Sesto San Giovanni Il patrimonio industriale risorsa strategica per lo
Transcript
Sesto San Giovanni Il patrimonio industriale risorsa strategica per lo
urbanistica dossier sesto san Giovanni. il patrimonio industriale risorsa strateGica per lo sviluppo urbano a cura di comune di sesto san Giovanni valeria cerruti, cristina meneGuzzo 126 Rivista mensile monografica Anno XXX allegato al n. XXX di Urbanistica Informazioni € 9,00 INU Edizioni dossier urbanistica Sesto San Giovanni. Il patrimonio industriale risorsa strategica per lo sviluppo urbano a cura di Comune di Sesto San Giovanni Valeria Cerruti, Cristina Meneguzzo Parte prima: La politica urbanistica di Sesto San Giovanni per la valorizzazione dei beni storici Sesto San Giovanni. Una storia un futuro Maria Bonfanti Identità e memoria della città in trasformazione Demetrio Morabito La tutela del patrimonio industriale nella pianificazione urbanistica di Sesto Valeria Cerruti Parte seconda: Atti del convegno - sessione urbanistica I grandi monumenti di archeologia industriale di Sesto San Giovanni. Esercizi di recupero Giancarlo Consonni Il patrimonio siderurgico di Piombino come risorsa per lo sviluppo urbano Massimo Preite L’IBA Emscher Park nel territorio della Ruhr: una retrospettiva Klaus R. Kunzmann Periferie urbano-industriali in Italia. Questioni di storia, memoria e riuso Roberto Parisi Davanti alla fabbrica. Patrimonio industriale come insieme di permanenze Caterina Di Biase Made in MAGE, la scommessa del riuso temporaneo Isabella Inti Aree dismesse e riqualificazione urbana. Il caso dell’Arsenale di Venezia Roberto D’agostino Trasformazioni territoriali e sviluppo urbano nel cuore della città infinita Federico Oliva Parte terza: Le ragioni della candidatura all’Unesco del patrimonio industriale sestese La candidatura di Sesto San Giovanni come paesaggio culturale evolutivo Louis Bergeron Per Sesto San Giovanni patrimonio dell’umanità Federico Ottolenghi INDICE 05 06 08 11 14 18 23 25 29 33 36 40 41 PREMESSA Il Convegno internazionale a sostegno della candidatura UNESCO del patrimonio industriale storico (edifici, impianti. luoghi) della città di Sesto San Giovanni ha definito con grande chiarezza e completezza le motivazioni di tale candidatura. Gli interventi compresi in questo volume, che riprendono le parti più specificatamente urbanistiche, architettoniche e di valorizzazione dei beni culturali trattate nel Convegno, ne sono la testimonianza più evidente. Interventi che sono preceduti dalle testimonianze dirette dell’Amministrazione Comunale relativamente alle politiche che la stessa ha condotto, anche attraverso la normale attività di pianificazione, per la tutela e la valorizzazione di tale patrimonio. Il recupero delle aree industriali dismesse è una pratica che ha contraddistinto anche l’urbanistica italiana, a partire dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, quando l’evoluzione strutturale dell’economia ha messo a disposizione delle città di più antica industrializzazione un’occasione irripetibile per immaginarne uno sviluppo diverso, non più legato solo al tradizionale processo di espansione urbana, ma a quello nuovo della trasformazione. Ciò è avvenuto in Italia in particolar modo nel “triangolo industriale” di Nord – Ovest, cioè l’area italiana di più antica industrializzazione, dove i cambiamenti dell’economia erano più maturi, come in tutta l’Europa occidentale, come hanno ricordato anche alcune testimonianze presentate al Convegno, prima fra tutte quella emblematica dell’Emscher Park nella regione tedesca della Ruhr. L’esperienza italiana è tuttavia molto diversa da quella europea, essendo generalmente più orientata a garantire, insieme a qualche ricaduta pubblica più o meno rilevante, la fattibilità economica dell’intervento e, innanzitutto, la remunerazione dell’investimento privato; mentre in Europa si è quasi sempre privilegiato l’interesse pubblico, non solo in termini di dotazioni prodotte dalle trasformazioni, ma, in generale, come miglioramento della qualità urbana e quindi della competitività internazionale della città in trasformazione. In sostanza, nel nostro Paese anche per questo specifico aspetto si è privilegiata un’attribuzione privata della rendita, senza tenere conto del fondamentale contributo che la stessa città ha garantito per la valorizzazione delle aree da trasformare, in termini di infrastrutture, servizi e con la stessa crescita urbana che ha fatto diventare centrali aree originariamente del tutto periferiche e marginali. Oggi, la discussione sulle prospettive della città è incentrata sull’alternativa tra recupero e trasformazione della città esistente contro diffusione insediativa e ulteriori consumi di suolo, vale a dire tra riqualificazione e espansione urbane. Ma, mentre nella maggioranza delle esperienze europee la riqualificazione urbana è concretamente sostenuta da un’adeguata legislazione fondiaria e da efficaci provvedimenti specifici, comprensivi di rilevanti investimenti pubblici, (si pensi proprio all’esperienza della Ruhr), in Italia è solo auspicata, trattata senza un reale sostegno nella normativa urbanistica nazionale e regionale del tutto indifferenti alle differenze oggettivi di costo che un intervento sull’esistente (per di più con un’area da bonificare) comporta rispetto ad uno di nuova costruzione; una pratica fondamentale lasciata quindi alla sola capacità di negoziazione all’interno della pianificazione. E se qualche volta questa capacità di negoziazione ha ottenuto risultati rilevanti, con una sensibile ridistribuzione sociale della rendita, nella maggioranza dei casi ciò non è avvenuto e la grande occasione rappresentata dalle aree industriali dismesse ha perso così buona parte del suo valore. L’esperienza di Sesto San Giovanni sul suo patrimonio industriale e in particolare sulle aree Falck appartiene certamente al novero di quelle che hanno cercato di garantire un vantaggio complessivo per la città; un impegno che continua nonostante le vicissitudini imprenditoriali – finanziarie che hanno segnato la proprietà negli ultimi anni. La tutela e la valorizzazione del patrimonio storico industriale ancora presente costituisce il valore aggiunto dell’intera operazione. Edifici come quello che accoglieva il formo elettrico a colata continua, il T3 “Pagoda”, o il lungo laminatoio in continuità con il precedente, o l’edificio in cemento armato delle Officine Meccaniche e Costruzioni, o ancora il più moderno T5, un altro forno elettrico (per citare solo alcuni dei molti edifici presentati per la candidatura UNESCO) non sono solo la testimonianza tangibile del passato industriale della città e ne rappresentano solo la sua memoria e la sua identità. Essi sono anche dei capolavori dell’ingegneria industriale del ‘900, ricchi di soluzioni tecnologiche innovative e stupefacenti per le dimensioni, che meritano quindi di essere tutelati e valorizzati come beni culturali, ma 3 anche di essere riutilizzati con nuove funzioni, diventando così una componente vitale della città contemporanea. La ricchezza e la qualità del patrimonio storico industriale insieme alle stesse dimensioni delle aree Falck (130 ha) e la loro localizzazione al centro della regione urbana lombarda sono i presupposti perché esse possano trasformarsi in una delle più importanti centralità metropolitane della stessa regione. L’auspicio è che i nuovi progetti di trasformazione vadano in questa direzione, grazie anche al riconoscimento UNESCO, nonostante i limiti dell’attuale ordinamento. Federico Oliva Presidente INU 4 H01 villaggio Attilio Franco poi villaggio Falck H02 villaggio Falck H03 quartiere giardino Falck poi villaggio Diaz H04 case operaie Breda H05 case per lavoratori Breda H06 casa del direttore I01 torre piezometrica Unione I02 torre piezometrica Concordia I03 portineria Vulcano I04 T3 “Pagoda” I05 OMEC I06 T5 I07 portineria Concordia “Esedra” I08 cabina controllo vagoni I09 MAGE I10 BLISS I11 trafilerie I12 portineria Vittoria A I13 fornace Mariani I14 magazzino Salvi ditta Muller I16 riparazione locomotive I17 carroponte I18 Campari I19 centrale termica e ricevitrice elettrica ex Sondel I20 centrale termoelettrica I21 laminatoio I22 vasche “Pompei” S01 scuola elementare villaggio Falck S02 casa dei bambini Montessori villaggio Falck S03 VAO vecchio albergo operaio Falck S04 teatro del circolo San Clemente S05 collegio Savoia e soffieria Monti S06 stadio Breda S07 scuole Galli Breda S08 chiesa di San Giorgio alle Ferriere VS01 villa Torretta La politica urbanistica di Sesto San Giovanni per la valorizzazione dei beni storici Sesto San Giovanni. Una storia un futuro Il 24 e 25 settembre dello scorso anno si è svolto a Sesto il convegno internazionale “Sesto San Giovanni. Una storia, un futuro, un patrimonio industriale per tutto il mondo”. Il convegno, che si è tenuto nella sala consiliare del palazzo comunale e presso lo Spazio MIL, ha avuto il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali, della Regione Lombardia e della Provincia di Milano e ha visto la partecipazione di illustri relatori. Il simposio era strutturato in quattro sessioni: —— I. Per Sesto San Giovanni patrimonio mondiale dell’umanità —— II. Memoria del futuro: la città tra identità e sviluppo —— III. Il patrimonio industriale, una risorsa strategica per lo sviluppo urbano —— IV. Un patto per il riuso Nella terza sessione i relatori hanno approfondito le tematiche legate alla pianificazione urbanistica, alla riqualificazione delle aree dismesse, al ruolo che i beni storico-documentali rivestono all’interno delle trasformazioni territoriali e al patrimonio industriale come risorsa per lo sviluppo urbano. Il convegno e gli eventi che lo hanno affiancato sono stati un passaggio fondamentale per lanciare anche in ambito internazionale la candidatura di Sesto alla lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO per la categoria del paesaggio culturale evolutivo, ed hanno avviato con forza anche la promozione della candidatura tra la cittadinanza, aumentando la consapevolezza e la partecipazione sia degli abitanti sia delle istituzioni e organizzazioni cittadine. L’iniziativa ha fornito significative indicazioni per la conservazione, la valorizzazione e il riuso dei 37 edifici ed aree individuati tra i più significativi dell’ingente patrimonio industriale sestese, emblema del ‘900 industriale italiano. Sesto San Giovanni ha vissuto, infatti, dall’inizio Mappa dei luoghi catalogati per l’unesco del ‘900 una profonda e rapida trasformazione che l’ha portata in pochi anni a diventare la quinta città industriale italiana e, per antonomasia, la città “delle fabbriche e del lavoro”. Però già a metà degli anni ‘90, con la definitiva chiusura delle Acciaierie Falck, questa gloriosa fase di storia e vita cittadina si concludeva. È ora indispensabile che, oltre ai manufatti industriali, vengano preservati e tramandati quei valori che hanno sotteso il vivere cittadino, ossia il rispetto e l’amore per il lavoro, per il ben-fare, per la capacità di accoglienza, per il rispetto dell’altro, per l’intraprendenza e la valorizzazione dei talenti. Per la tensione verso il bene comune e per la generosità nello spendersi per raggiungerlo. Valori che costituiscono l’essenza della “sestesità”. La valenza di questa candidatura, che anche il convegno del 24 e 25 settembre ha evidenziato, è dunque innanzitutto valoriale, culturale e identitaria. Oltre che economica. Perché ciò che sta alla base di questo progetto non è puramente uno spirito romantico di preservazione, ma è innanzitutto il mantenimento e la trasmissione di valori di consapevolezza, inclusione, bene comune. Il Comitato di sostegno alla candidatura all’Unesco del patrimonio industriale di Sesto San Giovanni, che ha seguito e supportato i lavori del convegno, ha constatato con soddisfazione la convergenza su queste tematiche da parte di tutti i relatori ed il loro convinto e convincente sostegno alle ragioni della candidatura. Il Comitato di Sostegno è formato dai rappresentanti di associazioni, enti, organizzazioni cittadine, particolarmente attive e sensibili alle tematiche della candidatura. È coadiuvato dagli Amici della candidatura, cioè da coloro, singoli cittadini, personalità, istituzioni che sono sostenitori del progetto. Maria Bonfanti Presidente Comitato di sostegno alla candidatura all’Unesco del patrimonio industriale di Sesto San Giovanni 5 Identità e memoria della città in trasformazione La città di Sesto San Giovanni acquisì consapevolezza della ricchezza del proprio patrimonio di archeologia industriale a metà degli anni ’90, a seguito del recupero dell’area Breda. Una ricchezza di significati che vanno dal valore testimoniale e identitario dei beni, a quello urbanistico, per il loro potenziale contributo nell’ordinare il nuovo paesaggio urbano della città-fabbrica, al variegato pregio architettonico che, articolato per fattura e dimensioni, è fonte di ispirazione per idee e funzioni dal carattere innovativo. La tutela e la valorizzazione del patrimonio storico sono divenute così “l’obiettivo prioritario per le aree di trasformazione […] recuperabili fattivamente, garantendone nel tempo l’utilizzo e la gestione e quindi la permanenza della memoria materiale” (art.41 NTA PRG 2004). La tutela è avvenuta a valle di un particolareggiato lavoro di schedatura condotto dall’architetto Beltrame e dall’ufficio di Piano, nel quale si è valutato lo stato di conservazione, gli elementi di pregio, le potenzialità del singolo bene inserito nel suo specifico contesto, in un percorso che includeva a livello normativo anche modalità remunerative che rendessero sostenibile economicamente il recupero e l’eventuale riutilizzo. Le attuazioni seguenti e le istruttorie sui successivi piani attuativi hanno confortato questa scelta, così che la tutela dei beni storico-documentali è diventata un’invariante nel successivo Piano di Governo del Territorio del luglio 2009, con una disciplina tecnica più vincolante sui beni oggetto di tutela. 6 Nella città di Sesto San Giovanni il recupero delle aree dismesse è un percorso ormai ventennale, che si pone nel cuore della trasformazione dell’area metropolitana milanese. Se quest’ultima era dotata di aree deindustrializzate paragonabili per dimensioni a quelle sottoposte a ricostruzione nel secondo dopoguerra, rilevantissime e dunque strategiche per ridefinire i caratteri di uno dei motori d’Europa, le aree dismesse sestesi possono contribuire in modo incisivo a conseguire un policentrismo fondato su luoghi dotati di identità, dove la memoria è fattore di coesione sociale. Il recupero dei beni diventa così centrale nel tentativo di avanzare progetti e pratiche che rispetto ai prodotti urbani dell’indistinta metropolizzazione della città-regione producano luoghi più inclusivi, meno anonimi, nuovi punti di riferimento del paesaggio urbano, ancorati alla memoria della città ma forieri di progettazioni innovative o di riusi temporanei. La cittadella della Resistenza, da sempre attenta alla valorizzazione della storia del novecento, ha colto l’apporto che questi beni forniscono nella ridefinizione dell’identità della sua comunità. La comunità operaia, colpita dalla deindustrializzazione anche nei suoi luoghi aggregativi e nella sua rete commerciale e segnata dal naturale ciclo biologico, è in cammino. Sesto non è più la città-fabbrica, ma non ha ancora perfezionato il suo nuovo volto, mentre si sedimentano i fenomeni connessi ai grandi cambiamenti urbani, in società sempre più anziane e ricche di culture diverse, producendo insicurezza e spaesamento, localismi e nuove marginalità. Il patrimonio di archeologia industriale arricchisce di simboli questi luoghi, permette di cogliere il patrimonio immateriale: punti di riferimento urbanistici, dunque, ma anche simboli di una comunità che rinnova la sua identità intorno a una storia densa, quella di una città protagonista nella politica, nell’economica, nel sociale. La memoria, dunque, così come indica un percorso di ricostruzione di una comunità segnata dal dramma della deindustrializzazione che ha duramente segnato le relazioni economiche e sociali, segna anche la via per un futuro condiviso che si materializza a partire dalla rifunzionalizzazione del suo articolato patrimonio industriale. Il recupero dei beni storici diviene così, prima che una regola della strumentazione urbanistica, una invariante culturale affermatasi tra la cittadinanza, orgogliosa di quel patrimonio, il cui recupero è già avvenuto a dimostrazione della praticabilità di questo ambizioso progetto (Carroponte e magazzini Breda, MAGE - magazzini generali Falck Concordia Sud, palazzina Campari, vecchio albergo operaio, villaggi operai, casa Salvi Muller). Coltivare la memoria nella costruzione del nuovo paesaggio urbano ha come obiettivo la definizione di un disegno condiviso di città, fondato sulle ragioni stesse dell’esistenza e dei caratteri di una data comunità. Il nuovo paesaggio urbano vuole essere il tramite tra le vecchie e le nuove generazioni, tra quartieri diversi, in un percorso di definizione di una nuova identità che includa ceti sociali e nuove culture del mondo, come la città seppe accogliere quelle genti diverse che l’hanno resa uno dei poli economici più importanti del paese. Questi beni portano con sé una storia, segnano il paesaggio ricordandocela, possono rideterminare il contesto rendendolo più leggibile, perché le nuove realizzazioni siano proprie della città e non corpi alieni, estranei, rapaci se immobili residenziali, barricati dal vetrocemento se uffici direzionali. La storia della città indica il percorso e segna le scelte urbanistiche. Quando nel redigere il PGT si è trattato di individuare, coerentemente con la legge regionale, i Nuclei di Antica Formazione da sottoporre a tutela, non ci si è limitati ai due borghi di antica formazione rurale, preziosi e quindi da valorizzare, ma si sono inclusi in questa forma di tutela i villaggi operai. E sono ambiti residenziali variegati e storicamente connotati: figlio del paternalismo di inizio Novecento, il villaggio Franco-Falck; figli di una progettazione unitaria, i quartieri Razza, Camagni, Edison; figlio di politiche di sperimentazione, il villaggio Ce.Ca., realizzato con i finanziamenti della comunità europea del carbone e dell’acciaio; figli delle politiche della casa del dopoguerra inquadrati da Bottoni, i quartieri città giardino costruiti a ridosso del villaggio Ce.Ca stesso. Sesto, come metafora della città contemporanea assoggettata a grandi cambiamenti, ci pone con evidenza nuovi interrogativi che intrecciano trasformazione urbana e corpo sociale. La crescita complessiva del livello d’istruzione genera una domanda di consumi culturali e ricreativi che richiede l’approntamento di nuove strutture per il loisir. Aumenta la richiesta di qualità ambientale, non solo la pur importante cura degli spazi pubblici, ma anche la definizione di un’immagine di città attrattiva per famiglie e imprese. Il tema della sicurezza incalza le amministrazioni messe di fronte alla condizione di paura e insicurezza dei cittadini, condizione ben fotografata da Baumann nell’articolazione delle sue cause, centrate su quella che egli chiama “insicurezza cognitiva”, che trova linfa anche nello spaesamento generato dai processi di trasformazione. Importante in questo senso è porre attenzione alle diverse fasi del percorso: accompagnare con cura le trasformazioni, mentre programmi, mentre bonifichi, mentre realizzi, e via via individui le funzioni più appropriate a fronte di beni così articolati, complessi e diversi tra loro. Averne la consapevolezza significa darsi lo spazio temporale per la sperimentazione. Oggi la scuola Achille Grandi e l’Agenzia Formazione Orientamento Lavoro della Provincia sono un’eccellenza cittadina che ha trovato spazio dentro la ex mensa e il MAGE, immobili ceduti al Comune nei piani di recupero di fine anni ’90. Il loro insediamento è successivo a quello del master in comunicazione dell’Università degli Studi di Milano. E la presenza temporanea del master, dal ‘98 al 2000, è stata decisiva nel definire il terreno relazionale propizio per la realizzazione del polo universitario sull’area Marelli. Allora si tratta di interrogarsi e sperimentare pratiche e usi temporanei che valorizzino i beni, aiutino a definire un loro destino o un destino per quegli usi che ad interim possono essere ospitati: il riuso temporaneo di questi spazi, molto particolari per fattura e dimensioni, ben si presta alla ricerca e alla sedimentazione di nuove comunità che, se temporaneamente arricchiscono la città, stabilmente ipotecano il volto della città per la fertilità che ricercano nel patrimonio industriale. Gli obiettivi ambiziosi che le città in trasformazione si pongono devono misurarsi con il vuoto e le difficoltà di governare un’area vasta con una programmazione urbanistica che unisca i territori e non li ponga in competizione tra loro. Vincere la sfida del rilancio dei nostri territori significa conseguire quel policentrismo ricco e articolato, finora sconfitto dal dumping territoriale, dal liberismo urbanistico, dal tentativo maldestro e astorico di riproporre la contrapposizione tra la città borghese e quella periferica attraverso la custodia gelosa nel centro dell’area metropolitana delle funzioni nobili e redditizie, al riparo dalle criticità che offuscano il gioiello esclusivo che si impone all’intera area metropolitana. Demetrio Morabito Vice sindaco del Comune di Sesto San Giovanni, assessore alle politiche urbanistiche 7 La facciata storica della Campari preservata all’interno del progetto di Mario Botta e Giancarlo Marzorati. La tutela del patrimonio industriale nella pianificazione urbanistica di Sesto Il paesaggio urbano di Sesto San Giovanni è caratterizzato da edifici e manufatti industriali di rilevanza ambientale e documentale che richiamano la “città delle fabbriche” in ogni sua declinazione: culturale, testimoniale, identitaria e storico-architettonica. Questi complessi sono distribuiti in maniera diffusa nel territorio comunale. In particolare la quasi totalità degli edifici di archeologia industriale è localizzata all’interno delle grandi aree dismesse che oggi rappresentano le maggiori opportunità di trasformazione urbanistica. Ne sono esempio emblematico i grandi capannoni industriali in carpenteria metallica, quali i grandi forni elettrici denominati T3 e T5, i lunghi fabbricati in calcestruzzo con copertura a shed, tra cui l’edificio OMEC, le torri piezometriche. Diffusa nel tessuto edificato si trova invece l’altra componente peculiare della città industriale costituita dai complessi di case per le famiglie operaie, i cosiddetti villaggi, costruite inizialmente dalle aziende per i propri dipendenti e per le maestranze. Un cenno particolare meritano il villaggio Falck dove le residenze sono allocate nell’immediato intorno degli stabilimenti, insieme ad una buona dotazione di servizi collettivi quali asili, scuole, chiese, e luoghi per il tempo libero; il villaggio C.E.C.A. progetto pilota realizzato dagli architetti dello studio B.B.P.R. (Banfi, Belgioiso, Peressutti e Rogers) in cui si sperimentarono nuove tecniche costruttive applicate all’uso dell’acciaio; o ancora il Villaggio Diaz, intervento che si ispira al modello anglosassone del sobborgo giardino. 8 L’unicità e la specificità del tessuto urbanistico di Sesto è conseguenza del particolare processo evolutivo che ha vissuto la città; da sempre identificata come città del lavoro e delle fabbriche. L’eccezionale concentrazione a livello spaziale e temporale della trasformazione territoriale interamente connotata dalla tumultuosa espansione industriale, ha, di fatto, determinato una struttura urbana assolutamente peculiare, da intendersi come il risultato della progressiva inclusione della città all’interno dei grandi spazi occupati dalle fabbriche, invece della classica espansione urbana caratterizzata dalla formazione di aree produttive all’esterno del centro urbano. “Sesto San Giovanni costituisce indubbiamente un caso unico nel panorama internazionale, quello di una città che agli inizi del ‘900 rapidamente si è industrializzata e che quasi altrettanto velocemente, alla fine del secolo, ha perso le sue grandi fabbriche, travolte da crisi internazionali e familiari. […] L’amministrazione comunale insieme alle forze politiche, sociali, imprenditoriali della città ha dovuto evitare che ci fosse un dramma sociale di proporzioni immense, e nello stesso tempo ha cercato di immaginare, progettare e poi realizzare un futuro economico, sociale, culturale all’altezza delle tradizioni migliori di Sesto San Giovanni. Per questo si è scelto di salvare il patrimonio architettonico ed edilizio più rilevante, utilizzando edifici che sono parte della storia di questa città, dell’Italia e di tutta la civiltà industriale, dando loro un ruolo e una funzione del tutto nuovi, in una evoluzione che sottolinea un principio fondamentale della nostra politica, che la memoria di una città o di una nazione sono la base ineludibile su cui costruire il futuro. La volontà dell’amministrazione di tutelare il paesaggio culturale evolutivo presente nel territorio di Sesto San Giovanni si esplicita attraverso strumenti e misure dirette a conservare e proteggere gli edifici e le aree con valore storico-industriale.” (Da Dossier “Sesto San Giovanni per l’Unesco) Il Piano di Governo del Territorio approvato nel luglio 2009 affronta la tematica del recupero e della tutela dei beni storico documentali, confermando e approfondendo la strategia definita nel precedente strumento urbanistico generale. Negli anni ’90 con gli studi preliminari finalizzati alla redazione del PRG poi approvato definitivamente nel 2004, si era posta con urgenza, alla luce dei primi programmi di riconversione industriale, la necessità di individuare azioni strategiche volte al recupero dei grandi edifici industriali di una certa memoria documentale, che superassero un’impostazione meramente vincolistica. È in questi anni che Sesto San Giovanni imposta la sua politica di recupero e valorizzazione dei beni di archeologia industriale, scegliendo un approccio innovativo e completamente differente rispetto a quanto stava accadendo in altri comuni dell’area metropolitana, nei quali era in corso una radicale ristrutturazione urbanistica contraddistinta dalla demolizione pressoché completa degli originali edifici produttivi. Sesto sceglie una strategia che consente di governare lo sviluppo urbano senza tradire la memoria dell’identità industriale, quale elemento fondante e unico di questa città; predilige una tutela del patrimonio storico-documentale che preserva l’identità culturale della comunità locale, mobilitando risorse non solo pubbliche ma anche private per un riutilizzo del bene stesso che permanga nel tempo. Si iniziano a sperimentare anche rifunzionalizzazioni con usi e riusi temporanei, valutando di volta in volta il modello gestionale che meglio si adatta al contesto locale e temporale. Al proposito si possono citare le attività culturali che oggi vengono ospitate nello spazio del Carroponte e le attività artigianali accolte negli ex magazzini generali Falck (Mage). Nel PGT vigente il primo passo condotto, rispetto al tema della tutela e rifunzionalizzazione dei beni storico-documentali, è stato un puntuale lavoro di ricognizione, di analisi e di valutazione dello stato di fatto del patrimonio edilizio esistente in rapporto alle caratteristiche generali del contesto ed allo specifico valore documentale dei manufatti. Tale attività si è coordinata e integrata con il coevo lavoro per la redazione del Dossier Unesco volto all’inserimento della città nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità attraverso un intenso lavoro e un continuo scambio di informazioni e valutazioni. Il Documento definito “Allegato B” (allegato al Documento di Piano del PGT) colleziona le schede di tutti gli edifici e complessi edilizi particolarmente significativi che sono stati individuati come elementi testimoniali dell’identità industriale. I beni sono stati suddivisi per categorie: —— B.1: Edifici industriali (EI): 26 complessi che rappresentano la memoria delle fabbriche, luoghi che ospitavano le sedi delle industrie sestesi, ad oggi per la quasi totalità dismesse. Luoghi che segnano il territorio, sia come simboli di un periodo storico fondamentale per la città, sia come manufatti di grande rilevanza morfotipologica. —— B.2: La residenza e i villaggi operai (RVO): 17 complessi edilizi che costituiscono elementi peculiari e distintivi del patrimonio sociale culturale e architettonico di Sesto. Fabbricati che sono sorti per ospitare i lavoratori delle grandi fabbriche e testimoniano l’atteggiamento paternalistico e al contempo illuminato della classe padronale sestese. —— B.3: La residenza pubblica e popolare (RPP): 8 complessi edilizi che rappresentano la risposta dell’Istituto Fascista per le Case Popolari, poi Istituto Autonomo Case Popolari, alla crescente domanda abitativa che l’espansione industriale aveva comportato. Si tratta di quartieri residenziali organizzati su di un preciso disegno urbano e caratterizzati dalla cospicua presenza di servizi collettivi. Attualmente questi quartieri costituiscono “pezzi” significativi della città. —— Le ville storiche (VS) e i giardini di loro pertinenza: 6 fabbricati, definiti “ville di campagna” quali la Torretta, la villa Pelucca, la villa Visconti D’aragona-De Ponti, la villa Zorn, la villa Mylius, la villa Puricelli-Guerra, ancora oggi riconoscibili come elementi emergenti all’interno del tessuto edificato. Le ville presentano impianti tipologici differenti, contraddistinti soprattutto dal rapporto che l’edificio assume rispetto alla strada. —— I complessi di origine agricola (COA): 10 cascine, che costituiscono gli unici esemplari ad oggi rimasti rispetto ai numerosi complessi di un tempo. Alcuni sono interni al tessuto edilizio consolidato, altri sono localizzati all’interno del perimetro del PLIS della Media Valle del Lambro. —— I servizi e le attrezzature collettive e tecnologiche (SACT): 10 edifici disseminati per la città, che storicamente hanno rappresentato i luoghi delle attività e delle funzioni collettive o di servizio alla collettività. Il PGT prevede forme di tutela che si concretizzano attraverso diverse strategie finalizzate a garantire l’integrità del paesaggio urbano nel suo complesso, integrità che non deve essere intesa come cristallizzazione del territorio ma come “necessità di sovrintendere al suo sviluppo armonico”. Si rende indispensabile, infatti, riconoscere e comprendere i molteplici e stratificati valori di cui questo territorio è portatore, preservandone i caratteri distintivi che contribuiscono e costituiscono il paesaggio urbano, anche nel caso in cui si attuino o siano già state effettuate trasformazioni radicali. “La salvaguardia dei fattori che compongono l’identità urbana si avvale di una vasta gamma di strumenti da attivare, con la consapevolezza che l’equilibrio tra una normativa troppo rigida o vincolistica e la carenza di regole è la migliore garanzia per operare nel rispetto degli interessi generali. “ (da PGT- Piano delle Regole) Lo strumento urbanistico generale prevede differenti modalità di intervento, a seconda della tipologia di bene tutelato: dalla messa in sicurezza di alcuni edifici di origine industriale in attesa di rifunzionalizzazione, alla disciplina riferita ai villaggi o quartieri operai significativi nel loro valore d’insieme, che prevede progetti unitari che coinvolgano l’intero complesso originario, alla definizione degli interventi possibili sui singoli elementi nel rispetto di specifici criteri tipomorfologici. È emblematica la strategia definita nel Piano delle Regole in merito all’individuazione dei Nuclei di Antica Formazione meritevoli di tutela e valorizzazione, in coerenza con la legislazione urbanistica regionale. Oltre alla classica identificazione dei borghi rurali, che pur non presentando rilevanti valori artistico-architettonici risultano caratterizzati dalla presenza di elementi di testimonianza storica e ambientale, si sono inclusi anche i Villaggi operai e i Quartieri operai diffusi nel tessuto consolidato, rilevanti per l’impianto unitario originario e per i valori testimoniali-documentali, e caratteristici dell’identità del paesaggio urbano sestese. 9 10 Infine il Piano delle Regole individua singolarmente i manufatti di archeologia industriale che costituiscono i beni architettonici e documentali meritevoli di tutela ai fini della valorizzazione della memoria storica della “città delle fabbriche”. Tra questi rientrano i siti segnalati e schedati nel dossier predisposto per la candidatura della città di Sesto San Giovanni a patrimonio dell’umanità dell’Unesco nella categoria “paesaggio culturale evolutivo”. In primis la disciplina prevede che gli edifici compresi nell’elenco non siano passibili di demolizioni e, fermo restando l’obbligo a carico dei proprietari di conservare e mettere in sicurezza tali beni, ai fini della tutela e della riqualificazione degli stessi, definisce le tipologie di intervento e le destinazioni d’uso ammissibili. Gli interventi ammissibili sono di norma quelli che consentono di mantenere efficiente la struttura, nel rispetto dei caratteri tipologici della stessa, ed il servizio erogato. Nel caso in cui i manufatti ricadano all’interno degli Ambiti di Trasformazione si demanda la disciplina di detti beni alla pianificazione esecutiva prevista per gli ambiti stessi, secondo i criteri di intervento definiti nel Documento di Piano e nel rispetto delle previsioni del Piano dei Servizi. Uno degli obiettivi principali è quello di creare le condizioni affinché i soggetti privati, in grado di sostenere e garantire gli investimenti economici necessari, possano affiancare la parte pubblica, partecipando fattivamente alla realizzazione di progetti di rifunzionalizzazione dei manufatti di archeologie industriali. In tal senso l’amministrazione intende promuovere il recupero di tali beni attraverso la definizione di incentivi, anche volumetrici, che sollecitino l’intervento diretto economico e progettuale anche dei soggetti privati. Si cita al proposito quanto definito nei criteri di Intervento del Documento di Piano :” … Ove sono presenti edifici di riconosciuto valore storico e testimonianza documentale della città delle fabbriche, il piano attuativo ne dovrà prevedere il mantenimento e la messa in sicurezza o il riuso per attrezzature pubbliche o private di uso pubblico; una quota aggiuntiva di edificabilità (pari alla s.l.p. esistente degli stessi edifici) concorrerà alla determinazione della capacità edificatoria di base. Nei piani attuativi dovrà essere valutato sia il progetto che la destinazione funzionale proposta in relazione al mantenimento del valore testimoniale dell’edificio e definita l’eventuale s.l.p. aggiuntiva necessaria per la sua rifunzionalizzazione o in alternativa le modalità di messa in sicurezza/ restauro. La s.l.p. necessaria alla rifunzionalizzazione sarà considerata aggiuntiva rispetto alla capacità edificatoria di base purché la funzione proposta sia di riconoscibile interesse pubblico e/o generale e regolata negli atti convenzionali.” (da PGTDocumento di Piano) In questa fase di rigenerazione urbana ad alta intensità trasformativa, attualmente in grande fermento progettuale per Sesto San Giovanni, l’obiettivo primario è restituire alla città e ai suoi abitanti non solo la memoria dei luoghi che costituiscono questo paesaggio unico e irripetibile, ma anche il valore collettivo che rappresentano attraverso un progetto di tutela attiva, di rifunzionalizzazione finalizzata alla vivibilità e alla fruibilità dei luoghi stessi come spazi del vivere sociale. Valeria Cerruti Funzionario Settore Urbanistica, Comune di Sesto San Giovanni L’inserto a colori contiene un estratto dell’Allegato B del Documento di Piano. —— Edificio industriale EI 03: T3 Pagoda e Camino Fumi —— Edificio industriale EI 04: OMEC —— Edificio industriale EI 15: Carroponte —— Villaggio operaio RVO 13: Villaggio Diaz Falck —— Servizi e attrezzature collettive e tecnologiche SACT 03: vecchio albergo operaio Il T5, interno. Il T5, esterno, volo aereo. Atti del convegno - sessione urbanistica I grandi monumenti industriali di Sesto San Giovanni. Esercizi di recupero L’iniziativa di portare all’attenzione dell’Unesco il patrimonio archeologico industriale di Sesto San Giovanni è quanto mai opportuna. Si tratta di un’eredità storica di grande valore per la qualità degli organismi e per le potenzialità che essi offrono sul piano urbanistico. La loro valorizzazione non potrà che offrire opportunità per un salto di qualità della città di Sesto e dell’intera area metropolitana milanese. Sesto ha le carte in regola: deve solo saperle mostrare. In primo luogo il dossier di candidatura non potrà non fare riferimento al solido entroterra che consente a questo patrimonio di essere non una sommatoria di oggetti isolati ma testimonianze di cultura materiale vive. E questo per tre ragioni: —— sono parte di una memoria collettiva che sa rinnovarsi nel rapporto fra le generazioni; —— si tratta di presenze architettoniche chiaramente decifrabili nel loro valore storico grazie a una ragguardevole messe di studi (una conoscenza in continua crescita che può contare su quella eccezionale miniera di documenti e di ricerche che è la Fondazione Isec, oltre che su quanto è conservato in altri archivi, privati e non); —— c’è la ferma intenzione da parte dell’Amministrazione comunale di salvaguardare le costruzioni che si sono salvate dalla dismissione produttiva e di reinserirle nella vita della città e della metropoli. Gli strumenti della comunicazione consentono ormai di comporre un ipertesto che può rendere percepibili le relazioni culturali e i legami identitari in cui gli edifici industriali in questione sono inseriti. L’ipertesto può essere costruito come un grande affresco in divenire che si può avvalere anche di preziosi documenti visivi e sonori: quelli storici, ma anche quelli accumulati dagli studiosi e dagli artisti. Basti ricordare la gran mole di testimonianze orali raccolte con il registratore da Giuseppe Granelli, per 46 anni operaio della Falck; e, ancora, il lavoro sulla realtà sestese svolto da un regista illustre come Ermanno Olmi e da grandi fotografi, da Tranquillo Casiraghi, che qui era di casa, a Gianni Berengo Gardin, a Gabriele Basilico, a Giovanna Borgese. In secondo luogo si tratterà di mettere nella giusta evidenza la specificità del caso sestese, anche in rapporto alla classificazione tipologica dei siti adottata dall’Unesco. Sesto San Giovanni non è stata semplicemente una “città fabbrica” o “la città delle fabbriche”. Se così fosse, il rigetto della domanda sarebbe quasi automatico, apparendo Sesto come parte di una compagine già molto affollata (ovviamente se vista nell’ottica del contenimento – nell’ordine del migliaio – del numero di siti a cui l’Unesco assegna il compito di rappresentare sinteticamente la storia dell’umanità). Sesto San Giovanni rappresenta una specificità nel panorama delle concentrazioni industriali: quello di essere una polarità produttiva della metropoli contemporanea, una stella di prima grandezza che non si spiega se non la si collega alle risorse di un vasto territorio, a cominciare dalla forza lavoro messa a disposizione da un’area che arrivava fino alle valli prealpine e dall’energia elettrica fornita dalle centrali elettriche della Valtellina e dell’Adda (complessi tuttora in funzione e di grande valore, basti per tutti il riferimento a quel capolavoro che è la Centrale Taccani di Trezzo, opera di Gaetano Moretti). Occorre in altri termini far capire che non si tratta di una generica città o periferia industriale, ma che siamo di fronte a un importante capitolo di storia della metropoli contemporanea. Una peculiarità che fa di Sesto San Giovanni un caso a suo modo esemplare e che per questo merita di essere attentamente vagliato dall’Unesco. In terzo luogo occorre fare ulteriori sforzi sul terreno delle alleanze e delle sinergie. Il Symposium internazionale costituisce già un grande passo avanti in questa direzione, ma non basta. Occorre che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali prenda atto del valore degli organismi che Sesto intende portare alla candidatura e che la Regione Lombardia e la Provincia di Milano offrano un sostegno meno generico. Come? Approntando un progetto che, facendo tesoro di quanto fin qui fatto, si proponga di rappresentare la storia industriale della Lombardia attraverso un esteso e articolato ecomuseo: un piano regionale che, indipendentemente dal progetto Unesco ma in coerenza con esso, indichi i siti da valorizzare e la rete che vanno a comporre. Già l’identificazione di questa rete, con il relativo configurarsi di itinerari, metterebbe a sistema il patrimonio di cultura materiale, offrendo un sostegno agli sforzi che si compiono dal basso, dall’interno di ciascuna realtà. Per fare sostanziali passi avanti, Milano e la Lombardia devono operare in sinergia uscendo 11 dalle spire mortali delle conventicole e delle beghe di campanile. Su questo, c’è molto da imparare da quelle realtà – anche italiane, penso a Torino – che hanno conseguito importanti risultati riuscendo a mobilitare energie intellettuali e imprenditoriali in sfide impegnative aventi come obiettivo la valorizzazione del contesto territoriale. A Milano, ma anche a Sesto, si tocca con mano la sottoutilizzazione di un sistema universitario che conta sette atenei nel solo capoluogo (numero che arriva a tredici se si guarda alla regione1) quando invece proprio dalle università potrebbe venire un formidabile contributo di conoscenze e di idee in tema di valorizzazione del patrimonio materiale. Che indirizzi seguire nella valorizzazione delle straordinarie testimonianze materiali dello sviluppo industriale di Sesto San Giovanni? Occorre innanzi tutto evitare due pericoli: da un lato, la trasformazione in ruderi di quanto rimane degli organismi industriali; dall’altro, il loro riuso come semplici contenitori. Il recupero non può ridursi alla mera conquista di una nuova destinazione funzionale: le potenzialità di senso di cui questi complessi sono depositari sono tali che essi possono aspirare al ruolo di monumenti, a fianco delle chiese, delle ville, del palazzo municipale. Allo stesso tempo, la loro valorizzazione non può essere ristretta alla dimensione architettonica: occorre coinvolgere il contesto in una logica di riqualificazione urbana. Il recupero di questi organismi non può infatti essere scisso dal grande problema che la città di Sesto ha di fronte: ridisegnare il proprio assetto cercando una sintesi fra l’esistente e la nuova addizione di proporzioni inusitate che verrà dal riuso delle aree Falck. La memoria storica, opportunamente valorizzata, può costituire una formidabile risorsa per dare complessità e ricchezza di senso alla riconfigurazione del contesto urbano. Per potenzialità intrinseche e dislocazione, i maggiori edifici delle acciaierie che, assai opportunamente, si è deciso di conservare – il T3 (Forno elettrico, con l’annesso Reparto raffreddamento tondoni), l’Omec (Officina meccanica), il T5 (Forno elettrico), il Bliss (Laminatoio a freddo) e persino ciò che rimane della portineria Vulcano – si prestano a fare da capisaldi del riassetto. In altri termini, in un’epoca che dimostra una grande difficoltà a produrre nuovi monumenti (nel senso di architetture 12 capaci di farsi interpreti di valori e di caratteri identitari condivisi), questi organismi possono diventare le pietre angolari della nuova città: presenze architettoniche che, se opportunamente ‘ascoltate’, possono dare un prezioso apporto alla configurazione di luoghi pubblici di rilevanza urbana e metropolitana. Ad essi infatti potrebbe essere ancorata un’armatura di tramiti della socialità in grado non solo di strutturare il ridisegno delle aree Falck ma anche di legare fra loro le parti oggi disunite della città esistente, contribuendo allo stesso tempo alla realizzazione di un rinnovato policentrismo metropolitano. Rinvio su questo agli oltre trenta progetti elaborati nel Laboratorio di Progetto urbano e di paesaggio di cui sono titolare nella Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano2. A titolo esemplificativo, si pubblica qui il masterplan messo a punto da Claudia Comella e Federica Sapelli: 2 Una parte consistente di questi progetti è raccolta in G. Consonni (a cura di), L’urbanità come risorsa. Progetti per le aree Falck di Sesto San Giovanni/ Urbanity as a resource. Plans for the Falck Areas in Sesto San Giovanni, Mimesis, Sesto San Giovanni 2010. Al lavoro del Laboratorio hanno contribuito come tutor in tempi e modi diversi: Laura Montedoro, Beth Ellen Campbell, Sandro Coccoi, Francesco Vescovi, Vincenzo Gaglio, Andrea Gerosa, Chiara Martini, Ivan Giorgio Ramaroli, Ilaria Nava, Tommaso Marchi, Emanuele Colombo, Paolo Molteni, Laura Zamboni, Claudia Comella e Federica Sapelli. Per ulteriori informazioni: http://sites.google.com/site/ urbandesignlab 1 I sette atenei con sede centrale a Milano sono: l’Università degli Studi di Milano, l’Università degli Studi di MilanoBicocca, il Politecnico di Milano, l’Università Commerciale “Luigi Bocconi”, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo Iulm (Libera Università di Lingue e Comunicazione), la Libera Università “Vita Saluta S. Raffaele”; gli altri sei nella regione sono: l’Università di Pavia, lo Iuss (Istituto universitario di Studi Superiori) di Pavia, l’Università di Bergamo, l’Università di Brescia, l’Università “Carlo Cattaneo” - Liuc di Castellanza, l’Università degli studi Insubria di Varese-Como. Claudia Comella e Federica Sapelli, Masterplan per il riassetto delle aree Falck di Sesto San Giovanni. “Un impianto urbano chiaro ed equilibrato; un assetto capace al contempo di offrire esperienze diverse attraverso la compresenza di differenti reticoli e gerarchie: questo in estrema sintesi il principio che ha guidato il disegno urbano. L’intento è dare vita a una trama forte e articolata di spazi aperti pubblici in grado di favorire la socialità. Ogni luogo è concepito come un crocevia di relazioni: nessun elemento è casuale o slegato dal resto: tutto concorre a costituire parti di città interconnesse in grado di orientare l’abitante, come il passante, e allo stesso tempo capaci di offrire possibilità di ‘divagare’, alla scoperta di luoghi che si svelano man mano, suscitando curiosità e sorpresa.3” Se il cuore del lavoro progettuale che si svolge nel Laboratorio è la proposta di disegno urbano, gli approfondimenti architettonici vogliono essere dimostrativi dell’apporto che dai singoli edifici può venire all’architettura dei luoghi e al complessivo riassetto della città. Rimanendo al tema del recupero degli edifici industriali, mi limiterò in questa sede alla sintetica illustrazione di alcune soluzioni esemplificative. L’idea che accomuna le proposte è quella di un’architettura che contiene architetture. La ragione non è solo dovuta al fatto che i grandi scheletri del T3 e del T5 non possono reggere altro che se stessi. È la loro conformazione, insieme maestosa e trasparente, a suggerire l’idea di un amalgama di vecchio e nuovo. Dove il vecchio viene valorizzato nella sua magnificenza e il nuovo si pone al servizio della possibilità di fare di questi grandi complessi degli organismi-soglia: piazze coperte o gallerie urbane in grado di infondere vitalità ai luoghi pubblici su cui insistono, sia per le attività che ospitano sia per il loro farsi crocevia di un articolato sistema di relazioni affidato soprattutto a potenti tramiti pedonali. Nel progetto di Eleonora D’Agati e Silvia Pilotti il Museo d’arte contemporanea ospitato nel T3 si articola in quattro sale sospese su esili pilotis: corpi aerei come sculture melottiane collegate fra loro da passerelle. Oltre alla visita in successione di quanto esposto all’interno delle sale, nei tratti all’aperto il percorso si fa promenade architecturale nell’intento di consentire ai visitatori di partecipare della vita della piazza coperta e insieme di spaziare sul panorama della nuova città. Nel progetto di Laura Zamboni e Paolo Molteni il T3 viene circondato da uno specchio d’acqua con due obiettivi: esaltare la potenza della struttura e fare dell’interno uno spazio sospeso. I diversi corpi vetrati, in cui si articolano il Museo e le attività connesse, interagiscono con la grande fabbrica in un gioco di trasparenze e diafanità, di permeabilità e di soglie, che arricchisce l’esperienza dello spazio grazie a continui mutamenti di prospettiva. Silvia Malavasi e Milena Prada, Proposta per il recupero del T3 a piazza coperta e a Museo d’arte contemporanea. Vista prospettica Eleonora D’Agati e Silvia Pilotti, Proposta per il recupero del T3 a piazza coperta e a Museo d’arte contemporanea. Vista prospettica Gabriele Rivolta, Proposta per il recupero del T5 a Museo d’arte contemporanea e laboratori per il restauro e la conservazione dei beni culturali. Vista prospettica 13 3 Ivi, p. 90 Cristina Borsa e Monya Mierini, Proposta il recupero del T3 e del Reparto raffreddamento tondoni a Museo e Università delle arti. Vista prospettica Sempre Molteni e Zamboni propongono per il recupero del T5 l’inserimento di un Centro di ricerca e di strutture per la convivialità. Con i nuovi organismi ospitati, la imponente struttura - dotata di una nuova copertura trasparente - è posta in relazione con una grande piazza, in una stretta relazione fra interno ed esterno, fra chiuso e aperto. Il senso dell’accogliere ne risulta esaltato. Gabriele Rivolta prospetta per il T5 una destinazione a Museo d’arte contemporanea e Laboratori per il restauro e la conservazione dei beni culturali. Il progetto, alquanto articolato, dà vita a una vera e propria cittadella che interagisce e infonde una forte personalità alla grande piazza su cui insiste. Cristina Borsa e Monya Mierini propongono il recupero del T3 e del Reparto raffreddamento tondoni a Museo e Università delle arti. La maestosità del T3 ha suggerito la trasformazione del suo interno in una grande cavità teatrale. Quanto al lungo corpo del Reparto raffreddamento tondoni, se ne propone il riuso a spazio espositivo per grandi sculture che risulteranno visibili anche dal parco che lo circonda. Anche nella soluzione messa a punto da Silvia Malavasi e Milena Prada l’architettura del T3 diviene una piazza coperta atta ad ospitare un Museo di arte contemporanea. La propensione teatrale del luogo è enfatizzata da una grande spirale rossa sospesa che genera una promenade da cui ammirare le grandi sculture ospitate sotto la copertura ‘a pagoda’ ma anche il paesaggio urbano. Giancarlo Consonni Politecnico di Milano 14 Il patrimonio siderurgico di Piombino come risorsa per lo sviluppo urbano La convenzione Aipai-Lucchini Nello scorso mese di febbraio 2011 il Piuss di Piombino è praticamente decaduto1. Le gare indette dall’Amministrazione per la vendita di alcune aree comunali sono andate deserte e sono venuti così a mancare i 18 milioni che il Comune avrebbe dovuto apportare per finanziare un intervento di importo complessivo di circa 38 milioni di Euro. E’ probabile che alcuni degli interventi programmati possano essere recuperati su altre linee di finanziamento. Quelli che invece appaiono destinati ad essere stralciati sono gli interventi ascritti all’asse culturale del programma, ossia il nuovo Museo del Ferro (all’interno dell’ex edificio delle Siviere) e il Parco di archeologia industriale circostante (che insieme assorbivano la parte più cospicua dell’investimento, pari a circa 20 milioni di Euro). Si è così conclusa nel modo più traumatico un’esperienza di pianificazione che ha preso avvio nel giugno del 2008 e che ha comportato un complesso iter ideativo, articolato in attività di documentazione e ricerca propositiva dei modi più efficaci di valorizzazione del patrimonio industriale piombinese legato alla siderurgia. Fra i meriti di spicco del progetto del Piuss piombinese figura soprattutto quello di aver aperto un’originale “terza via” fra le due opposte modalità di approccio alla questione dell’Industrial Heritage rilevabili nei piani di rigenerazione urbana nella città europea. Il ruolo del patrimonio industriale ha infatti oscillato fra due possibilità alternative: in certi casi esso è apparso come un impedimento da rimuovere per l’immagine negativa associata a un passato da dimenticare, in altri casi, invece, esso si è rivelato come una risorsa da conservare per il suo valore di testimonianza storico-culturale e per la sua versatilità ad essere impiegato per nuove destinazioni. Il caso di Piombino è in certa misura anomalo, in quanto si colloca in uno spazio intermedio, quello di un azzeramento delle vestigia materiali che tuttavia si accompagna ad un progetto di conservazione della memoria passata. 1 Il Piuss (Piano Integrato di Sviluppo Urbano Sostenibile) è uno strumento riconducibile alla schiera della pianificazione urbana complessa, identificato come strumento di sviluppo economico locale e di rigenerazione urbana che opera prevalentemente mediante interventi di recupero, riqualificazione, riconversione e valorizzazione del patrimonio urbano esistente. La natura del Piuss ed il suo processo di formazione sono definiti da un “Disciplinare di attuazione” (delibera della G.R.T. n. 205 del 17-03-2008) che stabilisce una procedura di natura concorsuale tra i comuni toscani superiori ai 20.000 abitanti, stanziando complessivamente circa 135 milioni di euro per i Piuss ammessi a finanziamento. Tutto è cominciato con la decisione della Lucchini, azienda siderurgica di Piombino passata in proprietà della Severstal, di procedere alla demolizione di Afo 1 (altoforno dismesso fin dal 1976) in un quadro di potenziamento dell’attività produttiva. Afo 1, seppur ridotto ad uno stato di rudere, rappresentava una testimonianza fondamentale della metallurgia piombinese; esso costituiva l’ultimo esemplare di una batteria di tre altiforni ricostruiti negli anni ‘50 dopo i bombardamenti bellici. L’amministrazione comunale si era formalmente impegnata nella sua conservazione, senza però mai intraprendere i passi necessari. Nel 2008 Lucchini e Comune hanno raggiunto un accordo secondo cui il Comune autorizzava Lucchini a demolire Afo 1 e a riutilizzare l’area liberata per potenziare i suoi impianti; in cambio Lucchini riconferiva al Comune un’ampia area fino a quel momento utilizzata dall’azienda per lo sversamento delle loppe consentendo all’Amministrazione, ritornata in possesso dei suoli, di destinarli al Piuss “Città futura”. In più l’azienda, con una sensibilità assente in passato, affidava all’Aipai (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale) un doppio incarico: un “progetto conoscenza” per documentare al meglio Afo 1 prima della sua demolizione e un “progetto di fattibilità” per definire modello e struttura di un futuro “museo-archivio del ferro e dell’acciaio”2. La documentazione di Afo 1 I lunghi anni di incuria successivi alla dismissione hanno condannato definitivamente l’impianto; la corrosione degli agenti atmosferici e la mancanza di manutenzione hanno compromesso l’integrità della struttura; inoltre la sua ubicazione all’interno di un complesso metallurgico in piena attività ne ha sempre osteggiato l’accessibilità e la fruizione da parte di potenziali visitatori. La decisione della sua demolizione ha quindi sanzionato, una volta per tutte, la presa d’atto dell’impossibilità di un restauro materiale di Afo 1 e il dovere, al tempo stesso, di procedere all’esecuzione di un programma di documentazione inteso a raccogliere nel modo più esauriente possibile tutti gli elementi di conoscenza relativi all’impianto destinato allo smantellamento. Il programma di documentazione si è articolato in più fasi: un’accurata ricognizione archivistica; una sistematica campagna fotografica di Afo 1 prima e durante la demolizione; una ricostruzione analitica del processo metallurgico nelle sue diverse fasi (riportando su piante e sezioni a colori i flussi dei gas di altoforno, dell’aria preriscaldata, dei fumi esausti, ecc.) e, infine, un rilievo dell’impianto 2 I risultati del lavoro svolto dall’Aipai è stato illustrato in Preite Massimo, “L’altoforno di Piombino: un modello di patrimonializzazione immateriale”, in Patrimonio Industriale, anno III, 4, 2009. che, dati i tempi ristretti a disposizione (poche settimane), ha comportato l’impiego di strumenti laser tridimensionali. L’adozione di questa tecnica innovativa ha consentito una grande speditezza di esecuzione; un rilievo tradizionale avrebbe infatti richiesto un lavoro prolungato, del tutto incompatibile con i tempi messi a disposizione dall’azienda. Il modello 3D messo a punto attraverso le rilevazioni ha consentito di generare infinite piante e sezioni della struttura e di “navigare” liberamente all’interno e all’esterno della struttura, modificando a piacimento il punto di osservazione. A conoscenza di chi scrive quella di Piombino risulta essere la prima esperienza in Italia di rilievo di un monumento di archeologia industriale con le tecniche laser. Afo1 prima della demolizione (M. Preite), foto. Il piano di fattibilità Il secondo prodotto da eseguire a termini di convenzione - il piano di fattibilità – non sembrava destinato ad aprire grandi prospettive nell’immediato; come quasi tutti i piani di fattibilità appariva avviato sui binari di una sterile esercitazione destinata a produrre un modello astratto di museo-archivio, semplicemente pago della sua coerenza funzionale e del suo concept espositivo. Si è aperta invece, e in modo del tutto inaspettato, una straordinaria finestra di opportunità: l’ipotesi di recupero di un edificio industriale dismesso degli anni ’70 destinato alla manutenzione del manto refrattario delle “siviere” (carri appositi per il trasporto della ghisa liquida), da cui anche il nome. 15 16 Destinato alla demolizione, agli esperti dell’Aipai è invece apparso per dimensioni e struttura la sede ideale per l’allestimento del nuovo museo. Gli amministratori, dapprima esitanti, hanno poi condiviso l’intuizione e hanno richiesto il perfezionamento dello “studio di fattibilità” in “progetto preliminare”, che è stato rapidamente approvato ed inserito nel Progetto Città Futura con cui l’Amministrazione ha partecipato al bando regionale per l’assegnazione, in regime di cofinanziamento, delle risorse con cui finanziare veri e propri piani di rigenerazione urbana. Ricordiamo che i PIUSS banditi dalla Regione Toscana erano programmi complessi finalizzati a promuovere politiche di sviluppo economico e sociale in aree urbane individuate nel Programma Operativo Regionale “Competitività regionale e occupazione” del Fesr 2007-2013. Essi sono quindi programmi più a carattere economico che di natura urbanistica, articolati su distinte misure (produzione, cultura, turismo, ecc.) su ognuna delle quali va dimostrata la redditività del piano proposto. Il Piuss di Piombino, che prevedeva essenzialmente un museo-archivio e un parco espositivo sulla misura “cultura” e un polo tecnologico sulla misura “produzione” (è stato approvato e gli è stata concessa una linea di finanziamento di circa 20 ml di Euro con l’impegno, a carico del Comune, di cofinanziare (per 18 ml) e realizzare tutti i progetti entro il 2014. In tempi stretti è stato messo a gara e assegnato l’incarico per la progettazione. I progetti definitivi del Museo-Archivio dell’Industria dell’Acciaio (MAIA) e del Parco della Siderurgia sono stati consegnati a settembre 2010, mentre il Comune ha siglato una convenzione con Aipai per il progetto di allestimento museale. La convenzione Aipai-Comune per il progetto di allestimento L’incarico è stato svolto fino al progetto preliminare (dicembre 2010). La sintesi costringe a dare cenno solo dei principali criteri di progettazione: —— il progetto per il nuovo museo ha presentato tutte le difficoltà di molti musei contemporanei che nascono sostanzialmente “senza collezione”; compito dei progettisti è stato quello di individuare le principali sezioni tematiche e selezionare documenti, oggetti, immagini, ecc. idonei a narrare, attraverso le tecniche multimediali più innovative, le vicende della siderurgia piombinese; —— il secondo obiettivo è stato quello di coniugare “museo in-door” e “museo outdoor”; il progetto ha dovuto integrare l’allestimento degli spazi al chiuso (nell’edificio delle ex-siviere) con gli allestimenti del parco circostante (installazioni in apposite piazzole di macchine e impianti dismessi ceduti dalle aziende metallurgiche); —— il terzo obiettivo è stato quello di assegnare al museo di Piombino il ruolo di porta di accesso a un sistema museale diffuso (a scala regionale) in grado di ricucire in percorso i luoghi rilevanti della siderurgia toscana che prende avvio con i programmi di Cosimo 1° dei Medici nel XVI secolo. Alcune rapide conclusioni sull’esperienza avviata e, purtroppo, precipitosamente conclusa: —— agli inizi la vicenda decolla sotto una buona stella perché un ritardo di pochi giorni avrebbe potuto far sfumare tutto; attenzione alle date: il protocollo è stato sottoscritto nel luglio 2008, a settembre è sopraggiunta la crisi, il portafoglio ordini della Lucchini si è azzerato, centinaia di operai sono stati messi in cassa integrazione e in dicembre l’altoforno è stato messo a riposo. Un ritardo di poche settimane nella firma del protocollo e per l’azienda, con gli operai in cassa integrazione, sarebbe risultato impossibile giustificare un finanziamento (seppur esiguo) su un progetto culturale; —— quello di Afo 1 voleva essere un esempio di “distruzione creatrice”: far nascere, dalle ceneri di Afo1, un nuovo museo grazie al recupero di un edificio (le ex siviere) già destinato alla demolizione; la perdita di Afo 1 avrebbe trovato riscatto nella volontà dell’Amministrazione, mai espressa in passato con altrettanta convinzione, di valorizzare la memoria industriale della città attraverso una grossa operazione museale che nessuno avrebbe considerato fattibile solo pochi mesi prima; —— la novità di un forte coinvolgimento delle aziende siderurgiche: Lucchini e Magona si sono impegnate a dare pieno sostegno al progetto col mettere a disposizione documentazione e testimonianze materiali della loro attività passata; —— il nuovo Museo del Ferro, fulcro come abbiamo detto del Piuss, avrebbe dovuto trasmettere a questo strumento di pianificazione complessa l’energia necessaria a realizzare una compiuta integrazione fra luoghi della produzione e centro urbano. Il Piuss costituiva la cerniera indispensabile per riunire due pezzi di città che finora si sono ignorati; —— infine la mutevolezza del caso; queste riflessioni finali hanno tratto spunto dalla buona stella che ha assecondato il debutto di questo straordinario progetto; la cattiva stella che ne ha determinato il fallimento è frutto della più malefica crisi economica degli ultimi anni che probabilmente rischia di mettere in ginocchio molti altri programmi urbani concepiti nell’ottica di un cofinanziamento sempre più difficile da reperire. Massimo Preite Professore all’Università di Firenze, Vicepresidente AIPAI, membro del TICCIH Board Edificio ex Siviere (M. Preite), foto. Modello 3D (Università di Firenze) 17 Rendering allestimento museale (G. Maciocco) L’IBA Emscher Park nel territorio della Ruhr: una retrospettiva Il territorio della Ruhr L’immagine delle vecchie regioni industriali che hanno i progettisti in tutto il mondo è simile in molte sue sfaccettature. Si tratta di un’immagine di regioni urbanizzate, plasmate dall’industrializzazione e dai calcoli delle grandi imprese. Anche se si differenziano l’una dall’altra, queste regioni hanno molto in comune. Per decenni, lo sviluppo residenziale in queste regioni ha seguito la logica dei processi aziendali e le necessità logistiche della produzione di stampo fordista. Così ha avuto origine un paesaggio urbano poco attraente, policentrico e confuso. Le sedi direzionali dei grandi gruppi industriali avevano sul territorio un potere contro cui i sindacati e i progettisti del settore pubblico hanno sviluppato ben poco antagonismo1. Una regione di questo genere è il territorio di 4000 km² della Ruhr, nell’ovest della Repubblica Federale Tedesca, dove vivono e lavorano circa cinque milioni di persone. Dortmund, Essen, Duisburg e Bochum sono i quattro grossi nuclei urbani di quest’area, per tradizione controllata politicamente dai socialdemocratici. Lì si trovano grandi università, parchi tecnologici e numerosi istituti superiori di qualificazione professionale. Ogni città ha un grande teatro, un’orchestra filarmonica e molti musei. Sindacati, grandi associazioni e imprese dell’energia, dell’acqua, dello smaltimento dei rifiuti e delle acque di scarico hanno una grande influenza sullo sviluppo degli spazi nella regione. E naturalmente i rispettivi club calcistici locali giocano un ruolo politico che va ben oltre lo sport. Nella Ruhr carbone e acciaio hanno determinato l’immagine della regione per più di un secolo. Per taluni, questo territorio è stato la fucina delle armi del Reich tedesco. 1 cfr. Benz Arthur, Dietrich Fürst, Heiderose Kilper e Dieter Rehfeld (2000), Regionalisation: Theory, Practice and Prospects in Germany, Stockholm: Swedish Institute for Regional Research. Per altri, il motore economico della ricostruzione post bellica. Una regione dove soprattutto si lavora, ma non si “vive”. Gli abitanti sanno che questa è un’immagine esteriore del tutto falsa della loro regione. Ne apprezzano l’alta qualità della vita, i grandi parchi, la concentrazione e la varietà delle istituzioni scientifiche e culturali, i prezzi modesti dei consumi, la posizione geografica vantaggiosa. In poche ore si raggiungono mete nell’Europa nord occidentale attraverso vie d’acqua, strade e ferrovie. L’IBA Emscher Park Da quando negli anni sessanta del secolo scorso diventò chiaro che era stato superato l’apice dello sviluppo industriale nella Ruhr, si fecero sforzi per sostenere e accelerare la trasformazione economica della regione mediante programmi statali. Vennero costruite autostrade per aumentare l’accessibilità, università per formare forza lavoro più qualificata, parchi tecnologici per dare un’applicazione pratica al sapere. Tuttavia, tutti questi provvedimenti aiutarono ben poco nella competizione con le moderne regioni urbanizzate e tecnologiche del sud della Germania, con Monaco, Stoccarda e Francoforte. Non potevano né assicurare l’occupazione postindustriale di operai specializzati altamente qualificati, né rimuovere dalla mente le immagini che le persone avevano della Ruhr: un paesaggio industriale ben poco attraente, miniere di carbone, cumuli di scorie dell’industria mineraria (Halden), acciaierie, ciminiere e centrali elettriche, quartieri operai o nuclei urbani anonimi e distrutti dalla guerra, in una regione attraversata da ferrovie, canali e autostrade. Poi, nel 1989, una strategia del tutto diversa ha dato nuova speranza alla regione. Nella tradizione delle mostre di costruzioni e architettura (Bauausstellungen), che in Germania hanno sempre successo, il Land Nordrhein Westfalen ne ha iniziata una, chiamandola IBA Emscher Park. Non era una Bauausstellung nel senso letterale del termine, come l’esposizione di edifici moderni a Berlino nel 1957 e 1988, ma una strategia esplicitamente limitata ad un periodo di dieci anni e finalizzata alla conservazione dell’eredità industriale della regione, al rafforzamento della coesione regionale e alla modifica dell’immagine della Ruhr. Fu una strategia incentrata su un progetto, realizzata e sviluppata sulla base di un breve documento di strategia e di una serie di principi per il miglioramento sociale, ecologico e qualitativo del paesaggio urbano2, nell’ambito 2 cfr. Höber Andrea and Karl Ganser, eds. (1999), Industriekultur. Mythos und Moderne im Ruhrgebiet, Essen, Klartext. Sack, Manfred (1999), Siebzig Kilometer Hoffnung. Die IBA Emscher Park. Erneuerung eines Industriegebiets, Stuttgart: DVA. Kunzmann, Klaus R. (1999), The International Building Exhibition Emscher Park: Another Approach to Sustainable Development (con T. Grohé), in: N. Lutzky e autori 18 Duisburg, visione dell’altoforno, foto. di un vasto processo di comunicazione a livello regionale. Il progetto poggiava sui seguenti capisaldi. —— La Zeche Zollverein a Essen: un complesso culturale e dell’economia legata alla cultura nell’area della più grande miniera del territorio, con il nuovo museo della Ruhr, un museo del Design, il Tanzzentrum [Centro del ballo] del Land Nordrhein Westfalen, officine e ristorazione. —— Il porto fluviale di Duisburg: un quartiere attraente e utilizzato in vario modo, nei pressi del porto. —— Il Jahrhunderthalle a Bochum: un vecchio capannone industriale trasformato in moderno teatro per concerti, con un nuovo quartiere di abitazioni e uffici moderni. —— I parchi tecnologici, architettonicamente audaci e creati in aree industriali dismesse. —— Il parco paesaggistico di Duisburg: un parco per la cultura e il tempo libero. —— Il parco paesaggistico dell’Emscher: un gigantesco parco che oltrepassa i confini comunali, attraversando la Ruhr, e ingloba e collega tutte le superfici libere non edificate. —— La riconfigurazione naturale del fiume Emscher, ormai ridotto a fogna a cielo aperto. —— Il Nordsternpark: una miniera utilizzata nel 1997 per una mostra di fiori e piante, poi trasformata in parco pubblico. —— Il Gasometro di Oberhausen: un serbatoio per il gas trasformato in padiglione espositivo e in una piattaforma panoramica alta 132 metri. Per migliorare la qualità della vita urbana, oltre a questi passi spettacolari, furono iniziati e realizzati più di cento altri progetti: numerosi progetti abitativi in vecchie aree dismesse, sulla traccia dei quartieri operai nel frattempo tutelati come monumenti, sculture paesaggistiche e parchi di grande effetto sugli Halden, nuovi ponti variopinti su strade o canali industriali. Tutti questi progetti hanno generato una nuova immagine della Ruhr come regione in movimento, che sa creare potenzialità dai suoi problemi. Tuttavia il maggior merito dell’IBA Emscher Park e dei suoi fautori e promotori consiste nei loro sforzi, coronati da successo, di conservare l’eredità del vecchio territorio industriale. E di conservarlo non soltanto come un museo, ma di riempirlo di potenziali nuovi utilizzi nell’ambito della cultura e dell’economia legata alla cultura. vari, Strategies for Sustainable Development of European Metropolitan Regions. European Metropolitan Regions Project. Evaluation Report. Urban 21: Global Conference on the Urban Future. Kunzmann Klaus R. (2004), Creative Brownfield Redevelopment: The Experience of the IBA Emscher Park Initiative in the Ruhr in Germany, in: Greenstein, Roslalind and Yesim Sungu-Eryilmaz, eds, Recycling the City: The Use and Reuse of Urban Land, Lincoln Institute of Land Policy, Cambridge, 201-217. Essen, la Zeche Zollverein, foto. Gli urbanisti sono affascinati dai successi dell’IBA nel ridare nuova vita postindustriale a una grande regione industriale. Gli sforzi compiuti per coniugare la dimensione sociale, ecologica e culturale con esigenze formali di alto livello incontrano le loro aspettative di una programmazione di sviluppo urbano integrato. I progettisti del paesaggio ammirano l’ambizioso progetto del grande parco paesaggistico regionale, che da nessuna altra parte avrebbe avuto una possibilità di essere realizzato con queste dimensioni. Scoprono il carattere attraente della natura industriale che, nell’ambito dell’IBA, è stato introdotto come elemento essenziale ed ecologicamente significativo di un vecchio paesaggio industriale. Bisogna ammettere che chi tradizionalmente si occupa di monumenti, piani regionali, economia o sociologia è piuttosto scettico circa l’eccessiva accentuazione di immagini iconiche, la cultura dell’evento e lo sfruttamento commerciale anziché museale dei monumenti industriali. E non mancano dubbi sugli effetti economici e sociali reali dell’operazione, forse anche perché quasi mai sono state presentate cifre. 19 Senza l’opera preliminare dell’IBA Emscher Park, la città di Essen non sarebbe mai stata scelta come capitale europea della cultura nel 2010. Undici anni dopo la fine ufficiale della Bauausstellung, questo evento ha attirato nuovamente l’attenzione sulla Ruhr. In questa occasione, la stampa e i giornali hanno massicciamente diffuso immagini di iniziative culturali nelle vecchie strutture industriali, icone dell’IBA. In questo modo sono state dimenticate le difficoltà avute nel conservare questi edifici mediante considerevoli sovvenzioni statali, spesso andando contro i proprietari, per rivitalizzarli e sfruttarli a livello culturale. In retrospettiva è possibile rintracciare cinque fasi della strategia regionale dell’IBA Emscher Park per adeguare gli spazi della Ruhr alle esigenze del ventunesimo secolo. —— Prima fase: ricognizione e appello. Ricerca delle effettive potenzialità endogene della regione e identificazione dei progetti adatti a rappresentare obiettivi e principi di questa strategia. —— Seconda fase: concretizzazione e comunicazione regionale. Concretizzazione di progetti esemplari nell’ambito di concorsi internazionali; realizzazione di progetti selezionati; presentazione della strategia e dei progetti. —— Terza fase: profilarsi delle iniziative e completamento. Concentrazione delle attività in luoghi selezionati per la loro grande qualità avveniristica. —— Quarta fase: prosecuzione e diffusione. Sviluppo dell’idea del parco dell’Emscher per una strategia di sviluppo territoriale endogena, definita “regionale”. Promozione mirata di questa idea in altre regioni del Land Nordrhein Westfalen qualificatesi nei concorsi. —— Quinta fase: consolidamento e tutela della continuità. Consolidamento e garanzia della conservazione dei luoghi avveniristici dell’IBA. Ideazione di ulteriori progetti comunali nella regione ispirati alla filosofia dell’IBA Emscher Park. Riferimento a luoghi dell’IBA nell’ambito dell’evento Ruhr capitale europea della cultura nel 2010. 20 L’IBA Emscher Park ha ottenuto molto. Ha salvato dalla demolizione costruzioni industriali degne di essere preservate; non le ha conservate solo come musei, ma ha fatto in modo che venissero sfruttate sul piano economico. Ha reso la Ruhr una regione vivibile per i suoi abitanti, conferendole così una nuova identità. Ha aperto la regione verso l’esterno, attirandovi visitatori e turisti, normalmente non interessati a visitare paesaggi industriali. Un enorme parco paesaggistico è stato ideato, creato e trasformato gradualmente e insieme con tutte le città e i comuni nella zona dell’Emscher. L’IBA ha reso attraenti alcuni luoghi del territorio per investitori e promotori privati, fino ad allora poco propensi ad investire. Ha formulato nuovi standard nell’architettura e nella progettazione paesaggistica, dimostrando che erano realizzabili. Ha creato spazi per giovani imprenditori creativi, molto prima che la generale mania per l’economia della creatività raggiungesse promotori e sponsor economici locali. E senza l’IBA Emscher Park, la città di Essen non sarebbe mai diventata capitale della cultura nel 2010. All’estero, l’IBA Emscher Park non viene sempre compreso correttamente. Gran parte dei visitatori non sa come il progetto si è sviluppato e come si inquadri a livello istituzionale e amministrativo. Poco noto è anche il fatto che l’agenzia dell’IBA, piccola e solo temporanea, non potesse diventare operativa nei settori centrali del trasporto, dell’economia e della formazione. Spesso si dimentica anche che un progetto di quest’ordine di grandezza, iniziato e realizzato partendo dall’alto, ha seguito principi che riflettono piuttosto idee provenienti dal basso. Questo vale presumibilmente anche per molti ammiratori dell’IBA Emscher Park in Germania. Tutti vedono i risultati, sono affascinati dalle cattedrali della cultura industriale prima chiuse al pubblico, scoprono il fascino segreto di una natura industriale. Ma molti non sanno quale influenza abbia avuto l’IBA Emscher Park sulla formazione di una consapevolezza e di un’identità regionale che prima non esisteva. O almeno non esisteva per gli abitanti delle città e dei paesi della regione, che pensavano e agivano sempre solo localmente, e neppure per la politica locale che faceva anzitutto una politica municipale legata al presente e vedeva l’agire regionale come compromesso, anziché come realizzazione di un comune futuro. Qual è il particolare fascino internazionale dell’IBA Emscher Park? Svariate funzioni giustificano il fascino internazionale dell’IBA Emscher Park. Si tratta di uno spazio di ispirazione, dimostrazione, riflessione, proiezione e incoraggiamento. Bottrop, Tetraedro su uno dei cumuli di scorie dell’industria mineraria, foto. Uno spazio di ispirazione. I progetti dell’IBA ispirano architetti e urbanisti, ma anche architetti paesaggisti e progettisti del paesaggio. Lontani dalla normale edilizia in contesti urbani, sono considerati progetti particolarmente creativi, modelli che indicano la strada per future sfide. L’IBA Emscher Park è un’enorme miniera di idee per la modernizzazione degli spazi urbani trascurati, e ha indotto anche altre città e regioni a copiare il proprio modello e ad affrontare con l’aiuto dell’”etichetta” importata le diverse sfide dello sviluppo urbano in modo avveniristico. Citiamo ad esempio l’IBA Fürst-Pückler Land 20002010 a Dessau3, l’IBA Sachsen-Anhalt 2010, l’IBA di Amburgo 2013 e, oltre i confini nazionali, l’IBA di Basilea. Persino Berlino progetta una nuova IBA per far approvare a livello politico un modello di riutilizzo dell’aeroporto di Tempelhof. Si pensa addirittura di portare in Europa il progetto dell’IBA come strategia di edilizia urbana per luoghi difficili, oggetto di controversie a livello politico: un marchio che realizza progetti non realizzabili in condizioni “normali”. conservare l’acciaieria rendendola accessibile al pubblico come parco. Prendendo come riferimento questa inconsueta “impresa tedesca”, subito dopo il suo ritorno egli impedì la demolizione degli ultimi resti di un’acciaieria a Kitakyushu. L’ex sindaco di Duisburg Josef Krings, da parte sua, si rallegrò molto di questa storia giapponese, la raccontò ai suoi consiglieri e ottenne la loro approvazione. Sembra una fiaba del filosofo greco Esopo: solo se un progetto trova ammirazione all’estero viene considerato buono anche in patria. Uno spazio di dimostrazione. Si ritiene che con l’IBA Emscher Park sia nata l’idea di conservazione della cultura industriale. L’IBA è citata quando si parla di conservazione e rivitalizzazione durevole del paesaggio industriale in rovina. Molti progetti dell’IBA Emscher Park hanno aperto nuovi orizzonti. Sono stati ideati, realizzati e ampiamente resi noti con grande impiego di risorse intellettuali e finanziarie, per ottenere l’adesione anche degli ultimi scettici. L’IBA ha continuamente dimostrato che è possibile anche qualcosa di inconsueto, che la strada per un’idea si può vedere, sperimentare e soprattutto percorrere. Bisogna ammettere che l’iniziativa ha avuto certamente sostenitori e casse di risonanza competenti, ma anche mezzi finanziari per convincere e convertire gli increduli. Ora i progetti realizzati sono ovvi, l’opinione pubblica regionale li ha accettati come emblemi di un nuovo territorio della Ruhr. E questo è anche ciò che i visitatori internazionali vedono e portano a casa, per convincere là altri increduli. Uno spazio di incoraggiamento. L’IBA Emscher Park ha dimostrato che progetti e idee non abituali sono realizzabili malgrado resistenze. La visita ai luoghi e il confronto incoraggia e dà impulso anche altrove a progetti innovativi, simili o diversi. Per esempio, il vicesindaco di Kitakyushu raccontò di come durante una visita a Duisburg l’avesse colpito il parco paesaggistico e specialmente il fatto che i responsabili della città fossero riusciti a 3 cfr. Kuhn Rolf (2000), Internationale Bauausstellung FürstPückler-Land- Eine Werkstatt für neue Landschaften. In: ARGE Stadterneuerung, Ed., Jahrbuch Stadterneuerung 2000. Institut für Stadt- und Regionalplanung TU Berlin, Berlin, 285-296. Dortmund, la Torre U, foto. Uno spazio di proiezione. Spesso inconsapevolmente, l’IBA Emscher Park viene fraintesa anche senza volerlo. Non è stata una classica Bauausstellung, e neppure una strategia ufficiale di sviluppo regionale e integrato dell’intero governo del Land. Non ha avuto nulla a che vedere con la programmazione regionale del Land Nordrhein Westfalen, alquanto povera di iniziative. Non è stata una strategia di promozione 21 dell’economia accettata dai protagonisti dell’economia regionale, e neanche una strategia ufficiale per lo sviluppo dell’economia legata alla cultura nel territorio. Non è stata un’iniziativa collettiva di città e comuni della Ruhr. Nell’iniziativa vengono proiettate spesso visioni del futuro che non hanno nulla a che spartire con la realtà e le prospettive di sviluppo nel territorio della Ruhr. L’IBA è un perfetto spazio di proiezione per idee creative. A causa dell’entusiasmo per le idee realizzate e sulla base di un’insufficiente conoscenza della loro storia, si proietta molto nell’iniziativa dell’IBA Emscher Park, tralasciando di concentrarsi sulle condizioni culturali e politiche. A rimanere impresse nella memoria sono le immagini di impianti minerari e altiforni sfruttati in modo nuovo, i “segni di riconoscimento” sugli Halden, i granai trasformati in museo di arte moderna, o l’Emscher restituito alla natura. Uno spazio di riflessione. L’IBA Emscher Park è un inconsueto spazio di sperimentazione, che costringe i visitatori a valutare ciò che hanno visto alla luce delle loro esperienze pregresse. Si dà un’occhiata fuori dalla finestra per osservare un diverso paesaggio urbano straniero, ritornando poi di nuovo nel proprio giardino. Spesso i visitatori rivolgono il loro pensiero più alle proprie esperienze e problemi che a ciò che vedono effettivamente nella Ruhr. Salire sul Gasometro di Oberhausen suscita inevitabilmente la domanda sulla realizzabilità di un simile progetto anche a casa propria. Uno spazio di speranza. L’IBA Emscher Park non è solo uno spazio di speranza per gli abitanti. In un’epoca in cui i centri scintillanti e consumistici dei nuclei metropolitani si sono riempiti di simboli architettonici e icone culturali del moderno sviluppo urbano, ben poco interesse politico suscitano gli anonimi paesaggi urbani postindustriali che sono al di là di queste isole dei consumi. L’IBA è diventato un simbolo di speranza. La speranza e la fiducia che abbiano un futuro anche le vecchie regioni industriali affinché possano garantire la qualità della vita. 22 Fiume Emscher, area rinaturalizzata L’IBA Emscher Park: un modello? In tutto il mondo l’IBA Emscher Park è considerata un’iniziativa molto ambiziosa di riconversione strutturale, creativa e partecipata, di vecchie regioni industriali. Così l’IBA è entrata nella storia internazionale della progettazione. E, tuttavia, non è trasferibile. In nessun’altra vecchia regione industriale del mondo potrebbe trovare tanto sostegno pubblico un progetto così “sovversivo”, che indica un futuro tanto lontano senza preoccuparsi di successi commerciali immediati. Questa è stata soprattutto la visione e la linea guida, organizzativa e comunicativa del suo “inventore” e direttore Karl Ganser. L’IBA ha suscitato attenzione internazionale. È diventata un marchio tedesco di rivitalizzazione creativa di una vecchia regione industriale, anche se si nascondono un po’ le insoddisfacenti dimensioni economiche di questa rivitalizzazione. L’IBA è riuscita a creare nuove immagini di queste aree industriali dismesse e a infondere coraggio, ma non ha risolto i problemi strutturali della regione. Non ha potuto compensare le mancanze di una politica strutturale per troppo tempo orientata verso il carbone e l’acciaio. L’IBA Emscher Park ha però mostrato, e questa è forse l’esperienza più importante, che una regione può essere rinnovata mediante immagini uscite dalle menti e progetti esemplari che insieme seguono un’invisibile strategia. Ha dimostrato che, anche nell’epoca della globalizzazione, una regione industriale che per decenni ha trascurato il paesaggio e gli spazi di vita può essere un ambiente vivibile per le persone che desiderano abitarla. Klaus R. Kunzmann Dr.techn. Dipl.Ing. HonDLitt (Newcastle), Professor emeritus TU Dortmund (Traduzione di Cristina Riva) Periferie urbano-industriali in Italia. Questioni di storia, memoria e riuso La candidatura alla lista del patrimonio mondiale dell’Unesco di un’ampia porzione urbana di Sesto San Giovanni pone lo storico - dell’edilizia e della città, come dell’impresa e del lavoro – di fronte ad un evento eccezionale. Si tratta infatti di un’iniziativa che registra un cambio di mentalità, impone un nuovo paradigma storiografico, può tradursi in una deroga significativa alle pratiche cui spesso sottende un uso ancora ambiguo dei concetti tradizionali di conservazione, di tutela, di valorizzazione. Al centro di un possibile dibattito che l’esito procedurale di questa candidatura è in grado di innescare vi è innanzitutto il significato di “periferia urbano-industriale”. Non una generica banlieue, da contrapporre all’immagine oramai consumata di “centro storico”, seppure nella versione aggiornata di “città storica”, ma uno spazio urbano più o meno esteso, fisicamente e socialmente delimitato; uno spazio in cui si sono inscritte - con segni fisici oramai identificati, sebbene culturalmente ancora poco legittimati - razionalità creatrici, domini di controllo territoriale e diverse forme di identità; nel quale, contrariamente a quanto si è molto dissertato sull’argomento, è necessario riconoscere la centralità materiale e immateriale della fabbrica extra-moenia1: l’industria (e soprattutto la “Grande Industria”) che per ragioni di varia natura (igieniche, sociali, politiche, tecnologiche, finanziarie) ha delocalizzato produzione e lavoro in una porzione di territorio ritenuta conveniente, interagendo con l’ambiente e il contesto socioantropologico locale, ma spesso anche facendo prevaricare logiche e interessi nazionali o addirittura sovranazionali. Per lo storico, la periferia urbano-industriale è uno spazio che chiede di essere misurato nella sua interezza, studiato nelle sue molteplici complessità, restituito come «paesaggio evolutivo»2 che ha già conosciuto bonifiche, risanamenti, stratificazioni e riusi. La restituzione, in base ad una motivata selezione critica e funzionale, e soprattutto la trasmissione polisemica di un “pezzo” significativo di questo paesaggio all’intero mondo3 - che 1 Si riprendono in questa sede, pur nei limiti dello spazio a disposizione, alcune riflessioni contenute nella relazione (La fabbrica extra-moenia: per una storia della periferia urbanoindustriale in Italia) presentata in occasione del convegno nazionale “L’archeologia industriale in Italia 1978-2008” svoltosi a Termoli il 5-6 dicembre 2008, i cui atti sono in corso di pubblicazione a cura di scrive. 2 Sul concetto di «paesaggio culturale evolutivo» si veda M. Preite, Du Paysage industriel au Paysage culturel évolutif, in «Patrimoine de l’industrie. Ressource, pratiques, cultures»», n. 19, 2008, pp. 53-59. 3 Significato in tal senso è lo slogan Dalla crisi di megacity progressivamente sta perdendo la sua centralità occidentale - pone questioni che non possono essere solo contingenti e non appartengono solo allo storico, ma alla società e alla sua futura sopravvivenza. La periferia urbano-industriale come parte integrante della città storica Dai primi esperimenti di depauperizzazione alle strategie panottiche di segregazione, dal decentramento dei servizi pubblici e dalla concentrazione preordinata delle arti insalubri e dei quartieri operai fino all’allocazione della Grande Industria e dei quartieri economici e popolari secondo le disaggreganti teorie dello zoning, la periferia urbana è stata oggetto per secoli di una moltitudine di studi storici e di indagini geografiche, antropologiche e socioeconomiche. Eppure, tra neocontrattualismo e nuove ipotesi di partecipazione sociale, le periferie urbane sono ancora oggi al centro del dibattito internazionale sul ridisegno della città contemporanea e il fenomeno della dismissione industriale e del conseguente disagio occupazionale è uno dei temi principali intorno al quale, oramai da decenni, storici, teorici ed operatori continuano ad interrogarsi per individuare percorsi storiografici alternativi, per tracciare nuove diagnosi urbanistiche e per riformulare adeguate terapie d’intervento. In tal senso, basta richiamare l’attenzione su quel fenomeno che ha coinvolto, tra ottobre e dicembre 2005, con un’ondata di sommosse popolari circa cento città francesi e che è stato stigmatizzato, con intenti efficacemente mediatici, come la «rivolta delle banlieues», per comprendere, nonostante la vasta pubblicistica prodotta sull’argomento4, quanto il concetto di periferia continui a resistere ad ogni tentativo di pervenire ad una qualsiasi tassonomia. Echi di quell’acceso dibattito risuonarono con enfasi nel 2006 in un’editoriale di Domus, dove la periferia viene descritta come un generico «fantasma» chiamato «anti-città», nel tentativo di opporre all’idea consolidata di «un territorio riconoscibile misurando con un righello la distanza dal centro antico delle nostre città», quella cosmopolita di un «arcipelago», inteso come insieme di elementi mobili («il degrado, la povertà, l’assenza di servizi») che «arrivano ovunque: negli e degli ecosistemi verso eco-metropoli e l’era post-consumista che sintetizza il documento finale redatto dall’UIA (International Union of Architects) nel giugno 2008 a Torino. Si veda in particolare J. Rikwert, Riflessioni su Trasmettere l’architettura, in «L’Architetto», notiziario dell’Ordine nazionale degli architetti, n. 3, giugno 2008, p. 3. 4 Si veda, ad esempio, H. Lagrange, M. Oberti, a cura di, La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese, Mondadori, Milano 2006; U. Melotti, a cura di, Le Banlieues. Immigrazione e conflitti urbani in Europa, Meltemi, Roma 2007. 23 edifici sfitti del centro, nei parchi, nelle fabbriche dismesse»5 e che accomunerebbero le periferie delle città-fabbrica europee alle più generiche favelas degli aggregati urbani extra-occidentali. Si tratta, in effetti, di una restituzione critica che non appare molto diversa dalla logica interpretativa attraverso la quale geografi e urbanisti, sociologi ed economisti, con riferimento all’Europa meridionale e all’Italia in particolare, hanno inteso leggere il fenomeno della cosiddetta «esplosione» della città tradizionale (o «concentrata») e in generale di profonda mutazione morfologica della stessa «città diffusa» come un processo di «metropolizzazione del territorio»6. Tuttavia, a parte l’identificazione forzata del concetto di periferia con quello di spazio caratterizzato prevalentemente da “carenze”, ciò che non convince in tale impostazione interpretativa è la resistenza a riconoscere nella rinnovata spinta alla crescita urbana che caratterizza da qualche decennio molte città e paesaggi dell’Italia contemporanea, l’esito conclusivo di un processo di più lungo periodo, basato su un modello ormai in stato di profonda consunzione, e non più, come in passato, un fenomeno di sviluppo socio-politico e produttivo. Laddove, invece, il vero elemento di novità sta nella imprescindibile condizione fisica e culturale di un ambiente totalmente antropizzato, che non consente più di leggere, nelle pratiche d’uso o d’abuso del territorio, qualcosa di diverso da un drammatico processo di saturazione progressiva dello spazio vitale e quindi di eludere criticamente la constatazione che ogni atto di trasformazione territoriale sia riconducibile, anche inconsapevolmente, al principio del «costruire nel costruito». Se negli anni settanta e ottanta del Novecento, nelle società di antica industrializzazione, era il graduale rallentamento della crescita urbana a legittimare la necessità di «considerare la città costruita nel passato - tradizionale o moderna, buona o cattiva - come oggetto definitivo, che sarà necessariamente l’ambiente di vita del prossimo futuro»7, oggi si registra invece una più profonda consapevolezza nel considerare sostenibile culturalmente l’indissolubilità tra il concetto di Monumento (nell’accezione più aggiornata di Patrimonio Culturale) ed il concetto di Ambiente e dunque l’opportunità di perseguire una prassi operativa sempre più fondata sul recupero delle 24 5 S. Boeri, Anti-città: un nuovo fantasma si aggira per l’Europa, editoriale in «Domus», n. 894, 2006. 6 F. Indovina, Periferie 1. Organismo in devoluzione, in «Equilibri», n. 2, 2006, pp. 341-353. 7 L. Benevolo, L’ultimo capitolo dell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 165; sull’argomento cfr. pure, in particolare, P.L. Cervellati, La città post-industriale, Bologna 1984 e M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Torino 1986, pp. 183 e segg. preesistenze (comprese le aree agricole o rurali residue) e sul “nuovo” inteso come modificazione non distruttiva del paesaggio globale, neanche dei frammenti, delle discontinuità, dei vuoti che il racconto (storico, architettonico, urbanistico o geografico) può far emergere. Il rapporto tra il Patrimonio e l’Abitare – per parafrasare il titolo di un recente momento d riflessione sull’argomento8 – sta diventando in definitiva sempre meno antinomico, poiché sempre più evidente appare il rischio di sublimare preoccupanti “vuoti” di memoria, ora che il ridisegno di PostdamerPlatz sembra aver ricucito quell’apparente continuità tra i retaggi presessantottini e le nuove filosofie liberali9, in un omologante supporto ideologico alla costruzione seriale di grandi Esposizioni Internazionali del Nulla10. Periferie in prospettiva Più che un sistema articolato di aree, di infrastrutture e di singoli manufatti architettonici, la porzione urbano-industriale di Sesto San Giovanni candidata a far parte del patrimonio dell’Umanità selezionato dall’Unesco11 è da considerarsi innanzitutto come un insieme ambientale. In tal senso, l’eccezionalità di tale sito, piuttosto che la sua scontata unicità, sta a nostro avviso nelle opportunità che esso è in grado potenzialmente di offrire per trasmettere in una prospettiva universale la storia particolare di una città industriale dell’Occidente europeo. Non la trasmissione dell’immagine evocativa di un determinato modello urbanistico di sviluppo economico o socio-politico, quali per lungo tempo sono stati considerati ad esempio Manchester e Stalingrado; quanto, piuttosto, la restituzione critica e culturalmente integrale di una delle tante modalità secondo cui si è declinata la storia industriale del nostro 8 C. Andriani, a cura di, Il Patrimonio e l’abitare, Donzelli, Roma 2010. 9 R. Parisi, Obelischi fumanti, in «Meridione. Sud e Nord nel Mondo», n. 1, 2001, pp. 72-94. 10 Pur con riferimento all’Expo 2015 e al dibattito sul destino delle aree industriali dismesse milanesi, il richiamo è alle riflessioni di Manfredo Tafuri (Le avventure dell’avanguardia: dal cabaret alla Metropoli, in Id., La sfera e il Labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, Einaudi, Torino 1980, p. 136) sul «carattere metafisico» del Padiglione realizzato da Ludwig Mies van der Rohe a Barcellona nel 1929, «in quanto luogo di esposizione del nulla, […] colto acutamente nell’articolo di N[icolau] M[aria] Rubio Tuduri, Le Pavillion d’Allemagne à l’Exposition de Barcelone par Mies van der Rohe, in “Cahiers d’Art”, 1929, vol. IV, pp. 408-11». 11 F. Ottolenghi, Le patrimoine industriel de Sesto San Giovanni. Expériences et projets de réutilisation et réaménagement pour la croissance culturelle et économique, in «Patrimoine de l’Industrie/Industrial Patrimony», n. 22, 2009, pp. 14-23. paese12. Una storia di uomini e di comunità, di istituzioni e di regimi, come di imprenditori e di operai, di imprese e di sindacati, di corporativismo e di precariato, a partire però dalle testimonianze materiali. Una storia che non racconti solo le conquiste - di una strategia imprenditoriale, di un brevetto industriale, come di un riscatto sociale - ma anche i fallimenti e le crisi, i conflitti, le negoziazioni, le contaminazioni, i sogni e le utopie. Tuttavia, anche in questa prospettiva, un progetto storiografico, che non si riduca ad una mera pratica di legittimazione architettonica e urbanistica di “pieni” e di “vuoti”, necessita di un approccio quanto più possibile archeologico all’ambiente costruito. Un approccio che sopperisca alla decontestualizzazione, spesso necessaria, di una macchina in un museo, come di un capannone in un parco, rendendo la selezione di ogni presunto reperto materiale (dalle strutture di un contenitore edilizio al tracciato di un impianto di smaltimento), indipendentemente dall’intenzione di conservarlo o di distruggerlo, un processo decisionale trasparente e, dunque, trasformando il riuso del patrimonio industriale in un percorso di conoscenza e di democratica scelta politicoculturale. La periferia urbano-industriale di una città come Sesto San Giovanni potrebbe in tal senso diventare un laboratorio sperimentale a cielo aperto per la formazione e la specializzazione professionale, un cantiere permanente di valori, prima ancora che una fabbrica di idee; un cantiere nel quale una parte significativa della società contemporanea possa riconoscersi, legittimando consapevolmente principi e ideali del proprio presente, ma possa anche prenderne le distanze, modificandoli o rinnovandoli del tutto. Roberto Parisi Università degli Studi del Molise – Vicepresidente AIPAI 12 Per un quadro di riferimento sugli studi di storia urbana che hanno affrontato in una prospettiva storico-critica il tema delle periferie urbano-industriali si veda G. Favero, Le periferie urbane tra Ottocento e Novecento: un panorama europeo, «Società e storia», n. 112, 2006, pp. 253-265; S. Adorno, S. Neri Serneri, a cura di, Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, Il Mulino, Bologna 2009. Per un caso-studio utile ad una comparazione critica con quello di Sesto San Giovanni e di altre esperienze italiane si veda R. Parisi, Dalla terra alla fabbrica. Pomigliano d’Arco 1939-2009: genesi, sviluppo e recupero di uno spazio urbano-industriale, in «Patrimonio Industriale», n. 6, 2010, pp. 44-54. Davanti alla fabbrica. Patrimonio industriale come insieme di permanenze Il racconto della città industriale, come è stata percepita e quotidianamente vissuta dagli abitanti, costituisce una fondamentale chiave di lettura per la comprensione del presente. Microstorie e ricordi dei singoli ricompongono il quadro della memoria collettiva, nel senso dato al termine da Maurice Halbwachs1. Ad un tempo, essi rendono palpabile la distanza che separa “la città delle fabbriche” dalla realtà odierna, tuttora in trasformazione, e che diversifica l’esperienze delle vecchie e delle nuove generazioni. Gli abitanti più anziani di Sesto San Giovanni rievocano un’esistenza scandita dai ritmi e dai cicli della produzione, quando la “vita operaia impregnava la città”2: nel racconto di molti torna il suono delle sirene, che segnava l’inizio dei diversi turni, intorno ai quali, fin dalle prime ore del mattino, si organizzava anche il lavoro esterno all’industria, nei negozi, nei bar. Essi descrivono con precisione e senso di appartenenza la topografia e il paesaggio di quella che oggi si definisce la Sesto Vecchia, dove “c’erano soprattutto le fabbriche, gli stabilimenti della Falck, della Ercole Marelli e della Magneti Marelli, dell’Osva e di moltissime altre ditte [dove] il nome di alcune strade sapeva di operai, di lavoro, come via Laminatoio, […] le linee e i volumi delle costruzioni industriali, qualcosa di fantastico, erano imponenti, strane, e i tetti a sega erano distribuiti ovunque, e c’erano le ciminiere, con un pennacchio in testa che decorava il paesaggio e impestava sempre l’aria di fumi e odoracci […]. Oltre alle ditte dai nomi prestigiosi, dalla mole imponente, dall’area vastissima, che chiamavamo fabbriche - dicono - ce n’erano poi di più piccole, inserite nel contesto urbano; si riconoscevano per i loro muri grigi, i finestroni, i tetti a sega dei capannoni che rimandavano subito alla presenza di un’industria […]”. La fabbrica era parte essenziale del paesaggio familiare che intesseva opifici, case, strade, edifici ad uso collettivo: “Dalle finestre di casa nostra, una costruzione a due piani, alta a quei tempi rispetto alla maggior parte delle altre, potevamo vedere (finché le costruzioni più alte non ne hanno coperta la vista) i bagliori che si innalzavano verso il cielo dalle colate degli altiforni”3. 1 M. Halbwachs, Le cadres sociaux de la mémoire, Alcan, Paris, 1925, trad. it. Napoli- Los Angeles, Ipermedium 1997. 2 (testimonianza di Renzo Baricelli resa a Elisa Gesu, classe 3ª D, liceo classico-scientifico “Giulio Casiraghi”, Parco Nord di Sesto San Giovanni - premio borsa di studio, www.sestosg. net/sportelli/sestounesco). 3 Testimonianza di Rossana Turolla resa a Riccardo Robecchi, classe 2ª G, liceo classico-scientifico “Giulio Casiraghi”. 25 sportivi, luoghi di svago e di cultura. Racchiuse da alti muri di cinta, le grandi fabbriche, costituivano altrettante enclaves autosufficienti. “Davanti alla fabbrica” è un verso della colonna sonora di “Romanzo popolare” (1974), un film che ha avuto grande notorietà, ambientato a Sesto5, e Vincenzina, la protagonista che attende davanti ai cancelli e “vuol bene alla fabbrica”, è il simbolo della speranza e dell’emancipazione che ha spinto tanti lavoratori ad emigrare nel Nord industrializzato. Mitologia positiva e negativa della fabbrica si fondono nel testo della canzone: la sicurezza del lavoro e dei suoi benefici, il riscatto dal lavoro duro dei campi e dalla miseria, e, insieme la fatica alienante della catena di montaggio, le condizioni dell’ambiente fortemente alterate, dentro e fuori dalle fabbriche, dalle emissioni degli impianti siderurgici, dai fumi e dalle polveri. E negli anni ‘70 ha inizio per Sesto la crisi produttiva che costringerà alla chiusure le maggiori imprese. Anche la stagione dell’industria siderurgica è al tramonto, e nel 1996 le “grandiose” acciaierie Falck - ultima tra le maggiori fabbriche sestesi - spengono i forni e arrestano definitivamente la produzione. Sesto San Giovanni, operai all’uscita dai turni, foto. La storia della Sesto industriale ha inizio e si chiude nell’arco del XX secolo. Ai primi del Novecento, il suo territorio, attraversato dalla ferrovia, che dopo l’apertura del traforo del Gottardo la collegava all’Europa e dalle linee tramviarie per Milano, raggiunto dalla fornitura di energia elettrica della centrale di Cassano D’Adda, aveva attratto diverse imprese, che avevano spostato le officine dal capoluogo e avevano esteso rapidamente i loro impianti: “La città sorge a mezza strada tra Monza e Milano, alla quale è legata da ferrovie, tranvie e carrozzabili. Da 4189 abitanti nel 1861, il comune è passato a 6952 abitanti nel 1901, a 11.592 abitanti nel 1911, a 18.274 nel 1921. Aveva 26.239 abitanti nel 1931, dei quali ¾ occupati nell’industria e nei vari commerci […] le industrie, attività principale della popolazione, a cui Sesto deve il suo rapido sviluppo moderno, contano stabilimenti tra i più grandiosi e moderni del regno”4, si legge nelle pagine dell’Enciclopedia Italiana a metà degli anni ’30. Nel 1951 gli addetti all’industria, 45.000, erano più numerosi degli abitanti; nel 1978 la popolazione si era accresciuta fino a 99.000 unità. Intorno ai luoghi della produzione si addensavano i villaggi operai, poi i quartieri popolari, le strutture di servizio realizzate sotto il patronato dei grandi industriali, scuole, impianti 26 4 (Sesto San Giovanni, Enciclopedia Italiana, v. XXXI, 1936, ad vocem). Importanti fondi archivistici per la storia economica e dell’industria, sono conservati presso la Fondazione ISEC di Sesto San Giovanni (www.fondazioneisec.it). In altri luoghi d’Europa - si pensi all’industrializzazione forzata dei paesi comunisti sotto influenza sovietica6 - le fasi dello sviluppo, della stagnazione, del declino, dell’obsolescenza si sono succedute con ancora maggiore rapidità, consumandosi nell’arco di due o tre decenni, e se l’urbanizzazione massiva aveva mutato violentemente il territorio, l’abbandono ne ha fatto poi il desolato deposito di gigantesche rovine. I luoghi della produzione sono diventati in poco tempo “aree dismesse”, un problema economico e sociale e un tema urbanistico particolarmente rilevanti, oltre che il luogo di possibili scenari tra loro molto diversi. A Sesto San Giovanni, la dimensione degli stabilimenti, un tempo vanto della città, ha reso problematica e complessa la gestione delle aree dismesse7. Quello che pochi anni prima era stato un grande patrimonio privato, si è tramutato, nella percezione comune, in una distesa ingombra di capannoni, serbatoi, forni e ciminiere, ormai del tutto inutilizzati. 5 La canzone nel film di M. Monicelli è di E. Jannacci; molte scene sono state girate nel caseggiato popolare Nuova Torretta in via Antonio Maffi. La Torretta, una delle grandi ville della nobiltà milanese, è oggi un hotel a cinque stelle). 6 B. Groys (ed.) Dream Factory Communism. The visual of the Stalin Period, Schirn, Frankfurt a. M., 2004. 7 Esse “rappresentano un potenziale danno territoriale, sociale ed economico e possono costituire un pericolo per la salute, per la sicurezza urbana e sociale e per il contesto ambientale e urbanistico” ; “La conoscenza e la valorizzazione delle aree dismesse permettono di ridurre al minimo il consumo di nuovo territorio, come previsto da uno dei principi fondamentali del Piano Territoriale Regionale” ( www. territorio.regione.lombardia.it). Le grandi quantità, tre milioni di metri quadri di superficie, equivalenti a ¼ del territorio comunale, hanno amplificato e moltiplicato le difficoltà e i costi della possibile riconversione. Uscite dall’attenzione e dalla vita della città, le aree ex industriali sono diventate “aree di scarto”. L’assenza di manutenzione gioca un suo ruolo nell’accelerare il deterioramento dei fabbricati, in particolare di quelli costruiti in acciaio e in calcestruzzo armato, più rapidamente aggrediti dal processo di corrosione, grandi “macchine arrugginite” che diventano esse stesse “oggetti di scarto”. L’opera di sottrazione, violenta e distruttrice, risponde a questo tipo di percezione oltre che a una condizione obiettivamente complessa. A proposito della “contrazione” di Detroit, città dell’industria automobilistica in gravissima crisi, Federico Rampini, inviato de “la Repubblica”, scriveva che mai era stato possibile immaginare una “operazione a cuore aperto” così dolorosa8. 8 F. Rampini, Nella metropoli “ristretta” dalla crisi, “la Repubblica”, 5 luglio 2010. Bliss, laminatoio a freddo, Falck Vittoria, 1959. lentamente riconfigurandosi, ove non tutti i vuoti sono diventati aree pubbliche o parti nuove del tessuto urbano. All’interno dei muri di recinzione delle fabbriche Falck, la solitudine dei padiglioni sopravvissuti alle demolizioni, dalle giaciture diventate incomprensibili, è diventata totale. Privi di macchinari, immersi in un silenzio irreale e nella vegetazione che riconquista gli spazi circostanti, i manufatti ai quali il processo di “isolamento” ha conferito dignità di rovine monumentali, appaiono sempre più lontani dalle residenze operaie, dalla città abitata. I grandi corpi superstiti dallo schema basilicale e dalle strutture in acciaio, scelti a simboleggiare la gloriosa industria e la città delle fabbriche, sono stati definiti “Cattedrali del lavoro”. Immagini e definizioni rimandano agli albori della moderna tutela, alla Francia postrivoluzionaria e di inizio Ottocento. La rivoluzione popolare e borghese aveva sottratto al clero i suoi beni: le chiese, le cattedrali, i complessi monastici che avevano strutturato il territorio in età medievale costituendo per secoli un suo grande presidio. Diventati patrimonio dello stato, essi rappresentavano una grande questione pubblica e in pochi anni, in tutto il territorio nazionale, essi furono oggetto di inventariazione. Censimento e catalogazione consentivano di stabilire ubicazione, dimensioni, rilevanza, condizioni, di segnalare gli edifici in pericolo e quelli ai quali destinare i maggiori finanziamenti. Archeologi e letterati, funzionari ministeriali e architetti del neonato servizio di tutela parteciparono a questa vasta operazione di rilevamento e di conoscenza, contribuendo alla divulgazione di un patrimonio secolare quanto misconosciuto, di età romanica, gotica, trasformato nel tempo. Ricostruita la mappa e le condizioni degli edifici, lo stato centrale - e per esso le figure di maggior rilievo nella cultura e nella vita civile del paese -, decideva del destino di quelli che erano divenuti monumenti storici della nazione, avendo cura sia degli edifici lasciati allo stato di rudere, sia di quelli destinati all’uso collettivo, ai quali restituire attraverso il restauro “uno stato che poteva non essere mai esistito a un momento dato”, secondo La riduzione della superficie coperta riduce i costi della gestione; la demolizione libera il suolo dagli “ingombri” e lo rende nuovamente disponibile, per grandi spazi coltivati a verde in qualche caso, o per redditizie operazioni speculative in molti altri. Inoltre, ancora una volta la demolizione diviene lo strumento di “valorizzazione” di edifici giudicati di maggior significato e impatto formale, edifici che forse non è stato possibile cancellare dal contesto reale, come dai paesaggi del ricordo. A Sesto San Giovanni la fase della deindustrializzazione ha dato luogo negli ultimi decenni a un paesaggio temporaneo che va 27 Bliss, settembre 2010. la celeberrima definizione di Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc9. Liberate dai presunti “scarti”, anche per le cattedrali del lavoro di Sesto, resti precari di un passato ancora molto vicino, dovrebbe essere immaginato, nella città post-industriale, un nuovo destino. 9 Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle (1854-1868), Restauration, VIII; più in generale, cfr. P. Léon, La vie des Monuments Français. Destruction, Restauration, Picard, Paris, 1951. Il padiglione T3, settembre 2010. I visionari disegni della Cité industrielle di Tony Garnier, da costruire in cemento e acciaio oltre la città consolidata, hanno segnato nella storia urbana l’inizio del Secolo Breve; e soltanto pochi decenni separano la celebrazione dell’architettura industriale e dei suoi tipi costruttivi - proposti negli anni ’20 come quintessenza della modernità e grande prova dell’ingegneria al servizio del rinnovamento formale e costruttivo dell’architettura -, dal lavoro di riconoscimento e inventario che l’Industrial Archaeology, una locuzione nata alla metà degli anni ‘5010, estendeva a tutti i manufatti, alle infrastrutture, alle vie di comunicazione, alle residenze operarie. A sua volta, l’architettura dell’Exprit Nouveau immaginata da Le Corbusier aveva mutuato il suo linguaggio dalle forme semplici, dai volumi essenziali dei fabbricati industriali, costruzioni funzionanti come macchine, che affascinavano allo stesso modo gli architetti e la critica militante. Oggi, quando l’industria gioca un ruolo sempre meno rilevante nel contribuire alla ricchezza di molti paesi dell’Occidente, la stessa archeologia industriale diviene “archeologia del paradosso, segnata dalla consapevolezza che il passato va creandosi attorno a noi giorno per giorno”, come ha scritto Neil Cossons, già direttore del museo open-air di Coalbrookdale, e Chairman dell’English Heritage. In questo presente dal paesaggio mutevole, una parte del patrimonio ex 28 10 A. Negri, M. Negri, L’archeologia industriale, D’Anna ed., Messina-Firenze, 1978, p. 7. industriale di Sesto San Giovanni attende di essere riconnesso al patrimonio residenziale, restituito alla città e al territorio. “A segnare il nostro rapporto con il territorio è una cifra profonda, quella della perdita”, ha scritto di recente Nicola Emery. La geografia dei vuoti, nel tempo della dismissione e distruzione, è anche, nella memoria collettiva, topografia dell’assenza, segnata dalle ferite e dal dolore. Per superare la rimozione del trauma, in senso freudiano, occorrerebbe allora assumere ed elaborare il lutto: in tal senso, al progetto si richiede di trasformarsi profondamente. Più che risolversi in un’operazione bellica, o di tipo chirurgico, perfettamente inserita nel ciclo sempre più breve della costruzione-distruzione, parte di un’incessante cantiere, al progetto si richiede la capacità di conferire una nuova dimensione d’uso e di vita agli spazi e ad agli oggetti già dati, che esistevano ‘da prima’, dei quali imparare ad esplorare fino in fondo la dimensione di risorsa. La tabula rasa è una forma di delirio di onnipotenza che consente la prosecuzione ininterrotta del ciclo del consumo, ma potrebbe essere superata passando alla condizione ermeneutica di riconoscimento profondo delle permanenze, di rapporto fecondo con esse11. Davanti alla fabbrica, è dunque porsi di fronte a un mondo che ci è giunto dal passato, denso dei suoi tanti significati, per riconnetterlo al tempo presente e trasmetterlo al futuro; è tornare ad interrogare le permanenze e analizzarne il mutamento, è interrogarsi sugli strumenti del progetto, e proporre metodi di conoscenza articolati e interconnessi, utili a delineare strategie di intervento non banali. A partire dal ridisegno dei vuoti, il progetto può contribuire alla ricostruzione di un rapporto bruscamente e violentemente interrotto inserendo con sapienza nuove presenze in grado di restituire senso e forma al sistema delle permanenze. Il mantenimento e la cura dei simboli prescelti a rappresentare l’identità mutata della città industriale costituiscono in tal senso un passaggio ineludibile per gestire un’eredità complessa, dal momento che intorno alla loro permanenza può riaddensarsi la memoria del recente passato. Il progetto deve interrogarsi allora sul modo per leggere, rappresentare, rendere note e chiare al pubblico della città le dimensioni molteplici di un’eredità che è allo stesso tempo materiale e immateriale; deve prospettare e articolare le procedure e le operazioni di ispezione in sito e di analisi specialistiche utili a “misurare” le condizione di degrado delle strutture 11 N. Emery, Lutto e trasformazione. Sul senso del progetto nell’epoca della distruzione, in corso di pubblicazione (Abstract della lezione tenuta il 15 marzo 2011 al Politecnico di Milano, nel Corso interdottorati, “Construction and History of Cities and Landscapes: Transformation, Permanence, Memory”, a cura di C. Di Biase, I. Valente, D. Vitale). e dei materiali, per garantirne la durabilità, per compiere le scelte di intervento più adeguate, per programmare il loro mantenimento nel tempo. La candidatura UNESCO presuppone una strategia di tutela delle permanenze, piuttosto che di parziale rifacimento. Ma se la scelta non fosse quella di lasciare i manufatti allo stato di rudere, le strategie di riuso non possono che estendere il processo decisionale alla scala urbana e territoriale. Progetti d’uso diversificati, definiti in ragione delle caratteristiche degli spazi e dei volumi, dei vecchi sistemi di comunicazione e di trasporto di persone e di prodotti, della prossimità ai quartieri residenziali e delle opportunità di inserivi funzioni a carattere collettivo che ne migliorino le condizioni: attività commerciali, di produzione di beni materiali, o, viceversa, officine della cultura, luoghi di esposizioni, “fabbriche di eventi” di richiamo intercomunale. L’eredità immateriale, a sua volta, non dovrebbe essere affidata soltanto ad archivi lontani dai grandi contenitori delle fabbriche, dovrebbe appartenere, come altrettante stanze della memoria, alle grandi strutture. Non tutto può diventare museo, come ricorda Eugenio Battisti nei suoi scritti dedicati all’archeologia industriale “Per lo più abbiamo a che fare con dei contenitori svuotati, spesso spettacolosi, bellissimi. Demolirli perché non si sa quale funzione attribuirgli sarebbe uno spreco. Gran parte di questi edifici non hanno divisori all’interno quindi sono per definizione moderni e del resto le funzioni degli edifici cambiano spesso nel tempo. Certo, l’ideale sta nel trovare destinazioni che rispettino lo spirito originario. Ma quello che a me fa paura è il falso restauro, non l’idea di mettere l’architettura contemporanea dentro quella moderna”12. Eppure oggi la parola museo potrebbe finalmente riassumere il significato di luogo della conoscenza, della cultura, anche della cultura costruttiva, delle tecniche, dei materiali, dei modi di produzione: il padiglione “Bliss” della Falck, interamente assemblato dal personale dell’impresa - come ancora qualcuno ricorda con orgoglio -, è stato realizzato negli anni ’50, fin nelle forme di decoro, con i profili e le lamine d’acciaio lavorati nelle officine padronali, è documento del tipo di produzione e del lavoro degli operai e delle maestranze, è parte della storia materiale dell’industria siderurgica ed è un patrimonio che si connette alle memorie vive di chi ha atteso davanti alla fabbrica, di chi ha lavorato al riparo dei capannoni. Carolina Di Biase Politecnico di Milano 12 E. Battisti, Un problema storico permanente, in A. Castellano (a cura di), La macchina arrugginita. Materiali per un’archeologia dell’industria, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 174229; Archeologia industriale. Architettura, lavoro, tecnologia, economia e la vera rivoluzione industriale, (a cura di F.M. Battisti), Jaca Book, Milano, 2001; la citazione nel testo è in Un patrimonio da salvare, Intervista con Eugenio Battisti, 1983 (http://digilander.liber.it/battistifm/patrimonio.htm). Made in MAGE, la scommessa del riuso temporaneo per attivare microeconomie e il patrimonio industriale di Sesto San Giovanni Che cos’è il riuso temporaneo? Cosa significa riuso temporaneo? Spazi e terreni vuoti che non trovano ancora un nuovo utilizzo possono trovare un uso temporaneo (uso ad interim)1 in quel “tempo di mezzo” di anni, e spesso decenni, che intercorre tra vecchia e nuova destinazione d’uso. Le cause del ritardo nella riqualificazione degli spazi in abbandono sono molteplici, spesso dovuti ai costi elevati di riqualificazione e bonifica ambientale, alle opposizioni politiche e alle proteste locali per progetti decontestualizzati, o alla lentezza nell’approvazione di piani e progetti di recupero, o ancora allo scarso interesse economico di alcune aree. Dove le forme più tradizionali di pianificazione e progettazione hanno fallito o non sono riuscite ad assorbire pienamente il potenziale di queste aree, spesso usi spontanei di colonizzazione e riuso temporaneo hanno dato spazio a nuove pratiche abitative, lavorative e per il tempo libero, innescando processi di rigenerazione urbana imprevisti e talvolta progetti architettonici innovativi. Come avviare una ricerca-azione2 analizzando alcuni casi studio stranieri3 e confrontandoli con la propria realtà urbana? Abbiamo provato a definire una griglia di lettura ed individuato cinque elementi comuni d’indagine: la tassonomia di spazi urbani dismessi o sottoutilizzati, gli attori che fruiscono, avviano o si relazionano a progetti di riuso temporaneo, i diversi cicli temporali abitativi, lavorativi o ludici che in questi spazi si possono attivare, i tre macrolivelli di nuova infrastrutturazione e interventi 1 “Constituting the Interim”, la costituzione dell’interim (stato e tempo di mezzo) è una ricerca di STEALTH.unlimited (Ana Dzokic, Marc Neelen) and Iris de Kievith, avviata per offrire una cornice, delle regole condivise e degli strumenti per attori che avviano progetti di riuso temporaneo e prefigurano scenari di trasformazione urbana. La pubblicazione della ricerca è in corso ed è stata avviata su invito di Optrek/laboratorium van de tussentijd, 2010. 2 Dal 2008 le ass. cantieri isola, precare.it e alcuni ricercatori e studenti del laboratorio multiplicity.lab del DiAP, Politecnico di Milano, hanno avviato riflessioni, workshop e progetti pilota che individuano i livelli di intervento architettonico per avviare progetti di riuso temporaneo. Parte di questa ricerca è pubblicata in “TEMPORIUSO. APPLICABILITÀ DI PROGETTI EUROPEI DI RIUSO TEMPORANEO DI SPAZI IN ABBANDONO A MILANO, DIFFUSIONE DI ESPERIENZE PILOTA” a cura di I. Inti , V. Inguaggiato, sul sito www.temporiuso.org. 3 Dal 2001 al 2003 la ricerca internazionale e interdisciplinare “Urban catalyst”, diretta da Philipp Oswalt, Klaus Overmeyer e Philipp Misselwitz dell’Università TU Berlin, ha esaminato le strategie per gli usi temporanei in cinque metropoli europee, Berlino, Amsterdam, Napoli, Vienna e Helsinki. 29 architettonici commisurati al tipo e alla durata del riuso temporaneo degli spazi, ed infine le regole, le procedure e le garanzie giuridiche che hanno permesso l’avvio di progetti sperimentali di riuso temporaneo. L’auspicio di questa ricerca e di primi progetti pilota è che le pratiche di riuso temporaneo possano finalmente entrare a far parte dell’agenda e previsioni delle politiche pubbliche di molti Comuni italiani, valutando di volta in volta il modello gestionale adeguato al contesto locale. Amsterdam, riuso temporaneo come incubatore della creatività (broedplaatsen) Amsterdam è stata nel periodo d’oro (16001700) una delle città portuali più ricche al mondo, grazie al monopolio nei trasporti navali del VOC (Verenigde Oost-Indische Compagnie = Compagnia dell’Unione delle Indie Orientali). Il porto era il centro del commercio, ma negli anni ’60 le attività e le compagnie di trasporto si spostarono dall’area a nord e nord-est del centro città all’area nord-ovest, meglio connessa con la rete fluviale e il mare. Inoltre negli anni ’80 il cambio modale dello stoccaggio e trasporto prodotti, da misto su nave a monoprodotto in container, diede il colpo di grazia alle attività del porto centrale, e molti depositi, magazzini, hangar iniziarono un progressivo declino. Negli anni ’90 la pubblica amministrazione decise di cambiare destinazione d’uso a molte isole, moli, darsene che divennero oggetto di piani urbanistici di riconversione o demolizione e nuova edificazione abitativa (es. KNSM con piano dell’arch. Jo Conen e Borneo-Sporenburg con piano degli architetti del paesaggio West8). Questi interventi avviarono anche un processo di gentrificazione di attività artigianali e artistiche a favore di una nuova classe medio-alta di abitanti. Migliaia di metri quadrati di aree, banchine, darsene, capannoni, depositi sono ancor oggi in dismissione e sono spazi liberi, occasione di progetto per artisti, associazioni, attivisti. Una di queste aree sulle sponde nord del porto è NDSM, una darsena e spazi aperti di 56.000 mq e degli ex capannoni di 20.000 mq. Un progetto di riuso temporaneo che grazie alle attività ed intraprendenza di un gruppo di associazioni ed artisti è divenuto motore di sviluppo di una vasta area portuale. 30 Ma facciamo un passo indietro, come è stato possibile conciliare per la pubblica amministrazione la regia delle trasformazioni urbane utilizzando sia strumenti tradizionali come il masterplan urbanistico che progetti di riuso temporaneo nelle aree in abbandono? Alla fine degli anni ’90 ad Amsterdam avvenne una massiccia e forzata espulsione da 12 centri culturali di circa 1.000 artisti, che persero così il loro studio. Molti cambiarono città e migrarono altrove. La città rischiava di perdere parte di quella classe creativa presente sulla scena artistica antagonista, ma anche figure di rilievo internazionale (direttori di gallerie, accademie d’arte, produttori di teatro e cinema). Iniziarono manifestazioni di rivendicazione di spazi in abbandono da parte di un gruppo di artisti, squatter e attivisti, che definirono con l’aiuto di studenti ed abitanti una mappatura degli spazi vuoti in città e nell’area nord del porto e una campagna stampa, che costrinse la pubblica amministrazione ad un confronto progettuale. Nel 1997 l’amministrazione comunale di Amsterdam bandisce un primo concorso pubblico di idee per concedere l’utilizzo temporaneo di un’ex area navale e delle rimesse collocati nell’area portuale a nord del fiume IJ. L’obiettivo è quello di insediare un nucleo di attori che possano rivitalizzare l’area per un futuro sviluppo immobiliare. L’associazione Kinetisch Noord di artisti, architetti, urbanisti e skaters locali, guidati dall’artista Eva De Klerk4, elabora un progetto di riuso e gestione temporanea di 5 anni, con possibilità di rinnovo per ulteriori 5. Questa visione diventa realtà nel 2003 quando si avvia una serie di interventi architettonici strutturali, di iniziative ed eventi culturali, grazie a finanziamenti pubblici. “ (…) the city-as-casco method: an alternative development model created in 1997 by occupants, corporations, advisors, architectures and artists. This is an approach whereby all concerned participate equally in its development processes. The focus is on the needs of the end users and of providing room for creativity and innovation”. Eva De Klerk - NDSM, Kinetish Noord Da quell’esperienza la pubblica amministrazione definisce linee politiche che giocano la creatività in termini di marketing urbano. Per favorire queste pratiche nasce nel 2000 il Bureau Broedplaatsen, un Ufficio per il riuso temporaneo come incubatore di creatività. L’ufficio-sportello pubblico, con un comitato di artisti e attivisti della passata scena antagonista, aggiorna una mappatura on-line di spazi vuoti comunali in attesa di trasformazione e disponibili come studi, atelier, laboratori, “fabbriche della creatività”, incontra e definisce i contratti in comodato sociale per creativi e fornisce accompagnamento e supporto finanziario ai progetti. Ad oggi l’ufficio ha avviato circa 40 progetti di riuso temporaneo creativo, tra i quali NDSM. Sesto San Giovanni, strategie della temporaneità e masterplan urbanistici a confronto Nell’ex Stalingrado d’Italia circa 1milione e 500mila mq di aree dismesse sono ancora in attesa di finanziamenti per bonifiche e 4 The city as a hull”/“La “città come guscio” è una teoria alternativa di pianificazione urbana e progettazione dal basso. Si fornisce uno scheletro, un guscio, dove è l’utilizzatore finale a decidere quali elementi costruire all’interno degli edifici, a gestirli e a finanziarli. In questo modo nasce una modalità di progettazione, uso e manutenzione degli edifici più flessibile. In B. Hogervorst, P. Buchel, “Het Kerend Tij / The Turning Tide”, Ed. De Appel, Amsterdam, 1997. riconversione definitiva. In attesa di realizzare progetti e programmi legati a prestigiosi concorsi internazionali, al nuovo masterplan Aree Falck firmato dall’arch. Renzo Piano e al PGT, l’amministrazione pubblica ha lanciato una scommessa ai promotori del riuso temporaneo ed organizzatori di eventi socio-culturali. Gli spazi di archeologia industriale del Carroponte sono stati affidati ad Arci Milano, che ha organizzato concerti musicali estivi e il PataPalla, happening legati ai mondiali di calcio 2010. Nell’ex portineria Breda, l’assessorato alla cultura, l’Agenzia di Sviluppo MilanoMetropoli e l’associazione culturale Cantieri Isola hanno avviato nel 2009 un bando per ospitare in comodato gratuito realtà della landart e architetti del paesaggio (vinto Ettore Favini e dagli architetti di Atelier delle Verdure), che in cambio promuovessero attività di aggregazione in un luogo in abbandono. Nelle vetrerie Vetrobalsamo, nell’ex Torre dei Modelli, e in alcune palazzine per uffici, sono stati organizzati nel novembre 2009 un workshop e seminario internazionale con studenti del DiAP, Politecnico di Milano e della NABA-Nuova Accademia di Belle Arti di Milano che hanno ripensato gli spazi in abbandono come “Cittadella per il riuso temporaneo”, con spazi hub e ostelli per giovani lavoratori. Dopo queste prime esperienze pilota, il Comune di Sesto San Giovanni ha accolto con favore la proposta del laboratorio multiplicity.lab, DiAP Politecnico di Milano, di riuso temporaneo degli ex Magazzini Generali Falck, quale “Made in Mage. attivazione di un polo per la produzione creativa e sostenibile per la valorizzazione del patrimonio industriale degli ex Magazzini Generali Falck”. La proposta è stata presentata a settembre 2010 nella sezione III ““Il patrimonio industriale, una risorsa strategica per lo sviluppo urbano” del Convegno Internazionale UNESCO. “(…) Per me è molto emozionante veder oggi i Magazzini Generali Falck trasformati in “Made in MAGE-incubatore della moda e design sostenibile”, anche perché ho visto questo spazio quando ancora era una fabbrica dove vi lavoravano circa 300 donne. Quindi questo progetto di riuso temporaneo di una struttura storica della città con una nuova funzione giovanile e lavorativa, penso sia per la nostra amministrazione straordinariamente importante (…) Come riattivazione temporanea durerà tre anni, naturalmente qui intorno sta nascendo il progetto delle Aree Falck per cui penso che in quel contesto, questo progetto troverà poi una sua collocazione definitiva” Giorgio Oldrini - Sindaco Sesto San Giovanni Il progetto è stato avviato a gennaio 2011 negli ex Magazzini Generali Falck (MAGE), grazie alla collaborazione del laboratorio multiplicity.lab del DiAP Politecnico di Milano, la consulenza delle associazoni cantieri isola ed esterni, della NABA e degli organizzatori di Fa’ la cosa giusta, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili. Made in MAGE è un progetto di riuso temporaneo, che promuove e sostiene le realtà artigianali e creative legate della moda e design sostenibile, incentivare il riuso di edifici e spazi Il MAGE visto dall’esterno, foto. 31 Made in MAGE, progetto di riuso temporaneo. vuoti o sottoutilizzati, coniugare nuove attività produttive con la valorizzazione del patrimonio di archeologia industriale sestese. Da gennaio 2011 a dicembre 2013 il Comune di Sesto San Giovanni mette a disposizione di 15 progetti selezionati da un “invito alla creatività”, uno spazio per atelier e laboratorio, al MAGE, in comodato gratuito e spese di gestione e start-up per 3 anni. Il progetto ideato e curato dal laboratorio multiplicity.lab, DiAP Politecnico di Milano (www. temporiuso.org), è gestito da ARCI Milano e vede il coinvolgimento di esperti nel campo del critical fashion, attività produttive sostenibili, eventi urbani, della cittadinanza attiva in stretta collaborazione con il Comune di Sesto. I vincitori del primo bando “Invito alla creatività Made in MAGE” che attualmente hanno un laboratorio sono Alìta, Artedì, Atelassè, Alice Cateni, Effemeridi, Nicoletta Fasani, Cooperativa Focus, INDIVIDUALS, GarbageLAB, GHOSTZIP, LAAFIA, Pendant, Tea_TIME, TIIS-teatrinscala. Investire in questi progetti, non vuol dire per una pubblica amministrazione abdicare a realizzare progetti e servizi definitivi, ma sperimentare pratiche, funzioni ed economie emergenti, che potrebbero poi attecchire e rigenerare spontaneamente parti di città in abbandono. “ In questi primi tre mesi ho spostato la mia produzione nel nuovo laboratorio Made in MAGE, avviato nuovi contatti e ho potuto assumere un nuovo dipendente grazie al fatto che non esiste affitto, ma solo spese di gestione. In cambio sono presente agli eventi aperti al pubblico di Sesto e Milano e mi sembra che lo scambio sia molto soddisfacente e vantaggioso!” Mauro Morosi – Ghostzip Bibliografia Bourdieu P. (1979), The Forms of Capital, in Richardson J. G. (a cura di). Breek P., de Graad F. (2001), Laat 1000 vrijplaatsen bloeien. Onderzoek naar vrijplaatsen in Amsterdam, ed. Vrije Ruimte, Amsterdam. Crosta P. L. (1990), La produzione sociale del piano, STUDI Urbani e Regionali, F. Angeli, Milano. Haydn F., Temel R. (2007), Temporary urban spaces, ed. Birkhauser. Inti I.(2005),Spazi Urbani Residuali e Azioni Temporanee, un’occasione per ridefinire i territori, gli attori e le Politiche urbane, dissertazione Dottorato in Pianificazione e Politiche PubblicheTerritoriali, IUAV. La Varra G., Peran M., Poli F., Zanfi F. (2008), Post-it city. Ciutats ocasionals, ed. CCCB,Barcellona. Multiplicity (2003), USE, Uncertain States of Europe, Ed. Skira. Multiplicity.lab (2007), Milano.Cronache dell’abitare, ed. Bruno Mondadori, Milano. Overmeyer K. (2007), Urban Pioneers , ed. Jovis verlag GmbH. Pagliaro P. (2010), Riuso temporaneo, spazi, tempi ed interventi per la rigenerazione urbana, tesi di laurea magistrale, Facoltà di Architettura e Società, Politecnico di Milano. Studio Urban Catalyst (2003), Urban Catalyst, strategies for temporary uses. Potential for development of urban residual areas in European metropolises, in www.urbancatalyst.net Isabella Inti Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Pianificazione Il MAGE visto dall’interno, foto. 32 Aree dismesse e riqualificazione urbana: il caso dell’Arsenale di Venezia L’Arsenale è un’area sostanzialmente dismessa, e dunque si colloca in una problematica che da 15 anni si è imposta con prepotenza non solo nel dibattito ma anche nell’operatività delle varie amministrazioni. Quello che per noi oggi qui sembra normale 15 anni fa non lo era e le aree dismesse non apparivano come una potenzialità urbanistica e economica, ma come un problema di difficile soluzione. Tuttavia questa problematica in Italia si è inserita in una tradizione culturale consolidata, fondata su due pilastri, di cui uno assolutamente fondamentale, mentre il secondo, pur significativo, è più marginale. Parlo della grande tradizione esistente in Italia sul recupero dei centri storici, prima frutto di un vasto dibattito culturale e poi confluito in una operatività che ha caratterizzato quasi tutte le città italiane. Il recupero di centri storici significa il recupero e la valorizzazione di aree in crisi, di aree degradate, di aree spesso dismesse: su questo l’Italia ha un’esperienza che costituisce probabilmente il maggiore contributo che la cultura urbanistica italiana ha dato alla cultura urbanistica europea ed internazionale. Dunque il tema delle aree dismesse va tenuto legato a quella che è la nostra grande tradizione di valorizzazione e di recupero urbano, ma anche di recupero sociale. Infatti la politica del recupero dei centri storici era una politica di “conservazione attiva”, vale a dire che non ci si poneva solo l’obiettivo del recupero dei manufatti e del tessuto storico, ma anche del mantenimento della complessità sociale e delle attività che trovavano sede all’interno di quel tessuto. L’altro precedente, più di nicchia, ma molto importante in Italia, riguarda tutta l’esperienza che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 sui temi dell’archeologia industriale. Anche questo è un anello di congiunzione: l’archeologia industriale parte dal valore del patrimonio che si vuole conservare e si lega al grande sistema del patrimonio storico, che connota in modo esteso il nostro Paese. Questi due filoni di riflessione e di azione hanno una radice profondamente culturale: è da esigenze di questo tipo che nasce l’elaborazione di nuove modalità di conservazione dei centri storici, fondata non sulla salvaguardia del singolo monumento considerato di valore, ma sulla consapevolezza che il centro storico è in sé un monumento unitario che va pianificato e conservato nel suo complesso. Da qui derivano, successivamente le ricadute sugli aspetti sociali, economici e così via. Il tema delle aree dismesse nasce invece da radici strutturali molto forti, originate dalla grande trasformazione economica a cavallo degli anni ’80, che, assieme alla trasformazione dei modelli produttivi, ha comportato l’abbandono di vasti comparti edilizi, prevalentemente di origine industriale, che via via perdevano le proprie funzioni. Nello stesso tempo si collocano nella tematica della trasformazione della città, che cominciava a porsi i problemi dell’abbandono e non più i problemi dello sviluppo. Tematiche cruciali della cultura urbanistica nazionale agli inizi degli anni ’90, quando venne fondata per iniziativa tra gli altri delle città di Torino, Venezia, Napoli e di Sesto San Giovanni, AUDIS, l’associazione per le aree urbane dismesse. Da allora non c’è amministrazione che non abbia sperimentato in vari modi il recupero di aree dismesse, e non c’è centro culturale, università, think tank urbanistico che non abbia sviscerato, almeno teoricamente, queste problematiche. Se importanti sono stati i riflessi pratici, scarse sono state le ricadute nella legislazione urbanistica: ci sono delle leggi ad hoc fatte nelle regioni EmiliaRomagna, Veneto, Lombardia, e altre, ma le leggi urbanistiche regionali, che hanno loro base concettuale nelle elaborazioni INU degli inizi degli anni ’90, quando questo problema non era ancora veramente all’attenzione, sono profondamente carenti per questo verso, e non solo. Da quando, quindici anni fa, il tema delle aree dismesse ha cominciato a delinearsi, si è oggi praticamente compiuto un ciclo. Ciclo cominciato come problema - le città si svuotavano e si aprivano delle criticità urbanistiche poco decifrabili – poi diventato una opportunità - le aree dismesse diventano delle galline dalle uova d’oro, dove si fanno grandi operazioni di sviluppo con forti attese di redditività e dove il profitto privato, generato dalle trasformazioni, riesce a produrre anche delle ricadute importanti sul pubblico. Tanto è vero che, in una situazione di carenza di risorse pubbliche, si era coniato lo slogan “costruire la città pubblica attraverso le risorse private”. Oggi infine il tema delle aree dismesse torna ad essere un problema. Infatti non possiamo continuare ad affrontarlo come facevamo fino a due anni fa: la crisi economica e la sostanziale incapacità di gestirne le ricadute che si manifestano a tutto campo implicano un approccio completamente diverso. Non è la sede per approfondire l’argomento, perciò mi limito a una breve considerazione: oggi si ripropone con forza il ruolo pubblico, nel quadro di una nuova etica urbanistica, e si ripropone con forza il fatto che le amministrazioni prendano in mano la regia di operazioni, che nell’ultimo decennio sono state demandate, spesso con allegra superficialità, alle iniziative di questo o quel grande operatore immobiliare. 33 Tuttavia, anche se, in un certo senso siamo tornati all’inizio del ciclo, l’esperienza che abbiamo fatto non ci fa ripartire da zero, ci fa ripartire da un plafond sia operativo che teorico molto più alto che ci deve servire per affrontare problemi del tutto diversi. Non cito neppure per titoli tale problematica complessa, che ha a che fare con gli obiettivi, le procedure, e addirittura con la definizione di aree dismesse. Tanto è vero che AUDIS da qualche anno sta interessandosi della cosiddetta città da rottamare, cioè quelle parti di città che non sono dismesse, ma che dismesse sono destinate a diventare, perché si sono degradate, sono esaurite le loro capacità di rispondere ai bisogni dei cittadini, si è concluso il loro ciclo economico, e dunque rappresentano la nuova frontiera della rigenerazione urbana da affrontare con strumenti concettuali e operativi completamente diversi dal passato. L’Arsenale di Venezia è un’area molto particolare di archeologia industriale, che concentra in sé gran parte di queste problematiche. Ha segni urbanistici ed edilizi che risalgono al XIV secolo, mentre le ultime trasformazioni significative risalgono agli inizi del novecento. È sempre stata una vera fabbrica, circondata da mura e inaccessibile, in quanto luogo protetto della grande tecnologia e della grande potenza militare della Repubblica di Venezia, che veniva aperta solo agli ambasciatori delle potenze alleate o potenzialmente rivali, ai quali si facevano visitare le sale d’armi con colonne, marmi, statue, per indicare la ricchezza di una Repubblica che si permetteva, nella fabbrica dove “bolle nel fuoco la tenace pece” ricordata Dante, i segni della sua importanza e del suo splendore. L’Arsenale era ed è sempre rimasto un luogo chiuso anche quando è stato abbandonato e quando è diventato una struttura militare, sempre più marginale, in quanto non adatto a seguire l’evoluzione delle moderne tecnologie navali. 34 Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia,1500. Il problema che da un certo punto in avanti l’Amministrazione comunale si è posta, è stato quello di recuperare l’Arsenale alla vita della città. Ciò vuole dire non semplicemente aprirlo con delle funzioni qualsiasi, ma aprirlo con delle funzioni che siano all’altezza della tradizione dell’Arsenale, cioè dell’importanza strategica che l’Arsenale ha sempre avuto nella città. Quando parliamo di Arsenale, parliamo di circa 50 ettari dentro la città di Venezia, con circa 230.000 metri quadrati di superficie coperta calpestabile. Il progetto di recupero dell’intero complesso è calcolato in un ordine di grandezza di circa 400.000.000 di euro. Ciò che ne rende particolarmente difficile il recupero non sono però la dimensione, i costi, le funzioni da insediare, bensì la sua situazione patrimoniale.: l’Arsenale è di proprietà dello Stato nelle sue due componenti (Ministero delle Finanze e Ministero della Difesa), o meglio, la proprietà legale è dello Stato, mentre la proprietà morale è della città, e questa contraddizione determina un conflitto difficilmente sanabile. La parte militare, che è circa i due terzi di tutto l’Arsenale ed è in larga misura abbandonata, è naturalmente la parte più inaccessibile. Da quando poi il Ministero della Difesa con la società Difesa Servizi ha deciso di mettersi a fare attività immobiliari e non belliche o di peacekeeping, la cosa è diventata ancora più complicata. Il primo problema che si è posto è collocare l’Arsenale dentro un sistema di pianificazione complessiva, riportandolo all’interno della logica della pianificazione territoriale. Venezia si è dotata, alla fine della seconda metà degli anni ’90, di un Piano del centro storico estremamente approfondito e dettagliato e di un Piano generale della città: l’Arsenale non è stato trattato come una questione a sé, ma è diventato parte di questo sistema di pianificazione complessiva. È anche entrato a far parte di un Prusst (Programma di recupero urbano e di sviluppo sostenibile del territorio) relativo ad un settore urbano che comprendeva la zona nord del Comune, dall’aeroporto all’Arsenale attraverso l’isola di Murano. Oggi tutte le polarità veneziane sono sbilanciate verso l’area di Piazzale Roma collegata alla terraferma dal ponte ferroviario ottocentesco e da quello automobilistico realizzato negli anni trenta del secolo scorso. L’Arsenale è attualmente un’estrema periferia: in realtà dall’Arsenale si potrebbe arrivare in circa quindici minuti all’aeroporto internazionale Marco Polo attraverso il sistema metropolitano previsto dal Prusst, il cui obiettivo principale è quello di riequilibrare le polarità del centro storico e di riportare l’Arsenale al centro del sistema di sviluppo cittadino. Sono stati poi elaborati altri strumenti di pianificazione specifici per il complesso dell’Arsenale: un documento direttore che ne stabilisce gli obiettivi di trasformazione e d’uso e i piani particolareggiati dei comparti nord e sud che ne stabiliscono le modalità di intervento. Il documento direttore prevede per l’Arsenale sostanzialmente quattro attività fondamentali: —— attività produttive hard, nella zona dei bacini di carenaggio, realizzata più di recente tra fine ottocento e inizi del novecento, dove dovranno trovare sede tutte le attività tecniche, tecnologiche e costruttive di salvaguardia della laguna, note col nome di MOSE; —— attività produttive soft, parzialmente già in atto: sono già insediati il CNR e una società, Thetis, per lo studio delle tecnologie ambientali; —— attività di carattere essenzialmente culturale, dove già agisce una parte della Biennale di Venezia; —— attività legate alla presenza della Marina Militare: in particolare il comando dell’ammiragliato, la scuola di alti studi militari, la biblioteca del mare, che mette insieme tutti i fondi sul mare della biblioteca Marciana e del Ministero della Difesa, diventando così una sorta di biblioteca Nazionale del Mare. Dal Piano Direttore che indicava gli obiettivi e gli utilizzi compatibili e desiderabili, si è passati alla pianificazione di dettaglio considerando l’Arsenale sia una parte della città, un brano essenziale del centro storico, sia un comparto edilizio di archeologia industriale: la metodologia usata è quella, ben nota in Italia, della pianificazione dei centri storici. Terminata la fase di pianificazione si è passati alla fase realizzativa, che ha trovato un forte impulso nella costituzione della società Arsenale di Venezia spa formata al 51% dall’Agenzia del Demanio e al 49% dal Comune di Venezia: la proprietà giuridica e la proprietà morale che finalmente si incontrano. Questa società, che tra l’altro si interessa non solo dell’Arsenale ma di tutti i beni demaniali o comunque pubblici all’interno dei confini comunali di Venezia, sulla base di piani di attività approvati ogni anno dai soci, ha realizzato una serie interventi di recupero, oltre ad avere individuato i soggetti più adatti ad occupare gli spazi. Ho stimato in circa 400 milioni di euro il valore del progetto Arsenale. Gli interventi già fatti o in corso di realizzazione, oltre che dalla società, da diversi soggetti pubblici e privati (Magistrato alle Acque, CNR, Tethis, Consorzio Venezia Nuova), si avvicinano ai 100.000.000 di euro, e utilizzano finanziamenti di varia natura: europei, statali, comunali, privati. Va tenuto presente che l’Arsenale non può valorizzarsi, come accade normalmente con le aree dismesse, attraverso progettazione, realizzazione e vendita. Come è ovvio, nulla può essere venduto (altrimenti già tutto sarebbe stato venduto) e si può operare solo attraverso concessioni, che sono poco remunerative e spesso non coprono le spese di investimento. Dunque l’obiettivo del progetto di valorizzazione dell’Arsenale non è produrre profitto, ma cercare di perdere il meno possibile dal punto di vista economico, producendo invece attraverso il suo recupero, una forte ricaduta, un forte profitto, sul piano culturale e sociale. Il Professor Consonni cita nel suo articolo “l’architettura che contiene architetture”. È questo il modo con cui si interviene all’Arsenale: attraverso una conservazione molto accurata di tutte le strutture esistenti, e la realizzazione al loro interno e senza interferenze strutturali dei nuovi manufatti funzionali agli usi desiderati. In questo modo si prosegue la tradizione storica dell’Arsenale al cui interno si realizzavano delle barche quindi la struttura edilizia rimaneva libera e al centro c’era il manufatto in costruzione. Tutti i progetti dell’Arsenale, spesso frutto di concorsi internazionali di progettazione sono ispirati a questa regola: costruire dentro ciò che era già stato costruito. Attraverso questa metodologia si insediano tutte le funzioni, anche le più complesse, previste nell’Arsenale: dai bookshop, ai punti di informazione, agli incubatori di impresa, ai ristoranti e tavole calde, agli spazi per le esposizioni, ai centri di ricerca. Arsenale di Venezia, Corderie, foto. Tutte attività che vengono realizzate nelle Tese (come si chiamavano gli antichi capannoni industriali) Novissime, così definite in quanto realizzate nel ‘500, epoca dell’ultima grande trasformazione storica dell’Arsenale, prima delle trasformazioni otto/novecentesche. La torre di Porta Nuova o delle Alberature, di cui è in atto il recupero che la trasformerà in “centro studi” dell’Arsenale, concludeva il percorso di costruzione delle navi, la catena di montaggio delle varie parti: qui venivano collocati gli alberi prima del varo definitivo. L’Arsenale era infatti una grande fabbrica, in parte fordista perché c’era la catena di montaggio, in parte toyotista perché si lavorava, per corporazioni, oggi potremmo dire per gruppi di qualità. 35 Guardando le immagini dei progetti in corso all’Arsenale o degli spazi già occupati dai vari eventi che vi si svolgono, la Biennale innanzitutto, va ricordato che solo fino a una quindicina di anni fa le immagini avrebbero rappresentato, tranne che per piccole parti, situazioni di desolazione, abbandono crolli: oggi la rinascita di uno dei più importanti e singolari monumenti industriali dell’antichità può dirsi ampliamente in corso. Roberto D’agostino Presidente AUDIS (Associazione Aree Urbane Dismesse), Presidente Arsenale di Venezia spa Arsenale di Venezia. Torre di Porta Nuova, edificata a partire dal 1811 come “macchina per alberare” i vascelli. Trasformazioni territoriali e sviluppo urbano nel cuore della città infinita L’area metropolitana milanese è parte ormai di un’area urbana ancora più grande, che possiamo chiamare regione urbana lombarda (o più metaforicamente “città infinita”), che ha come margini settentrionale e meridionale le Prealpi e il Po, mentre le due spalle a Ovest ed Est sono rappresentate dal Ticino e dall’Adda. In quest’area, dove vivono oltre cinque milioni di persone, si estende una “città” senza soluzioni di continuità, con i caratteri della metropolizzazione contemporanea, dove tra le tradizionali periferie metropolitane si sono insediate aree a bassa densità, frutto della dispersione e della diffusione insediativa, il cui sviluppo è sollecitato da ragioni economiche (il costo dell’abitare) ma anche dalla ricerca di condizioni insediative meno degradate di quelle offerte dalle stesse periferie metropolitane; una “città” del tutto insostenibile per l’elevato consumo di suolo e gli alti costi energetici che comporta, per il modello di mobilità individuale e inquinante che richiede, per l’assenza di spazio pubblico che presenta. La realizzazione di nuove centralità per le aree della metropolizzazione, accessibili in modo efficiente e ambientalmente compatibile è, peraltro, il tema più rilevante dell’urbanistica di oggi e la loro realizzazione, insieme alla costruzione di una rete di mobilità sostenibile e di una rete ecologica, sono i contenuti di una nuova generazione urbanistica finalizzata a recuperare le contraddizioni e gli squilibri in atto. Anche perché intanto continua il processo di concentrazione insediativa che ha Milano come epicentro (come testimonia esplicitamente il recentissimo Piano di Governo del Territorio di questa città), un processo che si è sviluppato all’insegna della massimizzazione della rendita immobiliare, che è stato incentivato negli ultimi trent’anni da una esplicita deregulation urbanistica e che si è incentrato soprattutto sul recupero delle aree industriali dismesse. Un recupero avvenuto, in generale, tenendo in gran conto gli interessi finanziari e di bilancio delle proprietà originarie e poco quelli delle collettività interessate dalla trasformazione e ancora meno la lunga utilizzazione produttiva delle aree e le infrastrutture e i servizi che la città ha realizzato nel frattempo intorno alle stesse. Anche le nuove funzioni sono state prevalentemente suggerite dalla rendita, riducendo il peso di quelle d’eccellenza a qualche situazione eccezionale. Insomma, nella maggioranza dei casi si è verificato un banale adeguamento alle richieste del mercato per quanto riguarda l’assetto funzionale, con l’acquisizione 36 Arsenale di Venezia. Torre di Porta Nuova, interno, foto. alla collettività di qualche standard qualitativo, quando la negoziazione pubblica è riuscita ad esprimersi con una forza adeguata. Se non è certo possibile invertire radicalmente il processo prima descritto (come è stato fatto, per esempio in Germania con la IBA Emscher Park), anche per la carenza degli strumenti necessari per affrontare questioni rilevanti quali sono quelle legate al regime immobiliare, è comunque possibile impostare politiche urbanistiche alternative, sfruttando la nuova strumentazione disponibile, compresa quella lombarda pur con le molte contraddizioni, in essa presenti, orientandole verso un miglioramento delle prestazioni urbanistico-ecologiche della trasformazione urbana, compresi gli interventi sul patrimonio residuo della dismissione industriale, sfruttando al massimo le risorse che essa può garantire, sia di tipo quantitativo che di tipo qualitativo. IBA Emscher Park nella Ruhr, foto. Dal punto di vista quantitativo le sole aree industriali dismesse rappresentano ancora un grande patrimonio per l’intera regione urbana, valutabile in circa 2.000 ettari, di cui circa la metà nelle sole province di Milano e Monza; tra queste le aree Falck di Sesto San Giovanni rappresentano quasi il 15% dell’estensione complessiva e sono ubicate proprio nel centro, nel cuore della “città infinita”. La dimensione delle sole aree industriali dismesse, senza contare quindi tutti gli altri brownfields disponibili (aree già edificate da riqualificare, impianti ferroviari sottoutilizzati, servizi pubblici obsoleti, ecc.), consentirebbe la realizzazione di almeno 200.000 stanze equivalenti residenziali/terziarie (considerando indici inferiori e standard superiori a quelli della pratica corrente), contribuendo così a risolvere in modo determinante sia i fabbisogni della regione urbana, sia a contenere il consumo di suolo e a governare meglio il processo di metropolizzazione. Dal punto di vista qualitativo, invece, l’ubicazione delle residue aree industriali dismesse nei poli urbani consolidati ne suggeriscono le scelte fondamentali di riuso e precisamente la previsione di densità contenute per garantire rilevanti quote di permeabilità dei suoli e di verde naturale che inneschino consistenti processi di rigenerazione ecologica, la integrazione delle aree così rinaturalizzate nella più generale rete ecologica, la selezione di funzioni strategiche, frutto di una visione metropolitana, evitando di ripetere le consuete pratiche imposte dalla rendita. La stessa ubicazione, spesso relazionata con il sistema ferroviario, ne consente inoltre la trasformazione in “centralità metropolitane”, sedi del nuovo spazio pubblico e delle funzioni d’eccellenza della città metropolizzata, impostando così l’unica strategia possibile per contrastare la metropolizzazione e riqualificare la nuova “città”. Oltre a queste indicazioni fondamentali relative all’accessibilità, alla permeabilità, al verde e alle funzioni necessarie, il progetto di riuso dovrà tenere conto di altre necessità: la realizzazione di uno spazio pubblico fruibile, che recuperi la dimensione della città storica e si integri con le funzioni commerciali e di servizio ad esso strettamente connesse, evitando la realizzazione di quegli spazi smisurati, impossibili da rendere vivibili e da utilizzare realmente che spesso contraddistinguono questi interventi di recupero; la cancellazione del vecchio recinto della fabbrica e la piena integrazione della nuova trasformazione nei tessuti urbani anche grazie all’estensione della mobilità collettiva; il recupero di tutti i beni storicodocumentali ancora presenti, ridestinandoli a nuovi servizi e a nuovi insediamenti. Insomma, si tratta di realizzare nuove parti di città, garantendo la memoria del passato produttivo e costruendo un nuovo paesaggio urbano che accentui il senso identitario, di riconoscibilità e di appartenenza di questi luoghi. Il progetto dovrà però arricchirsi di una nuova dimensione economica e di gestione finanziaria, che se, stante l’attuale ordinamento, non potrà cambiare l’impostazione giuridica della trasformazione fondiaria e dovrà comunque tenere conto delle leggi del mercato immobiliare, potrà comunque prospettare chiaramente i costi e i benefici che la trasformazione potrebbe produrre. Vi dovrà quindi essere una precisa conoscenza delle condizioni oggettive di partenza per evitare controproducenti conseguenze di “finanziarizzazione” delle scelte urbanistiche e per trovare il necessario equilibrio tra interessi pubblici e legittimi interessi privati. Ciò comporta la conoscenza del valore reale dell’area, dei costi di bonifica (con le varie alternative possibili) e di infrastrutturazione e di urbanizzazione, dei ricavi attendibili, valutati quindi in una dimensione realistica, dei costi della “città pubblica”, cioè 37 dei servizi da realizzare, ma anche delle risorse necessarie per la loro gestione. Alla base di tutto dovrà esserci quindi, anche da parte dell’operatore pubblico, una valutazione dell’evoluzione del mercato immobiliare dopo la crisi globale attuale e quindi in uno scenario di ripresa, che tenga conto del possibile ridimensionamento dei valori immobiliari, della certa contrazione del credito e quindi della ridotta capacità di spesa delle famiglie. Sapendo che le risorse per la costruzione e la gestione della “città pubblica” non potranno che essere generate, quantomeno per la maggior parte, dal processo di negoziazione con gli operatori privati che deve sempre accompagnare la trasformazione urbana, finalizzato alla ridistribuzione della rendita immobiliare, che è poi il surplus di ricchezza prodotto dalla stessa trasformazione. Le aree Falck di Sesto San Giovanni hanno tutte le caratteristiche per diventare una delle centralità metropolitane più importanti dell’intera regione urbana lombarda. È stata già ricordata la loro posizione baricentrica, ma anche la loro dimensione, che le colloca al primo posto per estensione tra tutte le aree dismesse ancora da recuperare della stessa regione. A ciò si aggiunge il fatto che le aree Falck sono interessate dal sistema ferroviario regionale, ma anche contigue alla rete della metropolitana milanese. Esse conservano, inoltre, una tra le memorie più potenti e significative del passato industriale, meglio di ogni altra dismissione industriale lombarda, grazie agli straordinari grandi edifici industriali ancora presenti, ricchi anche di soluzioni tecnologiche e costruttive di grande interesse, come i grandi laminatoi, le trafilerie, le officine meccaniche che hanno già trovato prime ipotesi di riuso trattate nel masterplan di Piano, ipotesi che tuttavia dovranno, probabilmente, trovare ancora una configurazione più realistica e fattibile in un nuovo progetto. Più in generale si può osservare come tutte le ipotesi di una loro trasformazione urbanistica, a partire dal concorso d’idee lanciato dalla proprietà originaria nel 1998 fino al già citato 38 Aree antropizzate della Regione Lombardia nel 2007 (dati DUSAF 2.1). masterplan, non hanno avuto successo, oltre che per vicende finanziarie della società Risanamento, per la permanenza degli stessi progetti all’interno di una logica sostanzialmente immobiliare e, soprattutto, per la mancanza di una reale visione metropolitana che consentisse a costruire in maniera solida e duratura la “parte pubblica” della grande trasformazione urbana. Ciò nonostante le molte idee di qualità presenti negli stessi progetti e, in particolare, nel masterplan firmato da Piano. Un limite che è ancora più presente nell’ultima soluzione presentata da parte delle nuove proprietà subentrate a Risanamento, che anche per il carattere della nuova compagine promotrice, vede accentuato il carattere puramente immobiliare dell’operazione. Probabilmente tutto ciò è la conseguenza inevitabile, nonostante l’impegno profuso dall’Amministrazione comunale, dei limiti di una responsabilità decisionale circoscritta alla sola municipalità di Sesto San Giovanni, che dovrebbe invece vedere impegnati, soprattutto nella definizione dei contenuti pubblici, il capoluogo lombardo, la Provincia e la stessa Regione. Un problema certo impossibile da risolvere per la municipalità locale, ma che sarà necessario affrontare, dato che una delle cause della mancanza di competitività del sistema urbano italiano sta proprio nella non corrispondenza tra sistema decisionale e assetto reale del territorio. Una reale visione metropolitana rappresenta dunque la condizione indispensabile per le trasformazioni che hanno una valenza strategica per localizzazione, dimensione e accessibilità. Una visione che per quanto riguarda le scelte di pianificazione comporta il superamento dell’attuale modello di pianificazione provinciale, non strutturale, non selettivo, ma anche il superamento del ruolo egemone e accentratore svolto da Milano a scapito del resto dell’area metropolitana e della stessa regione urbana lombarda. Federico Oliva Presidente INU 39 Progetto di riqualificazione delle AID Ex Montefibre ad Ivrea. Le ragioni della candidatura all’Unesco del patrimonio industriale sestese La candidatura di Sesto San Giovanni come paesaggio culturale evolutivo Questo mio breve contributo si propone di illustrare le ragioni della solidità della candidatura di Sesto San Giovanni alla Lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO, che presenta caratteri di valore veramente eccezionale, e di individuarne la specificità rispetto ad altre categorie di patrimonio industriale attualmente riconosciute dalla divisione Patrimonio dell’UNESCO. Il perimetro dei beni che Sesto San Giovanni intende candidare racchiude una serie di edifici industriali, di cui un buon numero potrebbe pretendere all’iscrizione a titolo individuale come monumento di architettura industriale appartenente ad un’epoca precisa della storia di quella architettura. Una candidatura del monumento a titolo individuale non sarebbe però abbastanza significativa rispetto al sistema produttivo che ha generato i singoli edifici. Il perimetro definito dal dossier di Sesto include d’altra parte le testimonianze fisiche di complessi industriali, alcuni dei quali costituiscono esempi notevoli di raggruppamento, attorno ai nuclei centrali della produzione, di edifici periferici. Questo sistema di edifici e funzioni satelliti non dovrebbe mai essere dissociato dai luoghi stessi della produzione, per ragioni tecniche e al contempo economiche e umane. La candidatura di tali complessi è perfettamente ammessa fin dall’iscrizione nella Lista del patrimonio mondiale delle fabbriche di Völklingen in Germania, e la loro portata va ben al di là dell’interesse patrimoniale di un solo edificio, per quanto notevoli siano le sue caratteristiche. 40 La candidatura di Sesto varca però una soglia ulteriore: riguarda il paesaggio culturale evolutivo, una categoria definita da tre vocaboli il cui contenuto, al di là delle apparenze, è perfettamente chiaro. Il termine “paesaggio” rinvia a un orizzonte a tre dimensioni che, su una superficie territoriale rilevante, è stato prodotto nel corso di due o tre decenni dall’addensarsi di installazioni produttive industriali, sulla grande spinta dell’industrializzazione a partire dai primi anni del XX secolo. Questi siti si sono venuti a giustapporre ad un paesaggio completamente differente, quello di un borgo antico, debolmente industrializzato, e hanno fatto indietreggiare l’ambiente naturale. Il termine “culturale”, ben al di là di un riferimento archeologico, rinvia all’insieme degli elementi materiali e immateriali di cui il paesaggio dell’industria a Sesto è ancor oggi pieno, alla sua struttura territoriale, alla sua storia. In breve, questa definizione invita a preservare questo paesaggio come espressione di una cultura locale di interesse nazionale ed universale, quella di un’economia e di una società ben definite per la loro epoca, e fortemente incentrate sull’area metropolitana settentrionale di Milano. Infine, il termine “evolutivo” vuol significare che non si tratta di un campo di rovine né di un museo a cielo aperto, di uno spazio culturale statico. Al contrario, siamo di fronte a un paesaggio, la cui complessità e unità gli abitanti, in qualche modo proprietari del paesaggio stesso, sono decisi a conservare nella forma di una patrimonializzazione fonte di vita. È un tessuto nel quale si ritrovano e si intrecciano l’eredità di un passato preindustriale e quella di un concatenarsi accelerato di due momenti folgoranti – l’industrializzazione e la deindustrializzazione. A ciò si somma la traccia di un avvenire che si costruisce su un sentimento duplice di fierezza e di fedeltà rispetto al passato, e su una volontà strategica di sviluppare la terza era della città. Questa nuova tappa della storia di Sesto poggia su un’articolazione saggia ed inventiva del suo recente passato e del suo sviluppo urbano. Il paesaggio culturale evolutivo di Sesto è al contempo stratificazione, continuità di memoria e visione dinamica al servizio di un patrimonio della “seconda rivoluzione industriale”, di cui l’Italia qui ha davvero dato la sua interpretazione originale. Brevemente, vorrei evocare in particolare alcuni aspetti di questo patrimonio. Sono ancora percepibili la traccia delle ideologie padronali, sotto l’aspetto di un’architettura “sociale” di qualità originale, e la memoria delle lotte operaie che qui hanno preso posto tra i fatti significativi della storia della seconda guerra mondiale. Inoltre è rilevante la qualità delle ristrutturazioni e delle riconversioni già effettuate o in corso (come l’area Breda), della politica di risanamento e di bonifica, cui si accompagnano l’incoraggiamento delle iniziative economiche e la politica di valorizzazione culturale di spazi come il MIL, l’ISEC, la Bottega Sacchi, per menzionare solo alcuni esempi. Ma, sopratutto, bisogna tenere a mente che tali elementi architettonici o tali realizzazioni vanno iscritti in seno ad un segnale globale importantissimo per la strutturazione del paesaggio culturale di Sesto San Giovanni e per un nuovo sviluppo della città. Le testimonianze della città industriale non sono da considerarsi solo come una collezione di elementi singoli di un museo a cielo aperto, ma come un patrimonio che sostiene la memoria di una fase eccezionale della storia cittadina, un’eredità da includere in un nuovo capitolo di questa storia. Su questo punto mi permetto di rinviare al contributo di Giancarlo Consonni, in particolare al passaggio nel quale l’autore afferma che questi monumenti «possono diventare le pietre angolari della nuova città: presenze architettoniche che […] possono dare un apporto prezioso alla configurazione di luoghi pubblici di rilevanza urbana e metropolitana». Bisogna ricordare anche che questi monumenti si annoverano tra i più considerevoli edifici dell’architettura industriale del loro tempo, anche su scala mondiale. Concludo con un commento molto personale. Sono trentacinque anni ormai che lavoro su e per il patrimonio industriale con colleghi italiani, accademici, membri di associazioni culturali. Come Presidente del TICCIH per dieci anni, ho avuto l’opportunità di incontrare personalità come Jean-Louis Luxen, Dinu Bumbaru, Michael Petzet, Henry Cleere, e di lavorare con loro, di apprezzare l’alto valore della loro azione nell’ambito del World Industrial Heritage. Tra i più bei ricordi di questa carriera rimangono senza dubbio l’iscrizione di Crespi d’Adda nella Lista del Patrimonio Mondiale, poi di Bleanavon (nel Galles) e, più recentemente, di La Chaux de FondsLe Locle (in Svizzera). Ricordo, in particolare, di aver visitato con l’amico Henry Cleere, espertissimo pilota del World Heritage Committee dell’UNESCO, il sito di Sesto San Giovanni e di aver evocato con lui le realtà territoriali, il concetto di “paesaggio industriale e culturale”. Il sito di Sesto è più che mai vivo per volontà e passione politica ed amministrativa. Per tutti questi motivi, io offro il mio caloroso sostegno ad una candidatura che valorizza un altro degli aspetti della cultura italiana e, senza alcun dubbio, uno di rilevanza internazionale. Louis Bergeron Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales, Presidente onorario a vita del TICCIH, Koinetwork g.e.i.e. Per Sesto San Giovanni patrimonio dell’umanità Forma urbis Sesto San Giovanni è situata nel cuore della città regione1 che va dal Piemonte al Veneto. In questo cuore c’è la Milano storica, ma c’è anche Sesto, una città giovane, piccola di territorio ma carica di storia: il quinto centro industriale del Paese nel Novecento, nel cuore dell’area più industrializzata d’Italia. 83.000 abitanti stretti fra Milano e Monza, alle quali sono legati senza soluzione di continuità, eppure dotati di un robusto senso di appartenenza e di un’identità forte, riconosciuta anche dall’esterno. 83.000 abitanti su soli 12 chilometri quadrati, che ne hanno fatto una delle città a più alta densità in Europa, con un uso del suolo superiore al 75%, rispetto al 66% della pur congestionata Milano. Un borgo rurale e luogo di villeggiatura esploso in città agli inizi del Novecento, attorno a due linee di comunicazione strategiche, la strada e la ferrovia che da Milano portano a Monza (e a Como, Lecco, al San Gottardo), che le hanno dato sia il formidabile sviluppo sia la divisione del territorio in due parti separate. Per Sesto è sempre stato così. Le forze che ne hanno fatto la storia hanno plasmato la forma stessa della città: gli stabilimenti cinti di mura, inaccessibili e impenetrabili, e i grandi assi di trasporto viario e ferroviario hanno occupato il suolo e ne hanno dettato la ripartizione. Attorno si sono disposte le abitazioni, mentre la vitalità e la solidarietà operaia si riflettevano nel proliferare dei circoli, dei centri sportivi, dei dopolavoro. Oggi non è più così, ma la mappa della città resta tuttora, per necessità e per scelta, un libro aperto sulla sua traiettoria di sviluppo nel Novecento. La storia della città A Sesto ben si adatta la controversa espressione di “secolo breve” coniata in altro contesto da Eric Hobsbawm2: possiamo racchiudere tra l’insediamento della Breda nel 1903 e l’ultima colata al forno T3 della Falck nel 1996 l’intera parabola dell’industrializzazione novecentesca. In soli dieci anni – dal 1901 al 1911 – il borgo agricolo passò da 7.000 a 15.000 abitanti, e nello stesso arco temporale, a partire dal 1908, la Breda moltiplicò per 20 la superficie occupata, da 48.000 a 925.000 metri quadri. A questa tumultuosa espansione concorre, oltre alla linea 1 Faccio riferimento alla concettualizzazione proposta da Guido Martinotti e sviluppata con Mario Boffi e Tonina Melis del Laboratorio GisLab-Quasi dell’Università degli studi di Milano Bicocca. 2 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli 1995, (The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, London, Michael Joseph, 1994). 41 ferroviaria e all’asse stradale servito dal trasporto pubblico, la crescita e la delocalizzazione delle industrie milanesi, supportata dalla creazione programmata del quartiere industriale nord Milano lungo l’asse di viale Fulvio Testi e del nuovo quartiere industriale raccordato a est della ferrovia lungo viale Edison. Decisiva, infine, la disponibilità di energia elettrica proveniente dall’impianto Edison di Paderno d’Adda fin dal 1898, e successivamente dalla Valtellina. Fabbriche, strade, binari e case operaie costruirono così il paesaggio urbano industriale di Sesto. Lo sviluppo urbano segue prima il dilagare, poi il ritrarsi degli stabilimenti: la città crebbe fino a toccare i centomila abitanti negli anni settanta, per poi diminuire. Negli anni quaranta ne contava circa 40.000, ma erano 45.000 gli operai impiegati nelle sue fabbriche. Questa storia titanica si sviluppa dunque interamente nel breve volgere di novant’anni, e si conclude tanto rapidamente come era iniziata. Ma in questo tempo ristretto operano a Sesto imprese come la Breda con 5 sezioni (elettromeccanica, ferroviaria, fucine, siderurgica, aeronautica), le Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck con 5 stabilimenti, Ercole Marelli (2 stabilimenti), Magneti Marelli (4 stabilimenti), OSVA, Pompe Gabbioneta (tuttora attiva), Campari – che oggi ha delocalizzato la produzione ma ha portato a Sesto la sede del gruppo – e tante altre. 42 Un patrimonio d’eccezione Quando si parla di patrimonio industriale a Sesto ci si riferisce a 37 siti all’interno del territorio cittadino descritti nel dossier di candidatura all’UNESCO, che costituiscono un sottoinsieme dei beni storico-documentali catalogati dal PGT. Sono siti tra loro molto diversi, tali da restituire l’intera articolazione territoriale e funzionale della città fabbrica, che hanno una maggiore densità in corrispondenza della ex area Breda e dell’ex area Falck. —— Il MAGE dal pavimento in mattonelle di ghisa, tutto colonne e vetrate: di qui, dalle donne del reparto bulloneria, partirono gli scioperi del marzo 1943. —— L’OMEC, l’officina meccanica in stile liberty dal pavimento in legno: 280 metri di shed, l’albero motore lungo il muro e il rifugio antiaereo nei sotterranei. —— L’area Breda, dal Carroponte al cilindro della Torre dei modelli; —— La Campari, ieri stabilimento, oggi centro direzionale e museo; —— I grandi forni in acciaio da dieci o da trentamila metri quadrati di superficie. —— E ancora le portinerie, le torri piezometriche, la cabina di controllo dei treni merci che percorrevano i 27 chilometri di rotaie all’interno degli stabilimenti, e che passavano da uno stabilimento all’altro attraversando e interrompendo, senza preavviso e senza protezione, le strade cittadine. Torre dei Modelli, foto storica. —— Sottoterra si trovano i bunker antiaerei e i cunicoli di collegamento fra i reparti, mentre in quota incontriamo la montagnetta del Parco Nord – le scorie della Breda siderurgica – e le colline del Parco Media Valle Lambro costituite dagli scarti di produzione della Falck: due luoghi apparentemente naturali, in realtà frutto dell’attività industriale, che sono anche significativi punti di osservazione del paesaggio industriale cittadino. —— Ma si pensi anche all’enorme – e non casuale – varietà degli insediamenti residenziali: dall’ostello ai condomini, dalle case alle villette, ai villaggi: per gli operai, per gli impiegati, per i quadri o i dirigenti. —— E poiché la vita non si esaurisce nella casa e nella fabbrica, per quanto duro sia il lavoro, ci sono i luoghi della società: dalla scuola alla chiesa, dagli impianti sportivi ai circoli ricreativi, anch’essi di diverso tipo: familiari, aziendali, cooperativi e mutualistici; comunisti, socialisti, cattolici. Circolo San Giorgio, foto storica. Per tutti questi luoghi, ed altri ancora, il tema non è solo la salvaguardia – che è naturalmente condizione di ogni discorso – ma la fruibilità, la messa in rete, la leggibilità: che è fatta di rispetto e di riuso, della capacità di farli emergere sul territorio come una trama di testimonianze e di rimandi. Per un altro verso, molto dipende dalle politiche culturali, dalla ricerca, dalla formazione: il patrimonio materiale parla se è interrogato dalla curiosità degli abitanti e dei visitatori, e se trova nello studio, nei percorsi guidati, nella memoria collettiva le parole per esprimersi. Questo è tanto più vero in quanto una parte decisiva del patrimonio di cui oggi dispone Sesto è di tipo documentale. La Fondazione ISEC raccoglie, ordina, studia e rende accessibile un enorme patrimonio di libri, giornali e riviste, archivi, fotografie, disegni tecnici: l’intero archivio nazionale della Breda, l’archivio e la biblioteca tecnica Ercole Marelli, le biblioteche Frumento e CERCO e i disegni tecnici della Falck, oltre a documenti di moltissime altre imprese di primo piano dell’area milanese. Le sue collezioni e la sua attività scientifica sono un punto di riferimento per lo studio della storia economica, industriale e sociale in Italia. La cultura della città La ricerca storica ci consente di vedere la vita che scorreva dietro le mura delle case e delle fabbriche: le appartenenze, le identità, le lotte che vi si svolgevano; un secolo di conquiste sindacali, dagli scioperi del 1919 alla nascita, proprio a Sesto, del servizio di medicina negli ambienti di lavoro nel 1972; un contributo straordinario alla Resistenza e alla Liberazione nel ’43-’45: la medaglia d’oro alla città, certo, ma anche oltre 600 deportati, più dell’uno per cento della popolazione. C’è però qualcosa di ancora più profondo: una cultura del lavoro fatta di orgoglio del proprio ruolo, di professionalità e responsabilità, di senso di appartenenza, che matura in fabbrica tanto quanto nei sindacati, nei partiti, nel tessuto associativo. Un crogiolo di modelli imprenditoriali, dall’autosufficienza della Falck, che produce tutto in casa (dall’energia ai pezzi di ricambio), alla specializzazione produttiva della Breda; dalla grande tradizione del paternalismo industriale dei Falck, che organizzano anche tutta la vita dei loro dipendenti, agli investimenti della Marelli e della Breda nella formazione professionale. Una cultura tecnica diffusa che trova alimento nella convergente attenzione e consapevolezza dei lavoratori e delle imprese. Una capacità di innovazione frutto di scelte e investimenti precisi, dall’Istituto scientifico Ernesto Breda al Centro ricerche e controlli (CERCO) della Falck, al pionierismo della Campari nel marketing e nella pubblicità. Manifesto di Depero per Campari. Le ragioni della candidatura all’UNESCO Nasce da questi tratti della storia e della cultura sestesi il riferimento ai criteri proposti per l’iscrizione. In primo luogo la forza e la testimonianza della civiltà della fabbrica: parliamo di una realtà produttiva e di una comunità urbana che ha comandato un sistema sovraregionale di pendolarismo e di immigrazione delle persone, di approvvigionamento dell’energia e delle materie prime, di organizzazione dei processi produttivi; e che si è collocata nel mercato internazionale dei prodotti. In secondo luogo la peculiarità e la riconoscibilità di un paesaggio che esprime la fase della grande industrializzazione: facciamo riferimento a un paesaggio che per morfologia, varietà, complessità, articolazione delle categorie produttive e delle tipologie edilizie presenta i caratteri dell’unicità e dell’eccezionalità, peraltro propri anche di alcuni singoli manufatti. È un paesaggio al tempo stesso universalmente rappresentativo della storia della seconda industrializzazione contemporanea. Infine gli eventi, le idee, le tradizioni che sono alla base dei principi e delle istituzioni della democrazia: dalla Resistenza alle lotte operaie, la storia sestese del Novecento testimonia la nascita e l’affermazione della democrazia di massa così come del sistema di valori e di regole che innerva lo stato sociale del compromesso socialdemocratico.Di questo patrimonio, dunque, la città di Sesto chiede con convinzione il riconoscimento. 43 Tutela, gestione e mobilitazione Un grande patrimonio richiede risorse, strumenti e politiche per la tutela, la gestione, la valorizzazione, il riuso. Quanto alla salvaguardia, rimando ai contributi di Morabito e Cerruti. L’amministrazione comunale ha scelto di applicare i massimi strumenti di tutela di cui dispone: aver affrontato questo tema attraverso il PGT da un lato è la precondizione per una messa in sicurezza del patrimonio e quindi per qualunque politica successiva, dall’altro ha significato permeare della riflessione sulla memoria le linee di indirizzo dello sviluppo urbano e consente di trovare nelle attuazioni urbanistiche una parte delle risorse necessarie. Un altro strumento per la tutela, meno formale ma non meno importante, è il consenso dei cittadini e delle istituzioni: di qui l’importanza attribuita all’informazione e al coinvolgimento dei cittadini e delle scuole nella promozione della candidatura, in primo luogo grazie al Comitato di Sostegno; di qui, ancora, la piena collaborazione con la Provincia (che, come il Comune, sostiene unanime la candidatura) e il dialogo tecnico intavolato con il Ministero dei Beni e delle attività culturali. Su un altro versante è di grande rilievo l’interscambio con i saperi universitari e il raccordo con le reti nazionali e internazionali del patrimonio industriale – quali AUDIS, AIPAI e TICCIH – e delle città in trasformazione3. Naturalmente il passo successivo alla tutela è la valorizzazione e la gestione, con l’apertura dei beni al pubblico. Qui i successi e le difficoltà di questi anni ci hanno aiutato a mettere a fuoco alcuni importanti aspetti metodologici: i tempi del riuso e dell’accesso del pubblico sono necessariamente lunghi; le ingenti risorse necessarie vanno reperite prevalentemente negli accordi con altre istituzioni – segnatamente Regione e Provincia – e nei processi di trasformazione urbana; i progetti devono essere modulari e flessibili, cioè realizzabili per parti in fasi successive e continuamente modificabili; devono essere a maglie larghe ed è importante che passino attraverso fasi di riuso temporaneo4; la tutela stessa, nel caso di beni posseduti o gestiti da privati, deve assumere forme condivise con il gestore anche attraverso la sottoscrizione 44 3 AUDIS è l’Associazione delle aree urbane dismesse, AIPAI l’Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale, TICCIH The International committee for the conservation of industrial heritage. Esempi di reti e progetti europei sono TRACE, la Rete delle città europee in trasformazione, e Net-TOPIC (Tools and approaches for managing urban Transformation Processes in Intermediate Cities). 4 Per una sintetica rassegna di diversi casi di riuso a Sesto e dei problemi correlati rinvio al mio intervento “Le patrimoine industriel de Sesto San Giovanni. Expériences et projets de réutilisation et réaménagement pour la croissance culturelle et économique”, in Patrimoine de l’industrie/ Industrial Patrimony, n.22/2009. formale di reciproci impegni. Nel caso di Sesto si presenta una gamma molto vasta di situazioni, che spaziano dal riuso completato con successo, come è il caso del Carroponte, fino al recupero ancora da avviare come per la maggior parte dei beni compresi nelle aree Falck. Infine, la gestione del patrimonio immobiliare si intreccia con le politiche di promozione, di fruizione, di valorizzazione, in un duplice senso: da un lato l’apertura dello Spazio MIL, dell’Archivio Sacchi e della Galleria Campari, i laboratori per le scuole, le visite e le manifestazioni promosse dalla Fondazione ISEC e dall’Amministrazione comunale consentono di far vivere il patrimonio e di farlo conoscere a un pubblico sempre più ampio, non solo sestese; dall’altro queste attività sono a loro volta condizione per rafforzare la condivisione del progetto di candidatura e per far sì che dai cittadini stessi venga una domanda di salvaguardia e di riuso del patrimonio, che è una delle principali condizioni di successo sia per la tutela sia per la candidatura. La città di Sesto ha vissuto con sofferenza la crisi e la dismissione delle grandi fabbriche negli anni ottanta e novanta. Nella ricerca di nuove funzioni, nuovi modi di vivere, nuove destinazioni di luoghi ed edifici, molto è stato fatto e molto resta da fare. Ma in questo sforzo, la salvaguardia del patrimonio cittadino – fisico, immateriale e, si potrebbe dire, morale – è stato un punto fermo. Da un quindicennio almeno questa consapevolezza si è fatta strada, si è tradotta in politiche, in atti amministrativi, e – quel che più conta, perché è garanzia delle politiche – in consapevolezza diffusa, in partecipazione. Dal 2006 ad oggi possiamo contare almeno una iniziativa a settimana – non solo del Comune, ma di scuole, associazioni, istituzioni culturali – incentrata sulla storia e sul patrimonio di Sesto. Questo impegno segna un cammino che non è volto al passato ma al futuro. Il cammino di una comunità che sa che tanto più potrà essere all’altezza delle nuove sfide, quanto più sarà dotata dell’autonomia e della fiducia che viene dall’ancoraggio alla propria storia. Sa che avrà bisogno di mappe, di pietre miliari. Ed è risoluta a trovarle nelle sue strade e nelle sua storia, per salvarle, renderle accessibili e comprensibili, e metterle a disposizione di tutto il mondo. Federico Ottolenghi Responsabile Dossier Candidatura Unesco, Comune di Sesto San Giovanni dossier urbanistica rivista di cultura urbanistica e ambientale dell’istituto nazionale di urbanistica anno XXX Giugno 2011 euro 9,00 editore: inu edizioni iscr. tribunale di roma n. 3563/1995; iscr. cciaa di roma n. 814190 direttore responsabile: paolo avarello codirettori: laura poGliani e anna palazzo coordinatore della redazione: cristina musacchio [email protected] servizio abbonamenti: monica belli [email protected] comitato scientifico e consiglio direttivo nazionale: carlo alberto barbieri, sebastiano bitti, roberto bobbio, domenico cecchini, claudio centanni, emanuela coppola, Giuseppe de luca, GiorGio dri, valter fabietti, marisa fantin, Gualberto ferina, fulvio forrer, roberto Gerundo, mauro Giudice, Guido leoni, roberto lo Giudice, fabrizio manGoni, franco marini, maria valeria mininni, sauro moGlie, piero nobile, federico oliva, simone ombuen, francesca pace, fortunato paGano, mario piccinini, claudio polo, pierluiGi properzi, francesco rossi, nicolò savarese, francesco sbetti, stefano stanGhellini, michele talia, Giuseppe trombino, silvia viviani, comune di roma, provincia di ancona (roberto renzi), reGione toscana (riccardo conti). iniziative promozionali: cristina buttinelli [email protected] progetto grafico: ilaria Giatti consiglio di amministrazione di inu edizioni: m. fantin (presidente) d. di ludovico (consigliere delegato) f. calace, m. Giuliani fotocomposizione e stampa: duemme Grafica - roma via della maglianella 71, 00166 roma www.duemmegrafica.it redazione, amministrazione e pubblicità: inu edizioni srl piazza farnese 44, 00186 roma tel. 06/68134341, 06/68195562 fax 06/68214773, http://www.inu.it registrazione presso il tribunale della stampa di roma, n.122/1997 spedizione in abbonamento postale art. 2, comma 20/b, l. 662/96 - roma € 9,00 INU Edizioni abbonamento annuale euro 30,00 versamento sul c/c postale n. 16286007, intestato a inu edizioni srl: piazza farnese 44, 00186 roma, o con carte di credito: cartasì - visa mastercard finito di stampare GiuGno 2011 sesto san Giovanni. una storia un futuro maria bonfanti identità e memoria della città in trasformazione demetrio morabito la tutela del patrimonio industriale nella pianificazione urbanistica di sesto valeria cerruti i grandi monumenti di archeologia industriale di sesto san Giovanni. esercizi di recupero Giancarlo consonni il patrimonio siderurgico di piombino come risorsa per lo sviluppo urbano massimo preite l’iba emscher park nel territorio della ruhr: una retrospettiva Klaus r. Kunzmann periferie urbano-industriali in italia. Questioni di storia, memoria e riuso roberto parisi davanti alla fabbrica. patrimonio industriale come insieme di permanenze caterina di biase made in maGe, la scommessa del riuso temporaneo isabella inti aree dismesse e riqualificazione urbana. il caso dell’arsenale di venezia roberto d’aGostino trasformazioni territoriali e sviluppo urbano nel cuore della città infinita federico oliva la candidatura di sesto san Giovanni come paesaggio culturale evolutivo louis berGeron per sesto san Giovanni patrimonio dell’umanità federico ottolenGhi dossier urbanistica
Documenti analoghi
copertina - Corriere di Sesto
due bollini rosa, per la particolare attenzione alle donne.
Il riconoscimento è stato dato dall’Osservatorio nazionale
sulla salute della donna che, ormai da qualche anno, premia
le strutture sanit...