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1 L`APPROCCIO DI GOFFMAN ALL`INTERAZIONE FACCIA A
L’APPROCCIO DI GOFFMAN ALL’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA Adam Kendon Traduzione italiana di Maria Graziano Original title: “Erving Goffman's approach to the study of face-to-face interaction.” In A. Wootton and P. Drew (a cura di), Erving Goffman: Exploring the Interaction Order. Cambridge: Polity Press, 1988, pp. 14-40. L’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA COME CAMPO DI STUDIO AUTONOMO In questo articolo passerò in rassegna alcuni concetti che Goffman ha sviluppato per lo studio dell’interazione faccia a faccia. Il mio intento è quello di mostrare che questi concetti forniscono un’intelaiatura molto generale in base a cui può essere condotto uno studio completamente integrato dell’interazione. Come affermerò alla fine dell’articolo, una maggiore sfida teorica che gli studiosi dell’interazione affrontano è quella di mostrare come le componenti del comportamento umano, che hanno un ruolo nell’interazione e che sono così apparentemente differenti, siano invece articolate l’una in relazione all’altra. Specialmente nei suoi ultimi scritti, Goffman si è dato da fare per ricordarci che l’interazione faccia a faccia in generale, e la conversazione in particolare, è lungi dall’essere una questione di sole parole. Così facendo, egli ha indicato la strada da seguire per arrivare ad una comprensione veramente integrata del comportamento comunicativo umano. Io credo che un ulteriore sviluppo dell’intelaiatura che è implicita nel lavoro di Goffman su questo argomento sia il modo migliore per arrivare ad una teoria dell’interazione faccia a faccia che consentirà di avere una visione integrata dell’interazione. Comincerò ad esaminare l’affermazione di Goffman secondo cui lo studio dell’interazione faccia a faccia dovrebbe essere considerata una branca della sociologia a se stante. Lo studioso ha suggerito l’esistenza di ciò che lui ha chiamato “ordine dell’interazione” (Goffman, 1983; trad. it. Goffman 1998) che può essere considerato come un campo di studio a sé. Questa convinzione è espressa in alcuni dei suoi primi scritti. La si può 1 trovare nella sua tesi di dottorato (Goffman 1953) e costituisce la premessa principale di alcuni suoi primi articoli, come “On face work” (1955; trad. it. “Giochi di faccia” in Goffman 1971a) e “Alienation from interaction” (1957; trad. it. “Alienazione dall’interazione” in Goffman 1971a); ed è esplicita nella prefazione di “Encounters” (1961; trad. it. Espressione e identità 2003). Egli sostiene ripetutamente la stessa idea nei lavori successivi, come nelle pagine introduttive di Behavior in Public Places (1963; trad. it. Il comportamento in pubblico, 1971b), nella prefazione di Interaction ritual (1967; trad. it. 1971a) e nelle prefazioni di Strategic Interaction (1969; trad. it. Interazione strategica 1988) e Relations in Public (1971c; trad. it. Relazioni in pubblico 1981). Il modo in cui presenta e difende quest’idea cambia un po’ da un lavoro all’altro. Un confronto tra loro è istruttivo, perché suggerisce come il contesto teorico, in cui Goffman si aspetta che i suoi lavori siano inclusi, cambia da una pubblicazione all’altra. In Encounters (Espressione e identità), scritto nel 1961, quando lo studio dei “piccoli gruppi” era molto popolare in sociologia e nella psicologia sociale, l’interesse di Goffman è di mostrare che lo studio dell’interazione, così come lui lo concepiva, è diverso dallo studio dei “piccoli gruppi”. Egli afferma che le unità di organizzazione, come i raggruppamenti focalizzati o gli incontri, non sono la stessa cosa dei “piccoli gruppi”, come le bande, la famiglia, i plotoni militari o i gruppi delle psicoterapie. Sebbene ci siano delle similitudini – per esempio i gruppi, come i raggruppamenti, hanno delle regole di reclutamento e norme di comportamento a cui i membri devono aderire se vogliono continuare a parteciparvi – nello studio dell’interazione in quanto tale bisogna occuparsi di molte questioni che sembrano irrilevanti per lo studio dei gruppi. Queste comprendono la questione della gestione delle attività, come il problema della regolazione del perdere o assumere il ruolo di parlante o la distribuzione dei partecipanti nello spazio. In Behavior in Public Places (Il comportamento in pubblico) troviamo un’enfasi diversa, c’è il tentativo evidente di giustificare lo studio dell’interazione come una branca della sociologia indipendente. Goffman qui propone una nozione di “ordine pubblico” con cui intende l’ordine che regola il comportamento delle persone quando si trovano nell’immediata presenza l’una dell’altra. L’ “ordine pubblico” è proposto come una specie di “ordine sociale” e quest’ultimo è definito come “l’effetto di qualsiasi insieme di norme morali che regoli il modo in cui le persone perseguono i loro obiettivi” (Goffman 1963: 8; trad. it., 1971, p. 10). E continua: “L’insieme di norme non specifica gli obiettivi che devono essere perseguiti, né lo schema formato da e per mezzo della coordinazione o 2 integrazione di questi fini, ma semplicemente i mezzi per perseguirli”. Il regolamento stradale ed il conseguente ordine del traffico ne sono un chiaro esempio. Il campo dell’interazione faccia a faccia, quindi, deve occuparsi delle “regole del traffico” dell’interazione e non del perché le persone interagiscono o cosa ottengono quando lo fanno. L’ “ordine pubblico”, visto come una specie di “ordine sociale” si può paragonare all’ “ordine giuridico” o all’ “ordine economico” di una società. In quanto tale ha lo stesso diritto dell’ordine giuridico o dell’ordine economico di essere uno studio indipendente. Nel proporre un campo di studio in questi termini, credo che possiamo scoprire il primo tentativo più o meno chiaro di Goffman di proporre, pubblicamente, lo studio dell’interazione come una branca della sociologia indipendente e di conseguenza il tentativo di sostenere l’importanza dell’area di fronte ai colleghi sociologi (Goffman aveva già sostenuto questa idea nella sua tesi, come è stato messo in rilievo da Leeds-Hurwitz, 1986). Nella prefazione di Interaction Ritual (Il rituale dell’interazione), scritto nel 1967, il suo interesse è dimostrare che ciò che sta propugnando non deve essere confuso con la psicologia. In questa prefazione egli attira l’attenzione sull’allora recente comparsa di interesse per ciò che talvolta è chiamato “comportamento non-verbale” o “comunicazione non-verbale” (sebbene Goffman non usi questi termini). Questo interesse si sviluppò in gran parte grazie agli psicologi e qui Goffman afferma che nel campo dello studio dell’interazione, così come lui lo intendeva, la psicologia dell’individuo non è l’interesse primario. In questo studio dobbiamo occuparci, certo, di “sguardi, gesti, atteggiamenti e affermazioni verbali” (Goffman, 1967: 1; trad. it., 1988, p. 3), che i partecipanti all’interazione producono continuamente, perché questi sono “i segni esteriori dell’orientazione e della partecipazione”; tuttavia, ciò che interessa non è la psicologia dell’orientazione e della partecipazione ma la loro organizzazione sociale. Continua dicendo: “Io parto dal presupposto che l’oggetto dello studio della interazione non debba essere l’individuo e la sua psicologia, ma piuttosto le relazioni sintattiche esistenti fra gli atti di persone che vengono a trovarsi a contatto diretto” (Goffman, 1967: 2; trad. it., 1988, p. 5). In Strategic Interaction (Interazione strategica) (1969) Goffman si interessa di stabilire lo studio dell’interazione in modo ancora più esplicito. Nella prefazione a questo libro afferma che il suo “scopo primario” è “sviluppare lo studio dell’interazione faccia a faccia come campo naturalmente delimitato, analiticamente coerente – una sotto area della sociologia” (p. ix). Continua poi sollevando la questione della “comunicazione” e, come era diventato un luogo comune in quel periodo, 3 se fosse appropriato dire che ogni tipo di interazione è comunicazione. L’argomento di Goffman in Strategic Interaction è che ci sono dei limiti a ciò che possiamo chiamare “comunicazione” e che questi limiti non sono gli stessi di ciò che possiamo chiamare “interazione”. Quando arriviamo a Relations in Public (Relazioni in pubblico) (1971; trad. it., 1981) vediamo che Goffman si rende conto che era cominciato ad emergere qualcosa di ciò che stava chiedendo. Nota che alcuni studiosi, in particolare alcuni linguisti ed etologi, erano impegnati in un’impresa parallela alla sua. Suggerisce di chiamare quest’area “etologia dell’interazione” sebbene si affanni a mettere in evidenza che noi “ci sbarazziamo cortesemente” (Goffman, trad. it., 1981, p. 9) della visione darwiniana degli etologi, pur riconoscendo che i loro metodi corrispondono bene al tipo di domande che spera di sollevare e perseguire. In particolare, appoggia i metodi di questo tipo di ricercatori, mentre critica severamente i metodi della psicologia e della sociologia sperimentale, da cui sembra distanziarsi consapevolmente. Dieci anni dopo, in Forms of Talk (1981b; trad. it. Forme del parlare 1987) non c’è più bisogno di descrivere e giustificare il campo in quanto tale. Gli articoli di questa raccolta sono ora rivolti ad altri che, come lui, hanno intrapreso lo studio delle pratiche dell’interazione. Le questioni sollevate, riguardanti il ruolo del linguaggio nell’interazione, sono presentate come questioni importanti da discutere in quello che è considerato un campo ormai già affermato. Alla fine della sua carriera, nel discorso come presidente dell’Associazione Sociologica Americana – intitolato “The interaction order” (1983, trad. it. L’ordine dell’interazione (1998) – discute ancora il posto che lo studio dell’ordine dell’interazione occupa nella sociologia. In questo discorso tenta di spiegare esaurientemente i modi in cui lo studio dell’ordine dell’interazione è allo stesso tempo distinto dallo studio degli altri aspetti dell’ordine sociale ma anche collegato ad essi. Un problema centrale in quest’articolo è la questione di come l’oggetto della macrosociologia – status, potere, strutture sociali ecc. – si collega al micro-studio di particolari segmenti dell’interazione. Qui sembra interessato a mostrare che lo studio dell’ordine dell’interazione non solo è un interesse legittimo di per se stesso (in verità non c’è più bisogno di affermare questo perché il campo è oramai stabilito, almeno in modo informale), ma anche che può dare un utile contributo per gli altri sotto-campi che interessano la sociologia. Vediamo allora come, nelle prime prefazioni e introduzioni, Goffman rende esplicito il suo scopo di stabilire un sotto-campo della sociologia che deve occuparsi dell’interazione. Chiarisce l’oggetto di 4 questo studio, ma si preoccupa di evidenziare che ciò che sta proponendo non fa parte dello studio dei “piccoli gruppi”, non fa parte dello studio della psicologia e non è lo studio della comunicazione. Scrivendo in questo modo, Goffman dà l’impressione di tentare di stabilire qualcosa di completamente nuovo. Afferma ripetutamente che si è prestata poca attenzione allo studio dell’interazione, malgrado che il lavoro fatto sui piccoli gruppi, sulla psicologia sociale e sulla comunicazione avrebbe dovuto suggerire il contrario. GOFFMAN E LO STUDIO DELL’INTERAZIONE NELLA SOCIOLOGIA AMERICANA A prima vista quest’enfasi sulla novità di questo campo sembra un po’ strana. Lo studio della “interazione” come tradizione affermata nelle scienze sociali americane era apparso molto prima che Goffman iniziasse le sue ricerche. Ad esempio, negli anni venti, i lettori americani poterono leggere il lavoro di Georg Simmel (si veda Park e Burgess, 1924; Spykman, 1925). Il suo concetto di “sociologia formale” e il suo tentativo di descrivere le strutture della “pura socialità” che per lui si esemplificava nelle componenti del comportamento interpersonale è forse, nella sociologia americana, la prima esplicita presentazione dell’idea che l’interazione possa essere studiata come scienza a sé. Questo interesse si adattava bene alla linea di pensiero iniziata da William James (1890: vol. 2) e proseguita da George Herbert Mead (1934), nel cui lavoro l’ “io” non è visto come attore ma come prodotto dell’interazione. Quest’idea favorì l’interesse per lo studio delle componenti dell’interazione e costituì una parte importante dello sfondo che portò all’emergere dello studio empirico dell’interazione. Questo iniziò alla fine degli anni trenta, quando le prime ricerche furono condotte da studiosi come Eliot Chapple (1939, 1940), George Homans (1950), Robert Bales (1950; si veda anche Hare, Borgatta e Bales, 1955) e Kurt Lewin e colleghi (per le “dinamiche nei piccoli gruppi”) - il lavoro di Cartwright e Zander (1953) è il prodotto tipico di questa tradizione. A questi primi studi seguì un gran numero di ricerche basate sull’osservazione di occasioni naturali e su esperimenti fatti in laboratorio. Sebbene Goffman mostri di essere influenzato dai primi ricercatori, come Simmel e Mead, ad eccezione del lavoro basato sull’osservazione di situazioni naturali nella “ecologia psicologica” (ad esempio, Barker e Wright 1955), lo studioso cita raramente questo successivo lavoro empirico sull’interazione. Leggendo fra le righe abbiamo l’impressione che egli non debba molto a questa tradizione. 5 Una più attenta riflessione mostra che Goffman aveva buone ragioni per non considerare questi lavori e per affermare che lo studio dell’interazione così come lui lo proponeva era qualcosa di nuovo. Vedremo che l’approccio di Goffman sollevava questioni completamente nuove. Nella tradizione a cui abbiamo appena fatto riferimento, l’interazione era studiata perché sembrava che potesse servire per risolvere altre questioni. Ad esempio, Chapple sviluppò l’ingegnoso metodo della “cronografia dell’interazione” come mezzo per “misurare le relazioni umane”. Come seguace dell’ “operazionalismo” di Percy Bridgman (Bridgman, 1936) non sopportava lo stile letterario degli antropologi sociali (era stato allievo di Lloyd Warner e aveva lavorato allo studio sulla “Yankee City”). Egli cercò di trovare un modo per osservare direttamente gli elementi di cui sono composti le relazioni umane; escogitò l’idea di misurare il tempo che le persone passano ad interagire e, più specificamente, di misurare come le loro azioni sono organizzate nel tempo l’una in relazione all’altra. Riuscì ad avere risultati molto interessanti; ma poiché usava lo studio dell’interazione come mezzo per arrivare ad uno scopo si limitò a misurare solo l’aspetto dell’interazione che gli serviva per raggiungere il risultato che più lo interessava. Similmente, Robert Bales, il cui metodo dell’ “analisi del processo dell’interazione”, scatenò un vero e proprio fiume di articoli, sviluppò un sistema di categorizzazione degli “atti” interazionali, non perché fosse interessato all’interazione in sé ma perché era interessato a comprendere aspetti come le dinamiche di leadership nei piccoli gruppi e come le persone in gruppo arrivassero a risolvere i problemi. Questi approcci si basavano sul concetto secondo cui i fenomeni di consueto interesse della sociologia e della psicologia sociale – leadership, stratificazione sociale, organizzazione dell’autorità e simili – dovevano trovare la loro ragion d’essere nell’adesione dei membri della società ad un modello di atti interazionali specifici. Tali atti dovevano costituire i dati su cui la ricerca si doveva basare. Tuttavia, gli atti interazionali stessi non erano studiati. Soltanto uno degli aspetti che li caratterizzava fu usato come mezzo attraverso cui studiare qualcos’altro. Goffman si rese conto di questo e chiarì che ciò che interessava a lui era qualcosa di diverso: sollevare, cioè, la questione di come si verificasse l’interazione. Goffman osservò, dunque giustamente, diverse volte nelle sue prefazioni, che l’interazione in quanto tale era stata poco considerata. Come scrive nella prefazione di Relations in Public: “le pratiche dell’interazione sono state utilizzare per chiarire altre cose, ma sono state trattate come se non ci fosse bisogno di definirle o valga la pena di farlo” (Goffman, 1971: ix; trad. it., 1981, p. 3). E per Goffman, ovviamente, il problema consiste proprio nelle 6 “pratiche dell’interazione”. Studiosi come Chapple e Bales semplicemente davano per scontato che le persone potessero interagire. Non studiarono il modo in cui le persone riuscissero a farlo o cosa fossero queste pratiche. Il loro interesse si concentrava interamente sui risultati dell’interazione; quello di Goffman sul modo in cui essa si realizzava, anzi, su come si potesse verificare. Il tentativo di Goffman di stabilire lo studio delle pratiche dell’interazione come campo indipendente non fu un tentativo isolato, sebbene egli si fosse reso conto, più chiaramente di molti altri, che ciò si stava cercando di fare era diverso da quello che normalmente si considerava come importante nell’interazione. Il riconoscimento dell’importanza delle questioni di come l’interazione si potesse verificare, il problema di cosa occorresse alle persone per essere in grado di interagire, era cominciato ad emergere nel lavoro di diversi studiosi. Gregory Bateson era arrivato a formulare, nel 1951, un approccio allo studio dell’interazione come sistema di comunicazione e il suo interesse principale fu l’organizzazione di questo sistema (Ruesch e Bateson, 1951). In questo fu molto influenzato dai contatti che ebbe con lo sviluppo della teoria dell’informazione e della cibernetica (fu influenzato soprattutto da Norbert Weiner e von Neumann – si veda Heims, 1977) e dalla collaborazione con lo psichiatra interpersonale Jurgen Ruesch, (si veda Ruesch, 1972). Per Ruesch il problema nella psicoterapia consisteva non tanto nelle dinamiche psicologiche interne del paziente, quanto nel processo dell’interazione tra paziente e psichiatra. Similmente, alcuni sviluppi nella linguistica strutturale avevano portato studiosi come Norman McQuown (1971) e Ray Birdwhistell (1952, 1970) a cominciare ad esaminare il “materiale comportamentale” dell’interazione con uno spirito completamente affine a quello che Goffman stesso avrebbe proposto in seguito. Molti studiosi di questa convinzione, sotto l’influsso della psichiatra interpersonale Frieda Fromm-Reichmann, si riunirono all’Institute for Advance Study a Stanford nel 1956 per intraprendere lo studio dettagliato del filmato di un’interazione in cui ogni aspetto di ciò che veniva osservato doveva essere minuziosamente annotato ed esaminato rispetto al posto che occupava nel processo comunicativo. Questo progetto, conosciuto col nome di “La storia naturale di un’intervista”, coinvolgeva tra gli altri, Gregory Bateson, Norman McQuown e Ray Birdwhistell, i quali sarebbero tutti stati strettamente collegati con il successivo sviluppo di un approccio che avrebbe tentato di esplicare davvero, in modo microscopico, le componenti della pratica dell’interazione (McQuown, 1971; Zabor, 1978; Leeds-Hurwitz, 1987). 7 Goffman mantenne un vivo interesse per lo sviluppo di questo approccio e ne fu indubbiamente influenzato. Egli ha ammesso di essere stato influenzato da Gregory Bateson e fu allievo di Ray Birdwhistell quando era ancora studente all’Università di Toronto. Partecipò, insieme a Gregory Bateson, al secondo convegno della Josiah Macy Jr Foundation Group Processes Conference, tenutosi nel 1956; ebbe un ruolo importante nella discussione al Convegno sulla Paralinguistica e sulla Cinesica tenutosi alla Indiana University nel 1962 (Sebeok, Hayes e Bateson, 1964). Negli anni seguenti fu lui stesso ad organizzare convegni in cui l’interesse principale fosse lo studio dell’interazione secondo il cosiddetto approccio della storia naturale o della “analisi del contesto”. Tra i primi maggiori esponenti dell’approccio allo studio dell’interazione, che tenta di esaminare il processo in sé e il modo in cui si realizza, possiamo includere Gregory Bateson, Ray L. Birdwhistell e Albert Scheflen. Ciascuno a proprio modo ha tentato di sviluppare un’intelaiatura teorica in base a cui comprendere il processo o la pratica dell’interazione come sistema di comportamento. Un aspetto particolarmente importante di questo approccio è la visione integrata del processo dell’interazione: si presta attenzione tanto all’organizzazione dell’attività del corpo, e il ruolo che questo ha nel processo interattivo, quanto agli enunciati verbali. Inoltre, questi autori, coerentemente con tale idea, lottano per formulare una visione in cui l’interesse si concentri sul sistema di relazioni tra gli atti dei partecipanti piuttosto che sui partecipanti stessi. Potrebbe essere proprio questo che Goffman aveva in mente quando, nel già citato passaggio della prefazione a Interaction Ritual, ha scritto che il vero e proprio studio dell’interazione richiede lo studio delle “relazioni sintattiche tra gli atti delle varie persone reciprocamente presenti”. L’uso di Goffman del termine “sintattico” è significativo qui, perché indica che ha già cominciato ad impiegare l’analogia linguistica nell’analisi dell’interazione. I concetti della linguistica ebbero un ruolo importante nello sviluppo dell’approccio all’interazione per studiosi come Birdwhistell e Scheflen (Birdwhistell, 1952, 1970; Scheflen, 1963, 1964, 1974; McQuown, 1971. Per una discussione su questo approccio si veda Kendon, 1972, 1979, 1982; McDermott e Wertz, 1976 e McDermott e Roth, 1978). 8 L’INTELAIATURA DI GOFFMAN PER LO STUDIO DELL’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA La co-presenza e i modi per fornire l’informazione In generale, Goffman assume il raggruppamento come unità di studio dell’interazione faccia a faccia, definendolo come tutte le occasioni in cui due o più persone sono, come lui dice, co-presenti l’una all’altra. Lo studioso definisce la co-presenza nel modo seguente: “Gli individui devono sentirsi abbastanza vicini agli altri tanto da essere percepiti qualsiasi cosa stiano facendo, incluso anche il loro esperire gli altri; e abbastanza vicini da “essere percepiti” in questa sensazione di essere percepiti” (Goffman, 1963: 17; trad. it., 1971, p. 19). Continua dicendo che generalmente ci si aspetta che le condizioni della co-presenza si trovino soprattutto tra i confini di una stanza, ma nei posti non delimitati da muri i confini della copresenza non sempre possono essere tracciati chiaramente. In un parco, per esempio, se è relativamente affollato, le persone che si trovano a 50 metri di distanza possono non percepirsi allo stesso modo in cui possono farlo se si trovano a soli due metri. Quando le persone sono co-presenti, di regola, riescono a percepirsi con i sensi nudi. In tali circostanze ognuno può accorgersi di ciò che sta facendo l’altro, ma può anche vedere di essere visto nel momento in cui vede le azioni dell’altro; così si crea una speciale reciprocità. P può valutare le azioni di Q e adattare le proprie azioni di conseguenza, ma in situazioni di co-presenza Q può fare lo stesso, e sia P sia Q possono, quindi, adattare le proprie azioni per il fatto che l’altro le sta adattando rispetto a lui. In tali circostanze si crea un tipo di accordo secondo cui ciascuno prende sulla fiducia la linea d’azione dell’altro. Ciò significa che non è necessario che le persone controllino continuamente l’altro, perché quello che una persona fa è interpretato dall’altro come una linea d’azione e così può si presumere cosa farà in seguito; cioè, l’altro è visto come se fosse impegnato in un progetto, sul quale si può fare affidamento; di conseguenza colui che percepisce la linea d’azione dell’altro può costruire la sua linea d’azione in virtù di questo. Inoltre, ovviamente, può fare questo alla luce della sua stessa supposizione che l’altro supporrà che anche lui sia impegnato in un progetto. Stabilendo la nozione della co-presenza, Goffman ci fa rendere conto che in tutte le situazioni in cui le persone si trovano in condizione di 9 percepirsi reciprocamente è destinata a crearsi una sorta di interdipendenza delle azioni. In questa maniera il concetto di “interazione” è immediatamente ampliato in modo radicale. Fino a quel momento gli studiosi dell’interazione si erano occupati solo degli esempi in cui due o più persone (ma generalmente due) parlavano effettivamente tra loro. Goffman mostrò che questa era una visione troppo ristretta. Nella sua discussione sulla co-presenza, inoltre, Goffman mise in rilievo un altro principio molto importante. E cioè che ogni volta che le persone sono co-presenti sono, allo stesso tempo ed inevitabilmente, una fonte d’informazione per l’altro. Questo era un punto che Gregory Bateson aveva evidenziato qualche anno prima (si veda Watzlawick, Beavin e Jackson, 1967: 51), ma Goffman gli diede nuova vita perché riuscì a mostrare in quali diversi modi le persone davano informazioni l’uno all’altro e di che tipo di informazione si trattasse. Mise in evidenza che in ogni raggruppamento i partecipanti suppongono che essi danno informazioni in due modi: fornendo informazioni ed emettendo informazioni. Quando una persona fornisce informazioni lo fa attraverso azioni che sono considerate volontarie, per cui è ritenuto responsabile di ciò che fornisce. Ciò significa che, di regola, l’informazione fornita è data attraverso l’uso di azioni simboliche – cioè, azioni che sono reciprocamente riconosciute come azioni che si riferiscono a qualcos’altro. In questo senso, quando parliamo, forniamo l’informazione attraverso il contesto di ciò che diciamo – sebbene, oltre al parlare, ci sono molti altri modi per fornire informazioni. Dall’altro lato, le informazione che sono emesse sono considerate come informazioni che vengono date che la persona lo voglia o meno; è un prodotto immancabile ed inevitabile della sua presenza e delle sue azioni. Posso indicarti la strada per arrivare alla cattedrale ma nel farlo trasmetto, attraverso la scelta delle parole, attraverso il mio accento e così via, informazioni aggiuntive. Queste informazioni aggiuntive sono trasmesse piuttosto che fornite. È importante ricordare che qui la questione non è se l’informazione sia fornita di fatto volontariamente o involontariamente, ma piuttosto se i co-partecipanti al raggruppamento la considerano come volontaria o meno. In tutte le situazioni di interazione, sembra che i partecipanti trattino solo alcuni aspetti del comportamento degli altri come deliberatamente intenzionali e destinati a trasmettere qualcosa. Nelle conversazione è quello che generalmente è chiamato “contenuto della conversazione” ad essere considerato in questo modo, non il modo di parlare, e certamente non la disposizione del corpo e le disposizioni ecologiche in cui la conversazione è condotta. Tuttavia, non è che questi altri aspetti della situazione non abbiano un ruolo nella strutturazione dell’interazione. Tutt’altro. Hanno un 10 ruolo decisivo nell’intera organizzazione dell’evento. Dobbiamo molto a Goffman per averci fatto scoprire questo. Goffman affronta questa fondamentale distinzione tra “fornire” e “emettere” l’informazione in svariati modi. Una delle sue più elaborate trattazioni dell’argomento si trova in Frame Analysis (1974). In questo libro lo studioso sviluppa la nozione di “piste di attenzione”. Suggerisce che in ogni incontro sociale c’è sempre un aspetto dell’attività che si sta svolgendo che è considerato come facente parte di una “pista principale” o di una “trama”. Un campo d’azione è delineato come rilevante allo scopo principale dell’incontro ed è orientato in quanto tale ed è trattato di conseguenza. L’azione trattata in questo modo è considerata come volontaria e l’informazione che data in questo caso è un’informazione fornita. Altri aspetti dell’attività che si sta svolgendo non sono trattati in questo modo ma ciò non significa che essi non abbiamo un ruolo nel processo interattivo. Dunque Goffman propone di distinguere una “pista direzionale” in cui, come lui stesso dice, “si trova un flusso di segni che è esso stesso escluso dal contenuto dell’attività ma che serve come mezzo per regolarla, delimitando, articolando e qualificando le sue varie componenti e fasi” (Goffman, 1974: 210; trad. it., 2001, p. 143). Si può parlare anche di una “pista della disattenzione” (Goffman, 1974: 210) alla quale sono assegnati una varietà di azioni che sono considerate come se non avessero affatto un ruolo nell’interazione. Goffman ha fatto riferimento, in particolare, alla “liberazione di bisogni umani” – grattarsi, cambiare la posizione del corpo e così via – che sono, per così dire, deviazioni consentite della disciplina comportamentale che tutti i partecipanti in copresenza seguono come prezzo da pagare per essere considerati come esseri umani normali e predicibili e che passano inosservati. Come lo stesso Goffman chiarisce, e come si può comprendere con una breve riflessione, non è che i partecipanti non notino e non rispondano alle azioni incluse nella pista della disattenzione. Al contrario, si può mostrare che in molte situazioni esse svolgono un ruolo importante nel processo interattivo. È per mezzo delle azioni che sono trattate reciprocamente come appartenenti alla “pista della disattenzione”, per esempio, che i partecipanti ad un incontro conversazionale possono mettersi d’accordo su quando terminare l’incontro. Posso avvisarti che ho bisogno di spostarmi in qualche altro posto con un certo cambiamento nella direzione dello sguardo, con una certa irrequietezza nella postura, forse cambiando la velocità con cui svolgo un’attività collaterale, come bere o fumare. Questi cambiamenti non sono considerati in modo ufficiale, non sono nemmeno considerati come parte della mia espressione, eppure possono essere trattati, nondimeno, come elementi che trasmettono certe 11 precise informazioni circa le mie intenzioni attuali e permettono all’altro di adattare la propria linea d’azione di conseguenza. Tipi di occasioni interazionali: interazione focalizzata e interazione non focalizzata Il raggruppamento, come abbiamo visto, è il termine che Goffman usa per definire un insieme di individui che sono co-presenti. I raggruppamenti possono essere organizzati in diversi modi. Goffman ha proposto un’importante generica distinzione tra ciò che ha chiamato raggruppamenti focalizzati e raggruppamenti non focalizzati. In un raggruppamento focalizzato i partecipanti sono organizzati in modo da mantenere un punto focale di attenzione in comune. In un raggruppamento non focalizzato un simile punto focale non può essere percepito e i vari partecipanti perseguono linee di interessi indipendenti. I raggruppamenti non focalizzati includono, ad esempio, i pedoni per strada, gli utenti di una sala di lettura, persone che aspettano in una sala d’attesa. Esempi di raggruppamenti focalizzati sono occasioni di qualsiasi tipo di conversazione, partite di tennis, coppie di ballerini, coppie di lavoratori che cooperano per portare a termine un compito che richiede un’attenzione mantenuta in comune, interviste, colloqui, sedute di psicoterapia e simili. Operando questa distinzione, e mostrando che una gran varietà di occasioni interazionali possono essere adattate in questo modo, Goffman ha suggerito che occasioni che a prima vista sembrano molto diverse hanno caratteristiche organizzative comuni. Attirando la nostra attenzione su queste caratteristiche ci ha mostrato aspetti delle situazioni interazionali che non erano mai stati presi in considerazione in modo sistematico prima. Inoltre, soprattutto attraverso la caratterizzazione degli aspetti del raggruppamento focalizzato, è riuscito a suggerire i modi in cui i vari aspetti del comportamento, finora non considerati nello studio dell’interazione, dovevano invece giocare un ruolo cruciale. Se cominciamo a lavorare tenendo conto di questa dicotomia e, pensando ai diversi tipi di raggruppamento cerchiamo di stabilire se siano focalizzati o non focalizzati, scopriremo molto presto che questa distinzione non può essere considerata molto più che una semplice approssimazione. Guardiamo alcuni esempi. Le persone che camminano per strada costituiscono un insieme di individui che, sebbene co-presenti, perseguono ciascuno una linea d’azione indipendente – sembrerebbe questo, un puro esempio di interazione non focalizzata. Tuttavia, come lo stesso Goffman ha mostrato nell’elegante 12 discussione di questa situazione (in Behavior in Public Places, 1963: 83-8 e poi in modo più elaborato in Relations in Public, 1971: 5-18), esiste una reciproca coordinazione tra le persone. Egli identifica un rituale interattivo minimo, che egli chiama “disattenzione civile”, in cui ciascun passante si comporta rispetto all’altro in modo da comunicare, allo stesso tempo, il riconoscimento del passaggio di un altro essere umano e il riconoscimento dell’altrui diritto di seguire una propria e indipendente linea d’azione. Già in questo minimo tipo di scambio, per esempio, lo sguardo che i passanti si lanciano accordandosi reciprocamente sul non far incontrare i propri occhi, facendo in questo modo capire agli altri di non essere spaventati, ostili o di non guardare l’altro come un automa, possiamo vedere che nella situazione del camminare per strada c’è molto più che il semplice guidare il proprio corpo per passare tra gli altri. In quella che è apparentemente la più non focalizzata delle situazioni, possiamo tuttavia scorgere una serie di accordi momentanei sul non mantenere un punto focale d’attenzione comune ed in questo, sembra, abbiamo un esempio di interazione che ha alcune delle proprietà degli scambi focalizzati. Si può osservare che in questi momenti di “disattenzione civile” due persone coordinano le loro azioni su un comune obiettivo, pur accordandosi in questo caso sul non unirsi in un punto focale d’attenzione comune. Consideriamo ora un altro tipo di raggruppamento, la coda. Si tratta di un esempio di raggruppamento focalizzato o non focalizzato? Una coda si forma laddove un certo numero di persone vogliono tutti fare qualcosa che può essere fatta da una sola persona (o piuttosto, per usare un utile concetto di Goffman, una “unità di partecipazione”)1 per volta: comprare il biglietto per entrare nel cinema, ad esempio. A primo acchito, si potrebbe pensare che una coda sia un raggruppamento focalizzato perché ogni partecipante è in attesa per fare la stessa cosa: tutti focalizzano la propria attenzione sull’attività di comprare il biglietto. Ma ciò sarebbe sbagliato perché, ovviamente, l’acquisto del biglietto è una transazione individuale che coinvolge i membri della coda come partecipanti indipendenti. La 1 Il concetto di “unità di partecipazione” è stato introdotto in Relations in Public (1971: pp. 19-27). Goffman mette in evidenza che gli individui possono partecipare alle occasioni interazionali come “singoli” e come membri di un “insieme”. Un buon esempio di un “insieme” è una “coppia” o un “gruppo familiare” composto da genitori e figli. In una coda al cinema, per esempio, i “posti” possono essere occupati da “coppie” o da “gruppi familiari”, e ad ogni individuo che costituisce una parte di queste unità è accordata la stessa priorità nella coda. Le unità che compongono una coda, quindi, se considerate dal punto di vista della sua organizzazione come occasione interazionale, non sono individui ma “unità di partecipazione”, alcune delle quali possono essere “singoli”, altre “insiemi”. 13 transazione dell’acquistare il biglietto in sé è un’interazione focalizzata, ovviamente, ma i membri della coda non sono i partecipanti ad un raggruppamento che collaborano per mantenere l’attività del comprare il biglietto. In una coda, ciò che abbiamo è un insieme di unità di partecipazione, ciascuna focalizzata separatamente ed indipendentemente sulla stessa cosa. In un’interazione focalizzata il punto focale comune deve essere la comune responsabilità dei partecipanti. Ciò nonostante la coda possiede alcuni aspetti non dissimili da quelli che possiamo osservare in un raggruppamento completamente focalizzato, come le conversazioni. Per esempio, una coda ha una caratteristica e particolare organizzazione spaziale, ha dei confini e chi vuole essere membro della coda deve rispettare questi confini altrimenti non verrà considerato come un effettivo membro della coda e quindi non può tenere un “posto” in essa. Se una persona sta troppo a lato o troppo indietro alla persona vicina, possono sorgere dubbi circa il suo essere in coda. Per essere impegnati nello stare in coda, quindi, i partecipanti devono unirsi nel mantenere una certa disposizione spaziale (o “formazione” come l’ho chiamata altrove - Kendon, 1977) e questo deve essere fatto attraverso un tipo di interazione che si possa considerare a tutti gli effetti come governata da un punto focale d’attenzione mantenuto in comune. Questo punto focale è raramente formulato in quanto tale, non viene trattato come la “trama” di un’interazione. Tuttavia è qualcosa a cui tutti i membri della coda prestano attenzione ed è facile osservare come essi cooperano affinché esso venga mantenuto. Non sarebbe corretto dire che una coda è un raggruppamento focalizzato, eppure non possiamo negare che, almeno in termini di manovre spaziali ed orientazionali, ciò che avviene è un tipo di interazione focalizzata. Un altro esempio che possiamo considerare da questo punto di vista è un plotone militare in parata, o forse, gli allievi e l’insegnante durante un’escursione o in classe. Qui abbiamo un insieme di individui che seguono tutti un unico punto focale d’attenzione, l’ufficiale che dà gli ordini o l’insegnante. Ancora una volta, queste occasioni hanno un’organizzazione spaziale che è mantenuta grazie alla cooperazione dei membri e a cui bisogna partecipare per essere considerati partecipanti. Anche in questi casi ci sono delle cose che è giusto aspettarsi, altre che sono invece inadeguate – vi sono adeguati modelli di sguardo e di posture e ci sono delle disposizioni che governano l’organizzazione delle mosse e delle risposte come negli scambi verbali tra allievo ed insegnante o negli scambi enunciato-movimento tra l’ufficiale che dà l’ordine e gli uomini che lo eseguono. Vari sono, dunque, i modi in cui tutti i partecipanti devono cooperare per mantenere occasioni come le parate o le escursioni. Tuttavia, 14 il punto focale “ufficiale”, le cose che sono trattate come appartenenti alla “trama” o alla “pista principale” non sorgono attraverso le azioni comuni dei partecipanti allo stesso modo in cui accade in una conversazione o in una partita di tennis. In una classe o in una parata vi è un unico punto focale d’attenzione che deve essere seguito da un insieme di individui singolarmente e questo punto focale non cambia per mezzo dell’azione cooperativa dei partecipanti. In una conversazione, tuttavia, l’argomento in corso è creato in comune ed è mantenuto in comune; e se uno dei partecipanti, al suo turno di parola, per qualche ragione non riesce a parlare (a causa di un attacco di tosse o forse perché non riesce a pensare a nulla da dire) la conversazione potrebbe dover essere sospesa. O se in una partita di tennis – un altro esempio di interazione focalizzata – una delle parti ha improvvisamente uno strappo muscolare e non può servire o rispondere al servizio, il gioco deve essere sospeso. Invece, un soldato che ha un collasso durante la parata o un allievo che resta indietro non determinano la sospensione dell’intera faccenda a meno che l’ufficiale o l’insegnante non lo ritengano opportuno. Ovviamente, gli allievi o i soldati possono ribellarsi, possono rifiutarsi di mantenere l’organizzazione in cui ciascuno singolarmente presta attenzione al punto focale in comune, nel cui caso la situazione cambia. Tuttavia, il punto è che il punto focale d’attenzione in sé non è qualcosa che è mantenuto insieme, come l’argomento di una conversazione o la partita di tennis. Si è tentati di distinguere da un lato il raggruppamento con un punto focale in comune, di cui il plotone militare in parata e l’escursione sono un esempio, e dall’altro il raggruppamento con un punto focale mantenuto congiuntamente, come le conversazioni o le partite di tennis. Goffman stesso ha suggerito che possiamo distinguere il raggruppamento plurifocalizzato da quello monofocalizzato. L’esempio standard di raggruppamento plurifocalizzato è un ricevimento pomeridiano (“cocktail party”) in cui ci sono più partecipanti, tutti all’interno di uno spazio delimitato, dove ci sono molti singoli raggruppamenti congiuntamente focalizzati – una molteplicità di “nodi” conversazionali o “riunioni”. Tali occasioni sono di particolare interesse perché mettono in evidenza molto chiaramente alcune importanti caratteristiche dei raggruppamenti congiuntamente focalizzati. Tra questi aspetti includiamo il modo in cui i partecipanti cooperano per mantenere l’integrità dell’occasione come unità di un’attività sostenuta in comune. Ciò che interessa in un raggruppamento plurifocalizzato è che si hanno una serie di queste occasioni delimitate nello spazio di un’attività mantenuta congiuntamente all’interno dello stesso spazio fisico. L’osservazione di simili ambienti dà l’opportunità di vedere come è mantenuta l’integrità di queste occasioni. 15 Si può osservare, per esempio, che ogni incontro focalizzato si mantiene come gruppo spazialmente distinto. Le persone si muovono l’uno in relazione all’altro cosicché il piccolo mondo della conversazione che essi hanno stabilito sia mantenuto come un mondo indipendente; ciò che accade intorno è accuratamente considerato irrilevante. Possiamo osservare, inoltre, le procedure che le persone seguono quando entrano in queste unità delimitate nello spazio e quando ne escono. Goffman, in Behavior in Public Places (1963) introduce in modo succinto tali procedure, riferendosi in particolare al modo in cui gli impegni diretti devono essere aperti da una serie di mosse attraverso cui, prima dell’inizio dell’incontro, le eventuali parti devono far capire agli altri che sono aperti e disponibili per l’impegno. Questo avviene spesso attraverso un sottile scambio di sguardi che può essere seguito da manovre spaziali comuni che portano i partecipanti a trovarsi ad una distanza adatta. Normalmente, c’è uno scambio di parole e gesti – un “saluto”, cioè – che serve a stabilire che le parti sono apertamente entrate nell’interazione. Questi enunciati e questi gesti di saluto servono ad annunciare pubblicamente l’accordo di impegnarsi in un incontro focalizzato, rendendo pubblico l’accordo sia ai partecipanti stessi sia a coloro che stanno intorno. E questo è importante perché quelli che stanno intorno si comporteranno in modo molto diverso nei confronti dei due o più che sono impegnati in un incontro focalizzato, rispetto alle persone che non lo sono. L’integrità di un incontro congiuntamente focalizzato è, dunque, il prodotto sia della cooperazione mantenuta dei partecipanti che della cooperazione degli altri, che si trovano nello stesso ambiente ma non sono partecipanti. Così possiamo osservare, in situazioni come i ricevimenti pomeridiani, come i diversi esempi di interazione focalizzata cooperano per restare spazialmente distinti. Intorno ad ogni occasione di conversazione c’è una specie di “terra di nessuno”, una zona tampone. Le persone possono passare in questo spazio ma, di regola, nel farlo non prestano attenzione ai raggruppamenti che vi sono in esso. Se si fermano, d’altra parte, ammesso che si dispongano in un particolare tipo di orientazione rispetto all’incontro focalizzato che si sta svolgendo, è probabile che essi vengano fatti entrare o siano invitati ad unirsi. In tali occasioni, dunque, possiamo notare come un mero movimento e l’orientazione nello spazio possono costituire una mossa nello scambio interazionale. Goffman fornisce uno schema dettagliato dell’organizzazione di ciò che ho chiamato raggruppamento congiuntamente focalizzato – lui li chiama anche “impegni diretti”, “incontri” o “sistemi di attività situate”. Lo studioso dice: “Gli impegni diretti comprendono tutti i casi in cui due o più partecipanti ad una situazione risultano apertamente legati l’un l’altro allo 16 scopo di mantenere un unico punto focale di attenzione conoscitiva e visiva, il che viene considerato come un’unica attività reciproca che comprende un diritto a un tipo di comunicazione preferenziale” (Goffman, 1963: 89; trad. it., 1971, p. 90-91). Lo studioso mette in evidenza che questa organizzazione prevale non solo in quelle occasioni in cui il parlato è l’attività principale e il mezzo attraverso cui l’attività reciproca è portata avanti, ma anche nei casi in cui due o più individui si uniscono per mantenere un punto focale di comune interesse. Egli illustra come le persone che sono entrate in un’interazione focalizzata tendono a mantenere una diversa organizzazione spaziale – “una relazione ecologica di tipo occhi-negli-occhi, aumentando al massimo l’opportunità di captare le percezioni reciproche” (1963:95; trad. it., 1971, p. 97). Continua poi: Prevale una definizione partitiva della situazione, che consiste in un accordo su ciò che è rilevante o irrilevante percepire, e in un “consenso operativo” che implica un certo grado di reciproca considerazione e simpatia, nonché la messa a tacere delle divergenze. Spesso si sviluppa uno spirito di gruppo, che Bateson ha definito ethos. Contemporaneamente sembra anche aumentare il senso di responsabilità morale per i propri atti. Si manifesta una “logica comunitaria” (we-rationale), che consiste nella consapevolezza da parte dei partecipanti di star facendo apertamente tutti insieme, in quel momento, la stessa cosa. (1963: 96-8; trad. it., 1971, p. 97-98) La caratterizzazione di Goffman delle proprietà dell’incontro focalizzato – sviluppato in modo leggermente diverso in molti suoi lavori – servì a sollevare nuove questioni per gli studiosi dell’interazione e portò l’attenzione sull’importanza di analizzare tutti gli aspetti del comportamento che fino a quel momento erano stati ignorati. Così, enfatizzando la singolarità del mondo interazionale che si stabilisce in queste occasioni, Goffman ha attratto l’attenzione sull’importanza di studiare i mezzi attraverso cui ciò si compie. Cioè, ha messo in rilievo che considerare gli aspetti del comportamento nell’interazione che servono a mantenerne i confini è tanto importante, per capire come avviene l’interazione, quanto lo studio degli scambi effettivi che occorrono in questi confini. Ha indicato anche cosa cercare – in particolare la disposizione spaziale adottata dalle persone impegnate nell’interazione ed anche il modo in cui i raggruppamenti focalizzati sono organizzati in relazione all’ambiente fisico in cui hanno luogo. Lo studio dei sistemi di formazione (Scheflen e Ashcraft, 1976; Kendon, 1977; Ciolek e Kendon, 1980) – cioè, lo studio di come gli interagenti iniziano e mantengono una disposizione spaziale ed orientazionale – è un prodotto diretto del lavoro di Goffman sull’interazione focalizzata. Goffman sostenne anche che per capire come è mantenuta l’integrità dei raggruppamenti è molto importante considerare anche l’ambiente fisico in 17 cui questi hanno luogo; così ha prestato attenzione ai vari modi in cui l’ambiente è strutturato per l’interazione e ai diversi modi in cui, nei raggruppamenti, i partecipanti usano le caratteristiche dell’ambiente fisico a seconda di come l’interazione è organizzata. Goffman ha attirato l’attenzione anche sul problema delle persone che sono potenziali partecipanti ad un’interazione focalizzata. Come passano dallo stato dell’essere “non impegnati” a quello di essere “impegnati”? Dall’essere singoli partecipanti impegnati solo in un’interazione non focalizzata ad essere “collocati in stato di conversazione” l’un con l’altro? I piccoli rituali attraverso cui gli incontri focalizzati sono allestiti diventano, così, aspetti interessanti. Egli ha mostrato che prima che le persone possano iniziare uno scambio di enunciati o di gesti devono accordarsi sull’intenzione di avere questo scambio. E per capire come si raggiunge questo accordo precedente, bisogna guardare al di là degli effettivi enunciati e dei gesti che vengono scambiati e considerare le condizioni prestabilite in anticipo: quindi dobbiamo considerare gli sguardi, le manovre, la postura e l’orientazione, tutti elementi che portano allo scambio di esplicite mosse e risposte. Studiando questi aspetti possiamo avere una buona illustrazione del modo in cui gli aspetti del comportamento, non esplicitamente organizzati come mosse che forniscono informazioni agli altri – cioè gli “atti espliciti” come li chiamerò tra poco – sono nonostante ciò esaminati attentamente perché emettono informazioni sulle future intenzioni degli altri; e possiamo ottenere un’illustrazione anche di come le persone possono deliberatamente manipolare il comportamento che normalmente è trattato come parte della pista della disattenzione per fornire informazioni circa le loro intenzioni, cosicché gli altri possano organizzare le loro intenzioni e il loro comportamento di conseguenza (si veda anche Kendon e Ferber, 1973; Kendon, 1985). Analisi degli scambi espliciti In un’interazione focalizzata i partecipanti si impegnano in ciò che Goffman ha chiamato “scambi”. In uno “scambio” normalmente prima una persona fa qualcosa e poi un’altra fa qualcos’altro, ma queste azioni consecutive sono trattate dai partecipanti come se fossero in qualche modo collegate, spesso come se le azioni di B fossero una sorta di risposta alla precedente azione di A. Molti studiosi hanno tentato di caratterizzare i principi di governano il modo in cui le “azioni” in uno scambio sono 18 collegate e come, di conseguenza, esse sono organizzate in un certo tipo di unità coerente, come una “conversazione”, un “discorso”, un “incontro” di combattimento, un “giro” di danza o una “partita” a carte. Implicito nell’azione dello scambio è il riconoscimento che i partecipanti all’interazione prestano attenzione al comportamento dell’altro in modo molto differenziato. Prima ho discusso di questo in rapporto con il generico punto del “fornire” e “emettere” informazioni e in rapporto alle osservazioni che Goffman fa circa le “piste di attenzione” nell’interazione. Sembra che le persone trattino alcuni aspetti del comportamento degli altri sempre come se fossero degli atti espliciti, mentre altre come se fossero o attività di “sfondo” o come se fossero irrilevanti. Nell’interazione i partecipanti trattano alcuni aspetti di ciò che gli altri fanno come azioni “volute”, azioni che sono preparate come se necessitassero una risposta esplicita, mentre altre azioni non sono affatto trattate allo stesso modo. Fondamentali per l’occorrenza degli scambi, come sono concepiti qui, allora, è l’abilità dei partecipanti di avviare il “consenso operativo”, circa ciò che è rilevante e ciò che non lo è in qualità di “atto esplicito”. L’accordarsi sulla cornice, quindi, deve essere visto come un processo precedente e fondamentale nell’organizzazione di qualsiasi scambio (Kendon, 1985). Dato l’accordo sulla cornice, possiamo dunque considerare come sono strutturati gli atti espliciti nell’interazione. Goffman suggerisce di prendere in considerazione due aspetti: i requisiti del sistema e i requisiti del rituale. I requisiti sistemici sono quei requisiti che un sistema interazionale deve avere, dato che i partecipanti hanno certe capacità anatomiche, fisiologiche e di elaborazione delle informazioni. I requisiti rituali si riferiscono alle regole che guidano l’interazione, dato che i partecipanti sono essere morali che sono guidati da norme di buona ed appropriata condotta che mantengono reciprocamente. Molto del lavoro di Goffman sugli scambi si è concentrato sulla spiegazione dei requisiti del rituale che guidano gli scambi. Tuttavia, in Forms of talk (Goffman, 1981b) egli delinea prima i requisiti sistemici e poi suggerisce come i requisiti rituali e quelli sistemici si rafforzano a vicenda. Lo schema dei requisiti del sistema che egli fornisce, racchiude insieme molti degli esiti del dettagliato lavoro svolto in anni recenti sull’interazione faccia a faccia. È un buon sommario di molto di quello che oggi si sa su questa organizzazione. Egli riesce anche a mostrare molto chiaramente perché il concetto dei requisiti del rituale è indispensabile per una completa comprensione dell’interazione. Lo schema di Goffman comprende otto requisiti sistemici che sono elencati sotto con alcuni commenti. Ho anche aggiunto alcuni riferimenti 19 ad una selezione di lavori sull’interazione che stanno alla base delle sommarie affermazioni presentate qui. Primo, deve esserci una capacità nei due sensi di trasmettere e ricevere messaggi chiari ed adeguati. Goffman specifica che questi messaggi devono essere “adeguati da un punto di vista acustico” ma possiamo supporre che Goffman accetterebbe la formulazione più generica che ne abbiamo dato, in quanto i messaggi possono anche essere visivi – un punto a cui dà molta enfasi, in verità, come discuteremo sotto. Questa capacità di inviare e ricevere messaggi ovviamente dipende da adeguate condizioni ambientali e dalle circostanze che permettono ai partecipanti sia di regolare l’apparato “trasmittente”, sia di orientare l’apparato “ricevente”. In questo modo si può comprendere l’ecologia dei raggruppamenti conversazionali: le persone devono essere abbastanza vicine da potersi sentire e vedere, devono orientarsi in modo adeguato, ecc. (si veda Kendon, 1977; Ciolek e Kendon, 1980). Secondo, è necessaria la presenza di segnali per informare l’emittente che la ricezione è in atto. Molti aspetti del comportamento degli ascoltatori possono avere questa funzione. Per esempio, alcune disposizioni posturali ed orientazionali, normalmente usate dagli ascoltatori, servono ad informare che si sta prestando attenzione al parlante – Scheflen (1964, 1972) fornisce alcune osservazioni pionieristiche su questo aspetto. Alcuni modelli di direzione dello sguardo, i gesti della testa e del volto e i brevi enunciati vocali servono come feedback per il parlante per sapere come i suoi enunciati sono considerati e ricevuti (Yngve, 1970; Duncan e Fiske, 1977; Goodwin, 1981). Terzo, ci devono essere segnali per annunciare la ricerca del canale di comunicazione, per annunciare che un canale è aperto ed anche segnali per chiudere un canale. Queste funzioni di apertura e chiusura forniscono, in parte, una spiegazione per la presenza degli scambi di saluto e di congedo (Kendon e Ferber, 1973, Schegloff e Sacks, 1973). Quarto, dato che P non può rispondere a Q finché non sa quale sarà l’azione pertinente di Q, vediamo che i partecipanti agli scambi espliciti tendono ad alternarsi o a fare a turno quando sono impegnati in azioni esplicite. Ciò implica che occorreranno una serie di segnali o marcatori attraverso cui indicare l’inizio e la fine di ogni turno e attraverso cui indicare quale dei partecipanti avrà il turno successivo. Bisognerebbe aggiungere che la questione del “turn-taking” nell’interazione e la sua spiegazione è molto più complessa di quanto questo paragrafo possa suggerire. Per esempio, P talvolta può iniziare il suo turno prima che il turno di Q sia terminato. Ciò può accadere non solo in quelle situazioni in cui P vuole interrompere Q, ma può capitare perché 20 spesso P riesce a prevedere la natura dell’azione attinente di Q, che è in corso. Questa anticipazione può essere dovuta a diversi fattori, come il fatto che P può conoscere l’argomento di cui Q sta parlando, che P può avere la capacità di afferrare la struttura dell’intonazione dell’enunciato di Q o di afferrare la ridondanza nella struttura del discorso di Q. Questo, talvolta, fa sì che P completi l’enunciato di Q e che vi faccia delle aggiunte. In alcune circostanze, inoltre, sembra che gli individui siano in grado di ascoltare e di parlare allo stesso tempo. Nonostante ciò, l’alternanza degli atti comunicativi espliciti è una caratteristica preminente di molte interazioni e ciò probabilmente si può spiegare in gran parte tenendo conto delle limitazioni della capacità di elaborazione delle informazioni che hanno i partecipanti. Nelle misura in cui ciò è valido, possiamo aspettarci la presenza di quegli aspetti del comportamento che funzionano come segnali per la regolazione del turno, che probabilmente sono inclusi in tutte le interazioni umane. Quinto, ci devono essere tecniche per ripetere, ritardare o interrompere un messaggio. Sesto, ci devono essere modi attraverso cui i messaggi possono essere inquadrati in una certa cornice; cioè ci devono essere segnali metacomunicativi, per usare un termine di Gregory Bateson (si veda Bateson, 1956), che segnalano come leggere il messaggio inviato. Settimo, ci sono norme che regolano lo sviluppo del contenuto del messaggio in modo che sia attinente a ciò che è stato detto in precedenza. Infine, ci devono essere regole che guidano la relazione tra gli individui attivamente impegnati in uno scambio e coloro che, pur trovandosi a portata di ciò che è in atto, non sono partecipanti. Cioè, ci devono essere dei modi per distinguere gli effettivi emittenti-riceventi dai potenziali emittenti-riceventi. Ancora una volta troviamo un principio in base a cui considerare la condotta spaziale ed orientazionale degli individui co-presenti, dove alcuni dei essi sono impegnati in uno scambio mentre altri no o non nello stesso scambio. (Kendon, 1977; Ciolek e Kendon, 1980). Questi requisiti sistemici possono contribuire in modo determinante a spiegare ciò che osserviamo dell’organizzazione del comportamento negli scambi espliciti. Tuttavia, essi ci sono utili se assumiamo che i partecipanti hanno già, come dice Goffman stesso, “concordemente deciso di operare (di fatto) soltanto come nodi di comunicazione e di rendersi del tutto disponibili a questo scopo” (Goffman, 1981b: 15; trad. it., 1987, p. 44). Se una persona deve impegnarsi ad operare come “nodo di comunicazione”, tuttavia, può farlo solo rispetto ad un unico sistema per volta (un altro “requisito del sistema”), e di conseguenza deve rinunciare a 21 qualunque altra attività. Ricevere una richiesta di aprire un canale di comunicazione con un’altra persona, significa ricevere la richiesta di mettere da parte le altre richieste. Questa richiesta è una violazione della propria autonomia, quindi, il ricevente potrebbe sentirsi offeso. Allo stesso modo, trasmettere una richiesta per l’apertura di un canale di comunicazione ad un altro significa rischiare che l’altro la consideri un’offesa e ricevere un rifiuto, e significa rischiare che la propria rispettabilità, come persona individuale, venga negata. E ovviamente l’altro, nel rifiutare, è probabile che sia visto come una persona che nega il valore degli altri – buona ragione, questa, per non inviare, in futuro, richieste per aprire un canale di comunicazione a quella persona. Le richieste per aprire un canale di comunicazione sono rischiose per la stima di se stessi, quindi, ma rifiutare queste richieste equivale a mettere a rischio la rispettabilità che gli altri accorderanno a quella persona. Quindi il destinatario ha un certo obbligo di rispondere ma l’emittente ha l’obbligo di formulare il suo discorso in modo da consentire all’altro di rifiutare, se deve, con cortesia. Quindi possiamo vedere che gli scambi espliciti hanno delle caratteristiche che non possono essere spiegate semplicemente in termini di requisiti sistemici. Nel cercare di aprire una conversazione, per esempio, le persone rivolgono agli altri vari tipi di gesti e di enunciati che, pur avendo la funzione di aprire un canale, servono anche come mezzi per riconoscere la rispettabilità dei partecipanti. Per chiudere una conversazione, una persona non mette semplicemente fuori servizio i suoi organi di ricezione (cioè non si tappa le orecchie o chiude gli occhi), passa piuttosto attraverso un elaborato processo di avviso di chiusura. Si cerca prima un accordo sulla chiusura e poi si avvia questo accordo; e la cerimonia della chiusura stessa è vincolata da espressioni che rassicurino reciprocamente i partecipanti che l’interruzione dei canali di comunicazione che sta per avere luogo non implica che essi non saranno disposti a riaprirli, se le circostanze dovessero permetterlo. Dunque i processi di apertura e di chiusura di un canale di comunicazione sono elaborati attraverso rituali di saluto e di congedo. Possiamo cercare di spiegarli in termini di requisiti sistemici ma una comprensione della loro struttura richiede anche una comprensione dei requisiti rituali dell’interazione. La manovre pre-esplicite di saluto a cui abbiamo alluso prima, spesso composte dal comportamento considerato appartenente alla pista della disattenzione, richiedono l’aspetto rituale dell’interazione per essere comprese. Infatti, il modo stesso in cui le persone scelgono di differenziare le azioni in “esplicite” e non “esplicite”, è una funzione della struttura rituale dell’interazione. Certo, il modo selettivo con cui rispondiamo al comportamento degli altri è una conseguenza delle 22 limitazioni delle capacità d’attenzione. La risposta differenziata, quindi, ha origine in un requisito del sistema. Ma ciò su cui le persone si accordano di prendere o non prendere in considerazione è parte dell’accordo generale che essi hanno di considerarsi reciprocamente come persone rispettabili. Anche l’accordo a cui si arriva, quindi, è regolato da requisiti rituali. Atti espliciti Ora, deve essere discussa un’ultima questione sollevata dall’analisi di Goffman sugli scambi espliciti: si tratta della questione della natura di questi atti espliciti, in virtù della quale sono organizzati. Ho cercato, per quanto possibile, di non specificare cosa siano gli “atti espliciti”. La maggior parte delle volte, naturalmente, sembra che assumiamo che ciò che si considera un “atto esplicito” sia un atto linguistico o almeno una vocalizzazione, e virtualmente tutti gli studi che hanno tentato di fare una precisa analisi dell’interazione si sono limitati alle occasioni in cui gli scambi di enunciati verbali costituiscono il principale coinvolgimento dei partecipanti; ciò vale anche per quegli studi il cui principale interesse erano gli aspetti non-verbali della comunicazione. Il numero di indagini sull’interazione dove il parlato non è compreso o dove gioca un ruolo minore sono davvero pochi, per quanto ne so. Goffman, tuttavia, si è dato sempre molto da fare per mettere in evidenza che gli atti espliciti, di cui sono composti gli scambi espliciti, non devono essere necessariamente né atti linguistici né gesti, ma possono essere qualsiasi cosa i partecipanti abbiano deciso di considerare come esplicito. Ad un atto verbale si può rispondere in modo appropriato con un gesto, come quando dico “Passami il sale” ed il sale viene passato; ad un’azione fisica si può rispondere adeguatamente con un atto verbale, come quando il cameriere muove il beccuccio della caffettiera ed io dico “Solo metà tazza, per favore”; e ad un’azione fisica si può rispondere appropriatamente con un’altra azione fisica, come quando A prende una sigaretta, ne offre una a B, B la prende e tira fuori il suo accendino e lo porge con la fiamma accesa ad A affinché possa accendere. O si consideri la transazione che ha luogo quando un cliente compra una tavoletta di cioccolato in un bar. Il cliente può avvicinarsi alla cassa e dire “Quanto costa?” e la cassiera può rispondere “50 centesimi”. Qui abbiamo una domanda verbale alla quale segue una risposta verbale. Tuttavia, il cliente può anche avvicinarsi alla cassa e mantenere la tavoletta di cioccolato tenendola in alto e in avanti in modo che sia bene in vista. 23 Anche questa sarà presa come una mossa e la cassiera può dire ancora, semplicemente, “50 centesimi”. Qui un’azione fisica, combinata con il mantenere un oggetto, riceve una risposta verbale. Infine, se il cliente conosce già il prezzo della tavoletta di cioccolato può avvicinarsi alla cassa mantenendo sia la cioccolata che i soldi, a questo la cassiera può semplicemente stendere la mano, col palmo verso l’alto, il cliente vi può depositare il denaro e andarsene. Qui l’intera transazione è condotta senza dire una parola. Tuttavia, in tutti e tre i casi abbiamo un esempio di scambio esplicito, uno scambio che, in ogni caso, ha fondamentalmente la stessa struttura. Per le transazioni di questo tipo possiamo identificare una mossa di apertura, per mezzo della quale il cliente stabilisce il suo desiderio di essere un acquirente, mosse attraverso cui è identificata la merce di cui si ha bisogno ed è stabilito il prezzo ed una serie di mosse finali attraverso cui il denaro è offerto e ricevuto. Che queste mosse e risposte siano realizzate attraverso delle manovre spaziali e l’orientazione, attraverso i gesti facciali o manuali, attraverso la manipolazione e il passaggio degli oggetti, attraverso la parola o attraverso una combinazione di tutto ciò, il modello organizzativo della transazione resta lo stesso. Si può riconoscere, dunque, una struttura comune per queste transazioni di vendita. Si può mostrare come, in varie circostanze, le mosse stesse sono espresse in modi diversi: ora solamente come manovre spaziali e manipolazione degli oggetti, ora come atti linguistici e gesti. Un’analisi di questo tipo mostrerebbe come, “le sequenze interazionali stabiliscono una fessura, ed essa può essere riempita con qualsiasi cosa sia disponibile: se non si ha una frase, un borbottio può andare bene, se non si ha un borbottio, una contrazione muscolare farà lo stesso” (Goffman, 1971: 149, n. 38). Con esempi di questo tipo, Goffman riesce a concludere, come fa in “Replies and Responses” (Goffman, 1981b), che il parlato non è che un “esempio di quell’organizzazione in virtù della quale gli individui si riuniscono e sostengono una situazione che ha un centro di attenzione ratificato, reciproco e in continuo sviluppo, il che li colloca insieme in qualche sorta di mondo mentale intersoggettivo” (Goffman, 1981b: 70-1; trad. it., 1987, p. 111). Egli è d’accordo sul fatto che “le parole sono il più importante strumento per portare parlante e ascoltatore” nello stesso mondo mentale intersoggettivo, ma mette in evidenza che sebbene le parole possano essere il “mezzo migliore” per fare ciò, “non significa che siano l’unico e neppure che l’organizzazione sociale che ne risulta sia intrinsecamente verbale in natura”. L’organizzazione sociale che ne deriva è, come abbiamo visto, un prodotto dei processi sull’accordo sulla cornice, dei vincoli sistemici, e dei requisiti rituali. 24 I processi sull’accordo della cornice permettono ai partecipanti di arrivare al “consenso operativo” dell’incontro, tramite il quale ci si accorda su quali aspetti del comportamento bisogna considerare come “mosse” e cosa sia pertinente al contenuto dell’incontro. I vincoli sistemici contribuiscono all’organizzazione ecologica dell’incontro e determinano anche il tipo di organizzazione basilare che avranno le sequenze delle mosse, che sono condizionate dalla natura del comportamento che è considerato come “azione esplicita”. Per esempio, se è coinvolto il parlato, possiamo aspettarci una struttura di “turn-taking”, se sono coinvolti i movimenti di una danza o azioni come le carezze o la lotta, è probabile che ci sia una struttura diversa. I requisiti rituali spiegano i modi in cui i partecipanti mostrano la loro volontà di partecipare all’incontro, i modi in cui mostrano livelli di attenzione appropriati e risposte appropriate e come negoziano ed arrivano ad un accordo per chiudere un incontro. I processi sull’accordo della cornice, la gestione dei vincoli sistemici e l’adempimento dei requisiti rituali includono una varietà di azioni che può includere il parlato, ma non sempre – ma che sempre include tipi di comportamento diversi dal parlato. Il parlato quindi non è fondamentale per la produzione degli scambi espliciti, non sempre è necessario. Ciononostante, conserva un posto centrale nella nostra esperienza, che nessuno potrebbe negare. Il problema resta determinare che posto occupa nell’interazione. La discussione di Goffman serve a sollevare questo problema. La sua soluzione è una questione lasciata ai lavori futuri. Conclusioni Come si può riassumere il contributo di Goffman allo studio dell’interazione faccia a faccia e quali compiti ci ha lasciato per il futuro? Primo, credo che egli abbia dato ampia dimostrazione della fondatezza della sua opinione di considerare le occasioni interazionali come sistema che merita uno studio a parte. Egli ha espresso in modo particolarmente chiaro il punto che i partecipanti possono impegnarsi in azioni in un’interazione nell’interesse del sistema in cui sono coinvolti, e non perché abbiano necessariamente qualcosa da esprimere. Ha mostrato l’importanza di un approccio il cui punto di partenza per l’analisi non sia l’individuo ma l’interazione tra gli atti. Ciò ha fornito, per molti di noi almeno, un’intelaiatura nuova, in base a cui interpretare le piccole componenti del comportamento interazionale, le quali finora erano state considerate in termini puramente psicologici. 25 Secondo, credo che egli ci abbia aperto gli occhi e ci abbia fatto vedere che tutto ciò che le persone fanno quando sono in presenza degli altri meritano di essere studiate minuziosamente, che la regolarità del comportamento degli individui quando sono in co-presenza è meritevole di attenzione, e non solo quegli eventi che normalmente ci si aspetta che noi riportiamo. Ci ha mostrato sia la possibilità sia l’importanza di una storia naturale dell’interazione sociale e ha ampliato di molto il campo dell’osservazione. Infine, ci ha fornito una terminologia che ci permette di parlare della complessità dell’interazione. In particolare, ha proposto una serie di termini che servono a mostrare come le caratteristiche comuni dell’interazione quotidiana siano rappresentative di un’intera classe di fenomeni che, fino a Goffman, non erano mai stati trattati in questo modo. Per fare giusto un esempio, chiamando la conversazione “interazione focalizzata”, ha in tal modo assegnato la conversazione ad una più vasta classe di occasioni interazionali, di cui la conversazione non è che una specie. In questo modo ha gettato le basi per una teoria generale dell’interazione faccia a faccia. Per il futuro ci sono molte questioni, ma ce ne sono tre che mi sembrano di particolare importanza. Primo, c’è la questione della generalità culturale dello schema di Goffman. Fino a che punto l’analisi delle pratiche dell’interazione di Goffman è appropriata solo alla cultura in cui visse e scrisse, o in che misura può essere applicata più genericamente? La mia opinione è che l’analisi dell’interazione di Goffman può essere vista come il tentativo di una formulazione applicabile all’interazione umana in generale. I principali concetti che egli ha sviluppato, incluso quelli di “raggruppamento”, “unità di partecipazione”, il contrasto tra interazione “focalizzata” e “non focalizzata”, l’analisi del lavoro di definizione della cornice che gli interagenti devono fare per stabilire le occasioni di interazione focalizzata, gli scambi rituali che ha identificato, specialmente il “parentesizzare” o l’ “accesso rituale” (Goffman, 1971: 73-80, trad. it., 1987, p. 50) tramite i quali le cornici interazionali vengono stabilite e alterate - possono essere considerate come proposte completamente generiche per le caratteristiche dell’interazione faccia a faccia. Tuttavia, le analisi comparative delle pratiche dell’interazione sembrano essere ancora troppo rare affinché queste affermazioni possano essere maggiormente elaborate. Per intraprendere uno studio comparativo più sofisticato, credo che i tentativi di creare una tassonomia dell’interazione sociale sarebbero di gran valore. C’è tutta una serie di termini che usiamo nella vita di tutti i giorni per riferirci a diversi tipi di occasioni sociali, diversi tipi di incontri; e Goffman stesso fa uso di alcuni di essi in modo quasi tecnico, suggerendo 26 la possibilità di una sistematica delle occasioni interazionali, sebbene non presentandone una lui stesso. Così, ha distinto l’interazione in “focalizzata” e “non focalizzata” ma anche messo in evidenza come le occasioni si distinguono anche per la cornice di partecipazione – come la differenza tra eventi “podio” e occasioni in cui i diritti alla partecipazione sono più equamente distribuiti. Goffman fornisce un punto di partenza per una simile classificazione dei diversi tipi di occasioni interazionali. Sta ad altri sviluppare questo aspetto in futuri lavori. Infine, c’è la questione della natura delle unità di cui sono composti gli scambi espliciti. Ho fatto riferimento a questo, evidenziando come Goffman, soprattutto in “Replies and Responses” e in “On Footing”, afferma che “tutto può bruciare nel fuoco della conversazione”. Goffman ha chiaramente ragione qui; tuttavia, essere lasciati con il punto molto generico che la conversazione – con cui presumibilmente egli intende qualunque tipo di interazione focalizzata – è “un prolungato segmento di riferimenti, dove ciascun riferimento tende ad avere, ma spesso in maniera indiretta, una qualche connessione percepibile retrospettivamente con quello immediatamente precedente” (Goffman, 1981b: 72; trad. it, 1987, p. 113), significa essere lasciati con una sfida, non una risposta. La sfida è decifrare i modi in cui sono elaborati i diversi tipi di azioni che possono essere utilizzate come riferimenti. Quali sono i contesti, le situazioni, in cui gli individui seguono le giuste limitazioni del modello conversazionale, quando invece non lo fanno? Come possiamo esplicare che posto occupa il parlato nell’interazione umana, dopo tutto? Nota Vorrei ringraziare Mathew Ciolek, Charles Goodwin, Allen Grimshaw, Wendy LeedsHurwitz, Stephen Mugford e Emanuel Schegloff per gli utili commenti e suggerimenti. Sono molto grato a Anthony Wootton e Paul Drew per avermi suggerito di scrivere questo articolo. Il supporto finanziario, istituzionale e tecnico per questo articolo provengono dall’Australian Institute for Aboriginal Studies, dal Dipartimento di Antropologia della Research School of Pacific Studies dell’Università Nazionale Australiana, Camberra e dal National Science Foundation di Washington, DC. 27 Bibliografia Bales, R. F. 1950. Interaction Process Analysis. Cambridge, MA: Addison Wesley Barker, R. e Wright, H. 1955. Midwest and its Children. New York: Henry Holt Birdwhistell, R. 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