state a seguito della firma per capire bene a chi giova e a chi nuoce l’accordo sulla rappresentanza. Quella del capo del governo, il PD di area democristiana Enrico Letta: “bravi, bravi, veramente bravi”, oppure quelle di Napolitano che continuamente bacchetta e incita i partiti alle controriforme presidenzialiste stavolta è soddisfatto perché per lui l’accordo susciterà “l’apprezzamento anche delle istituzioni europee” e si augura “che lo spirito e il contenuto dell’accordo trovino la più larga adesione in tutti gli ambienti imprenditoriali e sindacali”. Più espliciti e diretti gli industriali come il capo di Confindustria Giorgio Squinzi: “dopo 60 anni definiamo le regole per la rappresentanza, che ci permette di avere contratti nazionali pienamente esigibili” o il suo vice Stefano Dolcetta: “l’accordo è una riforma strutturale del sistema di contrattazione per rendere più solida anche l’impresa”, un “sistema vicino al modello dell’articolo 39 della Costituzione”. Questo richiamo alla Costituzione apre anche un altro capitolo, quello della trasformazione del nostro Paese da repubblica unitaria parlamentare e, almeno sulla carta, antifascista, a regime presidenzialista, neofascista e federalista. Non si può prescindere dall’inquadrare l’accordo in questione dal processo di fascistizzazione in atto nel Paese, sancito anche dall’apposito disegno di legge di questo governo, pressato da Napolitano, per arrivare in tempi rapidi alla controriforma presidenzialista della Costituzione del 1948. In questo caso non si tratta di riscrivere un articolo ma d’interpretarlo da destra; l’articolo 39 della Costituzione riferendosi ai sindacati dice: “....possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Una norma che stabilisce un diritto ma non le regole. Anzi, finora questo articolo veniva impugnato per pretendere che tutti i lavoratori beneficiassero dei miglioramenti contrattuali, invece in questo accordo se ne dà una lettura punitiva, e cioè che la maggioranza dei sindacati (non dei lavoratori, ndr) decide per tutti e chi non è d’accordo si deve per forza adeguare. C’è la pretesa di cancellare il conflitto sociale, di prevenire gli accordi separati che lasciano come strascico gli scioperi e la mobilitazione dei lavoratori, si vuole un sindacato che non sia rivendicativo ma collaborativo e succube dei padroni. Sono eloquenti le parole del crumiro Bonanni che dalla tribuna del congresso nazionale della Cisl, svoltosi in questi giorni a Roma, ha detto: “un accordo che valorizza tutte le scelte di fondo compiute con coerenza dalla Cisl in questi anni, contribuendo al superamento delle cultura antagonistica” Non c’è stato nessun smacco alla Fiat, come ha detto la Camusso nè tanto meno la Cgil è riuscita a far cambiare idea a Cisl e Uil, come ha detto Landini. Queste sono dichiarazioni fatte per buttare fumo negli occhi ai lavoratori; semmai c’è stata la completa omologazione della Cgil, Fiom compresa, al governo Letta-Berlusconi, a Napolitano, Squinzi e Confindustria, ai sindacati cogestionari e collaborazionisti Cisl e Uil e l’emarginazione dei sindacati minori, a sinistra Nonostante quasi tutti i massmedia abbiano santificato l’accordo come un toccasana per uscire dalla crisi, ovviamente sulle spalle dei lavoratori, si allarga e si manifesta il dissenso. L’area della Cgil che si riconosce nella Rete 28 Aprile ha fin da subito condannato l’accordo. Cremaschi ha dichiarato: “È un accordo ‘storico’, ma in senso negativo. Questo accordo infatti risolve alla radice il problema per i padroni di scegliere con chi trattare, perché, con le regole firmate, Cgil Cisl e Uil accettano la limitazione e l’attacco al diritto di sciopero, in pratica il modello Fiat viene esteso a tutti i lavoratori”. L’altro esponente dalla Rete 28 Aprile Bellavita ha dichiarato che tale accordo comporta: “l’affermazione delle politiche d’austerità sul terreno contrattuale” che cancella “il diritto dei lavoratori alla libera rappresentanza, colpiscono il diritto di sciopero e il potere dei lavoratori di migliorare la loro condizione”. Per l’Unione Sindacale di Base (USB) questo è l’accordo della vergogna “utile solo a garantire pace sociale di fronte ai sempre più avanzati processi di riorganizzazione produttiva”. Per i Cobas ( Confederazione dei Comitati di Base) “è la logica conseguenza dell’insulso inciucio che ha costruito il governo Letta, finalizzato alla logica corporativa della pace sociale” La Camusso è stata contestata da una parte della platea a un convegno a Milano al grido di “lo sciopero non si tocca” mentre si alzano grida di protesta da diverse fabbriche, specialmente metalmeccaniche. Segnaliamo le voci contrarie delle RSU-Fiom della Piaggio di Pontedera (Pisa), Same di Treviglio (Bergamo), Oerlikon Graziano di Rivoli (Torino), Insiel di Trieste. La parte più avanzata della classe operaia con le sue lotte dovrà far capire a tutti i lavoratori che in buona parte ne sono ancora all’oscuro, la necessità di rigettare questo accordo, che non a caso, per la sua gravità e la sua portata, aggiungiamo noi, capo del governo, presidente della Repubblica e rappresentante degli industriali hanno definito “storico”. Dal loro punto di vista non hanno torto, poiché si tratta della consacrazione delle relazioni industriali mussoliniane introdotte da Marchionne alla FIAT, che vanno ostacolate in ogni modo, usando qualsiasi metodo di lotta di massa ritenuto necessario. VOTATE PER IL PMLI E IL SOCIALISMO ASTENENDOVI Committ.: Resp. Monica Martenghi (art. 3 - L.515/93) di Giovanni Scuderi (…) Siamo qui per chiedervi di votare per il PMLI e il socialismo attraverso l’astensionismo, ossia disertare le urne, votare nullo o bianco. Ciascuno scelga la forma di astensionismo che ritiene tatticamente più opportuna al suo caso. L’astensionismo, così inteso e praticato, è l’unico voto anticapitalista, antimperialista, antifascista, antipresidenzialista, antifederalista e antirazzista. Votare diversamente equivale esattamente al contrario, ossia dare il consenso, di fatto, agli oppressori e agli sfruttatori, ai nemici e agli imbroglioni del popolo. Sul piano elettorale solo con l’astensionismo marxistaleninista si fa chiarezza tra il campo del proletariato e del socialismo e il campo della borghesia e del capitalismo, si eleva la coscienza politica e la combattività delle masse, si educano le nuove generazioni alla lotta rivoluzionaria, antistituzionale e antiparlamentare, si indeboliscono, si disgregano e si delegittimano le istituzioni rappresentative borghesi e i partiti che le appoggiano. L’astensionismo marxista-leninista è quindi un voto che esprime una ben precisa volontà politica, una dichiarazione aperta di guerra al capitalismo e ai suoi partiti, e di schieramento con il PMLI e il socialismo. L’unico voto coerente che possano esprimere un’elettrice e un elettore di sinistra. Un voto che nel passato poteva essere espresso votando gli eventuali candidati e le liste del PMLI. Oggi però non più, dal momento che le masse a milioni disertano le urne ... e dal momento che l’esperienza dell’utilizzazione del parlamento dimostra che sono più gli svantaggi che i vantaggi che possiamo ricavarne ai fini della lotta di classe per la conquista del potere politico da parte del proletariato. I marxisti-leninisti di tutto il mondo fin dai tempi di Marx ed Engels, e grazie ai loro insegnamenti, pur coscienti del pericolo del “cretinismo parlamentare”, che consiste nel credere di poter arrivare al socialismo conquistando la maggioranza elettorale e per via parlamentare, hanno in passato utilizzato quando hanno potuto e per motivi tattici anche la tribuna elettorale per combattere la borghesia e il capitalismo, ma mai nel corso di una rivoluzione e sempre in subordine alla lotta di classe e facendo bene attenzione a non creare illusioni elettorali, parlamentari, riformiste e pacifiste nelle masse. Ben diverso è stato l’atteggiamento dei revisionisti, falsi comunisti. Le masse allora erano attratte dalle istituzioni rappresentative borghesi e dalle novità apportate dal parlamento rispetto alle assemblee delle monarchie, le consideravano degli organismi democratici e non era facile convincerle a non utilizzarle. Oggi, visto che tali istituzioni hanno sempre meno presa sulle masse e sono avvertite come estranee, se non nemiche, e dopo aver verificato che prendendovi parte si finisce col rafforzarle mentre si indebolisce la coscienza rivoluzionaria e antiparlamentare delle masse, noi abbiamo ritenuto necessario abbandonarle e scegliere l’astensionismo come la posizione tattica elettorale migliore e più funzionale alla nostra strategia rivoluzionaria. L’astensionismo ci aiuta a staccare ancor più le masse dal parlamento e dalle altre istituzioni rappresentative borghesi (consigli comunali, provinciali e regionali), ci aiuta a rendere le masse più fiduciose nelle proprie possibilità e a coinvolgerle nella lotta di classe. Per questo noi invitiamo le masse anticapitaliste, astensioniste e fautrici del socialismo, comprese le ragazze e i ragazzi fin dai 14 anni che hanno questo stesso orientamento politico ed elettorale, a creare ovunque in Italia delle proprie istituzioni rappresentative costituite dalle Assemblee popolari e dai Comitati popolari. Le invitiamo cioè a unirsi periodicamente in Assemblea popolare, indipendentemente dai partiti di appartenenza, nel quartiere, frazione di comune o zona rurale in cui risiedono, sotto la direzione del proprio Comitato popolare per stabilire la propria piattaforma politica e rivendicativa, le proprie lotte, attività e iniziative sociali aperte a tutta la popolazione del proprio territorio. Ogni Assemblea popolare deve dotarsi di un regolamento interno in grado di assicurare la propria vita democratica e la propria operatività e deve avere un proprio governo denominato Comitato popolare i cui membri devono essere eletti con voto palese e con mandato revocabile in qualsiasi momento. Esso deve essere composto da un numero paritario di donne e uomini, eleggibili fin dall’età di 16 anni indipendentemente dalla razza, dalla confessione religiosa o dal loro ateismo e dall’orientamento sessuale. Dai Comitati popolari di quartiere, a catena e per elezioni sempre sulla base della democrazia diretta, si passerà ai Comitati popolari cittadini, provinciali, regionali, fino ad arrivare al Comitato popolare nazionale, che rappresenta il governo centrale delle masse anticapitaliste, astensioniste e fautrici del socialismo. Si tratta cioè di creare un’organizzazione politica e istituzionale anticapitalistica delle masse che si contrapponga a tutti i livelli a quella dello Stato borghese. Delle istituzioni rappresentative permanenti delle masse, in cui le masse siano sovrane e attraverso cui possano contrapporre idee, scelte, soluzioni, indirizzi a quelli dei governi ufficiali locali, provinciali, regionali e nazionale. Così da produrre un costante confronto, un braccio di ferro e uno scontro tra istituzioni e linee politiche contrapposte per strappare alle amministrazioni borghesi il massimo possibile di benefici per le masse, specie per quanto riguarda il lavoro, la casa, i servizi sociali, le tasse, le imposte e le tariffe (Dal discorso pronunciato a Napoli il 5 maggio 2001) 8 il bolscevico / elezioni comunali N. 7 - 18 febbraio 2016 Milano Sala, votato dalla destra, vince le primarie PD Majorino, Balzani e Iannetta lo sosterranno rivendicando un posto in giunta. Pisapia sottoscrive l’appello a unirsi attorno al beniamino della borghesia Redazione di Milano Domenica 7 febbraio si è conclusa come da copione la sceneggiata delle votazioni primarie del PD che ha ufficializzato la candidatura a neopodestà di Milano dell’amministratore delegato di EXPO spa, Giuseppe Sala, già designata dal nuovo duce Renzi e fortemente voluta dalla grande borghesia cittadina e nazionale. Hanno partecipato al voto 60mila residenti, 7mila in meno rispetto a cinque anni fa. Quasi 25mila hanno votato per Sala, primo col 42% dei consensi; seguono la piddina attuale vicesindaco e assessore al Bilancio Francesca Balzani (34%), l’assessore PD alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino (23%) e il presidente dell’associazione sportiva Uisp Milano Antonio Iannetta (0,73%). Majorino, Balzani e Iannetta, a caccia di voti per rivendicare un posto nella futura giunta a guida PD, hanno assolto bene al loro ruolo di copertura a sinistra della candidatura predesignata dall’alto di Sala. Con un sapiente gioco delle parti hanno attratto a sé (con programmi “di sinistra” farciti con fantasmagoriche promesse) la maggioranza della base e degli elettori del PD - che certo non simpatizza per il prescelto di Renzi – finendo col garantire la vittoria del loro falso avversario con una maggioranza relativa. A giochi fatti, tutti insieme allegramente, hanno lanciato l’appello: “e adesso tutti uniti per Beppe Sala!”; appello, ovviamente, sottoscritto anche dal neopodestà uscente, l’arancione Giuliano Pisapia. Dal canto loro i potenti sostenitori di Sala hanno comunque dovuto garantirgli una maggioranza di voti alle primarie, seppur relativa. Per fare questo è stato necessario muovere “pacchetti di voti” sicuri, più probabilmente legati a clientelari voti di scambio che mossi da sincere convinzioni politiche. Oltre ai fedelissimi renziani (per scelta o per “obbligo”) tra gli iscritti e i simpatizzanti PD, a votare Sala ci sono contingenti di elettori provenienti da destra: gli ex berlusconiani che fanno capo al plurinquisito e intrallazzatore della cosiddetta P3 Denis Verdini (il quale ha dichiarato ufficialmente il suo “endorsement”); gli affiliati e i clienti della potente lobby politico-affaristica cattolica di Comunione e Liberazione (della quale è socio fondatore Fiorenzo Tagliabue che con la sua società di comunicazione guida le strategie elettorali di Sala); elettori democristiani del Centro Democratico dell’ex assessore al Bilancio Bruno Tabacci dietro il quale si cela la clerico-fascista Opus Dei tramite Giuseppe Garofano (già condannato a 3 anni di reclusione, ai tempi di tangentopoli nel processo Enimont, per finanziamento illecito ai partiti quand’era presidente di Montedison, ed oggi I quattro candidati delle primarie PD uniti nel sostegno al renziano Sala. Nella foto da sinistra: Giuseppe Sala, Antonio Iannetta, Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino presidente della holding di partecipazioni industriali “Alerion”) ed Ettore Gotti Tedeschi (già coinvolto - insieme agli altri vertici dello IOR che presiedeva - in un’indagine della Procura di Roma per supposta violazione delle norme antiriciclaggio), ambedue dichiarati sostenitori di Sala. Ha destato forti sospetti di voto di scambio, inoltre, l’anomala alta affluenza di cittadini cinesi residenti nella zona di Via Paolo Sarpi guidati in gruppo e istruiti a dovere da attivisti connazionali. L’indicazione di voto campeg- giava da giorni sul sito in lingua cinese “huarenjie.com”: “i cinesi di Milano devono tirar fuori la loro forza” in sostegno di Sala, invito corredato da una foto in posa del candidato prescelto e dalla cartina della città con i seggi dove andare a votarlo. Il fatto che molti di loro non avessero nemmeno una basilare consapevolezza per motivare il voto è stato anche rilevato da vari servizi giornalistici come quello del 7 febbraio, edizione delle 13.30 del tg “La7”, che ha persino sorpreso un votante cinese mentre fotografava col cellulare la carta d’identità e il talloncino della scheda che, assieme alla foto (fatta in cabina, ovviamente) della scheda col voto espresso, può fungergli da prova documentale per riscuotere il “premio” pattuito. Sala ha provato a carpire anche i voti dell’elettorato di sinistra, strizzando l’occhio a quello giovanile anzitutto, quando, alla festa di chiusura della sua campagna per le primarie, ha esibito una maglietta con l’effige di “Che” Guevara (icona mai scomoda per la borghesia) promettendo di “ti- rarla fuori quando, a giugno, sarò sindaco della città”. Riteniamo però che sarà difficile che i giovani cedano ai suoi ammiccamenti dato il trattamento che Sala ha riservato a molti di loro durante l’EXPO sfruttandoli a gratis o per quattro soldi, senza diritti, per brevi periodi e senza alcuna prospettiva lavorativa futura. Ai fatti le primarie si sono dimostrate una sceneggiata per dare visibilità al principale partito della “sinistra” borghese e legittimità al suo candidato neopodestà. In esse non sono entrati i bisogni e gli interessi degli operai, dei lavoratori, dei disoccupati, degli studenti, delle donne e dei pensionati milanesi, bensì quelli della grande borghesia nazionale e cittadina. Per noi marxisti-leninisti c’è una sola scelta di classe per bloccare questa pericolosissima convergenza politica interborghese pro-Sala e per delegittimare i vomitevoli intrallazzi per sostenerlo (destinati a estendersi con l’avvicinarsi delle elezioni comunali), negare il voto a tutti i partiti in lizza per Palazzo Marino e quindi delegittimare le corrotte e antipopolari istituzioni borghesi e chi le sostiene. Affinché Milano sia governata dal popolo e al servizio del popolo ci vuole il socialismo e il primo passo in tale direzione è quello di astenersi, disertando le urne, annullando la scheda o lasciandola in bianco. Benedetta da Renzi che nomina sottosegretario l’alfaniano Tonino Gentile PD e NCD verso l’alleanza elettorale a Cosenza se le primarie regionali nel 2014 come espressione della “sinistra” PD contro il renziano segretario regionale Ernesto Magorno e il vendoliano Gianluca Callipo. Questa è una delle ragioni per le quali Renzi dalla Calabria ha portato al governo uomini di Alfano e non del PD, per colpire i “non allineati” a lui e manovrare meglio Oliverio ridimensionandolo. Considerando lo sfascio determinato da Occhiuto e dalla destra tanto a livello comunale quanto ati govern siano opolo muni izio del p lismo é i co rv a Percholo e al se ole il soci op ci vu dal p RE E ASTI NITI responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) I ZION TITU ASSE LE IS LLE M MO MOATIVE DESOCIALIS NO ALIA CRERIA IT ENTRICI DEL A S E ST NI RAPP FAUT MARXISTA-LENI mli.it www.p PARTITO 2 - 5014 iolo, 172a li.it del Pollaissioni@pm Antonio il: comm e-ma ale: Via centr 123164 Sede fax 055.5 Tel. e scheda o lasciarla in bianco) per delegittimare le istituzioni rappresentative borghesi e i partiti e i candidati al servizio del capitalismo, innescando la lotta di classe fuori dalle marce istituzioni locali del regime neofascista, con l’obiettivo strategico di creare le istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo basate sulla democrazia diretta: le Assemblee popolari e i Comitati popolari. ASTENSIONISTI DI SINISTRA, FAUTORI DEL SOCIALISMO, SOTTOSCRIVETE PER IL PMLI TA NON VO RTITI I PA AL SI BORGHEIO DEL SERVIZ LISMO CAPITA miamo Delegittizioni le istitu ntative se rappre si borghe provinciale, il qualunquismo di destra del M5S che ha individuato il suo candidato sindaco in Gustavo Coscarelli con metodi che, al di là delle chiacchiere, con la “democrazia diretta” non hanno nulla a che spartire, è del tutto evidente che per il popolo cosentino alle prossime comunali l’unica alternativa di classe è quella votare per il PMLI e il socialismo impugnando l’arma dell’astensionismo tattico marxista-leninista (disertare le urne, annullare la Committente consolidata e benedetta da Renzi e da Oliverio, sembra dunque cosa fatta. Non è stato trovato ancora il candidato a sindaco, per effetto della lotta di potere interna al PD cosentino, tra vari esponenti del partito: Nicola Adamo (ex uomo forte del PD regionale, marito di Enza Bruno Bossio, deputata nazionale) il quale, travolto da “Rimborsopoli” torna in Calabria dopo ben 7 mesi di divieto di dimora nella regione. Carlo Guccione, ex assessore regionale al lavoro nella prima mini-giunta borghese neofascista e filomafiosa di Oliverio defenestrata dalla “Rimborsopoli” calabrese, che punta sulla candidatura alle primarie di Enzo Paolini, consigliere comunale di FI e “re delle cliniche private”, gradito ai Gentile. Lucio Presta, detto il “signor Rai” (fu indagato per concussione nei confronti di alcuni dirigenti della Rai, è impresario fra gli altri del giullare del regime neofascista, il clericopiddino Roberto Benigni), il quale ha già presentato la sua lista “Amo Cosenza” ed ha dato la sua disponibilità a Renzi per la candidatura a sindaco, ma non ha intenzione di partecipare alle primarie. Giacomo Mancini jr. (nipote dell’omonimo defunto ex segretario del PSI) che ritorna a “sinistra” attraverso Denis Verdini dopo essere stato vicepresidente della nera giunta regionale di Scopelliti e vari altri arnesi rimasti a bocca asciutta sia alla regione che a Palazzo Chigi, cosa dovuta per alcuni di loro al fatto di essere troppo poco “renziani” e troppo vicini ad Oliverio, che vin- in proprio Scopelliti, nella cui giunta Pino Gentile fu assessore ai lavori pubblici. Si consolida poi con la nomina del “cinghiale” a sottosegretario ai trasporti nel neonato governo Renzi nel 2014, anche se in questo caso fu costretto a dimettersi per il vergognoso caso della censura al quotidiano “L’ora della Calabria”. Prosegue quindi con la scelta, alle regionali anticipate del novembre 2014, di NCD e UDC di presentarsi da soli, fuori dal “centro-destra”, col malcelato obiettivo di favorire l’elezione a governatore di Mario Oliverio del PD, con la candidatura a presidente della regione del senatore Nico D’Ascola (eletto, in realtà nominato, in Calabria con il PDL come Gentile e la neosottosegretaria al turismo, oggi NCD, Dorina Bianchi) il quale è stato eletto da poche settimane presidente della commissione giustizia del Senato con i voti del PD. Per quanto riguarda in particolare Cosenza, i Gentile, va ricordato, furono fra i massimi artefici dell’elezione di Occhiuto a sindaco, tanto da riuscire ad imporre Katya Gentile (figlia di Pino) come vicesindaco della città. Occhiuto (nel frattempo passato dall’UDC a FI) la estrometterà però dopo pochi mesi scatenando una guerra con gli ex alleati con tanto di strascichi giudiziari e accuse di “mafiosità” da parte di Occhiuto ai Gentile specie durante la lotta per l’elezione a presidente della provincia vinta per pochi voti contro il sindaco di Rende Marcello Manna, sostenuto anche dai Gentile. L’alleanza anche sul piano amministrativo per la città dei Bruzi, Stampato In vista delle amministrative della prossima primavera prove tecniche del partito della nazione fascista anche a Cosenza. PD e NCD si presenteranno insieme alle elezioni per accaparrarsi la carica di sindaco. Gli effetti di questa alleanza non hanno tardato a emergere: nella notte tra il 6 e il 7 febbraio scorso Mario Occhiuto (FI) sindaco uscente, è stato sfiduciato da 17 consiglieri comunali, tra cui il suo ex fedelissimo presidente del Consiglio comunale Luca Morrone, che hanno presentato le dimissioni alleandosi con Gentile. Occhiuto è anche il presidente della provincia di Cosenza, nominato con i voti dei consiglieri dei comuni della provincia come previsto dalla sciagurata “riforma” Delrio che ha ristretto gli spazi di democrazia borghese. E mentre Cosenza si prepara al commissariamento non è stato individuato ancora il candidato per effetto della lotta fra le varie fazioni interne al PD, per questo motivo si terranno le primarie il 6 di marzo. L’alleanza PD-NCD a Cosenza viene da lontano. Fortemente voluta dal nuovo duce Renzi, che ha da poche settimane nominato il senatore Antonio Gentile detto ‘U Cinghiale’ sottosegretario alle attività produttive, uomo forte insieme al fratello Pino e agli altri suoi familiari dell’NCD di Alfano in Calabria. L’avvicinamento fra la “dinastia politica” dei Gentile (che nasce nel PSI degli anni ’70 a Cosenza all’ombra dell’allora segretario nazionale Giacomo Mancini) e il PD inizia con la condanna per il caso Fallara dell’ex governatore, il fascista mal-ripulito Giuseppe ZE FIREN Il PMLI sta impegnandosi al massimo per sostenere la campagna elettorale astensionista. Si sta svenando economicamente per far giungere la sua voce anticapitalista, contro il regime neofascista e il governo Renzi, per l’Italia unita, rossa e socialista a un maggior numero possibile di elettrici e di elettori. I militanti e i simpatizzanti attivi del Partito stanno dando il massimo sul piano economico. Di più non possono dare. Il PMLI fa quindi appello a tutte le astensioniste e agli astensionisti di sinistra e ai sinceri fautori del socialismo, indipendentemente se voteranno i loro attuali partiti, per aiutarlo economicamente, anche con piccoli contributi da uno a 5 euro. Nel supremo interesse del proletariato e della causa del socialismo. Compagne e compagni astensionisti di sinistra e fautori del socialismo, aiutateci anche economicamente per combattere le illusioni elettorali, parlamentari, riformiste e governative e per creare una coscienza, una mentalità, una mobilitazione e una lotta rivoluzionarie di massa capaci di abbattere il capitalismo e il potere della borghesia e di istituire il socialismo e il potere del proletariato. Consegnate i contributi nelle nostre Sedi o ai nostri militanti oppure inviate i contributi al conto corrente postale n. 85842383, specificando la causale, intestato a: PMLI - Via A. Del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Ogni euro dato per la campagna elettorale astensionista del PMLI è un euro dato per la vittoria del proletariato sulla borghesia e sulle sue istituzioni, del socialismo sul capitalismo, del marxismo-leninismo-pensiero di Mao sul riformismo e sul revisionismo, del PMLI sui falsi partiti comunisti. Grazie di cuore per tutto quello che potrete fare. elezioni comunali / il bolscevico 9 N. 7 - 18 febbraio 2016 L’alternativa non è “Chiara” ma il socialismo La pentastellata Appendino candidata dall’altoI 5alla carica di sindaco di Torino stelle puntano a tranquillizzare la borghesia torinese Dal nostro corrispondente del Piemonte Chiara Appendino, borghese doc dal volto pulito, è la candidata dei 5 stelle per la carica di sindaco della città di Torino. Trentunenne, bocconiana e da poco diventata mamma, la giovane Appendino è sposata con un industriale torinese e ha un incarico dirigenziale nella sua azienda. La sua candidatura, una delle prime a essere ufficializzate lo scorso novembre, è stata e viene tuttora presentata dai media di regime come la vera “novità” nella corsa per Palazzo Civico. Appendino si trova in effetti a sfidare arcinoti caporioni della politica borghese come Piero Fassino, sindaco PD uscente in cerca della rielezione, l’arcirevisionista ed imbroglione Marco Rizzo, che intende usare la campagna elettorale per lanciare il suo falso partitino “comunista” e Giorgio Airaudo, parlamentare di Sel e già sindacalista riformista della Fiom. In mezzo a questi rottami della politica borghese la pentastellata Appendino sta avendo in effetti gioco facile ad autoincensarsi come il “nuovo che avanza” e come moralizzatrice (in un acceso dibattito nella sala consiliare Fassino la ebbe a definire con scherno la “Giovanna d’Arco della pubblica morale”) del corrotto mondo della politica borghese. Una candidatura della borghesia torinese Quella della pentastellata Chiara Appendino è a tutti gli effetti, al pari di tutti gli altri caporioni in corsa per la carica di neopodestà di Torino, una candidatura espressione della borghesia cittadina. Il suo pedigree “doc” è consono al ruolo che, in caso di vittoria, si troverà a rico- prire. Il padre della Appendino, vicepresidente di Prima Industrie e braccio destro di Gianfranco Carbonato che guida Confindustria Piemonte, è di casa nei salotti della borghesia bene di Torino. Degna figlia di tale padre, Chiara, come detto, è dirigente - lautamente stipendiata - nell’azienda del marito ed è considerata un astro nascente nel mondo delle piccole e medie imprese che, a suo dire, rappresentano la vera spina dorsale dell’economia torinese. Non le lavoratrici ed i lavoratori sfruttati bensì i loro sfruttatori borghesi. Ecco chi, secondo la Appendino, deve ricevere il pieno supporto delle istituzioni politiche comunali! Nel suo libro “La città solidale, per una comunità urbana” - considerato dai più come il suo manifesto elettorale - esprime come propria la cultura borghese impregnata di liberalismo e, sul versante economico, esalta il libero mercato e l’“impresa” come valore da difendere ad ogni costo. I suoi punti di riferimento sono l’economista borghese di “sinistra” Keynes ed il nostrano Adriano Olivetti. Soprattutto quest’ultimo - nel migliore stile dell’ipocrita “sinistra” borghese - viene incensato come imprenditore illuminato e filantropo sostenitore dell’interclassista “Movimento Comunità” da prendere come esempio. Inutile dire che la Appendino non fa riferimento alcuno ai crimini di Olivetti che nelle sue aziende, nel corso degli anni ’50 e ’60, esponeva senza precauzione alcuna (nonostante ne fossero già noti i gravissimi rischi) i propri lavoratori all’amianto. Nei trascorsi cinque anni in cui è stata seduta nella Sala rossa come consigliera comunale Chiara Appendino non ha certo brillato né per iniziativa né per risultati. A dispetto delle sue infuocate quanto del tutto sterili discussioni con il neopodestà Fas- sino - le solite polemiche in cui i pentastellati si presentano come i moralizzatori della politica - la Appendino non ha ottenuto neppure il minimo miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari torinesi e neppure è stata capace di denunciare le condizioni di degrado del proletariato cittadino. Nessuna reale contestazione al corrotto sistema politico cittadino al soldo della borghesia torinese - corrotto sistema di cui del resto la Appendino è stata ed è parte integrante - ma soltanto critiche e denunce da quattro soldi per l’affidamento “poco trasparente” di incarichi e consulenze. Anche se il suo programma elettorale non è ancora stato reso noto, Appendino ha subito messo in chiaro che intende mettere al centro della propria agenda elettorale le piccole e medie imprese (anche quella di proprietà di famiglia?) che dovranno ricevere i dovuti supporti dalla politica locale. “Vogliamo valorizzare il commercio e sostenere il tessuto delle piccole e medie imprese presenti sul nostro territorio” questo il punto fermo del programma elettorale della candidata pentastellata. Prevedendo massicci tagli alla spesa per la politica (tagli che, se necessario, investiranno anche la spesa sociale della città?) la Appendino intende ricavare almeno cinque milioni di euro da destinare alle imprese come finanziamenti. Insomma: pieno supporto all’economia borghese cittadina! Ipocrisia grillina all’ombra della Mole Non appena eletta consigliere comunale nel 2011 la Appendino nel corso di una conferenza stampa ha orgogliosamente dichiarato di rinunciare all’indennità mensile di carica - circa duemila euro mensili - dimenticandosi però di aggiungere che l’azienda del marito avrebbe continuato a corrisponderle il suo stipendio di dirigente a titolo di “permesso retribuito”. A fronte di un taglio fittizio dell’indennità la Appendino ha quindi continuato a percepire il suo lauto stipendio da dirigente, pagato dai sacrifici delle lavoratrici e dei lavoratori dell’azienda di famiglia. Che dire poi della sua attuale “candidatura”? Alla faccia della democrazia on-line tanto cara ai grillini la Appendino non si è dovuta sottoporre alle “primarie” del Movimento. Senza alcuna consultazione della base (non era forse questa la forza dei 5 stelle, la “democrazia dal basso”?) è stata scelta all’unanimità dai 250 grandi elettori pentastellati del Piemonte. Forte del suo mandato ricevuto “dall’alto” ha subito messo in chiaro la linea della propria campagna elettorale e, alla pari di ogni borioso borghese che si rispetti, ha dichiarato che avrebbe deciso personalmente la squadra da mettere in lista solo dopo la messa a punto del proprio programma elettorale. Quale la primissima preoccupazione della Appendino? Le masse popolari torinesi e le loro sempre peggiori condizioni di vita? Nulla di tutto ciò! Al pari di ogni politicante borghese ha immediatamente provveduto a silurare il suo concorrente di partito - già candidato sindaco alle scorse elezioni amministrative Vittorio Bertola. Questi, non appena ricevuta la laconica comunicazione che non sarebbe stato messo in lista come vicesindaco, ha dichiarato: “Non mi è piaciuto che la scelta sia arrivata da una riunione di partito chiusa, invece che da un’assemblea aperta per lo meno agli iscritti al portale nazionale: i sostenitori di Appendino hanno scritto un messaggio precotto, con lo stampino, nascondendosi dietro a un dito, a un muro di gomma. L’apparato - lo so è che è una brutta parola - si è appiattito su Appendino”. A fronte di una lista di candidati scelta di persona (forse anche e soprattutto come contrappeso a questo spiccato decisionismo) la pentastellata Appendino ha annunciato di volere introdurre una sorta di bando di concorso pubblico per selezionare gli assessori della sua (in caso di vittoria) giunta. “L’obiettivo è mettere in campo le persone migliori, con le competenze migliori”, ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa. Staremo a vedere chi verrà “selezionato” come assessore della sua potenziale giunta ma possiamo fin da ora scommettere che la modalità di scelta saprà decantare, in modo più o meno pilotato, la “crema” della borghesia cittadina forte dei suoi roboanti titoli accademici borghesi e delle sue prestigiose esperienza professionali in Italia e all’estero. Un bando di concorso pubblico per selezionare gli amministratori? Il criterio scelto è particolarmente grave in quanto riduce ancora di più i già limitati spazi offerti dalla democrazia e dall’elettoralismo borghesi alle masse popolari. Queste saranno del tutto escluse dagli organi di governo borghesi ancora prima delle elezioni farsa, sulla base di criteri meritocratici finalizzati a realizzare un governo locale di tecnocrati ligi agli ordini della borghesia cittadina. L’alternativa per le masse torinesi è il socialismo Per noi marxisti-leninisti non ci sono dubbi, nessun candidato alla carica di neopodestà di Torino potrà offrire il benché minimo miglioramento alle condizioni di vita delle masse popolari torinesi. Il proletariato non deve far- si ingannare. Nessun candidato dei partiti borghesi, men che meno la pentastellata Chiara Appendino, potrà offrire alcuna vera alternativa alla schiavitù salariata a cui la classe dominante costringe. Alla parola d’ordine lanciata dal Movimento 5 stelle per le elezioni comunali: “l’alternativa è Chiara”, le masse popolari torinesi devono rispondere a gran voce che l’unica vera alternativa è il socialismo. Appendino cerca di presentarsi come candidata di “sinistra” e, soprattutto negli ultimi giorni, non ha perso occasioni per rilanciare la propria immagine di “ragazza del popolo” con partecipazioni e comizi improvvisati nei quartieri popolari della città e schierandosi in favore di un “sì” compatto del Movimento 5 stelle al Ddl Cirinnà sulle unioni civili. Chiara Appendino una candidata di “sinistra” per Torino? Certo, se eletta sindaco del capoluogo piemontese sarebbe un’ottima galoppina della corrente di “sinistra” della classe dominante borghese nelle corrotte istituzioni politiche cittadine! No, il proletariato e le masse popolari torinesi non devono dare alcuna fiducia a questa imbrogliona patentata e devono respingere al mittente le sue menzogne imbracciando l’arma dell’astensionismo. Solo delegittimando le corrotte istituzioni rappresentative borghesi negando loro il voto e solo abbracciando la proposta del PMLI di creare le istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo - le Assemblee popolari e i Comitati popolari basati sulla democrazia diretta - le masse popolari torinesi potranno contrastare il dominio della borghesia cittadina, primo e fondamentale passo verso il socialismo con cui potranno avere Torino governata dal popolo e al servizio del popolo. Movimenti a destra e a “sinistra” in vista delle elezioni comunali a Bologna CALENDARIO DELLE MANIFESTAZIONI E DEGLI SCIOPERI FEBBRAIO 9 Cobas pt-Cub-Usb – Poste-Comunicazioni – Sciopero lavoratori Poste Italiane SpA 15 Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl, Uiltrasporti-Uil - Pulizie e multiservizi – Cns, Ciclat, Manital, Manutencoop, Dussmann service,Team Service, Maca e Smeraldo – Sciopero lavoratori servizi di pulizia,ex Lsu, Appalti storici Istituzioni scolastiche Usb-Lavoro Privato – Sciopero personale Trasporto Aereo, Gruppo Meridiana Fly - Esclusione personale Meridiana Maintenance Orsa-Settore Ferrovie - Trasporto Merci - Compagnia Ferroviaria Italiana – Sciopero di tutto il personale mobile di C.F.I. 19 Filctem-Cgil, Femca-Cisl, Uiltec-Uil - Energia e Petrolio – Sciopero lavoratori Eni SpA, Saipem SpA 11 12 SEL spaccata. Nella “Coalizione Civica” anche chi vuole “buttare via le bandiere rosse” Dal nostro corrispondente dell’Emilia-Romagna A 5 mesi dalle elezioni comunali che decideranno la prossima giunta e il prossimo sindaco di Bologna, di sicuro c’è solo la candidatura per il secondo mandato dell’attuale sindaco PD Valerio Merola e quella del raccomandato (da Grillo) consigliere comunale del M5S Massimo Bugani. Alla loro destra e “sinistra” invece ancora nulla di deciso. In Forza Italia vi sono alcuni pretendenti ma Berlusconi giorni fa ha avanzato la candidatura di Vittorio Sgarbi che però sta pensando anche alle comunali di Milano, l’importante è andare a caccia di poltrone. La Lega Nord ha posto subito l’altolà in quanto ha già lanciato la consigliera co- munale in camicia nero-verde Lucia Bergonzoni e il patto FI-Lega prevede che vi siano candidati condivisi in tutte le città. Anche a “sinistra” c’è grande divisione. Prima è stato Mauro Zani, ex dirigente PCI/PDS che nel 2009 non ha aderito al PD, ad annunciare la nascita di “Coalizione Civica”, alla quale aderiscono “Possibile” di Civati, una parte di SEL con i consiglieri comunali Mirco Pieralisi e Cathy Latorre, ex PRC, ex M5S, sindacalisti e alcuni centri sociali con il leader Gianmarco De Pieri che ha dichiarato: “E’ ora di buttare via le bandiere rosse”. Zani lo ha rassicurato: “nel nostro appello iniziale come Coalizione Civica la parola ‘sinistra’ nemmeno c’era”; eppure ha l’o- biettivo di unire tutto ciò che si trova a “sinistra” del PD, fungendo da precursore a livello nazionale. A scompaginare i piani è arrivato Roberto Morgantini, ex responsabile dell’ufficio stranieri della Cgil di Bologna, figura ben conosciuta nel campo sociale, che ha annunciato l’intenzione di creare una lista civica in appoggio al sindaco Merola, che raccoglie un’altra parte di SEL con i consiglieri comunali Lorenzo Cipriani e Lorenzo Sazzini, e punta a prendere consensi nel mondo dell’associazionismo. Come candidato di “Coalizione Civica” inizialmente si parlava di Paola Ziccone, ex direttrice del carcere minorile del Pratello, poi è spuntato Federico Martelloni, professo- re associato a giurisprudenza dell’Alma Mater, ma soprattutto componente della presidenza nazionale di SEL, ma probabilmente sarà l’assemblea di metà febbraio a decidere, o ratificare, la nomina a candidato sindaco. Per Morgantini invece ancora non è stato deciso, o meglio non è ancora stata comunicata l’intenzione di candidarsi evidentemente per non “bruciarsi”, ma di certo vi è l’ingresso nel comitato elettorale di Merola, progetto dal quale dovrebbe poi nascere la lista civica. Frattanto SEL, il partito personalistico di Nichi Vendola, si sta sfaldando come neve al sole, con i suoi eletti e amministratori che si dividono, chi con l’uno chi con l’altro, alla caccia di poltrone. 10 il bolscevico / cronache locali N. 7 - 18 febbraio 2016 In provincia di Forlì-Cesena Congresso dell’Anpi di Bertinoro Branzanti: “Renzi in 2 anni ha fatto quello che Berlusconi non è riuscito a fare in 20 anni”. Un consigliere comunale del PD appoggia l’aggressione all’IS e la “riforma” del Senato Il responsabile dell’Anpi: “è normale che nella nostra associazione vi siano posizioni diverse” Dal corrispondente della Cellula “Stalin” di Forlì Venerdì 5 febbraio si è svolto presso il circolo Arci di Bertinoro il Congresso della locale sezione dell’Anpi in vista del 16° Congresso nazionale che si terrà a Rimini dal 12 al 15 maggio. L’introduzione è stata svolta dal responsabile dell’Anpi di Cesena Furio Kobau che ha illustrato il regolamento e il documento congressuale. Al termine vi sono stati vari interventi, tra i quali quello del compagno Denis Branzanti in qualità di iscritto all’Anpi della sezione. Il compagno ha detto di condividere tutta la parte riguardante l’antifascismo, il dovere dell’Anpi di tramandare la memoria storica, l’opposizione al proliferare di organizzazioni neofasciste, quando invece il documento spazia su altri temi ne viene fuori l’impostazione filo-PD, ad esempio per quanto riguarda le illusioni sull’Unione europea, oppure addirittura la richiesta di un intervento contro l’IS quando in quello scenario è proprio lo Stato islamico che sta facendo resistenza all’aggressione delle potenze occidentali, è invece da apprezzare il sostegno al “No” al referendum confermativo sulla controriforma costituzionale anche se la posizione espressa a riguardo non va abbastanza a fondo nella denuncia della pericolosità che queste modifiche comporteranno, tenendo conto poi che il governo Renzi ha fatto in 2 anni quello che Berlusconi non è riu- scito a fare in 20 anni (Jobs Act, “Buona scuola”, “Sblocca Italia”, ecc.) con le norme attuali, è facile immaginare cosa farà, lui e chi verrà dopo di lui, senza i limiti che la legislazione vigente pone al governo di turno. Un consigliere comunale del PD, al governo della città e iscritto all’Anpi è intervenuto invece per giustificare l’aggressione all’IS e per sostenere la controriforma costituzionale in quanto nella società già vi sarebbero i necessari “contrappesi”, citando ad esempio quella Cgil che oggi non muove un dito contro la cancellazione dei diritti dei lavoratori, a partire dall’articolo 18, e della quale il nuovo Mussolini Renzi ha comunque dichiarato di non interessarsi minimamente. E’ poi intervenuto Walter Pedroni, l’apprezzato responsabile dell’Anpi di Bertinoro che ha riassunto l’attività dell’associazione, limitata anche dal particolare territorio comunale che è molto dispersivo e comprende sia zone di pianura che di collina, dove si trova il centro ma che si sta spopolando. Kobau ha concluso sottolineando come sia normale che in una associazione come l’Anpi vi siano posizioni diverse e quindi anche dibattito, l’importante è che una volta presa una decisione a maggioranza si vada poi tutti nella stessa direzione. Infine sono stati eletti i delegati al Congresso provinciale di Forlì-Cesena. Piazza Lenin, Cavriago (Reggio Emilia), 24 gennaio 2016. Il compagno Denis Branzanti, Responsabile del PMLI per l’Emilia-Romagna, mentre tiene il discorso ufficiale durante la commemorazione di Lenin organizzata da PMLI e PDCI (foto Il Bolscevico) Slogan contro il sindaco Bianco (PD) e l’infiltrazione della mafia nel Consiglio comunale Manifestazione contro la mafia a Catania Provocazione anticomunista del M5S nei confronti del PMLI Le “forze dell’ordine” bloccano l’accesso a palazzo degli elefanti Dal corrispondente della Cellula “Stalin” della provincia di Catania Sabato 30 gennaio un migliaio di manifestanti ha affollato via Etnea per dire no alla mafia e, di riflesso, all’interno della giunta del neopodestà Enzo Bianco (PD). La manifestazione è partita dall’ingresso di Villa Bellini, in via Etnea, e si è conclusa a piazza Università, nei pressi della sede del Comune. Lì, un cordone di “forze dell’ordine” ha bloccato l’accesso ai manifestanti alla limitrofa piazza Duomo e dunque l’ingresso principale di Palazzo degli elefanti. Il corteo, indetto dal coordinamento “Catania libera dalle mafie”, promosso da movimenti, comitati, associazioni – in primo luogo da Gapa (Giovani Assolutamente per Agire) e I Siciliani giovani – ed organizzazioni e partiti politici – tra cui Catania Bene Comune (Prc) e Movimento 5 Stelle, ha iniziato a prendere forma durante l’assemblea svoltasi lo scorso 5 gennaio, in occasione del 32º anniversario dell’assassinio da parte di Cosa nostra di Giuseppe Fava. Il coordinamento, che all’interno della convocazione all’evento, tra l’altro, comprendeva slogan come: “Fuori la mafia dai Palazzi”, “Fuori la mafia dai quartieri”, “Fuori la mafia dalla città”, ha, in verità, dato – volutamente o indirettamente – una declinazione prettamente “antiBianco” alla manifestazione. A verifica di ciò lo striscione che apriva il corteo e che recitava “Fuori la mafia dal Comune” e quello in mano al M5S: “Bianco dimettiti”. Scelta legittimata dall’ultimo scandalo che ha colpito il Consiglio comunale etneo, il quale – a detta della commissione regionale antimafia che il 29 dicembre ha inviato una relazione al riguardo alla Commissione nazionale antimafia – sarebbe infettato da Cosa nostra. Otto consiglieri comunali, cinque dei quali facenti parte della maggioranza, “in campagna elettorale, da candidati, avrebbe- ro ottenuto il sostegno di ambienti malavitosi. Alcuni addirittura parenti e familiari di pregiudicati”. Si tratta di Riccardo Pellegrino (Pdl-opposizione); Erika Marco (Il Megafono-maggioranza); Lorenzo Leone (Articolo 4-maggioranza); Salvatore Giuffrida (Tutti per Catania-opposizione); Salvatore Spataro (Primavera per Cataniamaggioranza); Alessandro Porto (Patto per Catania-maggioranza); Maurizio Mirenda (Grande Catania-opposizione); Francesco Petrina (Primavera per Cataniamaggioranza). Il Consiglio comunale, ad oggi, non ha preso una posizione netta sulla questione. Inoltre, tra i motivi degli attacchi nei confronti del democristiano PD Bianco e della sua giunta, vi sono i silenzi e le mezze verità sussurrate, a denti stretti, dal neopodestà catanese in occasione dell’udienza tenutasi davanti alla Commissione nazionale antimafia il 14 gennaio scorso a Roma. Il tema principale dell’incontro è stato l’intercettazione telefonica del 2013 con l’editore Mario Ciancio Sanfilippo, ai tempi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (dal 2009 e ufficialmente, ma l’ex senatore afferma che, nonostante fossero risaputo ai più, egli non ne era a conoscenza), durante la quale Bianco faceva più di un passo verso l’ex direttore del quotidiano “La Sicilia”. Si trattava del 18 aprile 2013, un giorno dopo l’approvazione del Pua (Piano urbanistico attuativo - Catania sud, ideato da Bianco nel 1999), un progetto da 300 milioni di euro da realizzare alla Playa, su cui aleggia l’ombra della mafia e della speculazione edilizia e che comprende terreni di proprietà di Ciancio (il 30% del territorio interessato dal Piano). Bianco si sarebbe “impegnato” nei confronti di Ciancio e quest’ultimo gli avrebbe garantito il proprio influente appoggio in campagna elettorale, che si sarebbe ufficialmente aperta due giorni dopo? I manifestanti hanno pure fatto Catania, 30 gennaio 2016. Lo striscione di apertura del corteo che chiede l’espulsione dei mafiosi dal comune riferimento all’inchiesta sulla costruzione della nuova darsena del porto di Catania e l’organizzazione di iniziative culturali all’Empire, discoteca sequestrata alla mafia. Tra i manifestanti si parla dello stato di abbandono e degrado in cui versano le periferie della città, si fanno i nomi dei “padroni” di Catania, si parla, si urla contro il già citato Ciancio, contro Costanzo, contro Virlinzi. Imprenditori legati da un filo nero all’amministrazione comunale di turno e a famiglie mafiose come quella dei Santapaola, dei Pillera, degli Ercolano, dei Puntina, dei Mazzei, dei Cursoti, dei Cappello. Tre componenti imprescindibili dello stesso sistema. Diversi, tra i partecipanti e i passanti in un affollato sabato pomeriggio in cui si respira l’imminente festività cittadina della “santa patrona”, non sono convinti dai toni – a dir la verità non particolarmente battaglieri – della manifestazione. Alcuni di questi fanno riferimento ad un sistema malato che vede i mafiosi più importanti a Roma (in parlamento), altri parlano apertamente di rivoluzione, di violenza contro chi opprime le masse popolari: la classe dominante borghese. Il capogruppo del PD al Consiglio comunale Giovanni D’Avola parlerà di 300 manifestanti e di un corteo che strumentalizza la lotta alla mafia per fini elettorali. Sebbene D’Avola sbagli a generalizzare, non si può affermare il contrario in riferimento ad alcune organizzazioni politiche presenti in piazza come Catania Bene Comune, M5S e Sel. Per questi gruppi la campagna elettorale non finisce mai. Per altri, vedi I Siciliani giovani e il suo direttore, le presunte infiltrazioni mafiose all’interno della giunta e la seguente formazione del Coordinamento, rappresentano un’occasione imperdibile per farsi pubblicità. Importante la partecipazione degli studenti delle scuole medie superiori Spedalieri e Principe Umberto. Il PMLI era in piazza con i compagni della Cellula “Stalin” della provincia di Catania. I marxistileninisti hanno subìto una provocazione da parte di un’esponente del M5S la quale, appellandosi ad un fantomatico accordo preso in assemblea dalle organizzazioni promotrici e da quelle aderenti, secondo il quale non si dovevano esporre “simboli di partito” durante la manifestazione, ha – con atteggiamento schizofrenico – chiesto, in un primo momento con garbo, di poter fotografare la bandiera del Partito (come spesso capita ai militanti del PMLI che partecipano alle manifestazioni), dopodiché, forte della “prova”, ha vomitato la sua bile anticomunista contro i compagni, “rei” di non aver rispettato i patti. La provocatrice ha continuato la propria opera di censura di carattere squadrista su Facebook. Qui, all’interno dell’“evento” collegato alla manifestazione, ha postato la foto che ritrae i nostri compagni, diffamandoli. Al di là di qualsiasi ipotetico accordo preso in assemblea, che ne è dell’articolo 21 della Costituzione italiana borghese a cui tanto inneggiano? Per i marxisti-leninisti catanesi, provocazioni di questo tipo, come il recente attacco fascista alla Sede del PMLI in via Padova, rappresentano uno stimolo a far meglio il lavoro politico. Non si può, altresì, non denunciare che certi elementi affermano di lottare contro la criminalità organizzata ma si rendono protagonisti di atteggiamenti tipicamente mafiosi e reazionari. In occasione dell’Anniversario della Battaglia di Cantalupo Convegno sul contributo dei partigiani sovietici alla Resistenza A Genova il 4 febbraio scorso, in occasione dell’anniversario della Battaglia di Cantalupo del 2 febbraio 1945, si è tenuto un convegno organizzato dal Collettivo Genova City Strike e Rete Noi saremo tutto. Si è così voluto ricordare uno degli eposodi più importante della Resistenza in Val Borbera dove perse la vita il partigiano sovietico Fiodor Poletaev e il contributo dei partigiani sovietici nella Resistenza della VI zona operativa. Infatti, furono ben 5 mila i partigiani sovietici che combatterono in Italia al fianco dei partigiani e ben 400 di loro morirono in combattimento. Catturati dall’esercito nazista durante l’Operazione Barbarossa con cui le truppe di Hitler, Mussolini e i loro alleati invasero l’Unione Sovietica nel 1941 - si legge nel volantino che annuncia l’iniziativa -, dopo varie peripezie legate alla loro prigionia giunsero in Italia dove fuggirono dai luoghi destinati loro dall’occupante nazista, nei campi di prigionia, come ausiliari od operai ‘forzati’ nelle fabbriche e si unirono ai partigiani. Oltre trecento combatterono coi partigiani della VI zona operativa in Liguria, formando gruppi anche interamente sovietici, che grazie alla loro precedente preparazione militare e il loro spirito indomito rivestirono compiti delicati: la Brigata italo-russa di sabotaggio, divenuta poi 79ª Brigata d’assalto Garibaldi e di cui il sovietico “Grisha” fu vicecomandante; il distaccamento mortaisti della divisione “Cichero”, che operò al comando del capitano Grigori Acopian, caduto; i distaccamenti Franchi e Peter della divisione “Pinin Cichero”, composti per metà da sovetici, tra cui Fiodor Poletaev. Furono per così dire la punta avanzata dell’Armata Rossa in Europa occidentale combattendo fianco a fianco di chi decise di imbracciare le armi per combattere il nazifascismo. cronache locali / il bolscevico 11 N. 7 - 18 febbraio 2016 Mentre Alfano, De Luca e De Magistris sono univoci circa “sicurezza”, repressione e militarizzazione del territorio Ancora sangue a Napoli nella guerra di camorra L’EX PM CANTONE: “NON BASTANO GLI ARRESTI, SERVE UN PIANO STRAORDINARIO DI RIQUALIFICAZIONE DEL TERRITORIO” Redazione di Napoli Continua la mattanza di camorra che ha visto un gennaio insanguinato e un inizio di febbraio nero con tre omicidi tra Napoli e provincia nella guerra tra i clan per la conquista delle piazze di spaccio di droghe più ambite in città. Da Ponticelli, Forcella e Sanità, il conflitto tra i clan si è spostato e aperto nelle zone di Scampia (considerata la piazza di spaccio più grande d’Europa) e Bagnoli. Si spartiscono il territorio Ben 110 cartelli camorristici che possono contare su 5mila affiliati ma soprattutto su decine e decine di giovani, soprattutto minorenni sottoproletari, cui vengono inculcate l’arroganza e la prepotenza mafiosa. La furia criminale delle vecchie e nuove fazioni che ha già fat- to 7 omicidi - ben 30 dal gennaio 2015 - e decine di feriti dall’inizio di quest’anno, in numerosi agguati perpetrati senza scrupoli, al punto da far ammazzare anche il giovane innocente Maikol Russo nella notte di Capodanno, scambiato per un affiliato ad un clan di Forcella. Una polveriera cui le istituzioni nazionali e locali in camicia nera non hanno saputo porre un ri- medio serio con un piano straordinario che spezzi l’egemonia camorristica in città e che dia lavoro, risanamento delle periferie urbane, riqualificazione dei quartieri popolari. Anzi! Il ministro dell’Interno Alfano convocava una conferenza stampa urgente giovedì 4 febbraio nella quale cianciava di rafforzare il presidio territoriale con la Da parte degli squadristi di Casapound Ennesima aggressione neofascista a Napoli La solidarietà di De Magistris non basta: chiudere immediatamente i covi neofascisti in città Redazione di Napoli Ennesima aggressione dei neofascisti di CasaPound a Napoli. Questa volta le vittime sono alcuni studenti e studentesse del Liceo scientifico “Elio Vittorini” sito nella zona del Rione Alto. Già a novembre una ragazza era stata aggredita con un coltello da alcuni fascisti al Vomero; questa volta invece gli squadristi hanno teso un vero e proprio agguato ai danni degli studenti dello storico liceo napoletano. Nella mattinata di venerdì 29 gennaio una decina di militanti di Casapound hanno provocato alcuni antifascisti fuori la scuola prima picchiando uno studente di 15 anni che, dopo essere stato accerchiato, veniva colpito violentemente da un pugno sferratogli dietro la testa e perdeva i sensi. Successivamente altre intimidazioni e aggressioni, coi neofascisti che iniziavano a distribuire volantini di Blocco Studentesco, organizzazione legata a CasaPound, minacciando gli studenti che li avrebbero menati all’uscita da scuola se avessero reagito. Nonostante la vile intimidazione, studenti e studentesse si sono organizzati e hanno esposto uno striscione che recava la scritta: “Vittorini Antifascista”; all’uscita di scuola la teppaglia fascista si dileguava con la coda fra le gambe per poi riapparire nei pressi del- la testa per un totale di quasi 20 punti di sutura, e sospette fratture in attesa dei risultati della Tac a cui sono stati sottoposti. Il giorno dopo, in solidarietà con i ragazzi aggrediti, diversi centri sociali napoletani hanno dato vita a un corteo che è sfilato per le vie della città chiedendo la chiusura delle sedi fasciste a Napoli. Mentre la destra e la “sinistra” del regime neofascista tacciono sul grave episodio registriamo la dichiarazione di De Magistris che ha condannato l’aggressione agli studenti e delle studentesse del Le mazze degli squadristi di CasaPound la stazione di Rione Alto dove tre fascisti, probabilmente gli stessi aggressori del “Vittorini”, aggredivano, armati di manganelli contrassegnati dalla scritta “decima mas” e martelli, alcuni studenti dell’istituto, prima lanciando bottiglie di vetro e poi colpendoli ripetutamente al volto e alla testa con mazze e martelli, recuperando addirittura oggetti contundenti dalla vetrina di un negozio. Molti passanti difendevano gli studenti antifascisti mettevano in fuga gli aggressori. Il bilancio è di due ragazzi portati in ospedale con referti medici che parlano chiaro: due traumi cranico facciali, ferite e contusioni al volto e sul- Direttrice responsabile: MONICA MARTENGHI e-mail [email protected] sito Internet http://www.pmli.it Redazione centrale: via A. del Pollaiolo, 172/a - 50142 Firenze - Tel. e fax 055.5123164 Iscritto al n. 2142 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze. Iscritto come giornale murale al n. 2820 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze Editore: PMLI chiuso il 10/2/2016 ISSN: 0392-3886 ore 16,00 “Vittorini” rimarcando che “Napoli è la città della Resistenza per cui sono inaccettabili queste aggressioni squadriste, i nostri studenti devono essere difesi: non c’è spazio per questo tipo di atteggiamenti, comportamenti e azioni”. Ma ora non bastano più solo le parole, occorre passare ai fatti: l’impegno del sindaco e della giunta arancione deve essere teso a chiudere tutti i covi neofascisti a Napoli, cominciando da quelli collegati alla teppaglia di Casapound e dei suoi protettori. solita formula tipica del regime neofascista: aumento delle “forze dell’ordine” e militarizzazione di Napoli con posti di blocco, decine di videocamere e più facilità nell’effettuare arresti (“ci sono 440 uomini in più a Napoli, possiamo controllare 60mila cittadini”); inoltre avanzava una proposta di riforma del codice con abbassamento dell’età punibile a 16 anni per fermare i minori criminali (“rifuggiamo dall’ipocrisia: un ragazzo di 16 anni sa esattamente la gravità del reato che compie, quindi l’età per la punibilità deve essere abbassata”), invece di compulsare il governo del nuovo duce Renzi a porre un argine alla dilagante descolarizzazione a Napoli e provincia. Sul progetto videocamere, inoltre, Alfano promette che “entro l’estate saremo al 100% coprendo anche zone come i decumani e il centro storico”, confermando la piena disponibilità della giunta regionale dell’ex neopodestà di Salerno, Vincenzo De Luca, a mettere i soldi per realizzare il tutto. In linea con la ricetta di sicurezza e repressione di Alfano è stato il neopodestà De Magistris: “sono molto soddisfatto del metodo con cui si sta lavorando a Napoli, della sinergia con tutte le istituzioni, dalla magistratura alle forze dell’ordine, al prefetto e naturalmente al governo Renzi con il ministro Alfano. A Napoli vogliamo più presenza delle forze dell’ordine perché c’è bisogno di un rafforzamento che dia serenità a tutti i cittadini”. Degne di sottolineatura le affermazioni del presidente dell’Autorità anticorruzione, l’ex pm an- ticamorra Raffaele Cantone, che a “Il Mattino” di domenica 7 febbraio ha parlato di “piano sociale straordinario” per Napoli e Campania: “nell’hinterland napoletano il reddito dichiarato, ufficiale, è tale per cui dovremmo essere alla tragedia o alla guerra civile. Invece il tenore di vita è accettabile, spesso decisamente alto. Un miracolo? No, il risultato della persistenza di un welfare parallelo, un anti-Stato che si insinua nel disagio sociale, tra i ragazzini che lasciano la scuola, nelle famiglie dove gli adulti hanno perso il lavoro e i giovani non lo trovano”. E continua: “nella chiave dello sviluppo, della crescita è importante che si voglia sbloccare Bagnoli, è importante che arrivino grandi nomi come la Apple, ma non basta: io dico che serve un vero, grande piano straordinario: servono infrastrutture, serve favorire una crescita armonica del territorio, perché il problema non riguarda solo Napoli ma la sua immensa area metropolitana”. Parole che sono diametralmente opposte a quelle del nuovo triumvirato Alfano-De Luca-De Magistris che sulla questione dei quartieri popolari e periferici ben si guardano anche solo dal trattare argomenti come risanamento o riqualificazione. Per Napoli, invece, soprattutto da quando da un anno è diventata città metropolitana, servono lavoro, sviluppo, industrializzazione con salari uguali al Nord ma anche servizi e trasporti pubblici, risanare l’ambiente cominciando da Bagnoli, cancellare il precariato, il lavoro nero, lo schiavismo degli immigrati e sradicare la camorra e le nuove emergenti baby-gang. Comunicato del Forum toscano dei movimenti per l’acqua I sindaci insistono a regalare ai privati la gestione dell’acqua e continuano a calpestare i referendum del 2011 Riceviamo e volentieri pubblichiamo. È’ notizia di pochi giorni fa: alla riunione del CDA di Publiacqua spa è stato presentato e approvato, con il solo voto contrario del Comune di Pistoia, un piano di potenziamento gestionale e organizzativo dell’azienda: il sistema ACEA 2.0. In altri termini, un rinnovo della piattaforma tecnologica, da realizzare entro l’anno 2016, su cui sono state convogliate ingenti risorse già nel corso del 2015. Quella che appare come una notizia interessante solo dal punto di vista tecnico-gestionale o tutt’al più inerente la sfera economicofinanziaria, ha in realtà dei risvolti politici di notevole portata: si regalano ad ACEA dati e know-how, elementi fondamentali per la sua scalata dell’azienda idrica. Ci troviamo quindi ancora una volta a registrare nell’atteggiamento dei Comuni, l’indifferenza, l’ignavia, il vero e proprio favore al “privato”, ai suoi interessi speculativi e di mero profitto. Perché il rischio reale è quello di ritrovarsi a constatare, nel 2021, a fine concessione, che Publiacqua è divenuta un guscio vuoto, a cui il socio privato ha sottratto strumenti e professionalità, pregiudicando quindi in modo grave, il dovere di ripubblicizzare il servizio, come richiesto nel 2011 da 27 milioni di italiani/e. Quando, agli inizi degli anni 2000, i Comuni presero la sciagurata decisione di affidare la gestione del servizio idrico alla spa Publiacqua, la società aveva una propria unità organizzativa e gestionale, con tutte le competenze necessarie e un organico di quasi 800 dipendenti, come sotto- linea l’USB dell’azienda. Oggi, settori del lavoro vengono appaltati a ditte esterne, si disperdono le competenze, si riduce il numero degli addetti. E cambiamenti analoghi stanno investendo anche le altre aziende idriche toscane che vedono ACEA nella propria compagine sociale: Acque spa e Acquedotto del Fiora spa. La fusione delle tre società, paventata ormai da tempo, non si è ancora realizzata nella forma ma è già in atto nella sostanza. Allora, sindaci, soci di Publiacqua spa e membri dell’Autorità Idrica Toscana, dove siete? La gestione privatistica e speculativa del servizio idrico, portata avanti negli ultimi 15 anni, fa registrare esosi aumenti delle tariffe, a fronte di una qualità dell’acqua sempre più scadente, di una depurazione mancante, insufficiente o addirittura dannosa, di perdite esorbi- tanti delle reti. Ancora dobbiamo richiamarvi alla vostra responsabilità e al dovere di rispettare la volontà popolare? E questo ben prima della scadenza del 2021. Voi non solo state rimandando qualsiasi presa di posizione a quel termine ma supinamente accettate nel frattempo qualsiasi colpo di mano del vostro socio privato, a danno di un bene comune. Ultimo atto: dare il vostro assenso alla dispersione del patrimonio umano, professionale, gestionale di Publiacqua. Tacete nei CDA dell’azienda, farete altrettanto in AIT? L’Autorità lascerà che impunemente questo ulteriore scempio si consumi? Forum Toscano dei Movimenti per l’Acqua 8 febbraio 2016 12 il bolscevico / contributi, lettere e corrispondenze N. 7 - 18 febbraio 2016 All’attivo della FLC CGIL di Firenze Messa in discussione la proposta del nuovo Statuto dei lavoratori che rischia di appiattirsi sulla precarizzazione del lavoro Quasi all’unanimità è stato chiesto di votare NO al referendum sulla “riforma” del Senato Venerdì 5 febbraio la FLC CGIL di Firenze ha convocato un attivo presso la propria sede per le R.S.U., le T.A.S. e gli iscritti. L’argomento della convocazione era la presentazione del nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori che il direttivo nazionale della CGIL vuol varare come proposta di legge e sulla relativa consultazione straordinaria degli iscritti. Ha aperto il dibattito la segretaria provinciale dell’FLC poi un dirigente dello SPI ha presentato la proposta di Statuto come la ricostruzione dei diritti perduti e l’allargamento degli stessi anche a nuove tipologie di lavoratori. Lo Statuto insomma, dopo l’avvento del Jobs Act, è ritenuto l’unica e più moderna forma di tutela, sarebbe ormai impossibile ritornare alla forma originaria dell’articolo 18 della legge 300, in considerazione del fatto che “i tempi sono cambiati”. Finita la presentazione ho deciso di intervenire subito cercando di aprire il dibattito sulle molte contraddizioni che contiene questa proposta chiedendo se non fosse quantomeno pericoloso e controverso affidare questa Roma, 25-10-14. Un milione di lavoratori in piazza per la manifestazione nazionale della CGIL (foto ll Bolscevico) proposta di legge al parlamento italiano, fautore per l’appunto del Jobs Act. Ho fatto presente anche che nel nuovo Statuto si definisce la tipologia del contratto a tempo indeterminato quale “forma principale del rapporto di lavoro” e che anche il Jobs Act definisce il contratto a tutele crescenti come tale; quindi perché nello Statuto non se ne chiede l’abolizione, visto che di fatto ha sancito la fine del lavoro stabile? Ho fatto presente inoltre che le nuove forme di lavoro sono nate per consentire ai padroni e allo Stato di non applicare i contratti nazionali e che normando forme di lavoro precario, quale il tempo determinato o, peggio, il contratto di somministrazione, non si finisca per legittimarle, accettando il mare di flessibilità che in questi decenni si è riversato sulle lavoratrici e sui lavoratori. Ho fatto presente infine come nell’interesse di tutti ci sia il bisogno di buoni contratti di lavoro e di uniformità di trattamento per tutti i lavoratori della stessa categoria e che proponendo maggiore contrattazione di secondo livello, anche se subordinandone i contenuti al CCNL, si finisce per depotenziare quest’ultimo. Quindi ho chiesto perché nello Statuto non si pretenda e si rivendichi che il senso e la funzione del diritto al lavoro non possano essere altro che il lavoro stabile, a salario pieno e sindacalmente tutelato per tutti. Comunicato dell’Unione per l’Ateismo Antireligioso e il Comunismo Sovietico Il 27 gennaio ricordiamo l’immane lotta del popolo sovietico per la liberazione dell’umanità dal nazifascismo Riceviamo e volentieri pubblichiamo in ampi estratti. Il 27 gennaio, l’Armata Rossa, e precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arriva nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz). Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Koniev, raggiungono il complesso di AuschwitzBirkenau-Monowitz. Verso le 15 i soldati sovietici abbattono i cancelli del campo di sterminio e liberano circa 7.650 prigionieri. In seguito ad una risoluzione del 2005, l’ONU ha stabilito il 27 gennaio come giorno in cui ricordare lo sterminio, da parte dei nazifascisti, di circa 6 milioni di ebrei (ovvero il cosiddetto Olocausto o Shoah), in Italia denominato “Giorno della memoria”. Ma che proprio in questa data l’Armata Rossa liberò il campo di sterminio di Auschwitz, la maggior parte dei media si guardano bene dal ricordarlo. Il cosiddetto “Olocausto” viene cinicamente usato da 60 anni dagli Stati Uniti, dall’Europa, da Israele, da Hollywood e da potentissime lobby economiche e politiche, per coprire le complicità delle potenze occidentali nei confronti di Hitler (in chiave antisovietica) e per nascondere lo spaventoso sterminio perpetrato dai nazifascisti nei confronti dell’URSS: 27 milioni di morti e un immenso territorio devastato, con 70 mila città e paesi distrutti, 30 mila fabbriche rase al suolo, 25 milioni di persone senza più una casa. Noi, in questa data vogliamo ricordare l’immane lotta del popolo sovietico per la liberazione dell’umanità dal nazifascismo, mentre rifiutiamo le celebrazioni ufficiali, un micidiale strumento di mistificazione storica e di propaganda politico-religiosa al fine di perpetuare la tirannia cristiano-capitalistico-borghese sul mondo. Quello che non ci viene mai detto: Auschwitz I–Stammlager (lager principale), fu per lo più riservato all’eliminazione di intellettuali polacchi e prigionieri di guerra sovietici; Auschwitz II Birkenau–Vernichtungslager (campo di sterminio), anch’esso inizialmente usato per il genocidio dei prigionieri di guerra sovietici, venne poi utilizzato soprattutto per lo sterminio degli ebrei. All’Eterno disonore dei genocidi nazisti che con disumana ferocia realizzarono lo sterminio di intere nazioni. All’Eterna gloria dell’Armata Sovietica, che il 27 Gennaio 1945 liberò Auschwitz. All’Eterno ammonimento contro i seguaci del fascismo e del nazifascismo. (Dall’atto di erezione del Monumento Internazionale delle Vittime del Nazifascismo costruito nei pressi del campo di concentramento di Auschwitz) Nel corso della seconda guerra mondiale, secondo le ultime stime, morirono tra i 27 e i 30 milioni di sovietici. Per fare un esempio è come se venisse cancellata, in un sol colpo, quasi metà della popolazione italiana. Solo tra il 1941 e il 1942, nel giro di otto mesi, l’esercito tedesco invasore uccise deliberatamente per fame, freddo ed esecuzio- ni sommarie, da 2,5 a 3,3 milioni di prigionieri di guerra e cittadini sovietici. Questo autentico genocidio, volutamente nascosto e ignorato dai paesi occidentali, rappresenta il più grande sterminio di massa della storia umana, concentrato nello spazio di poco tempo. L’Operazione Barbarossa di Hitler puntava al rovesciamento del primo stato operaio e contadino nella storia dell’umanità, per imporre un sistema brutale di schiavitù e sfruttamento coloniale delle popolazioni sovietiche. Le condizioni nei campi di prigionia erano atroci. Non c’erano baracche o protezioni, i campi erano solo recinti da filo spinato. I prigionieri giacevano sotto il sole, nel fango autunnale o con temperature che raggiungevano i 30 gradi sotto zero. A centinaia morivano tutti i giorni e venivano buttati in immense fosse comuni. Lo sterminio di massa per fame era stato programmato in anticipo dai comandi dell’esercito nazista. Si ricorse anche allo sterminio di massa tramite i lavori forzati, che provocò la morte di centinaia di migliaia di donne sovietiche. Molti prigionieri vennero fucilati o impiccati, molti morirono nei campi di concentramento ed usati come cavie per esperimenti scientifici. Tutto questo è stato deliberatamente tenuto nascosto dagli americani in funzione antisovietica. UAACS - Unione per l’Ateismo Antireligioso ed il Comunismo Sovietico E come mai nello Statuto non si propone più il ritorno alla forma originaria dell’art. 18 della legge 300, la più tutelante in assoluto, prima della manomissione della Fornero e, appunto, del Jobs Act di Renzi. Ho domandato alla platea, in considerazione delle sistematiche estromissioni dai tavoli contrattuali di tutti i sindacati da parte del governo, se non fosse il caso di cambiare interlocutore, che per il sindacato è sempre il lavoratore e non lo Stato e i padroni che sono sempre stati sua controparte. Infine, ho chiesto perché nel nuovo Statuto si abbia come conseguenza l’abbandono definitivo della mobilitazione dei lavoratori che in passato ha portato a tutte le conquiste sindacali, in primis allo Statuto originario del 1970. Ho chiuso ricordando che nell’autunno 2014 i lavoratori si erano presentati a Roma in più di un milione; la CGIL sarebbe meglio che ripensasse a mobilitarci con vere ed efficaci forme di lotta. Dalla sala ho ricevuto molti applausi mentre dalla dirigenza CGIL solo silenzio. La discussione è continuata e altri interventi hanno appoggiato il mio estendendo il dibattito alla “riforma” costituzionale voluta dal nuovo duce Renzi che prevede di minare la democrazia nel nostro paese, come da piano della P2 di Gelli. Su questo argomento, i lavoratori hanno chiesto quasi all’unanimità che anche la CGIL faccia fronte comune al referendum per bloccare le riforme di stampo fascista. Mi auguro che questo mio intervento sia stato di stimolo per i lavoratori della scuola pubblica presenti. Con i Maestri e il PMLI vinceremo! Massimo Pontassieve (Firenze) Con i Maestri riusciamo sempre a capire le cose I testi, nuovi ma anche scritti vari anni fa, del compagno Segretario generale, Giovanni Scuderi, come tutto quanto pubblica “Il Bolscevico”, sono sempre ricchi di considerazioni importantissime quanto attuali, veri insegnamenti come quelli dei Maestri. Mi riferisco naturalmente anche al testo del 1985 (dicembre, terzo Congresso nazionale del PMLI, riportato ne “Il Bolscevico” n. 6/2016 con il significativo titolo “Abbiamo il dovere di appoggiare il movimento antimperialista anche se alla sua testa ci fossero degli anti marxisti-leninisti”. Il compagno Segretario ci ricorda che “Nel sostegno e nell’aiuto ai popoli in lotta non dobbiamo guardare tanto a chi guida il movimento ma la direzione in cui si muove tale movimento. Se esso va nella direzione giusta se cioè indebolisce e toglie spazio a una delle due superpotenze o a tutte e due (allora la situazione storica era diversa, come ricorda opportunamente la nota apposta tra parentesi, oggi forse diremmo alle superpotenze in genere, includendo gli USA, la Russia e la Cina socialimperialista) e all’imperialismo in generale, se porta alla liberazione nazionale e all’indipendenza dei paesi, noi abbiamo il dovere di appoggiarlo risolutamente e senza riserve”. Cita poi alcuni esempi tratti da Stalin, nel 1924, (in “Principi del leninismo-Questioni del leninismo”, edito nel 1997 a cura dell’Ufficio politico del PMLI, libro da “divorare” e poi da rileggere continuamente e approfondire sempre), attualissimi anch’essi, riferiti all’Afghanistan e all’Egitto, allora in una condizione ap- punto antimperialista, segnatamente anti-colonialista. Che tali movimenti, di ispirazione monarchica quello afghano e borghese quello egiziano, fossero per così dire “ne fait rien à l’affaire”, ossia non importa nulla, visto appunto il fine antimperialista da raggiungere. Ciò vale “sorprendentemente” bene anche oggi, considerando l’antimperialismo dell’IS, che sarà anche intriso di integralismo islamico, ma certamente mette in crisi gli imperialismi: quello USA, quello europeo e quello russo e disturba quello di una Cina che di comunista non ha più nulla da decenni. Con i Maestri (tra cui includo in pieno anche il compagno Scuderi) riusciamo sempre a capire meglio le cose, a “ritrovare terra” rispetto alle fate morgane dell’utopia. Suonano particolarmente attuali anche le parole di Scuderi nella chiusura del testo: “Il piccolo borghese ultrasinistro non può certo capire tali indicazioni ideologiche, politiche e tattiche di Stalin, perché egli sogna un movimento di liberazione ‘puro’, ‘tutto proletario’ che non esiste e non potrebbe esistere” (testo citato). Affermazioni validissime e verificabili oggi come più di trent’anni fa. L’ultrasinistro piccolo borghese (che spesso tende al radical-chic) non capisce la realtà perché rimane nelle nebbie e nelle secche dell’utopia, non avendo contezza della contraddizione fondamentale, ossia della dialettica tra le classi. Eugen Galasso - Firenze Viva solidarietà al PMLI di Catania Esprimo viva solidarietà e forte condanna del vile atto di provocazione fascista a Catania contro il PMLI. Domenico - Catania Comunicato del “Coordinamento Nazionale Autoferrotranvieri 27 marzo 2015” Lottiamo uniti a fianco dei lavoratori dell’ILVA Riceviamo e volentieri pubblichiamo in ampi estratti I lavoratori del settore trasporti, Autoferrotranvieri, Ferrovieri, Marittimi, Aereoportuali, organizzati dai sindacati autonomi che partecipano al Coordinamento Nazionale Autoferrotranvieri 27 marzo 2015, sono al fianco dei lavoratori metalmeccanici dell’Ilva che in questi giorni di concitata lotta sono impegnati nella difesa dei livelli occupazionali nello stabilimento di Genova. La vicenda Ilva segna l’emblema della arroganza padronale e la sudditanza delle istituzioni ai grandi poteri economici e finanziari di un Paese in cui gli imprenditori ricevono ogni sorta di agevolazione e aiuti, mentre per contro sfruttano i lavoratori per poi disfarsene a proprio piacimento quando la congiun- tura economica non è proficua o quando le regole non sono asservite al loro tornaconto. Il governo invece di richiamare l’azienda alle proprie responsabilità verso i lavoratori e verso il territorio, asseconda prepotenze e soprusi, alleggerendo le responsabilità di disastro ambientale come a Taranto, oppure come a Genova agevolando i ricatti sulla testa dei lavoratori, un teatro vergognoso a cui anche molte sigle sindacali si sono prestate e inchinate. In questo quadro di ingordigia e spregiudicatezza, l’accordo di programma firmato da governo, parti sociali e azienda, in verità già sufficientemente umiliante per i diritti e per le aspettative dei lavoratori, diventa nuovamente oggetto di contrattazione e speculazione. Con lo stesso cinismo oggi si sta smantellando anche il servi- zio di trasporto pubblico, svendendo ferrovie, trasporto aereo e aziende di trasporto pubblico locale, sempre al miglior offerente, facendo cassa sui diritti dei lavoratori e dei cittadini. È il momento di dire con forza che fabbriche e servizi sono dei lavoratori e dei cittadini! Lottiamo fianco a fianco per riprenderceli, contro una prospettiva di umiliazione e sfruttamento che altrimenti ci travolgerà tutti, mobilitandoci in lotte trasversali a tutti i settori. Sosteniamo i lavoratori dell’Ilva! Noi ci siamo! SLAI COBAS TPL, CUB Trasporti, COBAS lavoro privato, ORSA TPL Genova, USB TPL Genova, CAMBIA-MENTI M410, ADL COBAS trasporti, SLS Padova, Coordinamento Nazionale Autoferrotranvieri 27 marzo 2015 2 il bolscevico / documento dell’UP del PMLI stampato in proprio - committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] www.pmli.it N. 3 - 22 gennaio 2015 14 il bolscevico / esteri N. 7 - 18 febbraio 2016 Un crimine del regime fascista di al-Sisi, grande amico di Renzi Assassinato al Cairo il giovane ricercatore Regeni Ucciso con un colpo alla testa dopo 7 giorni di sevizie Rompere le relazioni diplomatiche con l’Egitto Il ministro degli Interni egiziano Magdi Abdel Ghaffar il 9 febbraio in una conferenza stampa al Cairo respingeva qualsiasi accusa contro le sue forze di polizia per la morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano assassinato nella capitale e il cui corpo era stato ritrovato il 3 febbraio sul ciglio della strada verso Alessandria. Regeni “non è mai stato arrestato. Vi sono troppe voci riprese sulle pagine dei giornali che insinuano il coinvolgimento delle forze di sicurezza nell’incidente”, dichiarava Ghaffar “non accettiamo che si facciano false insinuazioni, questi non sono i metodi degli apparati di sicurezza dello Stato”. Che invece sono noti per sequestrare, incarcerare, torturare, uccidere e far sparire i cadaveri degli oppositori, senza procedere nemmeno a un formale arresto. Come sono stati palesi i tentativi della polizia di fornire false informazioni e depistaggi sulle cause della morte del giovane, dall’incidente stradale al delitto a sfondo sessuale. Dall’inizio del 2014, secondo la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, sono state almeno 120 le morti in carcere riconducibili a maltrattamenti e violenze da parte degli agenti penitenziari mentre in un rapporto diffuso nel luglio 2015, Human rights watch segnalava centinaia di sparizioni, soprattutto di oppositori politici, attivisti e giornalisti scomodi per mano delle autorità egiziane. Nel corso del 2015, l’Egyptian Commission for Rights and Freedom, organizzazione indipendente egiziana ideatrice della campagna Stop Enforced Disappearance, ha registrato oltre 1.700 scomparsi, una media che supera i quattro al giorno. Molti “spariscono” nella rete di centri di detenzione segreti, detenuti senza che nessuno sappia dove sono, senza la formalizzazione delle accuse e senza il diritto all’assistenza di un avvocato, dove vengono interrogati e spesso torturati. Un numero cresciuto tra l’altro dopo che il generale Magdi Abdel Ghaffar, un veterano dei servizi di sicurezza egiziani, è diventato ministro dell’Interno lo scorso marzo. In questa rete potrebbe essere finito Regani “scomparso” nel centro del Cairo il 25 gennaio, il quinto anniversario dell’inizio della rivolta di piazza Tahrir che riuscì a porre fine al regime di Mubarak, oggi sostituito a tutti gli effetti da quello di al Sisi. Nei giorni dell’anniversario della rivolta ci sono state nella capitale egiziane oltre 6.000 perquisizioni, retate e qualche migliaio di arresti fra i membri dell’opposizione, denunciava Human Rigets Watch, di 490 dei quali non ci sono ancora notizie. Probabilmente Regani è finito in una di queste retate, certamente torturato e ucciso come risulta dalle brutali le- I due amiconi Matteo Renzi e Abdel Fattah al-Sisi nell’incontro bilaterale di Sharm el-Sheikh del 13 marzo 2015 sioni rilevate nella prima autopsia condotta in un ospedale italiano al Cairo. Non finirà tra i desaparecidos e il suo cadavere sarà abbandonato sulla strada tra il Cairo e Alessandria probabilmente in seguito alle proteste per la sua sparizione. In una intervista dell’8 febbraio il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni affermava che “non ci accontenteremo di verità presunte, vogliamo che si individuino i reali responsabili e che siano puniti in base alla legge”. “L’Egitto è un nostro partner strategico - ribadiva il ministro - e ha un ruolo fondamentale per la stabilizzazione della regione. Questo non ci ha mai impedito di promuovere la nostra visione del pluralismo e dei diritti umani. Qui però ci troviamo di fronte a un problema diverso, cioè il dovere dell’Italia di difendere i suoi cittadini e pretendere che, quando essi sono vittima di crimini, i colpevoli vengano assicurati alla giustizia. Questo dovere vale tanto più nei rapporti con un Paese alleato come l’Egitto”, guidato dal generale golpista al Sisi, grande amico del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi. Renzi è stato da subito tra i più forti sostenitori di al Sisi; dopo il golpe del 3 luglio 2013 che depose il presidente islamista Mohammed Morsi e l’investitura del generale a presidente con le elezioni del 26 maggio 2014, Renzi è stato il primo leader occidentale a volare al Cairo il 2 agosto successivo a stringergli la mano. In una intervista dell’8 luglio 2014 a al Jazeera Renzi affermava che “in questo momento l’Egitto può essere salvato soltanto dalla leadership di al Sisi, questa è la mia opinione personale. Sono orgoglioso della nostra amicizia e lo aiuterò a proseguire nella direzione della pace perché il Mediterraneo senza Egitto sarà senza dubbio un posto senza pace”. Il 2 agosto era al Cairo, in qualità di presidente di turno dell’Unione Europea, e ripeteva che “abbiamo non solo il piacere e l’amicizia di una storica collaborazione fra i nostri due paesi, ma un destino comune e la mia presenza qui riconosce alla leadership egiziana un ruolo cruciale per la stabilità dell’area e il futuro delle nuove generazioni”. Non era quindi un caso che al Sisi per la sua prima visita ufficiale nella Ue sia passato prima di tutto da Roma il 24 novembre 2014 e che il successivo 13 marzo 2015 Renzi sia stato l’unico premier del G7 presente al forum economico di Sharm el Sheikh, dove affermava che “sosteniamo la sua visione, la sua lotta alla corruzione e il suo lavoro per la stabilità. L’Egitto può andare avanti in un processo di consolidamento istituzionale. L’Egitto affronta le crescenti minacce del terrorismo, rimanendo attaccati al rispetto della libertà. La stabilità dell’Egitto è la nostra stabilità, non soltanto per questa area del mondo. Apprezziamo la leadership e la sagezza di alSisi, soprattutto per quanto riguarda la Libia. Rinnovo l’impegno dell’Italia a lavorare con lei per portare avanti una soluzione alla crisi siriana e alla crisi libica”. Il legame tra l’Italia imperialista di Renzi e il regime fascista di al Sisi è sempre più stretto, viaggia anche sul rafforzamento degli scambi economici tanto che fra non molti giorni l’Italia attraverso l’Eni firmerà con l’Egitto un accordo per lo sfruttamento di un giacimento di gas nel Mediterraneo, un contratto che vale 7 miliardi di dollari solo per i primi 3 anni. È uno dei legami necessari a sostenere tra l’altro le ambizioni interventiste italiane in Libia. La vicenda dell’assassinio del giovane ricercatore italiano ha se non altro messo in primo piano questo sporco legame e indicato che occorre al contrario rompere le relazioni diplomatiche con l’Egitto. Inviato di Obama visita Kobane Più stretta la collaborazione militare tra l’imperialismo americano e i curdi nel nord della Siria contro l’IS Per la prima volta, quantomeno in maniera ufficiale, una delegazione della santa allean- za contro lo Stato islamico (Is), quella della coalizione guidata dagli Stati Uniti è entrata in ter- ritorio siriano e il 31 gennaio ha incontrato a Kobane i rappresentanti dei curdi siriani. Lo ha reso Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus) Più di mille i civili morti nei raid russi in Siria e 238 bambini In un rapporto pubblicato il mese scorso, aveva denunciato che “centinaia di civili” erano stati uccisi dagli attacchi aerei russi compiuti contro aree residenziali. Sia Amnesty International che Human Rights Watch avevano denunciato l’uso nei raid russi anche di bombe a grappolo e avevano accusato Mosca di avere compiuto “crimini di guerra”. Il bilancio delle vittime civili cadute sotto le bombe di Putin dall’inizio dell’intervento russo in Siria il 30 settembre scorso era calcolato dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus), un organismo che ha sede in Gran Bretagna e conta su una rete di informatori in Siria, secondo il quale sono 1.015 i civili uccisi, dei quali 238 bambini e ragazzi minorenni. Una recente immagine di Aleppo (Siria) sotto i bombardamenti russi noto l’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus) che ha documentato l’incontro della delegazione guidata dall’inviato speciale del presidente Obama per la lotta all’Is, Brett McGurk, e da due rappresentanti francese e britannico, con rappresentanti delle Forze democratiche siriane, uno dei gruppi che ricevono il sostegno diretto dagli Usa. Stando a altre fonti l’inviato di Obama ha incontrato anche rapresentanti delle Ypg, le Uni- tà di difesa popolare del Partito dell’Unione Democratica (Pyd) che, supportate dai bombardamenti aerei Usa, sono state protagoniste della difesa della città dall’attacco delle forze dell’Is. I rappresentanti curdi non sono tra gli invitati dei meeting imperialisti sulla Siria, tenuti fuori dalla Turchia. Il che comunque non ha impedito ai rappresentanti della coalizione imperialista la visita a Kobane, una visita che intanto simbolicamente riconosce l’importanza delle formazioni dei curdi siriani contro l’Is e va verso una più stretta collaborazione militare tra l’imperialismo americano e i curdi nel nord della Siria. Collaborazione che insieme a quella di recente offerta anche dall’imperialismo russo non vanno certo a vantaggio della legittima richiesta dei curdi siriani di avere uno Stato autonomo e il diritto di autodeterminazione del popolo curdo, che noi sosteniamo Il papa appoggia l’Iran di Rouhani nella lotta contro l’IS Il presidente della Repubblica islamica d’Iran, Hassan Rouhani, il 26 gennaio scorso, nella seconda giornata del suo viaggio in Italia si è recato in Vaticano dove si è intrattenuto con il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, accompagnato dal segretario per i Rapporti con gli Stati, monsignor Paul Gallagher e successivamente ha avuto un’udienza privata con papa Francesco. In un bollettino diffuso al termine dei colloqui la Santa Sede spiegava che durante l’udienza si era affrontato il tema dell’applicazione dell’accordo sul nucleare e “si è rilevato l’importante ruolo che l’Iran è chiamato a svolgere, insieme ad altri Paesi della Regione, per promuovere adeguate soluzioni politiche alle problematiche che affliggono il Medio Oriente, contrastando la diffusione del terrorismo e il traffico di armi. Al riguardo, è stata ricordata l’importanza del dialogo interreligioso e la responsabilità delle comunità religiose nella promozione della riconciliazione, della tolleranza e della pace”. Al netto delle questioni strettamente religiose la nota del Vaticano metteva in evidenza l’appoggio del papa all’Iran di Rouhani nella lotta contro la “diffusione del terrorismo”, leggi lo Stato islamico, il nemico comune della Santa alleanza imperialista benedetta da Francesco. unione europea / il bolscevico 15 N. 7 - 18 febbraio 2016 Abolito di fatto lo spazio Schengen Europa blindata contro i migranti Frontiere ripristinate dalla Macedonia alla Scandinavia. La Svezia annuncia espulsioni di massa. La Danimarca confisca i beni ai profughi. Minacciata di espulsione la Grecia perché non respinge i barconi in Egeo Il vertice europeo in programma il prossimo 18 febbraio ha tra i principali punti all’ordine del giorno l’esito del negoziato per la permanenza nell’Unione europea della Gran Bretagna e il punto sull’attuazione delle decisioni in merito alla crisi migratoria e dei rifugiati. Un appuntamento al quale i 28 paesi della Ue arriveranno con una serie di soluzioni adottate ciascuno per conto proprio che di fatto aboliscono lo spazio Shengen, la libera circolazione delle persone, e presentano un Europa blindata contro profughi e soprattutto migranti. Il 25 gennaio a Amsterdam il vertice dei ministri degli Interni dell’Ue ha discusso della proposta della Commissione di creare un corpo europeo di guardie di frontiera con cui controllare i flussi migratori, un controllo alle frontiere esterne. La soluzione sarebbe quella di blindare, o meglio cercare di blindare le frontiere esterne col contributo di tutti i paesi membri e non solo di quelli posizionati sul confine, Italia, Grecia e Spagna in primis. Se si chiudono le frontiere interne tutto il peso dell’accoglienza di profughi e rifugiati tra l’altro cadrebbe su di loro e ovviamente questi paesi sono contrari anche alla sola sospensione di Shengen. Chi sta geograficamente dietro propone altre soluzioni come alcuni dei sei paesi dell’area Schengen che hanno attualmente in corso i controlli alle frontiere interne, dalla Francia che le ha chiuse in seguito agli attacchi di novembre a Danimarca, Germania, Austria, Norvegia e Svezia che hanno chiesto alla Commissione europea di avviare la pro- cedura per il prolungamento di questi controlli. Lo rendeva noto il segretario di stato olandese Klaas Dijkhoff al termine del vertice che annunciava la richiesta di attivazione “dell’articolo 26 del codice Schengen”, quello che prevede la concessione di proroghe di sei mesi ciascuna fino a un massimo di due anni. Tra l’altro a maggio scade il blocco alle frontiere attivato da Austria e Germania. Se non tengono le frontiere esterne si ripristinano quelle interne, o si cacciano dall’area Shengen i paesi di frontiera che non tengono i profughi in attesa dello svolgimento delle pratiche di identificazione e smistamento. Nel frattempo tornano le frontiere dalla Macedonia alla Scandinavia e la Grecia è minacciata di espulsione perché non respinge i barconi in Egeo. Toccava al Commissario Ue per le Migrazioni, il greco Dimitris Avramopoulos, smentire la discussione sull’ipotesi della Grecia fuori da Schengen mentre il ministro spagnolo FernandezDiaz affermava che non c’è la volontà di isolare la Grecia, sarebbe oltre che “politicamente inaccettabile” anche “inapplicabile” dato che sarebbe di fatto irrealizzabile controllare le frontiere sulle oltre 400 isole della Grecia. “La sospensione di Schengen o l’esclusione di un Paese da Schengen sono due possibilità che non esistono”, sosteneva la portavoce dell’esecutivo comunitario, Natasha Bertaud, che provava a chiudere la questione, almeno per il momento, in attesa del rapporto della Commissione sul funzionamento di Schengen nei diversi paesi dell’Unione. Secondo Profughi ammassati all’addiaccio in Austria indiscrezioni sul documento sembra che la Grecia sarà bocciata e riceverà una serie di raccomandazioni con le misure da prendere per ripristinare il controllo delle frontiere; se la misura funzionerà entro tre mesi, l’allarme sarà cessato altrimenti diventa molto probabile la chiusura delle frontiere interne per due anni. La Svezia non solo è tra i paesi che hanno ripristinato i controlli ma ha annunciato espulsioni di massa tra i profughi che hanno raggiunto il paese. Il ministro degli Interni svedese, Ygeman Anders, rendeva noto che il governo ha deciso di respingere 80 mila delle 163 mila domande di asilo ricevute e di voler avviare il programma di espulsioni tramite voli charter che potrebbe durare motli anni. Senza tenere di conto che in mancanza di accordi specifici con i paesi di provenienza dei profughi il rimpatrio è impossibile. La decisione del governo di Stoccolma ringalluzziva i gruppi nazisti e xenofobi che il 29 gennaio organizzavano la spedizione punitiva di oltre un centinaio di persone, vestite di nero e con un cappuccio sulla testa, nella stazione centrale della capitale picchiando gli immigrati e distribuendo volantini con minacce di “punizione” ai “bambini nordafricani“. Sotto lo sguardo complice della polizia. In Danimarca, che nel 2015 ha ricevuto 21 mila richiedenti asilo, il governo di destra dopo aver chiuso le frontiere decideva di confiscare i beni ai profughi. Come facevano i nazisti con gli ebrei. Il Parlamento danese ha approvato il 26 gennaio con 81 voti favorevoli, 27 contrari e un astenuto tutte le proposte del governo, fra le quali quella della confisca di denaro e oggetti di valore oltre 1.300 euro “per contribuire alle spese di mante- nimento e alloggio” e dell’estensione a tre anni del periodo necessario per poter procedere alla richiesta di riunificazioni familiari. Il via libera ai provvedimenti, che annunciati nel novembre scorso avevano sollevato diverse proteste anche nel paese, era venuto il 12 gennaio con l’intesa tra il Venstre, il partito liberale del primo ministro Lars Løkke Rasmussen, e i suoi partner di destra, il Partito popolare danese (df), l’Alleanza liberale e il Partito popolare conservatore, cui si erano vergognosamente accordati anche i socialdemocratici all’opposizione. La pratica delle confische ai profughi è già impiegata in Svizzera e nei Laender tedeschi di Baviera e Baden-Württenberg, tanto che all’annuncio del governo danese la Commissione affermava che la confisca dei beni ai richiedenti asilo “è compatibile” con la normativa internazionale “solo se è proporzionata e necessaria”. Il leader dei laburisti olandesi Diederik Samsom, il cui partito è il principale della coalizione di governo, affermava che in futuro si può pensare a rimpatriare i richiedenti asilo non accolti con i traghetti e non nei paesi d’origine, mancando quasi sempre gli accordi bilaterali per i rimpatri, ma in Turchia, “non appena la situazione dell’accoglienza ai rifugiati sia migliorata in quel paese”. Certo al momento, secondo Human Rights Watch la situazioni dei profughi in Turchia non è assolutamente accettabile sotto il profilo igienico e dell’accesso a servizi fondamentali quali la sanità e l’istruzione di bambini e adolescenti e l’Europa “ha solo deciso di esternalizzare il problema in cambio di denaro”, i tre miliardi di euro che arriveranno a Ankara. Il regime di Erdogan potrà contare sui finanziamenti aggiuntivi della Ue ma nel frattempo non sta con le mani in mano; secondo un rapporto dell’organizzazione no profit Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc) le fabbriche turche di alcuni grandi marchi della moda internazionale sfruttano i bambini e i rifugiati siriani. Secondo l’organizzazione sarebbero centinaia di migliaia i rifugiati siriani che lavorano con stipendi inferiori al salario minimo consentito, soprattutto in fattorie e aziende agricole nelle aree più remote del paese. Esperti del Centre for Middle Eastern Strategic Studies (ORSAM) parlano di almeno 250 mila rifugiati siriani che stanno lavorando illegalmente in Turchia, ben il 10% circa dei 2,5 milioni di profughi censiti ufficialmente. Un favore ai responsabili del Dieselgate e alle grandi case automobilistiche La UE raddoppia il limite minimo di inquinamento da polveri sottili Il parlamento europeo approva la modifica del regolamento sugli ossidi di azoto infischiandosene degli impegni di Parigi Che le emissioni di NOx dei veicoli diesel fossero ben diverse da quelle dichiarate lo si sapeva bene anche prima, tuttavia è stato il caso Volkswagen che ha reso la pantomima visibile a livello globale. Adesso dalla pantomima si passa alla legalizzazione di un vero e proprio abuso. Nonostante il Dieselgate quindi, vincono le auto e perdono i nostri polmoni e l’ambiente. Ormai senza più remore, il parlamento europeo ha sancito la sua fedeltà alla lobby manipolatrice e ricattatoria dell’industria automobilistica e non ha trovato la forza necessaria per respingere una proposta della Commissione europea volta a diluire e a rinviare di molti anni l’obbligo di rispettare i limiti sulle emissioni dei motori diesel. I parametri, definiti in un regolamento del lontano 2007, sarebbero dovuti entrare in vigore per tutti i nuovi modelli nel settembre del 2015 fissando lo standard delle emissioni dei veicoli Euro 5/6 a un limite massimo di 80 mg / km per le emissioni di ossidi di azoto (NOx) da veicoli diesel, rilevati su strada. Il 19 maggio scorso, il Comitato tecnico Europeo dei veicoli a motore (Tcmv) ha approvato il regolamento attuativo (Rde) che prevedeva l’introduzione dal gennaio 2016 di test di sperimentazione su veicoli in strada, con dispositivi portatili di misura delle emissioni (Pems); lo stesso Comitato però, composto da rappresentanti dei governi e della stessa Commissione Europea, ha adottato anche un ulteriore regolamento che prevede l’introduzione di un “fattore di conformità” per determinare i limiti da non superare. In sostanza è questo il ”cavallo di troia” che vanifica per molti anni a venire e forse irrimediabilmente i già ampi limiti di legge previsti, consentendo a tutti i veicoli diesel venduti sul mercato Ue e fino al 2021, di superare del 110 per cento il limite di NOx – (sostituendo il valore limite di 80 mg / km con 168mg / km) – e del 50 per cento dopo il 2021 – (cambiando il limite da 80mg a 120 mg / km). La Commissione Ambiente dell’Europarlamento ha contestato la decisione del Comitato ma per bloccare il tutto ci sarebbe stato bisogno di un voto a maggioranza qualificata della plenaria del Parlamento europeo (375 voti). Presidente di tale Commissione è il forzista LaVia che, a dispetto della decisione della maggioranza dei deputati della sua Commissione, ha dichiarato come molti altri esponenti del suo partito e della destra europea che la Commis- sione stessa vuole mettere ”i tappi ai tubi di scappamento e fare chiudere le fabbriche”. In pratica, impunemente, si continua a legiferare con lo stesso vergognoso, opportunista e purtroppo comune ricatto che fu anche dell’ILVA di Taranto quando all’esplodere dello scandalo, gli addetti ai lavori quasi si giustificavano dicendo che c’era spazio “o per il lavoro, o per la salute”. Stavolta, grazie anche al solerte lavoro di molti governi, incluso il nostro schierato a spada tratta con i costruttori, nella sessione di Strasburgo del 3 febbraio, non si sono trovati i 375 voti necessari ad adottare la contestazione e la norma è passata. Insomma, non è sembrato un argomento convincente per 323 deputati il fatto assodato secondo il quale l’inquinamento al diossido di azoto, dovuto principalmente alle emissioni di ossido di azoto (NOx) dei veicoli diesel, sia l’esclusivo responsabile di 75.000 morti premature in Europa ogni anno; in questo ambito, proprio l’Italia detiene il triste primato internazionale. Tra gli artefici dell’ennesimo regalo alle multinazionali figurano 21 europarlamentari italiani, fra i quali il già citato Presidente della commissione ambiente LaVia, la coordinatrice alla Commis- sione Ambiente Elisabetta Gardini, entrambi di Forza Italia, gli altri forzisti Lorenzo Cesa, Alessandra Mussolini ed Antonio Tajani (PPE), Raffaele Fitto (ECR), il nazista Borghezio ed il razzista e fascista Salvini del gruppo capeggiato dalla fascista Marie Le Pen, Enf (Europa delle azioni e delle libertà). Fra gli altri 61 membri che si sono astenuti appoggiando di fatto la misura, spicca il nome di Simona Bonafè, relatrice Pd della direttiva sull’economia circolare, e dei PD Caterina Chinnici, Silvia Costa, Luigi Morgano e Michela Giuffrida a testimoniare l’assoluta unità d’intenti, seppur con strategie stavolta differenti, fra PD e Forza Italia. Di fatto in aula i popolari hanno guidato compatti la battaglia per alzare i limiti, mentre è significativo che il sedicente fronte composto da verdi, socialisti, sinistra unitaria, liberali e cinque stelle, non abbia trovato unanimità neanche nell’opposizione. Astenuti anche tutti i britannici dell’Ukip che insieme con i grillini formano il gruppo Efdd. Il messaggio dunque è chiaro. Dopo lo scandalo Volkswagen, nonostante le nostre città siano assediate dallo smog, nonostante il mezzo milione di morti premature e i 940 miliardi di costi all’anno, per il parlamento europeo è meglio alzare i limiti invece che rispettare le norme e la salute pubblica e l’ambiente; limiti che essi stessi sono tuttora il compromesso fra i profitti delle case produttrici e salute e ambiente pubbliche che tende da sempre a favorire gli interessi delle prime a spese dei secondi. Una “scelta assurda e insensata che va contro la salute dei cittadini e l’ambiente. Un vero e proprio condono che premia i furbi e non l’innovazione e la qualità, solo a favore delle lobby automobilistiche”: così ha commentato il direttore generale di Legambiente, Stefano Ciafani. Molti quotidiani si interrogano sul perché ciò è potuto accadere proprio a poche settimane dalla conclusione della Cop21 di Parigi e da uno scandalo planetario come il Dieselgate Volkswagen, e con le città assediate dallo smog; la denuncia della stampa di regime trasuda però di retorica poiché com’è possibile chiedersi senza dare una risposta che appare fin troppo chiara sul perché le massime istituzioni europee sono così vilmente sotto il ricatto delle case automobilistiche e delle lobbies di settore? La verità è che c’è incompatibilità fra gli interessi del capitalismo ed il reale rispetto della natura, dell’ambiente e della salute pubblica, così come per il soddisfacimento dei reali bisogni e interessi delle popolazioni. A distanza di due mesi siamo di fronte all’ennesimo fallimento delle direttive e degli impegni di Parigi registrando l’ennesima truffa politica sulle tematiche ambientali, a conferma che a poco servono i proclami in coro conditi di belle parole e dagli scarsi contenuti, di cui fanno vanto le massime istituzioni europee e i politicanti di regime; nello stesso tempo, ancora una volta, dobbiamo prendere atto di un altro regalo alle multinazionali, gentilmente concesso dai rappresentanti di governi compiacenti e disposti a tutto pur di rimanere saldamente lacchè al soldo di esse. Quell’ Europa “vicina alle persone” che paiono inseguire anche i rappresentanti delle più grandi associazioni ambientaliste, non potrà mai realizzarsi nel capitalismo perché è il capitalismo stesso che crea e forma istituzioni e governi a esso funzionali e quindi amici della speculazione e del profitto e nemici dei bisogni delle popolazioni, incluso quello di vivere in un ambiente sano e rispettato, che possa aiutare il progresso umano con le sue risorse e nello stesso tempo rigenerarsi completamente svolgendo quel ruolo che la natura stessa gli ha attribuito. Perché i comuni siano governati dal popolo e al servizio del popolo ci vuole il socialismo NON VOTARE I PARTITI BORGHESI AL SERVIZIO DEL CAPITALISMO Delegittimiamo le istituzioni rappresentative borghesi PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] www.pmli.it Stampato in proprio CREIAMO LE ISTITUZIONI RAPPRESENTATIVE DELLE MASSE FAUTRICI DEL SOCIALISMO Committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) ASTIENITI
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