Origini e storia della Galleria Doria-Pamphilj
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Origini e storia della Galleria Doria-Pamphilj
Origini e storia della Galleria Doria-Pamphilj di Andrea G. De Marchi Curatore della Galleria Doria-Pamphilj speciale romA La quadreria Doria Pamphilj è divisa fra le sedi di Genova e Roma, ma si trova in prevalenza nel palazzo romano al Corso. Essa costituisce probabilmente, con il resto del patrimonio della famiglia, il maggior museo privato nazionale. È utile sottolineare come sia davvero privato nella gestione e soprattutto sotto il profilo finanziario. 31 speciale romA Simone Cantarini, Riposo durante la fuga in Egitto. Alle pagine precedenti Palazzo Pamphilio in un’acquaforte di Giuseppe Vasi del 1747. 32 N on ci sono enti pubblici o un board di miliardari che lo sovvenzionano. Eppure tiene aperto regolarmente e, con grandi sforzi, tende a un bilancio in pareggio. Per agilità, efficienza e rigore amministrativo rappresenta un modello non solo per la città, né solo per l’Italia, visto che, in queste condizioni, offre un servizio pubblico non imponendo alcun costo alla collettività, oltre a quello del biglietto d’ingresso. Ciononostante non sembra che alcuno dei dibattiti accesi sul tema della presenza e della partecipazione dei privati nel campo del patrimonio artistico nazionale abbia mai sfiorato questa galleria. Oltre al frequente ricorso al loan fee, ossia a contributi finanziari contro la concessione in prestito di opere d’arte per le sempre più numerose mostre, alcuni ambienti vengono periodicamente concessi in affitto per speciali avvenimenti. Questa forma di autofinanziamento, che non mancò in principio di suscitare mugugni polemici, si è dimostrata efficace, venendo via via adottata da una quantità di istituti museali pubblici in Italia e all’estero. Il successo della formula, tuttavia, configura un problema di concorrenza asimmetrica fra pubblico e privato, che si evidenzia qui per la prima volta. Nella Galleria del palazzo al Corso è raccolta la maggior parte delle opere d’arte rimaste in possesso della famiglia. Lo “zoccolo duro” è composto in prevalenza da cose rinascimentali e deriva dall’eredità Aldobrandini, i discendenti di Clemente VIII, che riunirono una quantità enorme di quadri sottratti al Ducato di Ferrara, dopo la sua devoluzione (1598), avvenuta proprio sotto quel pontefice. Parecchie fra quelle cose dovevano quindi essere appartenute proprio agli Este. Oltre a molti dipinti emiliani, entrarono per quella via pure opere toscane, nonché le tele di Raffaello e Tiziano. Ma l’insieme contava anche sculture dell’antichità romana e opere “moderne”, come la celebre serie delle Lunette carraccesche. Fu la giovane vedova Olimpia Aldobrandini, risposandosi con Camillo Pamphilj (1647), a recare questa favolosa dote, comprendente, fra l’altro, anche l’edificio romano di cui stiamo parlando. Il quale si accrebbe moltissimo a partire da metà Seicento, inglobando una serie di altre strutture già esistenti. Soprattutto a partire dalla quella stessa epoca i Pamphilj, specialmente ad opera di Camil- speciale romA lo, presero ad arricchire la raccolta con particolare impegno, compiendo moltissime acquisizioni sul mercato o attraverso incarichi rivolti direttamente agli artisti. A questa fase risalgono opere di qualità superba, fra cui spiccano i capolavori di Caravaggio e Velázquez, o la notevole selezione di quadri fiamminghi (fra cui Peter e Jan Brueghel); ma anche paesaggi, tanto da diventare uno dei maggiori nuclei del mondo, per quanto riguarda questo genere pittorico. Non manca un nucleo di nature morte, che pure nel primo Settecento dovevano essere centinaia. Un tratto distintivo della Galleria è dato dall’allestimento, riorganizzato a partire dal 1996, che riflette in larga misura la sistemazione conferita ai quadri e agli ambienti nel secondo Settecento, in conformità a un progetto di Francesco Nicoletti, di cui resta concreta documentazione archivistica. In quell’epoca, con l’inserimento dinastico dei Doria, gli appartamenti di rappresentanza vennero nuovamente decorati: i soffitti costituiscono infatti un’antologia della pittura romana, dopo la metà del XVIII secolo. Destinati ad ospitare il meglio delle collezioni di famiglia, quei luoghi risultano al visitatore di oggi gremiti di pitture, accostate con criteri che non hanno nulla a che vedere con l’idea di museo a noi più consueta. Invece di sequenze ripartite per scuole o epoche, si vedono qui abbinamenti centrati sul soggetto e il formato. I musei cui siamo abituati sono sempre più dominati dai vuoti. L’isolamento di un’opera è stato infatti considerato una condizione necessaria per il suo studio, col risultato che spesso si visitano spazi rarefatti dove il materiale esposto risulta ambiguamente enfatizzato. Mentre attraversando queste sale e gallerie si viene colti da un senso opposto, in cui prevale la densità. Seppure le condizioni di luce e di lettura siano a volte inadatte e le interferenze possano causare confusione, l’affollamento dei quadri e degli oggetti stabilisce un Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Fuga in Egitto. 33 speciale romA Claude Lorrain, Paesaggio con mulino. 34 legame che offre sia una rara testimonianza sulle antiche raccolte principesche romane, sia un indizio su come esse dovevano effettivamente essere guardate. Ne scaturisce anche una certa sensazione di comfort, sconosciuta a quanto si avverte generalmente entrando in moderne architetture museali a sfondo razionalistico. A partire dal secondo Settecento fu avvertita la necessità di imprimere maggior ordine all’interno della variopinta popolazione di cornici originali che circondavano i quadri. Quasi tutte vennero progressivamente sostituite, omologandole a un modello dorato “da museo”, detto salvator rosa. In quella fase avvenne l’eliminazione di centinaia di esemplari fra quelli più inconsueti, oggi ricordati negli antichi inventari. In quel lasso di tempo avvennero pure dispersioni estremamente cospicue. L’arrivo dei Doria da Genova, che fusero le dinastie, seguiva infatti un accordo con altre famiglie che vantavano diritti per la successione ai Pamphilj, estinti nella linea maschile. Per questo venne ceduto (1769) e subito disperso un importantissimo e ingente gruppo di quadri dell’eredità Aldobrandini, comprensivo di vari capolavori del Rinascimento e del mondo carraccesco. Presero il volo, nel giro di poco, opere celeberrime, come il Cristo morto di Mantegna (Brera), la Madonna Garvagh di Raffaello (National Gallery di Londra), Bacco e Arianna di Tiziano, il Baccanale di Bellini (National Gallery di Washington). Ma anche una quantità di tavolette ferraresi del primo Cinquecento di Garofalo e Mazzolino (National Gallery di Londra), dov’è andata pure una parte pontormesca della Camera Borgherini, nonché il Domine quo vadis? di Annibale Carracci, la cui Incoronazione della Vergine si trova adesso al Metropolitan di New York. E questo, solo per ricordare qualche caso di questo straordinario insieme, in cui finì per errore anche qualche tela acquisita da Benedetto Pamphilj. Queste ultime sviste fanno intuire come la cospicua dispersione della quadreria pamphiljana si debba imputare alle difficoltà della transizione, che segnò probabilmente un allenta- speciale romA mento della sorveglianza, ma anche alla gigantesca estensione dell’insieme, tanto vasta da risultare poco controllabile. Non è un caso se quasi nulla delle numerose residenze del viterbese e del basso Lazio, riccamente arredate e decorate, sia oggi rintracciabile. È quindi questa la fase cruciale delle perdite più che il XIX secolo. Per quel che è possibile capire dalle carte d’archivio, le vendite avvenute nel corso dell’Ottocento hanno investito una quantità marginale di opere rispetto a quanto doveva già essere era stato alienato o sottratto. Nel frattempo, proprio in quest’epoca, vennero acquistate alcune ragguardevoli tavole antiche: Filippo Lippi, Neri di Bicci, Maestro del Borgo alla Collina, Sano di Pietro e Memling. Disinteressandosi al carattere più intimo della raccolta, si cercava così di avvicinarsi all’idea positivista di museo, quale luogo in cui esporre un’ampia e didascalica rassegna delle scuole e dei periodi dell’arte. Pesò nelle scelte anche l’incipiente interesse per le opere dei cosiddetti “primitivi”, termine con cui si designavano artisti del Tardo Medioevo e del primo Rinascimento, la cui moda sarebbe esplosa solo alla fine del secolo XIX. Alla prima guida del 1794 ne seguì un’altra del 1851, che fa intendere come l’apertura fosse già allora regolamentata. Ma ormai da tempo i protagonisti del Grand Tour in Italia avevano incluso nei propri itinerari la visita alla prestigiosa galleria romana. Dove, nell’arco della seconda metà del XIX secolo, venne condotta una serie di interventi su progetto di Andrea Busiri-Vici. Negli ultimi anni gli studi hanno consentito di fare nuove scoperte in campo attributivo, sia ristabilendo le importanti paternità di certe opere (per es. Dosso, Annibale Carracci, Reni), sia recuperando testi di artisti dimenticati dalla storiografia (per es. Pasquale Chiesa, Domenico Roberti, Laura Bernasconi, Giovan Battista Giovannini). È stata pure identificata una quantità di interventi di censura dei nudi, sopravvenuti fra la metà del Seicento e l’inizio del secolo successivo. Fisime del genere ebbero di certo papa Innocenzo X e i suoi nipoti, Giovan Battista e il cardinale Benedetto Pamphilj. Dopo un’attenta considerazione delle ragioni storiche e materiali che hanno portato a queste moralizzazioni, si è ritenuto lecito procedere nel riportare alla luce quanto da secoli era stato nascosto. Tali operazioni sono rientrate in un’estesa campagna di restauri, in parte condotta con la collaborazione dell’Istituto Centrale per il Restauro, attraverso i quali si è cercato di migliorare la conservazione e la leggibilità di molti quadri. Antonio de Solario detto lo Zingaro, Suonatrice di violino. 35
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