Frontiere N. 2 . 2009 - Shanthi
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Frontiere N. 2 . 2009 - Shanthi
Anno VIII N. 2/2 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I. Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000 2/2 2009 EDITORIALE Il mondo salvato dai dilettanti MILLE E UNA NOTTE Le Vie dei Venti Racconti di “malati” di viaggi Il viaggio: un riflesso della propria anima Etiopia: La misura del “Tetto dell’Etiopia” Uganda: Edward Lake, mare d’Uganda Perù: Maria Rwanda: Pillole di solidarietà L’ANIMA DEL VIAGGIATORE Club Magellano Quale Tibet? Un pensiero africano DOSSIER Argonauti Explorers L’ARCIPELAGO DELLA SONDA Un ponte tra i continenti Le isole dei draghi Megalitica Sumba Cerimonie a Sumba e Flores ITINERARI INSOLITI Argonauti Explorers Panama viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini FRONTIERE ihtnahS inimou ilged erret ellen àteiradilos id iggaiv ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati. www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911 CLUB MAGELLANO - Torino Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza? Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia. Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina) ITINERARI AFRICANI - Cuneo L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania. Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721 LE VIE DEI VENTI - Varese L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti. www.asiaroad.it – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente) MULA MULA - Pontoglio (Bs) Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel. Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected] OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non ha perso di vista la filosofia dell’Associazione. E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli) SOMMARIO Mille e una notte: racconti di malati di viaggi - Le vie dei venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’anima del viaggiatore - Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dossier: L’arcipelago della Sonda - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Itinerari insoliti: Panama - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 2 pag. 9 pag. 12 pag. 18 pag. 20 In copertina: Indonesia: Uomo di Sumba - Nusa Tenggara. Foto di Roberto Pattarin (Sondrio) All’interno foto di: Sandro Bernes, Marina Buratti, Giovanni Busetto, Renato Civitico, Giulio Gorini, Werner Kropik, Clara Monzeglio, Carlo Onofri, Roberto Pattarin, Marco Pierli, Gianluca Torrente, Erik Viani. F RONTIERE Editoriale IL MONDO SALVATO DAI DILETTANTI di Marco Di Marco “Quando consideriamo la società più ampia al di fuori dell’ambito della scienza, vediamo dei dilettanti svolgere funzioni essenziali in quasi tutti i campi dell’attività umana. I musicisti dilettanti creano la cultura nella quale potranno fiorire i musicisti di professione. Gli atleti dilettanti, gli attori dilettanti e gli ambientalisti dilettanti migliorano la qualità della vita, propria e altrui. [...]. La frazione della popolazione formata da dilettanti è una buona misura della libertà di una società”. Sono parole di Freeman Dyson, grande scienziato e spirito libero - non a caso anche filosofo “dilettante” - in una riflessione sul rapporto tra scienza e società sviluppata al di fuori di ogni conformismo accademico. Che cosa c’entra questo discorso con una rivista legata soprattutto alle tematiche del viaggio? Una risposta la si può trovare riflettendo sui contesti sempre più complessi e nuovi in cui si muove il moderno viaggiatore. Il cambiamento climatico, la questione ambientale, i mutamenti economici, sociali e culturali che investono Africa, Asia ed America Latina, la globalizzazione, le nuove reti di comunicazione, sono tutti fenomeni che vanno a comporre un quadro quanto mai dinamico, per “navigare” dentro al quale non bastano più al viaggiatore gli strumenti tradizionali. Come andiamo da tempo dicendo, il viaggiare deve sempre di più farsi culturale, e nel facilitare questo approccio si inserisce, nel suo piccolo, la mission della nostra rivista. Una rivista amatoriale, “dilettante”, nel senso magistralmente enunciato dallo scienziato-filosofo Dyson. E dilettante, di sicuro, il viaggiatore lo è, il più delle volte. Può essere antropologo dilettante, naturalista dilettante, archeologo dilettante, cooperatore dilettante, giornalista dilettante, poeta dilettante, scrittore dilettante, ambientalista dilettante ... Anticipando in certi casi i professionisti. Senza trascurare il fatto che la situazione del viaggio permette spesso, anche a chi viaggia con motivazioni di tipo specialistico, di non rifugiarsi in una dimensione elitaria, cercando invece una feconda contaminazione tra professionismo e dilettantismo. Alla luce di queste considerazioni il viaggiatore curioso e attento dovrebbe essere considerato - chiedo scusa per il temine così abusato - una risorsa per la società. In particolare, questo Occidente, questa Europa, questa Italia tutta raggomitolata su se stessa e sulle sue idiosincrasie, tutti dovrebbero tenere in maggior conto la sua esperienza, chiedendogli anzi di farsi osservatore attento e poi relatore delle dinamiche in atto nel mondo, di cui noi tutti facciamo parte e con cui siamo sempre più interconnessi. Nei prossimi numeri “Frontiere” cercherà di proporsi, ancor più che nel passato, come un collettore di esperienze tese a cogliere i cambiamenti che, nel bene o nel male, stanno trasformando il nostro mondo. E’ nostra intenzione partire da un tema che sicuramente a chi viaggia sta molto a cuore: la bellezza del nostro pianeta e l’impegno a difenderlo. Ciò significa che su “Frontiere” assumeranno un rilievo via via crescente i momenti di riflessione e documentazione dedicati al tema dell’ambiente. Con un invito ai nostri amici: partite per i prossimi viaggi riservando uno sguardo particolare a questo specifico aspetto, per poi proporci, lo speriamo, le esperienze così acquisite e le riflessioni successivamente elaborate. Quello autunnale di Frontiere è sempre un numero particolare: essendo scritto da viaggiatori, la sua preparazione coincide con le settimane immediatamente successive al ritorno dall’avventura estiva. E’ una fase sempre molto delicata che per ognuno di noi si gioca tra il reinserimento nelle occupazioni - e preoccupazioni - usuali e la rielaborazione dell’esperienza, appena conclusa, del viaggio. E, per chi ha già viaggiato assai, alla bellezza del ricordare si associa di tanto in tanto una sensazione di stanchezza, di difficoltà a pensare nuove mete. Ma, come abbiamo detto, il mondo cambia, ed anche i luoghi che abbiamo visto nel passato non sono più gli stessi. E noi stessi siamo cambiati e, quindi, abbiamo ancora tutto un mondo da scoprire, in noi e al di fuori di noi. F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi IL VIAGGIO: UN RIFLESSO DELLA PROPRIA ANIMA di Gianluca Torrente Il tormentato scenario dell’Acrocoro etiopico, un tramonto africano su un lago dove la fatica si stempera nella felicità, un temporale ed una bambina, una strada di solidarietà ed un padre, l’inaugurazione di una chiesa rwandese ed un’amica scomparsa … il viaggio ed il riflesso della propria anima nei paesaggi e nelle persone che l’occhio man mano incontra. Nei racconti che seguono ci sono tutti i nostri viaggi compreso il mio errare per l’alto Pamir ed il deserto di Taklamakan, luoghi dove ho girovagato quest’estate. Shaymak: una decina di case in un deserto mummificato a circa 4000 metri d’altezza nel sud del Pamir. A sud lo stretto corridoio di Wakhan in territorio afgano è talmente vicino da poterlo raggiungere comodamente a piedi. Pochi chilometri oltre s’ergono le montagne dell’Hindu Kush, una enorme muraglia che ci fa già immaginare il vicino Himalaya e che ci separa dal Pakistan. A est e a sud-est il confine con il Xinjiang cinese da dove scintilla la candida cima del Muztagata, un bianco panettone di oltre 7500 metri che contrasta con l’esteso deserto del Taklamakan poco più a nord. In questa vasta distesa desolata schiacciata fra i fianchi delle montagne, uno spettrale fondo roccioso ospita Shaymak. Se non fosse per le sfuggenti ombre dei suoi abitanti che appaiono strisciare per un attimo lungo i bianchi muri delle poche case, nulla farebbe pensare alla vita. Eppure basta entrare in una abitazione e subito l’odore della sua umanità ti riempie le narici: ambienti chiusi dove la penombra contrasta con il cielo che fuori non smette di essere di un blu intenso, artificiale, come se un polarizzatore filtrasse la luce continuamente. Un vecchio kirghizo con la barba fluente e gli occhi che appaiono fra due strette e lunghe fessure, offre da bere e mangiare. Racconta in russo storie che appartengono alla quotidianità dei nomadi interrompendosi in lunghi silenzi ogni qual volta deve raschiare la gola. Capisco una parola su quattro, ma mi basta per fantasticarne il significato. Bevendo il latte di capra inizio a immaginare la yurta in cui il kirghizo ancor giovane usava trascorrere l’estate. Pochi attimi e la vecchia jeep sovietica, una volta “arruolata” nell’Armata Rossa, Tajikistan - Bambino kirghizo di Shaymak - Gianluca Torrente (Varese) mi porta in una yurta sita a 20 minuti da Shaymak. Il vecchio kirghizo scende dalla jeep e corre ad afferrare due bimbi che improvvisamente sollevano lo spesso strato di feltro della propria abitazione. Intorno un uomo e una donna continuano a svolgere mansioni che si perdono nella notte dei tempi: la donna intenta a battere il latte contenuto in un otre in pelle, l’uomo a spazzolare un cavallo. Sembrano non curarsi della presenza di estranei: forse il vecchio ne ha già portati altri o forse più semplicemente non ne hanno il tempo perché il freddo vento invernale sta per sferzare quella terra aspra e desolata che non si fa a meno di inghiottire. Brevi immagini di una quotidianità che la macchina fotografica cattura, più rapida della mente. Shaymak, un luogo fuori dal mondo o forse siamo noi che da tempo ne siamo ormai usciti. 2 Tajikistan - Vecchio kirghizo di Shaymak - Gianluca Torrente (Varese) F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi QUANTO È ALTO IL “TETTO DELL’ETIOPIA” di Giulio Gorini Non conoscevo i monti Simien in Etiopia, e non sapevo che lì ci fosse una delle montagne più alte d’Africa, il Ras Dashan o Ras Degien (come è chiamato nella lingua locale, l’amarico). La scoperta avvenne grazie a un incontro con Marco Viganò, un visionario varesino animato dal desiderio di misurare o, per meglio dire, rimisurare l’altezza di questa montagna con mezzi più precisi di quelli adottati nel 1837 e nel 1936. Marco, presentandomi questo suo sogno, toccò in me le corde giuste, perché amo le montagne e le civiltà che si sono sviluppate in questi ambienti talvolta estremi, e anche perché avevo avuto un’impressione molto piacevole dell’Etiopia qualche anno prima, quando mi era capitato, quasi per caso, di andarci una prima volta. Avevo avuto la sensazione di un paese vitale e ricco di umanità e cultura. In me la voglia di tornare c’era - c’è ancora - mancava solamente l’occasione giusta. Così, ascoltando Marco che parlava non solo della misurazione e del cammino tra le montagne, ma soprattutto di questa parte d’Africa e di quelle popolazioni, che lui conosceva bene per esserci vissuto alcuni anni, capii che era questa l’occasione giusta per ritornare. I monti Simien (o Semien) si trovano nella parte nord dell’Etiopia, nella regione di Ahmara, e fanno parte di un parco nazionale protetto e classificato dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Sono montagne insolite, per me abituato al paesaggio alpino, caratterizzate dal susseguirsi di guglie appuntite che superano i 4000 metri e da vertiginosi dirupi, veri e propri precipizi che sembrano senza fine. Questa successione frastagliata di valli e cime poggia sull’Altipiano etiope, già alto più di 2000 metri. Nel periodo delle piogge o in quello immediatamente successivo - i mesi di settembre/ottobre - il colore predominante è il verde intenso delle steppe di alta quota punteggiato dal giallo brillante dei fiori di campo e dal rosso pallido combinato al giallo intenso dei fiori della lobelia. Di lobelie esistono anche esemplari giganti con una folta chioma verde sostenuta da un fusto che può raggiungere i due metri. Queste piante, insieme ai boschi di erica arborea, punteggiano il paesaggio della fascia più bassa, sotto i 3500 metri. A quote ancora più basse, intorno ai 3000 metri, villaggi e campi coltivati si inerpicano sui pendii. La vita non è per niente facile, le case sono poco più che capanne e la costruzione più solida e accogliente sembra essere la chiesa, presente in tutti villaggi. L’unico aiuto è dato dai buoi, che sotto la guida dell’uomo rivoltano con un aratro arcaico i fazzoletti di terra rossa strappata alla montagna. Oltre all’uomo ci sono numerose creature del regno animale, come lo stambecco del Simien e la volpe etiopica, en- trambi endemici di quest’area. Si vedono inoltre molti uccelli di piccole dimensioni, ma anche maestosi come il Gipeto, un grande avvoltoio che elegantemente volteggia tra le cime e i precipizi. Gli animali più facili da vedere ed incontrare sono anche i più insoliti, come i babbuini Gelada, grosse scimmie dal pelo folto. Non è stato difficile osservarli da vicino, non sembravano molto impauriti, forse perché su queste montagne non hanno predatori. Vivono e si spostano in branchi di parecchie decine di esemplari, ed incontrarli in questo ambiente afro-alpino fa davvero impressione. E così, con una decina di persone variamente interessate alla misurazione, al trekking tra i monti Simien e all’Etiopia, arriviamo ad Addis Abeba all’inizio di settembre del 2007. Per il calendario giuliano, adottato da millenni dalla chiesa cristiana ortodossa etiope e da tutta la nazione, i primi di settembre sono anche gli ultimi giorni dell’anno ed il nostro 2007 è per gli Etiopi il 1999. L’11 settembre si entra nel nuovo millennio. Dopo un lento avvicinamento alle montagne, pensato non solo per acclimatarsi ma anche per ammirare i molti luoghi di interesse storico e naturalistico di questa parte dell’Etiopia, come l’area di Ankober, Lalibela, il lago Tana e Gondar, arriviamo al villaggio di Debark ai piedi dei Simien. Questa lentezza ci ha anche consentito di familiarizzare con il modo di vivere della gente, la loro cultura, il loro cibo, e ci ha offerto l’opportunità di partecipare ai festeggiamenti per il Capodanno e per il nuovo millennio. A Debark, punto di ingresso del parco, organizziamo gli aspetti pratici del trekking: le guide, i muli per il trasporto dei viveri e delle tende e i cuochi per avere un pasto caldo la sera. Al villaggio c’è anche l’incontro con Jerome, il cartografo francese coinvolto da Marco per effettuare in maniera precisa e professionale la misurazione. L’apparato strumentale è costituito da due ricevitori/misuratori professionali che capteranno i codici trasmessi via radio dalla costellazione di satelliti del sistema GPS. Uno dei due strumenti è stato posto in un punto geografico di cui si conosce la quota precisa, l’altro sarà collocato sul punto da misurare (la vetta del Ras Dashan). Lasciando i ricevitori/misuratori GPS sui due punti per alcune ore, e successivamente confrontando e integrando i dati di quota e posizione da ambedue registrati, si ricaverà il valore preciso dell’altitudi- Etiopia: Lobelie giganti nel massiccio del Simien - Leonardo Pucci (Roma) 3 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi ne (con un errore massimo di due metri). Finalmente si parte, e con i fuoristrada arriviamo al primo campo, un’area abbastanza pianeggiante dove c’è una specie di capanna semichiusa, comoda per mangiare al coperto e preparare un pasto caldo. Siamo appena in tempo per piazzare le tende prima del buio e fare un giro intorno. Il paesaggio è bellissimo, la luce è quella calda del tramonto, poco più in là della zona semipianeggiante c’è un impressionante precipizio - 1000 metri o più - e in lontananza si scorgono delle guglie appuntite, anch’esse verdi. Siamo a 3700 metri ed è appena finita la stagione delle piogge: la sera è umida e il freddo, anche se non intenso, pungente. Il mattino di buon’ora io, Leonardo e Jerome con le guide e i muli partiamo per il primo dei due giorni di cammino che ci separano dal Ras Dashan. Oggi si deve salire fino a 4000 metri, per poi scendere fino a 2900, in un fondovalle, e poi nuovamente risalire sull’altro versante fin verso i 4000 metri, dove piazzare le tende; il giorno successivo di buon mattino potremo finalmente salire sulla cima. Veramente dura! Sia per la quota sia per il dislivello, ma anche, da metà mattina in poi, per il caldo umido. Il sentiero è ben visibile, una mulattiera che collega i villaggi della valle. Non siamo soli: oltre agli animali incontriamo persone che si muovono per raggiungere i piccoli mercati rurali o i campi da coltivare. Il programma però è troppo ottimistico, e così siamo costretti, prima che faccia buio, a piantare le tende a 3800 m. dall’ultimo villaggio. Il mattino successivo si riparte all’alba: finalmente è il giorno della salita in vetta e della misurazione! Dopo tre ore di cammino appare il Ras Dashan. Non è una bella montagna a vedersi, niente a che fare con il Monte Rosa o il K2, non assomiglia nemmeno ai pinnacoli visti nei giorni precedenti. Un grosso parallelepipedo di roccia, piatto e allungato, immerso in un paesaggio senza vegetazione. Altre tre ore e siamo in cima senza troppe difficoltà. 4 E’ stata un’ascesa facile, solo la quota può creare qualche problema. Essere in vetta è comunque un’emozione forte e lo scenario è maestoso. Piazzato il GPS si può solo aspettare, ammirando, al riparo dal vento, questo paesaggio senza segni di vita. Ma con grande sorpresa, timidamente, spuntano dalle rocce dei bambini avvolti in mantelli di lana, in testa cappelli di feltro pesante. Quello che più colpisce sono i grandi occhi neri, vivissimi, che danno un’espressione fiera a quei piccoli corpi fragili, la stessa intensità mistica che si legge nei volti degli angeli affrescati sulle pareti delle bellissime chiese di Gondar e del lago Tana. Chissà dove vivono! L’ultimo villaggio è parecchio distante, forse ci sono delle capanne lì vicino, forse hanno degli animali da accudire e vedendoci ci hanno seguito. Cerco di comunicare con loro, ma non è semplice, riesco solo a farli ridere coi miei gesti goffi e impacciati e a sorprenderli offrendo loro della frutta secca. Recuperato il GPS e salutati i bambini, torniamo contenti al campo, che le guide hanno piazzato in un villaggio del fondovalle. Ci aspettano una cena calda e un accogliente sacco a pelo. Ah! Dimenticavo la misurazione! La quota rilevata nel 1837, tuttora riportata da alcuni atlanti (per esempio quello del Touring) è 4620 metri. Su altre mappe l’altitudine indicata è 4533 o 4543 metri. Quella elaborata dal computer, nel quale sono stati inseriti i dati registrati dai nostri ricevitori/ misuratori GPS, è invece di 4548,8 metri, arrotondati a 4549. Jerome che già lavorava in Etiopia alla realizzazione di nuove strade, ha presentato i dati alle autorità e forse un giorno la misura sarà riconosciuta e accettata. O forse no. Ma questo per me non è molto importante. Le cose che apprezzo di più in un viaggio sono le esperienze ed il contatto umano con le persone incontrate lungo il cammino e con i miei compagni di avventura. Cose che restano e che, forse, mi aiutano a vedere il mondo e gli eventi della vita in maniera più consapevole. Etiopia: Panorama nel massiccio del Simien - Giulio Gorini (Varese) F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi EDWARD LAKE, MARE D’UGANDA di Renato Civitico Seduto sulla staccionata di legno guardo il lago e poi oltre, verso le colline. Il giorno ormai sta perdendosi dentro la notte e l’oscurità che lentamente arriva sempre da ovest, tra poco adombrerà questo splendido paesaggio. Non si sentono le onde infrangersi sulla riva, ma nella penombra tutto è silenzio e quiete. Non lo spegni improvvisamente il rumore dell’acqua, ma nel crepuscolo di tutto quest’infinito il suono si diluisce leggerissimo nello spazio circostante. Ora in questo momento non ho necessità di sentire il suo rumore, così come vedere le sue onde che muoiono e nascono e muoiono ancora all’infinito. Ho bisogno che il mio sguardo si perda nell’immensità del paesaggio. Ci si può perdere solo in un’altra immensità eguale, quella del deserto, quella di una pianura innevata o quella di un volto femminile, ma non oggi, non ora, che ho davanti tutta quest’acqua! Non è tanto un piacere che filtra da dentro il corpo, e nemmeno il cuore che s’ingrossa quasi impazzito o questa percezione di calma, il godimento è la sensazione di sparire, di uscire dai propri pensieri, di essere soltanto un’indistinta bonaccia o un sussulto di tranquillità. Sul volto ho un sorriso di piacere che si spegne contro il buio che avanza, ma c’è una musica che arriva alle mie orecchie, ed è un piacevole sottofondo sonoro all’immagine che ho di fronte. Dopo una giornata di viaggio ho imparato che la fatica si cura con l’imprevedibile potere terapeutico dell’infinito. Io stesso mi curo con la bellezza, e quando oltre alla bellezza trovo anche l’eleganza, allora questo è proprio il posto giusto. A quest’ora della sera i colori della terra e del lago sono diventati uguali, ombre di grigio e di nero che si perdono nell’orizzonte, c’è solo la fitta vegetazione e due isole all’orizzonte che si evidenziano in questo paesaggio dal colore simile, quasi a Uganda: Panorama del Lago Edward - Renato Civitico (Torino) voler rimarcare la propria differenza. Il cielo invece è ancora blu, solo un po’ più scuro rispetto al giorno appena trascorso. E’ una specie d’inviolabile forza della natura la vista su questo lago, ma bisogna cercare di capire, lavorando anche di fantasia per dimenticare il vagabondare e la stanchezza accumulata durante la giornata. Vedere con l’anima aiuta a spostare quel velo trasparente davanti agli occhi che spesso ci portiamo dietro nell’osservare il mondo, e se li chiudo ho la percezione che quest’immagine mi è entrata dentro. Questo posto, proprio in questo preciso momento dopo il tramonto, trasmette anestetico e terapia al corpo ed alla mente. Oggi ho viaggiato per molti chilometri su una strada di colore rosso, respirando terra africana. La terra di questo continente è polvere sottile che penetra profondamente nelle narici; ho respirato tutto il suo odore, la sua vita ed il suo sudore; viaggiando con il finestrino aperto ciò che ho visto dall’auto in corsa è stato un trompe-l’oeil. Immagini che seguono altre immagini, ombre che ne seguono altre, con persone e tanti sguardi lungo la strada per una giornata intera. Così per conoscere questo spicchio di mondo, mi è sufficiente solo saperlo osservare ed ascoltare. Uganda: Pescatori sul Lago Edward - Renato Civitico (Torino) 5 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Il Lago Eduardo, questo mare che ho di fronte è uno dei tanti grandi laghi della regione, ed è posizionato nella Rift Valley, confinando con la Repubblica Democratica del Congo e l’Uganda, a soli pochi chilometri dall’Equatore. Henry Morton Stanley è stato il primo occidentale che nel 1889 lo scoprì chiamandolo Lago Eduardo, in onore di Alberto Eduardo, l’allora Principe di Galles. Il lago Eduardo è alimentato dai diversi fiumi: Nyamugasani, Ishasha, Rutshuru e Rwindi e tramite il fiume Semliki le sue acque fluiscono verso nord-est nel lago Alberto; il canale naturale Kazinga, collega poi questo lago all’adiacente specchio d’acqua, il lago George. Il lago Eduardo si trova ad una altezza di 920 metri, ha una lunghezza massima di 77 km e una larghezza massima di 40 km, copre una superficie di 2150 km², che ne fa il quindicesimo lago più grande del continente. Alte falesie contornano la sua sponda, che a nord è dominata dal massiccio del Ruwenzori; ha acque salmastre ricche di sali minerali che ne fanno un habitat naturale per varie specie di pesci, coccodrilli, ippopotami e per numerosi uccelli acquatici. PERU’: MARIA il peggio meteorologico sia passato. La trattoria propone poche pietanze: huevos y papas andranno benissimo. Ce le porta Maria, otto anni ed uno sguardo penetrante. Si ferma con noi, è tardi, non ci sono più altri avventori da servire. È particolarmente incuriosita da Rosaria che, in mancanza di acqua corrente, si sta lavando le mani con una salvietta umidificata e profumata. Molto profumata. Finalmente trova il coraggio di chiedere che cosa sono quei fazzolettini, glielo spieghiamo. Ma non si allontana. Non è soddisfatta, ci deve ancora chiedere qualcosa. È una bella bimba, pulita e ordinata, forse stamane è perfino andata a scuola. “Che c’è Maria?” “Perché non posso averli anch’io?” “Sì cara, eccoli per te” “No, voglio sapere dove si comprano”. Forse ad Arequipa, a sei ore di autobus, nei negozi frequentati da ricchi peruviani e turisti nostalgici dei supermercati, ci sono tanti fazzolettini profumati. Ma qui c’è solo abbondanza di alberi, condor e nuvole. Rosaria, da buona figlia napoletana di avvocato napoletano, cerca di confonderti le idee e di spiegarti come puoi procurarteli e che, soprattutto, non sono così importanti, ne puoi fare a meno. Anche ora però non sei convinta, rigiri fra le mani la confezione che ti abbiamo regalato e non capisci perché il mondo è pieno di Marie che vorrebbero usare le salviette profumate e non possono. Come possiamo spiegarti che il vero lusso, anche questo a te negato, è aprire il rubinetto e lavarsi le mani con l’acqua pulita? Il triste surrogato dell’acqua corrente ti sembra un lusso inaudito, riservato solo a distratti turisti che presto dimenticheranno questo breve incontro. O forse no. di Alessandra Monti Il temporale proprio non ci voleva. Siamo partiti prestissimo da Arequipa per visitare il Cañon del Colca; tutto molto bello: la jungla, i condor. Poi, come spesso avviene qui, le nuvole sono comparse, raggruppate, e poi scaricate: altrimenti che foresta pluviale sarebbe? Così ci siamo trovati a pranzare sotto una tettoia, in attesa che il temporale finisca. Lungo la strada del ritorno troveremo anche una nevicata, ma ora pensiamo che 6 Sono ancora qui, intento ad osservare tutto questo paesaggio, anche se sono conscio che tra poco mi dovrò distaccare. Percorrerò così il pontile di legno, il cortile adiacente e poi la strada principale del parco, arrivando fino nella mia stanza dove proverò a scrivere qualcosa … Qualcosa che sia il più possibile vicino a questa realtà, perché ora che girerò le spalle al lago in un momento svaniranno le immagini e si oscureranno i colori, ma tutto questo rimarrà dentro. La felicità non è una meta e neanche un viaggio, è un sentiero tortuoso, un tramonto, un paesaggio. E’ lì per sparire ... ma anche per tornare! Perù: Orgoglio materno - Carlo Onofri (Bologna) F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi RWANDA: PILLOLE DI SOLIDARIETÀ di Erik Viani (Associazione “Viaggiare liberi”) Ci sono strade che nel corso della vita rimarranno impresse nella memoria come inchiostro indelebile. Una è quella che dalla capitale Kigali conduce a Ruhuha, nel profondo e povero sud del Rwanda, a pochi passi dal confine con il Burundi. L’avrò percorsa non so quante volte, sotto il sole, la pioggia e la polvere dello sterrato. Poco meno di 50 km, che raccontano la storia di questo Paese, martoriato dal genocidio tribale scoppiato tra il ‘92 ed il ’94, e la difficile ricostruzione successiva. E, parallelamente, parlano del mio legame con questo popolo e della profonda amicizia con un parroco, ma soprattutto un uomo, che ha fatto della sua esistenza un esempio di vita fondato sulla solidarietà e la bontà d’animo: Padre Onesphore. Per la terza volta mi spingo a queste latitudini, tanto per assaporare l’atmosfera africana viva e pura quanto per viverla sino in fondo a stretto contatto con le situazioni del vivere quotidiano: una partita di pallone, una bevuta di liquore di banana, un piatto di spiedini di capra ... Il nostro gruppo, quattordici persone unite dallo spirito d’avventura e da una forte abnegazione nel contribuire a progetti concreti, ha realizzato ed iniziato alcune opere di grande spessore e significato per la popolazione locale, e non solo. Durante questo viaggio mi rendo conto come tre corrisponda al numero perfetto (“... tre come la Trinità” dice Onesphore) della solidarietà: La prima volta “tocchi” con mano, / la seconda “prendi” per mano, / la terza “dai” in mano. Dove “dare” non significa semplicemente toccare la nuda e fredda moneta ma trasmettere il proprio “know-how”, la propria capacità di esprimersi e rendersi utile in un contesto polivalente. A riscontro vedevo i miei compagni di viaggio offrire le loro capacità nella propria sfera di esperienze: Anna e Giusy le due infermiere, Maurizio il geometra, Ugo il fabbro ... Il fenomeno del “fatalismo” in queste zone è ben radicato. E’ quindi molto importante, pur nel rispetto di culture e tradizioni, trasmettere la giusta dose di conoscenza. L’Africa è un giocattolo nelle mani di un destino cieco ... Mi trovo, a distanza di un anno, catapultato in una realtà che ha visto trascorrere in questo lasso di tempo vicissitudini di ogni sorta. Ritorno in Rwanda con un’atmosfera particolare, con un significato di rilievo per la mia vita: l’inaugurazione e la consacrazione della chiesa dedicata ad una cara amica scomparsa pochi giorni prima di quello che sarebbe poi diventato il nostro primo viaggio rwandese. La gioia nel vedere assiepate, in mezzo all’arsura di un venerdì d’agosto rwandese, più di tremila persone accorse per questo evento è incommensurabile. Per loro è come ricevere una seconda vita, una seconda opportunità. Per un popolo così fatalista è molto importante una sana dose di spiritualità che lo aiuti ad uscire dagli stereotipi tramandati di secolo in secolo da più generazioni. A sottolineare l’importanza dell’evento erano presenti l’arcivescovo di Kigali, diversi parroci delle chiese locali (anche dal vicino Burundi), alcuni politici altolocati in rappresentanza del governo. Ma c’era pure tanta gente comune, e non è mancata la celebrazione di matrimoni e battesimi di massa. Tra gli ospiti i genitori di Elisa, a cui è stata dedicata la chiesa. I miei occhi si riempivano di lacrime per la gioia nel vedere tutta questa gente festante e capace di farci sentire, anche qui, a casa nostra. Rwanda: La scuola di Butereri e la consacrazione della nuova chiesa - Erik Viani (Sondrio) 7 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Scorrendo nella memoria i 50 km da Kigali a Ruhuha - di cui vi ho già parlato - non posso poi dimenticare le visite all’orfanotrofio di Nyamata ed alla scuola di Butereri. In quell’orfanotrofio sono ormai passato diverse volte, e ad ogni visita ho cercato di notare i miglioramenti di struttura e organizzazione. Ma, soprattutto, di ridare un sorriso a quei ventiquattro bambini provenienti dalle strade polverose del circondario. Quarantotto occhi per guardare ad un futuro pieno di vita e ventiquattro bocche da sfamare tutti i giorni. Armati di pazienza e buona volontà ci siamo spinti nella capitale alla ricerca di coperte, materassi, zanzariere, ed in un batter d’ali siamo ritornati con il materiale, organizzando il trasporto dei materassi in bicicletta e, per il resto, caricando a tappo il nostro minivan. E’ stato il primo passo verso un restyling che prenderà corpo con la costruzione della nuova cucina, progettata sul posto, che sostituirà quella fatiscente ed obsoleta composta da quattro lamiere messe in croce da spaghi e corde volanti. La scuola di Butereri è un complesso di più aule con annessa stalla, cisterne per la raccolta dell’acqua e sala per i professori. Alla mia prima visita vi erano solo due aule adibite a prima e seconda elementare ed una terza in costruzione. Allo stato attuale, grazie all’impegno di tutti, locali ed amici italiani, siamo giunti a sei aule, una stalla con due preziosi occupanti a quattro zampe, una sala per i docenti e, a breve, una prima cisterna per la raccolta dell’acqua piovana per svariati usi. Questo viaggio mi ha presentato più sfaccettature, vissute con intensità ed emozioni differenti. Oltre che per i progetti di solidarietà c’è stato tempo anche per visite fugaci ai laghi Cyohoha (vicino a Ruhuha) e Muhazi (a nord di Kigali). Indimenticabili poi le bevute di birra e whisky nella capitale, le camminate nella savana e le serate al chiar di luna nel parco dell’Akagera, la vista delle impetuose cascate Rusumu (formate dal fiume Akagera in piena sul confine con la Tanzania), la festa per il centenario della prima chiesa cattolica rwandese a Rulindo, l’incontro con gli amici del gruppo Argonauti Explorers a Kigali e con quelli di Avventure nel Mondo a Ruhuha, e tante altre emozioni. Non posso nascondere la soddisfazione per ciò che si è realizzato e si farà in futuro, merito anche della collaborazione di tutti, avendo lavorato in sinergia e a stretto contatto con le realtà locali. E, soprattutto, grazie al supporto di Onesphore, il vero motore di questa macchina perfetta! Ormai questo motore è a pieno regime ed ha avuto un nuovo incarico; la gestione della parrocchia di Rulindo, la più antica in Rwanda. Mi trovo all’atto finale, all’uscita dall’aeroporto di Kigali l’ufficiale che mi controlla il passaporto esclama: “Lei lavora qui?”. Ed io, sorridendo: “Ho tanti amici in Rwanda ...”. Rwanda: La vecchia cucina dell’orfanotrofio di Nyamata Erik Viani (Sondrio) Rwanda: Bambini sulle rive del Lago Cyohoha - Erik Viani (Sondrio) 8 Il fenomeno del fatalismo in Africa In Rwanda, così come in Africa in generale, si percepisce un atteggiamento di accettazione passiva degli eventi, con tanta rassegnazione, senza contrapporre alcuna resistenza al “fato”, al destino. Il concetto junghiano di “inconscio collettivo” ci può dare un valido aiuto nella spiegazione di questo fenomeno. L’inconscio collettivo si esprime in Africa in una forma primitiva strettamente legata al passato, propria degli archetipi che a loro volta lo costituiscono e che ancora oggi determinano in larga parte il modo in cui l’africano interpreta la realtà. Questa considerazione ci porta su un terreno di osservazione e indagine di grande interesse. Il fatto, per esempio, che la comunicazione di massa (televisione, stampa, cinema, ecc.) giochi dovunque un ruolo sempre più rilevante nella sopravvivenza di tali archetipi, ravvivandoli oppure indebolendoli (e ciò è vero anche in Africa), ci spinge ad interrogarci sulle relative dinamiche attualmente in atto e sui loro esiti. Come pure qualsiasi discorso su scolarizzazione ed istruzione non può prescindere dal ruolo che questi processi giocano nel regolare il rapporto tra inconscio collettivo e individuale. Una riflessione, insomma, che detta il passo a molti quesiti cui rimane difficile rispondere, se non andando a scavare nelle forme degli archetipi istintivi ai quali la maggior parte degli africani è tuttora legata. F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore QUALE TIBET? di Werner Kropik Raccontare la realtà del Tibet mi mette in crisi. Quale Tibet? Le idee che mi sono fatto sul paese, rappresentano solo parte di una realtà complessa, che evolve a un ritmo vertiginoso e mi costringe a rivedere le mie opinioni dopo ogni visita. Una prima idea me l’ero fatta nel 1953 leggendo, fresco di stampa, “Sette anni in Tibet” di H. Harrer. Questo Tibet non esiste più. Nel 1951 fu occupato dall’esercito popolare “di liberazione” e la fuga del Dalai Lama in India nel 1959, dopo un’insurrezione popolare soffocata nel sangue, pose fine all’indipendenza del paese. Oggi, mezzo secolo dopo, mi chiedo che Tibet avrei trovato se il paese fosse rimasto libero e indipendente, con un sistema teocratico, feudale e magari ostile agli influssi ideologici del mondo moderno. I primi Tibetani li vidi in India nel 1962. Avevano seguito il Dalai Lama nel suo esilio a Dharamsala. Alcune famiglie avevano trovato accoglienza nel tempio centrale dei Sikh ad Amritsar. Nel caldo torrido delle pianure indiane indossavano ancora i vestiti pesanti con i quali erano fuggiti. E’ passato mezzo secolo e i discendenti di questi rifugiati vivono ancora in gran parte in India, ma anche la Svizzera ne ha accolto un gran numero, ed è incredibile come, nella diaspora, i Tibetani siano riusciti a mantenere la loro identità culturale e religiosa. Ho avuto l’occasione di incontrare il Dalai Lama un paio di volte in India durante la celebrazione del Kalachakra. I suoi discorsi equilibrati testimoniano una viva intelligenza e il suo senso di humour è di una sincerità disarmante. Alla domanda di un giornalista francese “Agli europei praticare la meditazione tibetana potrebbe far bene?” ha risposto: “Fa bene anche una birra”. Piero Verni, che ha scritto la biografia del Dalai Lama, e Bob Thurman, amico da 30 anni di sua Santità, mi hanno confermato questo suo lato spiritoso. Ho avuto anche occasione di parlare a lungo con Lodi Ghyeri, il primo ministro degli esteri del governo tibetano in esilio. Così, senza un’intenzione precisa, ho accumulato nozioni su questa storia e cultura che emana un fascino inspiegabile per noi occidentali. Sono forse gli influssi sciamanici della precedente religione Bön sul buddismo tibetano a renderlo rendono cosi misterioso? Anche la mania di bruciare l’incenso, che riempie di fumo denso l’aria del quartiere tibetano di Lhasa, è un espressione religiosa. Le bandierine colorate, che con il vento e il sole liberano le preghiere nell’universo, sono dappertutto, sugli alti passi, sui ponti, fissate alle tende dei nomadi per proteggere le greggi o sui tetti delle case dei contadini come auspicio per un buon raccolto. Per i tibetani il praticare la religione non è limitato alla messa domenicale di un cristiano, è un modo di vivere. Accumulare meriti per creare le premesse di una vita futura, migliorare il proprio Karma per uscire dal ciclo delle reincarnazioni e accedere finalmente al nirvana. Le buone azioni porteranno magari frutti in una prossima vita. Forse per questo i Tibetani non hanno fretta di raggiungere la libertà, forzando gli eventi storici con la violenza. Tibet: Veduta del Potala nel 1904 - Archivio Werner Kropik (Lugano) Kailash, la lunga via del Nirvana Dopo tanti viaggi nelle regioni di cultura tibetana al di fuori del Tibet (il Ladakh, lo Zanskar, lo Spiti in India e il Dolpo nel Nepal) ho attraversato in bici il Tibet orientale, l’Amdo e il Kham, che in seguito ho visitato a più riprese in macchina. Quindici anni fa sono stato per la prima volta nella “regione autonoma” del Tibet, le province U e Tsang. In quell’occasione ho compiuto la prima volta il Kora del monte Kailash e ho visitato Tsaparang nella valle del Sutlej, la mitica capitale del regno di Guge. Pochi giorni fa sono tornato dall’ultimo viaggio in Tibet, durante il quale ho compiuto per la seconda volta il giro del Kailash. Dato che il Nirvana ti viene garantito solo dopo 108 giri, ho perso la speranza di riuscire in questa impresa. Già rivedere Lhasa dopo 15 anni fa capire con quale velocità il Tibet stia cambiando. Con i suoi 130mila abitanti, è una città moderna che si raggiunge con il treno (via Golmud, 5 treni al giorno) o con l’aereo (5-8 voli al giorno). Cinque strade portano oggi a Lhasa: la Sichuan-Tibet Highway da Chengdu, un’altra dallo Yunnan via Degen e Tsetang, la Friendship Highway da Katmandu, la strada che passa da Golmud e, dallo Xingjiang, la Transtibetana (Kashgar-Yarkanda-Ali-Shigatze-Lhasa), ancora in costruzione nel tratto dal lago Manasarovar a Lhatse. A Darchen (altitudine 4700 m) inizia il Kora, la camminata intorno al Kailash, la montagna sacra per induisti, bön, buddisti e jain. Il pellegrinaggio si fa in senso orario, solo i bön lo fanno in senso opposto. Dato che il governo cinese non limita più il numero di pellegrini indiani, migliaia di devoti induisti arrivano via terra da Purang o, via Tingri, da Katmandu. Spesso non si concedono il tempo necessario ad acclimatarsi all’altitudine e ogni anno ne muoiono dai 30 ai 40, di edema polmonare o di stenti. Evento che non è considerato un dramma: chi muore al Kailash accede direttamente al Nirvana e si risparmia il lungo cammino spirituale per raggiungere l’illuminazione. Nonostante queste prospettive incoraggianti, gli indiani, per i quali il Kailash è il lingam (pene) di Shiva, si accontentano di visitare il monastero di Drirapukh, da dove si ha una vista stupenda sul versante nord della montagna che, come luogo sacro, non è mai stata scalata. Su un pianerottolo, che funge da cimitero, le 9 F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore vittime dell’altitudine sono deposte per il funerale “dell’aria”. I cadaveri tagliati a pezzi, il cranio spezzato con un sasso, il tutto è offerto agli avvoltoi. Il problema è che a queste altitudini girano ben pochi avvoltoi e di solito i cadaveri sono sbranati da cani randagi che si aggirano in branchi affamati e diventano assai aggressivi quando i cadaveri scarseggiano. Allora attaccano anche i pellegrini vivi, e così capita che si debba bloccare l’entrata nella valle perché il rischio di essere sbranati è troppo alto. Sotto il Drolma-la, un passo di 5660m, c’è un altro “cimitero”. Qui i pellegrini depongono un indumento o un oggetto personale - uno spazzolino da denti, un pettine, una tazza da the, stivali, cappelli, talvolta anche banconote di piccolo taglio o caramelle - poi si sdraiano per morire simbolicamente. Quando si rialzano sono come rinati, liberi dalla zavorra dei peccati. In confronto la chiesa cattolica offre questo servizio con una semplice confessione e un paio di preghiere. Al passo sono fissate le solite bandierine, si brucia incenso e si urlano ai quattro venti le lodi agli dei. La sacralità del luogo è turbata solo dall’immondizia, in gran parte lattine, ma c’è anche un lato positivo: in caso di nebbia la vista dei rifiuti dà al pellegrino la certezza di trovarsi sulla retta via. A Tsaparang, vicino a Thöling, nella valle del Sutlej, troviamo i ruderi del castello dei re di Guge. Qui un gesuita portoghese, Antonio de Andrade, aveva tentato per tanti anni, a partire dal 1623, di convertire i buddisti in buoni cattolici, ma senza successo. Quando il re chiese aiuto al clero locale per vincere una guerra contro il Ladakh, i monaci acconsentirono a patto che il missionario fosse cacciato dal paese. In tal modo fallì l’unico tentativo di cristianizzare il Tibet. Oggi tanti cristiani disorientati cercano risposte nell’insegnamento buddista, e il Dalai Lama va per il mondo a diffondere il suo messaggio. Stranamente anche tanti intellettuali cinesi, indottrinati da più di sessant’anni di comunismo e ateismo, mostrano per il buddismo tibetano un crescente interesse, simile a quello dei bianchi per la cultura degli Indiani d’America (dopo averli quasi sterminati). Sarà solo una moda o un vero bisogno di spiritualità? 10 Nei monasteri tibetani i lama vendono oggi souvenir di dubbio gusto ai turisti cinesi, che si fanno poi fotografare davanti al Potala, travestiti da “tibetani”, ma questi sono sintomi della “globanalizzazione” che avanza in tutto il mondo. Fortunatamente ho trovato nelle valli remote anche il Tibet come lo sogniamo noi: villaggi senza elettricità, vecchi monasteri con l’odore tipico di burro rancido e incenso, le nere tende dei drokpa, i nomadi, che con le greggi di yak, pecore e capre percorrono gli altipiani alla ricerca di nuovi pascoli. Negli ultimi anni il governo, nel tentativo di renderli sedentari, ha costruito delle abitazioni che i nomadi usano volentieri nei mesi invernali. Durante l’ultimo viaggio ho visto sempre più terreni recintati o trasformati in campi di colza, il che rende la vita dei nomadi più difficile e a volte li costringe a vendere gli animali e abbandonare lo stile di vita tradizionale. Solo al nord, nelle steppe dello Chang Tang, resistono ancora i veri drokpa. Siamo noi che creiamo questo mondo ... Noi tutti siamo i testimoni della realtà che viviamo. I cambiamenti sono lenti, appena percepibili, ma da viaggiatore che rivede luoghi visitati magari mezzo secolo prima, ci si accorge di come stia cambiando il mondo. Per esempio, le mani dei monaci tibetani, per un millennio occupate con cilindri di preghiera e rosari, oggi maneggiano un telefonino. Sulle vette, accanto a chörten e bandierine di preghiera troviamo adesso le antenne per i cellulari ... Dove è rimasta allora la spiritualità tibetana? Parlando con i tibetani della diaspora e con tutti quelli che lottano per la causa tibetana, come Richard Gere, Bob Thurman, Piero Verni o i rappresentanti delle organizzazioni impegnate per un “Free Tibet”, si percepisce tanta speranza: è caduto il muro di Berlino, si è frantumata l’Unione Sovietica, perché non la Cina? Gli abitanti di Hongkong, prima della unificazione con la Cina, temevano che la loro città diventasse come la Cina di Mao; invece la Cina è diventata come Hongkong. Chi sa che in futuro i concetti filosofici del buddismo tibetano non abbiano un impatto sulla società cinese assetata di spiritualità? Già si avvertono i primi segni. A Sertar, la più grande università del buddismo tibetano, studiano migliaia di cinesi Han. Ma il partito, vigile, ha già messo fuorilegge un movimento spirituale cresciuto troppo in fretta: il Falun Gong. L’India si vanta di essere la democrazia più grande del mondo, ma a che cosa serve la democrazia se a bloccare la risoluzione dei problemi più urgenti sono la corruzione, l’assurdo sistema delle caste e l’ignoranza delle masse? In Tibet, a paragone con tante zone confinanti, tutto sommato si sta bene. Perfino i mendicanti oggi guadagnano bene, e per libertà Tibet: Monastero lungo il Kora intorno al Kailash - Werner Kropik (Lugano) F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore d’opinione e diritti civili i Tibetani non stanno peggio del resto della Cina: finché l’identità culturale e religiosa viene espressa in modo folcloristico - che magari attira anche turisti - nessuno ha da temere nulla. Invece chi osa tenere un’immagine del Dalai Lama è considerato terrorista e nemico dello stato, ma questo vale per tutti i movimenti autonomisti delle minoranze in Cina. Come se i nostri giovani finissero in prigione per aver indossano una T-shirt con l’immagine di Che Guevara! In Cina sono di moda le magliette con scritte in inglese che quasi nessuno è in grado di leggere, mentre da noi è di moda farsi tatuare con caratteri cinesi, che sovente nemmeno il tatuato riesce decifrare. Di che cosa dobbiamo lamentarci allora? Siamo noi che creiamo questo mondo, giorno per giorno ... UN PENSIERO AFRICANO cidente alcuni grandi intellettuali africani, tra i quali ritroviamo in più di un’occasione anche i Padri delle Indipendenze, creano in maniera originale un dibattito filosofico autenticamente interculturale. Il libro porta così a conoscenza del lettore per la prima volta anche testi fondamentali mai tradotti in italiano. E riformula la questione, oggi decisiva, dell’incontro tra le identità nel panorama globalizzato della postmodernità. Cosa resta di quella stagione? Il silenzio sembra essere calato, in Europa ma soprattutto in Italia, su una vicenda e una produzione intellettuale tanto illustri. Barbara Cannelli sottolinea come, paradossalmente, sia oggi il continente europeo, che aveva dominato l’Africa e il resto del mondo, a dibattersi nella paura di un’identità compromessa, che si teme sempre più di perdere a contatto con l’altro. Viviamo in un periodo caratterizzato da “nuova migrazione di popoli” in cui gran parte dell’umanità, soprattutto la più povera e disperata, conosce la dimensione della precarietà e dell’incertezza. Tuttavia, siamo pienamente immersi in una stagione in cui la consapevolezza dell’intreccio delle relazioni a livello planetario suscita motivazioni e istanze di unità e cooperazione sempre più allargate. E’ l’intuizione del noto presidente senegalese Léopold Sedar Sénghor - poeta e letterato oltre che politico, inventore della négritude - che oltre cinquanta anni fa lanciò l’idea di Eurafrica, facendo riferimento a una visione di complementarietà dei due continenti, a partire dalla cultura. Eurafrica è una visione - ha osservato Andrea Riccardi - in cui collocare le diverse identità nazionali europee e africane: “Eurafrica vuole essere una politica, ma anche un insieme di sentimenti e di idee tra mondi che si scoprono vicini”. Una visione evocatrice di sentimenti di comunanza, che offre “un quadro di dignitosa reciprocità all’interesse con cui gli africani guardano all’Europa”. Questo libro rappresenta senz’altro una novità nel panorama editoriale italiano sull’Africa, presentando per di più un aspetto poco conosciuto del continente. Più abituati all’Africa della natura, dell’economia, o della geopolitica dei conflitti e dell’antropologia, ci troviamo qui di fronte all’Africa del pensiero. Una ricognizione amplissima della migliore produzione africana permette così al filosofo occidentale ma anche al lettore meno specialista di avvicinarsi alla questione dei rapporti con l’Altro e della difesa della propria identità. di Antonio Salvati Le relazioni tra Europa e Africa, così strette nel passato, oggi appaiono così allentate da far sparire tutto un continente dal nostro orizzonte quotidiano. Eppure per tanti decenni i due continenti sono vissuti congiunti all’interno di uno stesso spazio storico e geografico. L’Occidente in generale e l’Europa in particolare - nonostante l’antica storia comune e la colonizzazione - sembrano abbandonare l’Africa al suo destino. In Occidente da tanto tempo ci si rassegna a un continente pieno di drammi e alla periferia della storia. Tuttavia, l’Africa non è inerte: l’energia e la vitalità dei suoi popoli è più forte di quel che si crede e delle informazioni che a noi giungono. Il ricco e bel libro di Barbara Cannelli, Un Pensiero Africano. Filosofi africani del Novecento a confronto con l’Occidente, 1934-1982 (Leonardo International Editore 2008), è una concreta dimostrazione che, malgrado i gravi problemi che la investono oggi, nonostante il presente non possa che apparire nella sua drammaticità, l’Africa non è soltanto sinonimo di miseria e arretratezza. In altri termini, vi sono storie diverse, che però non vediamo e pochi conoscono: si tratta del patrimonio culturale ricchissimo che i filosofi africani, in particolare francofoni, hanno ricostruito e tessuto lungo tutto il XX secolo favorendo un dibattito intellettuale e filosofico che “ha avviato una gigantesca opera di riabilitazione di quell’uomo (e donna) africani che i filosofi europei avevano giudicato senza Storia e privi di Ragione”. Nel vasto studio di Barbara Cannelli l’Africa e l’Europa, dopo un secolo che le ha drammaticamente unite e poi separate, tornano a incontrarsi nelle pagine di un gruppo di filosofi africani di lingua francese, cui dobbiamo la nascita del pensiero africano contemporaneo. Una delle pagine più emozionanti del Novecento: una vicenda storica e politica straordinaria che inizia a Parigi negli anni Trenta, dove tra i membri di un piccolo gruppo di giovanissimi studenti e scrittori di colore maturano le linee del “Risveglio nero” che porterà all’Indipendenza dell’Africa. Il libro documenta la nascita della filosofia africana del Novecento di cui restituisce tutto lo spessore. Confrontandosi con l’Oc- 11 F RONTIERE Argonauti Explorers Indonesia - L’arcipelago della Sonda UN PONTE TRA I CONTINENTI di Roberto Pattarin La linea di Wallace Le isole della Sonda rappresentano l’ultimo anello meridionale di quel ponte di isole che congiunge l’Asia all’Oceania. Una catena orizzontale che si estende da Lombok, subito ad est di Bali, a Timor, la più vicina all’Australia. Conosciute come Nusa Tenggara, sono costituite da una dorsale più a nord (Lombok, Sumbawa, Komodo, Rinka, Flores, Salor ed Alor), che prosegue poi lungo l’anello meridionale delle Molucche (Kisar, Leti, Babar, Tanimbar ed Aru) fino alla Nuova Guinea, e da una dorsale più a sud (Sumba, Sabu, Roti e Timor), che ha davanti a sé il mare aperto fino all’Australia ed all’Antartide. Proprio osservando le grandi differenze di flora e fauna tra Borneo e Celebes, Wallace nel 1859 formulò la sua teoria: queste due isole contigue dovevano appartenere a due continenti diversi, separati da una linea di demarcazione che correva lungo quel canale verticale profondo oltre 300m, che passa tra Kalimantan e Sulawesi a nord e tra Bali e Lombok più a sud. Si accertò poi infatti che le grandi isole della Sonda (Sumatra, Borneo, Java, Bali) si trovano sulla piattaforma di Sunda, un tempo collegata all’Asia, da cui derivano flora e fauna (elefanti, tigri, rino- 12 Indonesia - Sumba: Costumi Ikat - Roberto Pattarin (Sondrio) ceronti, leopardi, oranghi; fitte foreste pluviali con ricca flora asiatica); mentre Papua ed Aru fanno parte della piattaforma di Sahul e del continente oceanico (canguri, topi marsupiali, ratti giganti, coccodrilli, clamidosauri e molti tipi di uccelli endemici, tra cui il casuario e l’uccello del paradiso). Sulawesi, Molucche e Nusa Tenggara si trovano invece a cavallo tra i due blocchi: sicuramente non asiatiche (a Sulawesi ci sono specie uniche come il bufalo pigmeo, il babirussa o cervo-maiale, il bucero colorato, l’ebano ed il tek; nelle Molucche le farfalle giganti e particolari uccelli; a Nusa Tenggara i varani ed una natura molto più arida), ma nemmeno oceaniche, visto che successivi studi (Lyddeker) spostarono quel confine ad est delle Molucche e di Timor. Questa zona così insolita doveva quindi essere un ponte, probabilmente un’isola separatasi molto prima da entrambe le piattaforme: una condizione di lungo isolamento che spiegherebbe una flora ed una fauna decisamente uniche e la sopravvivenza fino ai giorni nostri di specie antiche come i varani di Komodo. La grande deriva etnica L’Homo Erectus era presente a Java 1-2 milioni di anni fa ed a Sonda 300.000 anni fa, mentre il suo arrivo in Australia (Lago Mungo) e Nuova Guinea (Kosipe) fu molto più tardivo (35.000 - 25.000 anni fa): dovevano quindi esistere degli ostacoli (bracci di mare?) che rallentarono il cammino dei primi uomini verso l’Oceania. Tra i 40.000 ed i 10.000 anni fa, quando le terre emerse erano molto più estese per effetto delle glaciazioni (i residui delle piattaforme di Sunda e Sahul), transitò la prima migrazione (australoidi) di cacciatori-raccoglitori che dall’Asia meridionale raggiunse la Melanesia e l’Australia. s 5N GRUPPO NEGROIDE DA CUI DERIVANO GLI ABORIGENI AUSTRAliani, gli estinti tasmaniani ed i papua della Nuova Guinea; tracce di questo passaggio si ritrovano nei gruppi residuali di “negritos” lasciati lungo la via: in India (Bonda e Kondh dell’Orissa; Yarawas delle Andamane), in Malesia (Semang), in Indonesia (Kubu a Sumatra, Papuasi a Timor) e nelle Filippine (Batak a Pelawan e Negros a Visayas). s 4RAIEDIANNIFAUNASECONDAONDATADIMONgolici (austronesiani o protomalesi), agricoltori ed allevatori, migrò con piccole canoe e maiali dall’Indocina alle Filippine ed alla Polinesia; navigando di isola in isola imposero la loro lingua e cultura su tutte queste terre, mescolandosi con le popolazioni precedenti (ad eccezione della Melanesia, dove si fermarono sulle coste ed i caratteri negroidi restarono dominanti). s #IRCAANNIFAUNANUOVAMIGRAZIONEDIAGRICOLTORINEomalesi) giunse dall’Indocina, portando con sé la cultura irrigua del riso, il sacrificio rituale del bufalo, la fusione del bronzo, l’usanza di erigere megaliti e particolari tecniche di tessitura (ikat). Questi antichi indonesiani erano animisti e credevano che tutte le cose avessero un’anima (semangat), una forza vitale propria; gli spiriti dei defunti venivano onorati perché la loro forza potesse aiutare i vivi, giacchè esiste F RONTIERE Argonauti Explorers Indonesia - L’arcipelago della Sonda un’altra vita dopo la morte dalla quale si può incidere su quella terrena ed a cui bisogna prepararsi, costruendo sepolcri e deponendo utensili ed armi per il viaggio. I resti di questa antica cultura, poi sopraffatta da successive migrazioni, sopravvivono ancor oggi nelle zone più remote dell’Indonesia: in particolare sui monti di Sulawesi (Toraja) e nelle lontane isole di Nusa Tenggara. Tradizioni strettamente collegate LE ISOLE DEI DRAGHI di Marco Bono I giganteschi varani di Komodo, di Flores e delle altre isole del mare della Sonda sono considerati gli “ultimi dinosauri”, un assunto tuttora diffuso, perché supportato da una divulgazione tesa a semplificare i concetti e a suscitare scalpore, ma che ha perduto ogni validità scientifica. Recenti ricerche sembrano infatti dimostrare che i dinosauri, estintisi 65 milioni di anni fa, fossero animali a sangue caldo, con un metabolismo e una fisiologia simili a quelli degli uccelli, che sarebbero derivati proprio da un loro ramo ancestrale, tanto che qualcuno ha arditamente proposto che nella classificazione zoologica il termine “uccelli” sia sostituito dal termine “dinosauri”. Comunque sia, dei vertebrati a sangue caldo non possono essere assimilati ai rettili. Rettili, non relitti Un altro dogma diffuso è che questi animali siano “fossili viventi”, cioè organismi primitivi ed arretrati che sfuggono alle leggi dell’evoluzione, in base alle quali ogni creatura, con il passare del tempo, dovrebbe trasformarsi in forme più progredite oppure estinguersi per lasciare il campo a nuovi venuti più perfezionati. Il problema della sopravvivenza di esseri immutati nelle ere geologiche è stato sollevato ad ogni scoperta di animali che si credevano estinti o che apparivano simili a creature del passato remoto. Il tuatara (sauro della Nuova Zelanda), i mammiferi monotremi australiani (l’echidna e l’ornitorinco), il celacanto (pesce preistorico che, fino al suo ritrovamento nelle acque del Madagascar, si riteneva estinto dalla fine del Cretaceo), sono stati considerati come relitti viventi sfuggiti all’evoluzione, grazie all’essersi rifugiati in ambienti isolati ed all’assenza di specie rivali più avanzate. Anche i marsupiali australiani e sudamericani sono stati visti come esempi di arretratezza biologica rispetto ai placentati cui noi apparteniamo. Ma la realtà è più complessa: l’evoluzione non implica necessariamente una progresso crescente tra le specie viventi che si succedono nel tempo, come si crede erroneamente in base ad una visione antropocentrica. Il paradigma darwiniano originario implica che il mutamento evolutivo debba avvenire in risposta alle trasformazioni dell’ambiente, tramite la comparsa di organismi più idonei a sopravvivere. Ma più adatti non significa necessariamente più complessi, anche perché, spesso, tra loro, che non mancano di collegamenti anche con Papua, confermando anche dal punto di vista culturale quel ponte tra i continenti ed i contatti nei secoli tra Asia ed Oceania. Culto degli antenati e sacrifici animali, plutocrazia e compensazione sono infatti rituali ancora oggi molto forti in tutte queste società e, pur con differenze, si manifestano con significati sostanzialmente unitari. l’eccessivo adattamento e l’esagerata specializzazione possono riuscire svantaggiosi quando l’ambiente muta. L’ossimoro “fossile vivente”, oltre ad esprimere una contraddizione in termini - o si è viventi o si è fossilizzati - comporta una falsa interpretazione della natura di certi organismi, con l’attribuire loro infondati caratteri di arretratezza e di inferiorità. Un animale di successo I “draghi” di Komodo espletano al massimo le loro caratteristiche di sauri: possono raggiungere i 100 anni, sentire gli odori a 12 km di distanza e sono al vertice della catena alimentare delle isole in cui vivono, qualità che non presuppongono certo arretratezza o inferiorità. La famiglia dei varani comprende numerose specie diffuse in tutta l’area tropicale e subtropicale, dall’Africa all’Australia. Il termine “varano” deriva dall’arabo varal o ural, mentre in occidente erano noti come “coccodrilli di terra”, in base alla definizione di Erodoto; i più diffusi sono il varano del Nilo, che può raggiungere 2 metri (Africa sudorientale), ed il varano del deserto (Sahara e Sahel). In Oriente, dall’India all’Indonesia, vivono il varano fasciato, che supera i 2 metri, e il varano arboricolo (rudicollis), che raggiunge appena il metro; altrettanto piccolo è il varano prasinus della Nuova Guinea. L’Australia presenta due versioni opposte: il varano pigmeo, inferiore a mezzo metro, e il varano gigante, che raggiunge i 2.50 metri; nelle zone interne del continente, durante Indonesia - Isola di Komodo: Varano - Marina Buratti (Milano) 13 F RONTIERE Argonauti Explorers Indonesia - L’arcipelago della Sonda il Pleistocene fino a circa 10mila anni fa, sarebbe vissuta anche la Megalania Prisca, un varano di dimensioni titaniche, lungo fino a 10 metri. La stessa famiglia del dragone di Komodo comprende una trentina di specie grandi e piccole. Si tratta quindi di animali di successo, che possono adattarsi ad una vasta gamma di ambienti, dal deserto alla giungla: la diffusione di una specie in un vasto spazio è indicativa della sua capacità di adattamento ed è direttamente proporzionale alla sua probabilità di sopravvivenza nel tempo. Prima che avesse termine il Pleistocene, un periodo caratterizzato da estese glaciazioni, Sulawesi e le isole della Sonda erano abitate anche da elefanti pigmei, che probabilmente furono condotti all’estinzione da mutamenti climatici, che inabissarono nel mare numerose terre, e dalla caccia degli uomini primitivi. Ma anche il Pitone reticolato di Celebes, un rettile di dimensioni titaniche (con oltre 10 metri contende il primato all’anaconda) che ancor oggi vive nel fitto della foresta di Sulawesi, avrebbe potuto nutrirsene. Una linea tra due mondi Perché su una manciata di isole sperdute tra il Pacifico e l’Indiano si sono affermati dei sauri enormi, le più grosse lucertole viventi dell’intero pianeta? Come si sono originati questi rettili mostruosi che hanno ricreato quasi un frammento di Triassico sperduto tra gli oceani? Perché nelle isole di Flores, Celebes e Timor la nicchia ecologica dei grandi predatori è occupata da rettili e non da mammiferi come le tigri? Una spiegazione potrebbe consistere nel ruolo di barriera per la fauna asiatica svolto dalla linea di Wallace, che corre perpendicolare all’Equatore dall’Oceano Indiano fino al Pacifico attraverso gli Stretti di Makassar e Lombok: un tratto di mare con fondali così profondi da non permettere, durante le glaciazioni, l’emergere di ponti di terra tra le isole. Questa linea separa due zone tra cui vi è discontinuità di specie animali: ad ovest quelle asiatiche, ad est quelle oceaniche. Ma l’assenza di grossi carnivori a sangue caldo è dovuta solo in parte al man- 14 cato collegamento terrestre del passato e deve invece avere una spiegazione prevalentemente ecologica. La Wallacea (nome attribuito nel loro insieme alle isole della Sonda situate ad est della Wallace) è, dal punto di vista ambientale, parte dell’Oceania, la cui massa continentale, l’Australia, dovrebbe essere considerata non tanto il più piccolo continente, quanto la più grande isola del pianeta. Nella sua fauna prevalgono i rettili: circa dieci specie di pitoni e molti sauri di medie dimensioni fra i quali varani, quattro specie di coccodrilli, oltre a lucertole bizzarre come il moloch orridus e il clamidosauro. Il territorio interno (“outback”) è occupato da un esteso deserto che, come tutte le aree povere di risorse, può ospitare solo poche specie animali e vegetali. Lo stesso dicasi per le isole sudorientali dell’arcipelago indonesiano, che, avendo superficie piccola, non possono ospitare cospicue popolazioni animali che necessitino grandi quantità di energia. A Sulawesi l’evoluzione ha provveduto a rimpicciolire parecchi mammiferi; ormai estinti gli elefanti nani, si possono trovare l’anoa, considerato il più piccolo bovide del mondo (ha la taglia di un grosso cane), ed il tarsio, che è la scimmia più piccola (ha le dimensioni di un ratto). Questo fenomeno si è verificato anche su altre grandi isole: in Madagascar, in passato, vissero ippopotami nani e persino la Sicilia e Malta, centinaia di migliaia di anni fa, ospitarono popolazioni di elefanti pigmei. Dunque, su molte terre poste in mezzo al mare si verifica una tendenza biologica bidirezionale: gli animali di grossa mole a sangue caldo tendono a rimpicciolire, mentre i rettili tendono ad acquisire dimensioni colossali. Perché? Una terra per predatori “frugali” Questo fatto all’apparenza paradossale trova una spiegazione nell’ecologia: in tutti gli ecosistemi, dai più semplici ai più complessi, le specie sono interrelazionate le une alle altre secondo la cosiddetta “piramide ecologica”, che consiste in una estesa e ramificata catena alimentare con al vertice pochi carnivori predatori. Il numero di individui per singola specie decresce salendo verso l’apice della piramide: le piante sono più numerose degli erbivori, i quali sono a loro volta più numerosi dei loro predatori. Tigri, leoni, leopardi, lupi e orsi sono, in ogni ambiente, presenti in numero nettamente inferiore a quello delle loro prede. La presenza di erbivori di grandi o medie dimensioni deve accompagnarsi a quella di grossi predatori posti all’apice della catena alimentare, che mantengano l’equilibrio ecologico; il contrario andrebbe a detrimento dell’ambiente, per la rapida spoliazione del manto vegetale ad opera degli erbivori. Gli ecosistemi di ampiezza ridotta o con scarsità di risorse rimediano a questo pericolo favorendo l’evoluzione di enormi rettili o di altri animali a sangue freddo, come sauri o serpenti, che hanno necessità di nutrirsi meno frequentemente che i mammiferi. I varani, come anche i coccodrilli e i Indonesia - Isola di Flores: Combattimento Cachi - Marina Buratti (Milano) F RONTIERE Argonauti Explorers Indonesia - L’arcipelago della Sonda grossi serpenti devono mangiare soltanto una volta al mese, per cui una popolazione di grossi rettili costa all’ambiente 10 volte meno che un ugual numero di tigri, leoni o leopardi. Questo è il motivo basilare per cui le isole sudorientali dell’Indonesia non ospitano grandi felini carnivori, che avrebbero forse potuto raggiungere a nuoto queste terre, ma la cui progenie avrebbe finito per destabilizzare ambienti di estensione limitata. Al contrario, le inferiori esigenze nutrizionali di varani e pitoni giganti, adeguate a mantenere costante il livello di erbivori senza causare squilibri ecologici, hanno consentito l’affermazione di questi grandi rettili. Si calcola che la stragrande maggioran- za delle specie viventi sulle terre emerse, negli oceani e nelle acque interne, sia ancora ignota e che possa ammontare fino a 10 milioni di organismi, per lo più insetti ed altri artropodi. Le ricerche in futuro potrebbero quindi portare alla scoperta di nuovi organismi ritenuti estinti o simili a specie di altre ere geologiche. Tali creature, come i varani di Komodo e il celacanto, meriterebbero una considerazione maggiore che non quella di “fossili viventi” o “relitti del passato”: l’essere sopravvissuti attraverso le vicissitudini e i travagli del nostro pianeta attesta la loro capacità di adattamento ed efficienza biologica e non certo arretratezza o inferiorità. MEGALITICA SUMBA debbono essere rispettati e riveriti, placandone i risentimenti. Occorre quindi garantire ai morti degna sepoltura per un onorevole passaggio nell’aldilà. di Roberto Pattarin e Bruna Bianco Una società equestre Sumba è la più meridionale ed isolata delle isole della Sonda; ne consegue un clima più secco e quindi una vegetazione più arida, tanto anomala rispetto al resto dell’Indonesia da favorire il diffondersi del cavallo. Introdotto dai cinesi e dai portoghesi durante i loro viaggi verso le Isole delle Spezie, la società equestre che ne derivò è parte integrante della storia e della cultura di Sumba. L’eccentricità dell’isola è stata una barriera di protezione da invasioni, mentre la sporadicità dei contatti ha lasciato intatta una società ancestrale. Se Lombok, Sumbawa e parte di Timor hanno ceduto all’Islam; se Flores e l’altra Timor per reazione si sono aggrappati al Cristianesimo, Sumba resta fondamentalmente pagana. E mentre a Flores ciò che resta della cultura animista è rappresentato da alcuni villaggi Nggada e Menggarai museificati e dalla riscoperta in chiave di rappresentazione rituale della battaglia del Cachi, a Sumba l’adozione del Cristianesimo è stata più superficiale e la vita del villaggio ruota ancora attorno al mondo degli spiriti. Tombe megalitiche e sacrifici Culto degli antenati e culto funerario rappresentano un binomio inscindibile, il cui collegamento è garantito dal rito del sacrificio. Al centro del villaggio è posta la zona funeraria, costituita da imponenti pietre tombali, che come pagane are megalitiche, danno lustro e visibilità al defunto e al suo lignaggio, la cui importanza può essere sottolineata da un secondo elemento simbolico: la rappresentazione megalitica dell’impugnatura di un kriss conficcato nel terremo, simbolo del legame con la propria terra. Ancor oggi la vita di Sumba ruota attorno alla sepoltura: ogni persona importante commissiona già in vita la sua tomba; le lastre vengono tagliate a mano in cave lontane e poi trasportate a mano, con l’aiuto del proprio clan, trascinandole con funi vegetali su un letto di bastoni che funge da rulliera. Come non vedere similitudini con gli spiriti Taotao dei Toraja di Sulawesi o con la cultura maori dell’isola di Pasqua in Polinesia? Come tra i Toraja, il funerale comporta un eccidio di bufali per ac- Il mondo dei Marapu I Marapu sono gli spiriti degli antenati, raffigurati come stilizzate statuette collocate nella cuspide delle capanne. La casa di bambù, di forma quadrata, è costruita su tre livelli, attorno ad un alto palo centrale simbolicamente istoriato: in basso il mondo animale col suo recinto, sopra la piattaforma per la vita quotidiana (una veranda esterna, uno spazio quadrangolare interno per la cucina e la zona letto), il terzo livello, costituito dalla cuspide del tetto in paglia, per gli spiriti. Cibo e offerte sono ogni giorno devolute a questi “Lari” e la cuspide, fungendo da canna fumaria, veicola agli antenati attraverso il fumo l’essenza dei doni, dei pensieri e delle preghiere. I Marapu proteggono la casa e la famiglia, intercedono con le divinità e scacciano gli spiriti avversi: per questo Indonesia - Isola di Sumba: Tomba megalitica con Kriss - Marina Buratti (Milano) 15 F RONTIERE Argonauti Explorers Indonesia - L’arcipelago della Sonda compagnare il trapasso nell’aldilà di un defunto o il passaggio al successivo strato sociale di un vivente. Ma la cerimonia è qui molto più rituale, a volte ancestralmente più aggressiva nella modalità di sgozzamento dell’animale, a volte collettivamente più gioiosa, attraverso danze che devono mantenere allegro il defunto. E, sempre come tra i Toraja, le famiglie ostentano ricchezza eccedendo nel numero di animali sacrificati, tanto da obbligare il governo in entrambi i casi a stabilire per legge un tetto, per evitare l’impoverimento del patrimonio animale ed economico. Ed in questo, cioè nel determinarsi e nel deteriorarsi di una società plutocratica che accumula e distrugge ricchezza, nel salire nei gradi di una complessa scala sociale mediante i sacrifici, non vi è forse analogia anche con i sacrifici di maiali nei Sing Sing e nei Nimangki melanesiani? Kriss ed Ikat Agricoltura ed allevamento sono le fonti di vita, ma la cultura è evoluta nelle forme artistiche e simboliche: le donne tessono splendidi drappi colorati con metodo particolare, gli ikat, mentre gli uomini conversano ostentando gli inseparabili turbanti ed il Kriss di battaglia. Il tessuto ikat, quasi sempre in cotone, viene filato a mano per mezzo di un fuso. La colorazione si ottiene immergendo i fili in tinture derivate da erbe e piante, mentre le parti che non devono essere colorate vengono annodate con fibre resistenti al colore. Si passa quindi alla tessitura con telaio a mano per realizzare stoffe usate in occasioni importanti. I colori sono contrastati ed i motivi rappresentano guerre, eventi rituali o storici, animali mitici. CERIMONIE A SUMBA E FLORES Cerimonia funebre a Sumba I parenti e gli amici arrivano in corteo accompagnando il loro bufalo sacrificale, addobbato con lunghe strisce di tela, fino al centro del villaggio dove si affaccia la casa del defunto. Sono vestiti con i tradizionali tessuti ikat con decorazioni tipiche del villaggio di provenienza. I figli e i nipoti del defunto li accolgono con urla ed una danza che mima un combattimento: bisogna tenere allegro lo spirito in modo che non ritorni nel villaggio. Ben 26 (sì, è incredibile!) sono i cortei che portano bufali. Un’altra ventina i maiali offerti. La cerimonia deve essere sfarzosa per gratificare i marapu e le offerte accompagneranno lo spirito per consentirgli di pagare l’ingresso al mondo invisibile. Mentre betel, tabacco, machete e gli altri ornamenti vengono messi nella tomba, bufali e maiali devono essere sacrificati. Ciò avviene con un deciso colpo di machete alla gola, che recide (se il colpo è ben assestato, il che non avviene sempre) la carotide del bufalo. Il sangue sgorga copioso mentre l’animale rantola e il sacrificatore urla danzando la propria soddisfazione per il buon esito del sacrificio. Nel giro di un’ora il terreno tra le case e le tombe si arrossa di sangue e la cerimonia animista raggiunge il suo culmine. A questo punto, al leggio, pronto fin dal mattino, si avvicina … il prete. Sì, perché ora c’è la cerimonia funebre cristiana. Orazioni, litanie, canti religiosi seguiti con la dovuta partecipazione da tutti i presenti. A pochi metri ci sono le carcasse dei bufali e dei maiali sacrificati. Dopo la consueta benedizione compare il cavallo, montato da un parente per guidare lo spirito del defunto alla tomba. di Gianni Oggioni Vicine, ma isolate Flores e Sumba sono isole molto diverse. Nella prima sono rari i villaggi tradizionali e la popolazione, salvo l’eccezione che vedremo, ha uno stile di vita fondamentalmente di tipo occidentale. A Sumba, invece, la popolazione rurale si attiene alle antiche tradizioni, in particolare in occasione delle cerimonie che scandiscono la vita della famiglia: tra queste particolare importanza hanno i funerali. 16 Indonesia - Isola di Flores: Funerale Ngada - Marina Buratti (Milano) F RONTIERE Argonauti Explorers Indonesia - L’arcipelago della Sonda A differenza dei bufali, il cavallo non viene sacrificato, confermando il grande valore che a Sumba hanno i cavalli. Bufali e maiali vengono sezionati accuratamente ed i pezzi distribuiti tra i partecipanti alla cerimonia. Di fatto c’è una redistribuzione della carne tra le famiglie. E’ un modo tradizionale di sostegno reciproco. Funerale Ngada a Flores Nonostante che i loro antenati provengano da Java, quindi da tutt’altra parte rispetto a Sumba e Sulawesi, anche per gli Ngada il sacrificio del bufalo è elemento di base per accompagnare il defunto. Un centinaio di persone affolla il terrazzamento antistante la casa del defunto. A pochi metri di distanza è stata scavata la fossa, a fianco della quale è già pronta la croce con relativa iscrizione. Sull’altro lato del terrazzamento è situato lo ngadhu, il simbolo maschile (costituito da un palo in legno sormontato da una specie di ombrello in paglia), vicino al quale gli uomini legano un bufalo. A questo punto iniziano due cerimonie parallele, a meno di dieci metri di distanza l’una dall’altra. La carotide del bufalo viene tranciata da un colpo di machete sferrato in religioso silenzio da un parente. L’animale legato rantola finendo a terra, mentre gli uomini raccolgono in un tubo di bambù il sangue che sgorga copioso dalla profonda ferita. Con le mani il sangue viene spalmato accuratamente sul palo dello ngadhu che già fu spalmato con il sangue dei bufali degli antenati. Contemporaneamente il feretro è stato portato fuori dalla casa, benedetto dal prete che pronuncia le orazioni funebri mentre le donne intonano serie di litanie. Il feretro è calato nella tomba che viene prontamente ricoperta di terra. La croce viene piantata e decine di candele accese sul tumulo. Le donne buttate a terra piangono e si consolano l’un l’altra: una scena molto simile a quelle che accadevano anche nel nostro paese. E’ una strana sensazione assistere contemporaneamente alla cerimonia cristiana e a quella animista. Il rito, introdotto dai missionari dopo il 1920, si è sommato a quello tradizionale. parare il colpo. I due si muovono l’uno intorno all’altro come uccelli in un corteggiamento. I campanelli appesi alla cintura di stoffa colorata tintinnano. I muscoli si gonfiano, fino a che la frusta parte schioccando per abbattersi sul nemico. Un sospiro di delusione si alza dai supporter del perdente mentre esultano quelli del vincente che intona un canto guerresco di vittoria. I combattenti, a torso nudo per mostrare con orgoglio le ferite dei precedenti combattimenti, usano una maschera in legno con una specie di parasole e corna (il solito bufalo) stilizzate. Indossano costumi cerimoniali in stoffa e cuoio riccamente decorati. I padrini vestono sarong di ikat scuri, alla moda di Ruteng, con ricami colorati e giacca sempre di ikat intonata. Una eleganza esibita con la dignità di chi sa di impersonare una celebrazione che ha avuto origine dagli antenati, i quali, nelle culture melanesiane, costituiscono le vere radici della comunità in cui si vive. La Pasola Per propiziarsi il raccolto gli anziani del villaggio organizzano la Pasola, rito in cui la società equestre di Sumba esprime i valori del coraggio guerriero - in passato anche del sacrificio umano - da offrire alle divinità per la prosperità comunitaria. La sfida viene recapitata ai villaggi circostanti che designano i propri campioni. Questi sono incoraggiati dalle donne che danzano nella notte attorno al fuoco brandendo i kriss per evocare i propri uomini, i quali appaiono all’improvviso urlando, mascherati ed armati di scudo e lance, per terrorizzare gli astanti e spaventare il nemico. La mattina successiva i cavalieri ed i loro destrieri, sontuosamente ornati, si radunano nella vallata, mentre tutto il villaggio segue trepidante i sacerdoti nell’ispezione delle viscere di un pollo, che annunceranno se gli spiriti gradiscono il rito e sono disponibili all’intercessione. Gli anziani danno quindi il via alla tenzone: coppie di cavalieri si lanciano al galoppo l’un contro l’altro, scagliandosi lance, fino all’emergere di un gruppo di vincitori. Ma non importa chi vince, perché ciò segue il volere degli dei: contano il coraggio ed il sacrificio a favore della comunità. Combattimenti cachi a Flores Il Cachi (si pronuncia “Ciaci”) è una tradizione dell’etnia Manggarai nella quale due gruppi di combattenti si sfidano a singolar tenzone con una frusta. Si svolge nelle occasioni importanti, quali ordinazioni sacerdotali, festa della mietitura, feste di villaggio. Si tratta di rimanere immobili e parare una frustata con un piccolo scudo ed un’asta arcuata di bambù. Se la frustata dell’attaccante colpisce la schiena o il petto nudi dell’altro combattente questi ha perso, altrimenti vince. Subito dopo i due si scambiano ruolo e colui che prima attaccava ora si deve difendere. Il combattente alza sopra la testa la frusta ondeggiando come in una danza per ingannare le difese dell’avversario che a sua volta muove scudo e arco per Indonesia - Isola di Sumba: Pasola - Roberto Pattarin (Sondrio) 17 F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti PANAMA di Roberto Pattarin e Sandro Bernes Panama è per i viaggiatori una piacevole sorpresa, giacché pochi si aspettano di trovare a poca distanza dai grattacieli di Panama City (un paradiso fiscale che registra duecento nuove società alla settimana) e dall’andirivieni di navi lungo il Canale, paradisi naturali ragguardevoli, etnie di grande interesse ed una cultura vivace, che al folklore tradizionale abbina l’innovazione, soprattutto nel campo musicale ed artistico. D’altronde la caratteristica di Panama, come la storia insegna, è proprio questa: lo Stato del Canale, presidiato dagli Stati Uniti fino a pochi anni fa, è una striscia di modernità strappata alla foresta. Era il 25 settembre 1513 quando Vasco Nuñez de Balboa, seguendo le indicazioni degli indios che parlavano di un altro mare oltre le montagne, emerse dalle foreste del Darién per avvistare per primo l’Oceano Pacifico. Da allora un mondo moderno, caotico e cosmopolita, si è insediato attorno a questo corridoio di traffici, ma tutto intorno la foresta è rimasta intatta. E se in un primo tempo sono stati il clima malsano e le malattie ad impedirne la colonizzazione, poi hanno prevalso ragioni strategiche: il Nord America voleva proteggersi dai flussi migratori e dalle rivoluzioni sudamericane, i cartelli della coca colombiani avevano bisogno di una terra di nessuno impenetrabile che proteggesse i loro traffici. Così la Carretera Panamericana, che dall’Alaska 18 Panama - Isole San Blas: Spiaggia - Roberto Pattarin (Sondrio) corre fino alla Terra del Fuoco lungo la costa del Pacifico, resta ancor oggi “inspiegabilmente” interrotta proprio sull’istmo: e la foresta del Darién, con gli indios che ancora la abitano, ne ha beneficiato, risultandone involontariamente, ma provvidenzialmente, protetta, anche dal turismo di massa. La foresta del Darién: natura ed indios Emberà E’ l’ultima grande zona naturale incontaminata del Centro America, un’immensa foresta di 19.000km2 che prosegue lungo la costa del Pacifico nella regione colombiana del Chocò. Si tratta di uno degli ecosistemi più integri e diversificati del mondo, come i 5800km2 del Parco Nazionale testimoniano (500 specie di uccelli, giaguari, aquile arpie e diversi tipi di macachi). Questa terra di frontiera selvaggia è da sempre rifugio di ribelli: un tempo pirati ed ex schiavi (cimarrones), oggi guerriglieri e narcos, mentre solo gli indios restano a combattere la battaglia di sempre: quella per la sopravvivenza. Ma se il tratto di costa vicino alla frontiera è da tempo off limits (il famoso trekking di 5 giorni per passare il Tapon è sempre un miraggio) alcune zone sono invece sicure, anche se il turismo da queste parti è ancora agli albori. Un piccolo aereo di linea atterra a Rio Sambù, una piccola comunità cimarron ai margini della Riserva: le regole della Comarca sono molto protettive, ed oltre il ponte pedonale, da Puerto Indio alla frontiera, solo gli Emberà possono risiedere. E solo la comunità può condurre estranei nella riserva: in 6 h si risale il Rio Sambù fino agli ultimi villaggi, con le capanne a palafitta allineate a rettangolo attorno ad un grande spiazzo; i bimbi indossano collane propiziatorie e le donne portano parei colorati e lunghi capelli che cadono sul davanti a coprire il seno, lasciando libera la schiena, su cui sono disegnati i tipici motivi geometrici della tribù. Sembra di essere in Amazzonia: tunnel di foresta, montagne all’orizzonte, stormi di aironi e pappagalli in volo, spumeggianti rapide. Il Caribe: gli arcipelaghi delle San Blas e di Bocas del Toro Al tempo della rivolta Kuna del 1917 gli americani schierarono una nave da guerra per impedire la reazione del governo. Da allora l’autodeterminazione è totale (la legge nazionale ha solo parziale applicazione e la terra non è alienabile: una condizione inimmaginabile per molte minoranze nel mondo). La Comarca dei Kuna si estende per circa 375km di costa caraibica, dal Golfo di San Blas al confine colombiano di Puerto Obaldia. L’arcipelago comprende circa 360 isolotti corallini lungo la costa del Darién, ma i 40.000 Kunas ne abitano solo una quarantina: i villaggi sono una ventina, tutti vicino alla costa, dove ogni famiglia ha una piantagione e si rifornisce di acqua dolce, mentre gli isolotti più esterni sono abitati da singole famiglie che vivono di pesca, della raccolta di cocchi e oggi di turismo. Non ci sono resort ed alberghi, ma solo piccoli e spesso spartani ecolodge gestiti direttamente dalla famiglia proprietaria dell’isolotto: l’ideale per piccoli gruppi o fai da te che intendono sperimentare una vita semplice con gli indios, fatta di gite in barca sulle idilliache spiagge deserte degli atolli vicini e quattro chiacchiere la sera in famiglia fino a che funziona il F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti generatore, mentre il turismo di massa viene dirottato a Bocas del Toro. Mentre gli uomini vestono ormai all’occidentale, le donne conservano intatte le tradizioni: portano anelli d’oro alle orecchie ed al naso, collane di perline sugli avambracci ed ai polpacci, fazzoletti in testa, fasce di tessuto colorate e i tipici corpetti, le molas, ricamate con motivi astratti o uccelli e pesci rituali. Una società matriarcale vera, dove è l’uomo a trasferirsi nel clan della sposa, e le donne reggono la famiglia, pagaiando su esili canoe per andare al mercato di Cartìz o alle piantagioni sulla terraferma. Agli uomini la pesca ed il governo della comunità, distesi sulle amache al centro della capanna del Congreso. Ma anche i giovani che vanno a scuola continuano a pensare, in accordo con gli anziani e la loro cultura, ad uno sviluppo ecologicamente sostenibile. L’arcipelago di Bocas del Toro è invece situato all’estremo nord, al confine con il Costarica; dalle foreste pluviali sulle pendici della Cordillera Talamanca si scende alle piantagioni di banane della costa, di fronte alle quali si estendono le mangrovie delle isole. Furono proprio i pirati della Tortuga a portarvi gli schiavi creoli dalla Giamaica che ne costituiscono oggi la popolazione. Fino a poco tempo fa isolate e sconosciute, hanno recentemente visto un grande boom turistico, con nuovi alberghi e resort, musica e mare: splendide spiagge ad Isla Colon, surf a Isla Carenero ed il Parco Marino di Isla Bastimentos, che ospita un ecosistema talmente complesso ed intatto da meritare la denominazione di Galapagos del XXI secolo (tartarughe, delfini, squali ed una varietà infinita di uccelli e pesci tropicali): un paradiso per surfisti e sub. La Cordillera Central e il Volcan Baru Da Bocas o da David si sale sulla Cordillera Talamanca ed i Parchi de La Amistad e di Volcan Barù: natura lussureggiante, fiori giganteschi ed infinite possibilità di facili trekking. Qui e sugli altopiani del Chirigui vivono gli ultimi indios NgobeBuglè, chiamati volgarmente guaymi, due gruppi collegati, che assieme formano il gruppo indigeno più numeroso del Panama. La Comarca è sulle montagne, ma molti di loro sono scesi a valle per lavorare come braccianti nelle piantagioni o nei mercati: vestiti coi tipici abiti dagli sgargianti colori vendono il loro artigianato (ceste, borse e bambole) molto apprezzato in tutto il Panama. A Boquete e più a est a Cherro Macho, sono stati realizzati due emozionanti Canopy Trekking, che consentono di ammirare la foresta dalle altissime piattaforme costruite sugli alberi e collegate tra loro da carrucole. Folklore e tradizione nella penisola di Azuero Nella regione agricola del Chitrè batte il cuore coloniale di Panama: è terra di allevatori, gli uomini coi tipici cappelli in paglia (i panama appunto) e le donne con splendidi costumi di pizzo. Davanti alle chiese spagnole dei piccoli centri si svolgono sentite processioni per le feste patronali; a Las Tablas in febbraio si svolge il più scatenato Carnevale di Panama, in settembre a Guararè il Festival Folkloristico La Meyorana, un concorso di danza, musica e costumi tradizionali. Ma è la Guerra lo sport Panama - Penisola di Azuero: Corrida detta “Guerra” Roberto Pattarin (Sondrio) nazionale: una specie di corrida, organizzata per ogni festività importante, dove i gauchos inseguono il toro a cavallo e lo devono atterrare prendendolo in corsa per la coda: orchestrine, balli, carni alla brace e tanto rhum. Le isole del Pacifico: Boca Brava, Iguana e Contadora Le isole del Pacifico sono paradisi ornitologici: vicino a David l’incontaminato arcipelago di Boca Brava: natura splendida con rocce e scogli a picco sul mare, spiagge laviche e coralline, particolari tipi di scimmie ed ogni varietà di uccelli. Nella penisola di Azuero l’escursione all’incantevole Isla Iguana, popolata da migliaia di pellicani e fregate, ed al Parco di Isla Canas con le sue tartarughe. Tutta diversa, ma comunque stupenda, è Contadora, esclusiva residenza di miliardari americani e politici locali: ville supernascoste e pochi alberghi, si percorre solo a piedi o con macchinine elettriche da golf. Stupende spiagge e molti uccelli. Panama City Anche la capitale ha il suo fascino, nel contrasto tra i grattacieli della City e le belle chiese e case coloniali del Barrio Antico, appena ristrutturato. La città sta rifiorendo e non è un caso che il Ministro della Cultura sia Ruben Blades, noto in tutto il mondo come uno dei più importanti musicisti, intellettuali ed artisti del Caribe. SCHEDA TECNICA: Costi non elevati (tranne hotel di Panama City); voli interni efficienti e frequenti; distanze contenute e buone strade (possibilità di noleggio auto); utile corrispondente per voli e prenotazioni alberghiere in alta stagione. s 0ROPOSTA DA GIORNI: San Blas 4 giorni (volo), Boca del Toro (o Darién) 4 giorni (volo), Boca Brava ed Azuero 4 giorni (auto da Panama), Panama e voli 3 giorni s 0ROPOSTA DA GIORNI: San Blas 4 giorni (volo), Darién 4 giorni (volo), Azuero-Boca Brava-Volcan Barù 6 giorni (auto da Panama a David), Boca del Toro (o Contadora) 4 giorni, Panama e voli 3 giorni. 19 F RONTIERE Racconti per immagini: l’arte di ornare se stessi Indios Ixil (Nebaj - Guatemala) Roberto Pattarin (Sondrio) Indios Mam (Todos Santos Cuchumatanes - Guatemala) Roberto Pattarin (Sondrio) Indios Atitlan (Santiago Atitlan - Guatemala) Giovanni Busetto (Sondrio) Indios Quiché (Chichicastenango - Guatemala) Roberto Pattarin (Sondrio) Indios Guajiros (Uribia - Colombia) Marco Pierli (Modena) I popoli del Centro America e del Caribe Indios Kogi (Sierra Nevada - Colombia) Marco Pierli (Modena) Donne Kunas (San Blas - Panama) Sandro Bernes (Udine) Ragazzi Garifuna (Utila - Honduras) Giovanni Busetto (Sondrio) Indios Emberà (Rio Sambù Darien - Panama) Clara Monzeglio (Torino) Indios Ngobe-Buglé (Boquete - Panama) Clara Monzeglio (Torino)
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