VIVAMUS mea Lesbia
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VIVAMUS mea Lesbia
Nato a Verona fra l'87 e l'84 a.C., intorno al 60 si trasferì a Roma, dove frequentò l'ambiente colto e mondano della città, inserendosi nel circolo dei "neòteroi", un gruppo di poeti liberi e spregiudicati nella vita privata, in politica spesso avversi a Cesare, inclini ad una poesia breve e di argomento soggettivo, oppure poco impegnativo. A Roma conobbe Clodia, donna colta e bellissima, di cui si innamorò e con la quale iniziò una travagliata storia d'amore, che narrò nelle sue liriche indicando Clodia con lo pseudonimo di Lesbia. Vivamus mea Lesbia Noi vivere dobbiamo, Lesbia, amare, Vivamus mea Lesbia, atque amemus, e i mormorii dei vecchi così austeri, Rumoresque senum severiorum tutti, stimiamoli non più d’un soldo. Omnes unius aestimemus assis. Muoiano i soli a sera, e poi ritornino; Soles occidere et redire possunt; ma noi, quando quel breve raggio cala, Nobis cum semel occidit brevis lux, eterna notte abbiamo da dormire. Nox est perpetua una dormienda. Tu dammi mille baci, ed altri cento, Da mi basia mille, deide centum, e dopo mille ancora, e ancora cento, Dein mille altera, dein seconda centum, ed altri mille ancora, e ancora cento. Deinde usque altera mille, deinde centum. Così, mischiando le migliaia l’una Dein, cum milia multa fecerimus, nell’altra, noi non le sapremo mai, Conturbabimus illa, ne sciamus, perché non porti male l’invidioso Aut ne quis malus invidere possit, sapendo quanti sono i nostri baci. Cum tantum sciat esse basiorum. Sono passati più di duemila anni da quando questo ragazzo veronese scrisse Da mi basia mille sul marmo invincibile della poesia: ma con le dovute (ma minime) differenze, queste stesse parole si potrebbero ripetere anche oggi. Non penso che il suono sia molto diverso da quello di forme dialettali parlate ancora, come non è diverso quello che vuole dire. Quante volte, e in quante lingue diverse, un ragazzo ha detto Da mi basia mille a chi l’ama? Perché, si perdoni l’altissima polvere retorica che copre questa frase, è quello che ci resta, alla fine. Qualche anno abbiamo, un sole dopo l’altro che tramonta e che torna poi ad imbiancare le cime del mattino, sempre così, senza fine. Ma la notte, il lato che più del giorno parla di ciò che siamo, ci fa anche scoprire ciò che siamo realmente: siamo quanto amiamo. Nelle molte forme che assume l’amore, non solo quella passionale che descrive Catullo, anche se questa è forse la più impetuosa e tormentata, la forma che gironzola più spesso nei ricordi. Abbandonarsi ad un miscuglio di migliaia di baci, infiniti in una notte senza fine: perché? Per non rammaricarsi di non aver mai vissuto. E il rimpianto è espresso dal poeta in due figure, una all’inizio e una alla fine della poesia. Gli anziani - quante volte li ho visti anch’io! - che guardano con volto severo e bisbigliano fra loro di chi, per eccesso di trasporto, si lascia andare nel manifestarsi, quel gusto un po’ perbenista della giusta misura, dell’autocontrollo. Lasciali perdere, dice Catullo: a che servono quei rimproveri? Non resterà nulla di loro: tu ama. Lo stesso si può dire del maligno che, geloso dell’amore altrui, vorrebbe fare il malocchio agli amanti sapendo il numero dei loro baci: è il simbolo di chi, non amando, vorrebbe impedire anche agli altri di amare. Lascialo perdere: tu ama. Arriverà il tempo del tradimento, del distacco, dell’imprecazione contro Lesbia, incostante e infedele: ma per intanto adesso vivamus atque amemus, domani sarà tardi: questo vuol dirci quel ragazzo di duemila anni fa, morto probabilmente in giovane età, intorno ai trent’anni, sapendo già molto della vita. Prof Angelo Vita
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