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Poste Italiane Spa Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia 20131 Milano - Via Stradivari, 7 27 settembre 2014: Álvaro del Portillo Beato quaderno con interventi di Cesare Cavalleri, Alessandro Rivali, card. Francesco Monterisi, Antonio M. Sicari, Emma Fattorini, Maria Vittoria Marini Clarelli, card. Julián Herranz, mons. Mario Delpini, Agostino Giovagnoli, Javier Medina Bayo. Con una lettera di Papa Francesco e le omelie del card. Angelo Amato nella Messa di beatificazione e di mons. Javier Echevarría nella Messa di ringraziamento Siria: genesi & prospettive di una guerra di Alberto Leoni Segantini il grande & il mistico Chagall di Michele Dolz 644 Ottobre 2014 Patrick Modiano, un Nobel meritato di Andrea Vannicelli Editoriale La gratitudine del beato Álvaro del Portillo I l momento di maggior commozione alla Messa della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo, il 27 settembre scorso, a Madrid, è stato, per me, quando ho visto il piccolo José Ignacio Ureta Wilson recare sull’altare, con tutta la solennità di cui è capace un bambino, la reliquia del Beato. La guarigione di José Ignacio, dopo un arresto cardiaco di oltre mezz’ora, avvenuta il 2 agosto del 2003, è il miracolo che ha consentito la beatificazione, ed eccolo lì, il ragazzino cileno con i genitori raggianti e commossi. Un bellissimo miracolo, un miracolo «normale» per una famiglia normale, davvero tipico di don Álvaro che aveva appreso da san Josemaría Escrivá l’eroismo della vita «normale». Molto si è scritto e moltissimo si scriverà sul beato Álvaro, e il dossier che apre questo fascicolo dà un contributo importante e autorevole. Io, che ho avuto il privilegio di conoscere don Álvaro e di essere da lui conosciuto, non me la sento, tanto meno in questa pagina, di parlare della sua fedeltà, della sua umiltà e di tutte le virtù, a cominciare dalle teologali, che egli ha vissuto e che fin da ora sono oggetto di testimonianze e di studi altamente qualificati. Riferirò due ricordi personali. G iovedì 26 giugno 1975: muore improvvisamente il fondatore dell’Opus Dei. È il dolore più grande della mia vita. La consegna è che nessuno si muova da dove sta: la nostra peculiarità è di sforzarci di santificare la quotidianità, quindi non vanno interrotti i compiti abituali. Fra l’altro, convenire a Roma dai quattro punti cardinali sarebbe anche contrario allo spirito di povertà. Venerdì 27, però, alle 10 di mattina, vengo chiamato a Roma per dare una mano all’ufficio stampa. Prendo un aereo e alle 13,45 (altri tempi, altri aerei) sono in viale Bruno Buozzi 75. La chiesa di Santa Maria della Pace è chiusa perché in quel momento stanno collocando nel feretro il corpo del fondatore che, durante le Messe ininterrotte dal giorno precedente, riposava a terra, su un tappeto davanti all’altare, con i paramenti sacerdotali. Poco dopo, la porta si apre ed esce don Álvaro. Mi vede, mi abbraccia, e sussurra: «Consummati in unum, consummati in unum». Tutti insieme, uniti nel dolore e nell’impegno di seguire le orme del fondatore. Non dimenticherò mai lo sguardo sereno, eppur velato, di don Álvaro, la fortezza e la pace che in quel momento irradiava. Davvero, ho pensato, egli è il capolavoro formativo del fondatore. S econdo ricordo. Nei primi anni Ottanta, don Álvaro, che ormai era «il Padre», mi fa chiamare a Roma per redigere un testo che lo interessava. Vado, mi metto alla macchina per scrivere (all’epoca il computer non aveva ancora preso il sopravvento) e lavoro. Consegno il testo al Padre, che lo approva, e insiste a baciarmi le mani, dicendo schezosamente: «So che tu scrivi direttamente a macchina, ma non mi pare il caso di baciare la macchina...». La gratitudine: ecco un’altra virtù che il beato Álvaro ha praticato incessantemente, anche in occasioni minime come quella mia. N ell’Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, che l’Ares pubblicò in prima edizione per la beatificazione di Josemaría Escrivá, chiesi a don Álvaro di dirci qualche cosa sul suo vincolo di filiazione con il fondatore. Egli raccontò alcuni aneddoti particolarmente espressivi, e concluse: «La mia ammirazione per la sua straordinaria carità verso Dio e verso il prossimo è cresciuta di giorno in giorno. Nei suoi confronti mi sento debitore, debitore insolvente». Ancora una volta, la gratitudine, quella che oggi, non solo noi che l’abbiamo conosciuto, sentiamo verso il nuovo Beato. Mons. Javier Echevarría, nella lettera che mensilmente rivolge ai membri della prelatura (ma che tutti possono leggere sul sito www.opusdei.it), ha scritto: «Ut in gratiarum semper actione maneamus! Uniamoci al permanente rendimento di grazie di san Josemaría in Cielo, ora per l’unità dell’Opera che abbiamo potuto toccare con mano durante la beatificazione dell’amatissimo don Álvaro: quanto più ringrazieremo il Signore, tanto più ci uniremo alla sua Santissima Volontà, sempre e in tutto. Rinnoviamo il desiderio di dare a Dio tutta la gloria, lottando con quotidiana determinazione per impiantare il regno di Cristo nella società, molto uniti al Papa, lasciandoci condurre a Gesù dalla Santissima Vergine, Madre nostra». C.C. 657 Madrid, Valdebebas Álvaro del Portillo, Beato 27 settembre 2014 N 660 Il 27 settembre 2014, a Madrid, è stato beatificato mons. Álvaro del Portillo, primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei. Erano presenti 18 cardinali, 160 vescovi, 300 sacerdoti e oltre duecentomila pellegrini giunti da ogni parte del mondo. In queste pagine, dopo la cronaca di Alessandro Rivali che fa rivivere il clima di festa e di gratitudine delle intense giornate madrilene, viene pubblicata la lettera che Papa Francesco ha inviato, per l’occasione, al Prelato dell’Opus Dei. A seguire, l’omelia del delegato pontificio, card. Angelo Amato, che ha presieduto la celebrazione, e l’omelia di mons. Echevarría nella Messa di ringraziamento del giorno successivo, sempre nel grande scenario di Valdebebas. o dejes de soñar. Non smettere di sognare. È l’insegna, a caratteri d’oro su campo nero e anche un po’ retrò, che accoglie i visitatori del «Giardino degli Angeli», un antico e celebre vivaio in Calle de Las Huertas, nel pulsantissimo cuore di Madrid. È un motto, una frase a effetto, ma potrebbe essere anche il refrain per la beatificazione di Álvaro del Portillo (Madrid, 1914 – Roma, 1994), avvenuta lo scorso 27 settembre a Valdebebas, alle porte della città, davanti a più di duecentomila persone dei più disparati angoli del globo. «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», insegnava Shakespeare e difficilmente potrà contraddirlo chi ha vissuto in diretta l’evento di Madrid: è stato una grande festa e un crocevia di sogni. Innanzitutto, il sogno compiuto di san Josemaría che dall’alto avrà abbracciato con la Chiesa il suo discepolo più fedele. Álvaro, infatti, fu uno dei primi a seguirlo per quel sentiero «aperto» con la na- scita dell’Opus Dei il 2 ottobre 1928, mentre suonavano le madrilene campane di Nostra Signora degli Angeli: per ricordare che la santità non è appannaggio di poche anime «elette» o fuori dal mondo, ma è possibile anche per il contadino, la colf, il banchiere o l’artista dal temperamento infiammato. Ma è stato anche il sogno coronato (nel senso del paradiso «certificato») di Álvaro, quel timido universitario con la passione per i numeri e l’ingegneria che, dopo aver ascoltato un paio di meditazioni di san Josemaría, il 7 luglio del 1935, decise di dare una nuova direzione alla propria vita. Da quel giorno la sua esistenza si sarebbe complicata, ma sarebbe stata irrimediabilmente più intensa, secondo la magna charta di ogni vocazione, descritta in Marco 16: «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratel- 27 settembre 2014: li e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna». Lasciare tutto per il Regno: del resto fu proprio questo il motto episcopale (Regnare Christum volumus!) scelto da Álvaro del Portillo al momento della consacrazione voluta da Giovanni Paolo II il 6 gennaio 1991. A Valdebebas questo motto giganteggiava sul palco della beatificazione con la riproduzione di un autografo del nuovo Beato. Il terzo sogno raggiunto è stato quello di tutti i pellegrini, dei devoti e degli amici del nuovo Beato. Perché se nella Chiesa si fa festa quando lo Spirito irrompe con un carisma nuovo, si festeggia con pari intensità quando il testimone del carisma viene trasmesso nella sua più integra e feconda ricchezza. E se un discepolo ha seguito bene il fondatore, anche altri discepoli potranno incamminarsi sulla stessa strada. È la santità dei numeri «due», come ha spiegato Francesco Ognibene su Avvenire nell’editoriale del 1° ottobre: «Tanto Escrivá abbagliava per la sua personalità straripante e contagiosa – un uomo, dissero in molti, “che seguirei in capo al mondo” – quanto don Álvaro era discreto, umile, lavoratore, l’ombra del fondatore al quale tutti guardarono un attimo dopo la morte del “Padre”, di un uomo cioè la cui santità era pressoché universalmente riconosciuta. Cercando la strada da seguire fu naturale volgersi a chi non vestiva i panni del numero uno ma l’indiscussa, tenace e persino oscura fedeltà del numero due. Il primo degli altri, il primo di noi che probabilmente non siamo fuoriclasse, ma servitori. La fedeltà di chi segue una strada aperta dalla grandezza altrui è la vera, grandissima santità della qua- Álvaro del Portillo Beato le ha urgente bisogno il nostro tempo: non solo prim’attori, ma gente che conosce il suo posto nel mondo, e sa servire dove Dio l’ha voluto». La santità passa per l’infinitamente piccolo. È l’esperienza di tutti i santi. Una giovane suora a Lisieux è diventata dottore della Chiesa raccomandando la «piccola via». E in anni recenti lo ha ricordato anche papa Benedetto XVI, per esempio, nella splendida omelia per la veglia di Natale 2005. I «luoghi» di don Álvaro I pellegrini per Álvaro del Portillo a Madrid hanno cercato, dalla brulicante Puerta del Sol agli ombrosi boulevards nelle vicinanze del Museo del Prado, i «piccoli segni» per cui è passata la vita di don Álvaro. Tappe naturalmente intrecciate con i primi passi dell’Opus Dei e con l’esistenza del suo fondatore. Un’ipotetica pole position delle fermate obbligate potrebbe vedere al primo posto gli edifici di via Santa Isabel (ai numeri civici 46, 48, 48 bis), non lontano da quella stazione di Atocha tristemente nota per gli attacchi terroristici dell’11 marzo 2004 che causarono ben 191 morti e 2057 feriti. Nella Casa del Rettore di via Santa Isabel san Josemaría visse dall’estate del 1934 all’agosto 1939. La chiesa contigua fu lo scenario di celebri episodi. Qui il giovane sacerdote ravvivò la sua umiltà di fronte a Dio scoprendo che un giovane lattaio entrava in chiesa ogni mattina dicendo semplicemente, ma con molta devozione: «Gesù, ecco qui Juan, il lattaio». Qui si innamorò di una piccola statua di 661 662 Gesù bambino del XVII secolo con le guancie rosse e le braccine incrociate. Qui, durante la novena all’Immacolata del 1931, nel ringraziamento successivo alla Messa, scrisse di getto il testo del Santo Rosario. Ma queste mura furono testimoni anche di decisive locuzioni divine. Forse la più nota è compendiata nel punto 933 di Cammino: «Le opere sono amore, non i bei ragionamenti». Fu lo stesso Josemaría a riportare sui propri Appunti intimi i retroscena dell’episodio: «16 febbraio 1932. Oggi, dopo aver dato la Santa Comunione alle monache, prima della Santa Messa, dissi a Gesù quello che tante e tante volte gli dico, di giorno e di notte: “Ti amo più di loro”. Immediatamente ho inteso, senza parole: “Le opere sono amore, non i bei ragionamenti”. Vidi subito con chiarezza quanto io sia poco generoso, e mi vennero alla mente molti particolari cui non pensavo né davo importanza, che mi fecero comprendere con molta evidenza la mia mancanza di generosità. O Gesù: aiutami, perché il tuo asinello sia completamente generoso. Opere, opere!». La storia «interiore» di Álvaro passò senza dubbio per Santa Isabel, per il Parco del Ritiro (tra i suoi viali san Josemaría infiammava le anime dei primi discepoli come del servo di Dio Isidoro Zorzano), come per altri luoghi di culto della città: la chiesa di san Giuseppe (via Alcalá, 43) dove fu battezzato il 17 marzo 1914; la parrocchia della Concezione di Nostra Signora (via Goya, 26) dove ricevette la prima comunione e la cresima; la parrocchia di san Roberto Bellarmino (via Veronica, 11) dove si prodigò per i più bisognosi. Però, fu un luogo laicissimo a innervare ancora più profondamente la sua vocazione. Fu l’ex Consolato dell’Honduras al primo piano del Paseo de la Castellana, 45. Erano i tempi della guerra civile spagnola. Quando imperversava la persecuzione religiosa e bastava essere trovati con un rosario in tasca o una medaglietta della Madonna al collo per essere messi al muro. Nel Consolato ripararono sia san Josemaría sia Álvaro. Si confidarono. Pregarono insieme. Sognarono una grande messe apostolica e quando si spensero gli ultimi bagliori della guerra, nel marzo del 1939, l’apostolato poté riprendere ai ritmi sospirati. «Vieni a Valdebebas & comincia a vivere» La grande festa per i tantissimi pellegrini giunti a Madrid è iniziata alle prime luci del 27 settembre: è la data in cui si ricorda san Vincenzo de’ Paoli. Curiosamente, anche Álvaro fu legato a questo santo: da giovane partecipò con entusiasmo alle iniziative della Società San Vincenzo rivolte ai più poveri e in una delle sue uscite rimediò un furibondo colpo di chiave inglese alla testa. In quegli anni di esasperato anticlericalismo, qualcuno mal tollerava iniziative così spiccatamente cristiane. Valdebebas è una zona periferica di Madrid, vicino alla Fiera e all’aeroporto di Barajas e accanto alla «cittadella» del Real Madrid (definita pomposamente la mejor ciudad deportiva del mundo, vanta 12 campi d’allenamento, studi televisivi e uno stadio da seimila posti, dove gioca la seconda squadra, dedicato al campione Alfredo di Stefano). Valdebebas doveva essere un’area di forte espansione, poi la crisi economica ha in buona misura 27 settembre 2014: paralizzato i lavori. Si è completata sinora solo la rete viaria che ha contribuito alla riuscita dell’evento: per chi non è stato a Madrid può trovare su Youtube la fisionomia della Valdebebas del futuro. Su uno dei cavalcavia vicini alla zona della celebrazione si osservava la gigantografia di un Tir con questo spot: «Ven a Valdebebas y empieza a vivir» («Vieni a Valdebebas e comincia a vivere»). Per i pellegrini, un avviso dalle molteplici risonanze... La lunghissima striscia d’asfalto che correva verso la zona A1, quella del palco della cerimonia e dei posti riservati agli anziani e ai disabili, si è presto riempita di colori, sotto lo sguardo delle nuvole un po’ arcigne, ma alla fine clementi: bandiere di ogni nazionalità (ma quanti sudamericani…), gonne quadrettate di impeccabili divise di ragazze provenienti da scuole single sex, i giubbetti blu con il bollino arancione degli infaticabili volontari, gli sgargianti abiti tubolari from Africa, i sari indiani e i sai degli ordini religiosi. Iniziative apostoliche in tutto il mondo Nel percorrere i viali si contavano avventure molto diverse. Pellegrini partiti dall’aeroporto di Verona per una toccata e fuga di poche ore, ragazzi kenyoti disposti a dormire per giorni sul pavimento della palestra di una scuola e sorbirsi più di dieci ore giornaliere di pullman per andare e tornare dal santuario di Fatima. Un gruppo di ragazze che ripercorrevano il loro repertorio chitarristico e la famiglia venuta a ringraziare don Álvaro per la guarigione di un figlio o la felice conclusione di una gra- Álvaro del Portillo Beato vidanza. E su don Álvaro specializzato in miracoli famigliari torneremo più avanti. Nel settore A1 si poteva trovare un variegato campionario di storie di dedizione. Silvia Quezada, per esempio, si è impegnata fin dagli anni Settanta con la Fondazione Siramà (El Salvador) per promuovere la dignità della donna in una zona particolarmente povera del Paese. Edgar Umaña è venuto dal Guatemala: fa parte del direttivo di Kinal, un centro educativo di avviamento professionale ai confini di una gigantesca baraccopoli. Ito Diejomaoh (Niger Foundation Hospital) presta gratuitamente cure mediche ad alcune comunità rurali nella regione di Enugu. Ma ci sarebbe da scrivere anche il profilo di Mario Minami (Centro Pedreira di San Paolo), Juan Humberto Salazar (Educar, Valle del Chalco in Messico) o Anabelle Brown (Developmental Advocacy for Women Volunteerism, Manila, Filippine) e di cento altri con loro… Don Álvaro, come prelato dell’Opus Dei, viaggiò moltissimo per accudire spiritualmente i suoi figli: sono stati calcolati 198 viaggi pastorali in 42 diversi Paesi per la bellezza di 408.082 km percorsi (per avere un’idea, è circa dieci volte la circonferenza del globo). Ma don Álvaro ebbe una speciale predilezione per i Paesi in via di sviluppo. È anche per soddisfare i suoi desideri di Padre che si è voluto chiedere ai pellegrini di Madrid un aiuto per quattro progetti molto specifici: la costruzione di un padiglione maternità per il Niger Foundation Hospital and Diagnostic Center (Nigeria), l’avvio di un programma per sradicare la malnutrizione infantile a Bingerville (Costa d’Avorio), lo sviluppo di quattro ambulatori in una zona difficile della Repubblica del Congo che permetterà di accudire diecimila 663 I grandi viali di Valdebebas gremiti di pellegrini. Nella pagina accanto, il piccolo cileno José Ignacio Ureta Wilson ascolta le ultime raccomandazioni della mamma mentre si accinge a recare sull’altare le reliquie del nuovo Beato. La guarigione di José Ignacio, riconosciuta miracolosa per intercessione di don Álvaro, avvenuta il 2 agosto 2003, ha concluso l’iter della beatificazione. bambini ogni anno e, infine, un buon numero di borse di studio per seminaristi africani che vogliano prepararsi al sacerdozio a Roma. La sterminata assemblea & l’altare Qualche immagine per ricostruire l’attesa della beatificazione. Intanto, in molti sono rimasti impressionanti dagli avveniristici confessionali che sembravano un’interminabile serie di vele da surf (si erano già usati per la GMG madrilena). E che peccato che il Corriere della sera abbia dedicato all’evento soltanto una gallery di foto con il maldestro titolo: «Madrid, confessione di massa per la beatificazione del numero due dell’Opus Dei». Poi, le scatole di cartone. Ossia le sedie «usa e getta» che hanno consentito a moltissimi di potersi sedere durante la cerimonia (le sedie in plastica erano solo nei primissimi settori). Qualche capogruppo ha anche usato le scatole, al posto dei più consueti ombrelli, per guidare il proprio piccolo gregge verso la zona asse- 664 gnata. Eroici quelli che si sono ritrovati con il biglietto dalla zona C in poi. Da quella posizione in giù era impossibile infatti anche scorgere il palco, complice la conformazione a schiena d’asino del vialone centrale di Valdebebas: questi fedelissimi di don Álvaro hanno benedetto la tecnologia dei tanti megaschermi che hanno garantito la «copertura» dell’evento. Qualche curiosità. Seicento persone da tutto il mondo hanno contribuito a preparare le vesti per i sacerdoti: dopo la beatificazione sono state offerte alle Chiese giovani o di Paesi perseguitati come l’Iraq, il Venezuela, le Filippine o l’Uganda. I giornalisti accreditati sono stati più di 300, da 18 Paesi diversi e più di 30 reti televisive hanno chiesto di poter trasmettere la cerimonia. Dopo la Spagna, lo Stato che ha contato il maggior numero di pellegrini è stato il Messico (3.175 iscritti), seguito dall’Italia (2.136 presenze, ma qualcuno si sarà «imbucato»…) e dalle Filippine (1.732 pellegrini). Da notare che hanno partecipato alla cerimonia anche persone provenienti da regioni in cui non è ancora presente il lavoro apostolico dell’Opus Dei come gli Emirati Arabi Uniti e Cuba. 27 settembre 2014: Uno zoom sul palco. L’altare, l’ambone e la sede del celebrante sono state le stesse della beatificazione dei martiri di Tarragona (13 ottobre 2013). Alla destra dell’altare la serigrafia (6 metri di altezza per 4,5 metri di larghezza) con il volto del nuovo Beato, a sinistra, invece, una bella immagine della Vergine dell’Almudena, la rassicurante patrona di Madrid. All’inizio della cerimonia il postulatore, don Javier Medina Bayo, ha letto un brano dal Decreto sulle virtù del Venerabile Servo di Dio (28-6-2012): «Il suo amore alla Chiesa si manifestava nella totale comunione con il Romano Pontefice e i vescovi: fu sempre figlio fedelissimo del Papa. Dando prova di un’adesione indiscussa alla sua persona e al suo magistero». Don Álvaro è stato un silenzioso servitore della Chiesa anche in periodi complicati, come durante il Concilio Vaticano II, quando, per esempio, dovette seguire i lavori per il Decreto Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita dei sacerdoti, che però fu approvato il 7 dicembre 1965 con solo quattro voti contrari sui 2.394 padri conciliari. Sul suo spirito di servizio, sono significative le parole dell’allora card. Ratzinger: «Ricordo la modestia e la disponi- Álvaro del Portillo Beato bilità in qualunque circostanza che caratterizzano il lavoro di mons. Del Portillo come consultore per la Congregazione della Dottrina della fede, istituzione che contribuì ad arricchire in modo singolare con la sua competenza ed esperienza, come ho avuto modo di comprovare personalmente» (Lettera al Vicario generale dell’Opus Dei, 23 marzo 1994). E a Valdebebas è stato tangibile vedere l’affetto della Chiesa per don Álvaro. Presenti 18 cardinali, 160 vescovi e 300 sacerdoti. Tra i cardinali, oltre al celebrante, il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, il card. Antonio Cañizares Llovera (prefetto della Congregazione per il Culto), l’arcivescovo emerito di Madrid, card. Carlos Amigo Vallejo, i cardinali Francesco Monterisi, George Pell, Gerhard Ludwig Müller (prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede), Jean-Louis Tauran (Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso), Juan Luis Cipriani, Julián Herranz, Robert Sarah (Presidente Pontificio consiglio «Cor unum»), Stanislaw Rylko (Presidente Pontificio consiglio per i Laici). E, ancora, gli arcivescovi di San Juan de Cuyo (Argentina), Lagos (Nigeria), Guayaquil (Ecuador), Cagayan de Oro (Filippine), Johannesburg (Sudafrica), Maracaibo (Venezuela), Kitui (Kenya), Maronita (Brasile), Kaisiadorys (Lituania), Ebibeyin (Guinea Equatoriale) e tantissimi altri. Naturalmente presente anche l’attuale prelato dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, che tra le migliaia di persone presenti è stato colui che più intensamente ha conosciuto la santità del nuovo Beato. Folta anche la rappresentanza delle autorità civili, come il ministro dell’Interno spagnolo, Jorge Fenández Díaz, e quello dell’Economia, Luis de Guindos, l’ex sindaco di Madrid, José María Martínez Alegre o gli ambasciatori di Colombia, Polonia, Svizzera, El Salvador. Il miracolo del piccolo José Ignacio La causa di beatificazione è iniziata nel marzo del 2004 dopo che più di duecento tra vescovi e cardinali ne hanno chiesto l’apertura: negli anni sono stati ascoltati ben 133 testimoni, tra cui 19 cardinali e 12 vescovi o arcivescovi e sono giunte 13.300 relazioni di favori attribuiti all’intercessione di don Álvaro. Il 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha dichiarato l’eroicità delle virtù di don Álvaro e la sua fama di santità. Lo «sprint» finale per la beatificazione è stato il miracolo del piccolo José Ignacio, riconosciuto da Papa Francesco il 5 luglio del 2013. Una storia sorprendente risalente al luglio 2003 in Cile. José Ignacio nasce dopo una gravidanza travagliata. In passato gli era stata diagnosticata un’ernia a livello ombelicale, ma la situazione si complica in 665 Lunghe file sorridenti ai confessionali e molta devozione nel distribuire e nel ricevere la Comunione. 666 modo vertiginoso dopo la nascita. Il cuore di José Ignacio fa le bizze. Deve essere operato: all’ernia e al cuore. Il 2 agosto sopraggiunge un’emorragia devastante al pericardio. Il cuore smette di battere per mezz’ora. Sembra tutto finito. Così la madre ha raccontato quelle drammatiche circostanze in un’intervista reperibile su www.opusdei.it: «I medici lo stavano dando per morto, perché non reagiva al massaggio cardiaco né al resto. Ma quando stavano per desistere, il cuore di José Ignacio ha ricominciato a battere. L’emorragia comunque era stata massiva. Ricordo che fu il dottor Felipe Heusser, cardiologo dell’Università cattolica, che ci disse che José Ignacio aveva recuperato la frequenza cardiaca, ma aveva avuto un’emorragia nella zona del pericardio e intorno al rene. Siamo andati a vederlo e il suo colore era spettrale, provammo una gran pena. Le unghie sembravano viola: come mi spiegarono era una conseguenza della mancanza di ossigeno. Per tutto il giorno le preghiere furono intense». Nonostante il parere dei medici e grazie alla preghiera incessante dei genitori a don Álvaro, il cuore di José Ignacio si stabilizzò e riprese a fare il suo dovere. La madre ha spiegato ancora: «Ricordo che il medico di turno ci disse che il dottor Heusser era venuto a chiedere a che ora della notte era morto José Ignacio. È un dettaglio che mi è rimasto impresso, perché è la stessa cosa che il medico chiese al padre di san Josemaría quando ebbe una grave malattia da bambino. Il dottor Heusser mi confermò di non aver mai pensato che il bambino avrebbe potuto sopravvivere. Ripeteva costantemente quanto sorprendente fosse il recupero. Ci chiese chi avevamo pregato...». Adesso José Ignacio è un bambino come tanti altri, innamorato del calcio, che tifa per il Colo-Colo, ma che ha una particolare predilezione per Alexis Sánchez e Lionel Messi. E, puntualizza ancora la madre: «Gli piace anche il tennis, non si stanca mai di ballare: ama la musica e ogni tanto a casa canta canzoni inventate da lui e balla seguendo i ritmi più diversi. Al matrimonio di sua zia stette tutto il tempo a ballare fino a quando la festa non finì...». Uno dei momenti più emozionanti del 27 settembre è stato quando José Ignacio con la sua giacca blu e i pantaloni bianchi, e accompagnato da mamma Susana e papà Javier, ha portato vicino all’altare il reliquiario con qualche goccia del sangue di don Álvaro. Organizzazione impeccabile & professionalità del coro La celebrazione è iniziata con le note del canto Mi alma bendice al Señor: all’interno di un’organizzazione impeccabile, è spiccata la professionalità del coro: 250 voci coordinate da Marina Makhmoutova, che aveva avuto già questo incarico per la Giornata Mondiale della gioventù di Madrid. Tra le «sorprese» riservate agli organizzatori, una lunga lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus Dei imperniata su una frase cara a don Álvaro: «Mi piace ricordare la giaculatoria che il servo di Dio era solito ripetere, specialmente nelle feste e negli anniversari personali: “Grazie, perdono, aiutami di più!”. Sono parole che ci avvicinano alla realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare nuovo slancio alla nostra vita cristiana». Tra gli altri interessanti «fuori programma» del 27 settembre, anche un articolo molto positivo del 27 settembre 2014: Washington Post a firma di John Allen, che negli anni scorsi aveva dedicato più di un anno di lavoro a un’inchiesta confluita nel libro Opus Dei: An Objective Look Behind the Myths and Reality of the Most Controversial Force in the Catholic Church (tradotto in Italia da Sperling). Il card. Amato nella sua omelia ha ripercorso gli snodi dell’esistenza del nuovo Beato, soffermandosi sulla sua umiltà: «C’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario, ritenendola uno strumento indispensabile di santità e di apostolato: la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva da alcuni semplici atti di devozione popolare, come, per esempio, salire in ginocchio la Scala Santa a Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala Santa perché si considerava un cristiano maturo e ben formato, il nostro Beato rispose con un sorriso, aggiungendo che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria pesante per la molta gente e la scarsa ventilazione. Fu una grande lezione di semplicità e di pietà. Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore Gesù, che non era venuto per essere servito ma per servire. Per questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico Adoro Te devote, latens deitas. Così come rifletteva sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas Ejemplares: “Sin humildad, no hay virtud que lo sea” (“Senza umiltà non c’è vera virtù”). E spesso pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei: “Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies”. Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era la casa della carità. Ripeteva un consiglio Álvaro del Portillo Beato che dava spesso il fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di san Giuseppe Calasanzio: “Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo”». Alla Comunione sono apparsi gli ormai consueti ombrelli bianchi o gialli portati dai volontari per individuare con più facilità i sacerdoti, ed eventualmente ripararli dalla pioggia. Come era già accaduto per la beatificazione e la canonizzazione di san Josemaria, il momento è stato contraddistinto da un raccoglimento impressionante. Uno dei mille volti della festa per don Álvaro. Tra l’altro, moltissimi conventi della Spagna hanno fornito le ostie necessarie e, nei giorni precedenti la beatificazione, il comitato organizzatore si è visto recapitare una gigantesca cassa proveniente da una comunità di Elche, contenente ventimila particole. Era accompagnata da una sola frase: «Per ringraziare don Álvaro». La gratitudine del Prelato Prima della conclusione della cerimonia, mons. Javier Echevarría si è così confidato all’assemblea: «Al termine di questa celebrazione desidero manifestare la mia più profonda gratitudine alla Santissima Trinità per il dono che oggi ha fatto a tutta la Chiesa. La elevazione agli altari di don Álvaro del Portillo, successore di san Josemaría Escrivá, ci ricorda ancora una volta la chiamata universale alla santità, proclamata con grande forza dal Concilio Vaticano II. L’itinerario terreno del beato Álvaro ci dimostra che il perfetto compimento dei propri doveri contrassegna il cammino della santificazione personale, la via che conduce alla piena unione con Dio, alla quale tutti dobbiamo aspirare». 667 Intorno alle 14 di sabato la gratitudine era il sentimento che traboccava sul volto dei duecentomila pellegrini. La fiumana delle persone si è poi dispersa in modo ordinato sul perfetto asfalto di Valdebebas. I più fortunati sono stati quelli che «sfidando» gli organizzatori sono riusciti a parcheggiare a meno di mezz’ora a piedi dall’area riservata all’evento. In tanti si sono poi dati appuntamento nella caotica movida madrilena. Ogni pellegrino ha continuato a celebrare il gran giorno a modo suo. Chi davanti a una cerveza ghiacciata, chi scegliendo una varietà di prosciutto sui tavolini del Museo del Jamón, chi in- zuppando i churros fritti nella cioccolata di un antico locale accanto a Plaza Major (la leggendaria Chocolateria San Gines). Ognuno con il proprio racconto della beatificazione, che difficilmente potrà essere cancellato dalla memoria. Tutti con la consapevolezza di aver toccato con mano un ricorrente incoraggiamento di san Josemaría: «Sonad y os quedereis cortos». «Sognate e la realtà supererà i vostri sogni più audaci». È questa, in fondo, la sintesi di don Álvaro. Il saxum, così amava chiamarlo san Josemaría, che continua a indicare il buon cammino. Alessandro Rivali «Grazie, perdono, aiutami di più» Lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus Dei In occasione della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo, Papa Francesco ha inviato a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, questa lettera che il vicario generale dell’Opera, mons. Fernando Ocáriz, ha letto all’inizio della cerimonia. Nella foto, il Papa e il Prelato al termine dell’udienza del 1° ottobre in Piazza San Pietro. Caro fratello, la beatificazione del servo di Dio Álvaro del Portillo, collaboratore fedele e primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei, è un momento di gioia speciale per tutti i fedeli della prelatura, come pure per te, che sei stato così a lungo testimone del suo amore a Dio e agli altri, della sua fedeltà alla Chiesa e alla propria vocazione. Desidero unirmi anch’io alla vostra gioia e rendere grazie a Dio che adorna il volto della Chiesa con la santità dei suoi figli. La sua beatificazione avverrà a Madrid, la città in cui nacque e in cui trascorse l’infanzia e la giovinezza, con un’esistenza forgiata nella semplicità della vita famigliare, nell’amicizia e nel servizio agli altri, come quando si recava nei quartieri estremi per collaborare alla formazione umana e cristiana di tante persone bisognose. Lì, soprattutto, ebbe luogo l’evento che segnò definitivamente l’indirizzo della sua vita: l’incontro con san Josemaría Escrivá, dal quale imparò a innamorarsi di Cristo ogni giorno di più. Sì, innamorarsi di Cristo. Questo è il cammino di santità che deve percorrere ogni cristiano: lasciarsi amare dal Signore, aprire il cuore al suo amore e permettere che sia lui a guidare la nostra vita. Mi piace ricordare la giaculatoria che il servo di Dio era solito ripetere, specialmente nelle feste e negli anniversari personali: «Grazie, perdono, aiu- 668 tami di più!». Sono parole che ci avvicinano alla realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare nuovo slancio alla nostra vita cristiana. Anzitutto, grazie. È la reazione immediata e spontanea che prova l’anima dinanzi alla bontà di Dio. Non può essere altrimenti. Egli ci precede sempre. Per quanto ci sforziamo, il suo amore giunge sempre prima, ci tocca e ci accarezza per primo, è primo sempre. Álvaro del Portillo era consapevole dei tanti doni che Dio gli aveva concesso e lo ringraziava per quella dimostrazione di amore paterno. Però, non si fermò lì; il riconoscimento dell’amore 27 settembre 2014: del Signore risvegliò nel suo cuore desideri di seguirlo con maggiore dedizione e generosità e di vivere una vita di umile servizio agli altri. Era notorio il suo amore per la Chiesa, sposa di Cristo, che servì con un cuore spoglio di interessi mondani, alieno alla discordia, accogliente con tutti e sempre alla ricerca del buono negli altri, di ciò che unisce, che edifica. Mai un lamento o una critica, nemmeno in momenti particolarmente difficili, piuttosto, come aveva imparato da san Josemaría, rispondeva sempre con la preghiera, il perdono, la comprensione, la carità sincera. Perdono. Confessava spesso di vedersi davanti a Dio con le mani vuote, incapace di rispondere a tanta generosità. Peraltro, la confessione della povertà umana non è frutto della disperazione, ma di un fiducioso abbandono in Dio che è Padre. È aprirsi alla sua misericordia, al suo amore capace di rigenerare la nostra vita. Un amore che non umilia, non fa sprofondare nell’abisso della colpa, ma ci abbraccia, ci solleva dalla nostra prostrazione e ci fa camminare con più decisione e allegria. Il servo di Dio Álvaro conosceva bene il bisogno che abbiamo della misericordia divina e spese molte energie per incoraggiare le persone con cui entrava in contatto ad accostarsi al sacramento della confessione, sacramento della gioia. Com’è importante sentire la tenerezza dell’amore di Dio e scoprire che c’è ancora tempo per amare. Aiutami di più. Sì, il Signore non ci abbandona mai, ci sta sempre accanto, cammina con noi e ogni giorno attende da noi un amore nuovo. La sua grazia non ci verrà a mancare e con il suo aiuto possiamo portare il suo nome in tutto il mondo. Nel cuore del nuovo beato pulsava l’anelito di portare la Buona Novella a tutti i cuori. Percorse così molti Paesi dando impulso a progetti di evangelizzazione, senza preoccuparsi delle difficoltà, spronato dal suo amore a Dio e ai fratelli. Chi è profondamente immerso in Dio sa stare molto vicino agli uomini. La prima condizione per annunciare loro Cristo è amarli, perché Cristo li ama già prima. Dobbiamo uscire dai nostri egoismi e dai nostri comodi e andare incontro ai nostri fratelli. Lì ci attende il Signore. Non possiamo tenere la fede per noi stessi, è un dono che abbiamo ricevuto per donarlo e condividerlo con gli altri. Grazie, perdono, aiutami! In queste parole si esprime la tensione di una vita centrata in Dio. Di chi è stato toccato dall’Amore più grande e di quell’amore vive totalmente. Di chi, pur avendo l’esperienza delle debolezze e dei limiti umani, confida nella misericordia del Signore e vuole che tutti gli uomini, suoi fratelli, ne facciano anch’essi l’esperienza. Caro fratello, il beato Álvaro del Portillo ci invia un messaggio molto chiaro, ci dice di fidarci del Signore, che egli è il nostro fratello, il nostro amico che non ci defrauda mai e che sta sempre al nostro fianco. Ci incoraggia a non temere di andare controcorrente e di soffrire per l’annuncio del Vangelo. Ci insegna infine che nella semplicità e nella quotidianità della nostra vita possiamo trovare un cammino sicuro di santità. Chiedo, per favore, a tutti i fedeli della prelatura, sacerdoti e laici, e a tutti i partecipanti alle vostre attività, di pregare per me, mentre impartisco la Benedizione Apostolica. Gesù vi benedica e la Santa Vergine vi protegga. Fraternamente, Francesco «L’umiltà apre la porta della santità» Omelia del card. Angelo Amato nella Messa di beatificazione «Pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa» è questo il ritratto che Papa Francesco fa del beato Álvaro del Portillo, pastore buono, che, come Gesù, conosce e ama le sue pecore, conduce all’ovile quelle smarrite, fascia le ferite di quelle malate, offre la vita per loro (cfr Ez 34, 11-16; Gv 10,11-16). Il nuovo Beato, da giovane fu chiamato alla sequela di Cristo per essere dopo zelante ministro della Chiesa e per manifestare a tutti la gloriosa ricchezza del suo mistero salvifico: «È lui [Cristo] che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza Álvaro del Portillo Beato che viene da lui e che agisce in me con potenza» (Col 1, 28-29). E la proclamazione di Cristo salvatore egli la fece con una modalità di assoluta fedeltà alla croce e, allo stesso tempo, di esemplare letizia evangelica nelle difficoltà. Per questo oggi la liturgia gli applica le parole dell’apostolo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che nella mia carne manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24). La letizia nelle prove e nelle sofferenze è una caratteristica dei santi. Del resto le beatitudini, anche quelle più ardue come le persecuzioni, non sono altro che un inno alla gioia. 669 Il card. Angelo Amato accoglie i doni all’offertorio della Messa di beatificazione. Sono molte le virtù – come la fede, la speranza, la carità – che il nostro Beato visse con eroismo. Ma questi suoi abiti virtuosi egli li interpretò alla luce delle beatitudini della mitezza, della misericordia, della purezza di cuore. Le testimonianze sono concordi al riguardo. Oltre all’estrema sintonia spirituale e apostolica con il suo santo Fondatore, anch’egli fu una figura di grande umanità. I testimoni affermano che, fin da piccolo, Álvaro era un ragazzo di carattere allegro e studioso, che mai diede problemi («un chico de carácter muy alegre y muy estudioso, que nunca dio problemas»); era simpatico, semplice, gioioso, responsabile, buono («Era cariñoso, sencillo, alegre, responsable, bueno»)1. Dalla mamma Donna Clementina aveva ereditato la proverbiale serenità, la delicatezza, il sorriso, la comprensione, l’attenzione a dir bene delle persone, l’equilibrio nel giudizio. Era un autentico gentiluomo. Non era verboso. La sua formazione scientifica di ingegnere gli permettevano rigore mentale, concisione e precisione per andare subito al cuore dei problemi e risolverli. Ciò incuteva rispetto e ammirazione. Alla squisitezza del tratto univa una eccezionale ricchezza spirituale, nella quale dominava la grazia dell’unità tra vita interiore e instancabile apostolato. Lo scrittore Salvador Bernal afferma che egli trasforma- 670 va in poesia l’umile prosa del lavoro quotidiano2. Era esempio vivente di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa, al magistero del Papa. Trovandosi nella basilica di San Pietro, a Roma, era solito recitare il Credo presso la tomba dell’Apostolo e una Salve Regina davanti all’immagine di Maria, Mater Ecclesiae. Rifuggendo da ogni personalismo, comunicava più che i suoi pareri, la verità del Vangelo e l’integrità della tradizione. La sua vita spirituale era nutrita di pietà eucaristica, di devozione mariana e di venerazione dei santi. Frequenti giaculatorie e preghiere vocali rendevano viva e continua la presenza di Dio. Abituali erano le invocazioni: Cor Iesu Sacratissimum et Misericors, dona nobis pacem!, come anche Cor Mariae Dulcissimum, iter para tutum. Continue erano le invocazioni mariane, come Santa Maria, speranza nostra, ancella del Signore, sede della Sapienza. Portatore del «buon profumo di Cristo» Una tappa decisiva della sua vita fu la chiamata all’Opus Dei. A 21 anni, nel 1935, dopo aver incontrato l’allora trentatrenne san Josemaría Escrivá de Balaguer, rispose generosamente alla chiamata del Signore, che per lui significava anche una vocazione alla santità e all’apostolato. Aveva un profondo sentimento di comunione filiale, affettiva ed effettiva con 27 settembre 2014: il Santo Padre, del quale accoglieva con riconoscenza il magistero, facendolo conoscere a tutti i fedeli dell’Opus. Negli ultimi anni della sua vita baciava spesso l’anello prelatizio che gli era stato regalato dal Papa, per confermare la sua piena adesione ai desideri del Sommo Pontefice, quando soprattutto chiedeva la preghiera e il digiuno per la pace, per l’unità dei cristiani, per l’evangelizzazione dell’Europa. Appartenevano al suo abito virtuoso gli atteggiamenti di prudenza e rettitudine nel valutare gli eventi e le persone; di giustizia nel rispetto dell’onore e della libertà delle persone; di fortezza nel resistere alle avversità fisiche e morali; di temperanza, vissuta come sobrietà, mortificazione interiore ed esteriore. Il nostro Beato fu portatore del buon profumo di Cristo (bonus odor Christi: 2 Cor 2, 15), profumo di santità autentica. Ma c’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario, ritenendola uno strumento indispensabile di santità e di apostolato: la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva da alcuni semplici atti di devozione popolare, come, per esempio, salire in ginocchio la Scala Santa a Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala Santa perché si considerava un cristiano maturo e ben formato, il nostro Beato rispose con un sorriso, aggiungendo che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria pesante per la molta gente e la scarsa ventilazione3. Fu una grande lezione di semplicità e di pietà. Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore Gesù, che non era venuto per essere servito ma per servire. Per questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico Adoro Te devote, latens deitas. Così come rifletteva sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas Ejemplares: «Sin humildad, no hay virtud que lo sea» («Senza umiltà non c’è vera virtù»)4. E spesso pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei: «Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies». Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era la casa della carità5. Ripeteva un consiglio che dava spesso il Fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di san Giuseppe Calasanzio: «Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo». Non dimenticava nemmeno che era stato un asino il trono di Gesù all’entrata in Gerusalemme. Anche i suoi compagni di studi, oltre a rilevare la sua straordinaria intelligenza, ne mettono in risalto la semplicità, l’innocenza serena di chi non ha alcun complesso di superiorità nei confronti del prossimo. Riteneva come suo peggior nemico la superbia. Un testimone afferma che era l’umiltà in persona6. Álvaro del Portillo Beato Si trattava non di una umiltà aspra, appariscente, esasperata, ma amabile, gioiosa. La sua letizia derivava dalla convinzione di non valere molto. All’inizio del 1994, ultimo anno della sua vita terrena, in una riunione disse: «Lo dico a voi e lo dico a me stesso. Occorre lottare tutta la vita per giungere a essere umili. Abbiamo la scuola meravigliosa di umiltà del Signore, della Santissima Vergine e di san Giuseppe. Dobbiamo imparare. Dobbiamo lottare contro il proprio io che si alza costantemente come una vipera, per mordere. Ma siamo sicuri, se rimaniamo vicino a Gesù che è della stirpe di Maria, ed è lui che schiaccerà la testa del serpente» («Os lo digo a vosotros, y me lo digo a mí mismo. Tenemos que luchar tota la vida para llegar a ser humildes. Tenemos la escuela maravillosa de humildad del Señor, de la Santísima Virgen y de San José. Vamos a aprender. Vamos a luchar contra el proprio yo que está constantemente alzándose como una víbora, para morder. Pero estamos seguros si estamos cerca de Jesús que es del linaje de María, y es el que aplastará la cabeza de la serpiente»7). Per lui l’umiltà era la chiave per aprire la porta della santità, mentre la superbia era il grande ostacolo per vedere e amare Dio. Diceva: «L’umiltà ci sottrae la maschera di cartone, ridicola, che portano le persone presuntuose soddisfatte di se stesse» («La humildad nos arranca la careta de cartón, ridícula, que llevan las personas presuntuosas, pagadas de sí mismas»8). L’umiltà è il riconoscimento dei nostri limiti ma anche della nostra dignità di figli di Dio. Il miglior elogio della sua umiltà lo scrisse una signora appartenente all’Opus, dopo la morte del Fondatore: «Chi è morto è stato don Álvaro, perché il nostro Padre continua a vivere nel suo successore» («El que ha muerto ha sido D. Álvaro, porque nuestro Padre sigue vivo en su sucesor9»). «Pastore secondo il cuore di Gesù» Un cardinale testimonia che quando leggeva il tema dell’umiltà nella Regola di San Benedetto o negli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, gli sembrava di contemplare un ideale altissimo, inarrivabile all’essere umano. Ma quando incontrò e conobbe il nostro Beato capì che l’umiltà spinta fino alla radice era possibile. Si possono applicare al nostro Beato le parole che l’allora cardinale Ratzinger pronunciò nel 2002 in occasione della canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei. Parlando della virtù eroica, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede disse: «Virtù eroica propriamente non significa che uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché lui è 671 stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio [...]. Questa è la santità10». È questa la consegna che fa a noi oggi il beato Álvaro del Portillo «pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa». Ci invita a essere santi come lui, vivendo una santità amabile, misericordiosa, gentile, mite e umile. La Chiesa e il mondo hanno bisogno del grande spettacolo della santità, per bonificare, con il suo buon profumo, i miasmi dei tanti vizi ostentati con arrogante insistenza. Abbiamo oggi più che mai bisogno di una ecologia della santità, per contrastare l’inquinamento del malcostume e della corruzione. I santi ci invitano a immettere nel seno della Chiesa e della società l’aria pura della grazia di Dio, che rinnova la faccia della terra. Maria Ausiliatrice dei cristiani e Madre dei santi ci aiuti e ci protegga. Beato Álvaro del Portillo, prega per noi. Amen. Card. Angelo Amato Prefetto della Congregazione per le Cause dei santi Positio (2010) I p. 27. Ivi, p. 30. Ivi. p. 662. Ivi, p. 663. 5 Agostino, De sancta virginitate, 51. 6 Ib. p. 668. 7 Positio I p. 675. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 705. 10 Ivi, p. 908. «La fedeltà è il nome dell’amore» Omelia del Prelato dell’Opus Dei alla Messa di ringraziamento «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»: «Ut diligatis invicem, sicut dilexi vos» (Gv 15, 12). Cari fratelli e sorelle, queste parole del Vangelo risuonano oggi nella mia anima come una gioia nuova, considerando che la gente che ieri affollava questo luogo, in piena comunione con Papa Francesco e con quanti ci erano vicini dai quattro punti cardinali, non era propriamente una folla ma la riunione di una famiglia unita dall’amore di Dio e dall’amore mutuo. Questo stesso amore oggi diventa ancora più forte nell’Eucarestia, in questa Messa di ringraziamento per la beatificazione del carissimo don Álvaro, vescovo, prelato dell’Opus Dei. Il Signore, nell’istituire l’Eucarestia, rese grazie a Dio Padre per la sua eterna bontà, per la creazione uscita dalle sue mani, per il suo misterioso disegno di salvezza. E noi lo ringraziamo di quell’amore infinito manifestato sulla Croce e anticipato nel Cenacolo. E chiediamo al Signore: come dobbiamo fare per amare come tu ci hai amato? Per amare come tu hai amato Pietro e Giovanni, ciascuno di noi, e anche san Josemaría e il beato Álvaro? Guardando alla vita santa di don Álvaro, scopriamo la mano di Dio, la grazia dello Spirito Santo, il dono di un amore che ci trasforma. E accogliamo nel profondo dell’anima, facendola nostra, quella preghiera di san Josemaría che tante volte ripeté il nuovo Beato: «Dammi, Signore, l’Amore con cui vuoi che io ti ami1», affinché io sappia amare gli altri con il tuo Amore e con il mio po- 672 vero sforzo. Allora gli altri scopriranno nella mia vita la bontà di Dio, come avvenne nel cammino quotidiano di don Álvaro: in questa Madrid tanto amata nella sua solidarietà con i più poveri e abbandonati si percepiva la misericordia divina. Ci riempie di gioia che nella seconda lettura della Messa ci sia stata ricordata la presenza di Cristo in noi, che ci riveste «di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità» (Col 3, 12). «Dio ci amava ancor prima che nascessimo» Cari fratelli e sorelle, ringraziamo Iddio chiedendogli ancora più amore. Nella maturità della giovinezza, quando aveva 25 anni, don Álvaro era già «saxum», una roccia, per san Josemaría. Con la sua umiltà, un giorno scrisse in una lettera al Fondatore dell’Opus Dei queste parole: «Io nutro l’aspirazione che, malgrado tutto, Lei possa fidarsi di uno che, più che roccia, è fango privo di ogni solidità. Ma il Signore è tanto buono!2». Tale sicurezza nella bontà divina può impregnare anche tutta la nostra esistenza. «Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà», abbiamo ripetuto con il Salmo responsoriale (Sal 138 [137], 2). E innalziamo la nostra gratitudine alla Santissima Trinità perché resta con noi con la sua Parola, Gesù stesso (cfr Col 3, 16), e con il suo Spirito, che ci colma di gioia (cfr Gv 15, 11; Lc 11, 13) e ci permette di rivolgerci a 27 settembre 2014: Mons. Javier Echevarría ha presieduto la Messa di ringraziamento il 28 settembre. Al suo fianco, il card. Salvatore De Giorgi. Dio, pieni di fiducia, chiamandolo «Abba, Pater»: «Padre! papà!». «La trinità della terra ci condurrà alla Trinità del Cielo3», ripeteva don Álvaro seguendo gli insegnamenti e l’esperienza del Fondatore dell’Opus Dei. Gesù, Maria e Giuseppe ci guidano al Padre e allo Spirito Santo; nella santa umanità di Cristo scopriamo la divinità, inseparabilmente unita a essa4. La Sacra Famiglia! Con le parole della prima lettura, benediciamo il Signore «che fa crescere i nostri giorni fin dal seno materno, e agisce con noi secondo la sua misericordia» (Sir 50, 24). Il testo sacro ci fa presente che Dio ci amava ancor prima che nascessimo. Mi vengono in mente i versi che Virgilio indirizza a un neonato: «Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem» (Virgilio, Egloga IV, 60): «Incomincia, piccolo bambino, a riconoscere tua madre dal sorriso». Il neonato scopre l’universo a poco a poco; nel volto di sua madre, pieno d’amore, in quel sorriso che lo accoglie, l’esserino appena venuto al mondo scopre un riflesso della bontà di Dio. Nella giornata odierna che il Santo Padre Francesco ha dedicato alla preghiera per la famiglia, anche noi ci uniamo alle suppliche di tutta la Chiesa per quella «communio dilectionis», quella «comunione d’a- Álvaro del Portillo Beato more5», quella «scuola6» del Vangelo, la famiglia, come diceva Paolo VI a Nazareth. La famiglia, con il «dinamismo interiore profondo dell’amore7», ha una grande «fecondità spirituale8», come insegnò san Giovanni Paolo II, a cui il beato Álvaro era unito da una filiale amicizia. Nel ringraziare don Álvaro, ringraziamo i suoi genitori che lo hanno accolto ed educato, che hanno preparato in lui un cuore semplice e generoso pronto a ricevere l’amore di Dio e rispondere alla sua chiamata. «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Don Álvaro è stato così: un uomo che con il sorriso sulle labbra benediceva Dio che «compie grandi cose» (Sir 50, 24), e che si è servito di lui per il servizio della Chiesa, estendendo l’Opus Dei, come fedele figlio e successore di san Josemaría. Preghiamo affinché molte famiglie siano «focolari... luminosi e allegri, come quello della Sacra Famiglia9», citando parole di san Josemaría. La nostra gratitudine si innalza a Dio per il dono della famiglia, riflesso dell’eterno amore trinitario, luogo in cui ognuno sa di essere amato per sé stesso, così com’è. E ringraziamo adesso anche tutti i padri e le madri di famiglia qui riuniti, e tutti coloro che si occupano dei bambini, degli anziani, dei malati. Famiglie: il Signore vi ama, il Signore è presente nel vostro matrimonio, che è un’immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. So che voi, molti 673 Don Javier Medina Bayo, Postulatore della Causa di beatificazione, ha letto un brano del Decreto sulle virtù eroiche di mons. Álvaro del Portillo. di voi, vi dedicate generosamente a sostenere altri coniugi nel cammino della fedeltà, che aiutate molti altri focolari ad andare avanti in un contesto sociale spesso difficile o addirittura ostile. Coraggio! Il vostro impegno nella testimonianza e nell’evangelizzazione è necessario per tutto il mondo. Ricordatevi quello che ha detto l’amato Benedetto XVI: «La fedeltà nel tempo è il nome dell’amore10». «Trasmettere ciò che abbiamo ricevuto» «Siate riconoscenti» è l’esortazione di san Paolo (Col 3, 15). Il beato Álvaro, pensando a quanto doveva a san Josemaría, affermava che «la migliore manifestazione di riconoscenza è fare buon uso dei doni ricevuti11». Nella sua predicazione, nelle tertulie, in incontri personali, dappertutto, non tralasciava mai di parlare di apostolato e di evangelizzazione. Per perseverare nell’amore di Dio che abbiamo ricevuto, dobbiamo condividerlo con gli altri; la bontà di Dio tende a diffondersi. Papa Francesco diceva che «nella preghiera il Signore ci fa sentire questo amore, ma anche attraverso tanti segni che possiamo leggere nella nostra vita, tante persone che mette sul cammino. E la gioia dell’incontro con Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa12». «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Il Signore, dopo aver ribadito che l’iniziativa è sempre sua, nel primato del suo amore ci manda a diffondere il suo amore per tutte le creature: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (ibidem). «Manete in dilectione mea»: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Rimanere nel Signore è necessario per dare un frutto capace di affondare, a sua volta, delle radici profonde. 674 Gesù lo ha appena detto ai suoi discepoli: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (Gv 15, 4). La folla di questi giorni, i milioni di persone in tutto il mondo, e tante altre che ci aspettano già in Cielo, testimoniano all’unisono la fecondità della vita di don Álvaro. Vi invito, sorelle e fratelli, a restare, a operare nell’amore del Signore: nell’orazione, nella Messa e nella Comunione frequente, nella Confessione sacramentale, affinché tutti noi, fortificati dalla predilezione divina, sappiamo trasmettere ciò che abbiamo ricevuto, e sappiamo farlo attraverso un autentico apostolato di amicizia e confidenza. Nella lettera che l’amato Papa Francesco mi ha scritto in occasione della beatificazione di ieri, ci diceva che «non possiamo tenere la fede per noi stessi, è un dono che abbiamo ricevuto per donarlo e condividerlo con gli altri13»; e aggiungeva che il beato Álvaro «ci incoraggia a non aver paura di andare controcorrente e di soffrire per annunciare il Vangelo», e inoltre «ci insegna che nella semplicità e quotidianità della nostra vita possiamo trovare un cammino sicuro di santità14». In questo cammino, assieme a molti angeli, ci accompagna la Santissima Vergine. Maria è Figlia di Dio Padre, Madre di Dio Figlio, Sposa e Tempio di Dio Spirito Santo. È Madre di Dio e Madre nostra, la Regina della famiglia e la Regina degli apostoli. Che Lei ci aiuti, come ha fatto con il beato Álvaro, a seguire l’invito del Successore di Pietro: «Lasciarsi amare dal Signore, aprire il cuore al suo amore e permettere che sia lui a guidare la nostra vita15», come chiese tante volte san Josemaría alla Vergine dell’Almudena, molto amata e venerata in questa arcidiocesi. Così sia. Mons. Javier Echevarría Prelato dell’Opus Dei 1 San Josemaría Escrivá, Forgia, n. 270. Beato Álvaro del Portillo, Lettera a san Josemaría, Olot, 13 luglio 1939. 3 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 30 settembre 1975. 4 Cfr Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale in occasione delle Nozze d’Oro della fondazione dell’Opus Dei, 24 settembre 1978. 5 Venerabile Paolo VI, Allocuzione a Nazareth, 5 gennaio 1964. 6 Ibidem. 7 San Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale «Familiaris consortio», n. 41. 8 Ibidem. 9 San Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 22. 10 Benedetto XVI, Omelia a Fatima, 12 maggio 2010. 11 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 1 luglio 1985. 12 Francesco, Discorso, Aula Paolo VI, 6 luglio 2013. 13 Francesco, Lettera a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, in occasione della beatificazione di Álvaro del Portillo celebrata a Madrid il 27 settembre 2014. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 2 27 settembre 2014: Tavola rotonda romana Analisi della biografia/1 J Il primo successore di san Josemaría Il volume di Javier Medina Bayo Álvaro del Portillo. Primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano 2014, pp. 760, euro 22) ha fornito lo spunto per un approfondimento non solo biografico sulla figura del nuovo Beato. Alla tavola rotonda del 18 settembre 2014, nell’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce, moderata da Cesare Cavalleri, hanno preso la parola, dopo il saluto del prelato dell’Opus Dei, il card. Francesco Monterisi (foto), padre Antonio Maria Sicari, la sen. Emma Fattorini e la prof. Maria Vittoria Marini Clarelli, i cui interventi sono pubblicati in queste pagine. Da p. 688, gli interventi della tavola rotonda milanese. avier Medina Bayo, nel redigere il volume che oggi presentiamo, si è avvalso di una documentazione che noi possiamo dire «eccezionale», per dimensioni e contenuti: ha utilizzato, fra l’altro, gli Archivi dell’Opus Dei e della Santa Sede, gli scritti e le dichiarazioni di tanti testimoni, in gran parte de visu, a cominciare dall’attuale prelato dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, che è vissuto per ben quarantaquattro anni con mons. del Portillo. Don Medina ha consultato poi diversi professori ed esperti della storia dell’Opus Dei, e in particolare il postulatore della Causa di beatificazione di mons. Álvaro, e cioè mons. Flavio Capucci, il quale ha presentato alla Congregazione delle Cause dei Santi una Positio in tre volumi, di 2.340 pagine complessive, curata da lui e composta a più mani, come si suole dire (cfr p. 537). Di fatto, la caratteristica di questa biografia che subito balza agli occhi è quella di essere veramente «do- Álvaro del Portillo Beato cumentata», come raramente si trova fra le vite dei santi, anche oggi. Le citazioni, dalle fonti più varie e disparate, sono indicate nelle Note collocate alla fine del volume e occupano più di 90 pagine (pp. 633725). Le Note stesse, con i rispettivi commenti, aiutano moltissimo a entrare nel vivo della narrazione delle vicende e della bell’anima di don Álvaro. Alla fine del volume vi sono anche un’Appendice documentale e una Cronologia della vita di don Álvaro, molto utili alla lettura e alla comprensione del testo. Sul contenuto di questa biografia, si può dire che l’Autore innanzitutto espone in successione storica il dipanarsi della vita di don Álvaro, con precisione e abbondanza di informazioni: dalla sua nascita e formazione alle prime responsabilità, dalla sua adesione all’Opus Dei al suo insediamento a Roma e, via via, alle sue attività come procuratore, segretario generale e quindi prelato dell’Opus Dei e al lavoro per il Concilio ecumenico Vatica- 675 no II e per i dicasteri della Santa Sede. Le vicende della vita di mons. Álvaro sono inquadrate, con pericopi brevi ed essenziali ma incisive, nei contesti storici, civili ed ecclesiastici che toccarono o talvolta condizionarono le fasi dell’esistenza del futuro Beato: la Guerra di Spagna, la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda, la situazione italiana e mondiale: dal punto di vista ecclesiale, la creazione e lo sviluppo dell’Opus Dei guidata da san Josemaría Escrivá, il Concilio, le modifiche da esso apportate nella Chiesa e nella Curia romana, con il susseguirsi dei Papi da Pio XII a Giovanni Paolo II. Ma tengo soprattutto a sottolineare che l’impianto storiografico della biografia si intreccia armonicamente con la descrizione del carattere, delle doti, delle virtù e della spiritualità di don Álvaro. Questa simbiosi mi sembra il pregio più notevole di questa biografia. Cioè, la narrazione della storia e l’osservazione dell’anima di mons. del Portillo sono ben combinate e compenetrate l’una nell’altra. La lettura risulta piacevole, molto interessante e coinvolgente. Infine, il racconto e le riflessioni procedono in forma piana, certamente con viva passione e partecipazione d’animo dell’Autore, ma non c’è traccia di quell’enfasi celebrativa o «oleografica» che spesso appare in tante biografie di santi. Questo perché parlano da sé stesse le vicende della vita di mons. del Portillo, a volta paradossali e straordinarie (come quelle del riuscito passaggio dal territorio controllato dalle forze «repubblicane» a quello dell’esercito «nazionale» verso la fine della Guerra di Spagna, nel 1938; cfr pp. 109-113). Ma sono altrettanto rivelatrici della sua personalità anche le notizie su fatti semplici, personali, familiari e comunitari, talvolta pure comici, descritti con vivacità in questo libro. Da tutto il volume emerge con naturalezza la figura sovrastante di un uomo di fede, affettuoso e generoso, sacrificato e cordiale, semplice e grande, quale fu il prelato dell’Opus Dei mons. Álvaro del Portillo. Sicurezza, serenità, buonumore Il carattere dell’imminente Beato si delineava già nella sua fanciullezza e gioventù. Fu considerato da alcuni parenti «deciso ed energico, ma unito a grande affabilità»; i genitori e altri familiari descrissero il piccolo Álvaro talvolta «alquanto brusco, persino discolo» (di fatto, aveva fatto solo qualche marachella come di solito fanno i fanciulli). In realtà era un ragazzo «vivace e risoluto», nonostante qualche tratto di «timidezza». Per questa sua riservatezza – egli stesso lo racconta – al momento di iscriversi all’università, scelse la facoltà di Ingegneria e non quella di Giurisprudenza, come aveva fatto suo padre, perché preferiva la professione più «discreta» degli ingegneri a quella «pubblica» degli avvocati. 676 Questo temperamento era comunque «accompagnato da una grande bontà». Un compagno di scuola lo ricorda come un «bambino normalissimo, ma diverso in questo: che aiutava costantemente gli altri». Da alunno intelligente e responsabile della scuola Nuestra Señora del Pilar, retta dai Marianisti a Madrid, ricevette voti alti, tanto da essere iscritto nel Libro d’Oro dell’Istituto. Soprattutto, in tale scuola e in famiglia, ricevette un’ottima formazione religiosa, che profondamente si impresse nel suo cuore. Aveva poi un costante buonumore, con senso di sicurezza e serenità, mantenendolo anche nelle difficoltà. Per esempio, faceva delle «battute» con i fratelli sulla stretta dieta che doveva seguire a colazione a causa dei medicinali al salicilico prescritti per guarire da un’affezione reumatica: «Che fortunaccia (suertasa) avete! A voi uovo fritto e fagioli, a me solo salicilati» (pp. 39 e ss.). Ovviamente, queste doti specifiche di carattere e di spirito si sarebbero poi arricchite e perfezionate nel corso delle vicende della vita, ma sempre nello stesso senso. Di fatto, san Josemaría Escrivá colse subito la ricchezza d’animo del giovane Álvaro fin da quando questi cominciò ad accostarsi all’Opus Dei, all’età di 21 anni. Ne riconobbe subito il temperamento deciso e forte, insieme alla bontà d’animo. Lo chiamò in seguito «Saxum» e gli spiegò che questo titolo stava per «Roccia, fortezza, fondamento, paternità» (p. 125). («Saxum» è il nome che è stato dato alla Casa di Ritiri spirituali che l’Opus Dei sta costruendo in Terra Santa, presso Abu Gosh; speriamo che la beatificazione di mons. Álvaro ne affretti la conclusione). Tornando alle caratteristiche dell’animo di mons. del Portillo, mi limito a segnalarne tre. Innanzitutto la sicurezza, la serenità d’animo e anche il buonumore. Fu un uomo di pace. Nato a Madrid nel 1914, morto a Roma nel 1994, visse in un secolo segnato da guerre e divisioni. Basti ricordare la Guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale, il mondo diviso in blocchi. Nella Chiesa, sentì profondamente la sofferenza delle persecuzioni comuniste, le divisioni del Concilio e le tensioni del periodo postconciliare; infine, anche prima del suo arrivo a Roma nel 1946 e fino alla morte, ebbe un impegno veramente arduo, anche se esaltante, di accompagnare i primi passi e di espandere l’Opus Dei. In totale obbedienza al fondatore san Josemaría e affrontando difficoltà di ogni genere – viaggiando spesso in Europa e negli altri continenti –, don Álvaro sapeva mantenere un atteggiamento di calma, di sicurezza, di decisione, fondato certamente nella sua fiducia e nel suo amore per Cristo e frutto della sua volontà affinata nelle prove. Il giovane Álvaro mostrò queste disposizioni già quando, ancora ventenne e quindi prima di aderire all’Opus Dei, fu assalito da un gruppo di facinorosi anticlericali, da cui ricevette un colpo di chiave in- 27 settembre 2014: L’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce durante il saluto di mons. Javier Echevarría. Da sinistra, Cesare Cavalleri, Emma Fattorini, il card. Francesco Monterisi, Maria Vittoria Marini Clarelli, p. Antonio Maria Sicari, Javier Medina Bayo. glese alla testa, all’uscita da una parrocchia di Madrid nella quale insegnava il catechismo. Non si diede in recriminazioni e lagnanze. Il medico che poi lo curò diceva alla madre: «Che ragazzo coraggioso! Non si lamenta mai!» (p. 60). Negli anni ‘50, durante la costruzione di Villa Tevere, sede centrale dell’Opus Dei a Roma (costruzione che san Josemaría aveva in pratica affidato totalmente a don Álvaro), non di rado mancavano le risorse economiche ed egli, vivendo in strettezze, era afflitto da dolori e febbri frequenti. Ricordando quei tempi, mons. del Portillo scriveva: «Tutte le difficoltà si sommavano, comprese quelle materiali che, sebbene non ci togliessero la pace, ci portavano via molto tempo». Si aggiunse anche il fatto che delle persone interessate presentarono un’ingiusta querela contro i lavori che si stavano realizzando. Egli, pur sapendo di avere pienamente ragione, scelse la via del dialogo e con serenità e pazienza incontrò i denuncianti, riuscendo a calmarne gli animi. Alla fine le denunce furono respinte dalle autorità competenti. «Si tratta di preoccupazioni che non preoccupano», diceva don Álvaro riferendosi a questi avvenimenti (pp. 237 e ss.). Agli inizi degli stessi anni ‘50, ci fu una pericolosa e dolorosa campagna di calunnie contro l’Opus Dei, sollevata da varie parti (pp. 275 e ss.). Se ne presentò poi un’altra ancora più dura, dal 1983 in poi, subito dopo l’erezione dell’Opus Dei in prelatura personale, durante la quale le contestazioni si diffusero in diversi Paesi europei, proprio per diffamare l’Opera (pp. 446 e ss.). Nella prima, ma soprattutto nella seconda, quando mons. del Portillo era prelato, egli affrontò questi attacchi con grande serenità Álvaro del Portillo Beato e pace. Questi sentimenti infuse anche nei suoi collaboratori e fedeli, incoraggiandoli a mantenere la visione soprannaturale e a non cedere alla dinamica della contrapposizione. Il libro di don Medina riferisce diversi episodi di quel periodo burrascoso (si mossero il prof. Hans Küng e, purtroppo, anche il teologo Urs von Balthasar; cfr p. 449). Mons. Álvaro chiamava «aneddoti» questi episodi, come a sminuirne la drammaticità, e manteneva la calma, interna ed esteriore, propria di chi scorge in tutto la mano di Dio. Tuttavia, non mancò di difendere l’Opus Dei (e anche il Papa e la Chiesa, pure attaccati in quel periodo post-conciliare), usando i mezzi umani più adatti alla situazione, ma con spirito sereno e leale verso tutti. Un padre amorevole Una seconda caratteristica di fondo dell’animo di mons. del Portillo fu lo spirito di paternità e amore, aiuto agli altri, concretizzato in iniziative sociali. Come detto prima, il piccolo Álvaro era un ragazzo «normalissimo, ma si distingueva perché aiutava molto i compagni di scuola». Da giovane, durante gli anni ‘20 e ‘30, si dedicò alle necessità dei più deboli; si recava tra i poveri di Madrid per assisterli, pri- 677 ma con gli amici della San Vincenzo de’ Paoli; poi con gli universitari del primo Centro dell’Opera. La sollecitudine per le necessità del prossimo rimase una costante nella sua vita. Nella Roma del periodo della guerra e in quello post-bellico, si adoperò molto per il sostentamento di molti fedeli e specialmente dei membri dell’Opus Dei che vi giunsero per studiare nelle Università ecclesiastiche. Quando poi divenne prelato, seppe ispirare decine e decine di iniziative in tutto il mondo sul piano sociale: scuole urbane e rurali, centri di formazione, ospedali. Quando si recava in un posto in Africa o in America Latina, cercava di scoprire quali erano le necessità più urgenti delle popolazioni. Quindi, con il suo solito spirito sereno ma determinato, incoraggiava i fedeli dell’Opus Dei del luogo a darsi da fare per mettere in piedi qualche iniziativa per rispondere a tali necessità. E poi, con costanza, seguiva queste opere affinché arrivassero a piena maturità. Qualcuno le ha radunate in una mappa che mostra come le «ispirazioni sociali» di don Álvaro siano arrivate praticamente in tutti i continenti. Il capitolo di questo libro sui «viaggi pastorali» di mons. Álvaro riportano i dati principali su questo suo interessamento di tipo «sociale» (cfr pp. 452-477). Il campo principale della sua paternità spirituale furono naturalmente i sacerdoti e i fedeli dell’Opus Dei. Metteva grande attenzione al buon andamento del Collegio Romano e della Pontificia Università della Santa Croce, ma anche dell’Università di Navarra e di altri centri di formazione, perché specialmente in tali istituzioni si formano, con i membri dell’Opera, moltissimi altri fedeli. Aveva un affettuoso rapporto con tutti e singoli, fin dal primo incontro. Seguiva lo sviluppo delle vocazioni nell’Opera, sia con contatti personali, sia almeno con una fitta corrispondenza. Tipica la sua vicinanza a un malato che andava a incontrare spesso in un ospedale di Zurigo, o ai ricoverati nella clinica dell’Università Navarra, o nel Campus Biomedico di Roma. Tutti concordano nel riconoscere che mons. del Portillo, fu un autentico «Pastore buono» della prelatura personale (pp. 356 e ss.; pp. 403 e ss.). Fedeltà alla Chiesa & al Papa Infine, il tratto più distintivo della sua personalità è stata la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa, all’Opus Dei e al suo fondatore. Del resto, questa fedeltà non era che «fedeltà a Cristo», poiché il Signore si rivelava a don Álvaro, dietro le figure del Papa e di san Josemaría, come in filigrana. Si può dire che tutte le pagine di questa biografia, a ogni piè sospinto, sono ricche di episodi e di dichiarazioni di fedeltà di don Álvaro a san Josemaría e alla Chiesa. In un momento di forte crisi generale, in un mondo spesso 678 lacerato dalle rotture e dalle opposizioni alla Chiesa e ai suoi insegnamenti, il libro ci mostra un sacerdote e vescovo che ha speso tutta la vita nel promuovere il grande valore della fedeltà, che dà dinamismo a tutta la vita. La sua è stata, infatti, una «fedeltà dinamica», come la descrisse il card. Julián Herranz. Nella «fedeltà e continuità» con l’azione e il carisma del fondatore, don Álvaro diede un impulso e un ampliamento straordinario all’Opus Dei. Innanzitutto, la fedeltà di mons. Álvaro al Papa e alla Chiesa era nella scia dello spirito «romano» che san Josemaría aveva infuso nell’Opera, in maniera forte e concreta, non solo nei suoi Statuti. Per don Álvaro era una gioia e un gesto di fede poter essere ammesso a udienze personali con i Papi succedutisi durante il suo soggiorno a Roma, da Pio XII a san Giovanni Paolo II. Tali udienze sono state sempre una testimonianza del suo amore per il Papa e talvolta anche risolutive di alcuni problemi dell’Opus Dei. Don Álvaro era molto legato al fatto di aver ricevuto la consacrazione episcopale dal Papa, il 6 gennaio 1991. Il volume narra che mons. del Portillo, da prelato, con una certa frequenza toccava il suo anello pastorale e lo baciava. Don Álvaro stesso ne raccontò il perché: alla fine di un’udienza con san Giovanni Paolo II, aveva rivolto questa preghiera al Papa: «Santo Padre, vorrei che Lei indossasse un momento questo anello». Glielo diede, e il Papa se lo mise al dito. Quando glielo restituì, don Álvaro disse al pontefice: «Quest’anello mi ha dato sempre il senso della presenza di Dio, perché è il simbolo della mia unione con l’Opus Dei… Ma adesso che Vostra Santità lo ha indossato, mi darà anche la presenza del Papa» (p. 404). Mons. del Portillo lavorò molto per la Chiesa prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, con giorni e notti passati a studiare, leggere e comporre testi e pareri (mirabile il suo lavoro per la redazione del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis). In seguito, ebbe varie nomine a membro e consultore di importanti dicasteri della Curia. Quando mons. Fernando Ocáriz ricevette la nomina a consultore della Congregazione della Dottrina della Fede, gli disse: «Se sei chiamato a un lavoro per la Santa Sede, bisogna rispondere sempre di sì» (p. 412). Così aveva sempre fatto lui stesso, pur sapendo il sacrificio che ogni nuovo lavoro per la Santa Sede comportava. (Purtroppo, per mancanza di tempo, non posso parlare della sua profonda cultura teologica e giuridica, delle sue pubblicazioni tradotte e apprezzate in tutto il mondo). San Giovanni Paolo II, come i suoi predecessori, aveva una profonda stima di mons. Álvaro. Lo dimostrò in particolare quando si recò a visitarne e benedire le spoglie a Villa Tevere, il giorno stesso della morte, il 23 marzo 1994 (p. 528). Da Gerusalemme, pochi giorni prima, don Álvaro aveva scritto una cartolina al Segretario del Papa, mons. 27 settembre 2014: Stanislao Dziwisz, per pregarlo di «presentare al Papa il nostro desiderio di essere fideles usque ad mortem nel servizio della Santa Chiesa e al Santo Padre» (p. 528). Nel libro appaiono impressionanti anche l’amore e la fedeltà di mons. del Portillo all’Opus Dei e al suo fondatore. Paolo VI, all’indomani dell’elezione di mons. Álvaro a successore di san Josemaría, gli aveva detto: «Lei, quando deve risolvere un problema, si metta alla presenza di Dio e si domandi: in questa situazione che farebbe il mio fondatore? E agisca di conseguenza. Dica a tutti i suoi figli e a tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora –, con efficacia, con profondità e con ampiezza» (p. 357). La sintonia tra san Josemaría e don Álvaro fu totale e perfetta. Si stimavano e si amavano di cuore. Mi devo limitare a indicare questo dato generale, ma i fatti e le espressioni di questo amore e di questa stima sono innumerevoli in questa biografia. Mi limiterò a dire che don Álvaro, alla morte del fondatore, tra i tanti compiti richiesti dalla guida dell’Opus Dei, si propose e riuscì a ottenere due obiettivi fondamentali: la beatificazione di mons. Josemaría Escrivà, il 17 maggio 1992, e l’approvazione dell’Opus Dei come prelatura personale, con la Bolla pontificia Ut Sit del 19 marzo 1993. La beatificazione era molto importante per sottolineare l’esempio di santità del fondatore dell’Opus Dei per tutta la Chiesa; ma sottolineava anche l’amore e la stima di mons. Álvaro e di tanti per san Josemaría. Si può dire che, pur con enorme lavoro, questo obiettivo fu raggiunto senza grandi scosse. A differenza del secondo obiettivo, cioè l’approvazione dell’Opus Dei come prelatura personale. Questa co- stituiva una vera e propria novità nella Chiesa, ma era indispensabile per definire l’identità stessa dell’Opera e il suo carisma. Il carisma dell’Opus Dei, come sappiamo, è l’appello ai cristiani a raggiungere la santità nello svolgimento delle proprie attività e professioni, da «secolari», com’è la loro condizione di vita. La prelatura personale avrebbe avuto anch’essa il carattere secolare; i suoi sacerdoti non sono «religiosi» con la vita comune e i voti, ma «secolari»; i suoi fedeli laici hanno anche compiti direttivi. L’Opera ha comunque un’estensione a carattere mondiale, guidata da un prelato, con sede a Roma, in stretta comunione con il Papa. Per raggiungere questa approvazione definitiva dalla Santa Sede, don Álvaro, forte delle sue competenze giuridiche, aveva lavorato fin dal suo ingresso nell’Opera, insieme a san Josemaría, ma fu lui, con determinazione e con grande lavoro di approfondimento e convinzione presso personalità e uffici della Santa Sede e dell’episcopato, a ottenere il risultato, «contro venti e marosi», come si suol dire. Sono appassionanti e istruttive le pagine del libro su questa vicenda. Mi piace concludere con alcune espressioni non mie. Nell’epilogo del libro vengono riferite queste parole del nostro amato prelato, mons. Javier Echevarría. Esse, mi sembra, veramente sintetizzano tutto della personalità di mons. Álvaro del Portillo e del significato della sua beatificazione: «Don Álvaro ha servito costantemente la Chiesa proprio perché ha assecondato nostro Padre (san Josemaría) come un “figlio fedelissimo”» (p. 540). Sono certo che la sua beatificazione sarà un bene immenso, per la Chiesa e per l’Opus Dei. Card. Francesco Monterisi Arciprete emerito della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura Il carisma del beato Álvaro del Portillo di Antonio Maria Sicari La santità di un cristiano è sempre legata al fedele compimento della missione che Dio gli assegna. Nel caso di Álvaro del Portillo – chiamato a essere il primo collaboratore e il primo successore di san Josemaría Escrivá – è perciò necessario rifarsi al carisma del fondatore, per vedere come egli lo abbia assimilato e vissuto. In Mutuae Relationes (1978) – uno dei primi documenti del Magistero in cui è stata affrontata tale questione – si legge: «Il carisma dei Fondatori si rivela come un’esperienza dello Spirito, da essi trasmessa ai propri discepoli, per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente svi- Álvaro del Portillo Beato luppata, in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita» (n. 11). Studiando molti anni fa la questione, mi è sembrato che gli elementi costitutivi di tale carisma (di fondatore e di fondazione) si potessero descrivere così: l Lo Spirito Santo, in un particolare momento della storia della Chiesa e per rispondere a particolari necessità dei fedeli, getta, per così dire, una luce nuova sul mistero di Cristo: da tale luce viene illuminato tutto il mistero cristiano (dato che esso non può mai essere frammentato), ma secondo una particolare prospettiva unificante. 679 l Lo Spirito Santo, con lo stesso unico getto di luce, brucia il cuore del carismatico (del futuro «fondatore») che s’innamora del Signore Gesù e del suo mistero amorosamente e indimenticabilmente contemplato in quella speciale prospettiva che gli è stata offerta. l Lo Spirito Santo, con questa stessa duplice e indivisibile luce, fa risaltare una specifica drammaticità della situazione ecclesiale, alle cui necessità il carismatico sente di dover dare risposta, con opere molteplici corrispondenti all’illuminazione ricevuta. l Lo Spirito Santo mobilita tutte le energie, naturali e soprannaturali, del carismatico perché possa fedelmente adempiere il compito che gli è affidato, e diffonde la sua «luce» anche su coloro che questi raduna attorno a sé come discepoli, non solo nei primi tempi della sua missione, ma anche nel corso della storia durante cui quel carisma si prolungherà e si consoliderà. l Lo Spirito Santo illumina anche i responsabili della Chiesa, perché possano discernere il carisma, possano accoglierlo e valorizzarlo, e possano armonizzarlo con gli altri doni, perché serva all’edificazione dell’unico corpo ecclesiale. l Lo Spirito Santo, nei successivi momenti della storia, farà sì che la stessa luce originaria si proietti ancora su necessità nuove e inedite della Chiesa e del mondo: in tal modo la fedeltà allo stesso e identico carisma si coniugherà con forme nuove di servizio ecclesiale e missionario»1. 680 Forse doveva essere meglio precisato l’apporto ineliminabile dei «discepoli» e soprattutto dei primi «compagni» del fondatore, senza i quali non si darebbe «fondazione». Questo rapporto di solito viene raccontato secondo una molteplicità di immagini: la piantagione, la famiglia, la casa, il corpo, il gregge2. L’immagine più decisiva resta comunque quella della generazione: il fondatore si percepisce ed è percepito come un padre (a volte perfino come una madre!), e i discepoli si percepiscono come figli, tanto che il fondatore può dire loro, con san Paolo: «Io vi ho generati in Cristo Gesù». Non mancano nella storia casi dolorosi in cui al fondatore viene a mancare (almeno parzialmente) tale sequela, al punto che egli stesso si trova poi messo in disparte ed è costretto a soffrire una certa distorsione negli scopi o nei metodi della sua opera. Così non ne mancano altri in cui i discepoli iniziano presto a «interpretare il fondatore», provocando conflitti e divisioni tra i seguaci di uno stesso carisma. E non mancano fondatori ai quali toccano in sorte discepoli piuttosto sbiaditi e seriali. Per grazia di Dio, se il carisma originario viene davvero dallo Spirito Santo ed è davvero necessario alla Chiesa, nel corso della storia, tra i discepoli, sorge poi qualche santo a dargli nuovo splendore ed efficacia. È ovvio tuttavia che la fedeltà dei discepoli al carisma del fondatore è condizione ineliminabile, se si vuole assecondare generosamente l’iniziativa dello Spirito Santo; fedeltà tanto più necessaria quanto più il carisma presenta aspetti di novità, che potrebbero essere male interpretati: sia da chi – in nome della novità – vorrebbe rifiutarli, sia da chi – in nome della stessa novità – vorrebbe impadronirsene. Tale era il caso del carisma di san Josemaría Escrivá, chiamato ad anticipare con forza una delle più belle conquiste del futuro Concilio ecumenico Vaticano II: la solenne proclamazione della vocazione universale dei fedeli alla santità3. Purtroppo, tutto quello che so del nuovo Beato l’ho letto nella Biografia che oggi viene presentata4, e posso solo parlarvi di ciò che, leggendola, mi ha particolarmente colpito. Ciò che maggiormente vi risalta è l’incontro felice tra un fondatore ricco di carisma e di passione per i drammi della Chiesa (del suo e del nostro tempo) e un primo discepolo, presto riconosciuto come tale. Il nome che deve essere dato a questo «incontro felice» è la parola «fedeltà», ma intesa in senso molto profondo e bidirezionale, che va, cioè, dal fondatore-Padre al discepolo-figlio e dal discepolo-figlio al fondatore-Padre. Unione di mente & di cuore col fondatore Fedeltà è la prima e l’ultima parola (oltre che la più ricorrente) che legge chi prende in mano la biografia su don Álvaro. Già nel titolo originario era scritto: Álvaro del Portillo. Un hombre fiel (peccato che sia stato tolto nella traduzione italiana) e nella quarta di copertina si leggono queste parole di san Josemaría rivolte a tutti gli altri discepoli: «Álvaro ha la fedeltà che voi dovete avere sempre, e ha saputo sacrificare con un sorriso tutto ciò che aveva di personale...». A p. 70 poi leggiamo: «Álvaro ricevette un carisma particolare: la coscienza precisa che poteva condurre la missione che Dio gli affidava soltanto vivendo in totale unione di mente e di cuore col fondatore. Era convinto che la sua strada d’identificazione con Gesù passasse dalla sequela fedele di san Josemaría: questo era il “canale regolamentare”». E viene citata la risposta che egli stesso diede a Cesare Cavalleri in un’intervista del 1992: «Mi considero, con un santo orgoglio – anche se immeritatamente da parte mia – figlio spirituale del fondatore e debitore insolvente... Mi unisce, pertanto, al Padre la filiale immensa stima che ho di lui, tanto perché mi diede sempre un esempio di santità eroica quanto perché fu lo strumento del Signore per farmi trovare la mia vocazione, che è la ragione della mia vita». Quando Álvaro si presentava in pubblico assieme a Josemaría tutti notavano l’affinità che li legava, 27 settembre 2014: espressa perfino nello sguardo. Lo zioni di don Álvaro con il fondatore. sottolinea bene questa bella testimoUsciti dalla basilica, san Josemaría nianza di Luis Prieto, uno studente gli domandò: “Álvaro, che cosa hai ventenne che lo conobbe già nel chiesto alla Vergine?”. “Vuole che 1945: «Ebbi la sensazione che “usasglielo dica?”, rispose don Álvaro. se” il suo talento a servizio del fonPoiché il fondatore aveva assentito, datore, con tanta naturalezza e didisse: “Ebbene ho ripetuto ciò che screzione che i suoi interventi nemdico sempre, ma come se fosse la meno si notavano. […] Fra i due traprima volta. Le ho detto: ti chiedo spariva l’esistenza di una tale sintociò che ti chiede il Padre”» (p. 260). nia che, per comprendersi, a don ÁlAntonio Maria Sicari l «In una lettera a san Josemaría – varo bastavano poche parole o uno scritta nel gennaio del 1944, in occasione di uno dei sguardo del fondatore per interpretare discretamensuoi viaggi fuori Madrid per motivi di studio –, si te il suo volere e andare rapidamente a compiere vede come egli valutasse il fatto di vivere così viciquanto richiesto [...]. Era tale l’unità di volontà che no a quel santo sacerdote: “Come sempre, molto a volte restava il dubbio su a chi attribuire l’iniziacontento: ma anche, come al solito, con quel tanto di tiva di un intervento» (p. 201). tristezza che si mescola alla mia gioia quando mi seLa fedeltà risaltava perfino nelle formule spirituali paro dal Padre. Per questo mi costa tanta fatica parche trasmetteva, dato che egli si preoccupava di tire da Madrid. Capisco bene che è una sciocchezza, chiarire fin dall’inizio agli ascoltatori: «L’importanma è la vita! Padre: ho un’enorme voglia di essere te non è quel che dirò io, l’importante è ciò che lo una persona buona e di lavorare davvero nell’Opera, Spirito Santo suggerisce nell’anima di ciascuno, per la Chiesa. Peccato che così spesso faccia l’idiocompresa la mia» (p. 198), e precisava che «nella ta e non mi comporti come devo! Mi raccomandi, sua» lo Spirito faceva sempre riecheggiare le paroPadre, perché qualche volta riesca a essere uno strule del fondatore! mento buono, davvero docile, nelle sue mani. Ogni Sappiamo che, nella mentalità comune, una fedeltà volta che sono lontano da Lei prego con più forza così totale rischia di essere interpretata come passiche mai, con tutta la mia anima, per mio Padre. E vità intellettuale e sudditanza psicologica. Ma trocosì la mia presenza di Dio aumenta, nel ricordo del viamo, al riguardo, la forte difesa di un uomo eccePadre e nell’offrire cose per lui”» (pp. 181-182). zionale – il cardinale Andrzej Maria Deskur, che descriveva così «l’unità, soprannaturale e umana, di l «Il 19 marzo 1936 Álvaro rinnovò la sua incoraffetti e intenzioni, che esisteva tra san Josemaría e porazione all’Opera in maniera definitiva. Fu una don Álvaro»: «Pur nella diversità dei caratteri, [escerimonia breve, semplice e al contempo solenne, si] fanno tutt’uno nella mia memoria: Álvaro era nel corso della quale san Josemaría soleva allora una sorta di reduplicazione del fondatore. Non una baciare i piedi dei suoi figli spirituali [...]. Álvaro copia inerte, ma un ritratto vivo e fedele. Ne portaconservò indelebile per tutta la vita il ricordo di va scolpiti nella mente gli insegnamenti e, ciò che quel momento e la scena gli tornò in mente con forpiù conta, il suo animo aveva assimilato gli esempi za il 27 giugno 1975, mentre pregava davanti alla al punto che non riuscivi mai a distinguere ciò che salma del fondatore. Prima di procedere con la seera suo da ciò che scaturiva dal contatto con il Papoltura s’inginocchiò e gli baciò i piedi. Più tardi dre. Finché capivi che non si poteva operare questa avrebbe spiegato il perché di quel gesto: “Mi ricordistinzione: tutto ciò che Álvaro aveva imparato dal dai di quando il Padre li aveva baciati a me, e gli rebeato Josemaría era profondamente suo, parte di sé stituii il bacio. Come potevo dimenticarlo? Non è stesso, era la sua vita. Egli fu il miglior esempio stato soltanto un gesto. Non è stata soltanto l’edella virtù della fedeltà» (p. 273). spressione di fedeltà e di unione. Molto di più: è stato un tornare a donare me stesso”» (p. 81). Tre episodi emblematici Solo questa attenta ricostruzione psicologica e spirituale ci consente di rileggere con tenerezza certi episodi della loro vita. Vorrei sottolinearne almeno tre che mi hanno particolarmente colpito: l Nel gennaio 1948 fecero un rapido viaggio Loreto per affidare alla Madonna l’espansione dell’Opera in Italia. «In quella breve visita tornò a manifestarsi la profondissima unione di affetti e d’inten- Álvaro del Portillo Beato Sono tre episodi intensi, ma potremmo ricordarne anche altri più semplici e famigliari: l l’esperienza del giovane Álvaro che in un momento di grave difficoltà sente con sicurezza, da lontano che il Padre sta pregando per lui (cfr p. 130). l Álvaro che fa il pagliaccio in uno studio fotografico per far sorridere il fondatore che si è messo in 681 posa tutto serio, in modo che non resti poi ai suoi figli un’immagine accigliata, ma sorridente di san Josemaría (cfr p. 268). l E ci fu anche tra loro un intenso momento di comunione mistica che il fondatore ha così annotato: «Ricordi? – Facevamo, tu e io, la nostra orazione al cader della sera. Si udiva, lì vicino, il rumore dell’acqua. – E, nella quiete della città castigliana, sentivamo anche voci diverse che parlavano in cento lingue, gridandoci ansiosamente che ancora non conoscevano Cristo. Baciasti il Crocifisso senza ritegno e gli chiedesti di essere apostolo di apostoli» (p. 265). l Ma c’è anche un simpatico momento di sofferenza, per un contrasto di opinioni: «[Una confidenza di san Josemaría, alle sue “figlie”, alla presenza dello stesso Álvaro, durante la costruzione degli edifici di villa Tevere]: Oggi don Álvaro mi ha fatto una correzione. Mi è costato accettarla. Tanto che me ne sono andato un momento in oratorio e ho detto: “Signore, Álvaro ha ragione e io no”. Ma subito dopo: “No, Signore, questa volta ho ragione io... Álvaro non me ne fa passare neanche una... e questo non mi sembra affetto, è crudeltà”. E poi: “Grazie, Signore, per avermi ha messo accanto mio figlio Álvaro che mi vuol tanto bene... e non me ne lascia passare neanche una!”». Poi si rivolge a del Portillo che, con ritrosia, ha ascoltato in silenzio. Gli sorride e gli dice: «Dio ti benedica, Álvaro, figlio mio!» (p. 291). E fu alla morte del Fondatore che la bella certezza e la certa bellezza della fedeltà giocarono tutta la loro forza: «Lo spirito con cui desiderava affrontare quel periodo [in cui bisognava eleggere il successore] era quello che lo aveva animato per tutta la vita…: fedeltà agli insegnamenti di san Josemaría. E la stessa cosa chiedeva i suoi fratelli: se il Padre potesse parlarci che ci chiederebbe? Penso che l’abbia già detto a tutti: dobbiamo essere fedeli! Siatemi fedeli era il ritornello del Padre, siatemi fedeli! Mi permetto di insistere, sorelle e fratelli miei, che è giunta l’ora: è questo il momento di essergli più fedeli che mai, il tempo di una decisa conversione della nostra vita a una fedeltà più piena, più fine, più sincera, più innamorata, più generosa, a tutta l’eredità spirituale che il Padre ci ha trasmesso, donando per noi la sua stessa vita…» (p. 347). E raccontò che Paolo VI gli aveva appunto raccomandato di restare fedelissimo allo spirito del fondatore: «Mi diceva: “Lei, quando deve risolvere un problema, si metta la presenza di Dio e si domandi: in questa situazione che farebbe il mio fondatore? E agisca di conseguenza”. Dica a tutti i suoi figli e a tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora – con efficacia, con profondità con ampiezza”» (p. 354; ripetuto a p. 489). 682 Una «profezia» battesimale Al termine di questa mia veloce lettura della biografia, mi pare di dover ancora sottolineare un altro aspetto della sua anima che rivela la sostanza intima di quella stessa fedeltà. Don Álvaro aveva una salute precaria ed erano innumerevoli le sofferenze fisiche che lo affliggevano. Eppure sia le sue innegabili capacità sia il ruolo che doveva svolgere accanto al fondatore, e in suo nome, esigevano da lui una massa di lavoro impressionante, umanamente incompatibile con le forze fisiche di cui disponeva. Ebbene: non si lamentò mai, né mai si sottrasse, eseguendo sempre ciò che gli era chiesto anche quando a mala pena riusciva a reggersi in piedi (cfr p. 240; p. 301; p. 305; p. 471). E c’è una dolce e rispettosa malinconia nel ricordo di mons. Echevarría che – rivedendo un filmato che lo ritraeva stanco e affaticato, ma sempre in azione – disse ai presenti: «Chiedo scusa, perché vedo che a don Álvaro chiedevamo più di quanto poteva dare fisicamente, e non ce ne rendevamo conto» (p. 521). Per concludere mi è sembrato che l’espressione più sintetica e più bella, per descrivere l’esperienza e la missione del nostro Beato sia ancora quella coniata da mons. Echevarría, che è stata messa a conclusione di tutto il racconto biografico: «[Don Álvaro] ci ha offerto una personificazione convinta e convincente dell’equazione tra felicità e fedeltà, così ricorrente nella predicazione di san Josemaría» (p. 540). D’altra parte come dimenticare che Josemaría era anche il secondo nome che il piccolo Álvaro aveva già ricevuto nel giorno del Battesimo? Antonio Maria Sicari O.C.D. Saggista e scrittore 1 Cfr A. M. Sicari, Gli antichi carismi nella Chiesa. Per una nuova collocazione, Jaca Book, Milano 2002, pp. 29-30. 2 Per tutta la questione cfr. F. Ciardi, I Fondatori uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982. 3 Mi piace ricordare, per la sua simpatica immediatezza, la risposta che san Josémaría diede – quasi sul finire della sua vita, durante un incontro pubblico in Brasile – a un’interrogazione sugli inizi dell’Opera: «Ti sembra una pazzia da poco dire che si può e si deve diventare santi nel bel mezzo della strada? Che possono e devono diventare santi il venditore di gelati col suo carrettino, la collaboratrice domestica che passa tutto il giorno in cucina, il direttore di banca, il professore universitario, il contadino, il portabagagli...? Tutti chiamati alla santità! Tutto questo è stato poi raccolto nell’ultimo Concilio, ma a quel tempo – nel 1928 – non entrava in testa a nessuno. Quindi... era logico che mi ritenessero pazzo... Adesso sembra una cosa naturale, ma allora non era così...». 4 J. Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Edizioni Ares, Milano 2014. Le pagine da me citate si riferiscono tutte a questa biografia. 27 settembre 2014: Un’eroica & fattiva «leggerezza» di Emma Fattorini Álvaro del Portillo ha avuto per tutta la sua vita un rapporto specialissimo con il fondatore dell’Opus Dei Josemaría Escrivá de Balaguer. Una relazione davvero non solo «istituzionale» (in quanto Segretario generale dell’Opera), ma intessuta anche di dedizione, cura, custodia; una sorta, starei per dire, di «filiazione paterna», fatta di piccoli e grandi gesti nei quali il ruolo del padre e del figlio si scambiavano con amorevolezza, tenerezza e schiettezza insieme, in un rapporto costruito su una fedeltà tenace. Non si può ragionare sulla biografia dell’uno senza tornare a quella dell’altro. Il 6 ottobre del 2002 papa Wojtyla proclamava santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Vorrei ricordare il libro scritto dal suo postulatore (F. Capucci, Josemaría Escrivá, santo, L’iter della causa di canonizzazione, Edizioni Ares, Milano 2008), che ebbi pure l’onore di presentare. Una canonizzazione, avvenuta in tempi insolitamente rapidi, a solo 17 anni dalla morte del fondatore dell’Opus Dei. La celerità del processo fu dovuta anche all’accorciamento dei tempi delle beatificazioni, voluto da Giovanni Paolo II, che proseguì nella riforma iniziata nel 1969 da Paolo VI. Escrivá muore il 26 giugno del 1975 e il processo di beatificazione, iniziato nel 1981 e conclusosi nel 1992, ha rappresentato un record assoluto per rapidità (record che poi fu superato da quello di Teresa di Calcutta, beatificata subito dopo e in soli 6 anni). Come sappiamo, Giovanni Paolo II avviò un numero enorme di processi di beatificazione, tanto da far parlare qualcuno di una vera e propria «fabbrica dei santi», modelli ispirati a una santità praticabile e quotidiana. L’idea di santità non era quella di una perfezione distante e irraggiungibile: i santi dovevano essere, per il Papa polacco, vicini all’esperienza umana comune, dovevano toccare le vette dell’eccezionale a partire dall’ordinario, dal quotidiano. Questo bisogno di vicinanza e di umanizzazione del santo propone quelle che si potrebbero definire le figure di santi vivi: si tratta di figure particolarmente carismatiche che già in vita sono state un riferimento, riconosciuto e conclamato per i credenti. C’è una specie di assonanza, di intima sintonia tra la scelta delle canonizzazioni di cui qui parliamo e questo spirito, diciamo così wojtyliano, di concepire la santità. Ricordavo, già in occasione della presentazione del Álvaro del Portillo Beato libro di monsignor Capucci, come tra le testimonianze contenute nella Positio, lo scritto che, a mio avviso, meglio coglie i punti essenziali della spiritualità di Escrivá, vi fosse un breve testo di Albino Luciani, il Papa del sorriso, del 25 luglio 1978: vedere lo straordinario nell’ordinario, la santità nella normalità, l’abbandono a Dio, l’allegria e il buon umore, la cura delle piccole cose. E infine l’intuizione più moderna: la santificazione del lavoro, da vivere non come «tragico quotidiano», ma come «il sorriso quotidiano». Un’autentica spiritualità laicale Una spiritualità che si rifà alla tradizione di Francesco di Sales e che, secondo Giovanni Paolo I, Escrivá «radicalizza» proponendo non solo una «spiritualità dei laici», ma una «spiritualità laicale». Egli parla addirittura di «materializzare» la santificazione: per lui sarebbe lo stesso lavoro materiale a trasformarsi in preghiera e santità. E così Escrivá si dichiara «anticlericale», nel senso che i laici non devono «scopiazzare» quello che fanno i religiosi, ma crescere nella loro spiritualità iuxta propria principia, secondo un’idea della funzione laicale che anticipa quella del Concilio Vaticano II. Una sorta di «spiritualità materializzata», vissuta cioè nel mondo e nella vita di ogni giorno, che consente una vita all’insegna dell’unitarietà, nella quale le tante parti esistenziali si compenetrano senza scissioni. Del resto, non è forse vero che l’attuale deficit etico ha lì la sua radice profonda: nel distacco tra ciò che si pensa e ciò che si fa, tra ciò che si crede e ciò che si è? La principale vocazione dei laici è fare bene e pienamente il proprio lavoro, «perché il lavoro», diceva Escrivá, «come può essere di Dio, se è fatto male, di fretta, senza competenza?». E gli faceva eco Gilson, scrivendo nel 1949: «Ci dicono che è stata la fede a costruire le cattedrali del Medioevo; d’accordo... ma anche la geometria». Fede e geometria, fede e lavoro, Fides et Ratio. In un’omelia del 1967 del fondatore dell’Opus Dei, Amare il mondo appassionatamente, sono contenute tre affermazioni di sorprendente attualità: l «Essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità»: pensiamo all’odierna crisi economica, alle infinite sciat- 683 Emma Fattorini terie nelle professioni, al rinnovarsi periodico delle furbizie nostrane. l «Essere sufficientemente cristiani da rispettare i fratelli nella fede che propongono, nelle materie opinabili, soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi»: pensiamo alle risse, alle competitività, alla mancanza di ascolto fraterno che anima tanti credenti. l «Essere sufficientemente cattolici da non servirsi della Chiesa, nostra Madre, immischiandola in partigianerie umane». Un monito a che la Chiesa non si compiaccia e inorgoglisca di fronte a un pensiero laico fragile, non approfitti trionfalisticamente delle macerie lasciate dal crollo delle ideologie, capitalizzandole a proprio vantaggio, ma si proponga come madre di tutti, come voce di tutta l’umanità. La formazione familiare Mi sono soffermata a lungo su questa vocazione «alla chiamata universale alla santità», anche perché essa si esprime in modo mirabile nel percorso spirituale di don Álvaro, a proposito del quale vorrei sottolineare alcune impressioni personali ricavate dalla lettura della corposa biografia di Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano 2014). Ingegnere civile, gran lavoratore, preveggente sostenitore dell’importanza fondamentale della ricerca scientifica e tecnica per il futuro dell’umanità in anni in cui la cultura cattolica ne diffidava, egemonizzata com’era da un impianto quasi esclusivamente umanistico. Forza di volontà, tenacia e fedeltà erano qualità che si erano palesate già negli anni della sua formazione giovanile, unite a un’innata mitezza e bontà. «Bontà, semplicità, allegria. Era profondamente buono», così lo descrive il suo compagno di banco. E forse a questa sua attitudine docilmente serena eppure forte ha concorso il particolare rapporto avuto con i genitori dei quali mi ha colpito molto una sorta di «mescolanza» dei ruoli. Il padre, Ramón, avvocato di una delle più importanti compagnie assicurative spagnole era «serio ma non severo», ordinato (il figlio ricorda le penne, i libri in perfetto allineamento), abitudinario (la Messa alla stessa ora, la passeggiata al parco con i figli che dovevano essere perfettamente ordinati), puntuale («quasi maniacale»). La madre, Clementina, era messicana, nata a Cuernavaca e cresciuta nelle haciendas di famiglia, in mezzo alla natura e ai prodotti agricoli; era «un’ottima amazzone e montava i cavalli più focosi, che sa- 684 peva controllare e comandare in maniera ammirevole», un’audacia che destava trepidazione. Studierà in Europa e curerà la formazione dei figli, attentissima alla loro conoscenza delle lingue straniere. Clementina è una donna di fede profonda, lontana dagli stereotipi sdolcinati del devozionismo femminile tardo ottocentesco che siamo soliti vedere attribuiti alle mamme dei santi. Anche se le sue devozioni c’erano, saldamente ancorate al culto mariano e a quello del Sacro Cuore. Álvaro le era molto legato, come si capisce da tante lettere e testimonianze. Mi ha colpito il doloroso episodio della sua morte improvvisa: la notizia giunge in serata, ed Escrivá, perché don Álvaro non trascorra una notte di pena, gliela riferisce solo il giorno successivo. E don Álvaro, nonostante che, a questo punto, non gli fosse possibile arrivare in tempo al funerale, resterà certo molto, molto triste, ma filtrerà questo suo sentimento con uno spirito profondamente accettante. La cosa che più mi ha colpito della sua formazione umana e spirituale è la cifra misurata e profonda insieme, leggera e molto interiore. Fedeltà e libertà, «la verità vi farà liberi»: l’abbandono alla volontà del Signore significa fedeltà all’Opera e a Escrivá, attraverso il lavoro e l’impegno assoluto. Il tutto senza attaccamento, senza doverismo dolorista, senza lamentosità: non c’è mai in lui un eroismo esibito, quella sorta di vittimismo sacrificale di chi «fa tante cose». Una fattiva leggerezza, una sostanziosa spiritualità. Durante il Concilio Álvaro del Portillo ha avuto un ruolo importante su alcune questioni chiave del Concilio Vaticano II, pur continuando a svolgere i compiti di Segretario generale dell’Opus Dei, con un aggravio di lavoro e di impegno notevolissimi. Avvicinato da Domenico Tardini e collaborando nel corso degli anni con Pietro Ciriaci, partecipa a tutte le fasi del Concilio a cominciare da quella preparatoria che, com’è noto, rivestì una funzione decisiva. Il 2 maggio del 1959 è nominato consultore della Sacra Congregazione del Concilio (oggi Congregazione del clero), il 10 agosto Presidente della VII Commissione preparatoria che aveva il compito di studiare il laicato cattolico e il 12 dello stesso mese nella III Commissione sui moderni mezzi di apostolato. Al lavoro di commissione, dall’ottobre del 1959 fino al marzo del 1960, farà seguito l’intensa, quotidiana presenza alle sessioni dell’Assemblea dal 1962 fino al 1965. Si occupa di questioni tra le 27 settembre 2014: più controverse: il 26 ottobre del 1960, per esempio, è nominato qualificatore nella Congregazione del sant’Uffizio e affronta con equilibrio la delicata questione del celibato dei sacerdoti. Mi soffermo sulla sua azione conciliare perché il tema della laicità, cuore pulsante dello spirito conciliare, era, semplificando, il carisma specifico che il fondatore aveva voluto imprimere all’Opus Dei, «la chiamata universale alla santità». È quindi particolarmente illuminante vedere l’impegno del Segretario generale di fronte ai grandi temi del nuovo rapporto che i laici, nelle professioni e nella famiglia, sono tenuti a stabilire con il mondo, cercando di discernere i segni dei tempi. Álvaro del Portillo non cederà mai alle ali estreme, non sarà mai né conservatore né progressista, mantenendo una posizione equilibrata e ferma, a proposito della quale monsignor Angelo Dell’Acqua auspicava che nel Concilio «ci fossero molti don Álvaro». Nella documentatissima biografia di Javier Medina Bayo alla partecipazione di don Álvaro alle varie fasi del Concilio si accompagna quella non meno perigliosa della vita interna all’Opus Dei, quando dalla fine degli anni Cinquanta anche gli assilli economici diventano molto gravosi. È del 9 gennaio il completamento degli edifici di Villa Tevere. La sede centrale. O quando si susseguono le opposizioni curiali ed ecclesiastiche, dovute anche all’incerto statuto giuridico dell’Opera; essa era ancora lontana dall’esser prelatura personale. Nel 1960, Escrivá, molto preoccupato, si era rivolto al cardinale Tardini chiedendo di modificare la configurazione giuridica dell’Opus Dei, senza ottenere però nessun esito; un altro tentativo di trasformare l’Opera in prelatura fu sostenuta dal cardinale Ciriaci nel 1962, sempre senza alcun successo. Una conquista che si ottenne solo vent’anni dopo quando ormai il fondatore era morto. Don Álvaro seguì passo dopo passo tutto questo percorso difficile, spiegando come l’Opus Dei «“al giorno d’oggi, non abbia più nulla in comune con ciò che attualmente si intende per istituto secolare” e che, per questo motivo, “sia per un miglior servizio alla Chiesa, sia per un elementare senso della giustizia [...], non dovrebbe essere più compreso nel gruppo delle Associazioni che vengono chiamate Istituti secolari, né dovrebbe dipendere dallo stesso S. Dicastero dal quale esse dipendono» (Javier Medina Bayo, op. cit., pp. 303-304). Per concludere, vorrei ricordare il rapporto molto bello che si stabilì con Papa Montini. Messosi in preghiera subito dopo l’annuncio della sua elezione a Pontefice, Álvaro lo aveva molto apprezzato fin dal suo primo viaggio a Roma. Nel 1965, da parte sua, Paolo VI aveva visitato il centro ELIS, esprimendo molto interesse per l’impegno verso la gioventù operaia, dimostrato con quella scuola tecnico-professionale. A sua volta, nel luglio del 1976 don Álvaro gli espresse una sincera solidarietà sul caso della sospensione a divinis di Lefebvre. Del resto ricordava quanto Montini fosse stato coinvolto dalla lettura di Cammino di Escrivá. Molteplici possono essere le considerazioni e i bilanci che si possono svolgere su una personalità tanto volitiva quanto abbandonata alla volontà del Padre, così attraversata, a partire dalla sua famiglia di origine, dai grandi sconvolgimenti novecenteschi: le guerre, le rivoluzioni, i rovesci economici. Ma la nota che in me resta più viva è la pace interiore, la calma del cuore, la serenità che, nella fatica dell’accumularsi degli impegni, di natura tanto diversa, sapeva mantenere, perché nel grande lavoro nel quale era immerso don Álvaro non era «né nervoso, né impaziente, né eroico». E per me, ai miei occhi – perché un santo parla al cuore di ciascuno di noi in modo diverso –, è proprio questa eroica e fattiva leggerezza che lo ha reso davvero santo. Sen. Emma Fattorini Ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Roma La Sapienza Alla luce della fedeltà di Maria Vittoria Marini Clarelli La biografia di Alvaro del Portillo scritta da Javier Medina Bayo riesce a mantenere in equilibrio due livelli difficili da conciliare: presentare un personaggio storico e presentare un santo. Il taglio scelto dall’autore è, se così posso definirlo, polifonico: a parlare di don Alvaro sono molte voci diverse – di uomini e di donne – che l’autore orchestra evitando deliberatamente di far prevalere la propria, alla qua- Álvaro del Portillo Beato le, anzi, sembra aver messo la sordina. L’unica voce solista è quella del futuro beato, del quale sono citati moltissimi scritti anche inediti. Rispetto ai due profili biografici già editi in Italia – e qui ampiamente utilizzati – la novità principale del libro di Medina Bayo mi sembra proprio il tentativo di far parlare il protagonista in prima persona. Il tempo trascorso dalla fine della sua vicenda terrena – po- 685 Maria Vittoria Marini Clarelli co più di vent’anni – permette già la distanza storica, ma il confine con la cronaca è sottile, perché sono ancora molti coloro che, avendolo conosciuto, leggono queste pagine cercando ora la corrispondenza con i propri ricordi ora qualche aspetto o episodio nuovo. Anch’io ho avuto la fortuna di incontrare il futuro beato, seppur occasionalmente, e questa biografia, pur confermando l’idea generale che ne avevo, mi ha permesso di rispondere a una domanda che sempre mi ero posta a proposito del suo ruolo di primo successore di san Josemaría Escrivá. La domanda suona più o meno così: «La fedeltà al fondatore è compatibile con la creatività? E se sì, come si è espressa?» Per spiegare come ho trovato una risposta, devo esaminare la fedeltà in rapporto a tre altri temi: la tradizione, la magnanimità e la bellezza. Fedeltà & tradizione Il ruolo di primo successore in seno a una nuova fondazione, anche non religiosa, è forse il più delicato. È infatti un passaggio cruciale che decide come si imposterà la tradizione, nel duplice senso di trasmissione del deposito fondazionale e di costituzione di un’eredità che non è solo spirituale ma è anche culturale. La fedeltà nella continuità, che è stato il motto di don Alvaro, è un principio non così semplice da applicare come sembrerebbe, perché non c’è tradizione senza interpretazione. Ciò che permette la creatività nella fedeltà è la ricchezza del messaggio ricevuto: il messaggio che il fondatore di un’istituzione ecclesiale riceve è inesauribile, ossia così denso e profondo che nessuna vita umana basta a penetrarlo interamente. È un dono divino che deve bastare per sempre. La difficoltà sta nel riuscire a mantenerlo il più possibile integro, ma senza confondere il permanente con il transeunte, quello che fa parte del deposito e quello che è legato a una certa contingenza storica. Don Alvaro, per creare la tradizione, ha innanzitutto dedicato la massima attenzione alle fonti primarie, cioè agli scritti del fondatore dell’Opus Dei, sia quelli destinati alla catechesi generale, che egli stesso ha fatto pubblicare scrivendone la prefazione – mi riferisco a Amici di Dio, Solco, Forgia –, sia quelli che si riferiscono alla vita interiore di san Josemaría e che don Alvaro ha citato spesso nelle sue lettere destinate alla formazione dei membri dell’Opus Dei. Per inciso, la tradizione delle lettere del prelato risale appunto a don Alvaro, che la inaugurò nel 1984. Il processo di beatificazione di monsignor Escrivá, che è stato portato a compimento sotto la sua guida, è stato an- 686 che un momento essenziale di raccolta e vaglio di questi documenti, che sono il lascito del carisma fondazionale. Nel rapporto fra fedeltà e tradizione il margine di creatività sta dunque nell’ermeneutica, disciplina essenziale non solo nell’esegesi ma anche nella cultura cattolica. Ecco un esempio di come don Alvaro la applica al pensiero del fondatore, tratto dalla presentazione di Solco: «La dottrina di monsignor Escrivá unifica gli aspetti umani e divini della perfezione cristiana, come non può non succedere quando si conosce in profondità e si ama e si vive appassionatamente la dottrina cattolica sul Verbo incarnato. In Solco restano saldamente tracciate le conseguenze pratiche e vitali di questa gioiosa verità. L’autore delinea il profilo del cristiano che vive e lavora in mezzo al mondo impegnato nelle nobili aspirazioni che muovono gli altri uomini e, nel contempo, totalmente proiettato verso Dio. Ne risulta un ritratto sommamente attraente». Fedeltà & magnanimità Essere davvero fedeli – e non seguaci pedissequi – richiede grandezza d’animo, ampiezza di orizzonti, disponibilità a rischiare. La biografia di Medina Bayo pone in rilievo questa virtù del futuro beato essenzialmente da tre punti di vista: la mentalità universale, la lettura dei segni dei tempi e la fortezza nel lavoro. La linea è quella tracciata dal fondatore in un brano famoso: «Ampiezza di orizzonti e un vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; anelito retto e sano – mai frivolezza – di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione della storia…; una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del pensiero contemporaneo; un atteggiamento positivo e aperto, di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita» (Solco, n. 428). L’adesione fedele a un simile programma, però, implica una grande capacità d’iniziativa. Il libro cita tutti i nuovi Paesi nei quali sono stati aperti centri dell’Opus Dei e la quantità ed estensione dei viaggi compiuti da don Alvaro, che poi dovette limitarli all’Europa per motivi di salute. Medina Bayo sottolinea anche come l’espansione apostolica sia stata sempre accompagnata dall’avvio di iniziative sociali e culturali, come ospedali, scuole, università. L’attenzione ai problemi sociali è attestata, fra l’altro, da queste parole pronunciate dal futuro Beato in Messico nel 1986: «Figli miei, da quel che ho potuto osservare nelle scorribande nel vostro Paese, ho 27 settembre 2014: notato una grande differenza fra le classi sociali. Vedo ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri». E poco dopo aprivano i battenti in Messico due scuole professionali per l’elevazione sociale. Lo stesso accadde nel 1987 nelle Filippine e poi ancora in Bolivia, Paraguay, Argentina, Kenya, Congo. La cattolicità, intesa nel senso non della confessione religiosa ma dell’apertura universale, acquista un significato particolare nell’era della cosiddetta globalizzazione. A questo proposito, Medina Bayo mette in speciale risalto l’attenzione prestata da Alvaro del Portillo alle comunicazioni sociali. Notevoli sono poi le testimonianze citate sul suo metodo di lavoro, che era governato da una grande fortezza. L’attuale prelato, monsignor Javier Echevarría, lo sintetizza così: «Centrare gli obiettivi, fissare i tempi e tradurli in atto con la necessaria determinazione». Lavorava con «ritmo e armonia», come ha scritto mons. Mariano Olés, osservando che anche il suo modo di camminare era sereno. Un esempio di fortezza nel lavoro è anche il ricorso costante alla collegialità, un metodo di governo ereditato dal fondatore ma non per questo più semplice da applicare. Con la sua capacità di sintesi, don Alvaro osservava infine che «il lavoro di governo richiede carità, altrimenti si trasforma in un’occupazione burocratica», lasciando intendere che la burocratizzazione è una deriva molto insidiosa e non meno grave dell’autocrazia, perché equivale all’indifferenza per le persone. Fedeltà & bellezza Lo sforzo di raggiungere la santità rende una personalità umana non solo migliore ma anche più bella, perché, come ha scritto don Alvaro nella già citata introduzione di Solco, «se, in conseguenza del peccato originale, l’umano non giunge alla propria pienezza senza la grazia, non è meno certo che la grazia non appare come giustapposta o come in azione al margine della natura: al contrario, fa risplendere le migliori perfezioni naturali per poterle divinizzare». Nel suo caso, la bellezza della fedeltà consisteva soprattutto nella «serenità che nessuna fatica può offuscare, che nessuna sofferenza cancella», per usare le parole pronunciate da mons. Echevarría nell’omelia della Messa per il primo anniversario del suo transito. Questa serenità, che colpiva chiunque lo incontrasse, era tanto attraente da consentirgli di fare rapidamente amicizia e anche di correggere, quando era necessario, riuscendo a conciliare energia e affetto. Era il suo tratto distintivo, il suo modo di raggiungere il misterioso equilibrio che, sull’esempio di Cristo, ogni cristiano è chiamato a trovare fra termini apparentemente inconciliabili: obbedienza e libertà, lealtà e discernimento, compi- Álvaro del Portillo Beato Il libro «Quando verrà scritta la sua biografia», suggeriva mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, «tra gli altri aspetti rilevanti della sua personalità soprannaturale e umana, questo dovrà avere un posto di risalto: il primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei è stato – prima di tutto e soprattutto – un cristiano leale». L’autore ha compiuto un profondo lavoro di ricerca, costruendo il testo sulla base di lettere, documenti e testimonianze, mettendo a punto una biografia commovente e rigorosa. Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Edizioni Ares, Milano 2014, pp. 760, € 22. mento della volontà di Dio ed espressione della propria personalità. In questa «concordia discors» sta il paradosso della vita cristiana, nella quale ogni contraddizione è risolta dall’amore, che è il vero principio rivoluzionario, capace di mantenere giovane il cuore e indipendente lo spirito. Lo affermava don Alvaro in un’omelia pronunciata nel 1985 e citata in questo libro che molto più permette di comprendere di lui: «La gioventù è l’età dell’anticonformismo, della ribellione, del desiderio di tutto ciò che è bello, buono, elevato. Davvero giovane è soltanto chi mantiene nello spirito questi ideali, anche quando il corpo va consumandosi nel trascorrere del tempo». C’è dunque un nesso fra bellezza e anticonformismo. Maria Vittoria Marini Clarelli Soprintendente alla Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea di Roma 687 Tavola rotonda milanese Analisi della biografia/2 H Il beato Álvaro visto da vicino Lunedì 22 settembre 2014, presso il Teatro Faes di Milano, una tavola rotonda ha approfondito altri aspetti della personalità del nuovo Beato. Il moderatore Francesco Ognibene, caporedattore di Avvenire, ha coordinato gli interventi del card. Julián Herranz (foto), di mons. Giuseppe Delpini e del prof. Agostino Giovagnoli. Al termine, ha preso la parola don Javier Medina Bayo, postulatore della causa di beatificazione. o vissuto con don Álvaro dal 1953 al 1993, cioè per quarant’anni, e leggendo il libro di Javier Medina Bayo, ho ritrovato intatta questa figura così cara. Cara a tutti, ma specialmente a chi ha vissuto accanto a lui momenti molto importanti nella vita dell’Opera e nella vita della Chiesa. Lascio agli altri relatori di delineare con profondità scientifica la figura di don Álvaro; per parte mia, ho pensato a un intervento, diciamo, più famigliare. Quattro ricordi. Ho scelto quattro momenti in cui ho vissuto accanto a lui situazioni di particolare rilievo. La tenerezza di un padre 688 Primo ricordo. Credo fosse il 3 novembre 1953. Un giovanotto laureato in Medicina, che voleva specializzarsi in Psichiatria in Germania, fu catapultato a Roma per studiare Diritto canonico. Mi spiego: nell’Opus Dei le cose si fanno con serietà; quel giovanotto ero io, naturalmente. Terminata la laurea, avevo chiesto qualche consiglio di orientamento professionale, e mi fu suggerito di puntare a una cattedra universitaria in Psichiatria, sia perché la psichiatria mi appassionava, sia perché in Spagna era un campo nel quale, anche dal punto di vista cristiano, era molto importante incidere in prospettiva apostolica. Un mese dopo, la stessa persona che mi aveva dato quel consiglio, mi disse: «Senti, non ti piacerebbe andare a Roma per studiare il Diritto canonico?». «Ma tu non mi avevi detto di andare in Germania? Spiegami un po’, perché il Diritto canonico io non so neppure cosa sia». Per dire come gioca il Signore con noi: non sapevo cosa fosse il Diritto canonico, e ho finito per diventare presidente del Pontificio consiglio per i Testi legislativi. Dopo tanti anni, quando mi domandano come 27 settembre 2014: Dopo il saluto del presidente Faes, Giovanni De Marchi, nel gremitissimo Teatro hanno preso la parola (da sinistra) Francesco Ognibene, Agostino Giovagnoli, il card. Julián Herranz, mons. Mario Delpini. si fa a essere felici, rispondo: «C’è un solo modo, ed è fare quello che il buon Dio vuole da te». Chi fa la volontà di Dio è sempre sereno, tranquillo, gioioso e ha la forza per affrontare le difficoltà della vita. Bene, quel ragazzo – adesso si considerano ragazzi anche i quarantenni, ma io, benché laureato, ero in effetti un ragazzino – andò a Roma. Un giorno, stavo recitando il Rosario nel giardinetto che c’è attorno a Villa Tevere – la sede centrale della prelatura dell’Opus Dei – ed ecco che si apre la porta ed esce il Padre, san Josemaría, con don Álvaro. Quando mi videro, don Álvaro – che praticamente non conoscevo – mi chiamò e disse: «Il Padre chiede se vuoi venire con noi a San Pietro». «Subito!». Pochi minuti dopo ero in macchina, seduto alla destra del conducente. Dietro c’era il Padre, a sinistra don Álvaro. Siamo partiti. In San Pietro abbiamo seguito la prassi abituale di san Josemaría: una Salve Regina davanti alla Pietà, la visita al Santissimo nella cappella eucaristica, il Credo sulla tomba di san Pietro. Poi, il Padre e don Álvaro entrarono in Vaticano per qualche impegno, e quando uscirono pensai: «Adesso torneremo a casa». Invece no. Don Álvaro: «Il Padre dice che se non hai niente in contrario, vorrebbe farti vedere un po’ di Roma». Io andavo di sorpresa in sorpresa. Un ragazzino che si trova lì accanto al Fondatore dell’Opus Dei che vuole fargli da cicerone. Io non sapevo cosa dire, annuivo con la testa e non mi veniva fuori la voce. E cominciammo il tour. Il Padre mi spie- Álvaro del Portillo Beato gava: «Questa è Piazza Venezia, questo è il Colosseo, San Giovanni in Laterano...», e io avevo il torcicollo perché a me, in quel momento, Roma non importava per niente. Mi dicevo: «La vedrò con calma in un altro momento, adesso per me lo spettacolo è il Fondatore dell’Opus Dei che ho qui dietro». Mi interessava sentirlo, vederlo, godere per la prima volta della sua presenza. Don Álvaro si comportava un po’ come il direttore d’orchestra: lasciava che il Padre parlasse e a me faceva qualche domandina per farmi intervenire. A un certo momento mi disse: «Senti, perché non racconti al Padre come hai conosciuto l’Opera, la tua vocazione?». Rimasi interdetto, perché la mia vocazione non era quella di san Paolo, ma abbastanza vicina... A vent’anni, mentre frequentavo la facoltà di Medicina nell’Università di Madrid, non conoscevo l’Opera, anzi, avevo idee un po’... non giuste, sull’Opera. Dirigevo una rivistina settimanale per gli studenti dell’ateneo. Eravamo abbastanza presuntuosi, perché l’avevamo chiamata Bengala: per «illuminare», an- 689 che se non illuminava niente. Un giorno, durante il consiglio di redazione della rivista, arrivò il turno di un articolo sull’Opus Dei. Lo lessi e dissi: «Mmm…», perché era un articolo tremendo. Ne avevo sentite di cose sull’Opera: massoneria bianca, il segreto, cospirano contro lo Stato… eccetera. Non avevo dato troppo peso, ma l’autore dell’articolo aveva scritto anche delle cose che per delicatezza preferisco non ripetere. Rimasi molto impressionato per cui dissi: «Questo articolo è molto duro, molto forte. Io non conosco questi dell’Opus Dei, ma mi informerò personalmente. Nella mia classe ci sono due ragazzi che frequentano l’Opera…». Presi contatto con uno di loro e gli chiesi: «Mi fai vedere uno di questi luoghi, di questi covi dove vi riunite?». E lui: «Sì, vieni», e mi fece conoscere uno dei due centri dell’Opus Dei frequentati da gente giovane. «Ed eccomi qui», dissi al Padre. «Mi ha convinto di più quel ragazzo che non l’autore dell’articolo». Il Padre si mise a ridere e poi a cantare. Sono state due ore straordinarie, in cui ho scoperto l’umanità divinizzata di san Josemaría, perché sapeva trarre dalle canzoni d’amore umano una teologia finissima. Tra le altre cantò una canzone popolare della sua terra, l’Aragona, che mi è rimasta qui, non l’ho dimenticata anche se sono passati tanti anni. E ve la dico: prima in spagnolo e poi la traduco in italiano: «Eres mi primer amor / tú me enseñaste a querer / no me enseñes a olvidar / que no lo quiero aprender». «Sei il mio primo amore / tu mi hai insegnato ad amare / non insegnarmi a dimenticare / che non lo voglio imparare». È una bellissima canzone d’amore, ma anche un’esortazione alla fedeltà: fedeltà alla propria vocazione, al primo amore. Questo era san Josemaría, e questo era don Álvaro che si definiva «l’ombra»: stava un po’ dietro e suggeriva. Ne ho avuta conferma quando, arrivati a casa, sono sceso, ho spostato il sedile (l’auto era una Seicento) e mentre il Padre usciva, abbassando la testa, ho notato che aveva il collo pieno di foruncoli. Foruncoli tremendi, pieni di pus. Evidentemente lì c’era una malattia, un diabete fortissimo. Dissi sottovoce: «Don Álvaro, ha visto come sta il Padre?». E lui rispose: «Sì, sì, tu sei medico ed è giusto che sappia le cose, ma non commentarle perché gli altri non si preoccupino. Il Padre ha un diabete fortissimo, non ha dormito tutta la notte e ha un mal di testa che non riesce a passare. Poi abbiamo grossi problemi economici, dobbiamo pagare gli operai che stanno lavorando, che stanno ristrutturando la sede centrale dell’Opera e io non so come potremo fare per le scadenze di questa settimana…». Allora ho capito due cose. Primo: che san Josemaría era un santo, perché un uomo in quelle condizioni che si dimentica completamente di sé stesso per dedicarsi a un suo figlio è un santo. Secondo: ho ammirato anche don Álvaro, perché era stato lui a chiamarmi, a preparare quell’uscita per distrarre il Padre, per fargli 690 prendere un po’ d’aria, per fargli sentire da parte mia qualcosa che gli potesse far piacere, appunto il racconto di una vocazione, che è sempre un momento meraviglioso. Ho ammirato don Álvaro e mi sono detto: «Questo è davvero l’uomo su cui il Fondatore può contare completamente». E il libro di Javier Medina lo descrive magnificamente. Preparazione & sviluppo del Vaticano II Per il secondo ricordo, facciamo un salto di dieci anni: 1962. Il Concilio Vaticano II si è aperto in ottobre, ma è in settembre che sono stati nominati i presidenti e i segretari delle commissioni. Appunto in settembre arrivò a san Josemaría una lettera della Santa Sede in cui si chiedeva a don Álvaro di accettare la nomina come segretario di una delle dieci commissioni conciliari più importanti, quella sulla vita e il ministero dei sacerdoti. Don Álvaro era il segretario generale dell’Opus Dei. Era la mano destra del Fondatore per tutto il lavoro apostolico e di governo. Il Padre, san Josemaría, accennò alla richiesta vaticana in una riunione di famiglia e aggiunse: «Don Álvaro farà la volontà di Dio. L’Opera è nata per servire la Chiesa. Álvaro deve servire la Chiesa. Vediamo un po’ se riesce a fare tutte e due le cose». Ebbene, durante i quattro anni di intenso lavoro conciliare ho visto come don Álvaro, che aveva una capacità di lavoro immensa, riusciva a servire la Chiesa nel Vaticano II, e a mantenere gli assorbenti impegni nell’Opus Dei. Anch’io lavoravo in quella commissione conciliare e voglio ricordare un episodio particolarmente significativo, per mostrare come don Álvaro reagiva nei momenti difficili. La commissione era stata inizialmente incaricata di elaborare un progetto di decreto. Successivamente, il comitato di coordinamento del Concilio decise diversamente: sulla vita e il ministero dei sacerdoti si dovevano fare solo dieci brevi proposizioni. Don Álvaro, di fatto, dirigeva il lavoro della commissione, perché il presidente, il cardinale Pietro Ciriaci, che era malato, aveva delegato a lui la presidenza e la direzione intellettuale del lavoro. Della commissione facevano parte quattro cardinali, una ventina di vescovi e una trentina di teologi e canonisti. Se i canonisti e i teologi erano gente complicata, i cardinali lo erano ancora di più, perché essi parlavano ex-cathedra e don Álvaro doveva regolare il dialogo e limitare gli interventi. Lo faceva con una grazia e con una finezza straordinarie: fece redigere un regolamento e, invece di dare dieci minuti a ciascuno, ne diede otto. E quando un cardinale abusava della sua autorità, diceva: «Eminenza, scusi, interessantissimo tutto quello che sta dicendo, però dobbiamo consentire di parlare anche agli altri; per favore, lasci il resto per iscritto». Poi toccava a noi leggere tutto quello che era stato consegnato per iscritto. 27 settembre 2014: Quando arrivò l’indicazione di elaborare solo dieci proposizioni, don Álvaro ne soffrì: «Ma come, quattrocentomila sacerdoti in tutto il mondo stanno aspettando dal Concilio indicazioni e direttive sulla loro vita e sul loro ministero, e noi facciamo dieci brevi proposizioni!». Ma obbedì. La commissione le preparò e le presentò all’Assemblea plenaria nell’aula di San Pietro, e i padri conciliari, fortunatamente, le bocciarono. Dico «fortunatamente» perché noi in fondo al cuore volevamo così. Abbiamo fatto quello che ci era stato detto di fare, ma era un momento in cui sulla natura e sull’identità del sacerdote nella Chiesa cattolica c’erano due tendenze fortemente contrastanti. Da una parte c’era la concezione del prete «sacramentale» che rimane in sacrestia, che si accontenta di confessare quando qualcuno lo desidera, di celebrare la Messa, eccetera; dall’altra parte c’era il sacerdote «missionario», che esce alla ricerca delle pecore, con impegni nel sociale. Con don Álvaro, noi pensavamo che non fossero due figure contrapposte, bensì che si dovessero integrare: la parola e i sacramenti, tutto in un contesto sacro di elezione divina. Non mi dilungo su questo tema: basti dire che don Álvaro propose al presidente della commissione e relatore, che era il cardinale François Marty, arcivescovo di Reims e successivamente arcivescovo di Parigi, di scrivere una lettera al consiglio di presidenza del Concilio, chiedendo il permesso di preparare un decreto che toccasse tutti i punti riguardanti la vita e il ministero dei sacerdoti dal punto di vista teologico, disciplinare e ascetico. Il consiglio di presidenza approvò la proposta e don Álvaro organizzò il lavoro: in meno di un mese si è potuto presentare alla plenaria del Concilio un documento, il decreto Presbyterorum ordinis, che ottenne dai padri conciliari una votazione plebiscitaria. I numeri me li ricordo bene: su 2.394 votanti, 2.390 espressero il Placet; soltanto 4 il Non-placet. Questo era don Álvaro. Una volta gli ho detto che mi ricordava una meridiana che avevo visto sul campanile di una chiesa della Val di Sole o della Val di Non, che recava la scritta: «Horas non numero, nisi serenas. Segno soltanto le ore serene». Così era don Álvaro. Dirigeva il lavoro con grande serenità in ogni momento, anche nei momenti più critici. Non perdeva mai la calma, la mitezza e la fortezza così ben descritte nella biografia scritta da don Javier Medina. Piena valorizzazione del laicato Dunque, protagonista del Concilio. Ma anche del post-Concilio. Terza realtà da ricordare. Infatti, per diciotto anni don Álvaro ha lavorato nella Commissione pontificia per la revisione della legislazione della Chiesa in base al Vaticano II. E ha lavorato come re- Álvaro del Portillo Beato latore di una commissione di studio che si doveva occupare nientemeno che dei diritti e doveri dei laici nella Chiesa e nel mondo. Cioè di come nella legislazione della Chiesa si doveva riflettere quello che – a mio giudizio – reputo centrale nel Vaticano II: la chiamata universale alla santità e all’apostolato, in forza del battesimo. Cioè far sì che nella Chiesa tutti i battezzati si rendano responsabilmente conto che, per il fatto di essere stati battezzati, hanno il diritto/dovere di diventare santi, cioè di conformare la propria vita a quella di Gesù, e di diventare apostoli, cioè diffusori del Vangelo nelle comunità umane in cui vivono: famiglia, lavoro, attività sindacali e politiche, arte eccetera... Questo è il punto centrale che il Santo Padre Francesco, come i suoi immediati predecessori, ricorda con tanta insistenza: la «nuova evangelizzazione» si farà con l’apporto dei laici. La grande evangelizzazione della Corea, come al Papa è piaciuto moltissimo ricordare nel suo recente viaggio, è stata fatta dai laici, quando erano rimasti senza sacerdoti. Ebbene, don Álvaro organizzò per la prima volta nella storia della Chiesa il lavoro su questo tema. Scrisse un documento di più di trecento pagine, cominciando col distinguere le parole: che cosa significa «fedele» e che cosa significa «laico». Fedeli sono tutti coloro che hanno ricevuto la vocazione cristiana e si sono incorporati alla Chiesa con il battesimo. E di lì nascono i diritti e i doveri a cui abbiamo accennato. Perché un laico faccia apostolato non c’è bisogno che un vescovo gli dia la missione canonica. Gliel’ha data il Signore, con il battesimo e la cresima. Don Álvaro l’ha sottolineato, perché si riflettesse anche nei canoni, che danno al fedele laico nella Chiesa il senso di quali sono le sue prerogative, i suoi diritti. Il documento di don Álvaro ha molto stupito la commissione perché vi si approfondivano molto i concetti che poi si traducevano in canoni, come nessuna legislazione ecclesiastica aveva mai fatto. Potete comprovare che nel nuovo Codice è stato riversato tutto il lavoro di fondo fatto da don Álvaro. Mentre lavoravo nella commissione per la revisione del Codice di diritto canonico (e poi per l’interpretazione del nuovo Codice: per questo adesso mi trovo qua), mi resi conto dell’importanza del saggio di don Álvaro e gli suggerii di pubblicarlo: «Don Álvaro, questo va reso pubblico, è una nuova apertura nella storia del diritto canonico e della pastorale in applicazione del Concilio. Apre prospettive di studio anche a livello accademico». Don Álvaro tentennava. Era abituato a fare dei lavori stupendi a servizio della curia romana che non sono stati mai pubblicati, perché lavorava nel nascondimento, in umiltà. Aveva fatto proprio il programma di san Josemaría: «Il mio compito è nascondermi e scomparire, perché brilli soltanto Gesù». Abbiamo faticato non poco, ma alla fine l’abbiamo convinto. Ed è stato pubblicato. Il libro ha avuto un successo enorme, è stato tradotto in quasi tutte le lingue e la 691 prima edizione italiana è stata curata dall’Ares col titolo Laici & fedeli nella Chiesa. L’indimenticabile 26 giugno 1975 Passiamo velocemente al quarto punto. L’ultimo ricordo riguarda il 26 giugno 1975, giorno della morte di san Josemaría. Ero di ritorno dal lavoro in Vaticano, verso l’una e mezza. Appena entrato in Villa Tevere, dalla portineria mi hanno detto: «Per favore, salga al quarto piano». Ho preso l’ascensore e sono andato nella stanza di lavoro di don Álvaro. Entro, e vedo sul pavimento san Josemaría disteso per terra. Accanto a lui c’era un altro sacerdote, medico, don José Luis Soria, che poi è andato in Canada ed è lì tuttora, che cercava con i massaggi cardiaci di rianimare san Josemaría. Don Álvaro mi disse: «Vieni, vieni Julián, aiuta José Luis». Abbiamo fatto massaggi cardiaci, respirazione artificiale, ma inutilmente. Senza parlare, ci leggevamo nel pensiero: «Non c’è niente da fare». Io trattenevo a stento le lacrime e stavo dicendo al Signore: «Portami con te, perché io non servo a niente, ma il Padre è tanto importante per la Chiesa!». Era una preghiera per capovolgere la situazione, ma il Signore non ha ascoltato: il Padre è morto. Don Álvaro era lì insieme con don Javier Echevarría, attuale prelato dell’Opus Dei, e alcuni altri. Eravamo tutti distrutti, tranne uno: don Álvaro. «L’ombra», di colpo, era diventata corpo. E corpo di un uomo forte che non ha esitazioni, che con grande serenità comincia a dare indicazioni, ordini, cose da fare mentre noi stavamo lì sconvolti. Era difficile ragionare bene in quel momento perché i sentimenti agitavano troppo la mente. Io sentivo don Álvaro che diceva: «Javier, per favore, chiama al telefono l’assessorato centrale (l’organismo di governo delle donne dell’Opus Dei), di’ che preparino in Santa Maria della Pace il luogo dove deporre il Padre». Intanto erano sopraggiunti gli altri membri del consiglio generale dell’Opus Dei. Abbiamo recitato un responsorio per accompagnare la sua anima e poi don Álvaro ha incominciato a dare indicazioni all’uno e all’altro. In quel tempo telefonare all’estero – erano già una trentina le nazioni in cui c’era l’Opus Dei – era abbastanza difficile, bisognava fare diversi tentativi per ottenere le linee dirette... Poi bisognava avvertire il Vicariato, andare nella basilica di Sant’Eugenio per preparare il funerale pubblico. A me disse di telefonare a diverse personalità in Vaticano… Insomma, ha cominciato a dare tutta una serie di istruzioni con grande fortezza e serenità come se tutto fosse nella normalità. Non l’ho visto piangere. Qualche giorno dopo, però, avevamo la riunione che alle 10 di ogni domenica si svolgeva con san Josemaría: è il «Circolo breve», che comprende un commento al Vangelo, un esame di coscienza e qualche riflessione spirituale. Quella domenica, quando arrivò don Álvaro e per la prima volta dovette sedersi nel posto che normalmente occupava san Josemaría, scoppiò a piangere. Per la prima volta. Svolse magnificamente la lezione del Circolo e, quando finì, io, non sapendo cosa fare, lo abbracciai. Era un modo per dire che tutta la famiglia era attorno a lui per trovare maggiore unità e maggior amore fraterno. L’unica cosa che ho saputo dirgli, a voce bassa, è stato: «Grazie». E mi pare che gli altri hanno fatto altrettanto. l l l Mi fermo qua. Sono quattro ricordi che toccano diverse tappe. Nel libro troverete molti altri racconti di questo tipo, molto ben scritti. Grazie. Card. Julián Herranz Presidente emerito del Pontificio consiglio per i Testi legislativi L’inesausta fantasia dello Spirito Santo di mons. Mario Delpini 692 Dalla lettura del libro di Javier Medina emerge la figura di don Álvaro come persona di un’umanità completa, sorridente, colta, umile, una persona con la quale sembra di entrare in amichevole compagnia. Leggendo le peripezie, descritte con molto realismo, e le gioie che hanno costellato la vita di don Álvaro, sono stato colpito particolarmente da due cose: la prima è da quante disgrazie è scampato. Per esempio, da ragazzo, mentre stava per compiere una gita sul lago col fratello e altri amici, successe che il fratello scese dalla barca perché aveva dimenticato qualche cosa, e Álvaro lo seguì. Ebbene, scoppiò un fortunale e la barca affondò, ma Álvaro e il fratello rimasero in salvo. Un’altra volta, mentre era in macchina con il Fondatore su una strada di montagna, per la strada scivolosa la macchina sbandò e si fermò quasi in bilico sul ciglio, lasciando illesi i viaggiatori. Per non parlare poi dei pericoli durante la 27 settembre 2014: Guerra civile spagnola, dell’interrogatorio che Álvaro affrontò con la pistola di un miliziano puntata alla tempia, del drammatico attraversamento delle linee del fronte per raggiungere il Fondatore nella zona liberata, e tanti altri avvenimenti. Anche da questi episodi si intuisce che il Signore l’aveva protetto perché gli aveva affidato un compito da svolgere, una missione provvidenziale. Oltre la diocesi ambrosiana La seconda cosa la vorrei dire da milanese, perché si sa che noi ambrosiani siamo famosi per la nostra umiltà [applausi e risate dal pubblico], per cui per me, sacerdote di Milano, che esista qualcosa fuori di Milano è sorprendente. È vero, alla televisione dicono che esiste qualcosa anche altrove, ma insomma... Ebbene, tutto l’impegno di san Josemaría, di don Álvaro e di tutta l’Opus Dei, che emerge da questo libro così documentato e coinvolgente, mi ha suscitato qualche domanda. Perché non basta la Chiesa, nel senso della diocesi, della parrocchia, con la sua presenza territoriale che nella diocesi ambrosiana è così capillare? Perché non basta che il cristiano laico vada a Messa alla domenica, e poi nei giorni feriali si sforzi di essere cristiano in ufficio, nel lavoro, nella vita famigliare? Perché c’è bisogno di dare una consistenza anche giuridica a un’istituzione come la prelatura? Perché a Roma non bastano le università pontificie che già ci sono, e bisogna fondarne un’altra? Sono domande che mi sono posto, forse perché a Milano abbiamo la presunzione di essere una Chiesa che offre tutto quello che occorre: c’è la pastorale per i giovani, per gli anziani, per la famiglia, per la scuola, per i bisognosi... La lettura del libro mi ha aiutato a perdere un po’ la boria milanese, quella che da noi si chiama la baüscia: mi ha fatto capire che la Chiesa col vescovo, i parroci eccetera, è importante, essenziale, ma lo Spirito Santo è più grande, più vivo dell’aspetto dell’organizzazione; ho capito che c’è bisogno di qualcosa di più, e don Álvaro con la sua intraprendenza, con i suoi viaggi per porMons. Mario Delpini tare l’Opus Dei in tutti i continenti, lo ha testimoniato. C’è qualcosa di più di quello che la tradizione, l’organizzazione ecclesiastica, pur essenziale, ci ha consegnato. E ciò vale anche per l’apostolato dei laici: il Concilio ha detto che i laici, in quanto battezzati, sono missionari; perché dunque creare un’istituzione che ha come carisma specifico quello di santificarsi nel lavoro e nella vita quotidiana? La risposta è che la tradizione può diventare stanchezza, la pratica ordinaria può diventare un’abitudine un po’ rassegnata. Per questo lo Spirito Santo suscita delle forme che risvegliano, che danno un gusto di apertura, di intraprendenza, di coraggio, di sfida anche per raggiungere ambienti verso i quali la nostra «organizzazione», pur capillare, resta un po’ intimidita. Talvolta anche la realtà ecclesiale costituita ha bisogno di correttivi, perché la pratica ordinaria rischia di essere un po’ troppo condizionata dall’abitudine, per cui una voce che richiama al vigore della coerenza, risveglia tutta la Chiesa. Dalla biografia di don Álvaro ho recuperato una visione di Chiesa più ampia, più viva, più capace di creatività, proprio perché attraverso l’esempio, il ministero, la testimonianza del nuovo Beato, si coglie un’integrazione, un arricchimento di tutta la Chiesa. Mons. Mario Delpini Vicario generale dell’Arcidiocesi di Milano Il dinamismo della fedeltà di Agostino Giovagnoli Álvaro del Portillo, com’ è noto, ha avuto un ruolo importante nel Vaticano II ed è stato certamente una figura di grande rilievo nella stagione post-conciliare. Attraverso i vari incarichi da lui svolti durante il periodo conciliare, ha indubbiamente servito tutta la Chiesa, non solo con zelo, impegno, pazienza ma anche con una comprensione lucida dei problemi più importanti del suo tempo, in modo particolare Álvaro del Portillo Beato per quanto riguarda il ruolo del laico nella Chiesa e la sua vocazione spirituale. Mi pare però si possa dire anche che don Álvaro ha servito la Chiesa tutta anzitutto perché ha servito l’Opus Dei. Le due cose non devono essere separate: nel servizio all’Opera egli ha realizzato un grande servizio alla Chiesa. L’Opus Dei, infatti, è stato uno dei grandi doni che la Chiesa cattolica ha ricevuto nel XX secolo. 693 Agostino Giovagnoli Nel ’900 la Chiesa ha corso un grande pericolo. Il modo in cui è entrata in questo secolo non era adeguato alle sfide inattese che si è trovata di fronte. Se non fosse cambiata, se non avesse accettato di mutare in profondità la sua fisionomia, avrebbe rischiato non di scomparire, ma di diventare molto marginale all’interno di una società che si trasformava sempre più rapidamente. La sfida più importante è stata quella di trovare la strada per incontrare le masse, gli uomini e le donne che vivono una vita comune, nel mondo, insomma i laici, i semplici fedeli. Nel XX secolo, la Chiesa non poteva sopravvivere restando identica a come era stata nei secoli precedenti, un’istituzione separata, chiusa in sé stessa, a tratti anche forte in rapporto ad altre istituzioni, ma con un’influenza sempre più limitata nella multiforme vita quotidiana di milioni di uomini e di donne immersi nella «modernità». Il messaggio antico di cui la Chiesa è portatrice in tutti i secoli rischiava di diventare vecchio e incomprensibile se non avesse assunto una forma nuova. Ed è avvenuto qualcosa di inatteso: la Chiesa è rinata nelle anime, come diceva Romano Guardini. Davvero il XX secolo è stato «il secolo della Chiesa». Tale costatazione è strana se si considera che tante sono state le difficoltà da questa incontrate nel Novecento, le critiche, le opposizioni, le contestazioni di cui è stata oggetto. Ma è un’affermazione profondamente vera se si considera la grande novità di una Chiesa che non è rimasta un’istituzione del passato ed è entrata nel cuore di milioni di uomini e donne. L’«impresa» più importante L’ Opus Dei è stata una delle strade attraverso cui questa novità si è realizzata. Per questo dico che, al fondo, il più grande servizio fatto da don Álvaro alla Chiesa è il servizio che ha fatto all’Opera. Álvaro del Portillo è stato un ingegnere civile e qualcuno potrebbe dire: non c’ è bisogno della laurea per diventare santi. È così. Ma Álvaro è stato prima ingegnere e solo successivamente membro dell’Opera, sacerdote, esperto di Diritto canonico, vescovo e tante altre cose. L’ingegnere civile costruisce le case, le scuole, gli edifici pubblici... E verso la fine della guerra civile, ha sentito il bisogno di servire la patria costruendo ponti, strade e tante altre cose distrutte dalla guerra. È stato il suo modo per contribuire a ricostruire una società profondamente ferita dalla violenza della guerra. San Josemaría ha saputo parlare a questi ingegneri, medici, avvocati e a tanti altri immersi nell’impegno di costruire la società, l’«impresa» più importante del XX secolo, 694 per così dire, come costruire lo Stato era stato l’impresa più importante del XIX secolo. Ha saputo spiegare loro che la ricostruzione più importante non era quella delle case distrutte dalla guerra e neanche quella di una società lacerata dalla violenza: occorreva soprattutto lavorare per la costruzione di un grande edificio spirituale. Don Álvaro si è messo al servizio di questo grande disegno. Il libro di Javier Medina Bayo ci spiega come ciò è avvenuto. L’autore scrive che il suo volume non è né un libro di storia né una biografia (anche se in realtà è, in modo molto riuscito, entrambe le cose). La bibliografia su don Álvaro – aggiunge – è «piuttosto copiosa» e in particolare «sono già stati pubblicati due ampi profili biografici, che offrono una sintesi adeguata» (p. 13). Il suo obiettivo, perciò, è un altro: dimostrare la necessità, per chiunque intenda scrivere la biografia di don Álvaro, di tener conto in modo preminente che «il primo successore del beato Josemaría Escrivá nel governo dell’Opus Dei fu – anzitutto e soprattutto – un cristiano leale, un figlio fedelissimo della Chiesa e del Fondatore, un pastore completamente dedito a tutte le anime e in modo particolare al suo pusillus grex, alla porzione del popolo di Dio che il Signore aveva affidato alle sue cure pastorali, in stretta comunione con il Romano Pontefice e con tutti i suoi fratelli nell’episcopato. Lo ha fatto in assoluta dimenticanza di sé, con donazione gioiosa e allegra, con carità pastorale sempre accesa e vigilante» (sono parole tratte dall’Omelia di mons. Echevarría per la morte di don Alvaro). La Presentazione sottolinea inoltre che, più importanti delle virtù umane nel primo successore di san Josemaría, sono state le sue virtù teologali. E conclude: «La fedeltà – che ha origine nella fede, come spiega il suo nome – è la nota più caratteristica della vita di mons. del Portillo. Fedeltà a Dio, fedeltà alla Chiesa e al Papa, fedeltà all’Opus Dei». L’intenzione di suffragare questa tesi – e cioè non solo di sostenerla, ma soprattutto di portare elementi che ne dimostrino la fondatezza – viene infine integrata da quanto dichiarato in Premessa. Perciò, conclude l’autore, il sottotitolo del libro potrebbe essere: «Testimonianze su Álvaro del Portillo visto da quanti gli furono vicini», unite al tentativo di «lasciar parlare mons. del Portillo» il più possibile (p. 14). Questi diversi obiettivi si saldano in uno solo: mostrare il possesso nel Beato, in un grado altissimo, della virtù della fedeltà. E, indubbiamente, il libro è stato molto fedele alle promesse: scorre in modo compatto – costruito con solidità e rigore come è giusto che sia per un «ingegnere civile» – senza digressioni o derive lungo questi due binari fino alla fine. 27 settembre 2014: L’incontro con Giovanni Battista Montini Dopo alcune note sull’infanzia e adolescenza, si mettono in evidenza l’incontro con il Fondatore, l’ascolto, l’obbedienza, il sacrificio di sé, la collaborazione stretta con san Josemaría ecc. Particolarmente illuminate è la fedeltà di don Álvaro al Fondatore dell’ Opus Dei dopo la morte di questi. Il modo in cui tale fedeltà si è esplicata viene anticipato nel libro da alcuni passaggi precedenti, di cui ricordo alcuni soltanto. Una nota (due foglietti) in cui il Beato spiega la sua concezione ascetica, trasponendo sul piano spirituale modalità tipiche della vita militare (p. 125). Egli utilizza i termini militari di disciplina e collegamento desumendoli dall’obbedienza agli ordini e dall’immedesimazione con la volontà dei superiori che si debbono avere nei confronti dello Stato maggiore anche quando ci si trova nell’impossibilità di ricevere un ordine esplicito. È questo il motivo per cui viene definito saxum dal fondatore dell’Opera (p. 124). Per descrivere ulteriormente la sua fedeltà, l’autore ricorda che lo stesso don Álvaro, dopo la morte di san Josemaría, corregge il termine «continuità», utilizzato da mons. Echevarría, con fedeltà (p. 355). Javier Medina Bayo richiama anche i termini «continuità dinamica» (p. 355) – don Álvaro raccomandava di non sotterrare il talento ricevuto – e «dinamismo della fedeltà», come capacità di rispondere alle nuove sfide dell’apostolato (p. 356). In concreto, al centro della fedeltà di don Álvaro, dopo essere succeduto al fondatore, c’è stato l’impegno fortissimo a realizzare la volontà di san Josemaría circa la forma giuridica dell’Opus Dei e di promuoverne la canonizzazione. Attraverso la sua fedeltà, don Álvaro è stato al ser- vizio di Qualcosa, di Qualcuno, di un grande disegno. Ed è significativo, in questo senso, il suo incontro con un uomo molto diverso: Giovanni Battista Montini. Quando arriva a Roma, subito dopo la guerra, don Álvaro incontrò don Battista, come lo chiamavano i suoi ragazzi, che lavorava nella Segreteria di Stato di Pio XII. E questi mostrò un grande interesse per don Álvaro, come pure, successivamente, per san Josemaría e, più in generale, per l’Opus Dei. Montini è stato molto legato all’Azione cattolica, alla FUCI, al Movimento laureati. Ma era curiosissimo verso tutte le esperienze ecclesiali nel suo tempo. Giovanni Battista Montini, infatti, non è stato solo un grande Papa, un uomo di Dio ora riconosciuto beato, un «architetto» del cattolicesimo contemporaneo. È stato anche uno dei più grandi testimoni del rischio corso dalla Chiesa cattolica nel XX secolo, uno dei più sensibili al pericolo che tra l’istituzione ecclesiastica e gli uomini e le donne del suo tempo si creasse una distanza incolmabile. Quando è diventato arcivescovo d Milano, ha dedicato grandissima parte della sua pastorale ai «lontani», impegnandosi in modo appassionato per avvicinarli nuovamente alla Chiesa. Credo perciò che la sua simpatia per don Álvaro e il suo interesse per l’Opera nascessero proprio da qui. Montini era alla ricerca di una risposta a quel grande problema e si è impegnato personalmente per trovarla, insieme ai giovani della FUCI. Ma sapeva anche che non poteva esserci una sola risposta ed era perciò curiosissimo – segno della sua grandezza spirituale – verso tutti coloro che, come san Josemaría, ne stavano trovando altre per costruire la grande novità di cui la Chiesa aveva bisogno e di cui il Concilio Vaticano II è stato la maggiore espressione. Agostino Giovagnoli Ordinario di Storia contemporanea nell’Università Cattolica di Milano Il segreto per essere felici? La santità di Javier Medina Bayo Mons. Delpini mi ha fatto scoprire un gemellaggio con i milanesi, perché io sono basco, e anche noi baschi abbiamo la fama di essere molto umili.... [Applausi e risate dal pubblico]. Sono arrivato a Roma nel 1970 e da allora sono cresciuto accanto a don Álvaro fino alla sua morte, nel 1994. In tutti questi anni, ho ascoltato molte volte la sua predicazione, ho potuto parlare con lui personalmente, mi è stato concesso di essere testimone del suo lavoro di governo nell’Opus Dei. Nell’accingermi a scrivere questa biografia, pensavo di avere una buona conoscenza Álvaro del Portillo Beato della vita di don Álvaro. Tuttavia, nella stesura del libro, sono venuto a conoscenza di moltissimi episodi che non mi erano noti, e che arricchiscono di moltissime sfaccettature la sua grandissima personalità umana e soprannaturale. Sapevo che era molto santo ma, per dirla in poche parole, non immaginavo che la sua santità fosse così grande. Nel 1997, il cardinale Luis Aponte Martínez, arcivescovo di San Juan di Porto Rico, in una lettera al vicario dell’Opus Dei scriveva: «Come era buono don Álvaro. Era così umano e al tempo stesso così so- 695 prannaturale. Con gli anni la sua figuappagare questa sete procurandosi il maggior numero possibile di beni ra andrà ingigantendosi sempre più. materiali; altri pensano di soddisfarSe la Chiesa lo riterrà opportuno, io la con il potere, o con i piaceri senspero di vedere monsignor del Portillo sibili... Ma non basta: l’uomo ha bielevato alla gloria degli altari. Questo sogno di ben altro per essere felice. chiedo al Signore. E questo spero. PerI santi sono persone che hanno troché penso che sarà di grande aiuto alvato il segreto della felicità e l’hanno la nostra Chiesa cattolica l’esempio di raggiunta. San Josemaría amava diquesto santo vescovo». re: «Ne sono sempre più persuaso: la Veramente don Álvaro era molto buofelicità del Cielo è per coloro che no. Nel decreto della Santa Sede che Javier Medina Bayo sanno essere felici sulla terra» (Fordichiara l’eroicità delle sue virtù, si gia, n. 1005). Nonostante le possibili sofferenze – afferma che egli era «uomo di profonda bontà e afche non mancano mai – nessun santo si dichiara trifabilità, capace di trasmettere pace e serenità alle ste o non soddisfatto della propria sorte. Come si anime». Nessuno ricorda un gesto poco cortese da spiega? La risposta è questa: perché i santi hanno un parte sua o il minimo moto d’impazienza dinanzi cuore innamorato. Don Álvaro è stato un uomo veraalle contrarietà; mai una parola di critica o di protemente felice, perché il suo cuore era pieno di amore: sta. Aveva imparato dal Signore a perdonare, a preper Dio e per gli uomini. Anche per questo motivo gare per i persecutori, ad aprire sacerdotalmente le bisogna far conoscere la sua vita. braccia, accogliendo tutti con un sorriso e con cristiana comprensione. Dal giorno in cui fu scelto come successore di san Josemaría molte persone, anche non dell’Opus Dei, cominciarono a chiamarlo «Padre». Don Álvaro era un sacerdote cordiale, sorridente, un vero padre. Un padre che diffondeva inInoltre, i santi intercedono per noi in Cielo. Per quantorno a sé un clima di serenità e di pace anche nei to riguarda don Álvaro, dopo la sua morte sono permomenti più difficili. Anche quand’era immerso in venute più di 13.000 relazioni firmate di favori otteun ritmo di lavoro molto intenso, riusciva sempre a nuti grazie alla sua intercessione, anche da luoghi in mantenere l’affabilità e il sorriso. cui l’Opus Dei non è ancora presente. Si tratta di grazie di ogni tipo: materiali e spirituali. Certamente, le più sorprendenti sono le guarigioni straordinarie, ma ci sono tantissimi doni ricevuti, forse meno appariscenti ma ugualmente preziosi: disoccupati che trovano lavoro; sposi che recuperano l’armonia coniuIntorno all’anno 408 o 409, sant’Agostino scrisse gale; concepimento di figli, a volte dopo anni di atteuna lettera a un suo amico vescovo, Memorio, che sa prima di ricorrere alla sua intercessione; riconciconsiderava un vescovo santo, e gli diceva: «Mi liazioni tra parenti in lite; nascita di bambini sani, dosento sollevato dal tuo amore. Poiché non è da una po una diagnosi di malformazioni congenite... persona qualunque che sono amato, prediletto, ma Lo scorso mese di marzo, presso la Pontificia Unida una persona altamente qualificata, da un vescoversità della Santa Croce, a Roma, si è svolto un vo di Dio quale tu sei, e so che sei tanto gradito a convegno in occasione del centenario della nascita Dio che, quando innalzi la tua anima sì buona al Sidi don Alvaro, in cui intellettuali e persone che lo gnore, con essa innalzi anche me, poiché nella tua avevano conosciuto da vicino hanno evidenziato diracchiudi pure la mia» (lettera 101, A Memorio, n. versi aspetti della sua figura. Tra le tante manifesta1). Chi ha conosciuto don Álvaro sperimentava la zioni di affetto, il Segretario di Stato di Sua Santità stessa sensazione: ci si sentiva sollevati verso Dio, ha telegrafato al prelato dell’Opus Dei, mons. Jagrazie al suo aiuto e al suo esempio. vier Echevarría, che il Sommo Pontefice Francesco Finché vivono sulla terra, i santi ci mostrano come – sono le parole testuali – «esorta a imitare la vita deve comportarsi il cristiano. Si racconta che una umile, allegra, nascosta e silenziosa, ma anche devolta, in pieno giorno, Diogene uscì con una lantercisa nel testimoniare la perenne novità del Vangelo, na per le strade di Atene e, alla domanda su che coannunciando l’universale chiamata alla santità», sa stesse facendo, rispose: «Cerco l’uomo!», intendell’allora venerabile, e oggi beato, Álvaro del Pordendo dire: «Cerco un uomo onesto». Oggi, viene tillo. Penso che non possa esserci consiglio più auvoglia di gridare: «Cerco un uomo felice!», perché torevole. in questi nostri tempi, così opulenti, tantissime perJavier Medina Bayo sone inseguono la felicità, ma non la trovano perché non sanno quali sono le sorgenti di questa aspiraPostulatore della Causa di beatificazione di mons. Álavaro del Portillo zione insita nel cuore dell’uomo. Alcuni tentano di Testimone della perenne novità del Vangelo Sollevati verso Dio dal suo amore 696 27 settembre 2014:
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