Studi Cattolici n. 644 - Movimento Ecclesiale Carmelitano
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Studi Cattolici n. 644 - Movimento Ecclesiale Carmelitano
Poste Italiane Spa Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia 20131 Milano - Via Stradivari, 7 27 settembre 2014: Álvaro del Portillo Beato quaderno con interventi di Cesare Cavalleri, Alessandro Rivali, card. Francesco Monterisi, Antonio M. Sicari, Emma Fattorini, Maria Vittoria Marini Clarelli, card. Julián Herranz, mons. Mario Delpini, Agostino Giovagnoli, Javier Medina Bayo. Con una lettera di Papa Francesco e le omelie del card. Angelo Amato nella Messa di beatificazione e di mons. Javier Echevarría nella Messa di ringraziamento Siria: genesi & prospettive di una guerra di Alberto Leoni Segantini il grande & il mistico Chagall di Michele Dolz 644 Ottobre 2014 Patrick Modiano, un Nobel meritato di Andrea Vannicelli DEL TUO DOMANI, PARLIAMONE OGGI. Editoriale La gratitudine del beato Álvaro del Portillo I l momento di maggior commozione alla Messa della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo, il 27 settembre scorso, a Madrid, è stato, per me, quando ho visto il piccolo José Ignacio Ureta Wilson recare sull’altare, con tutta la solennità di cui è capace un bambino, la reliquia del Beato. La guarigione di José Ignacio, dopo un arresto cardiaco di oltre mezz’ora, avvenuta il 2 agosto del 2003, è il miracolo che ha consentito la beatificazione, ed eccolo lì, il ragazzino cileno con i genitori raggianti e commossi. Un bellissimo miracolo, un miracolo «normale» per una famiglia normale, davvero tipico di don Álvaro che aveva appreso da san Josemaría Escrivá l’eroismo della vita «normale». Molto si è scritto e moltissimo si scriverà sul beato Álvaro, e il dossier che apre questo fascicolo dà un contributo importante e autorevole. Io, che ho avuto il privilegio di conoscere don Álvaro e di essere da lui conosciuto, non me la sento, tanto meno in questa pagina, di parlare della sua fedeltà, della sua umiltà e di tutte le virtù, a cominciare dalle teologali, che egli ha vissuto e che fin da ora sono oggetto di testimonianze e di studi altamente qualificati. Riferirò due ricordi personali. G iovedì 26 giugno 1975: muore improvvisamente il fondatore dell’Opus Dei. È il dolore più grande della mia vita. La consegna è che nessuno si muova da dove sta: la nostra peculiarità è di sforzarci di santificare la quotidianità, quindi non vanno interrotti i compiti abituali. Fra l’altro, convenire a Roma dai quattro punti cardinali sarebbe anche contrario allo spirito di povertà. Venerdì 27, però, alle 10 di mattina, vengo chiamato a Roma per dare una mano all’ufficio stampa. Prendo un aereo e alle 13,45 (altri tempi, altri aerei) sono in viale Bruno Buozzi 75. La chiesa di Santa Maria della Pace è chiusa perché in quel momento stanno collocando nel feretro il corpo del fondatore che, durante le Messe ininterrotte dal giorno precedente, riposava a terra, su un tappeto davanti all’altare, con i paramenti sacerdotali. Poco dopo, la porta si apre ed esce don Álvaro. Mi vede, mi abbraccia, e sussurra: «Consummati in unum, consummati in unum». Tutti insieme, uniti nel dolore e nell’impegno di seguire le orme del fondatore. Non dimenticherò mai lo sguardo sereno, eppur velato, di don Álvaro, la fortezza e la pace che in quel momento irradiava. Davvero, ho pensato, egli è il capolavoro formativo del fondatore. S econdo ricordo. Nei primi anni Ottanta, don Álvaro, che ormai era «il Padre», mi fa chiamare a Roma per redigere un testo che lo interessava. Vado, mi metto alla macchina per scrivere (all’epoca il computer non aveva ancora preso il sopravvento) e lavoro. Consegno il testo al Padre, che lo approva, e insiste a baciarmi le mani, dicendo schezosamente: «So che tu scrivi direttamente a macchina, ma non mi pare il caso di baciare la macchina...». La gratitudine: ecco un’altra virtù che il beato Álvaro ha praticato incessantemente, anche in occasioni minime come quella mia. N ell’Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, che l’Ares pubblicò in prima edizione per la beatificazione di Josemaría Escrivá, chiesi a don Álvaro di dirci qualche cosa sul suo vincolo di filiazione con il fondatore. Egli raccontò alcuni aneddoti particolarmente espressivi, e concluse: «La mia ammirazione per la sua straordinaria carità verso Dio e verso il prossimo è cresciuta di giorno in giorno. Nei suoi confronti mi sento debitore, debitore insolvente». Ancora una volta, la gratitudine, quella che oggi, non solo noi che l’abbiamo conosciuto, sentiamo verso il nuovo Beato. Mons. Javier Echevarría, nella lettera che mensilmente rivolge ai membri della prelatura (ma che tutti possono leggere sul sito www.opusdei.it), ha scritto: «Ut in gratiarum semper actione maneamus! Uniamoci al permanente rendimento di grazie di san Josemaría in Cielo, ora per l’unità dell’Opera che abbiamo potuto toccare con mano durante la beatificazione dell’amatissimo don Álvaro: quanto più ringrazieremo il Signore, tanto più ci uniremo alla sua Santissima Volontà, sempre e in tutto. Rinnoviamo il desiderio di dare a Dio tutta la gloria, lottando con quotidiana determinazione per impiantare il regno di Cristo nella società, molto uniti al Papa, lasciandoci condurre a Gesù dalla Santissima Vergine, Madre nostra». C.C. 657 N° 644 Editoriale 657 La gratitudine del beato Álvaro del Portillo 27 settembre 2014: Álvaro del Portillo Beato llllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll 660 Alessandro Rivali Álvaro del Portillo, Beato Papa Francesco «Grazie, perdono, aiutami di più». Lettera al Prelato dell’Opus Dei 668 Card. Angelo Amato «L’umiltà apre la porta della santità». Omelia nella Messa di beatificazione 669 Mons. Javier Echevarría 672 «La fedeltà è il nome dell’amore». Omelia nella Messa di ringraziamento Card. Francesco Monterisi Il primo successore di san Josemaría 675 Antonio Maria Sicari 679 Il carisma del beato Álvaro del Portillo Emma Fattorini 683 Un’eroica & fattiva «leggerezza» Maria Vittoria Marini Clarelli Alla luce della fedeltà 685 Card. Julián Herranz 688 Il beato Álvaro visto da vicino Mons. Mario Delpini 692 L’inesausta fantasia dello Spirito Santo Agostino Giovagnoli 693 Il dinamismo della fedeltà Javier Medina Bayo 695 Il segreto per essere felici? La santità llllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll Lettera del Direttore 697 «Studi cattolici», 2015 Alberto Leoni 698 Scenari. Siria: genesi & prospettive di una guerra Nicola Scopelliti 702 Interviste. Gaza: il presente & il futuro. Colloquio con A.G. Ayoub Giovanni Livi 704 Osservatorio d’Europa. La squadra di Junker & la Scozia Guido Clericetti 707 Inquietovivere Giuseppe Brienza - Omar Ebrahime 708 Diritto. Cambiamenti in vista sui diritti umani? Colloquio con J.-P. Schouppe Matteo Andolfo 710 Filosofia. Eliot & il neoidealismo anglosassone Franco Olearo 712 Bioetica. Le ferite della fecondazione eterologa Andrea Vannicelli 714 Letteratura. Patrick Modiano: un Nobel meritato Guido Vassallo 716 Bestseller. Donna Tartt, premio Pulitzer 2014 Léon Bertoletti 718 Profili. Ridolfi, «chierico» della cultura italiana Giorgio Faro 720 Shakespeariana. Il «Tommaso Moro» di Shakespeare Dino Basili 723 Piazza quadrata. «Tuittar no es gubernar» Michele Dolz 724 Arti visive. Segantini il grande & il mistico Chagall Florio Fabbri 727 Cruciverba d’autore Massimo Venuti 728 Musica. Infelici & felici amori Vincenzo Sardelli 730 Teatro. Teatro mensa & cibo spettacolo Eleonora Fornasari 732 Cinema. Le stelle & l’amore per sempre Luisa Cotta Ramosino 734 Mostra del Cinema di Venezia. Frammenti di Festival Claudio Pollastri 736 Un cocktail come la vita. Colloquio con il Leone d’Oro Roy Andersson A.R. 738 Ares news. Ricominciare da Müller & Péguy * 741 Libri & libri Mauro Manfredini 748 Doppia classifica. Libri venduti & libri consigliati Franco Palmieri 750 Fax & Disfax. Noi & gli altri * 752 Libri ricevuti + llllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll IMPORTANTE COMUNICAZIONE A PAGINA 697 llllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll OTTOBRE 2014 ANNO 58° in questo numero: Lo scorso 27 settembre è stato beatificato a Madrid mons. Àlvaro del Portillo (1914-1994), successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei. Per festeggiare l’evento Sc ha preparato un quaderno speciale: i colori e le emozioni di quel giorno sono ricostruiti da Alessandro Rivali (p. 660), seguono i «documenti» dell’indimenticabile cerimonia: la lettera di Papa Francesco (p. 668), l’omelia del card. Angelo Amato (p. 669), che ha presieduto la liturgia, e quella di mons. Javier Echevarría alla Messa di ringraziamento (p. 672). l La seconda parte dello «speciale» racconta la doppia presentazione dell’accuratissima profilo che Javier Medina ha dedicato al nuovo Beato (Àlvaro del Portillo, Ares, Milano 2014): alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma sono intervenuti il card. Francesco Monterisi (p. 675), l’agiografo Antonio Maria Sicari (p. 679), la senatrice Emma Fattorini (p. 683) e Maria Vittoria Marini Clarelli (p. 685), soprintendente alla GNAM. La tavola rotonda milanese presso il Teatro FAES è stata animata dal card. Herranz (p. 688), mons. Mario Delpini (p. 692), il prof. Agostino Giovagnoli (p. 693) e lo stesso Javier Medina Bajo (p. 695). Esteri. Da mesi assistiamo alla sconcertante barbarie dell’ISIS (foto): a p. 698 Alberto Leoni fa il punto sul dramma siriano e iraqueno, concentrandosi sulle misteriose origini dell’esercito del Califfo; in bilico anche la situazione a Gaza: Nicola Scopelliti ha incontrato un testimone d’eccezione come Abouna George Ayoub, cancelliere del Patriarca latino di Gerusalemme (p. 702); il focus dell’Osservatorio d’Europa è per la neosquadra UE del Presidente Jean-Claude Junker, tra le sfide all’orizzonte non ci sarà però la Scozia indipendente (p. 704). Letterature. Donna Tartt (foto) è tornata a pubblicare dopo 10 anni e con il suo Cardellino ha scalato le classifiche e vinto il Premio Pulitzer: per la sua storia c’è Guido Vassallo a p. 716; il francese Patrick Modiano conferma la tradizione dei Nobel a sopresa, ma è una vittoria doverosa, spiega Andrea Vannicelli a p. 714; a p. 718 Léon Bertoletti «riscopre» Roberto Ridolfi (1899-1991), poliedrico cultore del Rinascimento. l Ci sono molti fantasmi dietro il dramma shakesperiano Sir Thomas More: li rivela con dovizia di particolari Giorgio Faro a p. 720. Cinema. Roy Andersson (foto) con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza si è aggiudicato il Leone d’Oro, ma non ha potuto sottrarsi all’impallinamento del nostro Claudio Pollastri (p. 736); Luisa Cotta Ramosino ha invece stilato una precisa mappa (luci & ombre) della Rassegna veneziana (p. 734). l Esiste l’amore per sempre? Così s’interroga Eleonora Fornasari analizzando Colpa delle stelle, re al box office estivo (p. 732). Mensile di studi e attualità 20131 Milano - Via A. Stradivari, 7 Telefoni 02.29.52.61.56 - 02.29.51.42.02 Fax 02.29.52.01.63 Redazione romana: Via Vincenzo Coronelli, 26/a - 00176 Roma tel. e fax 06.21.700.782 http://www.ares.mi.it e-mail: [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE Cesare Cavalleri CAPOREDATTORE Riccardo Caniato SEGRETARI DI REDAZIONE Milano: Alessandro Rivali Roma: Franco Palmieri EDITORE Ares. Associazione Ricerche e Studi Ente morale eretto con D. p. R. n. 549 (27-1-1966) iscritto al Registro nazionale della stampa con il n. 534/6/265 (17-11-1982) STAMPA Tipografia Gamma srl - Città di Castello Registrazione Tribunale di Milano 24-10-1966 - n. 384 Numero Rea: MI-1745660 ISSN 0039-2901 Proprietà artistica e letteraria riservata all’Associazione Ares. Articoli e fotografie, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Le opinioni espresse negli articoli pubblicati rispecchiano unicamente il pensiero dei rispettivi autori. 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Echevarría nella Messa di ringraziamento del giorno successivo, sempre nel grande scenario di Valdebebas. o dejes de soñar. Non smettere di sognare. È l’insegna, a caratteri d’oro su campo nero e anche un po’ retrò, che accoglie i visitatori del «Giardino degli Angeli», un antico e celebre vivaio in Calle de Las Huertas, nel pulsantissimo cuore di Madrid. È un motto, una frase a effetto, ma potrebbe essere anche il refrain per la beatificazione di Álvaro del Portillo (Madrid, 1914 – Roma, 1994), avvenuta lo scorso 27 settembre a Valdebebas, alle porte della città, davanti a più di duecentomila persone dei più disparati angoli del globo. «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», insegnava Shakespeare e difficilmente potrà contraddirlo chi ha vissuto in diretta l’evento di Madrid: è stato una grande festa e un crocevia di sogni. Innanzitutto, il sogno compiuto di san Josemaría che dall’alto avrà abbracciato con la Chiesa il suo discepolo più fedele. Álvaro, infatti, fu uno dei primi a seguirlo per quel sentiero «aperto» con la na- scita dell’Opus Dei il 2 ottobre 1928, mentre suonavano le madrilene campane di Nostra Signora degli Angeli: per ricordare che la santità non è appannaggio di poche anime «elette» o fuori dal mondo, ma è possibile anche per il contadino, la colf, il banchiere o l’artista dal temperamento infiammato. Ma è stato anche il sogno coronato (nel senso del paradiso «certificato») di Álvaro, quel timido universitario con la passione per i numeri e l’ingegneria che, dopo aver ascoltato un paio di meditazioni di san Josemaría, il 7 luglio del 1935, decise di dare una nuova direzione alla propria vita. Da quel giorno la sua esistenza si sarebbe complicata, ma sarebbe stata irrimediabilmente più intensa, secondo la magna charta di ogni vocazione, descritta in Marco 16: «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratel- 27 settembre 2014: li e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna». Lasciare tutto per il Regno: del resto fu proprio questo il motto episcopale (Regnare Christum volumus!) scelto da Álvaro del Portillo al momento della consacrazione voluta da Giovanni Paolo II il 6 gennaio 1991. A Valdebebas questo motto giganteggiava sul palco della beatificazione con la riproduzione di un autografo del nuovo Beato. Il terzo sogno raggiunto è stato quello di tutti i pellegrini, dei devoti e degli amici del nuovo Beato. Perché se nella Chiesa si fa festa quando lo Spirito irrompe con un carisma nuovo, si festeggia con pari intensità quando il testimone del carisma viene trasmesso nella sua più integra e feconda ricchezza. E se un discepolo ha seguito bene il fondatore, anche altri discepoli potranno incamminarsi sulla stessa strada. È la santità dei numeri «due», come ha spiegato Francesco Ognibene su Avvenire nell’editoriale del 1° ottobre: «Tanto Escrivá abbagliava per la sua personalità straripante e contagiosa – un uomo, dissero in molti, “che seguirei in capo al mondo” – quanto don Álvaro era discreto, umile, lavoratore, l’ombra del fondatore al quale tutti guardarono un attimo dopo la morte del “Padre”, di un uomo cioè la cui santità era pressoché universalmente riconosciuta. Cercando la strada da seguire fu naturale volgersi a chi non vestiva i panni del numero uno ma l’indiscussa, tenace e persino oscura fedeltà del numero due. Il primo degli altri, il primo di noi che probabilmente non siamo fuoriclasse, ma servitori. La fedeltà di chi segue una strada aperta dalla grandezza altrui è la vera, grandissima santità della qua- Álvaro del Portillo Beato le ha urgente bisogno il nostro tempo: non solo prim’attori, ma gente che conosce il suo posto nel mondo, e sa servire dove Dio l’ha voluto». La santità passa per l’infinitamente piccolo. È l’esperienza di tutti i santi. Una giovane suora a Lisieux è diventata dottore della Chiesa raccomandando la «piccola via». E in anni recenti lo ha ricordato anche papa Benedetto XVI, per esempio, nella splendida omelia per la veglia di Natale 2005. I «luoghi» di don Álvaro I pellegrini per Álvaro del Portillo a Madrid hanno cercato, dalla brulicante Puerta del Sol agli ombrosi boulevards nelle vicinanze del Museo del Prado, i «piccoli segni» per cui è passata la vita di don Álvaro. Tappe naturalmente intrecciate con i primi passi dell’Opus Dei e con l’esistenza del suo fondatore. Un’ipotetica pole position delle fermate obbligate potrebbe vedere al primo posto gli edifici di via Santa Isabel (ai numeri civici 46, 48, 48 bis), non lontano da quella stazione di Atocha tristemente nota per gli attacchi terroristici dell’11 marzo 2004 che causarono ben 191 morti e 2057 feriti. Nella Casa del Rettore di via Santa Isabel san Josemaría visse dall’estate del 1934 all’agosto 1939. La chiesa contigua fu lo scenario di celebri episodi. Qui il giovane sacerdote ravvivò la sua umiltà di fronte a Dio scoprendo che un giovane lattaio entrava in chiesa ogni mattina dicendo semplicemente, ma con molta devozione: «Gesù, ecco qui Juan, il lattaio». Qui si innamorò di una piccola statua di 661 662 Gesù bambino del XVII secolo con le guancie rosse e le braccine incrociate. Qui, durante la novena all’Immacolata del 1931, nel ringraziamento successivo alla Messa, scrisse di getto il testo del Santo Rosario. Ma queste mura furono testimoni anche di decisive locuzioni divine. Forse la più nota è compendiata nel punto 933 di Cammino: «Le opere sono amore, non i bei ragionamenti». Fu lo stesso Josemaría a riportare sui propri Appunti intimi i retroscena dell’episodio: «16 febbraio 1932. Oggi, dopo aver dato la Santa Comunione alle monache, prima della Santa Messa, dissi a Gesù quello che tante e tante volte gli dico, di giorno e di notte: “Ti amo più di loro”. Immediatamente ho inteso, senza parole: “Le opere sono amore, non i bei ragionamenti”. Vidi subito con chiarezza quanto io sia poco generoso, e mi vennero alla mente molti particolari cui non pensavo né davo importanza, che mi fecero comprendere con molta evidenza la mia mancanza di generosità. O Gesù: aiutami, perché il tuo asinello sia completamente generoso. Opere, opere!». La storia «interiore» di Álvaro passò senza dubbio per Santa Isabel, per il Parco del Ritiro (tra i suoi viali san Josemaría infiammava le anime dei primi discepoli come del servo di Dio Isidoro Zorzano), come per altri luoghi di culto della città: la chiesa di san Giuseppe (via Alcalá, 43) dove fu battezzato il 17 marzo 1914; la parrocchia della Concezione di Nostra Signora (via Goya, 26) dove ricevette la prima comunione e la cresima; la parrocchia di san Roberto Bellarmino (via Veronica, 11) dove si prodigò per i più bisognosi. Però, fu un luogo laicissimo a innervare ancora più profondamente la sua vocazione. Fu l’ex Consolato dell’Honduras al primo piano del Paseo de la Castellana, 45. Erano i tempi della guerra civile spagnola. Quando imperversava la persecuzione religiosa e bastava essere trovati con un rosario in tasca o una medaglietta della Madonna al collo per essere messi al muro. Nel Consolato ripararono sia san Josemaría sia Álvaro. Si confidarono. Pregarono insieme. Sognarono una grande messe apostolica e quando si spensero gli ultimi bagliori della guerra, nel marzo del 1939, l’apostolato poté riprendere ai ritmi sospirati. «Vieni a Valdebebas & comincia a vivere» La grande festa per i tantissimi pellegrini giunti a Madrid è iniziata alle prime luci del 27 settembre: è la data in cui si ricorda san Vincenzo de’ Paoli. Curiosamente, anche Álvaro fu legato a questo santo: da giovane partecipò con entusiasmo alle iniziative della Società San Vincenzo rivolte ai più poveri e in una delle sue uscite rimediò un furibondo colpo di chiave inglese alla testa. In quegli anni di esasperato anticlericalismo, qualcuno mal tollerava iniziative così spiccatamente cristiane. Valdebebas è una zona periferica di Madrid, vicino alla Fiera e all’aeroporto di Barajas e accanto alla «cittadella» del Real Madrid (definita pomposamente la mejor ciudad deportiva del mundo, vanta 12 campi d’allenamento, studi televisivi e uno stadio da seimila posti, dove gioca la seconda squadra, dedicato al campione Alfredo di Stefano). Valdebebas doveva essere un’area di forte espansione, poi la crisi economica ha in buona misura 27 settembre 2014: paralizzato i lavori. Si è completata sinora solo la rete viaria che ha contribuito alla riuscita dell’evento: per chi non è stato a Madrid può trovare su Youtube la fisionomia della Valdebebas del futuro. Su uno dei cavalcavia vicini alla zona della celebrazione si osservava la gigantografia di un Tir con questo spot: «Ven a Valdebebas y empieza a vivir» («Vieni a Valdebebas e comincia a vivere»). Per i pellegrini, un avviso dalle molteplici risonanze... La lunghissima striscia d’asfalto che correva verso la zona A1, quella del palco della cerimonia e dei posti riservati agli anziani e ai disabili, si è presto riempita di colori, sotto lo sguardo delle nuvole un po’ arcigne, ma alla fine clementi: bandiere di ogni nazionalità (ma quanti sudamericani…), gonne quadrettate di impeccabili divise di ragazze provenienti da scuole single sex, i giubbetti blu con il bollino arancione degli infaticabili volontari, gli sgargianti abiti tubolari from Africa, i sari indiani e i sai degli ordini religiosi. Iniziative apostoliche in tutto il mondo Nel percorrere i viali si contavano avventure molto diverse. Pellegrini partiti dall’aeroporto di Verona per una toccata e fuga di poche ore, ragazzi kenyoti disposti a dormire per giorni sul pavimento della palestra di una scuola e sorbirsi più di dieci ore giornaliere di pullman per andare e tornare dal santuario di Fatima. Un gruppo di ragazze che ripercorrevano il loro repertorio chitarristico e la famiglia venuta a ringraziare don Álvaro per la guarigione di un figlio o la felice conclusione di una gra- Álvaro del Portillo Beato vidanza. E su don Álvaro specializzato in miracoli famigliari torneremo più avanti. Nel settore A1 si poteva trovare un variegato campionario di storie di dedizione. Silvia Quezada, per esempio, si è impegnata fin dagli anni Settanta con la Fondazione Siramà (El Salvador) per promuovere la dignità della donna in una zona particolarmente povera del Paese. Edgar Umaña è venuto dal Guatemala: fa parte del direttivo di Kinal, un centro educativo di avviamento professionale ai confini di una gigantesca baraccopoli. Ito Diejomaoh (Niger Foundation Hospital) presta gratuitamente cure mediche ad alcune comunità rurali nella regione di Enugu. Ma ci sarebbe da scrivere anche il profilo di Mario Minami (Centro Pedreira di San Paolo), Juan Humberto Salazar (Educar, Valle del Chalco in Messico) o Anabelle Brown (Developmental Advocacy for Women Volunteerism, Manila, Filippine) e di cento altri con loro… Don Álvaro, come prelato dell’Opus Dei, viaggiò moltissimo per accudire spiritualmente i suoi figli: sono stati calcolati 198 viaggi pastorali in 42 diversi Paesi per la bellezza di 408.082 km percorsi (per avere un’idea, è circa dieci volte la circonferenza del globo). Ma don Álvaro ebbe una speciale predilezione per i Paesi in via di sviluppo. È anche per soddisfare i suoi desideri di Padre che si è voluto chiedere ai pellegrini di Madrid un aiuto per quattro progetti molto specifici: la costruzione di un padiglione maternità per il Niger Foundation Hospital and Diagnostic Center (Nigeria), l’avvio di un programma per sradicare la malnutrizione infantile a Bingerville (Costa d’Avorio), lo sviluppo di quattro ambulatori in una zona difficile della Repubblica del Congo che permetterà di accudire diecimila 663 I grandi viali di Valdebebas gremiti di pellegrini. Nella pagina accanto, il piccolo cileno José Ignacio Ureta Wilson ascolta le ultime raccomandazioni della mamma mentre si accinge a recare sull’altare le reliquie del nuovo Beato. La guarigione di José Ignacio, riconosciuta miracolosa per intercessione di don Álvaro, avvenuta il 2 agosto 2003, ha concluso l’iter della beatificazione. bambini ogni anno e, infine, un buon numero di borse di studio per seminaristi africani che vogliano prepararsi al sacerdozio a Roma. La sterminata assemblea & l’altare Qualche immagine per ricostruire l’attesa della beatificazione. Intanto, in molti sono rimasti impressionanti dagli avveniristici confessionali che sembravano un’interminabile serie di vele da surf (si erano già usati per la GMG madrilena). E che peccato che il Corriere della sera abbia dedicato all’evento soltanto una gallery di foto con il maldestro titolo: «Madrid, confessione di massa per la beatificazione del numero due dell’Opus Dei». Poi, le scatole di cartone. Ossia le sedie «usa e getta» che hanno consentito a moltissimi di potersi sedere durante la cerimonia (le sedie in plastica erano solo nei primissimi settori). Qualche capogruppo ha anche usato le scatole, al posto dei più consueti ombrelli, per guidare il proprio piccolo gregge verso la zona asse- 664 gnata. Eroici quelli che si sono ritrovati con il biglietto dalla zona C in poi. Da quella posizione in giù era impossibile infatti anche scorgere il palco, complice la conformazione a schiena d’asino del vialone centrale di Valdebebas: questi fedelissimi di don Álvaro hanno benedetto la tecnologia dei tanti megaschermi che hanno garantito la «copertura» dell’evento. Qualche curiosità. Seicento persone da tutto il mondo hanno contribuito a preparare le vesti per i sacerdoti: dopo la beatificazione sono state offerte alle Chiese giovani o di Paesi perseguitati come l’Iraq, il Venezuela, le Filippine o l’Uganda. I giornalisti accreditati sono stati più di 300, da 18 Paesi diversi e più di 30 reti televisive hanno chiesto di poter trasmettere la cerimonia. Dopo la Spagna, lo Stato che ha contato il maggior numero di pellegrini è stato il Messico (3.175 iscritti), seguito dall’Italia (2.136 presenze, ma qualcuno si sarà «imbucato»…) e dalle Filippine (1.732 pellegrini). Da notare che hanno partecipato alla cerimonia anche persone provenienti da regioni in cui non è ancora presente il lavoro apostolico dell’Opus Dei come gli Emirati Arabi Uniti e Cuba. 27 settembre 2014: Uno zoom sul palco. L’altare, l’ambone e la sede del celebrante sono state le stesse della beatificazione dei martiri di Tarragona (13 ottobre 2013). Alla destra dell’altare la serigrafia (6 metri di altezza per 4,5 metri di larghezza) con il volto del nuovo Beato, a sinistra, invece, una bella immagine della Vergine dell’Almudena, la rassicurante patrona di Madrid. All’inizio della cerimonia il postulatore, don Javier Medina Bayo, ha letto un brano dal Decreto sulle virtù del Venerabile Servo di Dio (28-6-2012): «Il suo amore alla Chiesa si manifestava nella totale comunione con il Romano Pontefice e i vescovi: fu sempre figlio fedelissimo del Papa. Dando prova di un’adesione indiscussa alla sua persona e al suo magistero». Don Álvaro è stato un silenzioso servitore della Chiesa anche in periodi complicati, come durante il Concilio Vaticano II, quando, per esempio, dovette seguire i lavori per il Decreto Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita dei sacerdoti, che però fu approvato il 7 dicembre 1965 con solo quattro voti contrari sui 2.394 padri conciliari. Sul suo spirito di servizio, sono significative le parole dell’allora card. Ratzinger: «Ricordo la modestia e la disponi- Álvaro del Portillo Beato bilità in qualunque circostanza che caratterizzano il lavoro di mons. Del Portillo come consultore per la Congregazione della Dottrina della fede, istituzione che contribuì ad arricchire in modo singolare con la sua competenza ed esperienza, come ho avuto modo di comprovare personalmente» (Lettera al Vicario generale dell’Opus Dei, 23 marzo 1994). E a Valdebebas è stato tangibile vedere l’affetto della Chiesa per don Álvaro. Presenti 18 cardinali, 160 vescovi e 300 sacerdoti. Tra i cardinali, oltre al celebrante, il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, il card. Antonio Cañizares Llovera (prefetto della Congregazione per il Culto), l’arcivescovo emerito di Madrid, card. Carlos Amigo Vallejo, i cardinali Francesco Monterisi, George Pell, Gerhard Ludwig Müller (prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede), Jean-Louis Tauran (Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso), Juan Luis Cipriani, Julián Herranz, Robert Sarah (Presidente Pontificio consiglio «Cor unum»), Stanislaw Rylko (Presidente Pontificio consiglio per i Laici). E, ancora, gli arcivescovi di San Juan de Cuyo (Argentina), Lagos (Nigeria), Guayaquil (Ecuador), Cagayan de Oro (Filippine), Johannesburg (Sudafrica), Maracaibo (Venezuela), Kitui (Kenya), Maronita (Brasile), Kaisiadorys (Lituania), Ebibeyin (Guinea Equatoriale) e tantissimi altri. Naturalmente presente anche l’attuale prelato dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, che tra le migliaia di persone presenti è stato colui che più intensamente ha conosciuto la santità del nuovo Beato. Folta anche la rappresentanza delle autorità civili, come il ministro dell’Interno spagnolo, Jorge Fenández Díaz, e quello dell’Economia, Luis de Guindos, l’ex sindaco di Madrid, José María Martínez Alegre o gli ambasciatori di Colombia, Polonia, Svizzera, El Salvador. Il miracolo del piccolo José Ignacio La causa di beatificazione è iniziata nel marzo del 2004 dopo che più di duecento tra vescovi e cardinali ne hanno chiesto l’apertura: negli anni sono stati ascoltati ben 133 testimoni, tra cui 19 cardinali e 12 vescovi o arcivescovi e sono giunte 13.300 relazioni di favori attribuiti all’intercessione di don Álvaro. Il 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha dichiarato l’eroicità delle virtù di don Álvaro e la sua fama di santità. Lo «sprint» finale per la beatificazione è stato il miracolo del piccolo José Ignacio, riconosciuto da Papa Francesco il 5 luglio del 2013. Una storia sorprendente risalente al luglio 2003 in Cile. José Ignacio nasce dopo una gravidanza travagliata. In passato gli era stata diagnosticata un’ernia a livello ombelicale, ma la situazione si complica in 665 Lunghe file sorridenti ai confessionali e molta devozione nel distribuire e nel ricevere la Comunione. 666 modo vertiginoso dopo la nascita. Il cuore di José Ignacio fa le bizze. Deve essere operato: all’ernia e al cuore. Il 2 agosto sopraggiunge un’emorragia devastante al pericardio. Il cuore smette di battere per mezz’ora. Sembra tutto finito. Così la madre ha raccontato quelle drammatiche circostanze in un’intervista reperibile su www.opusdei.it: «I medici lo stavano dando per morto, perché non reagiva al massaggio cardiaco né al resto. Ma quando stavano per desistere, il cuore di José Ignacio ha ricominciato a battere. L’emorragia comunque era stata massiva. Ricordo che fu il dottor Felipe Heusser, cardiologo dell’Università cattolica, che ci disse che José Ignacio aveva recuperato la frequenza cardiaca, ma aveva avuto un’emorragia nella zona del pericardio e intorno al rene. Siamo andati a vederlo e il suo colore era spettrale, provammo una gran pena. Le unghie sembravano viola: come mi spiegarono era una conseguenza della mancanza di ossigeno. Per tutto il giorno le preghiere furono intense». Nonostante il parere dei medici e grazie alla preghiera incessante dei genitori a don Álvaro, il cuore di José Ignacio si stabilizzò e riprese a fare il suo dovere. La madre ha spiegato ancora: «Ricordo che il medico di turno ci disse che il dottor Heusser era venuto a chiedere a che ora della notte era morto José Ignacio. È un dettaglio che mi è rimasto impresso, perché è la stessa cosa che il medico chiese al padre di san Josemaría quando ebbe una grave malattia da bambino. Il dottor Heusser mi confermò di non aver mai pensato che il bambino avrebbe potuto sopravvivere. Ripeteva costantemente quanto sorprendente fosse il recupero. Ci chiese chi avevamo pregato...». Adesso José Ignacio è un bambino come tanti altri, innamorato del calcio, che tifa per il Colo-Colo, ma che ha una particolare predilezione per Alexis Sánchez e Lionel Messi. E, puntualizza ancora la madre: «Gli piace anche il tennis, non si stanca mai di ballare: ama la musica e ogni tanto a casa canta canzoni inventate da lui e balla seguendo i ritmi più diversi. Al matrimonio di sua zia stette tutto il tempo a ballare fino a quando la festa non finì...». Uno dei momenti più emozionanti del 27 settembre è stato quando José Ignacio con la sua giacca blu e i pantaloni bianchi, e accompagnato da mamma Susana e papà Javier, ha portato vicino all’altare il reliquiario con qualche goccia del sangue di don Álvaro. Organizzazione impeccabile & professionalità del coro La celebrazione è iniziata con le note del canto Mi alma bendice al Señor: all’interno di un’organizzazione impeccabile, è spiccata la professionalità del coro: 250 voci coordinate da Marina Makhmoutova, che aveva avuto già questo incarico per la Giornata Mondiale della gioventù di Madrid. Tra le «sorprese» riservate agli organizzatori, una lunga lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus Dei imperniata su una frase cara a don Álvaro: «Mi piace ricordare la giaculatoria che il servo di Dio era solito ripetere, specialmente nelle feste e negli anniversari personali: “Grazie, perdono, aiutami di più!”. Sono parole che ci avvicinano alla realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare nuovo slancio alla nostra vita cristiana». Tra gli altri interessanti «fuori programma» del 27 settembre, anche un articolo molto positivo del 27 settembre 2014: Washington Post a firma di John Allen, che negli anni scorsi aveva dedicato più di un anno di lavoro a un’inchiesta confluita nel libro Opus Dei: An Objective Look Behind the Myths and Reality of the Most Controversial Force in the Catholic Church (tradotto in Italia da Sperling). Il card. Amato nella sua omelia ha ripercorso gli snodi dell’esistenza del nuovo Beato, soffermandosi sulla sua umiltà: «C’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario, ritenendola uno strumento indispensabile di santità e di apostolato: la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva da alcuni semplici atti di devozione popolare, come, per esempio, salire in ginocchio la Scala Santa a Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala Santa perché si considerava un cristiano maturo e ben formato, il nostro Beato rispose con un sorriso, aggiungendo che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria pesante per la molta gente e la scarsa ventilazione. Fu una grande lezione di semplicità e di pietà. Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore Gesù, che non era venuto per essere servito ma per servire. Per questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico Adoro Te devote, latens deitas. Così come rifletteva sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas Ejemplares: “Sin humildad, no hay virtud que lo sea” (“Senza umiltà non c’è vera virtù”). E spesso pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei: “Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies”. Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era la casa della carità. Ripeteva un consiglio Álvaro del Portillo Beato che dava spesso il fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di san Giuseppe Calasanzio: “Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo”». Alla Comunione sono apparsi gli ormai consueti ombrelli bianchi o gialli portati dai volontari per individuare con più facilità i sacerdoti, ed eventualmente ripararli dalla pioggia. Come era già accaduto per la beatificazione e la canonizzazione di san Josemaria, il momento è stato contraddistinto da un raccoglimento impressionante. Uno dei mille volti della festa per don Álvaro. Tra l’altro, moltissimi conventi della Spagna hanno fornito le ostie necessarie e, nei giorni precedenti la beatificazione, il comitato organizzatore si è visto recapitare una gigantesca cassa proveniente da una comunità di Elche, contenente ventimila particole. Era accompagnata da una sola frase: «Per ringraziare don Álvaro». La gratitudine del Prelato Prima della conclusione della cerimonia, mons. Javier Echevarría si è così confidato all’assemblea: «Al termine di questa celebrazione desidero manifestare la mia più profonda gratitudine alla Santissima Trinità per il dono che oggi ha fatto a tutta la Chiesa. La elevazione agli altari di don Álvaro del Portillo, successore di san Josemaría Escrivá, ci ricorda ancora una volta la chiamata universale alla santità, proclamata con grande forza dal Concilio Vaticano II. L’itinerario terreno del beato Álvaro ci dimostra che il perfetto compimento dei propri doveri contrassegna il cammino della santificazione personale, la via che conduce alla piena unione con Dio, alla quale tutti dobbiamo aspirare». 667 Intorno alle 14 di sabato la gratitudine era il sentimento che traboccava sul volto dei duecentomila pellegrini. La fiumana delle persone si è poi dispersa in modo ordinato sul perfetto asfalto di Valdebebas. I più fortunati sono stati quelli che «sfidando» gli organizzatori sono riusciti a parcheggiare a meno di mezz’ora a piedi dall’area riservata all’evento. In tanti si sono poi dati appuntamento nella caotica movida madrilena. Ogni pellegrino ha continuato a celebrare il gran giorno a modo suo. Chi davanti a una cerveza ghiacciata, chi scegliendo una varietà di prosciutto sui tavolini del Museo del Jamón, chi in- zuppando i churros fritti nella cioccolata di un antico locale accanto a Plaza Major (la leggendaria Chocolateria San Gines). Ognuno con il proprio racconto della beatificazione, che difficilmente potrà essere cancellato dalla memoria. Tutti con la consapevolezza di aver toccato con mano un ricorrente incoraggiamento di san Josemaría: «Sonad y os quedereis cortos». «Sognate e la realtà supererà i vostri sogni più audaci». È questa, in fondo, la sintesi di don Álvaro. Il saxum, così amava chiamarlo san Josemaría, che continua a indicare il buon cammino. Alessandro Rivali «Grazie, perdono, aiutami di più» Lettera di Papa Francesco al Prelato dell’Opus Dei In occasione della beatificazione di mons. Álvaro del Portillo, Papa Francesco ha inviato a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, questa lettera che il vicario generale dell’Opera, mons. Fernando Ocáriz, ha letto all’inizio della cerimonia. Nella foto, il Papa e il Prelato al termine dell’udienza del 1° ottobre in Piazza San Pietro. Caro fratello, la beatificazione del servo di Dio Álvaro del Portillo, collaboratore fedele e primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei, è un momento di gioia speciale per tutti i fedeli della prelatura, come pure per te, che sei stato così a lungo testimone del suo amore a Dio e agli altri, della sua fedeltà alla Chiesa e alla propria vocazione. Desidero unirmi anch’io alla vostra gioia e rendere grazie a Dio che adorna il volto della Chiesa con la santità dei suoi figli. La sua beatificazione avverrà a Madrid, la città in cui nacque e in cui trascorse l’infanzia e la giovinezza, con un’esistenza forgiata nella semplicità della vita famigliare, nell’amicizia e nel servizio agli altri, come quando si recava nei quartieri estremi per collaborare alla formazione umana e cristiana di tante persone bisognose. Lì, soprattutto, ebbe luogo l’evento che segnò definitivamente l’indirizzo della sua vita: l’incontro con san Josemaría Escrivá, dal quale imparò a innamorarsi di Cristo ogni giorno di più. Sì, innamorarsi di Cristo. Questo è il cammino di santità che deve percorrere ogni cristiano: lasciarsi amare dal Signore, aprire il cuore al suo amore e permettere che sia lui a guidare la nostra vita. Mi piace ricordare la giaculatoria che il servo di Dio era solito ripetere, specialmente nelle feste e negli anniversari personali: «Grazie, perdono, aiu- 668 tami di più!». Sono parole che ci avvicinano alla realtà della sua vita interiore e del suo rapporto con il Signore e che possono, inoltre, aiutarci a dare nuovo slancio alla nostra vita cristiana. Anzitutto, grazie. È la reazione immediata e spontanea che prova l’anima dinanzi alla bontà di Dio. Non può essere altrimenti. Egli ci precede sempre. Per quanto ci sforziamo, il suo amore giunge sempre prima, ci tocca e ci accarezza per primo, è primo sempre. Álvaro del Portillo era consapevole dei tanti doni che Dio gli aveva concesso e lo ringraziava per quella dimostrazione di amore paterno. Però, non si fermò lì; il riconoscimento dell’amore 27 settembre 2014: del Signore risvegliò nel suo cuore desideri di seguirlo con maggiore dedizione e generosità e di vivere una vita di umile servizio agli altri. Era notorio il suo amore per la Chiesa, sposa di Cristo, che servì con un cuore spoglio di interessi mondani, alieno alla discordia, accogliente con tutti e sempre alla ricerca del buono negli altri, di ciò che unisce, che edifica. Mai un lamento o una critica, nemmeno in momenti particolarmente difficili, piuttosto, come aveva imparato da san Josemaría, rispondeva sempre con la preghiera, il perdono, la comprensione, la carità sincera. Perdono. Confessava spesso di vedersi davanti a Dio con le mani vuote, incapace di rispondere a tanta generosità. Peraltro, la confessione della povertà umana non è frutto della disperazione, ma di un fiducioso abbandono in Dio che è Padre. È aprirsi alla sua misericordia, al suo amore capace di rigenerare la nostra vita. Un amore che non umilia, non fa sprofondare nell’abisso della colpa, ma ci abbraccia, ci solleva dalla nostra prostrazione e ci fa camminare con più decisione e allegria. Il servo di Dio Álvaro conosceva bene il bisogno che abbiamo della misericordia divina e spese molte energie per incoraggiare le persone con cui entrava in contatto ad accostarsi al sacramento della confessione, sacramento della gioia. Com’è importante sentire la tenerezza dell’amore di Dio e scoprire che c’è ancora tempo per amare. Aiutami di più. Sì, il Signore non ci abbandona mai, ci sta sempre accanto, cammina con noi e ogni giorno attende da noi un amore nuovo. La sua grazia non ci verrà a mancare e con il suo aiuto possiamo portare il suo nome in tutto il mondo. Nel cuore del nuovo beato pulsava l’anelito di portare la Buona Novella a tutti i cuori. Percorse così molti Paesi dando impulso a progetti di evangelizzazione, senza preoccuparsi delle difficoltà, spronato dal suo amore a Dio e ai fratelli. Chi è profondamente immerso in Dio sa stare molto vicino agli uomini. La prima condizione per annunciare loro Cristo è amarli, perché Cristo li ama già prima. Dobbiamo uscire dai nostri egoismi e dai nostri comodi e andare incontro ai nostri fratelli. Lì ci attende il Signore. Non possiamo tenere la fede per noi stessi, è un dono che abbiamo ricevuto per donarlo e condividerlo con gli altri. Grazie, perdono, aiutami! In queste parole si esprime la tensione di una vita centrata in Dio. Di chi è stato toccato dall’Amore più grande e di quell’amore vive totalmente. Di chi, pur avendo l’esperienza delle debolezze e dei limiti umani, confida nella misericordia del Signore e vuole che tutti gli uomini, suoi fratelli, ne facciano anch’essi l’esperienza. Caro fratello, il beato Álvaro del Portillo ci invia un messaggio molto chiaro, ci dice di fidarci del Signore, che egli è il nostro fratello, il nostro amico che non ci defrauda mai e che sta sempre al nostro fianco. Ci incoraggia a non temere di andare controcorrente e di soffrire per l’annuncio del Vangelo. Ci insegna infine che nella semplicità e nella quotidianità della nostra vita possiamo trovare un cammino sicuro di santità. Chiedo, per favore, a tutti i fedeli della prelatura, sacerdoti e laici, e a tutti i partecipanti alle vostre attività, di pregare per me, mentre impartisco la Benedizione Apostolica. Gesù vi benedica e la Santa Vergine vi protegga. Fraternamente, Francesco «L’umiltà apre la porta della santità» Omelia del card. Angelo Amato nella Messa di beatificazione «Pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa» è questo il ritratto che Papa Francesco fa del beato Álvaro del Portillo, pastore buono, che, come Gesù, conosce e ama le sue pecore, conduce all’ovile quelle smarrite, fascia le ferite di quelle malate, offre la vita per loro (cfr Ez 34, 11-16; Gv 10,11-16). Il nuovo Beato, da giovane fu chiamato alla sequela di Cristo per essere dopo zelante ministro della Chiesa e per manifestare a tutti la gloriosa ricchezza del suo mistero salvifico: «È lui [Cristo] che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza Álvaro del Portillo Beato che viene da lui e che agisce in me con potenza» (Col 1, 28-29). E la proclamazione di Cristo salvatore egli la fece con una modalità di assoluta fedeltà alla croce e, allo stesso tempo, di esemplare letizia evangelica nelle difficoltà. Per questo oggi la liturgia gli applica le parole dell’apostolo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che nella mia carne manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24). La letizia nelle prove e nelle sofferenze è una caratteristica dei santi. Del resto le beatitudini, anche quelle più ardue come le persecuzioni, non sono altro che un inno alla gioia. 669 Il card. Angelo Amato accoglie i doni all’offertorio della Messa di beatificazione. Sono molte le virtù – come la fede, la speranza, la carità – che il nostro Beato visse con eroismo. Ma questi suoi abiti virtuosi egli li interpretò alla luce delle beatitudini della mitezza, della misericordia, della purezza di cuore. Le testimonianze sono concordi al riguardo. Oltre all’estrema sintonia spirituale e apostolica con il suo santo Fondatore, anch’egli fu una figura di grande umanità. I testimoni affermano che, fin da piccolo, Álvaro era un ragazzo di carattere allegro e studioso, che mai diede problemi («un chico de carácter muy alegre y muy estudioso, que nunca dio problemas»); era simpatico, semplice, gioioso, responsabile, buono («Era cariñoso, sencillo, alegre, responsable, bueno»)1. Dalla mamma Donna Clementina aveva ereditato la proverbiale serenità, la delicatezza, il sorriso, la comprensione, l’attenzione a dir bene delle persone, l’equilibrio nel giudizio. Era un autentico gentiluomo. Non era verboso. La sua formazione scientifica di ingegnere gli permettevano rigore mentale, concisione e precisione per andare subito al cuore dei problemi e risolverli. Ciò incuteva rispetto e ammirazione. Alla squisitezza del tratto univa una eccezionale ricchezza spirituale, nella quale dominava la grazia dell’unità tra vita interiore e instancabile apostolato. Lo scrittore Salvador Bernal afferma che egli trasforma- 670 va in poesia l’umile prosa del lavoro quotidiano2. Era esempio vivente di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa, al magistero del Papa. Trovandosi nella basilica di San Pietro, a Roma, era solito recitare il Credo presso la tomba dell’Apostolo e una Salve Regina davanti all’immagine di Maria, Mater Ecclesiae. Rifuggendo da ogni personalismo, comunicava più che i suoi pareri, la verità del Vangelo e l’integrità della tradizione. La sua vita spirituale era nutrita di pietà eucaristica, di devozione mariana e di venerazione dei santi. Frequenti giaculatorie e preghiere vocali rendevano viva e continua la presenza di Dio. Abituali erano le invocazioni: Cor Iesu Sacratissimum et Misericors, dona nobis pacem!, come anche Cor Mariae Dulcissimum, iter para tutum. Continue erano le invocazioni mariane, come Santa Maria, speranza nostra, ancella del Signore, sede della Sapienza. Portatore del «buon profumo di Cristo» Una tappa decisiva della sua vita fu la chiamata all’Opus Dei. A 21 anni, nel 1935, dopo aver incontrato l’allora trentatrenne san Josemaría Escrivá de Balaguer, rispose generosamente alla chiamata del Signore, che per lui significava anche una vocazione alla santità e all’apostolato. Aveva un profondo sentimento di comunione filiale, affettiva ed effettiva con 27 settembre 2014: il Santo Padre, del quale accoglieva con riconoscenza il magistero, facendolo conoscere a tutti i fedeli dell’Opus. Negli ultimi anni della sua vita baciava spesso l’anello prelatizio che gli era stato regalato dal Papa, per confermare la sua piena adesione ai desideri del Sommo Pontefice, quando soprattutto chiedeva la preghiera e il digiuno per la pace, per l’unità dei cristiani, per l’evangelizzazione dell’Europa. Appartenevano al suo abito virtuoso gli atteggiamenti di prudenza e rettitudine nel valutare gli eventi e le persone; di giustizia nel rispetto dell’onore e della libertà delle persone; di fortezza nel resistere alle avversità fisiche e morali; di temperanza, vissuta come sobrietà, mortificazione interiore ed esteriore. Il nostro Beato fu portatore del buon profumo di Cristo (bonus odor Christi: 2 Cor 2, 15), profumo di santità autentica. Ma c’è una virtù che mons. Álvaro del Portillo visse in modo del tutto straordinario, ritenendola uno strumento indispensabile di santità e di apostolato: la virtù dell’umiltà, come imitazione e identificazione con Cristo mite e umile di cuore. Amava la vita nascosta di Gesù e non rifuggiva da alcuni semplici atti di devozione popolare, come, per esempio, salire in ginocchio la Scala Santa a Roma. A un fedele della prelatura, che aveva visitato lo stesso luogo senza, però, fare a piedi la Scala Santa perché si considerava un cristiano maturo e ben formato, il nostro Beato rispose con un sorriso, aggiungendo che, egli era salito in ginocchio, nonostante l’aria pesante per la molta gente e la scarsa ventilazione3. Fu una grande lezione di semplicità e di pietà. Mons. del Portillo era, infatti, beneficamente contagiato dall’atteggiamento del Signore Gesù, che non era venuto per essere servito ma per servire. Per questo recitava e meditava spesso l’inno eucaristico Adoro Te devote, latens deitas. Così come rifletteva sull’atteggiamento di Maria, l’umile ancella del Signore. Talvolta ricordava un’affermazione del Cervantes in una delle sue Novelas Ejemplares: «Sin humildad, no hay virtud que lo sea» («Senza umiltà non c’è vera virtù»)4. E spesso pregava una giaculatoria comune nell’Opus Dei: «Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies». Anche per lui, come per sant’Agostino, l’umiltà era la casa della carità5. Ripeteva un consiglio che dava spesso il Fondatore dell’Opus Dei, citando le parole di san Giuseppe Calasanzio: «Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere santissimo, sii umilissimo». Non dimenticava nemmeno che era stato un asino il trono di Gesù all’entrata in Gerusalemme. Anche i suoi compagni di studi, oltre a rilevare la sua straordinaria intelligenza, ne mettono in risalto la semplicità, l’innocenza serena di chi non ha alcun complesso di superiorità nei confronti del prossimo. Riteneva come suo peggior nemico la superbia. Un testimone afferma che era l’umiltà in persona6. Álvaro del Portillo Beato Si trattava non di una umiltà aspra, appariscente, esasperata, ma amabile, gioiosa. La sua letizia derivava dalla convinzione di non valere molto. All’inizio del 1994, ultimo anno della sua vita terrena, in una riunione disse: «Lo dico a voi e lo dico a me stesso. Occorre lottare tutta la vita per giungere a essere umili. Abbiamo la scuola meravigliosa di umiltà del Signore, della Santissima Vergine e di san Giuseppe. Dobbiamo imparare. Dobbiamo lottare contro il proprio io che si alza costantemente come una vipera, per mordere. Ma siamo sicuri, se rimaniamo vicino a Gesù che è della stirpe di Maria, ed è lui che schiaccerà la testa del serpente» («Os lo digo a vosotros, y me lo digo a mí mismo. Tenemos que luchar tota la vida para llegar a ser humildes. Tenemos la escuela maravillosa de humildad del Señor, de la Santísima Virgen y de San José. Vamos a aprender. Vamos a luchar contra el proprio yo que está constantemente alzándose como una víbora, para morder. Pero estamos seguros si estamos cerca de Jesús que es del linaje de María, y es el que aplastará la cabeza de la serpiente»7). Per lui l’umiltà era la chiave per aprire la porta della santità, mentre la superbia era il grande ostacolo per vedere e amare Dio. Diceva: «L’umiltà ci sottrae la maschera di cartone, ridicola, che portano le persone presuntuose soddisfatte di se stesse» («La humildad nos arranca la careta de cartón, ridícula, que llevan las personas presuntuosas, pagadas de sí mismas»8). L’umiltà è il riconoscimento dei nostri limiti ma anche della nostra dignità di figli di Dio. Il miglior elogio della sua umiltà lo scrisse una signora appartenente all’Opus, dopo la morte del Fondatore: «Chi è morto è stato don Álvaro, perché il nostro Padre continua a vivere nel suo successore» («El que ha muerto ha sido D. Álvaro, porque nuestro Padre sigue vivo en su sucesor9»). «Pastore secondo il cuore di Gesù» Un cardinale testimonia che quando leggeva il tema dell’umiltà nella Regola di San Benedetto o negli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, gli sembrava di contemplare un ideale altissimo, inarrivabile all’essere umano. Ma quando incontrò e conobbe il nostro Beato capì che l’umiltà spinta fino alla radice era possibile. Si possono applicare al nostro Beato le parole che l’allora cardinale Ratzinger pronunciò nel 2002 in occasione della canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei. Parlando della virtù eroica, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede disse: «Virtù eroica propriamente non significa che uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché lui è 671 stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio [...]. Questa è la santità10». È questa la consegna che fa a noi oggi il beato Álvaro del Portillo «pastore secondo il cuore di Gesù, operoso ministro della Chiesa». Ci invita a essere santi come lui, vivendo una santità amabile, misericordiosa, gentile, mite e umile. La Chiesa e il mondo hanno bisogno del grande spettacolo della santità, per bonificare, con il suo buon profumo, i miasmi dei tanti vizi ostentati con arrogante insistenza. Abbiamo oggi più che mai bisogno di una ecologia della santità, per contrastare l’inquinamento del malcostume e della corruzione. I santi ci invitano a immettere nel seno della Chiesa e della società l’aria pura della grazia di Dio, che rinnova la faccia della terra. Maria Ausiliatrice dei cristiani e Madre dei santi ci aiuti e ci protegga. Beato Álvaro del Portillo, prega per noi. Amen. Card. Angelo Amato Prefetto della Congregazione per le Cause dei santi Positio (2010) I p. 27. Ivi, p. 30. Ivi. p. 662. Ivi, p. 663. 5 Agostino, De sancta virginitate, 51. 6 Ib. p. 668. 7 Positio I p. 675. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 705. 10 Ivi, p. 908. «La fedeltà è il nome dell’amore» Omelia del Prelato dell’Opus Dei alla Messa di ringraziamento «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»: «Ut diligatis invicem, sicut dilexi vos» (Gv 15, 12). Cari fratelli e sorelle, queste parole del Vangelo risuonano oggi nella mia anima come una gioia nuova, considerando che la gente che ieri affollava questo luogo, in piena comunione con Papa Francesco e con quanti ci erano vicini dai quattro punti cardinali, non era propriamente una folla ma la riunione di una famiglia unita dall’amore di Dio e dall’amore mutuo. Questo stesso amore oggi diventa ancora più forte nell’Eucarestia, in questa Messa di ringraziamento per la beatificazione del carissimo don Álvaro, vescovo, prelato dell’Opus Dei. Il Signore, nell’istituire l’Eucarestia, rese grazie a Dio Padre per la sua eterna bontà, per la creazione uscita dalle sue mani, per il suo misterioso disegno di salvezza. E noi lo ringraziamo di quell’amore infinito manifestato sulla Croce e anticipato nel Cenacolo. E chiediamo al Signore: come dobbiamo fare per amare come tu ci hai amato? Per amare come tu hai amato Pietro e Giovanni, ciascuno di noi, e anche san Josemaría e il beato Álvaro? Guardando alla vita santa di don Álvaro, scopriamo la mano di Dio, la grazia dello Spirito Santo, il dono di un amore che ci trasforma. E accogliamo nel profondo dell’anima, facendola nostra, quella preghiera di san Josemaría che tante volte ripeté il nuovo Beato: «Dammi, Signore, l’Amore con cui vuoi che io ti ami1», affinché io sappia amare gli altri con il tuo Amore e con il mio po- 672 vero sforzo. Allora gli altri scopriranno nella mia vita la bontà di Dio, come avvenne nel cammino quotidiano di don Álvaro: in questa Madrid tanto amata nella sua solidarietà con i più poveri e abbandonati si percepiva la misericordia divina. Ci riempie di gioia che nella seconda lettura della Messa ci sia stata ricordata la presenza di Cristo in noi, che ci riveste «di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità» (Col 3, 12). «Dio ci amava ancor prima che nascessimo» Cari fratelli e sorelle, ringraziamo Iddio chiedendogli ancora più amore. Nella maturità della giovinezza, quando aveva 25 anni, don Álvaro era già «saxum», una roccia, per san Josemaría. Con la sua umiltà, un giorno scrisse in una lettera al Fondatore dell’Opus Dei queste parole: «Io nutro l’aspirazione che, malgrado tutto, Lei possa fidarsi di uno che, più che roccia, è fango privo di ogni solidità. Ma il Signore è tanto buono!2». Tale sicurezza nella bontà divina può impregnare anche tutta la nostra esistenza. «Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà», abbiamo ripetuto con il Salmo responsoriale (Sal 138 [137], 2). E innalziamo la nostra gratitudine alla Santissima Trinità perché resta con noi con la sua Parola, Gesù stesso (cfr Col 3, 16), e con il suo Spirito, che ci colma di gioia (cfr Gv 15, 11; Lc 11, 13) e ci permette di rivolgerci a 27 settembre 2014: Mons. Javier Echevarría ha presieduto la Messa di ringraziamento il 28 settembre. Al suo fianco, il card. Salvatore De Giorgi. Dio, pieni di fiducia, chiamandolo «Abba, Pater»: «Padre! papà!». «La trinità della terra ci condurrà alla Trinità del Cielo3», ripeteva don Álvaro seguendo gli insegnamenti e l’esperienza del Fondatore dell’Opus Dei. Gesù, Maria e Giuseppe ci guidano al Padre e allo Spirito Santo; nella santa umanità di Cristo scopriamo la divinità, inseparabilmente unita a essa4. La Sacra Famiglia! Con le parole della prima lettura, benediciamo il Signore «che fa crescere i nostri giorni fin dal seno materno, e agisce con noi secondo la sua misericordia» (Sir 50, 24). Il testo sacro ci fa presente che Dio ci amava ancor prima che nascessimo. Mi vengono in mente i versi che Virgilio indirizza a un neonato: «Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem» (Virgilio, Egloga IV, 60): «Incomincia, piccolo bambino, a riconoscere tua madre dal sorriso». Il neonato scopre l’universo a poco a poco; nel volto di sua madre, pieno d’amore, in quel sorriso che lo accoglie, l’esserino appena venuto al mondo scopre un riflesso della bontà di Dio. Nella giornata odierna che il Santo Padre Francesco ha dedicato alla preghiera per la famiglia, anche noi ci uniamo alle suppliche di tutta la Chiesa per quella «communio dilectionis», quella «comunione d’a- Álvaro del Portillo Beato more5», quella «scuola6» del Vangelo, la famiglia, come diceva Paolo VI a Nazareth. La famiglia, con il «dinamismo interiore profondo dell’amore7», ha una grande «fecondità spirituale8», come insegnò san Giovanni Paolo II, a cui il beato Álvaro era unito da una filiale amicizia. Nel ringraziare don Álvaro, ringraziamo i suoi genitori che lo hanno accolto ed educato, che hanno preparato in lui un cuore semplice e generoso pronto a ricevere l’amore di Dio e rispondere alla sua chiamata. «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Don Álvaro è stato così: un uomo che con il sorriso sulle labbra benediceva Dio che «compie grandi cose» (Sir 50, 24), e che si è servito di lui per il servizio della Chiesa, estendendo l’Opus Dei, come fedele figlio e successore di san Josemaría. Preghiamo affinché molte famiglie siano «focolari... luminosi e allegri, come quello della Sacra Famiglia9», citando parole di san Josemaría. La nostra gratitudine si innalza a Dio per il dono della famiglia, riflesso dell’eterno amore trinitario, luogo in cui ognuno sa di essere amato per sé stesso, così com’è. E ringraziamo adesso anche tutti i padri e le madri di famiglia qui riuniti, e tutti coloro che si occupano dei bambini, degli anziani, dei malati. Famiglie: il Signore vi ama, il Signore è presente nel vostro matrimonio, che è un’immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. So che voi, molti 673 Don Javier Medina Bayo, Postulatore della Causa di beatificazione, ha letto un brano del Decreto sulle virtù eroiche di mons. Álvaro del Portillo. di voi, vi dedicate generosamente a sostenere altri coniugi nel cammino della fedeltà, che aiutate molti altri focolari ad andare avanti in un contesto sociale spesso difficile o addirittura ostile. Coraggio! Il vostro impegno nella testimonianza e nell’evangelizzazione è necessario per tutto il mondo. Ricordatevi quello che ha detto l’amato Benedetto XVI: «La fedeltà nel tempo è il nome dell’amore10». «Trasmettere ciò che abbiamo ricevuto» «Siate riconoscenti» è l’esortazione di san Paolo (Col 3, 15). Il beato Álvaro, pensando a quanto doveva a san Josemaría, affermava che «la migliore manifestazione di riconoscenza è fare buon uso dei doni ricevuti11». Nella sua predicazione, nelle tertulie, in incontri personali, dappertutto, non tralasciava mai di parlare di apostolato e di evangelizzazione. Per perseverare nell’amore di Dio che abbiamo ricevuto, dobbiamo condividerlo con gli altri; la bontà di Dio tende a diffondersi. Papa Francesco diceva che «nella preghiera il Signore ci fa sentire questo amore, ma anche attraverso tanti segni che possiamo leggere nella nostra vita, tante persone che mette sul cammino. E la gioia dell’incontro con Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa12». «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Il Signore, dopo aver ribadito che l’iniziativa è sempre sua, nel primato del suo amore ci manda a diffondere il suo amore per tutte le creature: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (ibidem). «Manete in dilectione mea»: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Rimanere nel Signore è necessario per dare un frutto capace di affondare, a sua volta, delle radici profonde. 674 Gesù lo ha appena detto ai suoi discepoli: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (Gv 15, 4). La folla di questi giorni, i milioni di persone in tutto il mondo, e tante altre che ci aspettano già in Cielo, testimoniano all’unisono la fecondità della vita di don Álvaro. Vi invito, sorelle e fratelli, a restare, a operare nell’amore del Signore: nell’orazione, nella Messa e nella Comunione frequente, nella Confessione sacramentale, affinché tutti noi, fortificati dalla predilezione divina, sappiamo trasmettere ciò che abbiamo ricevuto, e sappiamo farlo attraverso un autentico apostolato di amicizia e confidenza. Nella lettera che l’amato Papa Francesco mi ha scritto in occasione della beatificazione di ieri, ci diceva che «non possiamo tenere la fede per noi stessi, è un dono che abbiamo ricevuto per donarlo e condividerlo con gli altri13»; e aggiungeva che il beato Álvaro «ci incoraggia a non aver paura di andare controcorrente e di soffrire per annunciare il Vangelo», e inoltre «ci insegna che nella semplicità e quotidianità della nostra vita possiamo trovare un cammino sicuro di santità14». In questo cammino, assieme a molti angeli, ci accompagna la Santissima Vergine. Maria è Figlia di Dio Padre, Madre di Dio Figlio, Sposa e Tempio di Dio Spirito Santo. È Madre di Dio e Madre nostra, la Regina della famiglia e la Regina degli apostoli. Che Lei ci aiuti, come ha fatto con il beato Álvaro, a seguire l’invito del Successore di Pietro: «Lasciarsi amare dal Signore, aprire il cuore al suo amore e permettere che sia lui a guidare la nostra vita15», come chiese tante volte san Josemaría alla Vergine dell’Almudena, molto amata e venerata in questa arcidiocesi. Così sia. Mons. Javier Echevarría Prelato dell’Opus Dei 1 San Josemaría Escrivá, Forgia, n. 270. Beato Álvaro del Portillo, Lettera a san Josemaría, Olot, 13 luglio 1939. 3 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 30 settembre 1975. 4 Cfr Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale in occasione delle Nozze d’Oro della fondazione dell’Opus Dei, 24 settembre 1978. 5 Venerabile Paolo VI, Allocuzione a Nazareth, 5 gennaio 1964. 6 Ibidem. 7 San Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale «Familiaris consortio», n. 41. 8 Ibidem. 9 San Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 22. 10 Benedetto XVI, Omelia a Fatima, 12 maggio 2010. 11 Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 1 luglio 1985. 12 Francesco, Discorso, Aula Paolo VI, 6 luglio 2013. 13 Francesco, Lettera a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, in occasione della beatificazione di Álvaro del Portillo celebrata a Madrid il 27 settembre 2014. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 2 27 settembre 2014: Tavola rotonda romana Analisi della biografia/1 J Il primo successore di san Josemaría Il volume di Javier Medina Bayo Álvaro del Portillo. Primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano 2014, pp. 760, euro 22) ha fornito lo spunto per un approfondimento non solo biografico sulla figura del nuovo Beato. Alla tavola rotonda del 18 settembre 2014, nell’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce, moderata da Cesare Cavalleri, hanno preso la parola, dopo il saluto del prelato dell’Opus Dei, il card. Francesco Monterisi (foto), padre Antonio Maria Sicari, la sen. Emma Fattorini e la prof. Maria Vittoria Marini Clarelli, i cui interventi sono pubblicati in queste pagine. Da p. 688, gli interventi della tavola rotonda milanese. avier Medina Bayo, nel redigere il volume che oggi presentiamo, si è avvalso di una documentazione che noi possiamo dire «eccezionale», per dimensioni e contenuti: ha utilizzato, fra l’altro, gli Archivi dell’Opus Dei e della Santa Sede, gli scritti e le dichiarazioni di tanti testimoni, in gran parte de visu, a cominciare dall’attuale prelato dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, che è vissuto per ben quarantaquattro anni con mons. del Portillo. Don Medina ha consultato poi diversi professori ed esperti della storia dell’Opus Dei, e in particolare il postulatore della Causa di beatificazione di mons. Álvaro, e cioè mons. Flavio Capucci, il quale ha presentato alla Congregazione delle Cause dei Santi una Positio in tre volumi, di 2.340 pagine complessive, curata da lui e composta a più mani, come si suole dire (cfr p. 537). Di fatto, la caratteristica di questa biografia che subito balza agli occhi è quella di essere veramente «do- Álvaro del Portillo Beato cumentata», come raramente si trova fra le vite dei santi, anche oggi. Le citazioni, dalle fonti più varie e disparate, sono indicate nelle Note collocate alla fine del volume e occupano più di 90 pagine (pp. 633725). Le Note stesse, con i rispettivi commenti, aiutano moltissimo a entrare nel vivo della narrazione delle vicende e della bell’anima di don Álvaro. Alla fine del volume vi sono anche un’Appendice documentale e una Cronologia della vita di don Álvaro, molto utili alla lettura e alla comprensione del testo. Sul contenuto di questa biografia, si può dire che l’Autore innanzitutto espone in successione storica il dipanarsi della vita di don Álvaro, con precisione e abbondanza di informazioni: dalla sua nascita e formazione alle prime responsabilità, dalla sua adesione all’Opus Dei al suo insediamento a Roma e, via via, alle sue attività come procuratore, segretario generale e quindi prelato dell’Opus Dei e al lavoro per il Concilio ecumenico Vatica- 675 no II e per i dicasteri della Santa Sede. Le vicende della vita di mons. Álvaro sono inquadrate, con pericopi brevi ed essenziali ma incisive, nei contesti storici, civili ed ecclesiastici che toccarono o talvolta condizionarono le fasi dell’esistenza del futuro Beato: la Guerra di Spagna, la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda, la situazione italiana e mondiale: dal punto di vista ecclesiale, la creazione e lo sviluppo dell’Opus Dei guidata da san Josemaría Escrivá, il Concilio, le modifiche da esso apportate nella Chiesa e nella Curia romana, con il susseguirsi dei Papi da Pio XII a Giovanni Paolo II. Ma tengo soprattutto a sottolineare che l’impianto storiografico della biografia si intreccia armonicamente con la descrizione del carattere, delle doti, delle virtù e della spiritualità di don Álvaro. Questa simbiosi mi sembra il pregio più notevole di questa biografia. Cioè, la narrazione della storia e l’osservazione dell’anima di mons. del Portillo sono ben combinate e compenetrate l’una nell’altra. La lettura risulta piacevole, molto interessante e coinvolgente. Infine, il racconto e le riflessioni procedono in forma piana, certamente con viva passione e partecipazione d’animo dell’Autore, ma non c’è traccia di quell’enfasi celebrativa o «oleografica» che spesso appare in tante biografie di santi. Questo perché parlano da sé stesse le vicende della vita di mons. del Portillo, a volta paradossali e straordinarie (come quelle del riuscito passaggio dal territorio controllato dalle forze «repubblicane» a quello dell’esercito «nazionale» verso la fine della Guerra di Spagna, nel 1938; cfr pp. 109-113). Ma sono altrettanto rivelatrici della sua personalità anche le notizie su fatti semplici, personali, familiari e comunitari, talvolta pure comici, descritti con vivacità in questo libro. Da tutto il volume emerge con naturalezza la figura sovrastante di un uomo di fede, affettuoso e generoso, sacrificato e cordiale, semplice e grande, quale fu il prelato dell’Opus Dei mons. Álvaro del Portillo. Sicurezza, serenità, buonumore Il carattere dell’imminente Beato si delineava già nella sua fanciullezza e gioventù. Fu considerato da alcuni parenti «deciso ed energico, ma unito a grande affabilità»; i genitori e altri familiari descrissero il piccolo Álvaro talvolta «alquanto brusco, persino discolo» (di fatto, aveva fatto solo qualche marachella come di solito fanno i fanciulli). In realtà era un ragazzo «vivace e risoluto», nonostante qualche tratto di «timidezza». Per questa sua riservatezza – egli stesso lo racconta – al momento di iscriversi all’università, scelse la facoltà di Ingegneria e non quella di Giurisprudenza, come aveva fatto suo padre, perché preferiva la professione più «discreta» degli ingegneri a quella «pubblica» degli avvocati. 676 Questo temperamento era comunque «accompagnato da una grande bontà». Un compagno di scuola lo ricorda come un «bambino normalissimo, ma diverso in questo: che aiutava costantemente gli altri». Da alunno intelligente e responsabile della scuola Nuestra Señora del Pilar, retta dai Marianisti a Madrid, ricevette voti alti, tanto da essere iscritto nel Libro d’Oro dell’Istituto. Soprattutto, in tale scuola e in famiglia, ricevette un’ottima formazione religiosa, che profondamente si impresse nel suo cuore. Aveva poi un costante buonumore, con senso di sicurezza e serenità, mantenendolo anche nelle difficoltà. Per esempio, faceva delle «battute» con i fratelli sulla stretta dieta che doveva seguire a colazione a causa dei medicinali al salicilico prescritti per guarire da un’affezione reumatica: «Che fortunaccia (suertasa) avete! A voi uovo fritto e fagioli, a me solo salicilati» (pp. 39 e ss.). Ovviamente, queste doti specifiche di carattere e di spirito si sarebbero poi arricchite e perfezionate nel corso delle vicende della vita, ma sempre nello stesso senso. Di fatto, san Josemaría Escrivá colse subito la ricchezza d’animo del giovane Álvaro fin da quando questi cominciò ad accostarsi all’Opus Dei, all’età di 21 anni. Ne riconobbe subito il temperamento deciso e forte, insieme alla bontà d’animo. Lo chiamò in seguito «Saxum» e gli spiegò che questo titolo stava per «Roccia, fortezza, fondamento, paternità» (p. 125). («Saxum» è il nome che è stato dato alla Casa di Ritiri spirituali che l’Opus Dei sta costruendo in Terra Santa, presso Abu Gosh; speriamo che la beatificazione di mons. Álvaro ne affretti la conclusione). Tornando alle caratteristiche dell’animo di mons. del Portillo, mi limito a segnalarne tre. Innanzitutto la sicurezza, la serenità d’animo e anche il buonumore. Fu un uomo di pace. Nato a Madrid nel 1914, morto a Roma nel 1994, visse in un secolo segnato da guerre e divisioni. Basti ricordare la Guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale, il mondo diviso in blocchi. Nella Chiesa, sentì profondamente la sofferenza delle persecuzioni comuniste, le divisioni del Concilio e le tensioni del periodo postconciliare; infine, anche prima del suo arrivo a Roma nel 1946 e fino alla morte, ebbe un impegno veramente arduo, anche se esaltante, di accompagnare i primi passi e di espandere l’Opus Dei. In totale obbedienza al fondatore san Josemaría e affrontando difficoltà di ogni genere – viaggiando spesso in Europa e negli altri continenti –, don Álvaro sapeva mantenere un atteggiamento di calma, di sicurezza, di decisione, fondato certamente nella sua fiducia e nel suo amore per Cristo e frutto della sua volontà affinata nelle prove. Il giovane Álvaro mostrò queste disposizioni già quando, ancora ventenne e quindi prima di aderire all’Opus Dei, fu assalito da un gruppo di facinorosi anticlericali, da cui ricevette un colpo di chiave in- 27 settembre 2014: L’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce durante il saluto di mons. Javier Echevarría. Da sinistra, Cesare Cavalleri, Emma Fattorini, il card. Francesco Monterisi, Maria Vittoria Marini Clarelli, p. Antonio Maria Sicari, Javier Medina Bayo. glese alla testa, all’uscita da una parrocchia di Madrid nella quale insegnava il catechismo. Non si diede in recriminazioni e lagnanze. Il medico che poi lo curò diceva alla madre: «Che ragazzo coraggioso! Non si lamenta mai!» (p. 60). Negli anni ‘50, durante la costruzione di Villa Tevere, sede centrale dell’Opus Dei a Roma (costruzione che san Josemaría aveva in pratica affidato totalmente a don Álvaro), non di rado mancavano le risorse economiche ed egli, vivendo in strettezze, era afflitto da dolori e febbri frequenti. Ricordando quei tempi, mons. del Portillo scriveva: «Tutte le difficoltà si sommavano, comprese quelle materiali che, sebbene non ci togliessero la pace, ci portavano via molto tempo». Si aggiunse anche il fatto che delle persone interessate presentarono un’ingiusta querela contro i lavori che si stavano realizzando. Egli, pur sapendo di avere pienamente ragione, scelse la via del dialogo e con serenità e pazienza incontrò i denuncianti, riuscendo a calmarne gli animi. Alla fine le denunce furono respinte dalle autorità competenti. «Si tratta di preoccupazioni che non preoccupano», diceva don Álvaro riferendosi a questi avvenimenti (pp. 237 e ss.). Agli inizi degli stessi anni ‘50, ci fu una pericolosa e dolorosa campagna di calunnie contro l’Opus Dei, sollevata da varie parti (pp. 275 e ss.). Se ne presentò poi un’altra ancora più dura, dal 1983 in poi, subito dopo l’erezione dell’Opus Dei in prelatura personale, durante la quale le contestazioni si diffusero in diversi Paesi europei, proprio per diffamare l’Opera (pp. 446 e ss.). Nella prima, ma soprattutto nella seconda, quando mons. del Portillo era prelato, egli affrontò questi attacchi con grande serenità Álvaro del Portillo Beato e pace. Questi sentimenti infuse anche nei suoi collaboratori e fedeli, incoraggiandoli a mantenere la visione soprannaturale e a non cedere alla dinamica della contrapposizione. Il libro di don Medina riferisce diversi episodi di quel periodo burrascoso (si mossero il prof. Hans Küng e, purtroppo, anche il teologo Urs von Balthasar; cfr p. 449). Mons. Álvaro chiamava «aneddoti» questi episodi, come a sminuirne la drammaticità, e manteneva la calma, interna ed esteriore, propria di chi scorge in tutto la mano di Dio. Tuttavia, non mancò di difendere l’Opus Dei (e anche il Papa e la Chiesa, pure attaccati in quel periodo post-conciliare), usando i mezzi umani più adatti alla situazione, ma con spirito sereno e leale verso tutti. Un padre amorevole Una seconda caratteristica di fondo dell’animo di mons. del Portillo fu lo spirito di paternità e amore, aiuto agli altri, concretizzato in iniziative sociali. Come detto prima, il piccolo Álvaro era un ragazzo «normalissimo, ma si distingueva perché aiutava molto i compagni di scuola». Da giovane, durante gli anni ‘20 e ‘30, si dedicò alle necessità dei più deboli; si recava tra i poveri di Madrid per assisterli, pri- 677 ma con gli amici della San Vincenzo de’ Paoli; poi con gli universitari del primo Centro dell’Opera. La sollecitudine per le necessità del prossimo rimase una costante nella sua vita. Nella Roma del periodo della guerra e in quello post-bellico, si adoperò molto per il sostentamento di molti fedeli e specialmente dei membri dell’Opus Dei che vi giunsero per studiare nelle Università ecclesiastiche. Quando poi divenne prelato, seppe ispirare decine e decine di iniziative in tutto il mondo sul piano sociale: scuole urbane e rurali, centri di formazione, ospedali. Quando si recava in un posto in Africa o in America Latina, cercava di scoprire quali erano le necessità più urgenti delle popolazioni. Quindi, con il suo solito spirito sereno ma determinato, incoraggiava i fedeli dell’Opus Dei del luogo a darsi da fare per mettere in piedi qualche iniziativa per rispondere a tali necessità. E poi, con costanza, seguiva queste opere affinché arrivassero a piena maturità. Qualcuno le ha radunate in una mappa che mostra come le «ispirazioni sociali» di don Álvaro siano arrivate praticamente in tutti i continenti. Il capitolo di questo libro sui «viaggi pastorali» di mons. Álvaro riportano i dati principali su questo suo interessamento di tipo «sociale» (cfr pp. 452-477). Il campo principale della sua paternità spirituale furono naturalmente i sacerdoti e i fedeli dell’Opus Dei. Metteva grande attenzione al buon andamento del Collegio Romano e della Pontificia Università della Santa Croce, ma anche dell’Università di Navarra e di altri centri di formazione, perché specialmente in tali istituzioni si formano, con i membri dell’Opera, moltissimi altri fedeli. Aveva un affettuoso rapporto con tutti e singoli, fin dal primo incontro. Seguiva lo sviluppo delle vocazioni nell’Opera, sia con contatti personali, sia almeno con una fitta corrispondenza. Tipica la sua vicinanza a un malato che andava a incontrare spesso in un ospedale di Zurigo, o ai ricoverati nella clinica dell’Università Navarra, o nel Campus Biomedico di Roma. Tutti concordano nel riconoscere che mons. del Portillo, fu un autentico «Pastore buono» della prelatura personale (pp. 356 e ss.; pp. 403 e ss.). Fedeltà alla Chiesa & al Papa Infine, il tratto più distintivo della sua personalità è stata la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa, all’Opus Dei e al suo fondatore. Del resto, questa fedeltà non era che «fedeltà a Cristo», poiché il Signore si rivelava a don Álvaro, dietro le figure del Papa e di san Josemaría, come in filigrana. Si può dire che tutte le pagine di questa biografia, a ogni piè sospinto, sono ricche di episodi e di dichiarazioni di fedeltà di don Álvaro a san Josemaría e alla Chiesa. In un momento di forte crisi generale, in un mondo spesso 678 lacerato dalle rotture e dalle opposizioni alla Chiesa e ai suoi insegnamenti, il libro ci mostra un sacerdote e vescovo che ha speso tutta la vita nel promuovere il grande valore della fedeltà, che dà dinamismo a tutta la vita. La sua è stata, infatti, una «fedeltà dinamica», come la descrisse il card. Julián Herranz. Nella «fedeltà e continuità» con l’azione e il carisma del fondatore, don Álvaro diede un impulso e un ampliamento straordinario all’Opus Dei. Innanzitutto, la fedeltà di mons. Álvaro al Papa e alla Chiesa era nella scia dello spirito «romano» che san Josemaría aveva infuso nell’Opera, in maniera forte e concreta, non solo nei suoi Statuti. Per don Álvaro era una gioia e un gesto di fede poter essere ammesso a udienze personali con i Papi succedutisi durante il suo soggiorno a Roma, da Pio XII a san Giovanni Paolo II. Tali udienze sono state sempre una testimonianza del suo amore per il Papa e talvolta anche risolutive di alcuni problemi dell’Opus Dei. Don Álvaro era molto legato al fatto di aver ricevuto la consacrazione episcopale dal Papa, il 6 gennaio 1991. Il volume narra che mons. del Portillo, da prelato, con una certa frequenza toccava il suo anello pastorale e lo baciava. Don Álvaro stesso ne raccontò il perché: alla fine di un’udienza con san Giovanni Paolo II, aveva rivolto questa preghiera al Papa: «Santo Padre, vorrei che Lei indossasse un momento questo anello». Glielo diede, e il Papa se lo mise al dito. Quando glielo restituì, don Álvaro disse al pontefice: «Quest’anello mi ha dato sempre il senso della presenza di Dio, perché è il simbolo della mia unione con l’Opus Dei… Ma adesso che Vostra Santità lo ha indossato, mi darà anche la presenza del Papa» (p. 404). Mons. del Portillo lavorò molto per la Chiesa prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, con giorni e notti passati a studiare, leggere e comporre testi e pareri (mirabile il suo lavoro per la redazione del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis). In seguito, ebbe varie nomine a membro e consultore di importanti dicasteri della Curia. Quando mons. Fernando Ocáriz ricevette la nomina a consultore della Congregazione della Dottrina della Fede, gli disse: «Se sei chiamato a un lavoro per la Santa Sede, bisogna rispondere sempre di sì» (p. 412). Così aveva sempre fatto lui stesso, pur sapendo il sacrificio che ogni nuovo lavoro per la Santa Sede comportava. (Purtroppo, per mancanza di tempo, non posso parlare della sua profonda cultura teologica e giuridica, delle sue pubblicazioni tradotte e apprezzate in tutto il mondo). San Giovanni Paolo II, come i suoi predecessori, aveva una profonda stima di mons. Álvaro. Lo dimostrò in particolare quando si recò a visitarne e benedire le spoglie a Villa Tevere, il giorno stesso della morte, il 23 marzo 1994 (p. 528). Da Gerusalemme, pochi giorni prima, don Álvaro aveva scritto una cartolina al Segretario del Papa, mons. 27 settembre 2014: Stanislao Dziwisz, per pregarlo di «presentare al Papa il nostro desiderio di essere fideles usque ad mortem nel servizio della Santa Chiesa e al Santo Padre» (p. 528). Nel libro appaiono impressionanti anche l’amore e la fedeltà di mons. del Portillo all’Opus Dei e al suo fondatore. Paolo VI, all’indomani dell’elezione di mons. Álvaro a successore di san Josemaría, gli aveva detto: «Lei, quando deve risolvere un problema, si metta alla presenza di Dio e si domandi: in questa situazione che farebbe il mio fondatore? E agisca di conseguenza. Dica a tutti i suoi figli e a tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora –, con efficacia, con profondità e con ampiezza» (p. 357). La sintonia tra san Josemaría e don Álvaro fu totale e perfetta. Si stimavano e si amavano di cuore. Mi devo limitare a indicare questo dato generale, ma i fatti e le espressioni di questo amore e di questa stima sono innumerevoli in questa biografia. Mi limiterò a dire che don Álvaro, alla morte del fondatore, tra i tanti compiti richiesti dalla guida dell’Opus Dei, si propose e riuscì a ottenere due obiettivi fondamentali: la beatificazione di mons. Josemaría Escrivà, il 17 maggio 1992, e l’approvazione dell’Opus Dei come prelatura personale, con la Bolla pontificia Ut Sit del 19 marzo 1993. La beatificazione era molto importante per sottolineare l’esempio di santità del fondatore dell’Opus Dei per tutta la Chiesa; ma sottolineava anche l’amore e la stima di mons. Álvaro e di tanti per san Josemaría. Si può dire che, pur con enorme lavoro, questo obiettivo fu raggiunto senza grandi scosse. A differenza del secondo obiettivo, cioè l’approvazione dell’Opus Dei come prelatura personale. Questa co- stituiva una vera e propria novità nella Chiesa, ma era indispensabile per definire l’identità stessa dell’Opera e il suo carisma. Il carisma dell’Opus Dei, come sappiamo, è l’appello ai cristiani a raggiungere la santità nello svolgimento delle proprie attività e professioni, da «secolari», com’è la loro condizione di vita. La prelatura personale avrebbe avuto anch’essa il carattere secolare; i suoi sacerdoti non sono «religiosi» con la vita comune e i voti, ma «secolari»; i suoi fedeli laici hanno anche compiti direttivi. L’Opera ha comunque un’estensione a carattere mondiale, guidata da un prelato, con sede a Roma, in stretta comunione con il Papa. Per raggiungere questa approvazione definitiva dalla Santa Sede, don Álvaro, forte delle sue competenze giuridiche, aveva lavorato fin dal suo ingresso nell’Opera, insieme a san Josemaría, ma fu lui, con determinazione e con grande lavoro di approfondimento e convinzione presso personalità e uffici della Santa Sede e dell’episcopato, a ottenere il risultato, «contro venti e marosi», come si suol dire. Sono appassionanti e istruttive le pagine del libro su questa vicenda. Mi piace concludere con alcune espressioni non mie. Nell’epilogo del libro vengono riferite queste parole del nostro amato prelato, mons. Javier Echevarría. Esse, mi sembra, veramente sintetizzano tutto della personalità di mons. Álvaro del Portillo e del significato della sua beatificazione: «Don Álvaro ha servito costantemente la Chiesa proprio perché ha assecondato nostro Padre (san Josemaría) come un “figlio fedelissimo”» (p. 540). Sono certo che la sua beatificazione sarà un bene immenso, per la Chiesa e per l’Opus Dei. Card. Francesco Monterisi Arciprete emerito della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura Il carisma del beato Álvaro del Portillo di Antonio Maria Sicari La santità di un cristiano è sempre legata al fedele compimento della missione che Dio gli assegna. Nel caso di Álvaro del Portillo – chiamato a essere il primo collaboratore e il primo successore di san Josemaría Escrivá – è perciò necessario rifarsi al carisma del fondatore, per vedere come egli lo abbia assimilato e vissuto. In Mutuae Relationes (1978) – uno dei primi documenti del Magistero in cui è stata affrontata tale questione – si legge: «Il carisma dei Fondatori si rivela come un’esperienza dello Spirito, da essi trasmessa ai propri discepoli, per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente svi- Álvaro del Portillo Beato luppata, in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita» (n. 11). Studiando molti anni fa la questione, mi è sembrato che gli elementi costitutivi di tale carisma (di fondatore e di fondazione) si potessero descrivere così: l Lo Spirito Santo, in un particolare momento della storia della Chiesa e per rispondere a particolari necessità dei fedeli, getta, per così dire, una luce nuova sul mistero di Cristo: da tale luce viene illuminato tutto il mistero cristiano (dato che esso non può mai essere frammentato), ma secondo una particolare prospettiva unificante. 679 l Lo Spirito Santo, con lo stesso unico getto di luce, brucia il cuore del carismatico (del futuro «fondatore») che s’innamora del Signore Gesù e del suo mistero amorosamente e indimenticabilmente contemplato in quella speciale prospettiva che gli è stata offerta. l Lo Spirito Santo, con questa stessa duplice e indivisibile luce, fa risaltare una specifica drammaticità della situazione ecclesiale, alle cui necessità il carismatico sente di dover dare risposta, con opere molteplici corrispondenti all’illuminazione ricevuta. l Lo Spirito Santo mobilita tutte le energie, naturali e soprannaturali, del carismatico perché possa fedelmente adempiere il compito che gli è affidato, e diffonde la sua «luce» anche su coloro che questi raduna attorno a sé come discepoli, non solo nei primi tempi della sua missione, ma anche nel corso della storia durante cui quel carisma si prolungherà e si consoliderà. l Lo Spirito Santo illumina anche i responsabili della Chiesa, perché possano discernere il carisma, possano accoglierlo e valorizzarlo, e possano armonizzarlo con gli altri doni, perché serva all’edificazione dell’unico corpo ecclesiale. l Lo Spirito Santo, nei successivi momenti della storia, farà sì che la stessa luce originaria si proietti ancora su necessità nuove e inedite della Chiesa e del mondo: in tal modo la fedeltà allo stesso e identico carisma si coniugherà con forme nuove di servizio ecclesiale e missionario»1. 680 Forse doveva essere meglio precisato l’apporto ineliminabile dei «discepoli» e soprattutto dei primi «compagni» del fondatore, senza i quali non si darebbe «fondazione». Questo rapporto di solito viene raccontato secondo una molteplicità di immagini: la piantagione, la famiglia, la casa, il corpo, il gregge2. L’immagine più decisiva resta comunque quella della generazione: il fondatore si percepisce ed è percepito come un padre (a volte perfino come una madre!), e i discepoli si percepiscono come figli, tanto che il fondatore può dire loro, con san Paolo: «Io vi ho generati in Cristo Gesù». Non mancano nella storia casi dolorosi in cui al fondatore viene a mancare (almeno parzialmente) tale sequela, al punto che egli stesso si trova poi messo in disparte ed è costretto a soffrire una certa distorsione negli scopi o nei metodi della sua opera. Così non ne mancano altri in cui i discepoli iniziano presto a «interpretare il fondatore», provocando conflitti e divisioni tra i seguaci di uno stesso carisma. E non mancano fondatori ai quali toccano in sorte discepoli piuttosto sbiaditi e seriali. Per grazia di Dio, se il carisma originario viene davvero dallo Spirito Santo ed è davvero necessario alla Chiesa, nel corso della storia, tra i discepoli, sorge poi qualche santo a dargli nuovo splendore ed efficacia. È ovvio tuttavia che la fedeltà dei discepoli al carisma del fondatore è condizione ineliminabile, se si vuole assecondare generosamente l’iniziativa dello Spirito Santo; fedeltà tanto più necessaria quanto più il carisma presenta aspetti di novità, che potrebbero essere male interpretati: sia da chi – in nome della novità – vorrebbe rifiutarli, sia da chi – in nome della stessa novità – vorrebbe impadronirsene. Tale era il caso del carisma di san Josemaría Escrivá, chiamato ad anticipare con forza una delle più belle conquiste del futuro Concilio ecumenico Vaticano II: la solenne proclamazione della vocazione universale dei fedeli alla santità3. Purtroppo, tutto quello che so del nuovo Beato l’ho letto nella Biografia che oggi viene presentata4, e posso solo parlarvi di ciò che, leggendola, mi ha particolarmente colpito. Ciò che maggiormente vi risalta è l’incontro felice tra un fondatore ricco di carisma e di passione per i drammi della Chiesa (del suo e del nostro tempo) e un primo discepolo, presto riconosciuto come tale. Il nome che deve essere dato a questo «incontro felice» è la parola «fedeltà», ma intesa in senso molto profondo e bidirezionale, che va, cioè, dal fondatore-Padre al discepolo-figlio e dal discepolo-figlio al fondatore-Padre. Unione di mente & di cuore col fondatore Fedeltà è la prima e l’ultima parola (oltre che la più ricorrente) che legge chi prende in mano la biografia su don Álvaro. Già nel titolo originario era scritto: Álvaro del Portillo. Un hombre fiel (peccato che sia stato tolto nella traduzione italiana) e nella quarta di copertina si leggono queste parole di san Josemaría rivolte a tutti gli altri discepoli: «Álvaro ha la fedeltà che voi dovete avere sempre, e ha saputo sacrificare con un sorriso tutto ciò che aveva di personale...». A p. 70 poi leggiamo: «Álvaro ricevette un carisma particolare: la coscienza precisa che poteva condurre la missione che Dio gli affidava soltanto vivendo in totale unione di mente e di cuore col fondatore. Era convinto che la sua strada d’identificazione con Gesù passasse dalla sequela fedele di san Josemaría: questo era il “canale regolamentare”». E viene citata la risposta che egli stesso diede a Cesare Cavalleri in un’intervista del 1992: «Mi considero, con un santo orgoglio – anche se immeritatamente da parte mia – figlio spirituale del fondatore e debitore insolvente... Mi unisce, pertanto, al Padre la filiale immensa stima che ho di lui, tanto perché mi diede sempre un esempio di santità eroica quanto perché fu lo strumento del Signore per farmi trovare la mia vocazione, che è la ragione della mia vita». Quando Álvaro si presentava in pubblico assieme a Josemaría tutti notavano l’affinità che li legava, 27 settembre 2014: espressa perfino nello sguardo. Lo zioni di don Álvaro con il fondatore. sottolinea bene questa bella testimoUsciti dalla basilica, san Josemaría nianza di Luis Prieto, uno studente gli domandò: “Álvaro, che cosa hai ventenne che lo conobbe già nel chiesto alla Vergine?”. “Vuole che 1945: «Ebbi la sensazione che “usasglielo dica?”, rispose don Álvaro. se” il suo talento a servizio del fonPoiché il fondatore aveva assentito, datore, con tanta naturalezza e didisse: “Ebbene ho ripetuto ciò che screzione che i suoi interventi nemdico sempre, ma come se fosse la meno si notavano. […] Fra i due traprima volta. Le ho detto: ti chiedo spariva l’esistenza di una tale sintociò che ti chiede il Padre”» (p. 260). nia che, per comprendersi, a don ÁlAntonio Maria Sicari l «In una lettera a san Josemaría – varo bastavano poche parole o uno scritta nel gennaio del 1944, in occasione di uno dei sguardo del fondatore per interpretare discretamensuoi viaggi fuori Madrid per motivi di studio –, si te il suo volere e andare rapidamente a compiere vede come egli valutasse il fatto di vivere così viciquanto richiesto [...]. Era tale l’unità di volontà che no a quel santo sacerdote: “Come sempre, molto a volte restava il dubbio su a chi attribuire l’iniziacontento: ma anche, come al solito, con quel tanto di tiva di un intervento» (p. 201). tristezza che si mescola alla mia gioia quando mi seLa fedeltà risaltava perfino nelle formule spirituali paro dal Padre. Per questo mi costa tanta fatica parche trasmetteva, dato che egli si preoccupava di tire da Madrid. Capisco bene che è una sciocchezza, chiarire fin dall’inizio agli ascoltatori: «L’importanma è la vita! Padre: ho un’enorme voglia di essere te non è quel che dirò io, l’importante è ciò che lo una persona buona e di lavorare davvero nell’Opera, Spirito Santo suggerisce nell’anima di ciascuno, per la Chiesa. Peccato che così spesso faccia l’idiocompresa la mia» (p. 198), e precisava che «nella ta e non mi comporti come devo! Mi raccomandi, sua» lo Spirito faceva sempre riecheggiare le paroPadre, perché qualche volta riesca a essere uno strule del fondatore! mento buono, davvero docile, nelle sue mani. Ogni Sappiamo che, nella mentalità comune, una fedeltà volta che sono lontano da Lei prego con più forza così totale rischia di essere interpretata come passiche mai, con tutta la mia anima, per mio Padre. E vità intellettuale e sudditanza psicologica. Ma trocosì la mia presenza di Dio aumenta, nel ricordo del viamo, al riguardo, la forte difesa di un uomo eccePadre e nell’offrire cose per lui”» (pp. 181-182). zionale – il cardinale Andrzej Maria Deskur, che descriveva così «l’unità, soprannaturale e umana, di l «Il 19 marzo 1936 Álvaro rinnovò la sua incoraffetti e intenzioni, che esisteva tra san Josemaría e porazione all’Opera in maniera definitiva. Fu una don Álvaro»: «Pur nella diversità dei caratteri, [escerimonia breve, semplice e al contempo solenne, si] fanno tutt’uno nella mia memoria: Álvaro era nel corso della quale san Josemaría soleva allora una sorta di reduplicazione del fondatore. Non una baciare i piedi dei suoi figli spirituali [...]. Álvaro copia inerte, ma un ritratto vivo e fedele. Ne portaconservò indelebile per tutta la vita il ricordo di va scolpiti nella mente gli insegnamenti e, ciò che quel momento e la scena gli tornò in mente con forpiù conta, il suo animo aveva assimilato gli esempi za il 27 giugno 1975, mentre pregava davanti alla al punto che non riuscivi mai a distinguere ciò che salma del fondatore. Prima di procedere con la seera suo da ciò che scaturiva dal contatto con il Papoltura s’inginocchiò e gli baciò i piedi. Più tardi dre. Finché capivi che non si poteva operare questa avrebbe spiegato il perché di quel gesto: “Mi ricordistinzione: tutto ciò che Álvaro aveva imparato dal dai di quando il Padre li aveva baciati a me, e gli rebeato Josemaría era profondamente suo, parte di sé stituii il bacio. Come potevo dimenticarlo? Non è stesso, era la sua vita. Egli fu il miglior esempio stato soltanto un gesto. Non è stata soltanto l’edella virtù della fedeltà» (p. 273). spressione di fedeltà e di unione. Molto di più: è stato un tornare a donare me stesso”» (p. 81). Tre episodi emblematici Solo questa attenta ricostruzione psicologica e spirituale ci consente di rileggere con tenerezza certi episodi della loro vita. Vorrei sottolinearne almeno tre che mi hanno particolarmente colpito: l Nel gennaio 1948 fecero un rapido viaggio Loreto per affidare alla Madonna l’espansione dell’Opera in Italia. «In quella breve visita tornò a manifestarsi la profondissima unione di affetti e d’inten- Álvaro del Portillo Beato Sono tre episodi intensi, ma potremmo ricordarne anche altri più semplici e famigliari: l l’esperienza del giovane Álvaro che in un momento di grave difficoltà sente con sicurezza, da lontano che il Padre sta pregando per lui (cfr p. 130). l Álvaro che fa il pagliaccio in uno studio fotografico per far sorridere il fondatore che si è messo in 681 posa tutto serio, in modo che non resti poi ai suoi figli un’immagine accigliata, ma sorridente di san Josemaría (cfr p. 268). l E ci fu anche tra loro un intenso momento di comunione mistica che il fondatore ha così annotato: «Ricordi? – Facevamo, tu e io, la nostra orazione al cader della sera. Si udiva, lì vicino, il rumore dell’acqua. – E, nella quiete della città castigliana, sentivamo anche voci diverse che parlavano in cento lingue, gridandoci ansiosamente che ancora non conoscevano Cristo. Baciasti il Crocifisso senza ritegno e gli chiedesti di essere apostolo di apostoli» (p. 265). l Ma c’è anche un simpatico momento di sofferenza, per un contrasto di opinioni: «[Una confidenza di san Josemaría, alle sue “figlie”, alla presenza dello stesso Álvaro, durante la costruzione degli edifici di villa Tevere]: Oggi don Álvaro mi ha fatto una correzione. Mi è costato accettarla. Tanto che me ne sono andato un momento in oratorio e ho detto: “Signore, Álvaro ha ragione e io no”. Ma subito dopo: “No, Signore, questa volta ho ragione io... Álvaro non me ne fa passare neanche una... e questo non mi sembra affetto, è crudeltà”. E poi: “Grazie, Signore, per avermi ha messo accanto mio figlio Álvaro che mi vuol tanto bene... e non me ne lascia passare neanche una!”». Poi si rivolge a del Portillo che, con ritrosia, ha ascoltato in silenzio. Gli sorride e gli dice: «Dio ti benedica, Álvaro, figlio mio!» (p. 291). E fu alla morte del Fondatore che la bella certezza e la certa bellezza della fedeltà giocarono tutta la loro forza: «Lo spirito con cui desiderava affrontare quel periodo [in cui bisognava eleggere il successore] era quello che lo aveva animato per tutta la vita…: fedeltà agli insegnamenti di san Josemaría. E la stessa cosa chiedeva i suoi fratelli: se il Padre potesse parlarci che ci chiederebbe? Penso che l’abbia già detto a tutti: dobbiamo essere fedeli! Siatemi fedeli era il ritornello del Padre, siatemi fedeli! Mi permetto di insistere, sorelle e fratelli miei, che è giunta l’ora: è questo il momento di essergli più fedeli che mai, il tempo di una decisa conversione della nostra vita a una fedeltà più piena, più fine, più sincera, più innamorata, più generosa, a tutta l’eredità spirituale che il Padre ci ha trasmesso, donando per noi la sua stessa vita…» (p. 347). E raccontò che Paolo VI gli aveva appunto raccomandato di restare fedelissimo allo spirito del fondatore: «Mi diceva: “Lei, quando deve risolvere un problema, si metta la presenza di Dio e si domandi: in questa situazione che farebbe il mio fondatore? E agisca di conseguenza”. Dica a tutti i suoi figli e a tutte le sue figlie che, restando fedeli allo spirito del fondatore, serviranno la Chiesa – così come l’hanno servita finora – con efficacia, con profondità con ampiezza”» (p. 354; ripetuto a p. 489). 682 Una «profezia» battesimale Al termine di questa mia veloce lettura della biografia, mi pare di dover ancora sottolineare un altro aspetto della sua anima che rivela la sostanza intima di quella stessa fedeltà. Don Álvaro aveva una salute precaria ed erano innumerevoli le sofferenze fisiche che lo affliggevano. Eppure sia le sue innegabili capacità sia il ruolo che doveva svolgere accanto al fondatore, e in suo nome, esigevano da lui una massa di lavoro impressionante, umanamente incompatibile con le forze fisiche di cui disponeva. Ebbene: non si lamentò mai, né mai si sottrasse, eseguendo sempre ciò che gli era chiesto anche quando a mala pena riusciva a reggersi in piedi (cfr p. 240; p. 301; p. 305; p. 471). E c’è una dolce e rispettosa malinconia nel ricordo di mons. Echevarría che – rivedendo un filmato che lo ritraeva stanco e affaticato, ma sempre in azione – disse ai presenti: «Chiedo scusa, perché vedo che a don Álvaro chiedevamo più di quanto poteva dare fisicamente, e non ce ne rendevamo conto» (p. 521). Per concludere mi è sembrato che l’espressione più sintetica e più bella, per descrivere l’esperienza e la missione del nostro Beato sia ancora quella coniata da mons. Echevarría, che è stata messa a conclusione di tutto il racconto biografico: «[Don Álvaro] ci ha offerto una personificazione convinta e convincente dell’equazione tra felicità e fedeltà, così ricorrente nella predicazione di san Josemaría» (p. 540). D’altra parte come dimenticare che Josemaría era anche il secondo nome che il piccolo Álvaro aveva già ricevuto nel giorno del Battesimo? Antonio Maria Sicari O.C.D. Saggista e scrittore 1 Cfr A. M. Sicari, Gli antichi carismi nella Chiesa. Per una nuova collocazione, Jaca Book, Milano 2002, pp. 29-30. 2 Per tutta la questione cfr. F. Ciardi, I Fondatori uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982. 3 Mi piace ricordare, per la sua simpatica immediatezza, la risposta che san Josémaría diede – quasi sul finire della sua vita, durante un incontro pubblico in Brasile – a un’interrogazione sugli inizi dell’Opera: «Ti sembra una pazzia da poco dire che si può e si deve diventare santi nel bel mezzo della strada? Che possono e devono diventare santi il venditore di gelati col suo carrettino, la collaboratrice domestica che passa tutto il giorno in cucina, il direttore di banca, il professore universitario, il contadino, il portabagagli...? Tutti chiamati alla santità! Tutto questo è stato poi raccolto nell’ultimo Concilio, ma a quel tempo – nel 1928 – non entrava in testa a nessuno. Quindi... era logico che mi ritenessero pazzo... Adesso sembra una cosa naturale, ma allora non era così...». 4 J. Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Edizioni Ares, Milano 2014. Le pagine da me citate si riferiscono tutte a questa biografia. 27 settembre 2014: Un’eroica & fattiva «leggerezza» di Emma Fattorini Álvaro del Portillo ha avuto per tutta la sua vita un rapporto specialissimo con il fondatore dell’Opus Dei Josemaría Escrivá de Balaguer. Una relazione davvero non solo «istituzionale» (in quanto Segretario generale dell’Opera), ma intessuta anche di dedizione, cura, custodia; una sorta, starei per dire, di «filiazione paterna», fatta di piccoli e grandi gesti nei quali il ruolo del padre e del figlio si scambiavano con amorevolezza, tenerezza e schiettezza insieme, in un rapporto costruito su una fedeltà tenace. Non si può ragionare sulla biografia dell’uno senza tornare a quella dell’altro. Il 6 ottobre del 2002 papa Wojtyla proclamava santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Vorrei ricordare il libro scritto dal suo postulatore (F. Capucci, Josemaría Escrivá, santo, L’iter della causa di canonizzazione, Edizioni Ares, Milano 2008), che ebbi pure l’onore di presentare. Una canonizzazione, avvenuta in tempi insolitamente rapidi, a solo 17 anni dalla morte del fondatore dell’Opus Dei. La celerità del processo fu dovuta anche all’accorciamento dei tempi delle beatificazioni, voluto da Giovanni Paolo II, che proseguì nella riforma iniziata nel 1969 da Paolo VI. Escrivá muore il 26 giugno del 1975 e il processo di beatificazione, iniziato nel 1981 e conclusosi nel 1992, ha rappresentato un record assoluto per rapidità (record che poi fu superato da quello di Teresa di Calcutta, beatificata subito dopo e in soli 6 anni). Come sappiamo, Giovanni Paolo II avviò un numero enorme di processi di beatificazione, tanto da far parlare qualcuno di una vera e propria «fabbrica dei santi», modelli ispirati a una santità praticabile e quotidiana. L’idea di santità non era quella di una perfezione distante e irraggiungibile: i santi dovevano essere, per il Papa polacco, vicini all’esperienza umana comune, dovevano toccare le vette dell’eccezionale a partire dall’ordinario, dal quotidiano. Questo bisogno di vicinanza e di umanizzazione del santo propone quelle che si potrebbero definire le figure di santi vivi: si tratta di figure particolarmente carismatiche che già in vita sono state un riferimento, riconosciuto e conclamato per i credenti. C’è una specie di assonanza, di intima sintonia tra la scelta delle canonizzazioni di cui qui parliamo e questo spirito, diciamo così wojtyliano, di concepire la santità. Ricordavo, già in occasione della presentazione del Álvaro del Portillo Beato libro di monsignor Capucci, come tra le testimonianze contenute nella Positio, lo scritto che, a mio avviso, meglio coglie i punti essenziali della spiritualità di Escrivá, vi fosse un breve testo di Albino Luciani, il Papa del sorriso, del 25 luglio 1978: vedere lo straordinario nell’ordinario, la santità nella normalità, l’abbandono a Dio, l’allegria e il buon umore, la cura delle piccole cose. E infine l’intuizione più moderna: la santificazione del lavoro, da vivere non come «tragico quotidiano», ma come «il sorriso quotidiano». Un’autentica spiritualità laicale Una spiritualità che si rifà alla tradizione di Francesco di Sales e che, secondo Giovanni Paolo I, Escrivá «radicalizza» proponendo non solo una «spiritualità dei laici», ma una «spiritualità laicale». Egli parla addirittura di «materializzare» la santificazione: per lui sarebbe lo stesso lavoro materiale a trasformarsi in preghiera e santità. E così Escrivá si dichiara «anticlericale», nel senso che i laici non devono «scopiazzare» quello che fanno i religiosi, ma crescere nella loro spiritualità iuxta propria principia, secondo un’idea della funzione laicale che anticipa quella del Concilio Vaticano II. Una sorta di «spiritualità materializzata», vissuta cioè nel mondo e nella vita di ogni giorno, che consente una vita all’insegna dell’unitarietà, nella quale le tante parti esistenziali si compenetrano senza scissioni. Del resto, non è forse vero che l’attuale deficit etico ha lì la sua radice profonda: nel distacco tra ciò che si pensa e ciò che si fa, tra ciò che si crede e ciò che si è? La principale vocazione dei laici è fare bene e pienamente il proprio lavoro, «perché il lavoro», diceva Escrivá, «come può essere di Dio, se è fatto male, di fretta, senza competenza?». E gli faceva eco Gilson, scrivendo nel 1949: «Ci dicono che è stata la fede a costruire le cattedrali del Medioevo; d’accordo... ma anche la geometria». Fede e geometria, fede e lavoro, Fides et Ratio. In un’omelia del 1967 del fondatore dell’Opus Dei, Amare il mondo appassionatamente, sono contenute tre affermazioni di sorprendente attualità: l «Essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità»: pensiamo all’odierna crisi economica, alle infinite sciat- 683 Emma Fattorini terie nelle professioni, al rinnovarsi periodico delle furbizie nostrane. l «Essere sufficientemente cristiani da rispettare i fratelli nella fede che propongono, nelle materie opinabili, soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi»: pensiamo alle risse, alle competitività, alla mancanza di ascolto fraterno che anima tanti credenti. l «Essere sufficientemente cattolici da non servirsi della Chiesa, nostra Madre, immischiandola in partigianerie umane». Un monito a che la Chiesa non si compiaccia e inorgoglisca di fronte a un pensiero laico fragile, non approfitti trionfalisticamente delle macerie lasciate dal crollo delle ideologie, capitalizzandole a proprio vantaggio, ma si proponga come madre di tutti, come voce di tutta l’umanità. La formazione familiare Mi sono soffermata a lungo su questa vocazione «alla chiamata universale alla santità», anche perché essa si esprime in modo mirabile nel percorso spirituale di don Álvaro, a proposito del quale vorrei sottolineare alcune impressioni personali ricavate dalla lettura della corposa biografia di Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei (Edizioni Ares, Milano 2014). Ingegnere civile, gran lavoratore, preveggente sostenitore dell’importanza fondamentale della ricerca scientifica e tecnica per il futuro dell’umanità in anni in cui la cultura cattolica ne diffidava, egemonizzata com’era da un impianto quasi esclusivamente umanistico. Forza di volontà, tenacia e fedeltà erano qualità che si erano palesate già negli anni della sua formazione giovanile, unite a un’innata mitezza e bontà. «Bontà, semplicità, allegria. Era profondamente buono», così lo descrive il suo compagno di banco. E forse a questa sua attitudine docilmente serena eppure forte ha concorso il particolare rapporto avuto con i genitori dei quali mi ha colpito molto una sorta di «mescolanza» dei ruoli. Il padre, Ramón, avvocato di una delle più importanti compagnie assicurative spagnole era «serio ma non severo», ordinato (il figlio ricorda le penne, i libri in perfetto allineamento), abitudinario (la Messa alla stessa ora, la passeggiata al parco con i figli che dovevano essere perfettamente ordinati), puntuale («quasi maniacale»). La madre, Clementina, era messicana, nata a Cuernavaca e cresciuta nelle haciendas di famiglia, in mezzo alla natura e ai prodotti agricoli; era «un’ottima amazzone e montava i cavalli più focosi, che sa- 684 peva controllare e comandare in maniera ammirevole», un’audacia che destava trepidazione. Studierà in Europa e curerà la formazione dei figli, attentissima alla loro conoscenza delle lingue straniere. Clementina è una donna di fede profonda, lontana dagli stereotipi sdolcinati del devozionismo femminile tardo ottocentesco che siamo soliti vedere attribuiti alle mamme dei santi. Anche se le sue devozioni c’erano, saldamente ancorate al culto mariano e a quello del Sacro Cuore. Álvaro le era molto legato, come si capisce da tante lettere e testimonianze. Mi ha colpito il doloroso episodio della sua morte improvvisa: la notizia giunge in serata, ed Escrivá, perché don Álvaro non trascorra una notte di pena, gliela riferisce solo il giorno successivo. E don Álvaro, nonostante che, a questo punto, non gli fosse possibile arrivare in tempo al funerale, resterà certo molto, molto triste, ma filtrerà questo suo sentimento con uno spirito profondamente accettante. La cosa che più mi ha colpito della sua formazione umana e spirituale è la cifra misurata e profonda insieme, leggera e molto interiore. Fedeltà e libertà, «la verità vi farà liberi»: l’abbandono alla volontà del Signore significa fedeltà all’Opera e a Escrivá, attraverso il lavoro e l’impegno assoluto. Il tutto senza attaccamento, senza doverismo dolorista, senza lamentosità: non c’è mai in lui un eroismo esibito, quella sorta di vittimismo sacrificale di chi «fa tante cose». Una fattiva leggerezza, una sostanziosa spiritualità. Durante il Concilio Álvaro del Portillo ha avuto un ruolo importante su alcune questioni chiave del Concilio Vaticano II, pur continuando a svolgere i compiti di Segretario generale dell’Opus Dei, con un aggravio di lavoro e di impegno notevolissimi. Avvicinato da Domenico Tardini e collaborando nel corso degli anni con Pietro Ciriaci, partecipa a tutte le fasi del Concilio a cominciare da quella preparatoria che, com’è noto, rivestì una funzione decisiva. Il 2 maggio del 1959 è nominato consultore della Sacra Congregazione del Concilio (oggi Congregazione del clero), il 10 agosto Presidente della VII Commissione preparatoria che aveva il compito di studiare il laicato cattolico e il 12 dello stesso mese nella III Commissione sui moderni mezzi di apostolato. Al lavoro di commissione, dall’ottobre del 1959 fino al marzo del 1960, farà seguito l’intensa, quotidiana presenza alle sessioni dell’Assemblea dal 1962 fino al 1965. Si occupa di questioni tra le 27 settembre 2014: più controverse: il 26 ottobre del 1960, per esempio, è nominato qualificatore nella Congregazione del sant’Uffizio e affronta con equilibrio la delicata questione del celibato dei sacerdoti. Mi soffermo sulla sua azione conciliare perché il tema della laicità, cuore pulsante dello spirito conciliare, era, semplificando, il carisma specifico che il fondatore aveva voluto imprimere all’Opus Dei, «la chiamata universale alla santità». È quindi particolarmente illuminante vedere l’impegno del Segretario generale di fronte ai grandi temi del nuovo rapporto che i laici, nelle professioni e nella famiglia, sono tenuti a stabilire con il mondo, cercando di discernere i segni dei tempi. Álvaro del Portillo non cederà mai alle ali estreme, non sarà mai né conservatore né progressista, mantenendo una posizione equilibrata e ferma, a proposito della quale monsignor Angelo Dell’Acqua auspicava che nel Concilio «ci fossero molti don Álvaro». Nella documentatissima biografia di Javier Medina Bayo alla partecipazione di don Álvaro alle varie fasi del Concilio si accompagna quella non meno perigliosa della vita interna all’Opus Dei, quando dalla fine degli anni Cinquanta anche gli assilli economici diventano molto gravosi. È del 9 gennaio il completamento degli edifici di Villa Tevere. La sede centrale. O quando si susseguono le opposizioni curiali ed ecclesiastiche, dovute anche all’incerto statuto giuridico dell’Opera; essa era ancora lontana dall’esser prelatura personale. Nel 1960, Escrivá, molto preoccupato, si era rivolto al cardinale Tardini chiedendo di modificare la configurazione giuridica dell’Opus Dei, senza ottenere però nessun esito; un altro tentativo di trasformare l’Opera in prelatura fu sostenuta dal cardinale Ciriaci nel 1962, sempre senza alcun successo. Una conquista che si ottenne solo vent’anni dopo quando ormai il fondatore era morto. Don Álvaro seguì passo dopo passo tutto questo percorso difficile, spiegando come l’Opus Dei «“al giorno d’oggi, non abbia più nulla in comune con ciò che attualmente si intende per istituto secolare” e che, per questo motivo, “sia per un miglior servizio alla Chiesa, sia per un elementare senso della giustizia [...], non dovrebbe essere più compreso nel gruppo delle Associazioni che vengono chiamate Istituti secolari, né dovrebbe dipendere dallo stesso S. Dicastero dal quale esse dipendono» (Javier Medina Bayo, op. cit., pp. 303-304). Per concludere, vorrei ricordare il rapporto molto bello che si stabilì con Papa Montini. Messosi in preghiera subito dopo l’annuncio della sua elezione a Pontefice, Álvaro lo aveva molto apprezzato fin dal suo primo viaggio a Roma. Nel 1965, da parte sua, Paolo VI aveva visitato il centro ELIS, esprimendo molto interesse per l’impegno verso la gioventù operaia, dimostrato con quella scuola tecnico-professionale. A sua volta, nel luglio del 1976 don Álvaro gli espresse una sincera solidarietà sul caso della sospensione a divinis di Lefebvre. Del resto ricordava quanto Montini fosse stato coinvolto dalla lettura di Cammino di Escrivá. Molteplici possono essere le considerazioni e i bilanci che si possono svolgere su una personalità tanto volitiva quanto abbandonata alla volontà del Padre, così attraversata, a partire dalla sua famiglia di origine, dai grandi sconvolgimenti novecenteschi: le guerre, le rivoluzioni, i rovesci economici. Ma la nota che in me resta più viva è la pace interiore, la calma del cuore, la serenità che, nella fatica dell’accumularsi degli impegni, di natura tanto diversa, sapeva mantenere, perché nel grande lavoro nel quale era immerso don Álvaro non era «né nervoso, né impaziente, né eroico». E per me, ai miei occhi – perché un santo parla al cuore di ciascuno di noi in modo diverso –, è proprio questa eroica e fattiva leggerezza che lo ha reso davvero santo. Sen. Emma Fattorini Ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Roma La Sapienza Alla luce della fedeltà di Maria Vittoria Marini Clarelli La biografia di Alvaro del Portillo scritta da Javier Medina Bayo riesce a mantenere in equilibrio due livelli difficili da conciliare: presentare un personaggio storico e presentare un santo. Il taglio scelto dall’autore è, se così posso definirlo, polifonico: a parlare di don Alvaro sono molte voci diverse – di uomini e di donne – che l’autore orchestra evitando deliberatamente di far prevalere la propria, alla qua- Álvaro del Portillo Beato le, anzi, sembra aver messo la sordina. L’unica voce solista è quella del futuro beato, del quale sono citati moltissimi scritti anche inediti. Rispetto ai due profili biografici già editi in Italia – e qui ampiamente utilizzati – la novità principale del libro di Medina Bayo mi sembra proprio il tentativo di far parlare il protagonista in prima persona. Il tempo trascorso dalla fine della sua vicenda terrena – po- 685 Maria Vittoria Marini Clarelli co più di vent’anni – permette già la distanza storica, ma il confine con la cronaca è sottile, perché sono ancora molti coloro che, avendolo conosciuto, leggono queste pagine cercando ora la corrispondenza con i propri ricordi ora qualche aspetto o episodio nuovo. Anch’io ho avuto la fortuna di incontrare il futuro beato, seppur occasionalmente, e questa biografia, pur confermando l’idea generale che ne avevo, mi ha permesso di rispondere a una domanda che sempre mi ero posta a proposito del suo ruolo di primo successore di san Josemaría Escrivá. La domanda suona più o meno così: «La fedeltà al fondatore è compatibile con la creatività? E se sì, come si è espressa?» Per spiegare come ho trovato una risposta, devo esaminare la fedeltà in rapporto a tre altri temi: la tradizione, la magnanimità e la bellezza. Fedeltà & tradizione Il ruolo di primo successore in seno a una nuova fondazione, anche non religiosa, è forse il più delicato. È infatti un passaggio cruciale che decide come si imposterà la tradizione, nel duplice senso di trasmissione del deposito fondazionale e di costituzione di un’eredità che non è solo spirituale ma è anche culturale. La fedeltà nella continuità, che è stato il motto di don Alvaro, è un principio non così semplice da applicare come sembrerebbe, perché non c’è tradizione senza interpretazione. Ciò che permette la creatività nella fedeltà è la ricchezza del messaggio ricevuto: il messaggio che il fondatore di un’istituzione ecclesiale riceve è inesauribile, ossia così denso e profondo che nessuna vita umana basta a penetrarlo interamente. È un dono divino che deve bastare per sempre. La difficoltà sta nel riuscire a mantenerlo il più possibile integro, ma senza confondere il permanente con il transeunte, quello che fa parte del deposito e quello che è legato a una certa contingenza storica. Don Alvaro, per creare la tradizione, ha innanzitutto dedicato la massima attenzione alle fonti primarie, cioè agli scritti del fondatore dell’Opus Dei, sia quelli destinati alla catechesi generale, che egli stesso ha fatto pubblicare scrivendone la prefazione – mi riferisco a Amici di Dio, Solco, Forgia –, sia quelli che si riferiscono alla vita interiore di san Josemaría e che don Alvaro ha citato spesso nelle sue lettere destinate alla formazione dei membri dell’Opus Dei. Per inciso, la tradizione delle lettere del prelato risale appunto a don Alvaro, che la inaugurò nel 1984. Il processo di beatificazione di monsignor Escrivá, che è stato portato a compimento sotto la sua guida, è stato an- 686 che un momento essenziale di raccolta e vaglio di questi documenti, che sono il lascito del carisma fondazionale. Nel rapporto fra fedeltà e tradizione il margine di creatività sta dunque nell’ermeneutica, disciplina essenziale non solo nell’esegesi ma anche nella cultura cattolica. Ecco un esempio di come don Alvaro la applica al pensiero del fondatore, tratto dalla presentazione di Solco: «La dottrina di monsignor Escrivá unifica gli aspetti umani e divini della perfezione cristiana, come non può non succedere quando si conosce in profondità e si ama e si vive appassionatamente la dottrina cattolica sul Verbo incarnato. In Solco restano saldamente tracciate le conseguenze pratiche e vitali di questa gioiosa verità. L’autore delinea il profilo del cristiano che vive e lavora in mezzo al mondo impegnato nelle nobili aspirazioni che muovono gli altri uomini e, nel contempo, totalmente proiettato verso Dio. Ne risulta un ritratto sommamente attraente». Fedeltà & magnanimità Essere davvero fedeli – e non seguaci pedissequi – richiede grandezza d’animo, ampiezza di orizzonti, disponibilità a rischiare. La biografia di Medina Bayo pone in rilievo questa virtù del futuro beato essenzialmente da tre punti di vista: la mentalità universale, la lettura dei segni dei tempi e la fortezza nel lavoro. La linea è quella tracciata dal fondatore in un brano famoso: «Ampiezza di orizzonti e un vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; anelito retto e sano – mai frivolezza – di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione della storia…; una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del pensiero contemporaneo; un atteggiamento positivo e aperto, di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita» (Solco, n. 428). L’adesione fedele a un simile programma, però, implica una grande capacità d’iniziativa. Il libro cita tutti i nuovi Paesi nei quali sono stati aperti centri dell’Opus Dei e la quantità ed estensione dei viaggi compiuti da don Alvaro, che poi dovette limitarli all’Europa per motivi di salute. Medina Bayo sottolinea anche come l’espansione apostolica sia stata sempre accompagnata dall’avvio di iniziative sociali e culturali, come ospedali, scuole, università. L’attenzione ai problemi sociali è attestata, fra l’altro, da queste parole pronunciate dal futuro Beato in Messico nel 1986: «Figli miei, da quel che ho potuto osservare nelle scorribande nel vostro Paese, ho 27 settembre 2014: notato una grande differenza fra le classi sociali. Vedo ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri». E poco dopo aprivano i battenti in Messico due scuole professionali per l’elevazione sociale. Lo stesso accadde nel 1987 nelle Filippine e poi ancora in Bolivia, Paraguay, Argentina, Kenya, Congo. La cattolicità, intesa nel senso non della confessione religiosa ma dell’apertura universale, acquista un significato particolare nell’era della cosiddetta globalizzazione. A questo proposito, Medina Bayo mette in speciale risalto l’attenzione prestata da Alvaro del Portillo alle comunicazioni sociali. Notevoli sono poi le testimonianze citate sul suo metodo di lavoro, che era governato da una grande fortezza. L’attuale prelato, monsignor Javier Echevarría, lo sintetizza così: «Centrare gli obiettivi, fissare i tempi e tradurli in atto con la necessaria determinazione». Lavorava con «ritmo e armonia», come ha scritto mons. Mariano Olés, osservando che anche il suo modo di camminare era sereno. Un esempio di fortezza nel lavoro è anche il ricorso costante alla collegialità, un metodo di governo ereditato dal fondatore ma non per questo più semplice da applicare. Con la sua capacità di sintesi, don Alvaro osservava infine che «il lavoro di governo richiede carità, altrimenti si trasforma in un’occupazione burocratica», lasciando intendere che la burocratizzazione è una deriva molto insidiosa e non meno grave dell’autocrazia, perché equivale all’indifferenza per le persone. Fedeltà & bellezza Lo sforzo di raggiungere la santità rende una personalità umana non solo migliore ma anche più bella, perché, come ha scritto don Alvaro nella già citata introduzione di Solco, «se, in conseguenza del peccato originale, l’umano non giunge alla propria pienezza senza la grazia, non è meno certo che la grazia non appare come giustapposta o come in azione al margine della natura: al contrario, fa risplendere le migliori perfezioni naturali per poterle divinizzare». Nel suo caso, la bellezza della fedeltà consisteva soprattutto nella «serenità che nessuna fatica può offuscare, che nessuna sofferenza cancella», per usare le parole pronunciate da mons. Echevarría nell’omelia della Messa per il primo anniversario del suo transito. Questa serenità, che colpiva chiunque lo incontrasse, era tanto attraente da consentirgli di fare rapidamente amicizia e anche di correggere, quando era necessario, riuscendo a conciliare energia e affetto. Era il suo tratto distintivo, il suo modo di raggiungere il misterioso equilibrio che, sull’esempio di Cristo, ogni cristiano è chiamato a trovare fra termini apparentemente inconciliabili: obbedienza e libertà, lealtà e discernimento, compi- Álvaro del Portillo Beato Il libro «Quando verrà scritta la sua biografia», suggeriva mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, «tra gli altri aspetti rilevanti della sua personalità soprannaturale e umana, questo dovrà avere un posto di risalto: il primo successore di san Josemaría Escrivá alla guida dell’Opus Dei è stato – prima di tutto e soprattutto – un cristiano leale». L’autore ha compiuto un profondo lavoro di ricerca, costruendo il testo sulla base di lettere, documenti e testimonianze, mettendo a punto una biografia commovente e rigorosa. Javier Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Edizioni Ares, Milano 2014, pp. 760, € 22. mento della volontà di Dio ed espressione della propria personalità. In questa «concordia discors» sta il paradosso della vita cristiana, nella quale ogni contraddizione è risolta dall’amore, che è il vero principio rivoluzionario, capace di mantenere giovane il cuore e indipendente lo spirito. Lo affermava don Alvaro in un’omelia pronunciata nel 1985 e citata in questo libro che molto più permette di comprendere di lui: «La gioventù è l’età dell’anticonformismo, della ribellione, del desiderio di tutto ciò che è bello, buono, elevato. Davvero giovane è soltanto chi mantiene nello spirito questi ideali, anche quando il corpo va consumandosi nel trascorrere del tempo». C’è dunque un nesso fra bellezza e anticonformismo. Maria Vittoria Marini Clarelli Soprintendente alla Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea di Roma 687 Tavola rotonda milanese Analisi della biografia/2 H Il beato Álvaro visto da vicino Lunedì 22 settembre 2014, presso il Teatro Faes di Milano, una tavola rotonda ha approfondito altri aspetti della personalità del nuovo Beato. Il moderatore Francesco Ognibene, caporedattore di Avvenire, ha coordinato gli interventi del card. Julián Herranz (foto), di mons. Giuseppe Delpini e del prof. Agostino Giovagnoli. Al termine, ha preso la parola don Javier Medina Bayo, postulatore della causa di beatificazione. o vissuto con don Álvaro dal 1953 al 1993, cioè per quarant’anni, e leggendo il libro di Javier Medina Bayo, ho ritrovato intatta questa figura così cara. Cara a tutti, ma specialmente a chi ha vissuto accanto a lui momenti molto importanti nella vita dell’Opera e nella vita della Chiesa. Lascio agli altri relatori di delineare con profondità scientifica la figura di don Álvaro; per parte mia, ho pensato a un intervento, diciamo, più famigliare. Quattro ricordi. Ho scelto quattro momenti in cui ho vissuto accanto a lui situazioni di particolare rilievo. La tenerezza di un padre 688 Primo ricordo. Credo fosse il 3 novembre 1953. Un giovanotto laureato in Medicina, che voleva specializzarsi in Psichiatria in Germania, fu catapultato a Roma per studiare Diritto canonico. Mi spiego: nell’Opus Dei le cose si fanno con serietà; quel giovanotto ero io, naturalmente. Terminata la laurea, avevo chiesto qualche consiglio di orientamento professionale, e mi fu suggerito di puntare a una cattedra universitaria in Psichiatria, sia perché la psichiatria mi appassionava, sia perché in Spagna era un campo nel quale, anche dal punto di vista cristiano, era molto importante incidere in prospettiva apostolica. Un mese dopo, la stessa persona che mi aveva dato quel consiglio, mi disse: «Senti, non ti piacerebbe andare a Roma per studiare il Diritto canonico?». «Ma tu non mi avevi detto di andare in Germania? Spiegami un po’, perché il Diritto canonico io non so neppure cosa sia». Per dire come gioca il Signore con noi: non sapevo cosa fosse il Diritto canonico, e ho finito per diventare presidente del Pontificio consiglio per i Testi legislativi. Dopo tanti anni, quando mi domandano come 27 settembre 2014: Dopo il saluto del presidente Faes, Giovanni De Marchi, nel gremitissimo Teatro hanno preso la parola (da sinistra) Francesco Ognibene, Agostino Giovagnoli, il card. Julián Herranz, mons. Mario Delpini. si fa a essere felici, rispondo: «C’è un solo modo, ed è fare quello che il buon Dio vuole da te». Chi fa la volontà di Dio è sempre sereno, tranquillo, gioioso e ha la forza per affrontare le difficoltà della vita. Bene, quel ragazzo – adesso si considerano ragazzi anche i quarantenni, ma io, benché laureato, ero in effetti un ragazzino – andò a Roma. Un giorno, stavo recitando il Rosario nel giardinetto che c’è attorno a Villa Tevere – la sede centrale della prelatura dell’Opus Dei – ed ecco che si apre la porta ed esce il Padre, san Josemaría, con don Álvaro. Quando mi videro, don Álvaro – che praticamente non conoscevo – mi chiamò e disse: «Il Padre chiede se vuoi venire con noi a San Pietro». «Subito!». Pochi minuti dopo ero in macchina, seduto alla destra del conducente. Dietro c’era il Padre, a sinistra don Álvaro. Siamo partiti. In San Pietro abbiamo seguito la prassi abituale di san Josemaría: una Salve Regina davanti alla Pietà, la visita al Santissimo nella cappella eucaristica, il Credo sulla tomba di san Pietro. Poi, il Padre e don Álvaro entrarono in Vaticano per qualche impegno, e quando uscirono pensai: «Adesso torneremo a casa». Invece no. Don Álvaro: «Il Padre dice che se non hai niente in contrario, vorrebbe farti vedere un po’ di Roma». Io andavo di sorpresa in sorpresa. Un ragazzino che si trova lì accanto al Fondatore dell’Opus Dei che vuole fargli da cicerone. Io non sapevo cosa dire, annuivo con la testa e non mi veniva fuori la voce. E cominciammo il tour. Il Padre mi spie- Álvaro del Portillo Beato gava: «Questa è Piazza Venezia, questo è il Colosseo, San Giovanni in Laterano...», e io avevo il torcicollo perché a me, in quel momento, Roma non importava per niente. Mi dicevo: «La vedrò con calma in un altro momento, adesso per me lo spettacolo è il Fondatore dell’Opus Dei che ho qui dietro». Mi interessava sentirlo, vederlo, godere per la prima volta della sua presenza. Don Álvaro si comportava un po’ come il direttore d’orchestra: lasciava che il Padre parlasse e a me faceva qualche domandina per farmi intervenire. A un certo momento mi disse: «Senti, perché non racconti al Padre come hai conosciuto l’Opera, la tua vocazione?». Rimasi interdetto, perché la mia vocazione non era quella di san Paolo, ma abbastanza vicina... A vent’anni, mentre frequentavo la facoltà di Medicina nell’Università di Madrid, non conoscevo l’Opera, anzi, avevo idee un po’... non giuste, sull’Opera. Dirigevo una rivistina settimanale per gli studenti dell’ateneo. Eravamo abbastanza presuntuosi, perché l’avevamo chiamata Bengala: per «illuminare», an- 689 che se non illuminava niente. Un giorno, durante il consiglio di redazione della rivista, arrivò il turno di un articolo sull’Opus Dei. Lo lessi e dissi: «Mmm…», perché era un articolo tremendo. Ne avevo sentite di cose sull’Opera: massoneria bianca, il segreto, cospirano contro lo Stato… eccetera. Non avevo dato troppo peso, ma l’autore dell’articolo aveva scritto anche delle cose che per delicatezza preferisco non ripetere. Rimasi molto impressionato per cui dissi: «Questo articolo è molto duro, molto forte. Io non conosco questi dell’Opus Dei, ma mi informerò personalmente. Nella mia classe ci sono due ragazzi che frequentano l’Opera…». Presi contatto con uno di loro e gli chiesi: «Mi fai vedere uno di questi luoghi, di questi covi dove vi riunite?». E lui: «Sì, vieni», e mi fece conoscere uno dei due centri dell’Opus Dei frequentati da gente giovane. «Ed eccomi qui», dissi al Padre. «Mi ha convinto di più quel ragazzo che non l’autore dell’articolo». Il Padre si mise a ridere e poi a cantare. Sono state due ore straordinarie, in cui ho scoperto l’umanità divinizzata di san Josemaría, perché sapeva trarre dalle canzoni d’amore umano una teologia finissima. Tra le altre cantò una canzone popolare della sua terra, l’Aragona, che mi è rimasta qui, non l’ho dimenticata anche se sono passati tanti anni. E ve la dico: prima in spagnolo e poi la traduco in italiano: «Eres mi primer amor / tú me enseñaste a querer / no me enseñes a olvidar / que no lo quiero aprender». «Sei il mio primo amore / tu mi hai insegnato ad amare / non insegnarmi a dimenticare / che non lo voglio imparare». È una bellissima canzone d’amore, ma anche un’esortazione alla fedeltà: fedeltà alla propria vocazione, al primo amore. Questo era san Josemaría, e questo era don Álvaro che si definiva «l’ombra»: stava un po’ dietro e suggeriva. Ne ho avuta conferma quando, arrivati a casa, sono sceso, ho spostato il sedile (l’auto era una Seicento) e mentre il Padre usciva, abbassando la testa, ho notato che aveva il collo pieno di foruncoli. Foruncoli tremendi, pieni di pus. Evidentemente lì c’era una malattia, un diabete fortissimo. Dissi sottovoce: «Don Álvaro, ha visto come sta il Padre?». E lui rispose: «Sì, sì, tu sei medico ed è giusto che sappia le cose, ma non commentarle perché gli altri non si preoccupino. Il Padre ha un diabete fortissimo, non ha dormito tutta la notte e ha un mal di testa che non riesce a passare. Poi abbiamo grossi problemi economici, dobbiamo pagare gli operai che stanno lavorando, che stanno ristrutturando la sede centrale dell’Opera e io non so come potremo fare per le scadenze di questa settimana…». Allora ho capito due cose. Primo: che san Josemaría era un santo, perché un uomo in quelle condizioni che si dimentica completamente di sé stesso per dedicarsi a un suo figlio è un santo. Secondo: ho ammirato anche don Álvaro, perché era stato lui a chiamarmi, a preparare quell’uscita per distrarre il Padre, per fargli 690 prendere un po’ d’aria, per fargli sentire da parte mia qualcosa che gli potesse far piacere, appunto il racconto di una vocazione, che è sempre un momento meraviglioso. Ho ammirato don Álvaro e mi sono detto: «Questo è davvero l’uomo su cui il Fondatore può contare completamente». E il libro di Javier Medina lo descrive magnificamente. Preparazione & sviluppo del Vaticano II Per il secondo ricordo, facciamo un salto di dieci anni: 1962. Il Concilio Vaticano II si è aperto in ottobre, ma è in settembre che sono stati nominati i presidenti e i segretari delle commissioni. Appunto in settembre arrivò a san Josemaría una lettera della Santa Sede in cui si chiedeva a don Álvaro di accettare la nomina come segretario di una delle dieci commissioni conciliari più importanti, quella sulla vita e il ministero dei sacerdoti. Don Álvaro era il segretario generale dell’Opus Dei. Era la mano destra del Fondatore per tutto il lavoro apostolico e di governo. Il Padre, san Josemaría, accennò alla richiesta vaticana in una riunione di famiglia e aggiunse: «Don Álvaro farà la volontà di Dio. L’Opera è nata per servire la Chiesa. Álvaro deve servire la Chiesa. Vediamo un po’ se riesce a fare tutte e due le cose». Ebbene, durante i quattro anni di intenso lavoro conciliare ho visto come don Álvaro, che aveva una capacità di lavoro immensa, riusciva a servire la Chiesa nel Vaticano II, e a mantenere gli assorbenti impegni nell’Opus Dei. Anch’io lavoravo in quella commissione conciliare e voglio ricordare un episodio particolarmente significativo, per mostrare come don Álvaro reagiva nei momenti difficili. La commissione era stata inizialmente incaricata di elaborare un progetto di decreto. Successivamente, il comitato di coordinamento del Concilio decise diversamente: sulla vita e il ministero dei sacerdoti si dovevano fare solo dieci brevi proposizioni. Don Álvaro, di fatto, dirigeva il lavoro della commissione, perché il presidente, il cardinale Pietro Ciriaci, che era malato, aveva delegato a lui la presidenza e la direzione intellettuale del lavoro. Della commissione facevano parte quattro cardinali, una ventina di vescovi e una trentina di teologi e canonisti. Se i canonisti e i teologi erano gente complicata, i cardinali lo erano ancora di più, perché essi parlavano ex-cathedra e don Álvaro doveva regolare il dialogo e limitare gli interventi. Lo faceva con una grazia e con una finezza straordinarie: fece redigere un regolamento e, invece di dare dieci minuti a ciascuno, ne diede otto. E quando un cardinale abusava della sua autorità, diceva: «Eminenza, scusi, interessantissimo tutto quello che sta dicendo, però dobbiamo consentire di parlare anche agli altri; per favore, lasci il resto per iscritto». Poi toccava a noi leggere tutto quello che era stato consegnato per iscritto. 27 settembre 2014: Quando arrivò l’indicazione di elaborare solo dieci proposizioni, don Álvaro ne soffrì: «Ma come, quattrocentomila sacerdoti in tutto il mondo stanno aspettando dal Concilio indicazioni e direttive sulla loro vita e sul loro ministero, e noi facciamo dieci brevi proposizioni!». Ma obbedì. La commissione le preparò e le presentò all’Assemblea plenaria nell’aula di San Pietro, e i padri conciliari, fortunatamente, le bocciarono. Dico «fortunatamente» perché noi in fondo al cuore volevamo così. Abbiamo fatto quello che ci era stato detto di fare, ma era un momento in cui sulla natura e sull’identità del sacerdote nella Chiesa cattolica c’erano due tendenze fortemente contrastanti. Da una parte c’era la concezione del prete «sacramentale» che rimane in sacrestia, che si accontenta di confessare quando qualcuno lo desidera, di celebrare la Messa, eccetera; dall’altra parte c’era il sacerdote «missionario», che esce alla ricerca delle pecore, con impegni nel sociale. Con don Álvaro, noi pensavamo che non fossero due figure contrapposte, bensì che si dovessero integrare: la parola e i sacramenti, tutto in un contesto sacro di elezione divina. Non mi dilungo su questo tema: basti dire che don Álvaro propose al presidente della commissione e relatore, che era il cardinale François Marty, arcivescovo di Reims e successivamente arcivescovo di Parigi, di scrivere una lettera al consiglio di presidenza del Concilio, chiedendo il permesso di preparare un decreto che toccasse tutti i punti riguardanti la vita e il ministero dei sacerdoti dal punto di vista teologico, disciplinare e ascetico. Il consiglio di presidenza approvò la proposta e don Álvaro organizzò il lavoro: in meno di un mese si è potuto presentare alla plenaria del Concilio un documento, il decreto Presbyterorum ordinis, che ottenne dai padri conciliari una votazione plebiscitaria. I numeri me li ricordo bene: su 2.394 votanti, 2.390 espressero il Placet; soltanto 4 il Non-placet. Questo era don Álvaro. Una volta gli ho detto che mi ricordava una meridiana che avevo visto sul campanile di una chiesa della Val di Sole o della Val di Non, che recava la scritta: «Horas non numero, nisi serenas. Segno soltanto le ore serene». Così era don Álvaro. Dirigeva il lavoro con grande serenità in ogni momento, anche nei momenti più critici. Non perdeva mai la calma, la mitezza e la fortezza così ben descritte nella biografia scritta da don Javier Medina. Piena valorizzazione del laicato Dunque, protagonista del Concilio. Ma anche del post-Concilio. Terza realtà da ricordare. Infatti, per diciotto anni don Álvaro ha lavorato nella Commissione pontificia per la revisione della legislazione della Chiesa in base al Vaticano II. E ha lavorato come re- Álvaro del Portillo Beato latore di una commissione di studio che si doveva occupare nientemeno che dei diritti e doveri dei laici nella Chiesa e nel mondo. Cioè di come nella legislazione della Chiesa si doveva riflettere quello che – a mio giudizio – reputo centrale nel Vaticano II: la chiamata universale alla santità e all’apostolato, in forza del battesimo. Cioè far sì che nella Chiesa tutti i battezzati si rendano responsabilmente conto che, per il fatto di essere stati battezzati, hanno il diritto/dovere di diventare santi, cioè di conformare la propria vita a quella di Gesù, e di diventare apostoli, cioè diffusori del Vangelo nelle comunità umane in cui vivono: famiglia, lavoro, attività sindacali e politiche, arte eccetera... Questo è il punto centrale che il Santo Padre Francesco, come i suoi immediati predecessori, ricorda con tanta insistenza: la «nuova evangelizzazione» si farà con l’apporto dei laici. La grande evangelizzazione della Corea, come al Papa è piaciuto moltissimo ricordare nel suo recente viaggio, è stata fatta dai laici, quando erano rimasti senza sacerdoti. Ebbene, don Álvaro organizzò per la prima volta nella storia della Chiesa il lavoro su questo tema. Scrisse un documento di più di trecento pagine, cominciando col distinguere le parole: che cosa significa «fedele» e che cosa significa «laico». Fedeli sono tutti coloro che hanno ricevuto la vocazione cristiana e si sono incorporati alla Chiesa con il battesimo. E di lì nascono i diritti e i doveri a cui abbiamo accennato. Perché un laico faccia apostolato non c’è bisogno che un vescovo gli dia la missione canonica. Gliel’ha data il Signore, con il battesimo e la cresima. Don Álvaro l’ha sottolineato, perché si riflettesse anche nei canoni, che danno al fedele laico nella Chiesa il senso di quali sono le sue prerogative, i suoi diritti. Il documento di don Álvaro ha molto stupito la commissione perché vi si approfondivano molto i concetti che poi si traducevano in canoni, come nessuna legislazione ecclesiastica aveva mai fatto. Potete comprovare che nel nuovo Codice è stato riversato tutto il lavoro di fondo fatto da don Álvaro. Mentre lavoravo nella commissione per la revisione del Codice di diritto canonico (e poi per l’interpretazione del nuovo Codice: per questo adesso mi trovo qua), mi resi conto dell’importanza del saggio di don Álvaro e gli suggerii di pubblicarlo: «Don Álvaro, questo va reso pubblico, è una nuova apertura nella storia del diritto canonico e della pastorale in applicazione del Concilio. Apre prospettive di studio anche a livello accademico». Don Álvaro tentennava. Era abituato a fare dei lavori stupendi a servizio della curia romana che non sono stati mai pubblicati, perché lavorava nel nascondimento, in umiltà. Aveva fatto proprio il programma di san Josemaría: «Il mio compito è nascondermi e scomparire, perché brilli soltanto Gesù». Abbiamo faticato non poco, ma alla fine l’abbiamo convinto. Ed è stato pubblicato. Il libro ha avuto un successo enorme, è stato tradotto in quasi tutte le lingue e la 691 prima edizione italiana è stata curata dall’Ares col titolo Laici & fedeli nella Chiesa. L’indimenticabile 26 giugno 1975 Passiamo velocemente al quarto punto. L’ultimo ricordo riguarda il 26 giugno 1975, giorno della morte di san Josemaría. Ero di ritorno dal lavoro in Vaticano, verso l’una e mezza. Appena entrato in Villa Tevere, dalla portineria mi hanno detto: «Per favore, salga al quarto piano». Ho preso l’ascensore e sono andato nella stanza di lavoro di don Álvaro. Entro, e vedo sul pavimento san Josemaría disteso per terra. Accanto a lui c’era un altro sacerdote, medico, don José Luis Soria, che poi è andato in Canada ed è lì tuttora, che cercava con i massaggi cardiaci di rianimare san Josemaría. Don Álvaro mi disse: «Vieni, vieni Julián, aiuta José Luis». Abbiamo fatto massaggi cardiaci, respirazione artificiale, ma inutilmente. Senza parlare, ci leggevamo nel pensiero: «Non c’è niente da fare». Io trattenevo a stento le lacrime e stavo dicendo al Signore: «Portami con te, perché io non servo a niente, ma il Padre è tanto importante per la Chiesa!». Era una preghiera per capovolgere la situazione, ma il Signore non ha ascoltato: il Padre è morto. Don Álvaro era lì insieme con don Javier Echevarría, attuale prelato dell’Opus Dei, e alcuni altri. Eravamo tutti distrutti, tranne uno: don Álvaro. «L’ombra», di colpo, era diventata corpo. E corpo di un uomo forte che non ha esitazioni, che con grande serenità comincia a dare indicazioni, ordini, cose da fare mentre noi stavamo lì sconvolti. Era difficile ragionare bene in quel momento perché i sentimenti agitavano troppo la mente. Io sentivo don Álvaro che diceva: «Javier, per favore, chiama al telefono l’assessorato centrale (l’organismo di governo delle donne dell’Opus Dei), di’ che preparino in Santa Maria della Pace il luogo dove deporre il Padre». Intanto erano sopraggiunti gli altri membri del consiglio generale dell’Opus Dei. Abbiamo recitato un responsorio per accompagnare la sua anima e poi don Álvaro ha incominciato a dare indicazioni all’uno e all’altro. In quel tempo telefonare all’estero – erano già una trentina le nazioni in cui c’era l’Opus Dei – era abbastanza difficile, bisognava fare diversi tentativi per ottenere le linee dirette... Poi bisognava avvertire il Vicariato, andare nella basilica di Sant’Eugenio per preparare il funerale pubblico. A me disse di telefonare a diverse personalità in Vaticano… Insomma, ha cominciato a dare tutta una serie di istruzioni con grande fortezza e serenità come se tutto fosse nella normalità. Non l’ho visto piangere. Qualche giorno dopo, però, avevamo la riunione che alle 10 di ogni domenica si svolgeva con san Josemaría: è il «Circolo breve», che comprende un commento al Vangelo, un esame di coscienza e qualche riflessione spirituale. Quella domenica, quando arrivò don Álvaro e per la prima volta dovette sedersi nel posto che normalmente occupava san Josemaría, scoppiò a piangere. Per la prima volta. Svolse magnificamente la lezione del Circolo e, quando finì, io, non sapendo cosa fare, lo abbracciai. Era un modo per dire che tutta la famiglia era attorno a lui per trovare maggiore unità e maggior amore fraterno. L’unica cosa che ho saputo dirgli, a voce bassa, è stato: «Grazie». E mi pare che gli altri hanno fatto altrettanto. l l l Mi fermo qua. Sono quattro ricordi che toccano diverse tappe. Nel libro troverete molti altri racconti di questo tipo, molto ben scritti. Grazie. Card. Julián Herranz Presidente emerito del Pontificio consiglio per i Testi legislativi L’inesausta fantasia dello Spirito Santo di mons. Mario Delpini 692 Dalla lettura del libro di Javier Medina emerge la figura di don Álvaro come persona di un’umanità completa, sorridente, colta, umile, una persona con la quale sembra di entrare in amichevole compagnia. Leggendo le peripezie, descritte con molto realismo, e le gioie che hanno costellato la vita di don Álvaro, sono stato colpito particolarmente da due cose: la prima è da quante disgrazie è scampato. Per esempio, da ragazzo, mentre stava per compiere una gita sul lago col fratello e altri amici, successe che il fratello scese dalla barca perché aveva dimenticato qualche cosa, e Álvaro lo seguì. Ebbene, scoppiò un fortunale e la barca affondò, ma Álvaro e il fratello rimasero in salvo. Un’altra volta, mentre era in macchina con il Fondatore su una strada di montagna, per la strada scivolosa la macchina sbandò e si fermò quasi in bilico sul ciglio, lasciando illesi i viaggiatori. Per non parlare poi dei pericoli durante la 27 settembre 2014: Guerra civile spagnola, dell’interrogatorio che Álvaro affrontò con la pistola di un miliziano puntata alla tempia, del drammatico attraversamento delle linee del fronte per raggiungere il Fondatore nella zona liberata, e tanti altri avvenimenti. Anche da questi episodi si intuisce che il Signore l’aveva protetto perché gli aveva affidato un compito da svolgere, una missione provvidenziale. Oltre la diocesi ambrosiana La seconda cosa la vorrei dire da milanese, perché si sa che noi ambrosiani siamo famosi per la nostra umiltà [applausi e risate dal pubblico], per cui per me, sacerdote di Milano, che esista qualcosa fuori di Milano è sorprendente. È vero, alla televisione dicono che esiste qualcosa anche altrove, ma insomma... Ebbene, tutto l’impegno di san Josemaría, di don Álvaro e di tutta l’Opus Dei, che emerge da questo libro così documentato e coinvolgente, mi ha suscitato qualche domanda. Perché non basta la Chiesa, nel senso della diocesi, della parrocchia, con la sua presenza territoriale che nella diocesi ambrosiana è così capillare? Perché non basta che il cristiano laico vada a Messa alla domenica, e poi nei giorni feriali si sforzi di essere cristiano in ufficio, nel lavoro, nella vita famigliare? Perché c’è bisogno di dare una consistenza anche giuridica a un’istituzione come la prelatura? Perché a Roma non bastano le università pontificie che già ci sono, e bisogna fondarne un’altra? Sono domande che mi sono posto, forse perché a Milano abbiamo la presunzione di essere una Chiesa che offre tutto quello che occorre: c’è la pastorale per i giovani, per gli anziani, per la famiglia, per la scuola, per i bisognosi... La lettura del libro mi ha aiutato a perdere un po’ la boria milanese, quella che da noi si chiama la baüscia: mi ha fatto capire che la Chiesa col vescovo, i parroci eccetera, è importante, essenziale, ma lo Spirito Santo è più grande, più vivo dell’aspetto dell’organizzazione; ho capito che c’è bisogno di qualcosa di più, e don Álvaro con la sua intraprendenza, con i suoi viaggi per porMons. Mario Delpini tare l’Opus Dei in tutti i continenti, lo ha testimoniato. C’è qualcosa di più di quello che la tradizione, l’organizzazione ecclesiastica, pur essenziale, ci ha consegnato. E ciò vale anche per l’apostolato dei laici: il Concilio ha detto che i laici, in quanto battezzati, sono missionari; perché dunque creare un’istituzione che ha come carisma specifico quello di santificarsi nel lavoro e nella vita quotidiana? La risposta è che la tradizione può diventare stanchezza, la pratica ordinaria può diventare un’abitudine un po’ rassegnata. Per questo lo Spirito Santo suscita delle forme che risvegliano, che danno un gusto di apertura, di intraprendenza, di coraggio, di sfida anche per raggiungere ambienti verso i quali la nostra «organizzazione», pur capillare, resta un po’ intimidita. Talvolta anche la realtà ecclesiale costituita ha bisogno di correttivi, perché la pratica ordinaria rischia di essere un po’ troppo condizionata dall’abitudine, per cui una voce che richiama al vigore della coerenza, risveglia tutta la Chiesa. Dalla biografia di don Álvaro ho recuperato una visione di Chiesa più ampia, più viva, più capace di creatività, proprio perché attraverso l’esempio, il ministero, la testimonianza del nuovo Beato, si coglie un’integrazione, un arricchimento di tutta la Chiesa. Mons. Mario Delpini Vicario generale dell’Arcidiocesi di Milano Il dinamismo della fedeltà di Agostino Giovagnoli Álvaro del Portillo, com’ è noto, ha avuto un ruolo importante nel Vaticano II ed è stato certamente una figura di grande rilievo nella stagione post-conciliare. Attraverso i vari incarichi da lui svolti durante il periodo conciliare, ha indubbiamente servito tutta la Chiesa, non solo con zelo, impegno, pazienza ma anche con una comprensione lucida dei problemi più importanti del suo tempo, in modo particolare Álvaro del Portillo Beato per quanto riguarda il ruolo del laico nella Chiesa e la sua vocazione spirituale. Mi pare però si possa dire anche che don Álvaro ha servito la Chiesa tutta anzitutto perché ha servito l’Opus Dei. Le due cose non devono essere separate: nel servizio all’Opera egli ha realizzato un grande servizio alla Chiesa. L’Opus Dei, infatti, è stato uno dei grandi doni che la Chiesa cattolica ha ricevuto nel XX secolo. 693 Agostino Giovagnoli Nel ’900 la Chiesa ha corso un grande pericolo. Il modo in cui è entrata in questo secolo non era adeguato alle sfide inattese che si è trovata di fronte. Se non fosse cambiata, se non avesse accettato di mutare in profondità la sua fisionomia, avrebbe rischiato non di scomparire, ma di diventare molto marginale all’interno di una società che si trasformava sempre più rapidamente. La sfida più importante è stata quella di trovare la strada per incontrare le masse, gli uomini e le donne che vivono una vita comune, nel mondo, insomma i laici, i semplici fedeli. Nel XX secolo, la Chiesa non poteva sopravvivere restando identica a come era stata nei secoli precedenti, un’istituzione separata, chiusa in sé stessa, a tratti anche forte in rapporto ad altre istituzioni, ma con un’influenza sempre più limitata nella multiforme vita quotidiana di milioni di uomini e di donne immersi nella «modernità». Il messaggio antico di cui la Chiesa è portatrice in tutti i secoli rischiava di diventare vecchio e incomprensibile se non avesse assunto una forma nuova. Ed è avvenuto qualcosa di inatteso: la Chiesa è rinata nelle anime, come diceva Romano Guardini. Davvero il XX secolo è stato «il secolo della Chiesa». Tale costatazione è strana se si considera che tante sono state le difficoltà da questa incontrate nel Novecento, le critiche, le opposizioni, le contestazioni di cui è stata oggetto. Ma è un’affermazione profondamente vera se si considera la grande novità di una Chiesa che non è rimasta un’istituzione del passato ed è entrata nel cuore di milioni di uomini e donne. L’«impresa» più importante L’ Opus Dei è stata una delle strade attraverso cui questa novità si è realizzata. Per questo dico che, al fondo, il più grande servizio fatto da don Álvaro alla Chiesa è il servizio che ha fatto all’Opera. Álvaro del Portillo è stato un ingegnere civile e qualcuno potrebbe dire: non c’ è bisogno della laurea per diventare santi. È così. Ma Álvaro è stato prima ingegnere e solo successivamente membro dell’Opera, sacerdote, esperto di Diritto canonico, vescovo e tante altre cose. L’ingegnere civile costruisce le case, le scuole, gli edifici pubblici... E verso la fine della guerra civile, ha sentito il bisogno di servire la patria costruendo ponti, strade e tante altre cose distrutte dalla guerra. È stato il suo modo per contribuire a ricostruire una società profondamente ferita dalla violenza della guerra. San Josemaría ha saputo parlare a questi ingegneri, medici, avvocati e a tanti altri immersi nell’impegno di costruire la società, l’«impresa» più importante del XX secolo, 694 per così dire, come costruire lo Stato era stato l’impresa più importante del XIX secolo. Ha saputo spiegare loro che la ricostruzione più importante non era quella delle case distrutte dalla guerra e neanche quella di una società lacerata dalla violenza: occorreva soprattutto lavorare per la costruzione di un grande edificio spirituale. Don Álvaro si è messo al servizio di questo grande disegno. Il libro di Javier Medina Bayo ci spiega come ciò è avvenuto. L’autore scrive che il suo volume non è né un libro di storia né una biografia (anche se in realtà è, in modo molto riuscito, entrambe le cose). La bibliografia su don Álvaro – aggiunge – è «piuttosto copiosa» e in particolare «sono già stati pubblicati due ampi profili biografici, che offrono una sintesi adeguata» (p. 13). Il suo obiettivo, perciò, è un altro: dimostrare la necessità, per chiunque intenda scrivere la biografia di don Álvaro, di tener conto in modo preminente che «il primo successore del beato Josemaría Escrivá nel governo dell’Opus Dei fu – anzitutto e soprattutto – un cristiano leale, un figlio fedelissimo della Chiesa e del Fondatore, un pastore completamente dedito a tutte le anime e in modo particolare al suo pusillus grex, alla porzione del popolo di Dio che il Signore aveva affidato alle sue cure pastorali, in stretta comunione con il Romano Pontefice e con tutti i suoi fratelli nell’episcopato. Lo ha fatto in assoluta dimenticanza di sé, con donazione gioiosa e allegra, con carità pastorale sempre accesa e vigilante» (sono parole tratte dall’Omelia di mons. Echevarría per la morte di don Alvaro). La Presentazione sottolinea inoltre che, più importanti delle virtù umane nel primo successore di san Josemaría, sono state le sue virtù teologali. E conclude: «La fedeltà – che ha origine nella fede, come spiega il suo nome – è la nota più caratteristica della vita di mons. del Portillo. Fedeltà a Dio, fedeltà alla Chiesa e al Papa, fedeltà all’Opus Dei». L’intenzione di suffragare questa tesi – e cioè non solo di sostenerla, ma soprattutto di portare elementi che ne dimostrino la fondatezza – viene infine integrata da quanto dichiarato in Premessa. Perciò, conclude l’autore, il sottotitolo del libro potrebbe essere: «Testimonianze su Álvaro del Portillo visto da quanti gli furono vicini», unite al tentativo di «lasciar parlare mons. del Portillo» il più possibile (p. 14). Questi diversi obiettivi si saldano in uno solo: mostrare il possesso nel Beato, in un grado altissimo, della virtù della fedeltà. E, indubbiamente, il libro è stato molto fedele alle promesse: scorre in modo compatto – costruito con solidità e rigore come è giusto che sia per un «ingegnere civile» – senza digressioni o derive lungo questi due binari fino alla fine. 27 settembre 2014: L’incontro con Giovanni Battista Montini Dopo alcune note sull’infanzia e adolescenza, si mettono in evidenza l’incontro con il Fondatore, l’ascolto, l’obbedienza, il sacrificio di sé, la collaborazione stretta con san Josemaría ecc. Particolarmente illuminate è la fedeltà di don Álvaro al Fondatore dell’ Opus Dei dopo la morte di questi. Il modo in cui tale fedeltà si è esplicata viene anticipato nel libro da alcuni passaggi precedenti, di cui ricordo alcuni soltanto. Una nota (due foglietti) in cui il Beato spiega la sua concezione ascetica, trasponendo sul piano spirituale modalità tipiche della vita militare (p. 125). Egli utilizza i termini militari di disciplina e collegamento desumendoli dall’obbedienza agli ordini e dall’immedesimazione con la volontà dei superiori che si debbono avere nei confronti dello Stato maggiore anche quando ci si trova nell’impossibilità di ricevere un ordine esplicito. È questo il motivo per cui viene definito saxum dal fondatore dell’Opera (p. 124). Per descrivere ulteriormente la sua fedeltà, l’autore ricorda che lo stesso don Álvaro, dopo la morte di san Josemaría, corregge il termine «continuità», utilizzato da mons. Echevarría, con fedeltà (p. 355). Javier Medina Bayo richiama anche i termini «continuità dinamica» (p. 355) – don Álvaro raccomandava di non sotterrare il talento ricevuto – e «dinamismo della fedeltà», come capacità di rispondere alle nuove sfide dell’apostolato (p. 356). In concreto, al centro della fedeltà di don Álvaro, dopo essere succeduto al fondatore, c’è stato l’impegno fortissimo a realizzare la volontà di san Josemaría circa la forma giuridica dell’Opus Dei e di promuoverne la canonizzazione. Attraverso la sua fedeltà, don Álvaro è stato al ser- vizio di Qualcosa, di Qualcuno, di un grande disegno. Ed è significativo, in questo senso, il suo incontro con un uomo molto diverso: Giovanni Battista Montini. Quando arriva a Roma, subito dopo la guerra, don Álvaro incontrò don Battista, come lo chiamavano i suoi ragazzi, che lavorava nella Segreteria di Stato di Pio XII. E questi mostrò un grande interesse per don Álvaro, come pure, successivamente, per san Josemaría e, più in generale, per l’Opus Dei. Montini è stato molto legato all’Azione cattolica, alla FUCI, al Movimento laureati. Ma era curiosissimo verso tutte le esperienze ecclesiali nel suo tempo. Giovanni Battista Montini, infatti, non è stato solo un grande Papa, un uomo di Dio ora riconosciuto beato, un «architetto» del cattolicesimo contemporaneo. È stato anche uno dei più grandi testimoni del rischio corso dalla Chiesa cattolica nel XX secolo, uno dei più sensibili al pericolo che tra l’istituzione ecclesiastica e gli uomini e le donne del suo tempo si creasse una distanza incolmabile. Quando è diventato arcivescovo d Milano, ha dedicato grandissima parte della sua pastorale ai «lontani», impegnandosi in modo appassionato per avvicinarli nuovamente alla Chiesa. Credo perciò che la sua simpatia per don Álvaro e il suo interesse per l’Opera nascessero proprio da qui. Montini era alla ricerca di una risposta a quel grande problema e si è impegnato personalmente per trovarla, insieme ai giovani della FUCI. Ma sapeva anche che non poteva esserci una sola risposta ed era perciò curiosissimo – segno della sua grandezza spirituale – verso tutti coloro che, come san Josemaría, ne stavano trovando altre per costruire la grande novità di cui la Chiesa aveva bisogno e di cui il Concilio Vaticano II è stato la maggiore espressione. Agostino Giovagnoli Ordinario di Storia contemporanea nell’Università Cattolica di Milano Il segreto per essere felici? La santità di Javier Medina Bayo Mons. Delpini mi ha fatto scoprire un gemellaggio con i milanesi, perché io sono basco, e anche noi baschi abbiamo la fama di essere molto umili.... [Applausi e risate dal pubblico]. Sono arrivato a Roma nel 1970 e da allora sono cresciuto accanto a don Álvaro fino alla sua morte, nel 1994. In tutti questi anni, ho ascoltato molte volte la sua predicazione, ho potuto parlare con lui personalmente, mi è stato concesso di essere testimone del suo lavoro di governo nell’Opus Dei. Nell’accingermi a scrivere questa biografia, pensavo di avere una buona conoscenza Álvaro del Portillo Beato della vita di don Álvaro. Tuttavia, nella stesura del libro, sono venuto a conoscenza di moltissimi episodi che non mi erano noti, e che arricchiscono di moltissime sfaccettature la sua grandissima personalità umana e soprannaturale. Sapevo che era molto santo ma, per dirla in poche parole, non immaginavo che la sua santità fosse così grande. Nel 1997, il cardinale Luis Aponte Martínez, arcivescovo di San Juan di Porto Rico, in una lettera al vicario dell’Opus Dei scriveva: «Come era buono don Álvaro. Era così umano e al tempo stesso così so- 695 prannaturale. Con gli anni la sua figuappagare questa sete procurandosi il maggior numero possibile di beni ra andrà ingigantendosi sempre più. materiali; altri pensano di soddisfarSe la Chiesa lo riterrà opportuno, io la con il potere, o con i piaceri senspero di vedere monsignor del Portillo sibili... Ma non basta: l’uomo ha bielevato alla gloria degli altari. Questo sogno di ben altro per essere felice. chiedo al Signore. E questo spero. PerI santi sono persone che hanno troché penso che sarà di grande aiuto alvato il segreto della felicità e l’hanno la nostra Chiesa cattolica l’esempio di raggiunta. San Josemaría amava diquesto santo vescovo». re: «Ne sono sempre più persuaso: la Veramente don Álvaro era molto buofelicità del Cielo è per coloro che no. Nel decreto della Santa Sede che Javier Medina Bayo sanno essere felici sulla terra» (Fordichiara l’eroicità delle sue virtù, si gia, n. 1005). Nonostante le possibili sofferenze – afferma che egli era «uomo di profonda bontà e afche non mancano mai – nessun santo si dichiara trifabilità, capace di trasmettere pace e serenità alle ste o non soddisfatto della propria sorte. Come si anime». Nessuno ricorda un gesto poco cortese da spiega? La risposta è questa: perché i santi hanno un parte sua o il minimo moto d’impazienza dinanzi cuore innamorato. Don Álvaro è stato un uomo veraalle contrarietà; mai una parola di critica o di protemente felice, perché il suo cuore era pieno di amore: sta. Aveva imparato dal Signore a perdonare, a preper Dio e per gli uomini. Anche per questo motivo gare per i persecutori, ad aprire sacerdotalmente le bisogna far conoscere la sua vita. braccia, accogliendo tutti con un sorriso e con cristiana comprensione. Dal giorno in cui fu scelto come successore di san Josemaría molte persone, anche non dell’Opus Dei, cominciarono a chiamarlo «Padre». Don Álvaro era un sacerdote cordiale, sorridente, un vero padre. Un padre che diffondeva inInoltre, i santi intercedono per noi in Cielo. Per quantorno a sé un clima di serenità e di pace anche nei to riguarda don Álvaro, dopo la sua morte sono permomenti più difficili. Anche quand’era immerso in venute più di 13.000 relazioni firmate di favori otteun ritmo di lavoro molto intenso, riusciva sempre a nuti grazie alla sua intercessione, anche da luoghi in mantenere l’affabilità e il sorriso. cui l’Opus Dei non è ancora presente. Si tratta di grazie di ogni tipo: materiali e spirituali. Certamente, le più sorprendenti sono le guarigioni straordinarie, ma ci sono tantissimi doni ricevuti, forse meno appariscenti ma ugualmente preziosi: disoccupati che trovano lavoro; sposi che recuperano l’armonia coniuIntorno all’anno 408 o 409, sant’Agostino scrisse gale; concepimento di figli, a volte dopo anni di atteuna lettera a un suo amico vescovo, Memorio, che sa prima di ricorrere alla sua intercessione; riconciconsiderava un vescovo santo, e gli diceva: «Mi liazioni tra parenti in lite; nascita di bambini sani, dosento sollevato dal tuo amore. Poiché non è da una po una diagnosi di malformazioni congenite... persona qualunque che sono amato, prediletto, ma Lo scorso mese di marzo, presso la Pontificia Unida una persona altamente qualificata, da un vescoversità della Santa Croce, a Roma, si è svolto un vo di Dio quale tu sei, e so che sei tanto gradito a convegno in occasione del centenario della nascita Dio che, quando innalzi la tua anima sì buona al Sidi don Alvaro, in cui intellettuali e persone che lo gnore, con essa innalzi anche me, poiché nella tua avevano conosciuto da vicino hanno evidenziato diracchiudi pure la mia» (lettera 101, A Memorio, n. versi aspetti della sua figura. Tra le tante manifesta1). Chi ha conosciuto don Álvaro sperimentava la zioni di affetto, il Segretario di Stato di Sua Santità stessa sensazione: ci si sentiva sollevati verso Dio, ha telegrafato al prelato dell’Opus Dei, mons. Jagrazie al suo aiuto e al suo esempio. vier Echevarría, che il Sommo Pontefice Francesco Finché vivono sulla terra, i santi ci mostrano come – sono le parole testuali – «esorta a imitare la vita deve comportarsi il cristiano. Si racconta che una umile, allegra, nascosta e silenziosa, ma anche devolta, in pieno giorno, Diogene uscì con una lantercisa nel testimoniare la perenne novità del Vangelo, na per le strade di Atene e, alla domanda su che coannunciando l’universale chiamata alla santità», sa stesse facendo, rispose: «Cerco l’uomo!», intendell’allora venerabile, e oggi beato, Álvaro del Pordendo dire: «Cerco un uomo onesto». Oggi, viene tillo. Penso che non possa esserci consiglio più auvoglia di gridare: «Cerco un uomo felice!», perché torevole. in questi nostri tempi, così opulenti, tantissime perJavier Medina Bayo sone inseguono la felicità, ma non la trovano perché non sanno quali sono le sorgenti di questa aspiraPostulatore della Causa di beatificazione di mons. Álavaro del Portillo zione insita nel cuore dell’uomo. Alcuni tentano di Testimone della perenne novità del Vangelo Sollevati verso Dio dal suo amore 696 27 settembre 2014: «Studi cattolici», 2015 Gentile abbonata, caro abbonato, non vi sarà sfuggito, sfogliando il Quaderno d’apertura, che Studi cattolici a colori è (quasi) tutta un’altra storia, ma questo è solo un anticipo, perché dal prossimo gennaio la rivista sarà full color e con un nuovo look di copertina. È solo la prima delle novità per il 2015, anche se il 2014 è stato ricco di sorprese: abbiamo rinnovato il sito www.ares.mi.it, lanciato i primi e-book, creato l’opportunità per gli abbonati di leggere in anteprima in pdf i numeri di Studi cattolici + Fogli, nonché di consultare l’archivio digitale delle riviste. La nostra rivista è stata (e sarà sempre) un osservatorio privilegiato per approfondire la realtà multicaotica in cui siamo immersi, dalla marcia sanguinaria dell’ISIS a quella di Ebola. Certo, chiunque con un click può conoscere le novità, ma per interpretarle ci vuole molto di più. Un pensiero libero si forma a poco a poco, con la riflessione e il confronto, non con la consultazione frenetica di Facebook, Youtube o Wikipedia. Per questo continuiamo ad affrontare sfide che in troppi considerano perse: dalla difesa della famiglia ai princìpi irrinunciabili della bioetica, alla valutazione critica della letteratura e degli spettacoli. Gli «studi» d’apertura e tutte le rubriche vogliono essere strumenti d’orientamento anche sul lungo periodo. Le buone idee non hanno data di scadenza. Si tratta di un’avventura appassionante, ma non facile. Abbiamo bisogno del sostegno dei lettori per continuare questo sogno editoriale nato nel lontano 1957 e il modo più immediato per aiutarci è di rinnovare fin da ora l’abbonamento alla rivista facendola conoscere anche agli amici. Siamo in molti, ma vogliamo (e possiamo) essere molti di più. Grazie di cuore, e auguri per un 2015 tutto da leggere. Per (ri)abbonarsi Se sul bollettino postale allegato si trova scritto Scad 2014.12 significa che l’abbonamento è da rinnovare. Il canone di Euro 70 (Estero Euro 100) resta immutato anche per il 2015. Se, oltre al proprio abbonamento, si desidera sottoscrivere un abbonamento dono per un amico (e confidiamo che molti lo desiderino), la quota complessiva è di Euro 100 (anziché Euro 140). Per questa modalità contattare [email protected]. I versamenti possono essere effettuati tramite l’unito bollettino di conto corrente postale oppure con carta di credito attraverso il nostro sito www.ares.mi.it, o con bonifico bancario Iban: IT 90 E 01030 01608 000000060654. Data la situazione, sono particolarmente graditi gli abbonamenti sostenitori (Euro 150) e benemeriti (Euro 600). Chi volesse impegnarsi ancor più direttamente come socio dell’Associazione Ares può contattare personalmente il Direttore ([email protected]). 697 SCENARI Siria: genesi & prospettive di una guerra Tre anni di guerra oltre 180mila morti Tre anni e mezzo di guerra civile, 180mila morti, tre milioni e mezzo di rifugiati, un Paese distrutto. La Siria non esiste più, è solo un cumulo di macerie sotto le quali giacciono non solo decine di migliaia di cadaveri, ma anche le speranze di milioni di arabi di vivere in un mondo libero. Ma questi sono solo numeri, filosofia o geopolitica. Per capire anche solo un poco la travolgente angoscia di un popolo bisognerebbe guardare un volto alla volta, uno per uno, oppure osservare più e più volte lo spot di «Save the children» dove si racconta in un fotogramma al secondo la vita di una bambina inglese in un’ipotetica guerra civile e che termina con lo slogan: «Solo perché non succede qui non significa che non accada». Si pensi solo a che cosa può avere nel cuore un padre che deve dire ai figli: «Dobbiamo andare via di qua. Dobbiamo lasciare la nostra casa e tutto ciò che abbiamo portato è solo lo stretto indispensabile per sopravvivere», e moltiplicare tutto ciò per ogni profugo siriano. Solo allora potremo avere una pallida immagine di una tragedia così immane da avere pochi precedenti nella storia, a parte la Seconda guerra mondiale. Perché è proprio una guerra mondiale che stiamo vivendo, anche se i nostri Paesi (per ora) sono tranquilli e in pace. Che sia la Terza come ha detto Papa Francesco o la continuazione di quella Quarta Guerra mondiale (la GWOT, Great War On Terrorism) è questione da risolvere in salotto con un buon 698 amaro a fine pasto: i bambini che a decine di migliaia vivono nelle baraccopoli libanesi o siriane non hanno questo tipo di problemi. La «primavera araba» & i suoi falsi profeti E, tuttavia, capire che cosa è accaduto e sta accadendo è necessario per comprendere come evitare la medesima sorte, perché il nostro destino di uomini si compie ora per ora e i capi delle nazioni, al di là dei relativi meriti, non hanno la possibilità di tornare indietro sulle proprie scelte, né beneficiano di macchine del tempo che possano ripristinare determinate situazioni. Ciò che è irritante nella gran parte delle analisi sui fatti della «primavera araba» è il porsi come «profeti del giorno dopo», da veri Nostradamus delle baracche. Per esempio, l’esprimere il proprio scetticismo sui «facili entusiasmi» che aveva suscitato il sommovimento del 2011 nei Paesi arabi è del tutto inutile qualora non si pensi a qual era la situazione in quei fatali mesi invernali. Era del tutto chiaro che il crollo dei regimi dittatoriali avrebbe comportato rischi pesantissimi: e, tuttavia, l’ondata che ha travolto tali regimi è apparsa, quasi fin da subito, come inevitabile e i governanti occidentali sono stati costretti ad assecondarla. Si pensi solo a come tutto iniziò: il 17 dicembre 2010, in Tunisia, dopo essere stato vittima di oltraggi e soprusi da parte di alcuni poliziotti (e la più feroce era una donna poliziotto), Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante di verdure privo di licenza si dà fuoco per protesta nella città di Sidi Bouzid. Il tunisino Mohamed Bouazizi: la sua morte ha scatenato la Primavera araba. Muore il 4 gennaio per le ustioni riportate. L’indignazione della piazza è enorme e sfocia in cortei di protesta che vengono duramente repressi dalla polizia tunisina, con supporto tecnico francese, offerto dall’allora ministra degli Esteri, Michèle Alliot-Marie. La storia la sappiamo: Alliot-Marie diede le dimissioni e poco dopo anche il presidente tunisino Ben Alì dovette lasciare il potere. Le elezioni furono poi vinte dal partito islamico moderato e il Paese ha ritrovato una propria stabilità. Questo, però, è l’unico caso di successo della primavera araba. In Egitto i militari hanno prima perso poi ripreso il potere, estromettendo i Fratelli musulmani e difendendo, di fatto, la maggioranza degli egiziani che non si sentiva rappresentata dal partito islamico. In Marocco e in Giordania il prestigio delle monarchie ha retto bene, per ora, ma altrove è stata ed è guerra civile. In Bahrein la rivolta degli sciiti è stata repressa dall’esercito saudita, ma in Libia la guerra ha portato al rovesciamento del regime di Gheddafi e alla sua brutale esecuzione poco dopo la cattura. Da notare che, nel caso libico, i rivoltosi sono stati appoggiati dai Paesi europei, fra cui Francia e Italia, che compresero come il rais fosse ormai perdente. A questo intervento militare non è seguito un supporto politico tale da evitare la frantumazione del Paese, oggi di fatto, diviso secondo logiche tribali. Oggi, di fronte al fatto che la Libia è, ormai, uno Stato fallito, si rimpiangono i tempi del rais ma c’è da chiedersi, nella primavera del 2011, quale politica si doveva adottare: l’appoggio al dittatore, data la sua nota brutalità sarebbe stato moralmente squalificante per l’Europa e l’avrebbe messa in cattiva luce rispetto a insorti che, prima o poi, avrebbero avuto la meglio. In altre parole, è mancato l’impegno politico mentre c’è stato solo quello militare. La dittatura degli Assad Quanto alla Siria, la fama di spietatezza degli Assad è fin troppo nota, così come sono noti e non smentibili fenomeni di corruzione sistematica e di controllo totalitario sulla società. Gli Assad basano il proprio potere sulla minoranza alawita, una setta sciita in contrasto con la maggioranza sunnita del Paese. I cristiani, anch’essi minoranza, sono tollerati e godono di una relativa libertà sicuramente maggiore che in Arabia Saudita o altri Paesi islamici. Questa tolleranza, tuttavia, è come sempre funzionale all’unica cosa che importi veramente al governo siriano, e cioè la conservazione del potere, tenendo conto che, in caso di sconfitta, l’esilio è la minore delle disgrazie. Basta tutto ciò a volere la fine di un regime da parte dell’Occidente che, quando gli conviene, tollera qualsiasi nefandezza? Evidentemente no, ma non si può nemmeno credere che la rivolta di tanta parte Dinastia al potere: manifestazione con i ritratti di Bashar al-Assad, attuale presidente della Siria, e del suo predecessore, il padre Hafiz alAssad, morto il 17 giugno del 2000, dopo quasi 30 anni di dittatura. della società siriana contro il dominio degli Assad sia dovuta soltanto a intrighi di potenze estere con l’immancabile CIA sempre presente o che la lotta sia tra un governo che si è macchiato di crimini indicibili e criminali che tagliano teste e gole con il più ilare entusiasmo. Si tratta di un’estremizzazione che, qui in Italia, conosciamo molto bene dato che sono gli stessi argomenti di propaganda utilizzati dai fascisti contro la Resistenza, composta, come ognun ben sa, da terroristi comunisti all’80%. Una fandonia a cui troppi italiani credono ciecamente ancora oggi. 2010-2012: genesi di un mattatoio Per la Siria ci si dovrebbe chiedere come si è arrivati a questo mattatoio dal quale è emersa la spaventosa realtà dello Stato islamico (IS o ISIS). Tutto comincia a Damasco il 15 marzo 2011 quando una manifestazione di protesta, tesa alla liberazione di prigionieri politici, viene dispersa dalla polizia. Le manifestazioni durano anche nei giorni successivi e il governo siriano, come più volte farà negli anni successivi, annuncia riforme che non verranno mai fatte, né i siriani si aspettano qualcosa da un regime del tut- to privo di scrupoli e per niente disposto a qualsiasi forma di mediazione. Le proteste, disarmate, continuano nei mesi successivi, ma la repressione è sempre più feroce e le vittime si contano a centinaia già in aprile. Proprio l’11 aprile 2011 si verifica il primo episodio di resistenza armata con l’uccisione di 9 poliziotti nel Nord del Paese. Al 14 giugno, tre mesi dopo l’inizio delle proteste, risultano uccisi 1.300 siriani dalla polizia o da spietati reparti paramilitari, gli «Shabab», mentre le persone arrestate sono 10mila e altri 8.500 sono già fuggiti in Turchia. La durezza della repressione ormai non lascia più scelta anche perché un numero sempre maggiore di soldati sceglie di non sparare sui civili e di rivolgere le proprie armi contro gli ufficiali o semplicemente di disertare. Ma la diserzione si paga sempre con la morte ed è allora che si costruisce il primo nucleo del Free Syrian Army (FSA), il 26 luglio 2011. Da questa data inizia la resistenza armata contro le forze governative con l’andamento caotico di tutte le guerre civili. Le forze ribelli sono concentrate soprattutto nel Nord del Paese, dove sfruttano l’aiuto della Turchia, da sempre nemica del governo di Damasco, e puntano alla conquista delle città dove è più facile difendersi in una lotta casa per casa. La- 699 takia, Homs, Aleppo, la stessa Damasco diventeranno tante Stalingrado. Come in ogni lotta partigiana, i ribelli cercano di guadagnare l’accesso ai confini con Paesi amici o di conquistare basi militari per fare bottino di armi pesanti. Accanto al FSA, composto e guidato da militari, si formano altri eserciti come il Fronte Islamico o il Fronte Al Nusra, composto da estremisti radicali musulmani affiliati ad Al Qaeda, ed è interessante notare come, secondo molte testimonianze, il formarsi di tali milizie islamiche sia stato permesso dallo stesso governo siriano. Poche settimane dopo l’inizio dell’insurrezione furono liberati centinaia di questi estremisti radicali secondo un calcolo machiavellico che si può solo presumere ma i cui risultati sono abbastanza certi. Le milizie islamiche, con i loro atti criminosi, sono diventate, in effetti, il simbolo stesso della resistenza siriana, a volte combattendo contro lo stesso FSA. Per tutto il 2012, infatti, il FSA consegue alcune vittorie, conquistando città e basi aeree che poi finisce per perdere di fronte alla strapotenza militare siriana. Il Papa & la flebile diplomazia di pace Nel 2103 le sconfitte subìte fanno sì che il territorio controllato dall’FSA sia ristretto ad alcune zone settentrionali del Paese, soprattutto nella provincia di Idlib, al confine con la Turchia, mentre le milizie islamiche sostenute e finanziate da Arabia Saudita e dagli emirati del Golfo conseguono notevoli successi controbilanciati dalle offensive dell’esercito siriano sostenuto sia da personale iraniano appartenente alle milizie basij e ai reparti speciali Al Qods sia, soprattutto, dalle milizie di hezbollah, che dal Libano attaccano i ribelli e vincono una grande e sanguinosa battaglia ad Al Qusair. Sempre nel 2013, però, le forze governative subiscono alcune dure sconfitte. Si ha l’impressione che, qualora l’esercito siriano si concentri per organizzare delle 700 controffensive, debba subire attacchi dove rimane più debole, così che la somma di vittorie e sconfitte è quasi pari allo zero. Così Aleppo rimane in mano ribelle e la lotta sembra essere destinata a durare all’infinito. In campo internazionale l’unica organizzazione che potrebbe avere la legittimità per intervenire è l’ONU, che però viene sistematicamente bloccata di veti di Russia e Cina. I motivi di questa opposizione sono diversi, ma è probabile vi sia il timore di legittimare un futuro intervento dell’ONU qualora dovessero scoppiare rivolte simili a opera delle minoranze musulmane, per esempio, in Cecenia o a opera della minoranza uighura nella Cina occidentale. Un piano di pace dal contenuto velleitario e buonista, varato dal ex segretario dell’ONU Kofi Annan fallisce completamente mentre l’Occidente, Stati Uniti in testa, appoggia i ribelli, spesso finendo per favorire proprio l’estremismo islamico. Nell’agosto 2013 un attacco chimico nei sobborghi di Damasco provoca almeno 635 morti. Ribelli e governo si accusano reciprocamente dei aver scatenato l’attacco sulla popolazione civile e un’indagine indipendente non arriva ad alcun risultato concreto. Tanto basta però perché la macchina da guerra di Stai Uniti, Francia e Inghilterra si metta in moto per quella che sembra ormai un’operazione improcrastinabile: abbattere il regime siriano con la forza come è stato fatto con Gheddafi. C’è però una fondamentale differenza: a Tartus c’è un’intera flotta russa ed è impossibile attaccare le installazioni siriane senza coinvolgere anche i russi, con il rischio di un conflitto fra grandi potenze. Il mondo trattiene il respiro e Papa Francesco indice per il 7 settembre una veglia di preghiera per la pace: una settimana dopo la diplomazia ha la meglio sulle armi e viene negoziata la distruzione delle armi chimiche da parte di Assad. Bisogna ammetterlo, anche se è necessario vergognarsi: dopo quell’accordo la Siria è tornata al suo macello quotidiano nella nostra to- tale indifferenza, risvegliata solo provvisoriamente dalle testimonianze di uomini coraggiosi come Domenico Quirico. L’ISIS: il califfato di Al Baghdadi Già dall’estate del 2013, tuttavia, stava prendendo piede una nuova organizzazione, fino ad allora poco attaccata dalle forze governative e che aveva dimostrato la propria aggressività combattendo contro il FSA, contro i curdi o anche contro lo stesso fronte islamico. Si trattava dell’ISIS (stato islamico dell’Iraq e del levante) o ISIL o, attualmente, più semplicemente IS, Stato islamico. Le sue origini vanno fatte risalire a un altro tagliateste come Amu Musab Al Zarqawi, che gli americani fecero saltare in aria con un missile guidato. Già da allora i metodi di Al Zarqawi riuscirono a scandalizzare mammolette come Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri. Con la morte di Bin Laden e la sostanziale sconfitta di Al Qaeda nella lotta condotta contro il mondo intero, lo Stato islamico fondato da Abu Bakr al Baghdadi è diventato di fatto il punto di riferimento per i jihadisti di tutto il mondo. Va detto, per inciso, che rimane un grande mistero il fatto che al Baghdadi sia stato rilasciato dalle autorità americane nel 2009 con una decisione che ha lasciato stupiti molti ufficiali statunitensi. L’IS è diventato il protagonista delle vicende medio orientali iniziando da una sconfitta, quando il FSA è riuscito a scacciarlo da Raqqa, mentre anche Al Nusra è riuscito a buttarlo fuori da Idlib. Per nulla scoraggiato, Al Baghdadi ha attaccato dove la preda era più ghiotta e il nemico più debole, cioè l’Iraq settentrionale. Un calcolo notevole, in quanto IS ha trovato l’appoggio delle tribù sunnite penalizzate dalla politica pro sciita del governo di Baghdad. L’esercito iracheno si è squagliato come neve al sole e l’IS si è trovato in possesso di uno Stato grande come il Belgio, con risor- La battaglia di Kobane se petrolifere ingenti e possibilità di autofinanziamento difficilmente calcolabili. I successi dell’IS non devono stupire. La sua tattica somiglia a quelle degli eserciti della prima conquista islamica: scorrerie in profondità, attacchi nei punti deboli e nelle risorse del nemico, indebolimento del suo potenziale militare, ritirate strategiche di fronte a preponderanza nemica e poi ritorni offensivi con mobilità pari alla ferocia. Si tratta di colonne di un centinaio di mezzi, quasi sempre Pick up su cui sono piazzate armi pesanti o anticarro: una tattica adottata dall’esercito del Ciad, addestrato dai francesi contro le colonne corazzate di Gheddafi nel 1978. L’IS ha introdotto un livello di spietatezza che il mondo non conosceva dal nazismo, tanto che, in confronto a questi tagliagole, lo stesso Osama Bin Laden sembra un cavaliere della Tavola Rotonda. Massacri sistematici di cristiani e yazidi hanno inorridito il mondo che, ora, sembra deciso a contrastare un esercito che, secondo alcune stime, ammonta già a 100mila uomini, in gran parte sunniti dell’Iraq settentrionale. Un temporaneo scacco contro i curdi è stato compensato da altre vittorie e l’iniziativa appare sempre in mano ad al Baghdadi. Il 4 ottobre 2014, le forze dell’IS sono entrate nella città curda di Koba- ne, al confine con la Turchia. I curdi, oggi, sembrano gli unici in grado di contrastare, non certo di sconfiggere, questo esercito nero che pare invincibile. Sicuramente gli attacchi aerei anglo-americani e francesi, insieme a quelli di apparecchi arabi, non sembrano in grado di contrastare più di tanto l’avanzata di IS. La situazione potrebbe cambiare in modo totalmente imprevedibile nei prossimi giorni qualora il governo turco mantenesse l’impegno preso di difendere Kobane. Eroismo curdo & Occidente immorale Ora, l’esercito turco, di gran lunga il più numeroso e combattivo di tutta la NATO, rappresentante di una tradizione guerriera ottomana mai venuta meno (ancora si ricordano le gesta dei turchi durante la guerra di Corea del 1950-1953), è sicuramente in grado di sbaragliare l’IS, ma nella risoluzione votata dal parlamento turco c’è un inghippo non da poco: il vero nemico della Turchia resta la Siria e viene da pensare che per gli Stati Uniti sia la stessa cosa. Un intervento contro l’IS, necessario e legittimo, almeno moralmente, comporterà anche una resa dei conti con le forze siriane, ripresentando le questioni sollevate nel settembre 2013. Se la Turchia, Paese NATO, dovesse essere coinvolta in scontri con forze russe, l’art. 5 del trattato che prevede il mutuo soccorso dei Paesi alleati sarà reso efficace, sia pure con le limitazioni in esso previste? Mentre scrivo la battaglia per Kobane continua e l’avanzata dell’IS sembra tentennare. La resistenza dei curdi stava per essere schiacciata, con i turchi alla frontiera a guardare senza intervenire, in un atteggiamento simile a quello dei sovietici davanti a Varsavia nel 1944, quando lasciarono che i nazisti schiacciassero i partigiani anticomunisti. In questo quadro di disperazione, un segnale di riscossa è venuto dalle donne curde, decise a morire piuttosto che essere prese prigioniere. Una giovane soldatessa, Arin Mirkan, madre di due figlie, mentre stava per essere sopraffatta si è fatta saltare in aria con un blindato di IS e 16 nemici. Sui giornali occidentali hanno definito il gesto «kamikaze», ignorando tutta la tradizione di eroismo che è propria dell’Occidente. Anche questo è il segno della nostra bancarotta morale. Una maledizione cinese augurava di «vivere in tempi interessanti»: a dispetto della nostra disgustosa distrazione, questi lo sono per davvero. Alberto Leoni 701 INTERVISTE Gaza: il presente & il futuro Colloquio con il Cancelliere del Patriarca latino di Gerusalemme Abouna George Ayoub è nato a Reineh, un villaggio alle porte di Nazareth. Dopo aver conseguito la laurea in Architettura all’Università di Haifa, ha lavorato per alcuni anni anche in un cantiere edile, il cui titolare è il padre. La sua è stata una vocazione adulta e ha scelto di entrare nel seminario di Beit Jala del Patriarcato latino di Gerusalemme per diventare sacerdote. Dopo l’ordinazione sacerdotale è stato nominato vicario parrocchiale a Madaba, in Giordania. Parla cinque lingue: l’ebraico, l’arabo, il francese, l’inglese e l’italiano. Il patriarca Fouad Twal l’ha voluto al suo fianco e da tre anni guida la «macchina» della Chiesa Madre, con il ruolo di Cancelliere e Segretario del Patriarca. È stato tra i principali organizzatori della visita di Papa Francesco in Terra Santa ricevendo i complimenti dalle autorità sia israeliane sia palestinesi. La sua giornata inizia alle 6.30 con la celebrazione della Messa nella Casa Madre delle Suore del Rosario a Bet-Hanina, una frazione di Gerusalemme, spesso teatro di scontri tra palestinesi e israeliani. Chiude la porta del suo ufficio alle 19, dopo un breve colloquio di aggiornamento quotidiano con Sua Beatitudine. Ha vissuto la guerra, tra Israele e Gaza, passo dopo passo, tenendo i contatti con i religiosi e le suore che vivono in quella martoriata terra. Ora coordina, tra l’altro, assieme all’economo patriarcale padre Imad Twal, gli aiuti per la popolazione palestinese di Gaza. «È stata una guerra senza esclusione di colpi da ambo le parti: oltre duemila morti fra i palestinesi (di cui il 70% civili, secondo stime ONU) e sessantasette fra gli israeliani (64 mili- 702 tari e 3 civili). Una guerra assurda. Credo, però, che non si sia trattato dell’ennesimo e ricorrente scontro tra israeliani e palestinesi, bensì di un’azione militare da collocare in quel contesto che da qualche tempo sta incendiando il Nord Africa, il Levante e tutto il Medio Oriente. Preghiamo Dio che i venti di guerra cessino presto e si possa ritornare al tavolo delle trattative per dare a questa regione una stabilità duratura, sia politica sia sociale». Missionari nell’apocalisse l Padre George, che cosa ha visto a Gaza? Quando siamo arrivati a Gaza con mons. William Shomali, con l’economo padre Imad e con la superiora generale delle Suore del Rosario, Madre Ines Al-Yacoub, siamo stati accolti al posto di blocco di Erez, da una delegazione della parrocchia, guidata da padre Mario Da Silva, vicario parrocchiale. Il parroco, George Hernandez, non era ancora tornato da Roma, dove era stato ricevuto in udienza dal Santo Padre. In auto abbiamo attraversato il quartiere di Shejaiya di Gaza City e costatato l’enorme devastazione; era come l’aspettavamo: uno scenario apocalittico, solo rovine, macerie e centinaia di case rase al suolo o bruciate. l E la popolazione? Abbiamo incontrato alcune famiglie che hanno condiviso con noi il loro dramma. Molti esprimevano la loro contrarietà nei confronti di Hamas e dell’offensiva israeliana. La guerra, secondo loro, li ha lasciati perdenti e senza un’abitazione. Abbiamo visto persone che soffrono per la scarsità d’acqua, gente in fila a riempire bottiglie e recipienti dalle cisterne messe a disposizione, per strada, dalla Caritas di Gerusalemme. Abbiamo visto giovani e adolescenti che rovistavano tra le rovine alla ricerca di ferro o di qualsiasi altro oggetto di valore da poter rivendere. l A Gaza, il Patriarcato ha una parrocchia e svolgono la loro missione anche delle suore. Grazie alla Madonna, Regina della Palestina, Nostro Signore non ci ha abbandonato. Abbiamo visitato le Suore della Carità di Madre Teresa, rimaste al loro posto durante la guerra, per seguire una trentina di disabili e una quindicina di anziani. Erano sorridenti e felici per il loro lavoro. Una notte, sono state invitate ad abbandonare la loro casa per un possibile bombardamento. Ma grazie all’intervento dell’Ambasciata Italiana, sono potute rimanere nella loro casa, con i loro assistiti. Era l’unica soluzione: non sarebbero state in grado di trovare un altro posto protetto sotto i bombardamenti. In seguito, abbiamo visitato la casa delle religiose del Verbo Incarnato. Il loro alloggio, restaurato di recente, è stato colpito dai frammenti di un’esplosione e ora necessita di un’altra ristrutturazione. Abbiamo poi incontrato Alessio, vescovo ortodosso di Gaza, di origine greca. Come un buon pastore, durante la guerra, è rimasto nella sua parrocchia. Ci ha raccontato che, nel bel mezzo del conflitto, durante il Ramadan, ogni sera ha aperto la sua chiesa ai musulmani della zona per permettere loro di rompere il digiuno, con un pasto caldo. Abbiamo visitato l’ospedale angli- metterle a regime e poter accogliere gli studenti. Prevediamo inoltre gravi problemi finanziari, per il fatto che le famiglie degli allievi non saranno in grado di pagare le rette scolastiche e bisognerà trovare il modo di aiutarle. Don Abouna George tra le rovine di Gaza cano Al’ali che ha ospitato e curato 4.000 feriti. Ci siamo fermati presso le Suore del Rosario, la cui scuola ha subito tre esplosioni, meno gravi questa volta, rispetto alla precedente guerra. l Una vera e propria maratona. Direi di sì. A Gaza siamo arrivati molto presto, non potendo fermarci oltre le due del pomeriggio, per la chiusura anticipata del valico di Erez. Per questo non ci è stato possibile visitare la nostra scuola parrocchiale dove, durante tutto il conflitto, è stato ospitato e assistito dalla Caritas circa un migliaio di persone rimaste senza casa. l Qual è il sentimento predominante tra la gente di Gaza? Paura, disperazione? In effetti, è un paradosso: ci aspettavamo di imbatterci in persone tristi, che si lamentavano, siamo invece rimasti sorpresi nell’incontrare persone coraggiose, che hanno ripreso la vita con decisione. La gente sta gradualmente tornando al lavoro. I pescatori hanno ritrovato un po’ di speranza: escono alle sei di sera e ritornano all’alba, con una pesca abbondante e con varietà di pesci mai viste prima. C’è chi dice che già alle otto del mattino non si trova più pesce al mercato ittico. In effetti, abbiamo visto brillare la spe- ranza negli occhi di coloro che abbiamo incontrato e non la disperazione che ci aspettavamo. Solo 1500 cristiani rimasti l Ci sarà un futuro per queste persone? L’anno scolastico è già iniziato. Quando si potrà tornare a scuola a Gaza? Più di 30mila case sono state distrutte. Il numero dei rifugiati che ha perso le proprie abitazioni si aggira più o meno a 350mila. C’è chi dorme ancora nelle scuole dell’ONU o presso genitori e parenti. Ho visto anche persone che dormono per strada su materassi di fortuna, in attesa delle tende, che l’ONU dovrebbe inviare prima dell’inverno. Si parla di tende, in attesa della ricostruzione di Gaza, che dovrebbe durare anni e costare miliardi di dollari. Per quanto riguarda il nuovo anno scolastico, probabilmente è impossibile che possa iniziare regolarmente. Le scuole statali, invece, dovrebbero riaprire prima, non essendo state colpite dai bombardamenti. Le scuole dell’ONU, dal canto loro, sono state le più bombardate e serviranno alcune settimane per sistemarle. Per quanto riguarda le nostre istituzioni scolastiche, abbiamo bisogno di almeno un mese per l Qual è il ruolo della Chiesa, delle comunità e delle associazioni religiose cristiane nell’aiuto umanitario? La Chiesa ha assunto un ruolo attivo durante e dopo il conflitto: ortodossi, anglicani e musulmani hanno collaborato con la Chiesa cattolica e con le sue agenzie umanitarie, tra cui la Caritas, il Catholic Relief Services e la Pontifical Mission che hanno lavorato a fianco di altre associazioni cristiane come il World Vision. Tutti hanno fatto un ottimo lavoro di distribuzione di acqua, pane, coperte, pasti caldi e farmaci. Sono anche riusciti a ottenere carburante per gli ospedali di Gaza, dopo che la centrale era stata gravemente danneggiata. Ci sono, oggigiorno, dei generatori che forniscono l’elettricità. l Il popolo di Gaza potrà ancora avere una speranza? Dopo tre guerre consecutive, interrotte da brevi tregue, gli abitanti di Gaza hanno perso la speranza e credono poco alla pace. I cristiani, ridotti a meno di 1.500 unità, non pensano ad altro che a lasciare questa terra. Ma c’è ancora qualcuno che crede nella pace. Si tratta di coloro che pensano di aver vinto la guerra e di poter presto godere di tutti i vantaggi di questa vittoria: accesso libero, creazione di un porto e di un aeroporto. I fatti e l’avvenire soprattutto diranno chi ha vinto. La vittoria in verità sarà solamente politica o diplomatica, perché dal punto di vista militare sono tutti perdenti. I negoziati dovrebbero iniziare a settembre: chi otterrà di più avrà «vinto» la guerra. Quanto a noi, preghiamo che questa sia l’ultima guerra di Gaza e che possa affermarsi la pace. Questa è la nostra sola speranza. Nicola Scopelliti 703 OSSERVATORIO D’EUROPA La squadra di Junker & la Scozia Con la composizione della sua Commissione e i portafogli assegnati a ciascuno dei 27 Commissari, di cui 7 avranno le funzioni di vicepresidente, il Presidente eletto, il lussemburghese JeanClaude Junker, conta di realizzare un programma ambizioso. La sua «squadra», in primis, dovrà convincere i cittadini europei che la situazione dell’UE cambierà. Junker, forse ispirato dai recenti Campionati di calcio in Brasile, ha fatto spesso riferimento alla «squadra» e ai suoi giocatori. Uno solo ha una carica calcistica definita: il «rigorista» finlandese Jyrki Katainen (42 anni) vicepresidente incaricato dell’Occupazione, della crescita, degli investimenti e della competitività. Il «rigorista» (così definito non perché sia bravo a mettere la palla in rete dagli 11 metri, ma perché è avvinghiato come un salmone al rigore circa il rispetto dei dettami del Patto di stabilità) ha avuto subito «cortesi» battibecchi con Matteo Renzi, che richiede (come altri Paesi, per esempio la Francia) una certa flessibilità nel patto, pur rispettando, ha confermato Renzi, che l’Italia a fine anno avrà un deficit di bilancio al di sotto del 3%. Come calcolare la flessibilità La flessibilità può essere calcolata tenendo conto anche degli «investimenti», le spese per il «sociale», come scuole, ospedali, riducendo il deficit al di sotto del 3% del PIL. La stessa posizione è stata presa dal ministro Carlo Pa- 704 doan, nella riunione dei ministri finanziari dei 18 Paesi che hanno adottato l’euro, convocata dal nostro ministro in qualità di presidente semestrale dell’Eurogruppo, ai primi di settembre a Milano (con visita ai cantieri dell’Expo 2015). Peraltro, si teme che i lavori non vengano terminati in tempo per l’apertura dell’Expo, anche per i vari scandali per «mazzette» consegnate ad alti funzionari che hanno dovuto dimettersi (o cambiar casa, andando in prigione), finendo col dilungarsi per anni, come la costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, che è una vera «anomalia» italiana alla quale nessun governo è riuscito a porre in essere un rimedio radicale. La «squadra» di Junker dovrà concentrarsi sulle grandi sfide politiche che l’Europa deve affrontare: reinserire le persone in posti di lavoro dignitosi; stimolare maggiori investimenti; assicurare nuovi prestiti bancari all’economia reale; creare un mercato digitale connesso; attuare una politica estera credibile; assicurare l’indipendenza dell’Europa in materia di sicurezza energetica. Alcuni commissari temono di essere «schiacciati» dai sette vicepresidenti (più esperti o più potenti), che avranno funzioni di team leader, anche se Junker ha cercato di riassicurare che non vi sono commissari di prima o seconda classe. Se il capitano della squadra, Junker, sarà assente, il suo braccio destro sarà il vicepresidente olandese Frans Timmermans che dovrà calmare i litigi, senza estrarre il cartellino rosso. Il primo vicepresidente avrà anche il ruolo di «Custode della Carta dei Diritti fondamentali e dello Stato di diritto» in tutte le attività della Commissione. Come avevano richiesto alla Commissione, con forza, Matteo Renzi e il ministro degli Interni, Angelino Alfano, dopo che l’Italia ha affrontato da sola un inatteso e ininterrotto afflusso di emigranti, nessun aiuto è venuto da Bruxelles. La visita, del tutto inutile, del presidente della Commissione europea Barroso accompagnato dalla gelida commissaria svedese, Cecilia Malmström, a Pantelleria nella primavera scorsa, non ha indotto la Commissione a stanziare nemmeno un euro per l’Italia. Junker, tuttavia, ha mantenuto la promessa, fatta a Renzi, di un commissario per i migranti, e ha nominato il greco Dimitris Avramopoulos. Le severe audizioni del Parlamento Ciascun commissario, meno il Presidente Junker, sarà sottoposto a una severa «audizione» dalla Commissione del Parlamento europeo competente per i dossier affidati al nominando commissario. L’audizione, oltre che tecnica, può avere risvolti politici o personali: si ricorda il caso del ministro Rocco Buttiglione, «bocciato» per aver difeso alcuni suoi princìpi morali che scatenarono l’ostilità dei radicali e di alcuni socialisti. Dopo le audizioni di tutti i nominandi commissari l’intera «squadra» Junker si presenterà, a fine ottobre, davanti al Parlamento europeo per l’approvazione defi- ma non implica la fine delle rivendicazioni scozzesi, malgrado le concessioni, messe frettolosamente sul tappeto del negoziato dal governo di David Cameron, quando appariva favorito il minaccioso «Sì». Come successore di Alex Salmond, sia al governo sia alla testa del partito, viene pronosticato il vicepremier Nicola Sturgeon (44 anni) che è l’astro nascente di Holyroad, sede delle istituzioni scozzesi. Il presidente eletto della Commissione europea, il belga JeanClaude Junker, osserva con qualche perplessità un’ispirata cancelliera tedesca Angela Merkel. nitiva della Commissione, che dovrebbe entrare in funzione il 1° novembre, per cinque anni, salvo imprevisti degli europarlamentari, con critiche su uno o l’altro dei commissari. 10 lezioni dal referendum scozzese Per tutta la notte del 18-19 settembre gli scozzesi sono rimasti attenti alle notizie diffuse dalle stazioni radio e televisive che aggiornavano ininterrottamente sui risultati del referendum che chiedeva agli scozzesi se desideravano l’indipendenza dalla Gran Bretagna o rimanere ancora legati a Londra, situazione che dura da tre secoli (1703). I risultati sono stati più netti delle previsioni: con un’affluenza record di oltre l’85%, si sono dichiarati favorevoli al «No» per l’indipendenza dal Regno Unito il 55,3% dei votanti; in favore del «Sì» all’indipendenza da Londra, il 44,7%. Qualche osservazione: ¶ Il Vallo di Adriano (Vallum Hadriani), costruito su ordine dell’Imperatore romano Adriano, agli inizi del II sec. d.C., per bloccare le incursioni dei Pitti che scendevano dal Nord, non sarà rinforzato poiché la Scozia continuerà a far parte della Gran Bretagna. Il muro costruito dai soldati romani è lungo 120 km (pari a 80 miglia romane) ed è rimasto pressoché intatto specie nella parte centrale. All’epoca, il Vallo segnava la linea di spartizione tra Inghilterra e Caledonia (l’odierna Scozia) ed era il confine più pesantemente fortificato di tutto l’impero, il che è dimenticato sovente nei libri di storia. È stato dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. · La votazione si è svolta con ordine, con canti, sventolio di bandiere e bevute di birra. Incidenti pochissimi, morti nessuno, un paio di feriti, inciampati sui cocci di bicchieri caduti sul pavimento dei Pub. I «Sì» e i «No» erano rimasti quasi appaiati fino all’alba, finché il pieno sole ha sorriso alla vittoria del «No». ¸ Da ammirare le dimissioni, già annunciate per novembre, di Alex Salmond da Capo del governo (First Minister) e da leader dello SNP (Scottisch national party). Il risultato del referendum del 18 settembre segna la sconfitta (temporanea?) dell’indipendentismo, ¹ Il premier britannico David Cameron ha minacciato più volte l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, con un referendum da tenersi nel 2017. Tattica per problemi interni o volontà di porre l’isola al di fuori dell’Europa in costruzione? Che ne sarà della Scozia, se la Gran Bretagna abbandonerà l’UE? La Scozia rinuncerebbe al suo desiderio di adesione all’UE e alla NATO? Si apre per Londra un periodo costituente molto intenso, che interessa anche alcuni stati dell’UE. Tra le rivendicazioni degli indipendentisti scozzesi figuravano la spartizione con Londra dei mezzi militari e, soprattutto, il ritiro della flotta di sottomarini nucleari alla fonda nei pressi di Glasgow (che sarebbe costato molti milioni di sterline). º La Scozia! Le immagini più tradizionali che colpiscono gli europei sono gli scozzesi con le cornamuse, suonate nelle feste o alla testa di battaglioni per spronare i soldati alla battaglia. Vi è poi il kilt, la gonna a quadretti di diversi colori e intrecci che indicano l’appartenenza a un dato clan. Secondo la tradizione, alcuni secoli fa i capitani delle varie milizie decisero, per i soldati, di abbandonare i pantaloni per adottare il kilt, che con i suoi colori permetteva di identificare le milizie alleate e di correre più agilmente. Gli scozzesi, forti guerrieri nel passato e nel presente, sono anche audaci pescatori nelle acque che circondano le numerose isole 705 dell’Oceano Atlantico vicine alla Scozia. Alcune isole sono estese e abitate, come le Isole Shetland, le Ebridi, le Orcadi, site di fronte al punta più a nord della Scozia, Capo Duncansby; altre sono più piccole ma custodiscono sotto il fondo marino importanti giacimenti di petrolio, vera ricchezza per la nazione. Quale nazione? La Gran Bretagna, le cui compagnie estraggono gran parte del greggio, lasciando «una piccola mancia» alla Scozia. Non dimentichiamo, infine, la produzione della famosa acquavite di cereali, denominata anche whiskey, con la «e» che indica spesso l’alcol irlandese. » Per rispettare le eredità storiche, le isole del Canale della Manica non fanno parte del «Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord», ma dipendono direttamente dalla Corona britannica alla quale furono trasferite dall’allora ducato di Normandia, all’epoca della conquista dell’Inghilterra (1066) compiuta da Guglielmo il conquistatore. Non facendo parte dell’Unione europea hanno potuto mantenere un regime fiscale particolare che ha favorito uno straordinario sviluppo delle attività finanziarie. Le isole hanno un Governatore in rappresentanza del sovrano di Gran Bretagna e hanno propri organi legislativi ed esecutivi. La popolazione è di circa 150 mila abitanti. Lingue ufficiali sono l’inglese e il francese; religioni ufficiali, cattolica e protestante. Anche l’Isola di Man non fa parte del Regno Unito ma dipende direttamente dalla Corona. Dal 1990 la figura del governatore generale, rappresentante del sovrano del Regno Unito, è stata sostituita da quella del Presidente del Parlamento (Tynwald). Le attività finanziarie e le esportazioni di alcuni beni, come gli alcolici, sono «Tax free» (senza tasse). ¼ Il referendum scozzese, indipendentemente dal risultato, ha 706 avuto importanti riflessi in altre regioni europee, desiderose di indipendenza o di maggior autonomia. In Scozia sono stati ammessi a votare, per la prima volta, anche i giovani che avevano compiuto i 16 anni. Per votare occorreva risiedere in Scozia o in Inghilterra. Il voto per corrispondenza non è stato, per ora, adottato. La Catalogna aspira sempre di più all’indipendenza da Madrid. Il Governo non vuol sentire parlare delle richieste di Barcellona e nemmeno dell’apertura di negoziati al riguardo. La Catalogna ha deciso, qualche anno fa, di sopprimere ufficialmente lo spagnolo e di passare al catalano negli atti pubblici, nelle indicazioni su piazze e strade. Anche nel Galles e nella Repubblica dell’Irlanda del Nord, con capitale Belfast, vi è chi pensa all’indipendenza. Sono i cattolici ferventi sostenitori di un’unione con la Repubblica d’Irlanda, con capitale Dublino, membro dell’Unione europea, con l’euro, come in altri 17 Stati dell’UE, e che ha beneficiato, negli ultimi tre anni di crisi, del sostegno finanziario europeo. Vi sono anche movimenti indipendentisti nei Paesi Baschi, a cavallo tra Spagna e Francia, in Corsica e in altre regioni europee. ½ John Balliol, scozzese, e Filippo IV di Francia, che mantenne un importante ruolo negli affari franco-svizzeri e anche inglesi, firmarono nel 1295 la Auld Alliance (Vecchia Alleanza) tra la Scozia e la Francia per limitare la potenza inglese, in funzione chiaramente antibritannica. Non vogliamo qui ricordare tutte le vicende dei rapporti della Scozia con la Gran Bretagna ma desideriamo segnalare una particolarità del trattato che nel 1512 estendeva la Auld Alliance: tutti i cittadini diventarono anche cittadini dell’altro Paese (una specie di trattato di Shengen sulla libera circolazione nell’UE, ante litteram). Questa clausola di doppia cittadinanza fu abrogata in Francia solo quasi quattro secoli dopo la firma del trattato, nel 1803, mentre non risulta che sia stata abrogata anche in Scozia. ¾ Nel XVII secolo la Scozia attraversò un periodo politico agitato anche con un confronto religioso con Carlo I d’Inghilterra che cercò d’imporre, invano, il metodo di preghiera usato in Inghilterra alla Chiesa scozzese. Quest’ ultima reagì con la creazione del National Convenant of the Church of Scotland e successivamente scoppiarono la «Guerra dei vescovi», la guerra civile scozzese e la guerra dei tre regni. Dal punto di vista religioso, in Scozia vi fu un cristianesimo celtico, seguito da movimenti di paganesimo, di luteranesimo, di calvinismo, dopo la Riforma protestante. ¿ Le grandi riserve di idrocarburi del mare del Nord sono per nove decimi nel mare scozzese. La Scozia versa più sterline a Londra di quante ne riceva, il che limita la crescita dell’economia della Scozia che altrimenti sarebbe vicino alle economie dei Paesi scandinavi. La Scozia dopo tre secoli è stanca di «dormire nel letto di un elefante» e di essere controllata dai banchieri della City. I sostenitori nello SNP del primo ministro Salmond ripetono continuamente: «Vogliamo essere una piccola nazione pro-europea che difende la pace e la giustizia, o parte di un grande Paese che entra in guerra ogni due o tre anni (con militari scozzesi)?». La Scozia, grazie al petrolio e alla pesca, come è accaduto alla Norvegia, potrebbe diventare un Paese ricco. Né la legislazione di Bruxelles né il trattato di Lisbona hanno previsto la scissione interna di un Paese dell’UE. Si dovranno studiare altre forme giuridiche e/o politiche. Auguriamo agli scozzesi un felice futuro (europeo?). Giovanni Livi INQUIETOVIVERE di Guido Clericetti 707 DIRITTO Cambiamenti in vista sui diritti umani? Colloquio con Jean-Pierre Schouppe, premio Cassin 2014 Jean-Pierre Schouppe, nato a Bruxelles nel 1955, è giurista e canonista. Sacerdote della Prelatura dell’Opus Dei, nel 1982 ha conseguito un Dottorato di ricerca con una tesi sul realismo giuridico (cfr Le réalisme juridique, Kluwer/StoryScientia, Bruxelles 1987). Dal 1989 è professore incaricato presso la Facoltà di Diritto canonico della Pontificia università della Santa Croce. Qui ha insegnato dapprima Filosofia del diritto e Diritto patrimoniale canonico e, successivamente fino a oggi, Rapporti tra Chiesa e società civile e Diritti umani. Oltre a numerosi studi di dottrina giuscanonistica (tra i quali, il manuale Elementi di Diritto patrimoniale canonico, Giuffrè, Milano 20082), ha pubblicato numerosi saggi nei quali, in una prospettiva giusnaturalistico-classica, approfondisce i temi del realismo giuridico contemporaneo, delle radici e permanenze del diritto naturale nell’ordinamento canonico, dei diritti umani. È stato «Promotore di Giustizia e Difensore del Vincolo» presso il Tribunale Interdiocesano di prima istanza delle Diocesi francofone del Belgio e, nell’aprile 2011, Benedetto XVI l’ha nominato consultore del Pontificio consiglio per i Testi legislativi. Il giurista, magistrato e diplomatico francese René Cassin (18871976) è stato, com’è noto, fra i principali redattori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nonché Premio Nobel per la Pace (1968). Forse è significativo che, il 7 luglio 2014, un sacerdote cattolico, Jean-Pierre Schouppe, docente di Diritto canonico nella Pontificia Università della Santa Croce, sia stato insignito della «menzione speciale» del premio Cassin 2014, presso il Consiglio d’Europa, per la sua tesi in giurisprudenza difesa nell’Université Panthéon-Assas (Paris II) sul tema della dimensione istituzionale della libertà religiosa1. Qualcosa sta cambiando? l Prof. Schouppe, il diritto canonico classico cui Lei si richiama, che si basa, anche e soprattutto nel suo riconoscimento del diritto alla vita e della libertà religiosa, su una legge morale 708 naturale e immutabile, com’è potuto arrivare a ricevere un tale «tributo» nell’Aula a Strasburgo? Anche se la giurisprudenza di Strasburgo viene spesso criticata per qualche sentenza deludente dal punto di vista etico, rappresenta ciò che oggi si fa di meglio per la protezione dei diritti fondamentali. La Convenzione europea dei diritti umani del 1950 riconosce esplicitamente i principali valori della società: protezione della vita, libertà religiosa, matrimonio... A volte, la Corte non può tutelare quanto ci si aspetterebbe, anche perché a sua volta deve prendere in considerazione la legge degli Stati oppure si trova a dover risolvere un difficile conflitto tra due diritti fondamentali mediante un delicato bilanciamento. Vi è poi anche la preoccupante sfida dei cosiddetti «nuovi diritti». Sebbene all’inizio si siano registrati pochi casi, la tutela della libertà di religione è diventata un punto forte di quella giurisprudenza. Perciò, non vi è da meravigliarsi che sia stata premiata una tesi sulla libertà di religione nell’Aula del Consiglio d’Europa. l La tesi premiata dall’Istituto fondato da René Cassin a Strasburgo è intitolata: La dimensione istituzionale della libertà religiosa nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Può illustrarci qualche sviluppo evolutivo positivo dal Foro di Strasburgo? Si può ricordare la sentenza Bayatyan c. Armenia che riconosce la possibilità di fare obiezione di coscienza in materia di servizio militare obbligatorio. Grazie a questo pronunciamento, oggi, l’obiezione di coscienza è riconosciuta anche in altri settori. La libertà di religione istituzionale – ossia quella spettante ai gruppi religiosi come complemento necessario della libertà di religione individuale – è oggetto di una tutela particolarmente efficace qualora sia invocata insieme alla libertà di associazione. Due altri pronunciamenti della «Grande Camera» di Strasburgo vanno menzionati: Sindicatul c. Romania, che ribadisce il diritto della gerarchia ortodossa di rifiutare la creazione di un «sindacato di preti» con esigenti rivendicazioni lavorative, e la sentenza Fernández Martínez c. Spagna, la quale riconosce che lo Stato, a richiesta della Chiesa cattolica, può togliere l’incarico a un prete sposato che insegna religione cattolica in un liceo pubblico. Si vede, quindi, come la giurisprudenza di Strasburgo contribuisca all’effettiva applicazione del diritto canonico e dei concordati. l Nell’agenda istituzionale del- le Nazioni Unite o dell’Unione europea, però, i temi e, di recente, anche la questione stessa della libertà religiosa, non trovano facile accoglienza. Come giudica la situazione attuale? In effetti, l’ambiente generale nelle organizzazioni delle Nazioni Unite e nell’Unione europea non sembra molto affidabile per quanto riguarda i temi etici e religiosi, se non a livello di soft law. Da un lato, infatti, diverse lobby sono artefici di un intenso attivismo per perseguire i loro scopi particolari e, dall’altro, vi è un deficit di trasparenza e partecipazione democratica dei cittadini. Basti ricordare il sorprendente veto della Commissione europea all’iniziativa cittadina denominata Uno di noi (One of us), firmata da più di un milione e 700mila europei. Comunque, mi sembra che questo tipo di situazione sia reversibile con il tempo e dipenda maggiormente dal senso di responsabilità delle persone con maggiore formazione etica. Più che mai, vi è bisogno di giovani che si dedichino alla bioetica e alla vita politica! l Spesso, negli ambienti della politica e della diplomazia occidentale (a parte, probabilmente, il caso nordamericano che per radici antiche fa storia a sé), si tende a considerare il fenomeno religioso per lo più come un annoso problema di cui liberarsi e da liquidare. Niente a che vedere, quindi, con una soluzione e una risorsa per lo sviluppo della società. Che cosa si può fare a suo parere per cambiare questo deleterio trend? Questo modo di pensare, mi sembra, corrispondeva piuttosto al contesto del secolo scorso, ma oggi è sempre più chiara la lungimiranza della celebre frase (forse falsamente?) attribuita allo scrittore francese André Malraux (1901-1976) secondo cui il secolo XXI sarà religioso o non sarà. I mass-media sono pieni di notizie, non sempre buone, ma che hanno a che fare con la religione. E questo anche in molti Paesi europei nei quali il laicismo esercita una pressione in modo «sornione», o non immediatamente evidente. Il laicismo non va confuso con la sana laicità: non c’è bisogno di ritornare al regime degli Stati confessionali cattolici, ma occorre far rispettare l’autonomia sia delle Chiese sia degli Stati. Il dualismo cristiano, che risale a Gesù Cristo, va rispettato. Tuttavia, nel contesto di un pluralismo religioso, che si dà oggi anche in Italia, abbiamo riscontrato l’esistenza di un «dualismo plurale». l Un’idea che era stata avanzata da alcuni osservatori per sensibilizzare le classi dirigenti e l’opinione pubblica sui temi della persecuzione religiosa contemporanea, che colpisce oggi soprattutto i cristiani, era quella dell’istituzione di una «Giornata mondiale della memoria per i martiri cristiani». A che punto è la proposta? Pensa che possa servire a qualcosa? Come ha segnalato Papa Francesco, in questo periodo vi sono forse più martiri che nel II e III secolo d.C. sotto l’Impero romano, ossia fino al decreto di tolleranza emanato da Galerio (cioè l’Editto di Serdica del 311). Questo scandalo richiede una reazione urgente in primo luogo dell’Unione europea, ma anche a livello universale. L’iniziativa alla quale si fa riferimento potrebbe essere interessante, anche dal punto di vista ecumenico. Non ho informazioni concrete sulla sua accoglienza, ma si può ipotizzare che, se dovesse rimanere una giornata della memoria riservata ai soli martiri cristiani, difficilmente sarà accettata a livello mondiale. D’altra parte, se invece si allarga il concetto, si corre forse il rischio di un’inopportuna confusione con i jihadisti che ricercano la morte in combattimento. l Un’ultima domanda sul fronte del dialogo e del confronto con il mondo islamico che rap- presenta il primo interlocutore per le comunità cristiane autoctone del Medioriente, tutte duramente perseguitate in questo periodo. Quali sono le principali difficoltà e quale il giudizio sul profilo delicato della libertà religiosa in quei Paesi, alla luce della sua esperienza? Devo confessare che non sono mai andato nel Medioriente e, in questo senso, non ho alcuna esperienza sul campo. Per quanto riguarda l’Iraq, per esempio, può essere interessante il rapporto che il cardinale Fernando Filoni, delegato del Papa, ha presentato il 1° settembre al Consiglio dei diritti umani dell’ONU di Ginevra. Mi sembra anche un motivo di speranza la denuncia dei crimini del cosiddetto «Stato islamico» da parte di alcuni capi musulmani come il Gran Muftì d’Egitto e il rettore della moschea di Bordeaux. Anche gli Stati interessati dovrebbero adottare provvedimenti adeguati per proteggere le minoranze religiose in pericolo. Più generalmente, mi sembra molto importante distinguere attentamente tra i musulmani e gli estremisti musulmani. Nella mia tesi ho cercato di sottolineare il contributo delle principali tradizioni religiose alla libertà religiosa. Anche nell’islàm si può trovare qualche testo a favore di detta libertà. Tuttavia, in questa religione, l’argomento non riveste la stessa centralità che si rileva nel cristianesimo. Probabilmente, l’islàm ha bisogno di riflettere ancora su questa tematica e di fare un’esperienza parallela a ciò che per noi è stato il Concilio Vaticano II e il suo principale frutto in quest’àmbito: la dichiarazione Dignitatis humanae. A cura di Giuseppe Brienza & Omar Ebrahime 1 Cfr Jean-Pierre Schouppe, La dimension institutionnelle de la liberté de religion dans la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, Préface de E. Decaux, Pedone, Paris 2015. 709 FILOSOFIA Eliot & il neoidealismo anglosassone Nel maggio scorso The Time Library Supplement (pp. 14-15) ha pubblicato un estratto da un saggio inedito di Thomas Stearns Eliot (1888-1965), il celebre poeta, drammaturgo e critico angloamericano, autore di The waste land, Murder in the cathedral e dei Four quartets, nonché premio Nobel per la letteratura nel 1948. Tuttavia, non si tratta di un testo letterario, bensì di uno scritto di carattere filosofico che Eliot ha elaborato all’età di 26 anni, quand’era studente al Merton College di Oxford (1914-’15) e con già alle spalle tre anni di studi filosofici ad Harvard e uno alla Sorbona di Parigi. S’intitola The validity of artificial distinctions1 e aderisce al pensiero di Francis Herbert Bradley (18461924), che è uno dei principali esponenti del neoidealismo angloamericano, corrente filosofica che, come dice il nome stesso, rielabora l’idealismo tedesco. Vorrei sintetizzare quelle che mi paiono le tesi principali dello scritto ed evidenziare il loro grado di vicinanza con la concezione di Bradley esposta nella sua opera principale, Appearance and Reality, del 1893. La filosofia non parta dall’esperienza L’intento che Eliot si propone è così da lui espresso: «Difenderò le distinzioni convenzionali di cui si serve la filosofia in quanto sostengo che siano necessarie, ritenendo che in metafisica tutte le distinzioni siano in un certo senso ugualmente convenziona- 710 li, ma che alcune siano più vere di altre». E la prima tesi che espone ha un sapore nettamente idealistico: «Qualunque spiegazione filosofica che implichi di trarre uno o più termini dall’uso quotidiano e di conformare a essi il resto della realtà [...] è una spiegazione deplorevolmente insufficiente», perché non la si può provare né imporre agli altri; anzi, può essere sostenuta solo «per fede (by faith)», la quale reca con sé una certa dose di scetticismo. A mio parere, questa tesi si comprende al meglio ricordando che Bradley rifiuta l’identificazione hegeliana di pensiero e realtà e sostiene che la Realtà sia inizialmente colta nel feeling, l’atto di coscienza ancora indistinto dal suo oggetto e in cui sono contenute tutte le relazioni tra soggetto e oggetto. Non appena il pensiero discorsivo distingue arbitrariamente l’oggetto dal soggetto ponendoli in relazione cade in contraddizione: il contenuto dell’esperienza umana così ricostruito dal pensiero è determinato e contraddittorio, perché consiste in una relazione tra qualità, ma, non essendo la qualità identica alla relazione, dovrà entrare in relazione con la relazione, ingenerando un processo all’infinito. Pertanto, l’esperienza è pura apparenza, mentre la realtà è l’Assoluto. Teoria, verità & realtà Alla luce di ciò, ritengo possibile intendere quest’altra afferma- zione di Eliot: «La vera ragione, ritengo, del fallimento di tutti i voli filosofici non è il loro avventurarsi troppo lontano, ma l’avventurarsi da soli. L’occhio dell’honnête homme sulla terra non li segue. Il filosofo gli parla dei fenomeni dell’atmosfera, ma quale ragione ha chi dimora sulla terra di credere che tali asserzioni riguardino il suo mondo? I significati non si estendono sino a costruire una scala tra il tuo cielo e la mia terra. Più il sistema si estende e più diviene tenue. Concordo che la verità sia “in avanti” (forward)2 e non “dietro” (behind), ma nell’opera di ognuno o di qualsiasi gruppo di pionieri l’avanzamento verso l’articolazione e la completezza è invariabilmente accompagnato da una perdita di densità e di ricchezza», dove il contrasto tenuedenso equivale a quello tra pensiero e realtà. Eliot prosegue sostenendo che una teoria mira ad apprendere la realtà e che quando si parla dell’uso di un sistema non lo si pensa come vero, perché «se crediamo a una teoria della realtà, non ha senso assegnarle un uso. Perché? Perché quando o finché crediamo in un sistema, siamo all’interno di esso: non vi è alcuna “teoria” in quanto la teoria è la realtà». La teoria del giudizio, per esempio, è giustificabile solo per mezzo del sistema che costruiamo su di essa, sicché l’ulteriore sviluppo del sistema coincide con l’uso della teoria. Anche questo ricorda una tesi di Bradley, che accetta la teoria hegeliana dell’universale concreto, secondo cui l’universale è un si- stema i cui costituenti sono peculiarmente connessi tra loro, e confuta l’edonismo e il formalismo etico del dovere proponendo una morale fondata sulla realizzazione dell’io infinito, poiché l’io empirico è connesso a un contesto sociale e perciò fa parte di un sistema in cui si incarna l’universale concreto e che è appunto l’io infinito. Metafisica & linguaggio La seconda tesi principale dell’estratto di Eliot è che il mondo non è semplicemente a disposizione del metafisico per meditare sulla sua natura, bensì è esso stesso metafisico ed è colmo di teorie non ancora dispiegate, la massima parte delle quali non raggiungerà mai una forma espressiva articolata. Dal punto di vista del linguaggio, ciò significa che è solo a momenti e in limitate sfere determinate da scopi particolari che riusciamo a pensare con chiarezza e coerenza e ad armonizzare i nostri significati. Per esempio, nella teoria etica i termini «autorealizzazione», «piacere» e «soddisfazione» sono in grado di rendere conto della condotta umana «solo in quanto assomigliano fortemente ai motivi che imputiamo alle azioni nostre e altrui o a motivi che sono coscientemente davanti alle nostre menti». Secondo Eliot, è pressoché inutile discutere se l’oggetto ultimo del desiderio sia il piacere o una realtà o un fatto o uno stato, perché possono esserlo tutti questi o nessuno di loro. Tuttavia, «isolarne uno e spiegare il resto nei suoi termini è a mala pena più sensato che cercare di tenere ambedue i piedi in una sola scarpa». Ogni filosofia fa questo e ha ragione di farlo: nella misura in cui i risultati che essa ottiene possono essere usati (nel senso suddetto del termine), le sue affermazioni sono vere. Ogni teoria trova la propria Thomas Stearns Eliot (1888-1965) giustificazione nel rifiuto delle altre teorie, determinando il loro errore, e trova la propria nemesi nell’erronea convinzione che conosciamo completamente e immediatamente queste astrazioni più di qualsiasi altra cosa. Anche in questo mi sembra di cogliere un richiamo a Bradley, secondo il quale la Realtà assoluta, per non essere apparenza, dev’essere non contraddittoria, ossia unica. Nondimeno, la condizione dell’esistenza delle determinazioni apparenti è l’esistenza dell’Assoluto, sicché esse sono apparenze della Realtà assoluta, che riunifica in sé stessa ciò che il pensiero discorsivo ha diviso, ma lo riunifica in un feeling superiore a quello originario. Eliot con Bradley, ma con riserve Così perveniamo alla terza tesi portante dell’estratto: «Ci si può chiedere se sia possibile costruire una filosofia senza ammettere termini costanti in cui risolvere il resto [...]. Credo che Appearance and Reality, sia pure con certe riserve3, abbia soddisfatto questo ideale. Nondimeno, [...] il merito positivo del libro è che non dispiega alcun risultato positivo. Dico merito nel senso che quando un filosofo pretende di far emergere qualche “risultato positivo” formulabile, che dichiara trionfalmente che la realtà è questa o quella, che qualche scoperta ci informa che niente è qualcos’altro da quanto supponevamo fosse prima che iniziassimo a filosofare, allora il filosofo sta semplicemente estraendo dalla tasca ciò che egli stesso vi ha messo. Il segno che una filosofia è vera, ritengo, è il fatto che ci riporta all’esatto punto da cui siamo partiti». Eppure, «in qualche modo non lo è, ma è un più alto livello della realtà». Oltre a richiamare l’idea di Bradley del feeling nella sua unità e distinzione di livello, per comprendere l’elogio del merito del principale testo di Bradley è necessario richiamarne il fulcro teoretico: in esso, sulla base del principio secondo cui la Realtà è unica e non contraddittoria, Bradley in primo luogo confuta l’empirismo, sicché al di fuori dello spirito non può esserci realtà alcuna e lo spirito, ossia la coscienza trascendentale, non è un fatto e come tale non può essere oggetto della scienza; in secondo luogo distrugge in quanto autocontraddittorie le qualità primarie e secondarie, la cosa e gli attributi, la qualità e la relazione, lo spazio e il tempo, il mutamento, la causazione, l’azione e la passione, la sostanza e l’identità delle cose, il male e il bene. L’Assoluto come spirito è al di là della personalità come dell’impersonalità e in questo senso Bradley sostiene di avere eliminato anche Dio e la religione. Aporie di Eliot & di Bradley A conclusione, ritengo condivisibile il giudizio di TLS: l’idealismo di Eliot (e di Bradley) si oppone alla tendenza della maggior parte dei filosofi attuali di partire dalle categorie dell’esperienza ordinaria. Le argomentazioni di Eliot sono più eleganti di quelle di Bradley, ma meno abilmente giustificate, sicché la concezione idealistica di Eliot risulta più asserita che non adeguatamente argomentata. Anche se non sono un esperto del neoidealismo anglosassone, non 711 mi pare che sfugga all’errore teoretico di fondo dell’idealismo tedesco. È vero che, se mi soffermo sul mio pensare, scopro che è un’attività assoluta: non è in me, ma io sono in essa, e soprattutto che è intrascendibile: se anche penso l’essere, il mondo, come «esterno» al pensiero, pensandolo non è più esterno. Ed è vero che ciò determina la confutazione dello gnoseologismo moderno, secondo cui conosciamo idee mentali e perciò nasce il problema di sapere se la realtà esterna sia conforme o meno alle nostre idee, il che conduce all’ammissione contraddittoria dell’inconoscibile «cosa in sé» kantiana, che penso essere impensabile. Tuttavia, da questo l’idealismo trae che l’essere è prodotto dal pensiero, mentre l’essere non è neanche «interno» al pensiero, poiché senza l’esterno cade anche il suo correlativo, il che implica la confutazione dell’idealismo e la riaffermazione del realismo: il pensiero è l’autotrasparire dell’essere (Parmenide e Aristotele) che gli è intenzionalmente presente. Infatti, sebbene Bradley sostituisca al pensiero il feeling, resta l’idea che l’essere sia «interno» allo spirito, peggiorata dall’eliminazione della dialettica che sola può identificare gli opposti senza sopprimere la loro differenza. Matteo Andolfo 1 Il saggio è ora pubblicato nel vol. II di The Complete Prose of T. S. Eliot: The Critical Edition, che s’intitola: The Perfect Critic, 1919-1926, edited by Anthony Cuda and Ronald Schuchard, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 2014. 2 In ogni esperienza, dice Eliot, vi è qualcosa di dato, ma anche sempre una costruzione ideale, che risulta sotto certi aspetti ingiustificata e il cui significato è nella sua «impaziente attesa» (espressa con il verbo to look forward) di essere verificata. 3 In una nota marginale Eliot afferma di non essere in grado di vedere come pervenire all’ammissione che la Realtà è spirito, l’affermazione con cui si conclude l’opera citata di Bradley. 712 BIOETICA Le ferite della fecondazione La Corte Costituzionale, con sentenza del 9 aprile 2014, ha dichiarato incostituzionale il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa per le coppie sterili, perché, come dice la sentenza, la scelta di «diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi». Vicende come questa mostrano con dolorosa evidenza l’esistenza di vuoti legislativi in difesa dei più deboli. Continua a venir convalidato il principio secondo il quale «la legge è uguale per tutti», purché quel «tutti» sia costituito da persone che vadano a votare. In questo momento storico manca qualsiasi forma giuridica dei nascituri. La possibilità di poter ricorrere alla fecondazione eterologa determinerà profonde ferite nel tessuto sociale. Ne abbiamo individuate quattro. 1 Viola i diritti del nascituro. È l’aspetto più evidente, già sottolineato dal segretario della CEI Nunzio Galantino: «Una sentenza che non garantisce i più deboli». La fecondazione eterologa di fatto «fabbrica artificialmente» un orfano, di padre o di madre a seconda dei casi. Non si tratta dell’orfano che per un ingrato destino si trova senza uno o entrambi i genitori e verso il quale è ammirabile qualsiasi gesto di solidarietà; si tratta di un ragazzo (o ragazza) che è stato crudelmente e volontariamente privato dei rapporti con il suo vero padre (o madre). Un ragazzo (o ragazza) che si domanderà sempre co- me sarebbe vissuto se fosse stato educato dal suo vero padre, con il quale avrebbe, per esempio, potuto condividere quella vocazione musicale (o atletica o altro) verso la quale si sente particolarmente portato e che non trova riscontro nel genitore adottivo. Un concepito che si trova nel grembo materno non è un semplice ammasso di tessuti; è già un essere umano completo di tutte quelle caratteristiche, doti, inclinazioni che gli sono state trasmesse dai suoi genitori biologici; ha solo bisogno di venir alimentato dalla madre per crescere e svilupparsi. 2 Crea squilibrio all’interno della coppia. Nel caso di coppie sterili, il gesto più bello e generoso che esse possano fare è quello di allevare un orfano. Si tratta di un gesto che possiamo definire «simmetrico» perché entrambi i coniugi si trovano ad accogliere questo bambino: un impegno che li consolida nella loro unione. Al contrario, il ricorso alla fecondazione eterologa è un atto profondamente asimmetrico: se l’infertilità è dell’uomo, la donna potrà avere dalla fecondazione eterologa piena soddisfazione per il suo istinto materno, mentre il marito si troverà nell’incomoda situazione di esser coinvolto all’interno di uno strano «ménage à trois». Il film americano Provetta d’amore (The babymakers, 2012) uscito nelle sale italiane a luglio 2014, sviluppa una satira particolarmente mordace nei confronti della fecondazione eterologa: un amico della coppia sterile, venuto a co- eterologa noscenza del loro problema, propone di evitare il fastidioso procedimento della fecondazione artificiale e si offre quindi come donatore «naturale», unendosi alla donna nel modo più classico. Al di là delle buone intenzioni e della generosità dei coniugi, la fecondazione eterologa è un atto divisivo della coppia e oggettivamente egoistico nella sua ricerca di una soluzione unilaterale al problema dell’infertilità. 3 Viola una volontà popolare chiaramente espressa. Il referendum abrogativo del giugno 2005 sulla Legge 40 conteneva espressamente un quesito sulla fecondazione eterologa. Se sommiamo le persone che non si sono presentate alle urne a quelle che hanno votato «no» all’abrogazione di questo punto, possiamo concludere che il 79,9% degli italiani iscritti a votare si è manifestato contrario a tale pratica. La Corte Costituzionale (indiscrezioni parlano di un solo voto di scarto) ha considerato illegittima questa chiara espressione della volontà popolare. Al di là di quanto prescrive l’ordinamento giuridico italiano, è lecito domandarsi che cosa abbia più significato: una sentenza dei 13 magistrati della Corte Costituzionale o la volontà democratica, soprattutto quando espressa in un modo così plebiscitario? Il lavoro dei magistrati della Corte, se ben fatto (cosa di cui non dubitiamo), è necessariamente circoscritto: deve rivolgersi al passato per garantire che le leggi del Parlamento siano coerenti con i princìpi espressi dalla Costituzione del 1947. Nel- la fattispecie della fecondazione eterologa è inevitabile un alto grado di aleatorietà su una tematica che non poteva minimamente venir concepita 67 anni fa dai padri costituenti. Al contrario, con i risultati del referendum del 2005 il popolo italiano si è chiaramente espresso intorno a una situazione che gli era ben presente perché contemporanea. Chi si è espresso per il no all’eterologa ha percepito molto bene quali sono i presupposti di qualsiasi vero amore genitoriale: bisogna concepire il figlio come un totalmente altroda-sé, degno della massima dignità e rispetto, che non può in alcun modo essere manipolato per diventare un mezzo che soddisfare la propria aspirazione alla genitorialità. Occorre ben riflettere, in questa come in analoghe situazioni future, se sia opportuno che la volontà espressa da un voto popolare, soprattutto quando raggiunge questi livelli di consenso, diventi vincolante anche nei confronti della Magistratura. 4 Determina un cambiamento di atteggiamento: dalla procreazione all’acquisto. La scelta del seme del donatore è una delle attività da compiere per attuare la fecondazione eterologa. Si sta discutendo in questo momento su come limitare tale scelta (fino a che punto e fino a quando il donatore dovrà restare segreto?) e contenere le speculazioni su questo business nascente (solo donazioni gratuite? Ma se è lecito il rimborso spese, ci saranno mille modi per aggirare l’ostacolo). Anche se si cercherà di porre un argine a questo fenome- no, è facile ipotizzare nei prossimi anni una spinta verso una sempre maggiore liberalizzazione. Sappiamo, da quanto accade in altri Paesi, che la scelta del donatore è diventata una vera procedura di acquisto con tanto di cataloghi fotografici per scegliere la più bella o il più prestante. Nel serial televisivo americano Brothers & Sisters due giovani che stanno insieme da tempo si ritrovano una sera nella casa di lei quando lui scopre nel frigo la presenza di un contenitore di sperma. La donna gli manifesta chiaramente le sue intenzioni: non vuole un figlio da lui, ma ha comprato a caro prezzo il seme di un famoso atleta perché desidera assolutamente avere, tramite inseminazione artificiale, quello che ha sempre desiderato: un figlio che possa diventare un campione sportivo. La paternità e la maternità sono sempre state un servizio, quasi sempre non facile, di donazione totale e incondizionata. Come sarà possibile conservare questo atteggiamento quando si sarà cercato di acquistare il «meglio» e questo «meglio» poi non si manifesta? La fecondazione eterologa determinerà gravi ingiustizie nei confronti dei nascituri e sta mettendo a nudo pesanti deficienze legislative: se si considera che in Italia non è consentita la soppressione dei cani randagi, perché ciò è ritenuto indegno di un Paese civile, dobbiamo concludere che oggi, in assenza di leggi che definiscano i diritti dei nascituri, un cane randagio ha maggiori tutele di un essere umano. Franco Olearo 713 LETTERATURA Patrick Modiano: un Nobel meritato Patrick Modiano, scroittore francese nato nel 1945, ha vinto il premio Nobel 2014 per la letteratura. L’Accademia Svedese ha motivato il riconoscimento «per l’arte della memoria con cui ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato la vita e il mondo dell’Occupazione». Di origini italiane ed ebraiche, Modiano è uno dei narratori francesi più di successo, sia di pubblico sia di critica. Nonostante l’enorme seguito ottenuto in Francia e in molti altri Paesi, rimane tuttora un personaggio piuttosto schivo, lontano dai riflettori, e raramente concede interviste. Un talento precoce Tra il settembre e il novembre del 1978, i due premi letterari allora più visibili per i media, il Goncourt e il Médicis, imposero all’attenzione dei lettori francesi due romanzi estremamente diversi tra loro: lo smilzo Rue des Boutiques Obscures del trentatreenne Patrick Modiano e l’immenso capolavoro del quarantaduenne Georges Perec, La vie mode d’emploi. Nessuno sembrò allora sospettare che una rete di affinità tematiche apparentavano i due libri: il puntiglioso iperrealismo di Perec in apparenza si scontrava contro il mondo flou di Modiano, in cui un protagonista dalla fragile identità si muove sulle tracce del proprio evanescente passato. Sarebbe bastato invece prendere tra le mani Je me souviens, l’esile librino nel quale, pochi mesi prima, Perec con ma- 714 niacale diligenza, raccoglieva la memoria collettiva, a sottolineare il naufragio novecentesco di quella memoria intima e individuale cui Proust aveva ispirato la sua Ricerca. È questo naufragio della memoria a sospingere Perec e Modiano (e si noti che tutti e tre gli scrittori hanno radici ebraiche) verso scelte molto diverse da quelle dei nouveaux romanciers (ai quali invece si ispira Le Clézio). Per loro l’oggettività è un rifugio, un guscio protettivo per il loro io pietrificato da lutti inassimilabili (per Perec la morte della madre, per Modiano quella del fratellino Rudy) e mortificato dai lutti della Storia. In Dora Bruder (1997), Modiano ricostruisce con pacata precisione la storia di un’adolescente ebrea la cui fuga attraverso la Parigi occupata si conclude con la morte. La sua è una voce sommessa, non una parola che denunci, deprechi e commiseri. La vicenda però è così straziante che si commenta da sola. Il narratore descrive piccole foto in bianco e nero, cita dettagli di lacerante precisione: la resurrezione di quel che la Shoah e la guerra hanno cancellato è espresso attraverso una poetica della discrezione, una pietas «gozzaniana», custode ostinata dell’individuale e dell’inapparente. Patrick Modiano fu incoraggiato a scrivere da Raymond Queneau, amico di famiglia (e grande amico di Italo Calvino). Aveva esordito per Gallimard nel 1968 con La place de l’étoile e già con quello aveva vinto il premio Roger Nimier. Il premio successivo arrivò nel 1972 con Les Boule- vards de ceinture (Grand prix du roman de l’Académie française). Nel 1978 giunse appunto il premio Goncourt con Via delle Botteghe Oscure, ma la traduzione italiana (uscita per Cde nel 1979) non rende bene il titolo, perché da noi fa pensare alla vecchia sede del PCI a Roma. Oltreché romanziere, Modiano è anche sceneggiatore, ha lavorato con i migliori cineasti francesi contemporanei: Louis Malle (Arrivederci, ragazzi), Jean-Paul Rappeneau (L’ussaro sul tetto), Patrice Leconte (per la sceneggiatura del suo Il profumo di Yvonne, tratto da Villa triste). Misteriose ombre del padre Albert Modiano (quasi sicuramente di origini toscane), padre del futuro premio Nobel, nacque a Parigi nel 1912 e verso la fine della Seconda guerra mondiale si legò a Louisa Colpijn, attrice fiamminga non ebrea che nel 1945 diede alla luce Patrick. Albert Modiano sfuggì alle persecuzioni naziste non senza ambiguità e suo figlio sarebbe stato per sempre segnato dalle di lui vicende. In effetti il motore nascosto della narrazione di Patrick Modiano è legato al mistero e alle ombre del padre. La ricerca del padre assente è una tematica fortemente presente nella cultura francese contemporanea. Scrittori francesi di altissimo profilo, come Patrick Modiano (1945), ne hanno fatto il motore segreto dei loro libri (un titolo per tutti: Albert Camus, Il primo uomo, Patrick Modiano 1960 ma pubblicato postumo). Nei romanzi di Modiano, per lo più ambientanti nella Parigi occupata dai nazisti e costruiti intorno alla figura dello straniero, dell’esule, dell’ebreo, si intrecciano una vena disperata di ascendenza esistenzialista e il gusto della rievocazione; ed è più di tutti l’ambigua figura del padre a essere rievocata, un ebreo sicuramente vittima del nazismo, che arrestato nel 1943 si dimostrò pronto a tutto pur di sopravvivere – in effetti sfuggì alla deportazione grazie a potenti amicizie collaborazioniste, invischiandosi purtroppo in rapporti di complicità con i carnefici. Questa storia mai del tutto chiarita torna soprattutto (ma non solo) nell’autobiografia Un pedigrée (2006). Nel 1997 uscirono in Italia i suoi primi romanzi, a nostro giudizio i migliori: I viali di circonvallazione (1973) e Villa Triste (1976), per i tipi di Rusconi. Modiano vi crea un’atmosfera sfumata, un po’ quella che oggi si ha ascoltando un vecchio grammofono o Edith Piaf, oppure guardando un filmato d’archivio storico dell’Istituto Luce o un album di foto in bianco e nero. Un senso di forte struggimento, di amarezza invade la pagina; ma non è ancora nulla rispetto a quello cui l’autore dà vita nei testi successivi. Modiano è ossessionato dalle esistenze qualunque, immemorabili, delle quali restano tracce negli elenchi telefonici, nei verbali di polizia e in poco altro; ossessionato dalla ferita della gioventù, dai ragazzi sbandati «né figli le- gittimi né eredi», come si sentì lui e com’è il suo alter ego Roland in un breve e lancinante romanzo, Nel caffè della giovinezza perduta (Einaudi, 2010), che si potrebbe leggere per avere un’idea complessiva della seconda fase di Modiano. Ancora, ossessionato dalla feroce solitudine di giovani donne in balìa del caso (tutti i personaggi di Modiano sono orfani, specialmente quando hanno una famiglia), di un destino imboccato per distrazione o per inerzia, come quando si entra in una porta sbagliata. Donne in fuga dal destino Giovani donne «assenti in vita» (com’è altresì la protagonista del bellissimo Dora Bruder, uscito in Italia per Guanda nel 2004). E com’è Jacqueline che i giovani clienti del Café Condé chiamano Louki: «Non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo. Gli unici bei ricordi che ho sono ricordi che ho sono quelli di fughe vere e proprie o di scappatelle da casa». Fugge, Louki. Da una madre laconica che lavora al Moulin Rouge e da un padre ignoto. Fin dall’adolescenza, perdendosi in vagabondaggi notturni per una Parigi minuziosamente esatta (la topografia è un’altra ossessione di Modiano) finché la polizia non la ferma per riportarla a casa. Fugge da sé stessa, lei che non è stata ammessa al liceo, per inventarsi un’identità di studentessa in lingue orientali (si inventa un’identità da editore d’arte anche il detective che indaga su Louki e poi decide di assecondarne la fuga: tanto nessuno controlla, tanto ti credono, e così semini il passato, vivendo però come Louki nell’angoscia e nel panico che il passato ti riacciuffi). Fugge dalle amicizie equivoche nelle quali si è imbrancata, cambiando marciapiede non appena vede da lontano qualcuno di loro. Fugge dal marito più anziano di lei, datore di lavoro dal quale si è lasciata passivamente sposare. Sempre comparsa e mai protagonista, accompagnata da un alone di modesto mistero e di intenso fascino quando siede sola in fondo al caffè, quando frequenta gli incontri promossi da un garbato esoterista che le presta Orizzonte perduto (il libro esiste davvero, lo scrisse James Hilton raccontando la scoperta di un improbabile e fiabesco Shangri-La in Tibet, e Frank Capra lo portò sullo schermo). Quando infine cede a un amore coetaneo, felice e alla giornata, sta soltanto preparando l’estrema fuga che qui non sveleremo. Goffredo Fofi ha definito Louki «una Nadja (Breton) o una Odile (Queneau) più terrena, o una Karina di Godard: meno ardita e ideale, più malinconica e nostra». E ha sottolineato la vocazione di Modiano «al resoconto minuto e asciutto, senza ricatti di sorta». Un’asciuttezza che cerca di tenere a bada un dolore primario, lontano nel tempo ma non del tutto assorbito, come una ferita suturata senza anestesia. Nelle storie di Modiano fanno a volte irruzione (fanno un cameo, si direbbe al cinema) persone vere. In Un pedigree c’era Raymond Queneau. Qui c’è Arthur Adamov, drammaturgo francese di origine armena che, assieme a Beckett e Ionesco, fu il maggiore esponente del teatro dell’assurdo. Sullo sfondo c’è sempre Parigi, perché da sempre Modiano è lo scrittore di una sola città. Andrea Vannicelli 715 BESTSELLER Donna Tartt, premio Pulitzer 2014 Entrare in un romanzo di Donna Tartt è entrare in un piccolo mondo soprattutto di personaggi interessanti, come lei stessa ha spiegato: «I personaggi diventano più chiari man mano che si va avanti, in particolare se uno scrive storie incentrate sui personaggi (character-driven fiction) come faccio io. Lo sviluppo dei personaggi e l’interazione tra di loro è la cosa che più mi interessa nella scrittura. Si arricchiscono pian piano. Non devono necessariamente cambiare... è un po’ come quando conosci una persona nella vita reale: le prime impressioni sono importanti, ma poi, più tempo trascorri con lei e più si arricchisce quella impressione»1. Un «Dio di illusioni» Per averne conferma basta aprire Dio di illusioni, la sua opera prima, che pubblicò, ventottenne, nel 1992 e che le diede fama mondiale. La vicenda è ambientata in un prestigioso college del Vermont, dove un gruppo di studenti si raduna intorno a un professore carismatico e colto di nome Julian. A seguire le sue lezioni, ci sono Richard, che narra in prima persona, e cinque altri ragazzi: Henry, dalle capacità linguistiche fuori dal comune, il pupillo del professore, ricco e di fascino, in cui tutti riconoscono il leader del gruppo; Francis, di famiglia nobile, viziato, ipocondriaco, esteta; Edward, detto Bunny, rozzo e impulsivo, dice sempre quello che pensa, è meno smart degli altri e per questo viene trattato da loro con complesso di superiorità; e poi Charles e Camilla, due gemelli, lui irrequieto e pas- 716 libro inizia in modo drammatico: uno del gruppo muore, e sono i suoi compagni a causarne la morte. Da questo evento prende avvio il racconto di Richard che nella prima parte cerca di spiegare come si sia giunti a quel punto e nella seconda che cosa sia avvenuto dopo. Fino al termine, per certi versi inaspettato, per altri necessario. Investire 10 anni su ogni libro nuovo Donna Tartt sionale, scontroso, lei eterea, indecifrabile, di una bellezza non appariscente, ma che pure fa innamorare. Pagina dopo pagina sembra di conoscerli meglio, di scoprirli, soprattutto attraverso le relazioni tra di loro. Relazioni di complicità, ma anche gelosie e incomprensioni, rancori. Sullo sfondo, un mondo classico del quale i ragazzi hanno assorbito il fascino che viene soprattutto da una religiosità irrazionale, da una bellezza fatta di eccessi, dall’elemento dionisiaco (è lui, Dionisio, il dio di illusioni). «È un’idea tipica dei greci, e molto profonda», insegna Julian ai suoi studenti. «Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?». Il romanzo è animato da questo pensiero: non avere limiti, poter vivere una vita oltre ogni regola. La ricerca dell’evasione come sogno di una vita, la ricchezza che risolve ogni problema col denaro: Henry, Richard e i loro colleghi, sono affascinati. È un fascino che attira ma può avere esiti tragici. E il Non sono i colpi di scena, non gli intrighi a trainare l’attenzione dell’audace lettore che ha il coraggio di affrontare le centinaia di pagine dei romanzi della Tartt. Sono gli ambienti, i personaggi. Ma anche la cura del dettaglio e il cesello linguistico. Lei impiega circa dieci anni a scrivere un romanzo: «C’è un livello di ricchezza che si può raggiungere solo se un intero decennio è impegnato in quel libro, e non è possibile se ci impieghi due o tre anni. Ci sono libri che non si propongono questi standard qualitativi e lettori che non li cercano. Quel che è certo è che spendere tanto tempo su un libro gli dà profondità e spessore. Tu (lettore) puoi sentire il tempo che è stato investito in quel libro. È un lavoro frase dopo frase. Un sassolino, poi un altro e un altro ancora. Scrivo e riscrivo una frase finché non mi soddisfa e poi un’altra. Poi guardo l’intero paragrafo e se non mi piace lo riscrivo finché non mi soddisfa. E vado avanti così. Certo, è un lavoro lento. Diceva William Styron di avere capito che forse aveva solo quattro o cinque libri dentro di sé ma che andava bene così. Per me è lo stesso»2. Theo & il cardellino Sono le impressioni che si provano nella lettura de Il cardellino, (Rizzoli, Milano 2014, pp. 896, euro 20) terza e (finora) ultima fatica di Donna Tartt, che le ha meritato, nel mese di aprile scorso, il prestigioso premio Pulitzer per la narrativa. Tutto comincia quando il museo che Theodor Decker sta visitando insieme alla mamma salta in aria. Non si sa bene se si tratti di un attentato o un incidente. Non importa. Quello è il momento in cui la vita di Theo viene sconvolta. Succedono molte cose. Un istante prima dell’esplosione ha incrociato gli occhi di una ragazzina dai capelli rossi, Pippa. La madre di Theo, donna estrosa e vivace, perde la vita. Un vecchio consegna a Theo uno strano anello, chiedendogli di portarlo a un tal Hobie, a un certo indirizzo. Ma soprattutto il ragazzino trova in mezzo alle macerie il quadro che stava ammirando prima del boato, una tela che rappresenta un cardellino appollaiato su un trespolo, la zampetta legata a una piccola catenella, lo sguardo rivolto verso lo spettatore. L’opera è di Carel Fabritius, un promettente pittore olandese del ’600, allievo di Rembrandt, morto prematuramente nell’esplosione di una fabbrica di polvere da sparo. Quel quadro vale un sacco di soldi, e Theo, preso dalla confusione, stordito da quanto è successo, lo mette nella sua borsa e se lo porta a casa. Per circa ottocento pagine seguiamo le avventure di Theo, in una narrazione quasi dickensiana: tanti ambienti diversi, personaggi oscuri e più luminosi con cui entra in contatto, rovesci di fortuna. E soprattutto il suo animo travagliato che cerca la bellezza ma è costantemente a contatto con ambienti laidi, spesso intontito dalle droghe in cui trova un’effimera evasione. Come quel cardellino Theo anela a volare ma è legato da una piccola catena. Donna Tartt ama Verne, ama Stevenson, e Barrie. E Melville, e Dic- kens. Di tutti questi grandi della letteratura il lettore attento trova traccia nelle sue opere. Come nei grandi romanzi, dietro le sue trame e i personaggi c’è tanta umanità. Sembra ci sia poco spazio dedicato alla trascendenza, Dio sembra assente nelle storie della Tartt. Ne Il piccolo amico la dodicenne protagonista Harriet, decisa a scovare chi abbia ucciso il suo fratellino dieci anni prima, si imbatte in alcuni predicatori che rappresentano una religiosità superstiziosa e vuota che ricorda certi racconti di Flannery O’Connor. Ma in tutti i romanzi c’è una forte tensione morale, una ricerca della felicità e del senso dell’esistenza, che a volte muore nell’illusione di un bello sfrenato e irrazionale o nella ricchezza, che sembra eliminare ogni problema. Altre volte si aggrappa a certezze caduche, un quadro, amicizie che rovinano, amori irraggiungibili. O ancora nella ricerca di una verità che si scontra con il vuoto, la superficialità e la delusione (la piccola Harriet vive in una famiglia dove il dolore per la perdita del fratello è stato esorcizzato con la chiusura in sé stessi, con piccole forme di depressione o evasione nella vita sociale). Alla fine ai personaggi di Donna Tartt restano più domande che risposte, e anche ai suoi lettori. Ma rimane sicuramente il gusto di una scrittura attenta, precisa, profonda, che cerca nella qualità e non nelle facili emozioni la sua forza. Il lavoro dello scrittore è andare in profondità, diceva Melville. Impermeabile al marketing Uno studio realizzato dal matematico americano Jordan Ellenberg3 sulla base di dati statistici forniti dal sito di Amazon ha dimostrato che il 98,5% delle persone che hanno acquistato Il cardellino lo ha finito (a fronte del 44,4% de La ragazza di fuoco, del 28,3% del Grande Gatsby e del 25,9% delle Cinquanta sfumature di grigio). Come a dire: la qualità paga. I dieci anni che l’autrice ha investito nella creazione di questa storia hanno dato frutto, in controtendenza con un mercato del libro fatto di fenomeni editoriali istantanei, marketing selvaggio e autori in cerca di facile successo. Un mondo che è alieno a Donna Tartt che, dopo il lancio dei suoi romanzi, non vede l’ora di tornare a chiudersi nella sua «stanza del manoscritto» per immergersi nelle sue storie: «C’è un sistema pericoloso secondo il quale si dà per scontato che se hai scritto un libro di successo allora devi subito scriverne un altro per tenere in vita la fama che hai ottenuto. Ma l’attenzione dei media va e viene, è intensissima quando c’è, ed è capace di scivolare via con grande rapidità. Guarda un po’: quando scrivevo Dio di illusioni la cosa non interessava a nessuno, nessuno chiamava. Adesso improvvisamente tutti chiedevano: hai un nome da mantenere davanti al tuo pubblico, sono passati anni. Oppure: a che punto è il nuovo libro? Io non avevo troppe aspettative quando scrissi il primo romanzo. Volevo che fosse pubblicato, e questo era avvenuto. Ottimo. E se questo non dovesse più accadere that’s fine. C’erano enormi aspettative per qualcosa che io non necessariamente desideravo. Volevo soltanto lavorare in pace, tutto qui»4. Cicerone usa una bella espressione: aura popolaris, the popular breeze, (il vento della celebrità, si potrebbe tradurre): «Dipende da come spira il vento. Penso sia un serio problema, terribile, per coloro che cercano la celebrità e vogliono attenzione continua; ma è invece piuttosto consolante per chi, come me, non cerca altro che andare a casa, chiudere la porta e tornare alla sua scrivania»5. Guido Vassallo 1 Intervista pubblicata in http://www.identitytheory.com/donna-tartt/ 2 Ivi. 3 http://lettura.corriere.it/ecco-quanto-leggiamo-davvero-di-un-libro/ 4 Intervista pubblicata in http://www.telegraph.co.uk/culture/4729011/Worth-waiting-for.html. 5 Ivi. 717 PROFILI Ridolfi, «chierico» della cultura italiana L’onestà di misurarsi. «Gli eroismi mi entusiasmano e mi commuovono; ma io non sono un eroe, non sono un superuomo: non sono che un pover’uomo. E, secondo l’ammonimento evangelico, nessuno può aggiungere un cubito alla sua statura. A meno di non camminare sui trampoli; ma è un esercizio che non mi riesce e neppure mi piace». La chiusa di Notturno minore (brano scritto originariamente, come molti altri, per la Terza Pagina del Corriere della sera, poi pubblicato nella raccolta Le cantafavole) inquadra l’intero Roberto Ridolfi: un grande che sapeva stare al suo posto. Colto, raffinato, era persona di archivi e di biblioteche, di antichità e di erudizione, ma anche di sincere relazioni personali, di umile concretezza, di retta devozione. Creatura e anima, si potrebbe sintetizzare, di prosa e di poesia. O – come disse egli stesso ponendo da una parte gli studi storici e le scoperte di inediti, dall’altra quei brani lirici e memorialistici che gli procurarono tanti lettori affezionati – di «pane e companatico». Fiorentino in nascita e in morte (1899-1991), di antica e nobile famiglia imparentata nientemeno che con Lorenzo il Magnifico, Ridolfi spese la sua esistenza principalmente tra le camere, i volumi, il verde e la chiesetta della villa avita La Baronta, «sui poggi delle Campora, un miglio e mezzo fuori di Porta Romana. Vi nacqui e, tanto per cominciare, vi fui battezzato nella cappella ch’è sulla parte davanti del giardino. La parte davanti, per chi non lo sapesse è anche il titolo di un mio libro dove dico, appunto, della mia fanciullezza e della mia adolescenza», ricorderà. 718 La Trilogia da riscoprire Specificando, riguardo al periodo trascorso tra quelle stanze, che «levati quelli della guerra e di qualche scorribanda, dal battesimo in poi, sono rimasto qui ottant’anni filati: attaccato al macigno di questo poggio come un’ostrica al suo scoglio». Scrittore nitido, elegante e ricercato, promotore delle belle lettere in contrasto alla già piuttosto contagiosa leggerezza e sciatteria delle parole, Ridolfi contava su un enorme bagaglio intellettuale accatastato in buona parte da autodidatta, oltre che su un indubbio talento e fiuto per la ricerca. Capacità e nozioni gli valsero la direzione quarantennale della rivista La Bibliofilia, un’infinità di riconoscimenti e una laurea honoris causa dall’Università di Oxford. La sua figura dotta e appassionata, le pubblicazioni biografiche e autobiografiche1 non paiono oggi abbastanza ricordate e riproposte; mentre a suo tempo vissero una fama internazionale che mai saziò la fame di conoscenza. Nel 1954, sessant’anni fa, Ridolfi diede alle stampe la Vita di Niccolò Machiavelli. Insieme a quelle di Girolamo Savonarola (realizzata nel 1952) e di Francesco Guicciardini (1960) compone una trilogia, anzi un trittico brillante e imprescindibile per approfondire vicende e ruoli di questi protagonisti del Rinascimento. Una Vita piena d’arte e di aneddoti la dedicò anche a Giovanni Papini, l’anno dopo la morte dell’amico nel 1956. Mentre riflettendo (senza eccessiva mestizia) sulla sua, annoterà: «Mi figuro cosa potrebbe uscir dalla penna dell’amico Montanelli. Se non avessi lasciato scritto che nessuno potrà assistere al mio funerale, nemmeno i parenti, mi sarebbe piaciuto che lui ci assistesse; mica con uno zampone sottobraccio come fece a quello di Leo Longanesi, che dalle nostre parti sarebbe una stonatura; semmai, con un fiasco d’olio della Baronta o con un sacchetto di fagioli; i miei famosi fagioli di Marignolle, bianchi e teneri come cervellini di lodole. Con quello che ha scritto di me vivo, chissà cosa Indro ne scriverebbe da morto dopo avermi visto uscire nel giardino dalle stanze dei libri, attraverso la porta vetrata, per andare a stare in quella cappella appena cinquanta o sessanta passi più in là: sarebbe l’ultimo tocco alla mia caricatura. Un capolavoro. Peccato! Ma se gli salta il ticchio, aiutandosi un poco con la fantasia, che in queste cose non gli manca davvero, gli riuscirebbe bene lo stesso». Ridolfi faceva i conti con l’addio alla vita, serenamente, anche grazie alla devozione: atteggiamento leale, spontaneo, genuino. Nel colloquio aperto con la fede conservava la freschezza del contatto diretto con gli amati personaggi cinquecenteschi. Basti a conforto la tenera spontaneità di questa memoria nelle pagine di La cappella: «Quando ero bambino, tutte le domeniche e le altre feste comandate, veniva a dirci la Messa un frate francescano del vicino convento di San Leone. Di questi tempi ci si gelava: attraverso un battente della porta lasciato aperto per carità dei ritardatari, la tramontana mi frustava le gambe nude, mi mozzava le orecchie, mi martoriava i geloni scoppiati. Anche quando mio padre, a un certo punto della Messa, faceva cenno che chiudessero, il freddo era tremendo: non c’erano chiome tanto folte né lane tanto grosse che lo fermassero: entrava nella carne, nelle vene, fin dentro le ossa. Io e i miei fratelli si stava dietro la balaustrata che recinge l’altare, in cornu Epistolae; mio padre solo, sempre ritto in piedi, col suo pizzetto grigio, in cornu Evangelii; nelle panche dietro a noi prendeva posto la servitù. Il fiato si gelava uscendo dalla bocca col respiro o con le preghiere: parevano nuvolette di fumo. Quel gran freddo, ogni volta che ci ripenso, me lo sento ancora nelle ossa come se qualche poco ce ne fosse dopo tanto tempo rimasto». Come il priore di san Quirichino Tutto intirizzito, il piccolo Ridolfi guardava «con compassione e ammirazione il frate che celebrava, appena due passi innanzi a me: aveva la testa rasa per la gran chierica e i piedi nudi nei sandali, consistenti soltanto nelle suole trattenute dai correggioli: la pelle dei calcagni era paonazza come la pianeta nei dì di quaresima. Altri tempi, altri uomini». Dopo la Messa, «il frate faceva colazione nella sala da pranzo della villa, intrattenuto da mio padre sempre in bilico tra il burbero e il faceto. Morto mio padre, la consuetudine della Messa, della colazione e dell’intrattenimento è stata continuata da me». È poi con rammarico, con rimpianto, che lo scrittore confessa di aver dovuto interrompere la tradizione famigliare, «qualche anno dopo l’ultima guerra», perché nel luogo «il “progresso” fece deserto». Da allora «la cappella non è stata più aperta, nemmeno una volta. Eppure più sta chiusa e più io ci penso: forse ci penso tanto proprio perché è chiusa. Vorrei riaprirla, ma non posso senza restaurarla, malandata com’è dopo tanto abbandono seguito a tanto cattivo gusto che l’aveva imbruttita; aspetto che mi vengano non so di dove i denari per poterlo fare». Lo stesso registro da «altri tempi, Roberto Ridolfi altri uomini», la capacità artigiana di trasmettere descrizioni, conoscenze ed emozioni attraverso frasi, la sacralità naturale e nuda, solenne anche senza sfarzo, si ritrova nello scritto Il priore di San Quirichino. Ora, «San Quirichino è una chiesina posta sul poggio di Marignolle, dalla parte che scende verso la Greve. Che sia molto antica si sa soltanto dai libri, perché i secoli, anche quelli che la gentilezza di una pietra scolpita l’hanno lasciata dovunque, di lì sono passati come se non ci fosse. Veramente il suo nome sarebbe San Quirico a Marignolle; né ho mai saputo se quel diminutivo le venga dall’avere per santo patrono un bimbinello di appena tre anni, oppure dalla sua piccolezza e dalla sua scarsità di tutto». La chiesina «non è molto più grande di una cappella ed ha soltanto un mozzicone di campanile: misure molto proporzionate al popolo della parrocchia, il quale, negli anni da cui prendo le mosse, si riduceva a qualche famiglia di contadini. Anche il benefizio annesso alla cura appariva conforme a tutto il resto, ma non al vocabolo, consistendo in un campicello che mezzo sacco di grano sarebbe bastato a seminarlo e forse ne sarebbe avanzato. Da quel poco grano il parroco cavava il suo poco pane; quanto al companatico, se non trovava il modo d’ingegnarsi, credo che lo vedesse di rado». In questo contesto si insedia un nuovo priore: «Un prete giovane, magro, di statura più che mezzana, con un viso adusto, grifagno, che gli occhi miopi velavano appena d’una stanca dolcezza, quando li disarmava di certi occhiali azzurro- gnoli, cupi e spessi come il fondo di un bicchiere». Il prete è energico, intelligente, volenteroso, «con un che di balzano, d’inquieto, di ribelle: un che in perpetua contesa con l’esterna umiltà della tonaca lisa, verdastra, e con gli interni richiami di una religione fortemente sentita». Inviato in quella minuscola parrocchia di campagna, «avendo soltanto quattro scalzi di parrocchiani e la muffa per compagnia», si mette a lavorare sodo. «Per principiare, si rifece la canonica di sana pianta con le sue mani; quelle nocchiute mani di contadino divennero, secondo il bisogno, mani di muratore, d’imbianchino, di falegname. Venuta la sera, al poco lume di una lucernina a olio che sapeva di moccolaia, posati i mattoni di argilla, pigliava i mattoni di carta. Come di giorno aveva con quelli accresciuti la sua topaia, con questi veniva allargando le conoscenze raccapezzate nel Seminario». In questo carattere sacerdotale che da una chiesetta edifica una cattedrale del sapere, pietra cartacea su pietra cartacea, sembra di vedere in controluce lo stesso Ridolfi. Chierico della cultura italiana, cesellatore di termini, ha saputo lasciare in dono uno stile, un atteggiamento, un metodo. La sua lezione garbata e rispettosa non merita di andare perduta. Léon Bertoletti 1 Principali opere di Roberto Ridolfi: Studi savonaroliani (Leo S. Olschki, Firenze 1935), Genesi della Storia d’Italia guicciardiniana (Leo S. Olschki, Firenze 1939), Le prediche del Savonarola. Cronologia e tradizione del testo (Fondazione Ginori Conti, Firenze 1939), Vita di Girolamo Savonarola (Angelo Belardetti, Roma 1952), Vita di Niccolò Machiavelli (Angelo Belardetti, Roma 1954), Memorie di uno studioso (Angelo Belardetti, Roma 1956), Le filigrane dei paleotipi (Tipografia Giuntina, Firenze 1957), Vita di Giovanni Papini (Mondadori, Verona 1957), Vita di Francesco Guicciardini (Angelo Belardetti, Roma 1960), Il libro dei sogni (Angelo Belardetti, Roma 1963), La parte davanti (Vallecchi, Firenze 1967), I ghiribizzi (Vallecchi, Firenze 1968), I palinfraschi (Vallecchi, Firenze 1970), Le cantafavole (Sansoni, Firenze 1977), Studi guicciardiniani (Leo S. Olschki, Firenze 1978), L’acqua del Chianti (Rusconi, Milano 1981), Addio alla Baronta (Sansoni, Firenze 1985). 719 SHAKESPEARIANA Il «Tommaso Moro» di Shakespeare Benché il dramma teatrale Sir Thomas More sia tuttora reperibile in Shakespeare, teatro completo, tradotto in italiano dagli specialisti V. Gabrieli e G. Melchiori e confluito nei Meridiani della Mondadori (vol. 10, Milano 1991), si raccomanda la lettura di William Shakespeare, Anthony Munday, Henry Chettle, Thomas Dekker, Thomas Heywood, Tommaso Moro, a cura di Edoardo Rialti (Lindau, Torino 2014, pp. 188, euro 18), impreziosito dalla prefazione di Joseph Pearce, che ci aggiorna sul dibattito – tuttora vivo – circa la misteriosa attribuzione a diversi autori e calligrafie (tra cui quella di Shakesapeare) del testo originale, attualmente conservato presso la Harleian Collection del British Museum. Un mistero a più mani... L’opera è un’apologia di Moro (e del vescovo Fisher); di fatto, del cattolicesimo. Come dunque si osò presentarla al censore di Stato, Sir Edmund Tilney, in un regno dove il sovrano era capo della Chiesa anglicana e i cattolici, se identificati, venivano impiccati e sventrati, come spie al servizio di uno Stato straniero (la Chiesa di Roma, guidata dal Papa)? I drammaturghi coautori sono stati tutti identificati da esperti paleografi: sono quelli segnalati nel titolo del libro, che in realtà tace un sesto coautore, rimasto anonimo e non identificato. Il fitto mistero di un’opera scritta a favore del cattolicesimo si accresce ancora se si va a scoprire chi sono – con Shakespeare (di ormai chiara appartenen- 720 San Tommaso Moro nel 1527, ritratto da Holbein il Giovane. za al cripto-cattolicesimo, come dimostrato in maniera inconfutabile da Elisabetta Sala nel suo affascinate L’enigma di Shakespeare. Cortigiano o dissidente?, Ares, Milano 2011, pp. 472, euro 24) – gli altri coautori. Il primo di essi, Anthony Munday, attore e autore di teatro, è passato alla storia come uno dei più spietati e sistematici persecutori, spie e accusatori di cripto-cattolici durante il Regno di Elisabetta e anche dopo. Gli altri coautori, i drammaturghi Chettle, Dekker e Heywood, risultano tutti filoprotestanti e, in vario grado, tutti ostili al cattolicesimo. Da dove partire? Partiamo dal regno di Elisabetta, Bess la sanguinaria, capo della Chiesa di Stato anglicana, in un’epoca che si distingue per la spietata persecuzione di cattolici e di protestanti non allineati al regime. Ebbene, nel marzo 1603 la «regina vergine» e zitella si spense senza eredi; e con lei si estinse la dinastia Tudor, iniziata da Enrico VII, padre di colui che fece giustiziare il martire e umanista cattolico, nonché già Lord Cancelliere, Tommaso Moro. Quest’ultimo oppose un rifiuto, trincerandosi dietro il silenzio della coscienza, a sottoscrivere l’Atto di Supremazia con cui il Regno di Inghilterra si sganciava dalla Chiesa cattolica e re Enrico VIII diventava anche supremo capo della Chiesa anglicana: «Il Papa degli inglesi». Dunque, morta Elisabetta I ed estinti i Tudor, venne chiamato a rappresentare il regno di Inghilterra, per via di parentele, proprio il figlio di quella Mary Stewart (Maria Stuarda), regina cattolica di Scozia, fatta giustiziare dalla sospettosa cugina Elisabetta, presso la quale aveva cercato asilo dopo la perdita del regno. Il figlio di Mary, Giacomo Stewart, divenuto poi Giacomo VI di Scozia, sposò una principessa cattolica. Quando già si ventilava la possibilità che il candidato alla successione fosse proprio Giacomo VI di Scozia, costui lasciò che circolassero voci di un nuovo atteggiamento, ormai tollerante, verso i cattolici inglesi. E seguirono anche i fatti, come nota Pearce (pp. 25-26): «In uno dei suoi primi atti ufficiali dopo l’incoronazione, Giacomo mostrò moderazione nei riguardi delle questioni religiose e firmò la pace con la Spagna, attenuando così le tensioni di matrice religiosa presenti nella politica estera inglese. Nel suo primo anno di regno, Giacomo decretò l’abolizione delle multe e di altre sanzioni previste a danno dei cattolici [obbligati ad assistere alle funzioni anglicane]. L’eliminazione del pesante onere economico, fece sì che migliaia di cattolici si tenessero Enrico VIII, così immortalato sempre da Holbein il Giovane nel 1536. Presunto ritratto di William Shakespeare attribuito a John Taylor (1600/1610 circa). Il celebre Rainbow Portrait di Elisabetta I (Marcus Gheeraerts, 1600 ca.). lontani delle funzioni religiose anglicane e cercassero di praticare di nuovo la propria fede, senza ostacoli e alla luce del sole». Tuttavia, nel luglio 1604, dopo sedici mesi di regno, ripresero più massice che mai le persecuzioni anticattoliche. Se il protestante Enrico di Navarra si fece cattolico pur di diventare re di Francia («Parigi val bene una Messa...»), il cattolico Giacomo VI di Scozia (educato però da reggenti protestanti, dopo la fuga della madre in Inghilterra) abbracciò decisamente l’anticattolicesimo quando comprese che i suoi sponsor aristocratici inglesi non gli avrebbero consentito, in caso contrario, di restare re d’Inghilterra. Pertanto, se c’era una sola possibilità di presentare un dramma come il Sir Thomas More, giustamente – nota Pearce –, questa poteva darsi solo ed esattamente nella forbice di tempo che va dal marzo 1603 al luglio 1604. Non casuale, il titolo della commedia di Shakespeare che si fa risalire a quell’intervallo, Tutto bene, ciò che finisce bene, pensando alla fine della clandestinità dei cripto-cattolici, grazie all’avvento di Giacomo I di Inghiterra e (VI) di Scozia (i due regni, uniti nella sua persona). Tuttavia, se il dramma Sir Thomas More, che molti critici (ivi Pearce) ritengono di Shakespeare, un’opera giovanile per lo stile, probabil- mente rappresentata clandestina nelle corti di aristocratici criptocattolici (come il protettore del Bardo dell’Avon, il conte di Southampton), perché presentarlo ora e per di più come opera a più voci? È chiaro che Shakespeare pensò che poteva finalmente far rappresentare il suo antico dramma, grazie al mutato clima dell’avvento al trono di Giacomo I; ma lo fece, a suo futuro vantaggio, con molta prudenza e preveggenza; scegliendo, non a caso, coautori filoprotestanti, e addirittura un persecutore di cripto-cattolici come il Munday. D’altra parte, documenta il Pearce, il Munday era un noto voltagabbana: appena cambiava il clima politico, egli mutava pelle. E ora era ansioso di recuperare terreno con il nuovo re, figlio di cattolici, battezzato nel cattolicesimo, sposo di una cattolica, tollerante con i cattolici... D’altra parte, attaccare la memoria dei Tudor poteva essere ancora troppo compromettente. maggio 1517), sedata dal pronto e ragionevole intervento dell’allora vicesceriffo di Londra Tommaso Moro (che poi otterrà dal re la clemenza per i capi, prima condannati all’impiccagione e poi rilasciati a piede libero); ma, almeno in questo caso, la censura si fonda solo sul timore di riesasperare gli animi (sotto Elisabetta si ebbero altre tre rivolte xenofobe): gli inglesi vedevano di malanimo che i primi grandi banchieri fossero italiani (genericamente chiamati Lombards, tra cui il lucchese Antonio Bonvisi, amico di Moro) e che molti stranieri – vendendosi a buon mercato – cercassero lavoro in Inghilterra, accusati perciò di togliere posti di lavoro agli inglesi. Il secondo intervento di Tilney, assai più rilevante, ammonisce invece gli autori a non dichiarare i motivi che spingono Moro e Fisher a resistere al ricatto di Enrico VIII: troppo rischioso! Infatti, i motivi della condanna a morte di Fisher e Moro risultano taciuti, senza togliere niente alla drammaticità del processo, della prigionia, della morte, degli affetti famigliari e alla veridica ricostruzione del carattere gioioso di Moro, anche nella cattiva sorte; e qui definito da una brava donna, sulla strada del patibolo, «il miglior difensore che i poveri abbiano mai avuto». Come conosceva bene, Shakespeare, la figura di Moro! Sotto la lente del censore Gli interventi del censore di Stato Tilney, tutti signficativamente raccolti solo sulla parte scritta dal Munday, stroncano proprio la scena scritta da Shakespeare sulla rivolta xenofoba dei londinesi (1° 721 Tutti uniti contro l’intolleranza sovrana Ora, veniamo all’altro risvolto del mistero. Come mai altri tre coautori filoprotestanti e anticattolici vengono chiamati da Shakespeare a condividere con lui la paternità dell’opera, frazionandone quindi la responsabilità, che da individuale (del solo Shakespeare) diventava ora collettiva e, per di più, condivisa tra autori di fedi e opinioni diverse? Questo, a parte la posizione del voltagabbana Munday, che dopo la svolta anticattolica di Giacomo tornerà a spiare e martellare i criptocattolici (ma non riuscirà a individuare l’abile Shakespeare), non viene ben chiarito dall’autore della prefazione, che si limita a parlare di «mistero». E qui mi azzardo io a proporre un’ipotesi di spiegazione. Ricordiamoci che Enrico VIII, di fatto bersaglio del Sir Thomas More di Shakespeare, fu parimenti inviso ai protestanti. Egli cercò invano un appoggio protestante alla sua politica matrimoniale: Lutero (udite, udite...), al pari di Moro e di Clemente VII, dichiarò perfettamente legittimo il suo primo matrimonio con Caterina d’Aragona e quindi nullo l’eventuale secondo matrimonio con Anna Bolena, essendo Caterina vivente (cfr Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, vol. VI, Jaka Book, Milano 2001, p. 397). Ciononostante, ci furono ancora ammiccamenti ambigui, anche perché vari collaboratori di Enrico erano filo-protestanti (si pensi al machiavellico Thomas Cromwell, o al primate d’Inghilterra Thomas Cranmer, sposatosi segretamente in Germania con la figlia del luterano Osiander); ma alla fine Enrico VIII, che era stato insignito da Roma con il titolo di Defensor fidei per un precedente libello antiluterano, finirà per voler apparire in Inghilterra – in materia di fedeltà al dogma – più papista del Papa. Nel suo regno, sia prima sia dopo la scissione da Roma, vari protestanti finiranno al rogo. Il protestantesimo si insinuerà nella Chiesa anglicana, profittando 722 – da parte dei tutori – della giovane età del successore, Edoardo VI (presto deceduto), e, dopo la breve parentesi di Maria la Cattolica (da non confondere con la Stuarda, regina di Scozia), sarà conclamato nel regno di Elisabetta I, seppure nella forma di quel cesaropapismo così caratteristico della storia inglese e anomalo, tra le confessioni riformate. Forse, in qualche Stato governato da regimi ayatollah, oggi c’è qualcosa di simile; altrimenti, occorre risalire al paganesimo della Roma imperiale, quando l’assolutista Augusto, non pago di essersi autonominato princeps, si avocò il titolo di pontifex maximus. Non a caso Enrico comincerà ad affermare che l’Inghilterra era un impero. I protestanti, dunque, avevano odiato Enrico VIII e forse reclamavano ora, con i cattolici, eguale tolleranza – da parte di Giacomo I – anche verso il protesantesimo non conformista alla Chiesa di Stato. Inoltre, negli ultimi anni elisabettiani la censura era diventata insopportabile per ogni drammaturgo inglese, di qualunque confessione o estrazione culturale fosse. Sotto Giacomo I finì presto per inasprirsi ulteriormente (cfr, ancora di E. Sala, sempre per Ares, Elisabetta la sanguinaria, Milano 2010, p. 189), provocando nel 1611 (oggi lo si chiamerebbe così) il volontario prepensionamento di Shakespeare, che si ritirò a Stratford, nonché la fine del teatro inglese rinascimentale. Perciò, fu il fatto che nel regno di Edoardo VI e poi sotto Elisabetta la persecuzione continuò a colpire calvinisti e protestanti «non di Stato», e non solo i cattolici, che forse può in parte spiegare l’inattesa e sorprendente alleanza tra Shakespeare e i coautori (caso Munday a parte), uniti contro l’assolutismo e l’intolleranza religiosa e censoria, da parte della Chiesa di Stato, nata proprio con il suo primo capo: Enrico VIII. Ciononostante, il dramma Sir Thomas More continua a mantenere parte del suo mistero (i coautori hanno parzialmente mutato l’originale shakesperiano, anche in previsione della censura? Non si può certo escludere: il dramma risulta, in certe sue parti, diseguale). Circa il brano di autore non identificato, il Pearce non esita a ritenere, per il suo elevato valore (si parla di «fortuna» pagana e di provvidenza divina), che si tratti di Shakespeare stesso, che non ha voluto apparirne esplicitamente l’autore (ovvero si tratterebbe di brano originale, inalterato; solo trascritto da altra mano). Non resta ora che lasciare al lettore di affrontare la lettura del testo e i suoi contenuti. Se conosce la storia di More, lo apprezzerà certamente come un tentativo, seppure fallito, di portare sulla scena la storia del martire cristiano, ricordandone la memoria. Parenti per parte di madre Che Shakespeare conoscesse molto bene le opere di Moro (pubblicate integralmente dal nipote W. Rastell, sotto il regno di Maria la Cattolica), lo si sta sempre più portando alla luce (cfr Charles ed Elaine Hallett, The Artistic Links between William Shakespeare and Sir Thomas More, Palgrave Macmillan, New York 2011). Il massimo drammaturgo e commediografo inglese (nonché poeta) era figlio di una Arden, di antica famiglia cattolica e poi cripto-cattolica, con tanto di martire: Edward, squartato come «ricusante» cattolico, quando il nostro aveva 19 anni; e del ramo secondario degli Arden era anche la seconda moglie di Moro, Alice (cfr R. Norringhton, All’ombra di un santo, Studium, Roma 2012). L’autore del Sir Thomas More poteva dunque attingere non solo agli scritti, ma anche agli aneddoti e ai racconti di famiglia... Io stesso ho riscontrato, nell’Amleto, tre debiti letterari del Bardo dell’Avon, che si ricollegano in modo sorprendente a opere di Tommaso Moro, o a detti a lui attribuiti, su cui spero di offrire – se Dio lo vorrà –, quando mi sarò meglio documentato, un resoconto. Giorgio Faro PIAZZA QUADRATA di Dino Basili «Tuittar no es gubernar» Tuittar no es gubernar. Visto l’andazzo, viene voglia di riciclare l’adagio attribuito allo scrittore spagnolo Salvador de Madariaga, col posticcio tuittar al posto di asfaltar (preso a sinonimo di un’azione epidermica quanto ambiziosa: molta apparenza, poca sostanza). Superfluo aggiungere che asfalto e tweet, pur sommati, non generano rivoluzioni. Neppure in mille e una notte. «Passodopopasso», afferma Matteo Renzi. Senza un valido pass? Ancora: «Non cederò di un centimetro». Certo, i principali dossier sono flessibili, le scelte strategiche pure. Da Cartesio al minestrone, ripensare oh oh. Risultato? Signoreggiano le iniziali in de: depressione, deflazione, delusione, demagogia, demerito, deprezzamento, deindustrializzazione, demotivazione e via decrescendo. Il populismo digitale non «sblocca», anzi talvolta «sbrocca». Cambio di consonante, tanto per imitare i giochetti di parole così bazzicati dal Premier. Eccone un altro: ogni promessa vana aumenta il debito. Un terzo? La carica inno-vatrice non può adagiarsi a mezza strada: all’inno... Divertissement. La componente ludica, insegnava quel volpone di nonno Palmiro, è «tra i bisogni elementari delle masse». La crisi è appensantita da climi molli e aggressivi insieme. Slogan contro slogan. Tasse chiamate con un altro nome. Miliardi ballerini di tip-tap nella tragicomica quotidiana sui tagli. Testi legislativi tecnicamente imperfetti. Proclami e smentite che serpeggiano, spirano e risorgono nel giro di «nanosecondi» (termine in voga a Palazzo Chigi anche in una fase più riflessiva). «Epocale» è un aggettivo bruciato. L’ottimismo programmatico sembrava dar giovamento, invece si è rivelato dannoso. Con la velocità divorata dall’ansia. Ripetere ogni giorno che «bisogna» fare questo e quello non allevia i «bisogni». Che sono molteplici, estesi, urgenti. Le riforme vere, operative e non vaganti in una sorta di universo parallelo, richiedono urticanti bagni di realtà. In qualche misura, sollevano cumuli di scontenti assortiti e sono osteggiati dalle cupole rosse (locali, sindacali, corporative) che non permettono di «asciugare» canali e pozzanghere della spesa pubblica improduttiva. Scure affilata sopra burocrazie e balzelli? In un PD fragile e destabilizzante, dove c’è sabbia perfino nei motori della corrente renziana, contano di più gli squilibri interni, i poteri immediatamente utilizzabili, i rimasugli ideologici. Le doppiezze non hanno limiti: diversi dem arrivano a sostenere, causa «incidenti in famiglia», che l’antiberlusconismo giudiziario è stato un grosso errore. In mancanza di meglio, vanno in onda segnali. Miriadi di segnali... Previsioni indipendenti? Di questo passo, continueremo a segnare il passo: tra comizi bollenti e coni gelati, tortelli e candeggine per camicie eurosocialiste, patti e pacchi. Intesi questi ultimi in senso gergale. Bidoni. Con Bruxelles e Berlino di guardia (vorrebbero infilare il naso pure nei decreti attuativi delle riforme per controllare se sono doc). Il 2015 si profila un anno di prove assai difficili. Urne comprese? Grazie alla favorevole politica monetaria della BCE si galleggia, ma non si attraversa l’oceano dei nostri affanni. A partire dal malessere della democrazia rappresentativa, confermato dagli strazianti scrutini a Montecitorio per coprire i vuoti nella Corte costituzionale e nel CSM. (Nel primo titolo, in prima pagina, del primo giornale, un sondaggio è riassunto in quattro righe quattro: «Due italiani su tre hanno fiducia nel Premier. Le mosse sull’economia però non convincono». Stop. A parte che i due connazionali, a leggere nelle pagine successive, sono «quasi due», l’apprezzamento suona singolare. Il nostro punto più che dolente sta proprio nell’economia: è qui, allora, che vanno valutate le decisioni e le indecisioni di chi guida il governo. La vulgata secondo cui Renzi è «il più grande comunicatore della storia repubblicana» spiega, da un lato, il resistente appeal del personaggio; dall’altro, la diffidenza verso la cosiddetta «annuncite». Non è affatto sicuro che un abile tribuno 2.0 sia il leader capace di tirar fuori un Paese da secche e paludi. Nell’interesse generale. Del resto, fischiettare alla gente le sue canzoni preferite è cosa differente dal «cambiar verso». Chiudendo la parentesi, attenzione alla marea dei sondaggi ammanniti. Alle loro insidie romanzesche o promozionali. Piuttosto, le regole dell’Authority competente sono rispettate e aggiornate?). l Una politologa cinese, Zang Liha, osserva che l’inefficienza è, per l’Italia, «un problema anche più grave della corruzione». Si può discutere parecchio sulle scale di «gravezza» (si scrive, si scrive: vedi Francesco Petrarca...). Tuttavia non fa una grinza sostenere che l’inefficienza sistemica è una forma antica, moderna e contemporanea di corruzione. Letale. 723 ARTI VISIVE Segantini il grande & il mistico Chag Il dipinto è di piccole dimensioni. Su un neutro sfondo luminescente emerge la figura ancor più minuta di un ragazzino, contadino vestito a festa, gambe divaricate, mani sulla testa, sguardo fiero, timido e sprezzante a un tempo. Non è pittura di costume, non è lo sdolcinato pauperismo ottocentesco. Qui, oltre all’invidiabile tecnica, c’è intendimento, condivisione, amore per questo monello che vive realmente sulla tela. Siamo nel 1880 e Giovanni Segantini, ventiduenne, mostra a Milano il suo straordinario talento. Esposto solo due volte da allora e ancor oggi senza una vera storia critica, questo Giovinetto ciociaro è uno dei tesori della mostra in corso a Palazzo Reale di Milano: Segantini, a cura della maggiore studiosa segantiniana Annie-Paule Quinsac e dalla pronipote Diana Segantini, con uno strabiliante catalogo Skira, complemento indispensabile. Sì, perché quest’esposizione cambierà, deve cambiare, le nostre idee su Segantini. Non c’era mai stata in Italia – ma forse anche da nessuna parte – una vera e propria retrospettiva critica del pittore, che per oltre un secolo ha vissuto nell’immaginario di tutti ricoperto da miti e luoghi comuni. L’occasione è storica. Adesso abbiamo gli strumenti per collocare Segantini tra i più grandi pittori della storia moderna. Due anni prima del Giovinetto, quando studiava ancora all’Accademia di Brera, aveva dipinto Il coro della chiesa di Sant’Antonio Abate in Milano, diventato famoso fin dal primo giorno. Doveva essere solo un saggio scolastico di prospettiva, ma ne venne fuori 724 un capolavoro. Gli stalli del coro presi controluce, una luce che filtra dalla grande finestra in alto e che svela le forme e le qualità del legno, del pavimento in cotto, del dipinto in penombra. È un prodigio di equilibrio pittorico tra descrizione ed emozione, di bilancio tra il marginale e il poetico. Due note di questo dipinto, che è da considerare l’esordio dell’artista, reclamano attenzione: l’ispirazione fotografica dell’insieme e la luce come artefice delle forme e delle suggestioni. Tutta la ricerca estetica di Segantini è uno sviluppo di questo binario. Un creatore di luce Chi pratica la pittura troverà di grande interesse la tavolozza, quella vera dell’artista, qui esposta. Di solito le tavolozze, a base di mescolare colori e di raschiarli via, acquistano uno sporco tono grigio-verde. Non qui. Questa conserva le tracce di colori primari, vibranti come negli ultimi dipinti, quelli realizzati con questa tavolozza. Segantini, inseguitore della luce, della luce dipinta, non è un imitatore dei fenomeni naturali, ma un «creatore di luce». Spesso i titoli dei quadri svelano la sua intenzione: Riposo all’ombra, A messa prima, Mezzogiorno sulle Alpi, Effetto di luna, Contrasti di luce ecc. Se ciò è evidente nelle opere degli anni Novanta con il suo particolare divisionismo, è altrettanto vero per l’intera sua parabola. Contemporaneo del Giovinetto è Il Naviglio a ponte San Marco, dove i riflessi, il rosso dei mattoni, l’azzurro del cielo, i toni sgargianti di ombrelli e palloncini, insieme alle oscure ombre, creano un effetto abbagliante. Così pure nei ritratti. Quello della Giovane signora (1880), più affrancato dalla scapigliatura rispetto ad altri, è uno sfavillio di pulviscolo dorato intorno al volto dai contorni imprecisi, come il raggio di sole che filtra in una stanza impolverata. Nel 1887 utilizza già i forti impasti di colore, che emanano più luce. Costume grigionese, una ragazza che beve alla fonte, potrebbe esserne il manifesto. Fa ricordare gli impasti dorati di Rembrandt, ma anche il contemporaneo Van Gogh dei paesaggi provenzali. E pensare che non conosceva Van Gogh e che probabilmente non aveva mai visto Rembrandt. Segantini non è meno grande. Ed è assai autonomo. Dell’arte europea di fine Ottocento conosceva quel che aveva potuto vedere in Accademia oppure nella galleria Grubicy attraverso pubblicazioni e riproduzioni. Mancava poi della formazione scolare di base. E pur essendo introdotto nella borghesia colta milanese, abbandonò l’ambiente urbano della scapigliatura con la sua poetica borghese per la quiete e la purezza montanara. Tutto questo mantenendo per l’intera, e breve, vita una grande popolarità e fortuna. Ciò rivela un genio particolare, che fu capace di teorizzare la propria poetica malgrado la sgrammaticatura. Per la sua strada, inseguendo la luce profonda delle tele, giunge negli anni Novanta a un partico- all lare, personalissimo divisionismo. Per quanto abbia avuto notizie, come realmente accadde, della teoria della luce, il suo non è un divisionismo scientifico alla francese né quello filamentoso di Previati. Egli accosta sottili ma grasse pennellate che nell’insieme possono dare un’idea del colore locale, ma che nella varietà tonale fanno sì che ogni angolo della tela vibri come i riflessi sotto il sole. Così lo descriveva Segantini stesso in un breve scritto. Segantini non è un divisionista puro e non è nemmeno impressionista. Una certa somiglianza di linguaggio non comporta necessaria affinità. I grandi paesaggi degli ultimi anni sono all’opposto dello spirito impressionista. Ripropongono le vedute in maniera concettuale e simbolica, lontana da quel fare che nelle sfumature di luce e nell’imprecisione della macchia cercava d’imitare il modo umano di percepire. Qui c’è una messa a fuoco totale, dal primo sasso fino all’ultima vetta e alle nuvole più lontane. Certo l’aria limpida delle montagne svizzere facilitava questa visione, ma essa rimane una visione meditata, calibrata, voluta proprio in quel modo. Questi grandi paesaggi sono qualcosa d’indimenticabile. È questo un termine, indimenticabile, applicabile soltanto alla grande arte. Con difficoltà lo si può dire dei suoi contemporanei milanesi, da Bianchi a Cremona allo stesso Previati e perfino al Longoni, con il quale Segantini mantenne un lungo sodalizio. Oltre alla tecnica, all’abilità compositiva, alla sensibilità cromati- Giovanni Segantini, Ritorno dal bosco, 1890, St. Moritz, Museo Segantini, deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini. ca, c’è in questi dipinti, sottintesa, una sorta di sacralizzazione della natura. Non sono paesaggi da salotto, sono superfici spesso vaste che ci avvolgono e ci fanno sentire piccoli esseri, come quelli raffigurati, viventi all’interno di un tutto smisurato e onnipotente, ubertoso e tiranno. Visionario & profetico Segantini non era comunque panteista. Non vedeva Dio nella natura, non lo vedeva da nessuna parte a dire il vero. Diceva di credere soltanto alla propria coscienza. Era ignorante, sostanzialmente, ma aveva il fiuto dell’artista vero, che è sempre visionario e profetico. È significativo che egli volesse dipingere un panorama alpino. Intendeva quelle pitture a cerchio, a 360 gradi o quasi, collocate in appositi locali-baracconi, che la gente guardava estasiata attraverso dei visori. Si fece costruire un modello in legno a scala ridotta nel quale provare i dipinti. Il progetto non andò avanti, ma di panorami meravigliosi ce ne ha lasciati tanti, specialmente quel Trittico dell’Engadina, di larghe dimensioni, non presente in mostra per difficoltà di conservazione. Ma un tallone d’Achille c’è ed è la retorica adoperata in certe scene di costume contadino o montanaro. Curioso che scene simili inserite in un ampio panorama si fondano in esso come qualcosa di naturale e necessario. Ma le composizioni di pastori e pecore, la fatica del contadino, e perfino la celeberrima (e in sé bellissima) Ave Maria a trasbordo (1886) cadono nella leziosità di chi vuole strappare a ogni costo un lamento, un sospiro, un sussulto. Era un atteggiamento comune nella pittura lombarda dell’epoca. Segantini studiò a fondo le diverse composizioni «arcadiche», come dimostra la gran quantità di disegni preparatori. Ripeteva fin nei dettagli la stessa scena con varianti leggere. A volte i disegni sono anche posteriori al dipinto, come a insistere, a cercare ancora l’effetto patetico migliore. Si tratta tuttavia di grandi disegni, ese- 725 guiti con tecnica raffinata ed efficaci come un dipinto, belli da morire. Si aggiunga questo ai meriti della mostra: averci fatto conoscere dal vero tanti bei disegni segantiniani, esposti bene senza le fastidiose precauzioni che di solito accompagnano la grafica impedendone di fatto la fruizione. Un punto fermo su Marc Chagall Sulle pagine di Studi cattolici (n. 323) il compianto Renzo Fabris scrisse a fine anni Ottanta un fondamentale articolo sui temi cristiani nell’arte di Chagall. Era tra i primi a inquadrare bene il singolare fenomeno di un artista eminentemente ebraico che dipinge Gesù in croce. L’argomento torna ora d’attualità con la grande retrospettiva di Marc Chagall a Palazzo Reale di Milano. Curata da Claudia Zevi e con duecentoventi opere esposte, è da considerare un punto fermo negli studi sul maestro russo. Contemporaneamente il Museo Diocesano di Milano espone la serie d’illustrazioni chagalliane della Bibbia. Ebbene, tra le opere di Palazzo Reale si contano dodici crocifissi. Il maggiore studioso di questo tema, Marcello Massenzio, la definisce una «presenza ricorrente in modo ossessivo nella pittura di Chagall». E aggiunge, riferendosi ad alcuni lavori in mostra: «Un Cristo il cui corpo androgino dalle proporzioni imponenti è rappresentato in modo antinaturalistico con tratti scabri, nervosi, spezzati. Un lungo scialle di preghiera si frappone tra il legno della croce e il corpo del Messia che si offre nudo allo sguardo; il volto affilato è sfigurato dallo strazio, come rivela soprattutto l’impressionante dettaglio degli occhi asimmetrici: l’uno è una sottile fessura chiusa, l’altro è fisso sulla tragedia che si sta consumando nello spazio sottostante. La bocca spalancata emette un grido in cui si mescolano orrore e dolore; è come se il 726 Marc Chagall, La crocifissione in giallo, 1938-42, Parigi, Centre Pompidou. Cristo volesse dar voce ai muti patimenti delle vittime del nazismo per impedire – è la nostra lettura – che il martirio degli ebrei, consumato nel silenzio, finisca col perdersi nell’oblio. Se è così, quel grido – che appartiene non meno a Chagall che al Cristo, con il quale il pittore tende a identificarsi – è il sigillo del dipinto». Difficile non essere d’accordo. Il Cristo di Chagall è un Cristo ebreo, con lo scialle di preghiera e i filatteri. È una personificazione dell’atroce dolore del popolo. Ed è illuminante che quest’iconografia inizia in Chagall con l’arrivo di Hitler al potere. In una lettera del 27 giugno 1933, indirizzata all’amico-scrittore Yosef Opatoshu, l’artista racconta: «Uno dei miei quadri proveniente da un museo in Germania (Mangeym) [Mannheim] è stato portato in giro per la città e poi bruciato». Chagall era tra i più invisi esponenti dell’«arte degenerata», da eliminare. Ma perché Cristo? L’animo assettato di Marc guardò avidamente le immagini della cultura occidentale al suo arrivo a Parigi. Scrive Grazia Massone: «Le sue tele si riempiono di immagini pescate con libertà dalla tradizione iconografica narrativa cristiana e da quella simbolista ebraica; Cristo in croce porta il tallet, lo scialle rituale per la preghiera, diventando emblema della persecuzione del popolo ebraico, il gallo ebraico che ha il potere della preveggenza ricorda ai cristiani il tradimento di Pietro, la sposa e lo sposo che sono il segno del patto tra Dio e il popolo d’Israele possono alludere all’interpretazione della Chiesa come sposa di Cristo». L’artista ha operato una sorta di fusione, leggibile da entrambi i punti di vista. Del resto la figura di Cristo come simbolo dell’homo patiens è antica quanto il cristianesimo. Tutto ciò acquista senso a partire dalla concezione dell’arte che Chagall professava: «È un atto religioso». E ancora: «È a torto che alcuni hanno paura della parola mistico, che le danno una colorazione troppo decisamente ortodossa. Occorre strappare a questo termine il suo aspetto desueto, ammuffito; bisogna prenderlo nella sua forma pura, intatta, Mistico!, quante volte mi hanno gettato in faccia questa parola, come un tempo mi si rimproverava di essere letterario! Ma senza mistica, esisterebbe forse al mondo un solo grande quadro, una sola grande poesia, o anche un solo grande movimento sociale?» (Qualche impressione sulla pittura francese, 1944-45). Così, non stupisce quanto scrive in uno degli ultimi pensieri: «Un giorno, io lo so, mi accoglierai e della morte svanirà il ricordo ma non l’amore, e della vita svanirà il mistero ma non l’incanto. E al compagno delle mie paure potrò mostrare finalmente quanto – segretamente – io desideravo che mi fosse accanto nel giorno della Tua rivelazione». A volte, affianco al crocifisso raffigura sé stesso che lo dipinge. Come fece Zurbarán. E in una delle opere in mostra egli si autoritrae nella veste di un asino. Michele Dolz CRUCIVERBA di Florio Fabbri S B R T E E N O T D O H R I I L D C A Alcune definizioni fanno riferimento a nomi di autori e a titoli apparsi in numeri precedenti di Studi cattolici o Fogli. Una buona occasione per tornare a sfogliare le riviste. Fra tutti gli abbonati che invieranno entro il 30 novembre 2014 l’esatta soluzione del cruciverba, verranno estratti tre buoni acquisto da euro 100 in libri del catalogo Ares. Gli analoghi premi messi in palio tra i solutori del cruciverba n. 641/42 (luglio/agosto 2014), qui risolto, sono stati vinti dai signori: Teresa Bruno, di Torino; Giovanni Peron, di Settimo Milanese (Mi); Gloria Simeone, di Firenze. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 A D I M P E L T O E M I I R E I A S T A T A E S S N A A T V A E L B O B 21 24 L I T I O G I N E I L E N E L N O A O I N L I D I E G A N O P E R R A K C R N A R 13 14 N O D E I M C I U E P E R R I E R L A R I A G K M I A G E R R Y A N I M A L E A R L L I N D E A C S O Y E P 15 16 B U R R A I B A L D I 22 25 29 J A S I D O A M I S T A A N I O D E S 17 33 ORIZZONTALI: 1 Apparecchio rivelatore. - 8 Tito, eroe bresciano. - 13 Grandiosa imponenza. - 18 Il titolo dell’editoriale in Sc 639. - 20 Organi motori dei Mastigofori. - 21 L’intelletto di Virgilio. - 22 Il primo romanzo di Stendhal. - 24 L’involucro della damigiana. - 25 La Scarnati, giornalista TV. - 27 Due a Valencia. - 28 Domata... con l’acqua. 30 L’Innocenzo di casa Facchinetti. - 31 I re delle foreste canadesi. - 33 Il profeta, padre di Seariasùb. - 34 Ogni corda ne ha due. - 35 Uccello che bubola. 36 Pesci dei Salmonidi. - 39 Si dà, a volte. - 40 Si adoravano in casa... nel Pisano. - 41 L’apparecchio disidratante descritto in Casalinghità in Fogli di marzo. - 42 Finisce... al fresco. - 44 Faglia terrestre. - 46 Sono sorgenti. - 47 49 37 38 41 45 48 53 36 40 44 51 32 35 39 43 27 31 34 39 23 26 30 47 G R A D I 19 20 42 D A L I 12 18 28 A P T E R O 46 50 52 54 55 Michele, patriota vibonese. - 49 L’oriente inglese. - 50 Adoperano pigmenti. - 51 Dipinse L’angelo della vita (in Sc. 637). - 53 Se aumentano, i prezzi calano. - 54 Il... de Nangis in Les Huguenots di Meyerbeer. - 55 Un esecutore come Uri Caine (in Fogli di settembre 2013). VERTICALI: 1 Protetti, tutelati. - 2 La camelia... in famiglia. 3 Lo scrittore Corti (in Sc 636). 4 Chi la alza s’insuperbisce. - 5 Asportata. - 6 Il grido dell’acrobata. - 7 Paga Carlo Conti. - 8 Gianni, magistrato-giallista (in Sc 639). - 9 Colma il serbatoio. 10 Il vulcano di Empedocle. - 11 Opere di ripristino. - 12 Sì anagrammato. - 13 Si esprimono chioccolando. - 14 Mozza il fia- to. - 15 Prefisso per sei. - 16 George, amata da Chopin. - 17 Le nostre edizioni. - 19 La cipria che... asciuga. - 23 I contorni delle isole. - 25 Periodo... di digestione. - 26 Mitici folletti nordici. - 29 Cavalletta dal forte stridìo. 30 Ente spaziale degli USA. - 32 Costituenti dell’atomo. - 34 La regione di Mileto. - 35 Giovanni, fotografo di moda. - 36 Eroe dei fumetti, creato da Hergé. - 37 Una Banda... in complesso. - 38 Causa vescicole cutanee. - 39 Pelati al naturale. - 40 All’opposto di quaggiù. - 41 Una dote dell’animo. - 42 Il profeta che incontrò Amazia. - 43 La nave di Giasone. - 44 La trama del film. - 45 Il padre di Edipo. - 46 Scopi... sottili. - 48 Un... bavarese. - 50 Fa eco... al tip. - 52 Iniziali del compositore Rota. 727 MUSICA Infelici & felici amori «Trepida allora Dido e fieramente / nel suo intento decisa, gli occhi torvi, / sparsa le guance frementi di macchie, / pallida già della futura morte, / oltre le interne soglie, in cima al rogo, / irrompe furibonda, forsennata; / e la spada d’Enea, non a tal fine / a lui richiesta, snuda» (Virgilio, Eneide, cap. IV, vv. 931-941). Riscoprire Purcell In questi versi si condensa una delle immagini più potenti che abbiano colpito la creazione di musicisti e pittori. Da Tintoretto a Claude Lorrain, l’abbandono dell’amato si mescola con l’orgoglio ferito e la nobiltà sfregiata; da Cleopatra alla Norma, la donna abbandonata e la regina respinta creano una mescolanza che giustifica l’odio della stirpe, che da quel passo s’inoltra per la storia romana, e persino odierna. Tanta ricchezza portò con sé una figurazione che ne fece addirittura il nerbo della prima opera inglese, da lì a poco sopraffatta da quella italiana, che ne soffocò gli intenti e ne disperse i primi vagiti. Ci riferiamo a quella che si può definire la prima opera d’Oltremanica, Dido and Aeneas di Henry Purcell, rappresentata in un collegio femminile a Chelsea, nei sobborghi di Londra, nel 1689, su libretto di Nahum Tate, brillante librettista formatosi alla scuola di John Dryden, importante collaboratore di Purcell. Tate fu notevole conoscitore sia di Virgilio sia di Ovidio, del quale tradusse l’Ars amatoria e i Remedia amoris, e fu anche editore con J. Dryden delle Metamor- 728 fosi e delle Heroides, epistole che s’immaginavano scritte da donne famose ai loro amanti. La settima è proprio quella che la regina di Cartagine avrebbe scritto a Enea. Non proprio la prima opera, se si considera il Venus and Adonis di John Blow, data privatamente dopo il 1680, qualche anno prima di Albion and Albanius di Louis Grabu, eseguito pubblicamente nel 1685, dopo la Restaurazione: ma si trattava di due generi ibridi, quelli che andavano sotto il nome di masque, spettacolo già in voga dai tempi di Shakespeare. La Didone di Purcell, invece, rappresenta la fondazione della lirica inglese, rafforzata dalle grandi esperienze teatrali successive, dal King Arthur (1691) a uno dei capolavori assoluti della storia del teatro musicale, The Fairy Queen (ispirato dalla shakespeariana Notte di mezza estate, 1692) fino al visionario The Tempest, or the Enchanted Island (1695). C’è un filo rosso che lega queste esperienze teatrali di Purcell, mai messo in debita luce dalle pur rilevanti biografie e studi sul maggiore musicista inglese che oggi riposa a Westminster. Nemmeno nel fondamentale lavoro di J.A. Westrup (Professor Emeritus of Music, Oxford Univ., H. Purcell, J.M. Dent & Sons Ltd., London 1975) ce n’è rilevante traccia: l’aspetto magico, stregonesco, fantasmagorico, celtico sarebbe da dire, che caratterizza tutte le opere del maestro, Didone inclusa. Opposta, naturalmente, alla tradizione mitologica classica tipica dei libretti in stile «italiano», che di lì a vent’anni Georg Händel importerà in modo irrimediabile in Inghilterra, facendone un «protetto- rato» dell’opera italiana fino a Rossini e anche oltre. L’enigmatico «Antro delle streghe» ha un che di sinistro e costruisce una elegia gotica ante litteram che ritornerà solo nel Macbeth di Verdi; la malvagità delle potenze di quest’opera inquina gli edulcorati antagonisti (i personaggi «negativi») così tipici dell’opera italiana tutta, esacerbandone fin quasi la struttura intera. E l’ultima scena. Se non si può dire in assoluto, chi conosce la musica sa che questo finale è il più commovente che sia mai stato scritto. Una scala discendente, ripetuta a modo di passacaglia, sorregge a gradi sempre più bassi una delle melodie più struggenti. Didone, metaforicamente, scende le scale della vita verso il regno delle ombre, intanto che intona alla fedele Blimunda «Remember me, but ah! Forget my fate» («Ricordati di me. Ma non del mio destino»). Il coro finale chiede agli amori e ai cupidi di approssimarsi, con le ali abbassate, a spargere rose sulla regale tomba. Anche questa immagine diventerà un topos dell’iconografia funeraria settecentesca, con scheletri e angioletti che cospargono di rose gl’invariabili sepolcri. «Dido and Aeneas» a Milano La più importante rassegna milanese di musica, MITO, ha offerto una versione in forma di concerto del Dido and Aeneas nella cornice suggestiva della basilica di Santa Maria delle Grazie. Cominciamo dall’eccellente lavoro sull’Ars Cantica Choir diretto da Marco Berrini. Co- Federico Ferri ha diretto l’orchestra dell’Accademia degli Astrusi La suggestiva cornice di Santa Maria delle Grazie. minciamo da questo, perché la sensibilità delle varie voci che si sentivano quasi autonomamente e non «impastate» in accordo unico, è cosa rara e di grandissimo gusto in particolare da segnalarsi. L’entrata dell’orchestra dell’Accademia degli Astrusi diretta da Federico Ferri è energica come un terremoto denso di forza, e ha impresso un rimarchevole registro romantico e dinamico al pathos d’insieme. La compagnia di canto è di alto livello. La Didone della soprano Anna Caterina Antonacci è stata di grande sensibilità espressiva: ha avuto momenti eccelsi («Away. To death I’le fly, if longer you delay», «Lontano, io sarò volata, morta, se ritardi ancora») e grande perizia nel cambiare registro e tono nel ruolo della Strega. Mi lascia più perplesso l’eccessivo vibrato («Ah! Belinda, I am prest with torment…», «Ah! Belinda sono oppressa da un tormento...») e il monologo finale, che può migliorare. Yetzabel Arias Fernandez, soprano, è stata una potente, sicura e determinante Belinda: il suo grande talento si appoggia molto, come da cantante operista, sulle vo- cali, e questo ha lasciato un poco più sfumata la dizione e la pronuncia del testo inglese. Laura Polverelli, Enea e seconda maga, bene centrata sulla parte e commovente nella sua pietas. «Diario di uno scomparso» Amori sfortunati, amori a lieto fine, anche se a caro prezzo, come sempre quando si parla d’amore. Ancora per la rassegna MITO, al Piccolo Teatro Grassi è offerta una rara composizione di Leoš Janáček, Diario di uno scomparso. Mèntore del compositore fu Max Brod, uno degli uomini più intelligenti che informarono la cultura ebraico-praghese e tedesca dei primi del secolo: fu l’editore e in qualche modo lo scopritore di Kafka, e alla sua segretaria – coadiuvata da figlie dai contorni delinquenziali – andarono (purtroppo) i manoscritti dello scrittore del Processo, ancora oggi disputa di rogatorie e processi internazionali. Appunto: processo come destino. Di Brod però, Janáček ri- corda che «al momento giusto arrivò come un angelo dal cielo. Lui stesso un poeta. Ho paura di leggere le sue espressioni estatiche, temo di inorgoglirmi troppo». Il Diario, rappresentato per la prima volta a Brno nel 1921, è per mezzosoprano, tenore, coro femminile e pianoforte; racconta di un giovane attirato da una bella zingara, Zefka, che lo seduce. Dopo molti tentennamenti che mettono alla prova il timorato e introverso Jan, questi rompe gli indugi, abbandona il villaggio e la sua gente: «Zefka mi aspetta, con mio figlio tra le braccia»; un diario d’amore, il diario di uno scomparso che fugge dal mondo per trovare un nuovo mondo lontano denso di promesse. Il bello è che questa vicenda aveva qualcosa di autobiografico, essendosi Janáček effettivamente invaghito di «una donna di media altezza, scura di carnagione, i capelli ricci come le zingare e grandi occhi sporgenti, con folte sopracciglia e bocca sensuale», come la definisce la moglie Zdenka, allenata a fronteggiare giovani rivali: questa aveva «conquistato il favore di mio marito grazie al carattere allegro, l’aspetto da gitana…». La gitana però, pur lusingata, declina le profferte del vegliardo, da qui la sublimazione del sessantatreenne che immagina una composizione di efficacia e concentrazione espressiva: lui tenore, lei mezzosoprano, un contorno di voci femminili che a volte interviene, il pianoforte cui è dedicato, a solo, il delicato Intermezzo erotico, nel quale si consuma l’atto amoroso: un gesto musicale di rara finezza. La vocalità modellata sulla prosodia, lontana da temi conduttori o da melodie facilmente riconoscibili, è giocata su accentuazioni emotive che sono la cifra stilistica di un autore di importante originalità, ancora per certi versi da scoprire al grande pubblico. Un plauso per il contralto Veronikaq Hajnová, il tenore Richard Samek, le soliste del Coro Filarmonico di Praga, per il pianista Ivo Kahánek. Massimo Venuti 729 TEATRO Teatro mensa & cibo spettacolo Il diaframma tra attori e pubblico a teatro è sempre più labile. Però Pranzo d’Artista, raffinato esperimento tra cucina e narrazione proposto al Teatro dell’Arte di Milano dalla compagnia Alkaest, o Teatro di Terra delle Ariette, vissuto a Torre Guaceto (Brindisi), radicalizzano l’incontro tra attori e pubblico. Che avviene banchettando. «Pranzo d’artista» nel segno di Babette Tratto dal Pranzo di Babette di Karen Blixen, Pranzo d’Artista riprende l’idea del Convivio dantesco o del Simposio platonico. Attorno a una tavola imbandita, nella condivisione di pane e vino, si crea un intreccio esoterico. Un saggio di training, tra misticismo e terapia. Un contatto vagamente eucaristico. Diletto del palato e della mente. Il rito coinvolge 35 spettatori. È un poema gastronomico che avvia una trasformazione. Lo spettacolo inizia quando non te l’aspetti. Atmosfere soffuse, davanti a un prosecco. Parte il racconto, che neppure avevi spento il cellulare. L’avventore con cui scambiavi due parole si svela, in contropiede. Esce dalla persona, entra nel personaggio. Il pavimento diventa palco. Sembra un audiolibro. Ti ritrovi catapultato in uno scorcio scandinavo di fine Ottocento. I personaggi prendono respiro. Spettatori in incognito e camerieri ci confondono nel gioco drammaturgico. Musica da pianoforte. Note corpose: Schubert, Debussy, Mendelssohn, Chopin. Esegue dal vivo Greta Malerba. La sala da pranzo è dietro le tende. La luce disegna chiaro- 730 Due immagini tratte dallo spettacolo Pranzo d’artista, nel conviale allestimento della compagnia Alkaest, di Giovanni Battista Storti, in scena al Teatro dell’Arte di Milano. scuri. C’è una tavolata in legno grezzo, coperta da una nappa di cotone bianco. E un lampadario enorme di filamenti argentati, da cui pendono tazzine, marmitte, mestoli, schiumarole, arnesi vari da cucina. Sorrisi, inchini. Mani vezzose accompagnano alla mensa. La narrazione della Blixen entra nel vivo. Il pranzo di Babette è la storia di due anziane signore figlie di un pastore luterano, Martina e Filippa. La loro vita compassata è sconvolta dall’arrivo di Babette, francese in fuga da dolore e paura. La loro capacità d’accoglierla, amarla, è ricambiata da Babette con un pranzo sontuoso. Il cibo è rito, viatico. Il valore di agape dell’atto di condividere pane e parole, è epifania, relazione. Lo spettacolo si chiude con la condivisione rituale di cibo. Ma i dettagli di questo inconsueto epilogo sono nel contatto tra un maestro di cerimonia e il singolo spettatore/convitato, nei due giorni che precedono lo spettacolo. Per questo non è possibile acquistare i biglietti la sera stessa della replica, ed è necessario che ogni spettatore prenoti lasciando un recapito per essere contattato dal maestro di cerimonia. È visibile l’impronta straniante, surreale di Tadeusz Kantor in questo progetto in cui il suo discepolo Giovanni Storti, regista e attore, trucca i luoghi da opere d’arte. Storti anima spazi non convenzionali. Ne rivela identità, memorie, appartenenze. Lo accompagnano gli attori Paui Galli, Lorena Nocera, Erika Urban e Marco Pepe (maestra di cerimonia Marzia Loriga, sculture Roberta Colombo, spazio scenico Valentina Tescari). Uno spettacolo elegante e comunitario. Sazietà del corpo e appagamento dello spirito coincidono. La frugalità esteriore lascia spazio a uno scambio interiore, ricco di emozioni e scoperte. Natura musica cibo nel «Teatro di Terra» Ci sono format che sembrano creati apposta per certi contesti. È il caso di Teatro di Terra: natura, arte, musica e cibo nei cortili dei contadini della Riserva naturale di Torre Guaceto, sulla costa brindisina. È il progetto Nelle case del Parco, giunto nell’agosto 2014 alla XIV edizione, curata dalla Compagnia Thalassia di Mesagne. Ospitalità e conversazione. Polenta, bruschetta e formaggio. Peperonata, anguria e vino. Il cortile della casa bianca di Pinuccio Bellanova è lo scenario ideale per Paola Berselli e Stefano Pasquini, contadini-attori emiliani della Compagnia delle Ariette, in scena con Maurizio Ferraresi. Teatro di Terra è ritrovo conviviale. Dopo gli applausi, anche qui si mangia. Di nuovo rito, relazione. Servito al pubblico dagli attori, il cibo non solo conclude, dà anche il via alla messinscena. Spicchi di formaggio, come quello che Odisseo si aspettava da Polifemo in nome dell’ospitalità cara agli dèi. E mandorle, sinonimo di rinascita e saggezza, segreto e fecondità. Piatti brindisini. E cibi della terra delle Ariette, associazione che dal 1989 Teatro di Terra produce cultura teatrale. «Ariette» è un podere in collina, 2,8 ettari di terra in pendenza lungo la Valle del Marcatore, sopra Bazzano, dalle parti di Bologna. Qui i campi hanno un nome, come le persone: Ariette, Due querce, Inferno, Purgatorio, Paradiso. Anche questa è convivialità. Come le storie che gli spettatori ascoltano, disposti a semicerchio, intorno a una scena che è terra e pollaio, paiolo e fornelletto a gas. E polenta, preparata durante lo spettacolo a segnare il tempo. A dare il ritmo. Lento. Solenne. Come il movimento della «cannella», l’enorme mestolo di nocciolo che serve a mescolare. Come il vomere per rivoltare la terra. Teatro di terra è intreccio di esistenze e parole. «Non si può essere contemporaneamente ciò che si è e ciò che si è stati». È il tempo di una trasformazione. Come per il mais che si tramuta in polenta. Il cerchio di terra al centro della scena è vita da cui si nasce e polvere cui si ritorna. Ma un ciclo può anche chiudersi in modo innaturale. Come lo sparo del G8 di Genova del 2001 che spense la vita di Carlo Giuliani, ed è una delle prime istantanee dello spettacolo. Immagini di una violenza qualunque. Non ci sono imputati né schieramento ideologico. Solo la costatazione di ciò che siamo. Capaci di donare la vita, coltivare il pianeta, nutrire. Capaci, anche, di distruggerci da soli. Sono racconti di morte, amore e abbandono. Emozioni di un teatro civile. Sono storie di semi e di carote. Cadenze di vanga e rastrello. E una terra che è dono e sudore. Citazioni poetiche e musicali, da Pessoa a Wim Wenders, da Tom Wait a Patti Pravo. Chiusura pirotecnica di popcorn cotti in padella, saltellanti come lapilli. E stelle filanti luminose, nelle mani degli attori. Uno spettacolo sulla terra non poteva che essere artigianale. Forse un po’ slegato drammaturgicamente e perfettibile nella regia di Stefano Pasquini. Per esempio, come fa lo spettatore a capire che la genesi dello spettacolo coincide con i fatti del G8 del 2001, e che il riferimento fu considerato dalle Ariette un atto dovuto? Ma qui conta il cuore. E la verità di tre figure che si presentano in canottiera intima, con naturalezza quotidiana. Con i segni della pelle arrossata dal sole. E l’inflessione emiliana così reale, più pulita della dizione impostata dei teatranti. Quando la riflessione sulla scena si fa struggente, ecco la capacità di smorzare: un naso da clown, una barzelletta, palloncini multicolori. Perché «non c’è impero o ideale che valga un solo pupazzo di neve». Le lacrime di un annaffiatoio sulla parrucca di Paola Berselli; le miserie umane, non turbano la natura, l’alternarsi di lavoro e riposo. Scopriamo che strappare a pezzettini una banconota può essere un buon affare. Mai smettere di sognare, ci dicono le Ariette. Male che vada, ci mangiamo su. Una spianata di polenta, profumi d’olio, parmigiano e rosmarino. E un buon rosso. A scacciare la malinconia. A condividere, con gioia. Vincenzo Sardelli 731 CINEMA Le stelle & l’amore per sempre L’amore può essere per sempre? È una domanda che i ragazzi pongono agli adulti osservando le loro famiglie frantumarsi dopo una separazione e nuovi amori nascere a ogni età. Per fortuna, oltre alle statistiche aggiornate sull’incremento dei divorzi e delle famiglie allargate, ci sono tante storie che possono confermare l’eternità dell’amore, senza stereotiparlo in un mito romantico e illusorio che non ha riscontro con la vita reale. I ragazzi hanno sete di storie che aprano loro il cuore e che facciano intravedere la bellezza della vita, che li incoraggino a credere con ottimismo che l’amore, come valore, è e può essere una realtà. Per questo un film come Colpa delle stelle, uscito a settembre nelle sale italiane, continua a far parlare di sé, entusiasmando giovani e adulti. Adattamento cinematografico dell’acclamato romanzo dello scrittore americano John Green, diretto da Josh Boone e prodotto da Twentieth Century Fox, il film ha incassato, solo in America, oltre 48 milioni di dollari nei primi tre giorni di programmazione. Il libro di partenza, stabilmente in classifica nelle prime dieci posizioni tra i romanzi più venduti in America da quasi due anni, ha conquistato anche la top ten dei libri più venduti in Italia. Il dato non sorprende perché l’autore, che ha all’attivo un canale Youtube tra i più seguiti sul WEB, è stato definito da TimeMagazine come una delle cento persone più influenti al mondo del 2014. Amato soprattutto dai giovani lettori, in The Fault in our stars (questo il titolo originale dell’opera, tradotto letteralmente in italiano) ha dato vita a due personaggi intensi e coinvolgenti, 732 Hazel Grace Lancaster e Augustus Waters, interpretati rispettivamente da Shailene Woodley e Ansel Elgort, attori che erano già fan del romanzo prima di essere scritturati. Ad affascinare milioni di spettatori e lettori è la storia d’amore e prima ancora di amicizia tra una ragazza di diciassette anni, affetta da un cancro alla tiroide propagatosi ai polmoni, e un ragazzo di diciotto, ex giocatore di basket, reduce da un osteosarcoma, a causa del quale ha subìto l’amputazione di una gamba. La malattia fortifica i legami I due protagonisti si conoscono a un gruppo di supporto frequentato da ragazzi malati di cancro. Gus nota subito Hazel e non smette di fissarla. Anche Hazel ha notato quel ragazzo così carino che la guarda con insistenza ed è imbarazzata, perché non è abituata a essere l’oggetto di interesse di sguardi maschili. Hazel, fin da piccola, va in giro con una bombola infilata in un carrettino di acciaio che si trascina ovunque e che le fornisce due litri di ossigeno al minuto attraverso una cannula, un tubo trasparente che le passa dietro le orecchie e poi si riunisce vicino alle narici. Non si è mai sentita bella né desiderabile, perché convive con la malattia fin da piccola: mentre lei rimbalzava tra corsie d’ospedale e lunghe degenze, il mondo correva veloce lasciandola indietro, sola ed esclusa rispetto alle sue coetanee, intente a pensare all’amicizia, all’amore, alle uscite. Per questo sua madre pensa che sia depressa: legge sempre e solo lo stesso libro, non esce con nessun amico. Eppure quando Gus entra nella sua vita, Hazel si fa condurre per mano e impara a controllare la propria paura e a esserne più forte. Gus la corteggia con delicatezza, invitandola a un picnic, parlando con lei di libri, regalandole fiori. Grazie a Gus, Hazel si sente bella, come chi si vede restituita la propria immagine dallo sguardo dell’amato. Hazel e Gus passano molto tempo chattando o al computer, come i ragazzi di oggi, ma la loro relazione non si esaurisce nel virtuale e come tutti gli innamorati hanno i loro leitmotiv, frasi o modi d’intendersi, che marcano l’esclusività del loro rapporto. Hazel fa leggere a Gus il suo libro preferito, Un’imperiale afflizione, che ha il solo demerito di interrompersi a metà, proprio come la morte, che arriva senza preavviso a recidere il filo sottile che lega gli uomini alla vita. Gus, come ogni innamorato, vuole sorprendere e rendere felice la ragazza e per questo si mette in contatto con Peter Van Houten, l’autore del romanzo, riuscendo persino a farsi invitare ad Amsterdam, dove questi vive. Vuole regalare a Hazel la fine della storia, come lei merita. I due ragazzi, insieme alla mamma di Hazel, affrontano così un viaggio intercontinentale che li porterà all’incontro con lo scrittore, un misantropo cinico e crudele, ma soprattutto all’incontro con sé stessi e con il loro desiderio di amarsi al di là della paura. Da questo punto di massima felicità, il film prenderà una piega inaspettata, sorprendendo lo spettatore e travolgendolo in una spirale d’intense emozioni. Il rischio di inceppare in una pellicola sdolcinata o dai facili sentimentalismi e pietismi era alto, ma l’adattamento di Boone evita tutto ciò. Colpa delle stelle riesce a parlare del dolore in modo profondo e non banale e lo fa nel modo più difficile, attraverso due protagonisti adolescenti, apparentemente i soggetti meno adatti a impersonare un tema tabù nella società occidentale come quello della morte, per giunta per malattia. Pervaso di forte ironia, il film è a tratti persino divertente e spinge lo spettatore a interrogarsi su temi esistenziali. I due protagonisti non sono belli e affascinanti come gli attori di Twilight, ma proprio per questo sono personaggi credibili e autentici. Hanno paura di morire e sono consapevoli della gravità della loro malattia. Parlare di morte per loro non è un tabù: Gus fa lo spavaldo, sembra molto sicuro di sé, è spiritoso e coinvolgente. Tra le labbra tiene sempre una sigaretta spenta, metafora del contatto con ciò che potrebbe ucciderlo, se solo lui gli permettesse di farlo. Crede nel Paradiso, perché diversamente nulla avrebbe un senso e «Dio desidera vedere gli uomini felici». Hazel è più scettica, ma non cinica: pensa che potrebbe non esserci nulla nell’aldilà, ma le parole di Gus le danno speranza. Hazel ama l’ottimismo di Gus, la sua voglia di vita, la sua sicurezza. Gus ha solo una grande paura: l’oblio. Ha paura che con la morte verrà dimenticato; ha paura di non realizzare nella sua breve vita qualcosa di memorabile, ma allo stesso tempo l’incontro con Hazel abbatte in parte questa paura, perché capisce che essere unico e speciale per lei, gli garantisce l’immortalità nel cuore e nei pensieri dell’amata, e questo gli basta. Per una volta, in controtendenza con tanti film adolescenziali in cui l’amore si costruisce soprattutto sul piano fisico e attrattivo, Colpa delle stelle racconta dell’innamoramento, che è paragonato al prendere sonno. Come dice Hazel parlando di Gus: «Mi sono innamorata di lui come quando ci si addormenta. I due giovani protagonisti di Colpa delle stelle. Piano piano e poi profondamente». C’è solo una breve scena d’amore ad Amsterdam che appare meno autentica nel contesto della storia, perché ci mostra i due protagonisti fin troppo disinvolti e poco timorosi per essere due ragazzi alla loro prima esperienza. Non è però una scena perno del film, che per il resto descrive l’amore tra i due giovani con tenerezza e delicatezza. A parte alcune scene un po’ superflue, che allungano il film senza aggiungere nulla di particolarmente significativo alla trama, la sceneggiatura è pervasa d’ironia e di dialoghi intensi e significativi. La colonna sonora, con artisti di tutto rispetto come Ed Sheeran, è diventata famosa soprattutto per il singolo Boom Clap di Charlie XCX, tra le hit musicali del momento sia negli USA sia in Europa. Grande finezza psicologica Il film ha il merito di toccare in modo non superficiale diversi aspetti della malattia, tra cui il rapporto tra genitori e figli malati. Hazel è consapevole che ancora più duro che avere un cancro è essere genitori di un figlio che ha un cancro. I genitori di Hazel sono figure adulte presenti, affettuose, unite tra loro. Sempre all’erta e pronti a intervenire in caso di necessità, cercano al contempo di trasmettere serenità alla figlia, incoraggiando anche il suo rapporto con Gus. Entrambi s’impegnano a vivere, anziché sopravvivere, e per questo, senza dirlo inizialmente a Hazel, decidono di dedicarsi al volontariato, per mettere a disposizione di altri genitori che condividono la loro stessa situazione la propria esperienza di vita. Hazel ne è felice, perché la sua paura più grande è che, dopo la sua morte, i suoi genitori smettano di vivere e rinuncino per sempre alla possibilità di essere di nuovo felici. Il film non edulcora la realtà, ma tratta il tema della malattia e della morte in modo consapevole. I protagonisti hanno il coraggio di dirsi che la loro malattia è ingiusta e che la morte è terribile per chi sopravvive alla perdita di un amato, ma allo stesso tempo sono pieni di amore per la vita, e non chiedono né vogliono nulla di meno di rapporti autentici e profondi. Come dice Hazel in una delle scene più toccanti del film, tra 0 e 1 ci sono infiniti numeri, ma tra 0 e 2 ce ne sono ancora di più, semplicemente perché «certi infiniti sono più grandi di altri». Forse al loro amore è stato assegnato un infinito più piccolo ed entrambi vorrebbero più giorni da condividere insieme, ma vale la pena amarsi per conoscere il «per sempre» che solo l’Amore vero sa garantire. Eleonora Fornasari 733 MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA Frammenti di Festival Uno dei privilegi di non scrivere per un quotidiano, alla frenetica ricerca di un titolo per la pagina spettacoli, o per una rivista super specializzata, dove il criterio per valorizzare le pellicole di un Festival coincide spesso con quello della maggiore astrusità, è proprio che di un Festival, ripensato a qualche settimana di distanza, si possono ricordare i film davvero amati. Quelli che chi scrive si sente di consigliare perché possono essere un piccolo tesoro da scovare nella rassegna colta o una pellicola più nota, ma che potrebbe anche perdersi nel mucchio delle uscite che ci aspettano di qui a Natale. Ecco perché in questo pezzo mi prendo il lusso di evitare un semplice riepilogo dei titoli vincitori (anche se, giusto per contraddire le critiche di chi diceva che a Venezia ormai si premiano film che nessuno vedrà perché non vengono distribuiti in Italia, quest’anno i vari vincitori avranno l’onore di qualche giorno di sala...), per raccontare che cosa ho visto di bello (e meno bello) in qualche giorno veneziano. Se la sceneggiatura fa la differenza Ho un debole per i film in cui la sceneggiatura fa la differenza, e quindi mi si perdonerà se il primo titolo che cito, l’iraniano Tales (tra l’altro vincitore proprio del premio Osella per la sceneggiatura), è uno di quelli capaci di intrecciare storie differenti con un forte legame tematico, in questo caso quello della sopraffazio- 734 ne nei confronti di umili e deboli, in una società, quella iraniana, dove la burocrazia fa quasi più paura dell’integralismo. In questo mondo sono le persone a fare la differenza: persone come la regista Rakhshan Banietemad, che ha voluto girare il suo film senza compromessi con la censura, e persone come i personaggi di questa storia, in lotta per i loro diritti, ma anche, come tutti, per un pezzo di felicità. All’estremo opposto per genere e provenienza geografica, ma basata allo stesso modo su un incastro di precisione di situazioni e vicende umane, si situa la commedia di Bogdanovich She is funny that way, gioco di equivoci e fraintendimenti un po’ alla maniera di Woody Allen, in cui l’ottimo cast (Imogene Poots, Owen Wilson, Jennifer Aniston e molti altri) strappa risate a ripetizione in uno spettacolo degno della migliore commedia americana. Per rimanere in America e in tema di grandi attori, non si può dimenticare l’abbinata paciniana che Venezia ha regalato al suo pubblico. Mattatore assoluto in The Humbling (storia di un attore in crisi, che tenta il recupero, reale o immaginario, grazie al legame con una donna molto più giovane di lui), Pacino mi è piaciuto però molto di più nel mesto, ma sincerissimo Manglehorn, in cui veste i panni del proprietario di un negozio di chiavi e ferramenta, un uomo chiusosi in sé stesso a seguito di un amore perduto e di un difficile rapporto con il figlio arrivista; ma l’occasione di cambiare si presenta (e coinvolge anche una cassiera di banca che ha il volto di una bravissima Holly Hunter) a riprova che, forse, davvero non è mai troppo tardi. In entrambi i film la grandezza di Pacino è innegabile, ma in Manglehorn lo sguardo del regista David Gordon Green fa sì che la bravura non diventi mai maniera e lo spettatore condivida fino in fondo e con commozione il dramma del protagonista. Intenti morali & un drammone È passato quasi inosservato, nonostante il cast di tutto rispetto (Andrew Garfield, il nuovo Spiderman, ma anche Michael Shannon, beniamino di tanto cinema indipendente e villain del recente Man of Steel), 99 Homes di Ramin Bahrani, che invece è il perfetto esempio di cinema civile americano. È la storia di un giovane carpentiere con figlio e mamma a carico che finisce sfrattato e per «salvarsi» inizia a lavorare per e con lo spietato agente immobiliare responsabile delle sue disgrazie. L’esito è forse scontato, ma la pellicola ha una sua solidità e la capacità di denunciare per l’ennesima volta gli scandali di una società che spinge a consumare, ma poi macina i suoi cittadini senza pietà. Sospetto (ma dovrò aspettare come tutti l’uscita nelle sale visto che l’ho mancato) che anche The Good Kill di Andrew Niccol (quello di Gattaca), dedicato alla crisi morale di un pilota di droni americano, faccia parte di questa tipologia. Così come, con altri modi e altra provenienza, si distingue per il suo intento «morale» anche Loin des Hommes con Viggo Mortensen, ispirato a un racconto di Camus, che rievoca l’inizio della guerra di Algeria, con tutte le sue contraddizioni e i suoi dolori nascosti, nello sguardo di un uomo «giusto» che non sa trovare ragione all’odio e alla violenza. Mortensen, bravo come sempre, recita senza difficoltà in francese a fianco di Reda Kateb in un dramma storico riuscito solo a metà, forse troppo ingessato nel voler proporre i suoi temi per lasciar respirare fino in fondo l’ispirazione del suo materiale di partenza. Altri due francesi, Trois Coeurs e La rançon de la gloire, sono uniti dal medesimo interprete, quel Benoit Poelvoorde, belga di nascita, reso famoso da tante commedie. Il primo è un drammone sentimentale (due sorelle, la Mastroianni e la Gainsbourg, si innamorano in tempi diversi dello stesso uomo, Poelvoorde, appunto) destinato a non lasciare traccia di sé, il secondo una commedia amara ambientata negli anni ’80 che invece colpisce per la sincerità dei suoi personaggi. Della pattuglia italiana mi sono persa Il giovane favoloso di Martone (che ha voluto raccontare più l’uomo di pensiero in crisi che il poeta del dramma umano). Per alcuni, peraltro, è stato e sarà sui nostri schermi soprattutto il Giacomo Leopardi di Elio Germano, a volte talmente bravo da mangiarsi i personaggi che interpreta. Ho invece visto, e apprezzato, pur non gridando al capolavoro, Il Leone d’Oro Roy Andersson Anime Nere di Francesco Munzi, una storia di faide famigliari tra Calabria e Nord Italia in cui nell’ottimo cast si distingue Fabrizio Ferracane, nei panni di un uomo che ha tentato tutta la vita di restare fuori dal sistema criminale nella sua terra, ma deve infine arrendersi a una logica senza misericordia o perdono, non senza che questo porti a esiti tragici. Personaggi estremi Sempre criminalità e sempre tragedie sono al centro di Senza nessuna pietà, l’opera prima di Michele Alhaique, che costruisce il suo noir attorno alla fisicità deformata di Pierfrancesco Favino (20 kg di muscoli in più per raccontare un gigante buono trascinato da una ragazza in una spirale di violenza), ma conserva nonostante la morbosità e la durezza di ciò che racconta, a dispetto del titolo, uno spazio per la pietà nei confronti dei suoi personaggi. Personaggi estremi (forse per questo premiati entrambi con la Coppa Volpi?) anche quelli del nuovo film di Saverio Costanzo, Hungry Hearts. Al centro una giovane coppia, in cui la donna (interpretata da Alba Rohrwacher), di fronte alla gravidanza imprevista, comincia a sviluppare un’ossessione alimentare (un veganesimo spinto e condito di un’ossessione per la purezza in senso lato) capace di portarla ad «affamare» il figlio neonato. Il marito (l’americano Adam Driver – del resto la storia è ambientata a New York, dove Costanzo dice di essersi sentito spaesato e solo quanto i suoi personaggi) tenterà invano di riportarla alla ragione. Personalmente ho faticato a coinvolgermi in una storia e in un percorso umano così estremi (che forse avrebbero meritato un approfondimento psicologico maggiore): ho trovato forzato il finale, ma non ho apprezzato nemmeno il continuo passare da un genere all’altro (soprattutto le incursioni nell’horror/thriller con tanto di immagini deformate dell’ultima parte). E se nel personaggio di Driver ho comunque potuto apprezzare uno spaccato di umanità sincera, nel caso del personaggio della Rohrwacher mi è parso di trovarmi di fronte a un caso limite più irritante che minaccioso. Mi rammarico di non poter dire praticamente nulla dei vincitori: né del Leone d’Oro, lo svedese A pigeon sat on a branch reflecting on existence di Roy Andersson, di cui tutti, anche i suoi estimatori, dicono trattarsi di un raffi- 735 natissimo esercizio stilistico e filosofico dal discreto peso specifico; né del Leone d’Argento, quel The postman’s white night di Andrei Konchalovsky girato per le steppe del Nord della Russia con attori non professionisti, camera digitale e I-Phone. Conoscendo i miei gusti, credo che questo ritratto quasi documentaristico di una piccola comunità non mi sarebbe dispiaciuto. Quanto a The Look of Silence, documentario dello statunitense Joshua Oppenheimer (già autore di The act of killing, presentato a Venezia nel 2012) e sempre dedicato al genocidio in Indonesia e alle purghe anticomuniste degli anni ’60 in quel Paese, non so condividere l’entusiasmo che ha portato ad attribuirgli il Gran premio della giuria. Il modo in cui il film analizza il tema è inedito e interessante, ma questo riconoscimento sembra più un omaggio alla «moda» di attribuire premi ai documentari (come l’anno scorso a GRA) piuttosto che a una reale eccellenza. In chiusura mi permetto un’ultima raccomandazione, fondata sulla stima per il regista, dal momento che che anche questo film mi è sfuggito: Birdman, il film d’apertura, firmato Iñarritu, con un grande Michael Keaton e un altrettanto eccellente Edward Norton. La storia è quella di un attore in crisi che cerca il rilancio come regista di teatro, ma deve misurarsi con un interprete istrionico e isterico finendo perso in un turbine dai tratti surreali. Una premessa che vale la scommessa di una visione. Luisa Cotta Ramosino Un cocktail come la vita Colloquio con il Leone d’Oro Roy Andersson l Scusi, Maestro, ma c’è una cosa che non ha mai detto a nessuno? Gliela dico se mi ripete in svedese il titolo del mio film che ha vinto il Leone d’oro di Venezia. l Ora capisco il suo famoso senso del grottesco. Sì, ma il titolo? l In italiano è: Un piccione sul ramo che riflette sull’esistenza. Posso arrivare all’inglese: A pigeon sat on a branch reflecting on existence. C’è però un controsenso. Tutto il mio cinema lo è. l Un regista qualcosa dovrebbe insegnare, fosse anche un titolo in svedese. Ecco il titolo: En duva satt pa en gren och funderade pa tillvaron. Ma io non pretendo di insegnare niente a nessuno. l Non l’ha mai visto? Due volte l’anno andavamo nel suo ufficio e ci diceva cosa fare. l Consigli utili? Mi aveva stroncato con una frase senza scampo. l Se la ricorda? Certo: «Se continui a usare le cose che hai il privilegio di ottenere qui non riuscirai mai a girare un film». Bergman, De Sica, Fellini & Beckett ma svedese? Avevo 24 anni e vedevo il cinema come militanza. E poi c’era un altro fatto. l Quale? Sapevo che Bergman sbagliava. l Militante ma un po’ presuntuoso. Sbagliava sulla guerra in Vietnam. l Sbagliava anche sul suo futuro di regista, visto il Leone d’Oro. Ero emozionatissimo al momento del verdetto. Non riuscivo neanche a stare seduto sulla poltrona. l Che cosa faceva? Usavo l’attrezzatura della scuola per filmare le manifestazioni contro la guerra in Vietnam. l Ha pensato alla bocciatura di Bergman in quel momento? L’unico regista a cui penso è Vittorio De Sica in Ladri di biciclette. l Non lo poteva fare? Certo che potevo. l Perché proprio quel film? Per una scena in particolare. l Beh... sì. Le sembra che lui avesse il senso dell’umorismo? l Perché Bergman se la prendeva tanto? In realtà, non m’importava. l Scusi, ma lei non frequentava l Snobbava un mito del cine- l Una sola? Al Monte dei Pegni, quando l’assistente cerca un posto nel capannone ma ci sono troppe biciclette portate dalla gente impoverita. l Da qualcuno avrà imparato, per esempio da Ingmar Bergman? Ha mai visto un film di Bergman? 736 la scuola di Bergman a Stoccolma? Lui era solo un osservatore. l Che cosa l’ha colpita? La capacità di emozionare con un’allegoria. Come vorrei fare sempre nei miei film. l C’è riuscito col vincitore del Leone d’Oro? È l’ultimo film di una trilogia. l Quando è iniziata? Nel 2000 con Songs from the second floor. È proseguita sette anni dopo con You, the living. l E sette anni dopo ecco A pigeon sat on a branch reflecting on existence. Sono 39 situazioni su cui riflettere in modo grottesco. l Il grottesco felliniano? Ho sempre amato Fellini. l I critici però dicono che lei usa la camera fissa come faceva Bergman. Intravedono anche l’umorismo raggelante di Beckett. l Non se la prende? E perché? l Come reagisce quando le dicono che il suo cinema è un cocktail tra drammaticità e umorismo? È così perché così è la vita. l Un cocktail con un retrogusto apocalittico? È uno sguardo riflessivo sull’Aldilà. l Uno sguardo da credente? Non sono credente. Mi piace evocare una sensazione di purgatorio. l Scusi Maestro, ma se non è credente come giustifica il Purgatorio? Intanto, il mio purgatorio è con la p minuscola. l Questione di refusi? Questione di sostanza. l Potrebbe essere più chiaro, per me è... svedese. Vorrei rendere tutti omogenei. l O forse più banalmente come Stanlio e Ollio? Anche. Per come affrontano la vita. l In senso spirituale? In senso universale. l Situazioni che accomunano un po’ tutti. Abbiamo cose basilari in comune, ovunque viviamo. l Scusi, ma non è un po’ generico? Un mondo senza distinzione del colore della pelle. l Scusi, ma se questa non è religione! Per me è una dimensione senza tempo, un po’ come nel teatro giapponese. l Da cosa si fa influenzare nei film oltre che dalla finta-nonreligione? Dalla storia dell’arte. l Un periodo in particolare? Dal Rinascimento alla Nuova Oggettività. l Qualche nome? Otto Dix e Georg Scholz, due tedeschi degli anni ’30. l Perché proprio loro? Hanno un tratto grottesco che sa catturare la realtà. l Lei che cosa cercava? L’atmosfera speciale tra l’uomo e lo spazio. l L’ha trovata? L’essere umano può mentire, ma l’ambiente circostante rivela sempre la realtà. Felicità, rispetto, tristezza & paura l C’è un pittore che l’ha ispirata più degli altri? Bruegel il Vecchio col dipinto Cacciatori nella neve. l In che senso? In senso artistico, letterario. l Colpito dai cacciatori? I tre cacciatori con i loro cani rappresentano le allegorie sui vizi umani. l Ma l’idea del purgatorio, seppure con la p minuscola? È l’idea della sospensione del giudizio. l Invece tra gli scrittori? Cervantes. I due commessi viaggiatori del film sono come Don Chisciotte e Sancho Panza. l Per esempio? La felicità. Il rispetto. La tristezza. La paura. l Quella che ci unisce di più? La paura. l Di che cosa? La gente ha paura del futuro. l E lei? Di questa società che non mi piace. l Che cosa non le piace? La mancanza di sensibilità verso le persone più vulnerabili che vengono umiliate. l Rimedi? Ciascuno deve reagire con gli strumenti che conosce meglio. l Il cinema, per esempio? Nel mio film faccio un mix della realtà, che a volte è affascinante altre spaventosa. l Soddisfatto? Sono felice di essere riuscito a farlo nel nuovo stile. l Prima, com’era? Più realista. l Che cos’è cambiato? Sono più coraggioso. l Dove? Nell’abbandonare dopo 15 anni il realismo e passare all’astrazione. l Sarà astratto anche il prossimo film? Sarà ispirato ai Los Caprichos di Goya. l In digitale? Naturligtvis! l Scusi? È svedese! l Naturligtvis! Claudio Pollastri 737 ARES NEWS Ricominciare da Müller & Péguy Dal 5 al 19 ottobre si è svolto a Roma il Sinodo straordinario dei vescovi «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione»: i preparativi e i lavori hanno infiammato i mezzi di comunicazione che spesso, come era già accaduto durante il Concilio Vaticano II, hanno cercato di divaricare lo spazio tra le linee «progressiste» o «conservatrici» della Chiesa. Certamente, un ottimo spunto per riflettere è offerto da La speranza della famiglia (Ares, Milano 2014, pp. 80, euro 9,50), il nuovo libro del card. Gerhard Ludwing Müller, prefetto della congregazione per la Dottrina della Fede (qui intervistato da Carlos Granados, direttore delle Edizioni BAC). Al volume hanno fatto riferimento numerose testate, tra cui Avvenire, Il Giornale, Credere, Il Gazzettino, Il Giornale di Sicilia, La Gazzettà del lunedì...). Peccato che Andrea Tornielli sulla Stampa («Se i cardinali frenano alle aperture del Papa», 18/9) abbia 738 ripreso facendo riferimento a un’operazione mediatica contraria «a ogni apertura alla comunione per i divorziati risposati». I lettori probabilmente la pensano diversamente: il libro corre verso la terza edizione... Giovanni Fighera su Tempi.it («Famiglia sii ciò che sei», 6/10) lo ha recensito in modo approfondito: «Müller rilancia la proposta della tradizione cristiana, quella dell’amore per sempre che si incarna nella famiglia stabile e duratura. La preparazione al matrimonio deve avvenire fin dall’infanzia e dall’adolescenza e deve diventare “una delle massime priorità educative della pastorale”». In apertura del Sinodo, La Provincia di Como ha dedicato a Müller due intere pagine (5/10). Il «lenzuolo» era significativamente titolato: «Quelle coppie senza fede nell’amore» e proseguiva: «Il cardinale lancia l’allarme: la famiglia è stata privatizzata, non è più sostenuta dalle istituzioni, e i legami tra i coniugi sono troppo spesso privi di trascendenza». L’autorevole agenzia Zenit ha presentato invece ampi estratti («L’importanza del sacramento del matrimonio», 18/9) della prefazione al volume firmata dal card. Fernando Sebastián: «Il nostro problema più grave è il gran numero di battezzati che si sposano civilmente e degli sposati sacramentalmente che non vivono né il matrimonio né la vita matrimoniale in sintonia con la vita cristiana e gli insegnamenti della Chiesa, che li vorrebbe come icone viventi dell’amore di Cristo verso la sua Chiesa presente e operante nel mondo». Un poema limpido & indimenticabile La vita di Charles Péguy meritebbe un film. Povero, socialista, indomito fondatore dei Cahiers de la Quinzaine, poeta, drammaturgo, saggista, soldato. Fu tra i primi a cadere agli albori della Prima guerra mondiale. A spartiacque della sua vita, il ritorno, dopo una lunghissima elaborazione, al cattolicesimo (che gli causò l’ostilità della moglie). Alla sua figura ardente, Roberto Gabellini ha dedicato un intenso poema (L’ultima marcia del tenente Péguy, Ares, Milano 2014, pp. 168, euro 14) che rievoca i suoi ultimi trenta giorni: la mobilitazione, la partenza verso il fronte, le marce estenuanti, l’ultima veglia di preghiera di fronte a un’immagine della Madonna, il fatale incontro con il nemico, il pomeriggio del 5 settembre 1914. Il volume, presentato in anteprima al Meeting di Rimini, è stato subito bene accolto al suo esordio in libreria. Così Silvia Stucchi lo ha presentato su Ilsussidiario.net: «Roberto Gabellini si cimenta in un’impresa insolita e ambiziosa, ma coronata da successo: riflettere, poeticamente, sul destino di Charles Péguy morto un secolo fa proprio agli inizi della battaglia della Marna. La forma scelta è quella del poema: poesia narrativa, in forma di ballata, che associa l’elemento narrativo con quello meditativo e introspettivo in un dialogo fra il contemporaneo e il passato» («Tenente Péguy trenta giorni per toccare il mistero», 1/10). Del libro si è tornato a occupare Davide Brullo su La Voce di Romagna («Un riminese fa risorgere il tenente Péguy. Per le Edizioni Ares un’opera davvero coraggiosa», 14/10) nonché il settimanale Tempi (22/10) e Attualita.it (15/10). Valori per i ragazzi grazie allo sport Bellezza gratuità cameratismo (Ares, Milano 2014, pp. 144, euro 15) è il polifonico vademecum curato da Nicola Lovecchio e Giancarlo Ronchi per ricordare il valore formativo dello sport: «Solamente uno sport proposto e vissuto come momento di arricchimento della propria umanità, come esperienza di autentica bellezza, Con Il padre libertà dono (Ares, pp. 192, euro 14) Claudio Risé si è aggiudicato la XXXI edizione del Premio Capri San Michele sezione «Psicologia». Nella foto, l’Autore con Grazia Bottiglieri, membro della giuria, durante la premiazione del 28 settembre. come occasione di espressione libera delle proprie capacità è uno sport che assolve veramente il suo compito educativo ed è in grado di non farsi ridurre a pura merce di scambio, di non cedere a ricatti di chi, per i propri interessi, lo vuole snaturare o cerca il suo “angolino di potere”». I contributi del libro sono di primissimo piano, da papa Francesco a Benedetto XVI, dal card. Bagnasco al card. Scola, passando per celebri atleti come il calciatore Luca Rossettini o il campione mondiale di pallanuoto Alex Giorgetti. Al volume è stato dedicato un ricco servizio di Gianluca Mazzini andato in onda su Sportmediaset di Italia Uno alle 13 (11/10) ed è stato visto da oltre 1,7 milioni di persone. Il supplemento di Avvenire Newssport si è soffermato a lungo sul libro presentandone i contenuti e le finalità. Un premio «Corti» per le scuole Lo scorso 6 ottobre la Fondazione «Costruiamo il futuro» ha lanciato la prima edizione del Premio Letterario «Eugenio Corti» riservato alla scuole secondarie delle Province di Lecco e Monza Brianza. Il concorso è promosso in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, le Edizioni Ares, la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, l’Associazione Eugenio Corti, l’Associazione Culturale Internazionale Eugenio Corti, e la Fondazione «Il Cavallo rosso». I ragazzi potranno partecipare in gruppo (mostra, cortometraggio, elaborato musicale) o singolarmente (racconto, poesia). Per informazioni www.costruiamoilfuturo.it. Alessandro Rivali 739 Abbonati ad Avvenire In più, per te, gratis anche l’abbonamento digitale Abbonarsi ad Avvenire significa entrare ogni giorno nel cuore del cambiamento della Chiesa e di tutto il mondo cattolico. Grazie a idee, analisi e approfondimenti puoi seguire e comprendere i mutamenti della società e riscoprire i valori profondi dell’essere cristiani e cittadini dell’Italia e del mondo. In più, con l’abbonamento, hai accesso senza alcun costo aggiuntivo anche all’edizione digitale del quotidiano già dalle 6 del mattino. Abbonati ad Avvenire per essere insieme protagonisti nel cambiamento. OFFERTA SPECIALE RISPARMI €134,00 Paghi € 275,00 anziché € 409,00 Chiama subito il numero verde 800 820084 dal lunedì al venerdì dalle 9,00 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 17,00 LIBRI & LIBRI Una storia diversa Paolo Poponessi, L’intransigente. Storia della fondazione de L’Osservatore Romano, Il Cerchio, Rimini 2013, pp. 108, euro 14. Anche se come numero di copie vendute non è certamente al top della carta stampata, L’Osservatore Romano è comunque uno dei giornali più importanti del mondo, uno dei non moltissimi che fanno parte della giornaliera lettura obbligatoria delle persone che contano a livello di governo, di ambasciate, di multinazionali. I padri fondatori furono, il 1° luglio 1861, riprendendo il nome di un precedente quotidiano uscito a Roma fra il 1849 e il 1852, un avvocato forlivese, Nicola Zanchini, e un suo collega di Cento (oggi in provincia di Ferrara), Giuseppe Bastia, che ne furono anche i primi direttori. Quindi due laici, fedeli sudditi pontifici, nati nelle Legazioni, le province più settentrionali dello Stato Pontificio, che la storia risorgimentale presenta da sempre come le più avverse al governo del Papa-Re. Quando lo Stato delle Chiesa perse le Legazioni, lo Zanchini, divenuto funzionario pontificio nel 1846 quale segretario dell’Amministrazione Provinciale di Forlì (al concorso, nel quale aveva ottenuto il secondo posto, il primo era stato conseguito dal suo compaesano Aurelio Saffi, mazziniano e futuro triumviro della Repubblica Romana), prese la via dell’esilio romano. Non fu il solo fra i cittadini delle Legazioni a prendere questa decisione per mantenersi fedele al Papa- Re. A Roma, difatti, lo Zanchini incontrò fra gli altri esuli il Bastia, che tuttavia, a differenza di lui, non aveva rotto del tutto i legami con le ormai l’ex-Legazioni, tanto che a Bologna, dove aveva studiato e si era sposato, nel 1860 assunse la difesa di mons. Gaetano Ratta, vicario della diocesi bolognese, condannato a tre anni di carcere per non avere autorizzato il clero locale a partecipare alle celebrazioni per l’anniversario dello Statuto Albertino. A Bologna il Bastia rientrò dopo avere lasciato, assieme allo Zanchini, la direzione dell’Osservatore, e lì nel 1890 pubblicò il saggio Il dominio temporale dei Papi dal 1815 al 1846, nel quale poneva una domanda in totale contraddizione con la storiografia ufficiale: «Non è chiaro che l’opinione pubblica, come oggi la chiamerebbero, batteva all’unisono col sistema, coll’indirizzo, col pensiero, colla volontà del Governo? Che l’universalità dei sudditi stava col Principe, paga delle sue leggi e del suo reggimento, perché omogeneo e rispondente ai bisogni, agli interessi, alla prosperità di tutto quanto lo Stato?». Due personalità, quindi, di notevole spessore culturale e condannate all’oblio, sorte comune a tanti sudditi pontifici, colpevoli di essersi mantenuti fedeli al Papa e di non avere, a differenza di tanti altri, cambiato opinione dopo il ribaltone politico-istituzionale seguito alle vittorie delle armi franco-sabaude. Più fortunati di altri, Zanchini e Bastia hanno attratto la curiosità di un sagace esploratore degli angoli più accantonati della storia, ma proprio per questo più interessanti e, non di rado, più ricchi di utili rivelazioni giovevoli anche ai tempi nostri. A riproporceli vivi e attivi, portatori di interessi e di idee che, nonostante i centocinquant’anni trascorsi, rappresentano tuttora, per dirla con il filosofo James, «opzioni vive», è il giornalista e scrittore Paolo Poponessi con il libro L’Intransigente, appellativo riferito a Nicola Zanchini, il cui ritratto illustra la prima di copertina, ma includente sia il Bastia (ritratto in quarta di copertina) sia L’Osservatore. Difatti anche il quotidiano della Santa Sede è protagonista di un libro che ne evidenzia le caratteristiche che lo hanno connotato fin dalla sua nascita: l’assoluta modernità di impostazione e di linguaggio, e, soprattutto, l’universalità, indispensabile per una pubblicazione destinata al ruolo di quotidiano della Santa Sede. A questo proposito, Poponessi evidenzia sia il largo spazio concesso dal giornale ai dibattiti su grandi questioni culturali, filosofiche e politiche, sia il costante interesse per la realtà italiana in quanto più prossima e caratterizzata da violenta conflittualità con la Chiesa cattolica, sia gli articoli riguardanti quanto in quegli avveniva in ogni parte del mondo: dall’Irlanda e dalla Polonia al Messico di Massimiliano d’Asburgo e (anche con le testimonianze di cittadini americani direttamente coinvolti) all’America del Nord lacerata dalla guerra civile fra Unione e Confederazione. L’ultimo capitolo fa capire in modo diretto la chiave interpretativa dell’impegno giornalistico dello Zanchini e del Bastia, che oggi si direbbe militante in quanto finalizzato «a cooperare secondo le proprie forze alla difesa della propria Religione e del proprio Sovrano»; Poponessi in- 741 fatti riporta il testo di undici editoriali (dal 1° febbraio 1862 al 10 ottobre 1865) riguardanti gli attacchi al cattolicesimo portati dal governo sabaudo-liberale attraverso il tentativo di «protestantizzazione» del popolo italiano e le limitazioni imposte alle istituzioni religiose in campo educativo, le reazioni messe in atto dai cattolici, gli avvenimenti, letti assai più in chiave religiosa che nazionalistica, dell’Irlanda cattolica tenuta in stato di oppressione dal dominio protestante inglese, e della Polonia, proprio in quegli anni insorta contro il governo zarista. Il ritratto umano e culturale dei due laici emiliano-romagnoli rimasti fedeli, pur da italiani a pieno titolo quali si consideravano, al Papa-Re, convinti com’erano che il potere temporale fosse garanzia di libertà per la missione della Chiesa nel mondo, fa anche emergere un aspetto della loro terra negli anni della costruzione dell’Italia sabauda alquanto diverso da quello tramandato dalla storia ufficiale. Intorno allo Zanchini e al Bastia si intravede un mondo caratterizzato dal permanere di una forte affezione al Papa e di fedeltà al suo governo, non solo nello «zoccolo duro» dei funzionari del regime pontificio, ma anche nella popolazione, in particolare nei ceti popolari dei contadini e della gente umile. Francesco Mario Agnoli Tesi da rivedere Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014, pp. 948, euro 18,70. Che cosa sappiamo della distribuzione della ricchezza e della sua evoluzione nel lungo periodo? La domanda apre il libro di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo. Nell’esposizione delle sue tesi, l’Autore – docente dell’École des autes études en sciences sociales di Parigi – segue tre filoni. Presenta i risultati di un’ampia ricerca 742 empirica; muove un feroce attacco agli economisti; e, infine, conclude in chiave di lettura politica. La metodologia della ricerca ha suscitato un interessante dibattito. In proposito, Francesco Forte ha manifestato perplessità sul fatto di mettere insieme (omogeneizzare) dati plurisecolari sulla diseguaglianza dei redditi in una ventina di Paesi. Il principale obiettivo polemico di Piketty è l’economista Simon Kuznets, il quale aveva mostrato una visione ottimistica dell’andamento della distribuzione della ricchezza. La «curva di Kuznets» infatti mostra che la disuguaglianza cresce nelle prime fasi dello sviluppo economico, ma, dopo un punto di massimo, tende a ridursi. La pesante riduzione della disuguaglianza tra il 1914 e il 1945 era dovuta alle guerre mondiali; negli anni successivi – come documenta Piketty – la disuguaglianza riprese a crescere. In proposito, l’Autore è molto polemico: «La disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazioni teoriche, a scapito della ricerca storica e del raccordo con le altre scienze sociali» (p. 59). Questa affermazione forse mostra che l’Autore non conosce F.A. von Hayek e gli economisti della Scuola austriaca che non utilizzano il linguaggio matematico e vedono l’economia integrata all’interno di una scienza molto più generale: una teoria generale dell’azione umana. Secondo Hayek, per questa scienza generale dell’azione, il termine più appropriato è quello di «scienze praxeologiche». Inoltre, non possiamo tacere l’impressione che la polemica contro l’economia intesa come metodo sia funzionale a una lettura ideologica. Che viene sintetizzata in un’equazione: «r > g», ossia il tasso di rendimento del capitale (r) è, e secondo Piketty sarà sistematicamente, superiore al tasso di crescita dell’economia (g), in una spirale di progressiva concentrazione della ricchezza, proprio come prevedevano (per ragioni diverse) Ricardo e Marx. Poiché alla lunga la crescita delle disuguaglianze risulta insostenibile, conclude Piketty, essa deve essere corretta attraverso un’imposta globale e progressiva sui patrimoni. L’intervento è di natura politica perché è il funzionamento del «capitalismo» a produrre conseguenze indesiderabili sul versante della disuguaglianza. L’argomento è tanto apparentemente lineare quanto insostenibile; anche perché non è necessariamente vero che «r» debba essere sempre maggiore di «g». Infatti, recentemente, Luigi Zingales, dell’Università di Chicago, ha sottolineato che la disuguaglianza a livello mondiale non è aumentata, anzi: «A livello globale, tutti i decili di reddito sono cresciuti allo stesso modo». Roberto Giorni Pascal inedito Bruno Nacci, La quarta vigilia, La scuola di Pitagora, Napoli 2014, pp. 434, euro 35. Pochi ricordano che Giovanni Gentile mise come esergo del suo testo filosofico fondamentale (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916) il famoso pensiero di Pascal in cui all’immensità dell’universo fa riscontro quella più grande del pensiero, ritrovando così nel pensatore francese quel primato dello spirito a cui voleva idealmente ricongiungersi. In realtà Blaise Pascal, se si escludono gli studiosi, in Italia è più noto che letto, ma anche tra i suoi lettori è corrente l’idea che si tratti di uno scrittore religioso appartato, quasi un anacoreta o un bigotto, polemico e al limite dell’ortodossia cattolica, famoso per le sue scoperte scientifiche e per la battaglia contro i gesuiti a favore dei giansenisti di Port-Royal. Questa biografia di Bruno Nacci riempie un vuoto nella nostra cultura sul terreno degli studi non specialistici, mostrando al contrario un Pascal agia- to borghese, intraprendente capitalista, spirito indipendente e fiero, non di rado insofferente di ogni appartenenza a schieramenti o conventicole, fossero pure quelle che ruotavano attorno a Port-Royal. Il metodo seguito dall’autore è quello di una cronaca degli ultimi quattro anni e mezzo della vita di Blaise, seguiti mese per mese, sullo sfondo della vita del piccolo mondo delle religiose del convento, tra cui la sorella Jaqueline. Non si tratta dunque di un racconto più o meno romanzato, come spesso accade nelle biografie, ma della ricostruzione documentaria della vita del grande scienziato negli anni decisivi della composizione dei Pensieri, la sua opera incompiuta e più famosa, sullo sfondo delle infinite lettere, biglietti, memoriali che animano la vita del convento in uno dei periodi cruciali della sua esistenza. Cronaca ma anche riflessione sulla vita e l’opera di Pascal, sugli stretti rapporti con il mondo scientifico, come nel caso del concorso internazionale da lui bandito per la risoluzione del problema matematico della cicloide, riflessione che si fa commento di alcuni brani, invitando a scorgervi una profondità di pensiero non di rado resa ardua da una forma d’intelligenza tanto acuta quanto sintetica. Ma non solo le vicende interne a Port-Royal, costantemente minacciato dai suoi nemici, accompagnano la vita di Pascal, bensì quelle più grandi, di ordine teologico, con l’esposizione chiarificatrice dei termini esatti dello scontro tra i giansenisti e i loro avversari (non solo gesuiti), ma anche politico, come le pagine dedicate al cardinale di Retz e alle sue smodate ambizioni. Non mancano notazioni di carattere più concreto, che riguardano la vita quotidiana della prima metà del Seicento, afflitta da guerre, fame, repressioni, rivolte, epidemie, alluvioni, bizzari personaggi, che illuminano le condizioni in cui si sviluppa il pensiero pascaliano, a cospetto di un’epoca che ha tratti simili a quelli oscuri e problematici del Novecento europeo. La parte più avvincente di questa «cronaca» rimane a nostro avviso la ricostruzione del dissidio interiore che lacera, senza mai ricomporsi se non in prossimità della morte, Pascal. Grande fisico e matematico, famoso per le sue esperienze sul vuoto e la pressione atmosferica, per aver avviato il calcolo delle probabilità e quello infinitesimale, ma anche imprenditore abilissimo (possedeva un magazzino ai mercati generali, ideò e realizzò il primo servizio di trasporti pubblici a Parigi, costruì la prima calcolatrice della storia) egli, a differenza di Cartesio, avvertì lo smarrimento davanti alle rovine del vecchio mondo, e colse in anticipo e con assoluta precisione i sintomi della secolarizzazione e di quel razionalismo integrale che avrebbero contrassegnato in modo inequivocabile la modernità. Avvicinandosi la fine, molto dolorosa, rinnegò tutto ciò che non fosse il sacrificio di sé e la dedizione completa ai poveri, immagine di Cristo, si allontanò dalle vane dispute, dall’orgoglio della sua prodigiosa intelligenza, dagli affetti più cari. Commentando un famoso pensiero, Nacci, che dedica molte pagine al rapporto tra Pascal e la sorella, vicepriora a Port-Royal, esempio inarrivabile per Blaise di dedizione assoluta alla vita religiosa, scrive: «Il Getsemani rimane nell’intarsio della scarna prosa pascaliana un momento alto e di quasi aperta confessione, dove il senso drammatico della vita si trasfigura in una verticalità inebriante, che poco aveva a che fare con le dotte chiose dei solitaires, il loro timoroso e antiquario senso del commento del testo sacro come un atto, a sua volta, sacrale, per realizzare al contrario un confronto teso, in cui tutto il materiale che gli altri si portavano dietro, viene serbato e dimenticato nello stesso movimento che lo supera, trasceso da un’urgenza febbrile». Né le scienze, né la tecnologia, né la nuova organizzazione dello Stato e della società realizzate dalle classi borghesi, avrebbero potuto ridare all’uomo la sua unità spirituale, che per Pascal trovava fondamento solo nella fede in Cristo, o, come avrebbe scritto un suo studioso, Fortunat Strowski: «Gesù Cristo per lui è come un albero o una montagna: un oggetto reale». Luca Gallesi Trinità & storia Antonio Staglianò, L’Abate calabrese. Fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in Gioacchino da Fiore, presentazione di S.E. card. G. Ravasi, postfazione di P. Coda, LEV, Città del Vaticano 2013, pp. 234, euro 16. Come rileva il card. Ravasi nella presentazione, Gioacchino da Fiore (Celico 1145 circa - San Giovanni in Fiore 1202), monaco cistercense, esegeta, filosofo, teologo, apologeta, riformatore, mistico, veggente, asceta e profeta, è sicuramente «una delle figure più emozionanti, coinvolgenti e per molti versi sconcertanti del Medioevo» (p. 9). L’intento del saggio di mons. Staglianò, vescovo di Noto, è di dissolvere i sospetti di «triteismo» trinitario e di quello storico delle tre ère, abbattendo stereotipi interpretativi plurisecolari e presentando un Gioacchino rassicurante nell’ortodossia della sua fede. Come la Nota della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede del 2001 ha definitivamente superato la condanna di Rosmini, sostenendo che il senso eterodosso di alcune sue proposizioni è da ascrivere solo a possibili conclusioni tratte dalla lettura delle sue opere, per Staglianò questo si può ripetere per Gioacchino. Il gioachinismo, infatti, modifica e distorce le tesi di colui a cui pure si ispira. Innanzitutto, lo studioso chiarisce come dalla lettura complessiva e unitaria delle opere di Gioacchino emerga che il corretto approccio ermeneutico al suo pensiero deve 743 partire dalla dottrina trinitaria per pervenire alla visione trinitaria della storia, e non viceversa. Confrontando l’ortodossia cattolica sulla Trinità con la dottrina trinitaria di Gioacchino, Staglianò evidenzia come quest’ultima sia certamente cattolica e poi come da essa derivi una coerente e ortodossa visione della storia (compromessa invece da interpretazioni di altri autori che si sentivano discepoli spirituali dell’Abate calabrese). L’aspetto che ha suscitato perplessità della visione storica di Gioacchino è la terza età della storia, connessa allo Spirito Santo, che sarà caratterizzata da una Chiesa esclusivamente spirituale, che avrà superato la propria configurazione gerarchico-petrina. Infatti, questa concezione parrebbe svuotare di significato l’incarnazione di Cristo, che sarebbe ridotto a mera prefigurazione transitoria dello Spirito Santo. Al contrario, l’insistenza di Gioacchino sulla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio implica che la terza Persona trinitaria sia lo Spirito di Cristo, sicché l’età dello Spirito conduce alla pienezza della verità che è sempre Cristo, ossia l’incarnazione del Verbo è un evento insuperabile, mentre crescerà nell’età dello Spirito la percezione comunitaria del significato salvifico di tale evento e delle sue implicanze. Gioacchino non è un «utopista» in quanto non cala il Cielo sulla terra; anzi, superando la teologia agostiniana della storia, ancora articolata sulla base dello schema organicistico di nascita, crescita, invecchiamento e morte, per l’Abate la storia è tesa verso il ringiovanimento, ossia verso il meglio, operato dallo Spirito, sicché la realizzazione del Regno di Dio sulla terra è solo l’inizio di ciò che si compirà «nell’eone apocalittico-escatologico dell’epifania gloriosa dell’evento trinitario. [...] Ora, benché l’età dello Spirito sia il punto di convergenza e di risoluzione dell’intera teologia della storia, ciò non deve far concludere che il pensiero di Gioacchino sia modalista o triteista», ossia che annulli la realtà delle tre Persone trinitarie o che ne faccia tre dèi vanifi- 744 cando il loro essere relazioni sussistenti nell’unica essenza divina, «dal momento che l’azione dello Spirito semplicemente non esclude, né nell’essenza né nell’azione, le altre due divine Persone e l’azione dei tre non è ternaria, bensì trinitaria» per la circuminsessio o mutua compenetrazione delle tre Persone divine (pp. 134-135). ria. Basta guardare l’imponenza dei loro palazzi, a Roma, Caprarola, Piacenza e altri luoghi. La loro storia, dal Medioevo fino all’estinzione nel Settecento, è raccontata in maniera avvincente in questo volume curato da Stefano Zuffi e corredato da stupende fotografie e da rigorosi apparati scientifici. Michele Dolz Matteo Andolfo Tra sfarzi & ombre Stefano Zuffu (a cura di), Farnese. Duchi di Piacenza e Parma. Signori del Rinascimento e del Barocco, Skira, Milano 2014, pp. 176 con 143 illustrazioni a colori, euro 50. I ritratti di papa Paolo III eseguiti da Tiziano mostrano un uomo enigmatico. Furbo, volitivo, provato. Alessandro Farnese, questo il suo nome prima di diventare Pontefice, aveva ottenuto il cardinalato per vie poco chiare, ebbe diversi figli naturali e un’ambizione sfrenata. Avviò Pierluigi, uno dei figli, alla carriera militare, con tutti gli appoggi. Ma questi fu un mercenario amorale, al miglior soldo, e tra le molte atrocità partecipò al sacco di Roma del 1527 commettendo tali efferatezze che Clemente VII, pur inclinato a chiudere un occhio, dovette scomunicarlo. Alessandro Farnese fu ordinato sacerdote soltanto a quarantacinque anni, nel 1513, e con l’ordine riformò la sua vita morale. Quando nel 1534 fu eletto Papa, continuò a favorire il figlio nominandolo duca, gonfaloniere della Chiesa e prospettando un ducato di Parma e Piacenza in mano ai Farnese. Ma Paolo III fu un buon Papa: approvò e incoraggiò i nuovi ordini (teatini, somaschi, barnabiti, cappuccini, camilliani e gesuiti) in vista di una riforma del clero; convocò e aprì il Concilio di Trento; fu protettore delle arti; normalizzò i rapporti con l’imperatore. Glorie, miserie, avventure dei Farnese, una delle famiglie più potenti della sto- Collasso d’Europa Stefan Zweig, Il mondo senza sonno, tr. it. di L. Basiglini, Skira, Milano 2014, pp. 112, euro 12. Ne Il mondo di ieri Zweig, autore del quale oggi si assiste a una meritata riscoperta, ha sostenuto che la seconda guerra mondiale «aveva una ragione spirituale: si trattava della libertà, della conservazione del bene morale», di lottare per ciò che rende umani; la guerra del 1914, invece, «era staccata dalla realtà, serviva ancora un’illusione, il sogno di un mondo migliore, giusto e pacifico». A quest’illusione lo stesso scrittore viennese aveva del resto ceduto, determinandosi a collaborare al Kriegspressquartier. L’esperienza diretta del conflitto bellico lo rese tuttavia conscio del fatto che la catastrofe che si era abbattuta sull’Europa non avrebbe in alcun modo ripristinato quell’ideale sicurezza che aveva caratterizzato fino ad allora il Vecchio Continente. Lo si trae con chiarezza dai brevi racconti pubblicati fra il 1918 e il 1928, ora tradotti per la prima volta in italiano, dai quali traspare un sentimento di angosciata rassegnazione e di cupo dolore. Come nel coevo dramma Jeremias, trova qui espressione la febbricitante mortifera frenesia che, negli anni della Grande Guerra, si insinuò negli Stati europei come la vibrazione di un suono assordante o un’improvvisa scossa elettrica. Il sonnambulismo che per Broch caratterizzava la Germania di Guglielmo II, si muta in Zweig in «uno spaventoso stato di veglia che sfavilla fra i sensi eccitati di milioni di persone», in una compulsione che rende sordi anche ai sentimenti più forti. Così, in Der Zwang, l’artista chiamato sotto le armi sembra non poter che ubbidire all’«obbligo» che lo vuole, a dispetto di tutto, martire per la Patria, e solo quando la cogenza della legge gli impone di rinunciare a ogni pietà umana, egli prova quella resipiscenza necessaria a tornare alla vita. Da un’analoga, stringente ineluttabilità sembra segnata l’esistenza del soldato russo emerso dalle acque del lago di Ginevra, nell’omonimo racconto, sebbene qui la «condiscendenza» al destino che impone un’incommensurabile estraneità a sé e al mondo non si risolva nella conquista d’una inattesa salvezza, ma in un mesto gesto suicida. Una morte anonima, salvata dall’oblio soltanto da una modesta sepoltura, in nulla diversa da quelle che ricoprono da un capo all’altro l’Europa di quegli anni. Se ne ha conferma visitando, nelle Fiandre, il cimitero di Ypres, autentica «kermesse sopra i morti», dove «eserciti di croci» sfilano ininterrotti, quasi facendo dimenticare che sotto ognuna di quelle pietre giace un uomo che, «senza la furiosa follia della guerra, sarebbe ancora nel pieno vigore degli anni». Sono, quelle tombe, l’immobilità visibile della morte di una generazione per la quale – si legge in una intensa pagina scritta da Zweig nel 1932 – «l’unità dell’Europa era vangelo» e alla quale è toccato vedere «l’annientamento d’ogni speranza». Luigi Azzariti-Fumaroli Donne indomite Chiara Lossani, Le ribelli di Challant, Rizzoli, Milano 2014, pp. 396, euro 15. Questo insolito romanzo, basato su realtà storiche, ci fa rivivere le atmosfere del 1450 in Valle d’Aosta durante il sesto Giubileo di Papa Nicolò V, quando dal Nord Europa i pellegrini percorrevano la Via Francigena per raggiungere Roma in peni- tenza. Sullo sfondo la Valle, per orgoglio della propria storia la più tradizionalista tra le nostre regioni, fiera di avere anticipato, con una lotta che solo oggi appare vincente, la ribellione ai vincoli che da sempre avevano privato ingiustamente le donne del loro diritto naturale alla libertà. Ci sono nel romanzo, in cui si avverte subito la modernità dell’assunto, due figure femminili che i lettori non potranno dimenticare: la contessa Catherine di Challant, colta, esperta di lettere e di governo, che il padre ha voluto sua erede nella guida del territorio e dei sudditi, il cui potere è contestato dalla legge Comitale e dai parenti maschi. Di poco più giovane è l’altra protagonista, la tredicenne Dora Quey, intelligente e ribelle, che vive nel castello paterno a Villa Challant, destinata all’insulsa vita di corte limitata a interessi frivoli, mentre lei contesta tale sorte femminile comprendendo l’ingiustizia del sistema, finché conoscerà un pellegrino giovane a sua volta, il cavaliere Laurent de la Chavre che, come si saprà alla fine, è alla ricerca del suo vero padre. Parlando con lui, Dora scopre il piacere di un’affinità nelle idee e nei propositi che l’aiuta a comprendere la propria identità ancora acerba, mentre il ragazzo, cui era parsa bruttina, guidato dalla stima e dall’amore incipiente la vede poi con occhi diversi. Intanto, la Contessa, coinvolta dai pretendenti in una guerra sanguinosa, per meglio difendere i suoi diritti si rifugia nel castello di Villa Challant, oggi Issogne, protetta dall’affetto dei sudditi che combattono con lei. Interessante è la divisione in capitoli, in cui i protagonisti narrano i fatti secondo i propri punti di vista, a volte perfino in antitesi, ed è anche questo uno dei pregi del romanzo: la possibilità d’identificazione del lettore, libero di scegliere la propria verità. Nella Valle d’Aosta è rimasto vivo il ricordo di Chaterine, celebrata ogni anno, durante il Carnevale di Verrès, come il simbolo del luogo. Armanda Capeder Senza paura Lorenzo Del Boca (con Giuseppe Ruga), Il mistero del cavaliere, Piemme, Milano 2014, pp. 236, euro 16,50. Tutti conoscono il detto «cavaliere senza macchia e senza paura», ma ben pochi sono in grado di dire se la definizione sia riferita a un personaggio realmente esistito. Qual è la verità? E, prima ancora, quando nacque questo motto? Nacque all’epoca delle quattro «guerre d’Italia» che sconvolsero la Penisola tra la fine del XV e gl’inizi del XVI secolo, quando Spagna e Francia si spartivano il territorio a suon di assedi, battaglie, distruzioni e carneficine. In quegli eventi, emerse una personalità senza confronti, appunto il «cavaliere senza macchia e senza paura», del quale ora sappiamo tutto grazie al lavoro di ricerca e alla ricostruzione storica compiuti da Lorenzo Del Boca. Il personaggio in questione era Pierre Terrail di Bayard, il giovane e imbattibile comandante dei soldati al servizio del Re di Francia, qui in Italia conosciuto come il «Baiardo». Lorenzo Del Boca, giornalista e saggista, già presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, vicepresidente del Consiglio di amministrazione del Salone del Libro di Torino e autore di saggi storici di successo come Indietro Savoia! e L’Italia bugiarda, ha scandagliato ogni aspetto di quella straordinaria figura che dominò la storia militare d’Italia dei primi tre decenni del Cinquecento. Nato in Francia, a Pontcharra, nel 1471, Pierre Terrail si mise in luce nel 1494, a soli 23 anni d’età, combattendo al servizio di Re Carlo VIII durante la «prima guerra d’Italia». Da allora fu un crescendo. Imbattibile, imprendibile, maestro di spada e lancia, grande cavalleggero, il Baiardo si impose nella battaglia del Garigliano, nell’assedio di Genova, nell’assedio di Brescia, nella battaglia di Ravenna, nell’assedio di Pado- 745 va. Temerario e invincibile, ma anche galantuomo e leale (si era opposto al progetto di avvelenare Papa Giulio II), divenne ben presto una leggenda. Il suo momento fatale arrivò il 30 aprile 1524, durante la battaglia di Romagnano Sesia (oggi in provincia di Novara). «Pierre Terrail», scrive Lorenzo Del Boca, «cavalcava in fondo al gruppo, come ogni volta, come sempre. Primo, quando si andava avanti. Ultimo, se c’era da tornare indietro. Con il drappello dei suoi coraggiosi doveva proteggere la ritirata e, per esperienza, sapeva che era meglio collocarsi dove la strada si chiudeva a imbuto. All’imbocco di quel ponte di barche sul Sesia, dove la superiorità numerica degli spagnoli contava meno e valevano maggiormente il coraggio e la determinazione. Certo, Bayard pensava ancora a scontri con lancia e spada. Cavallereschi. Faccia a faccia. Occhi negli occhi. Ma ormai, in guerra, stavano prendendo piede quelle maledette macchine che lui detestava. [...] Una schioppettata lo piegò in due sul cavallo e lo sbalzò di sella». Fu l’inizio della fine. Con la schiena rotta dal proiettile, chiese ai suoi scudieri di esser adagiato contro un albero, con il volto rivolto verso i nemici. E così spirò. Lorenzo Del Boca cita in proposito gli splendici versi di Ludovico Ariosto dedicati alla tragedia di Orlando: «O maledetto, o abominoso ordigno, / che fabricato nel tartareo fondo / fosti, per man di Belzebù maligno, / che ruinar con te disegnò il mondo / all’inferno, onde nascesti, ti rasigno». Luciano Garibaldi L’alba della vita Daniele Mencarelli, Figlio, Nottempo, Roma 2014, pp. 82, euro 8. A tre anni da Bambino Gesù (Nottetempo 2010), Mencarelli intreccia nuovi versi sull’infanzia in Figlio, racchiudendoli nell’abbraccio 746 di due poesie: Padre, che dà forma a una figura forte nel «sacro spendersi» per il domani, e Madre, poesia-epilogo in cui la donna protegge la «carne della sua carne» fino all’ultimo sorriso contro il male. In un viaggio all’interno della propria paternità, l’autore mostra una vita in attesa, tra il silenzio di corsie d’ospedale «vuote d’umano» e spiragli di luce, aperti dalla gioia per una nuova vita, che porterà un figlio a diventare padre. Su questa «mappa del soffrire e del gioire» si muovono sguardi di genitori che percepiscono tutto il peso della fragilità e dell’impotenza umana, desiderosi di afferrare le risposte che salvano. Il dolore che urla da ferite ancora aperte, lasciate da esperienze che «schiantano», può aprire all’amore, «l’abbraccio della gioia che conosce / solo chi ha conosciuto il massacro». Passo dopo passo, il padre dona sostegno al primo figlio, che conquista un traguardo alla volta, «di stupore in scoperta». Il cammino, tuttavia, si ferma sulla diagnosi di autismo pronunciata da medici «con le dita a pistola», che fa inciampare anche il padre nel «fuoco d’odio», fino alla pronuncia della prima parola del piccolo, che schiude un nuovo tempo di luce. Poi, di fronte a un «silenzio che era battito», l’ombra della rabbia e del dubbio si fa strada e, nella terza sezione, il senso di colpa per aver negato la vita è doloroso come un «taglio preciso che spacca in due una vita», nel buio in cui le mani sfiorano un corredo mai indossato. Nell’ultima sezione, il Padre, «dottore senza camice» che concede tutto anche a chi l’ha respinto e odiato, dona un nuovo fiore, «una figlia da baciare inginocchiati», speranza per una famiglia che resiste insieme al male, una sola anima su una «zattera a due piazze». I versi accesi e attuali di Mencarelli portano alla luce la promessa di infinito che giace nelle vicende quotidiane, il sempre che dà senso al presente. In alta quota Roberto Vaiana, Free solo. La vita nelle mani, Idea Montagna, Piazzola sul Brenta 2013, pp. 176, euro 14,50. Un reality ambientato in un villaggio tra le Alpi Svizzere, venti arrampicatori professionisti e non, un consistente premio in denaro: sono questi gli ingredienti principali dell’avvincente libro di Roberto Vaiana, che si mescolano creando in ogni pagina momenti di suspense e dando l’impressione ai lettori di essere lì, soli sulla montagna, faccia a faccia con una ripida parete di roccia, potendo contare unicamente sulle proprie forze. I personaggi affrontano tutti in modo diverso la scalata che li porterà alla vetta: come le persone percorrono in maniere differenti la propria vita, così i protagonisti di The Mountain, lo spettacolo televisivo ideato per scuotere il mondo dei reality e avere un boom di ascoltatori, si approcciano alla scalata e quindi al premio finale secondo i propri caratteri, esperienze e aspirazioni, intrecciando alla gara le loro storie di vita. Non si può che leggere tutto d’un fiato la prima pubblicazione del chirurgo bresciano Roberto Vaiana, che, grazie alla passione per l’arrampicata, riesce a far vivere anche sulla carta le sfide, le emozioni e i sentimenti dei climbers. La prefazione dell’arrampicatore professionista Manolo avvalora la veridicità di tutto ciò che emana dalle pagine del libro, capace di coinvolgere anche un lettore estraneo al mondo del free climbing. Si crea infatti una sorta di parallelismo tra la scalata e la vita, entrambe composte da successi e cadute, più o meno gravi, che però non devono far dimenticare che tutto ha uno scopo, uno scopo per ora a noi solo parzialmente chiaro. Elena Artoni Francesca Turra ARES NOVITÀ Javier Medina Bayo Álvaro del Portillo Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei pp. 760 € 22 Javierr Medinaa Bayo ÁLVARO DEL PORTILLO Ill primo o successore dii san n Josemaría alla a guida a dell’Opuss Dei Álvaro del Portillo INTERVISTA SUL FONDATORE DELL’OPUS DEI A cura di Cesare Cavalleri Gerhard Ludwig Müller La speranza della famiglia A cura di Carlos Granados Prefazione del Card. Fernando Sebastián pp. 80 € 9,50 Álvaro del Portillo Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei A cura di Cesare Cavalleri pp. 288 € 14 Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenerw i volumi con lo sconto del 20% richiedendoli alle Edizioni Ares - Via Stradivari, 7 - 20131 Milano - Tel. 02.29.52.61.56 - fax 02.29.52.01.63 - www.ares.mi.it IN LIBRERIA doppia La Doppia classifica, come dice il nome, si divide in due parti. La pagina sinistra, qui sotto, offre una classifica mensile dei libri più venduti, compilata rielaborando le liste dei bestseller diffuse dalle principali fonti giornalistiche. Vale come un sintomo dell'aria che tira nel mercato editoriale. Il numero su fondo nero ¶ indica la posizione attuale; il numero su fondo chiaro ¬ indica la posizione nel mese precedente; la stellina H segnala le nuove entrate. La presente elaborazione si riferisce al mese di settembre 2014. Letteratura Saggistica & varia ¶ H Ken Follet, I giorni dell’eternità, Mondadori, Milano 2014, pp. 1.224, € 25. ¶ H Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014, pp. 162, € 14. L’uomo dai 150 milioni di copie vendute agguanta la classifica con un «mastodonte» che conclude l’epica trilogia di The Century: storia di 5 famiglie dagli anni Sessanta al collasso del muro di Berlino. Peccato che questo Big sia così suscettibile verso il Cristianesimo: nel 2010 protestò per la visita di Papa Benedetto XVI nel Regno Unito. · ¬ John Green, Colpa delle stelle, Rizzoli, Milano 2014, pp. 348, € 16. Due adoloscenti malati si amano per il tempo loro concesso dal cancro. Ottima la storia, deludente la scrittura. Il film continua a trainare il libro: per approfondire c’è Eleonora Fornasari a p. 732. ¸ H Andrea Camilleri, Donne, Rizzoli, Milano 2014, pp. 210, € 17,50. Camilleri cerca di condensare in 39 cammei l’«infinito vastissimo mondo femminile», ma è ossessionato dall’insistenza carnale. Qualche lettore sul web l’ha infilzato assimilandolo ad Alvaro Vitali... ¹ ® Zusak Markus, Storia di una ladra di libri, Frassinelli, Milano 2014, pp. 564, € 16,90. Auguriamo alla bambina che salva le persone dal fuoco nazista di ri-superare quanto prima chi la precede. 748 «Non respira, non conta più nulla, arranca, è povera, marginalizzata, i suoi edifici crollano, i suoi insegnanti sono umiliati, i suoi alunni non studiano, sono distratti o violenti, difesi dalle loro famiglie, capricciosi». È la foto della nostra scuola e l’incipit di un intenso pamphlet che crede ancora nell’incontro tra maestro e discepolo. Coraggioso e sfidante. · e ¹ H Io sono con voi. Catechismo per l’iniziazione cristiana dei fanciulli (6-8 anni) e (9-10 anni), Cei, Roma 1991, pp. 192, € 5,50. Chissà che un giorno qualcuno non si metta a studiare la storia nascosta di questi sussidi per la Fede. Dagli inizi degli anni Novanta (con gli auspici del card. Ruini) continuano a seminare la Buona Novella e a vendemmiare le vendite d’autunno... ¸ H Geronimo Stilton, Nono viaggio nel Regno della Fantasia, Piemme, Milano 2014, pp. 384, € 23,50. Il topolino senza paura alla ricerca della Regina delle Fate, del Libro dei mille incantesimi, della Sfera di cristallo e della Bacchetta sussurrante. Dovrà passare per mille asperità, dal Regno dei ragni invisibili all’Impero dei serpenti sibilanti. Un thriller per lettori di 9 anni che divertirà anche i papà. º H Sveva Casati Modigliani, Il bacio di Giuda, Mondadori, Milano 2014, pp. 140, € 12,66. º H Federico Rampini, Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 288, € 18. Dopo Il Diavolo e la rossumata (2013), l’autrice milanese ritorna a tuffarsi in modo egregio nella propria memoria: dal crudo Dopoguerra alla Ricostruzione. «Il tecno-totalitarismo che avanza non è neutro né innocente». Viaggio scomodo e controccorente, oltre le semplificazioni e gli idealismi. classifica IN REDAZIONE di Mauro Manfredini Qui sotto, nella pagina destra, figura un'altra classifica, che non si basa sulle vendite ma sulla qualità: è una rassegna di volumi consigliabili e consigliati sulla base del gusto, del buonsenso e di opinioni magari sindacabili ma, di norma, non dissennate. Entrambe le classifiche, quella di destra e quella di sinistra, sono accompagnate da brevi giudizi che forniscono sintetiche indicazioni critiche per un tempestivo orientamento e non pregiudicano recensioni particolareggiate in successivi numeri della rivista. Letteratura Saggistica & varia ¶ Donna Tartt, Il cardellino, Rizzoli, Milano 2014, pp. 892, € 20. ¶ Francisco Fernández-Carvajal, Parlare con Dio, 4 voll. inseparabili, Ares, Milano 2014, pp. 3.828, € 90. Theo ha 13 anni quando un attentato uccide sua madre scempiandogli la vita: troverà conforto in un piccolo quadro dal fascino enigmatico. Donna Tartt ritorna a scrivere dopo 10 anni, vince il Pulitzer e conquista milioni di lettori. A p. 716 Guido Vassallo indaga i retroscena della sua creatività. Ritorna in libreria la più celebre opera di Francisco Carvajal, una raccolta di meditazioni, una al giorno per tutto l’anno, per presentare tutti i temi di cui un cristiano ha motivo di trattare nell'intimità con suo Padre-Dio. Perché parlare con Dio non è un obiettivo riservato a gente speciale: da tutti Dio aspetta amore. · Patrick Modiano, Dora Bruder, Guanda, Milano · Robert Spaemann, Dio e il mondo, Cantagalli, La straziante ricerca di una ragazza ebrea scomparsa nella Parigi del ‘41: un ottimo libro per conoscere il meritato quanto inaspettato Nobel 2014 (cfr p. 714). L’autobiografia del più grande filosofo cattolico vivente: un evento editoriale e una via privilegiata al suo affascinante pensiero. Traduzione di Leonardo Allodi. ¸ Robert F. Scott, L’ultima spedizione, Nutrimenti, Milano 2014, pp. 592, € 22. ¸ Antonio Maria Sicari, Il tredicesimo libro dei Santi, Jaca Book, Milano 2014, pp. 80, € 9,50. Per la prima volta l’edizione integrale dei Diari di Scott, assiderato al Polo a pochi km dalla salvezza: un classico che va oltre la storia delle esplorazioni. L’infaticabile agiografo carmelitano propone 11 nuovi splendidi «ritratti» da leggere e imitare, tra questi, san Pietro, Matteo Ricci, Tommaso Becket, Giovanni Piamarta, Katharina M. Drexel, Jérôme Lejeune, Ettore Boschini, Shahbaz Bhatti. 2011, pp. 136, € 14,50. ¹ Julio Cortazar, A passeggio con John Keats, Fazi, Roma 2014, pp. 672, € 19,50. Un saggio straniante, una biografia notturna, scritta negli Anni ‘50 a Buenos Aires, e soprattutto, un dialogo tra due anime tormentate dal demone della bellezza e separate da un secolo: di rara intensità. Siena 2014, pp. 352, € 22. ¹ Piero Boitani, ll grande racconto delle stelle, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 616, € 65. Abbiamo consigliato il suo Ulisse, ma questa ricognizione tra miti, poesie e stelle è più vertiginosa. º Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti, Adelphi, Milano 2012, pp. 234, € 20. º Marco Bussagli, I denti di Michelangelo, Medusa, Milano 2014, pp. 174, € 19. «Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo»: Zagajewki è un grande poeta, polacco, come Milosz, Szyimborska o Karol Wojtyla. Verità nascoste. Michelangelo ritraeva con un incisivo in più le persone senza la grazia di Cristo: è solo una delle molteplici sorprese racchiuse nel nuovo saggio di Marco Bussagli. 749 FAX & DISFAX Noi & gli altri «Come famiglia, i Levov seguivano ancora la rotta del razzo degli immigrati, la continua traiettoria verticale dal bisnonno sfruttato come uno schiavo al nonno animato dall’ambizione, al padre indipendente, abile e sicuro di sé, fino al membro della famiglia che puntava più in alto di tutti, il figlio della quarta generazione per il quale l’America doveva essere il vero paradiso» (Philip Roth, Pastorale Americana, Einaudi, Torino 1998, p. 124). L’Italia è, tra le democrazie occidentali ad alto sviluppo sociale, industriale, sindacale e politico – forse anche culturale (perché viviamo di rendita sull’antico) –, l’unica a non aver assistito al percorso verticale dei suoi immigrati; non ancora. Ma l’America è un Paese generoso nelle opportunità e feroce nelle regole; noi siamo generosi nell’accoglienza e confusionari nelle regole. Regole chiare e giuste favoriscono dialogo, integrazione socio-economica, pacificazione tra diversi. Ma quel percorso verticale che in America ha visto salire gli italiani, gli ebrei, gli irlandesi, poi i latinos, i cinesi, i coreani e adesso anche il black people, avveniva ed era reso possibile – come per il padre di John Fante in La confraternita dell’uva – in un Paese ad alto tasso di sviluppo dove la scuola e una laurea non si negavano a nessuno, ma un conto era aver frequentato la Columbia University, altro il Pennsylvania Military College; 750 insomma, una questione di merito legata a chi te lo riconosceva. La competizione è l’anima della crescita, del famoso andamento a razzo di cui parla Roth. Ciò che favorisce la crescita è la costante osservanza del principio di non contraddizione; l’andamento verticale, anche quello della famosa «crescita», deve poter avvenire senza intoppi logici, perché è il pensiero che guida l’azione. Facciamo degli esempi. Dice: gli stipendi dei manager pubblici devono adeguarsi a quello di Napolitano. Domanda: perché non portare lo stipendio di Napolitano a 120mila? Dice: compri casa per darla in affitto per otto anni a prezzo basso e risparmi il 20 per cento della spesa; però la legge non mi garantisce dal moroso eventuale né lo sfratto immediato, come in America nei fabbricati a rent controll. Dice: tasse da tutti meno tasse per tutti, ma se i tagli di spesa incidono sui consumi, entrerà meno Iva a fronte di tasse più alte. Dice: con più figli ingresso garantito alla scuola materna, ma i primi a entrare sono i latinos, i bengalesi, gli indiani. Gli immigrati stanno riaprendo arti e mestieri che gli italiani avevano dismesso, gli ambulanti italiani hanno affittato furgone, licenza e spazio di mercato a indiani e marocchini, mentre i titolari aspettano al bar; e infatti anche quasi tutti i camion-bar ambulanti sono gestiti da immigrati. Dice Shipon, dal Bangladesh: «Bengalese, uno lavora e sei mangia». E sei dormono in una camera e cucina, i letti a castello hanno quattro piani. I subaffitti in nero pullulano, nei condomini di periferia tra bollette, spese generali e vitto, il sogno di aver comprato casa sta naufragando, senza l’immigrato cinese o marocchino o rumeno arriverebbe l’ufficiale giudiziario, ma si sa che le case all’asta si deprezzano a ogni giro, specie per queste abitazioni di periferia. La periferia. A sud di Roma, lungo le direttrici CasilinaPrenestina-Tiburtina-Collatina, specie di venerdì, di Roma appare ben poco. I mullah sono in concorrenza tra loro per accaparrarsi sottoscala uso moschea, fedeli, finanziamenti e credito; non c’è la nazione marocchina, bengalese, egizia e via distinguendo, ma un’unica nazione islamica che si ritrova e si riconosce nel percorso orizzontale dell’identità coranica; la moschea è anche scuola e suggeritrice di comportamenti. Qui a Centocelle di venerdì convergono tutti gli immigrati che si sono ormai da anni allocati lungo la direttrice del vecchio tranvetto, un trenino elettrico che da Termini arriva in fondo alla Casilina da dove si diramano gli autobus verso l’entroterra; è una specie di farwest che sta invadendo i vecchi carovanieri nostrani che dagli anni Settanta, prima l’orto e poi la villetta abusiva, hanno popolato un Sud di Roma poi pianificato e per alcuni anni creato isole di vivibilità: la parrocchia, il campetto, la pizzeria, il giardinetto, il baretto, il supermercato, l’autobus che va su e giù. Alle cinque di mattina c’era, e c’è ancora, il viavai di quelli, ormai accasati, che vanno a lavorare «in città». Altrove, metti in America, prima fanno la metro e poi le case; qui da noi il contrario, e ci vogliono decenni. Solo all’Eur è successo il contrario, per l’Esposizione fascista del ’42, sospesa dal- di Franco Palmieri la guerra. Chi ha faticato due vite – il padre, il figlio, e adesso il nipote, la famosa verticalità sociale di Roth – osserva l’invasione afroasiatica con una certa apprensione. Il dialogo. Le istituzioni dicono che il dialogo è alla base della convivenza. Con i latinos è facile, durante i campionati di calcio in Brasile il calzolaio cileno litigava con il meccanico romanista e facevano il tifo polemico nello stesso bar. I romeni, gli ucraini, poi, li trovi laddove il falegname, l’idraulico, il muratore italiano non ci sono più. Ma tra velature muliebri e barbe afghane il dialogo è difficile anche per una questione di lingua. Uno più insinuante, magari anche astuto, gli si avvicina perché, certo, anche loro così lontani e così vicini sono per il dialogo. Però la seconda domanda è più difficile, ne potrebbe derivare una reazione: nell’ebraismo, nel cristianesimo il dialogo può anche essere critico, l’obbedienza problematica, l’incontro difficile ma paziente perché lì ci sono uomini di buona volontà e il maestro sente e ascolta l’inquietudine del fedele. Avrebbe voluto dire, più chiaramente: c’è dialogo critico nella vostra fede o solo obbedienza cieca, quella che forse arriva anche a ottundere la ragione? Che costruisce distanze? O c’è solo quella cosa, la guerra fratricida tra sciiti e sunniti? In certe periferie italiane chi torna a casa di notte non vorrebbe far lavorare la fantasia, tornare alla scena primordiale dello scannamento del nemico visto in televisione, immaginarsi uno che da dietro, zac!, e sai che è vero. Essì, con queste fantasie in testa il dialogo diventa difficile. Il giovane mullah ride, la sua candida palandrana svolazza al venticello e il suo sorriso barbuto sa essere convincente, siamo fratelli nel Dio unico, e del resto le cerimoniosità alla corte di Solimano il Magnifico hanno istruito tante diplomazie occidentali, in altre epoche. Sembrava incancellabile lo scenario di Casablanca, il film con Bogart e Bergman, dove marocchini e francesi si riconoscevano in quei ritrovi fumosi conditi con la danza del ventre. Capisci, dopo un po’, dopo qualche giorno a gironzolare per queste periferie linde e pinte, le inferriate alle finestre e le porte blindate, che il dialogo, i suoi effetti, si manifestano nella quotidianità, nei rapporti che si stabiliscono tra le persone. I convegni, quelli alti dove la tematica del dialogo ha esaurito tutti gli argomenti possibili, sono come le scuole di musica: dopo devi essere tu a suonare bene lo strumento. Eccoli allora i finti ragazzotti disoccupati, stravaccati al bar, in realtà carabinieri pazienti e accorti che forniscono alle istituzioni il quadro reale della città. E poi? Un diffuso clima indagatorio, fatto con tutto il rispetto possibile, quando diventa manifesto e ufficializzato nei discorsi della politica che soffia sul populismo dove la paura è strumento di coesione, viene percepito come una persecuzione e ottiene l’effetto contrario. È quel momento difficilissimo quando stai cercando di avvicinarti a chi non vuol essere capito il quale conserva una segretezza rigorosa e intransigente fondata sul rifiuto di chi non è come te, e col quale forse parlerà quando avrai accettato di diventare come lui; e se rifiuti? Non è contemplato, lui è nel vero e nel santo e tu lo rifiuti, perciò sei il nemico. Vai eliminato? Tutto questo è molto elementare, ma i livelli di conoscenza vengono proporzionati al livello dei discepoli. Degli adepti. La risposta c’è, particolarissima: dove gli immigrati arrivano, la prima questione è economica. Noi siamo il loro mercato; chiuderanno le frutterie marocchine, le kababerie (sic) egiziane, i baretti bengalesi, i barbieri cinesi; no, i barbieri cinesi no, come ti tagliano i capelli loro per cinque euro non lo fa nessuno. Forse gli immigrati, da Sud, Est, Nord e Ovest dovrebbero cominciare a capire che gli italiani non hanno pregiudizi verso il «diverso», anzi lo accasano e ci scherzano, sono pronti a ogni intrallazzo, già si dice in giro che per fregare un romeno ci vogliono due napoletani; e guai a interpretare questa accoglienza semplice e spontanea come una ingenuità. Se un italiano ti chiude la porta non te lo dice, te lo dimostra, e riaprirla quella porta sarà poi più difficile. ‘Cca nisciuno è fesso. Ma questo è il punto: chi ti dà la patente di non essere fesso? Guarda un po’: il governo introduce per legge nella scuola carriera e stipendio legati al merito. E i maestri fessi chi se li becca? Dove li mettiamo? È il mullah che ha stabilito per legge suprema e inappellabile che, lì, dalle loro parti, nessuno può essere fesso. Tutti promossi, tutti maestri. E non è finita. Se poi le ragazze bengalesi o del Nord Africa continueranno nei segreti tentativi di sbiancarsi il volto con le pomate, allora forse il destino dell’Occidente è nelle loro mani. 751 LIBRI RICEVUTI Ringraziamo gli editori per l’invio delle loro novità. Il giudizio critico, nei limiti dello spazio disponibile alle rubriche, è cronologicamente indipendente da questo annuncio bibliografico. Roberto Martone, I passi fermi e gli effimeri giardini, introduzione di M. Bacigalupo, De Ferrari, Genova 2014, pp. 114, euro 12. Luciano Erba, I miei poeti tradotti (Testi originali e traduzioni), a cura di F. Buffoni, Interlinea Edizioni, Novara 2014, pp. 312, euro 18. Mecenate, Frammenti e testimonianze latine, a cura di Stefano Costa, La Vita Felice, Milano 2014, pp. 294, euro 13,50. Emma Fattorini (cur.), Diplomazia senza eserciti (Le relazioni internazionali della Chiesa di Pio XI), Carocci editore, Roma 2013, pp. 228, euro 25. Massimo Montanari, I racconti della tavola, Gius. Laterza & Figli, RomaBari 2014, pp. 218, euro 18. Guillaume Apollinaire, La canzone del non-amato, versione di Piero Marelli, prefazione di Marco Rota, La Vita Felice, Milano 2014, pp. 56, euro 7,50. John Baillie, Saggio sul sublime, a cura di S. Turco, Book Editore, Ro Ferrarese 2014, pp. 96, euro 12. Emanuele Banfi, Lingue d’Italia fuori d’Italia (Europa, Mediterraneo e Levante dal Medioevo all’età moderna), il Mulino, 2014, pp. 392, euro 32. Mario Bertin - Alessandro Ciamei (cur.), Frate Francesco – Le fonti, Castelvecchi, Roma 2014, pp.190, euro 16,50. Roberto Bizzocchi, I cognomi degli italiani (Una storia lunga 1000 anni), Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 2014, pp. 248, euro 24. Giuseppe Brienza, La difesa sociale della famiglia (Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, vescovo di Prato), Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2014, pp. 162, euro 15. Davide Brullo, Infanzia, GuaraldiLAB, Rimini 2013, pp. 114, euro 10. Vittorio Cagnoni, Baden (Vita e pensiero di mons. Andrea Ghetti), Tipi Edizioni, Belluno 2014, pp. 580, euro 24. Pietro Citati, I Vangeli, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014, pp. 154, euro 22. Bianca Garavelli, L’oscurità degli angeli (Racconti), Giuliano Landolfi Editore, Borgomanero 2013, pp. 102, euro 10. Alessandro Grilli (cur.), Adone (Variazioni sul mito), Marsilio Editori, Venezia 2014, pp. 248, euro 9. Marco Guzzi, Parole per nascere (Poesie di un nuovo inizio), Paoline, Milano 2014, pp. 176, euro13,50. Paolo Isotta, La virtù dell’elefante (La musica, i libri, gli amici e San Gennaro), Marsilio, Venezia 2014, pp. 590, euro21,50. C.S. Lewis, L’ultima notte del mondo, Castelvecchi, Roma 2014, pp.140, euro 16. Mario Livio, Cantonate (Perché la scienza vive di errori), BUR, Milano 2014, pp. 462, euro 13. Antonio López, Rinascere (La memoria di Dio in una cultura tecnologica), traduzione dall’inglese di T. Siciliano, Lindau, Torino 2014, pp. 152, euro 19. Mary Eberstadt, Cómo el mundo occidental perdió realmente a Dios, Ediciones Rialp, Madrid 2014, pp. 302, euro 21. Rodolfo Lorenzoni - Aldo Maria Valli, Viva il Papa? (La Chiesa, la fede, i cattolici. Un dialogo a viso aperto), Cantagalli, Siena 2014, pp. 142, euro 12,50. Mircea Eliade, Salazar e la rivoluzione in Portogallo, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, Edizioni Bietti, Milano 2013, pp. 314, euro 24. Giusepper Lupo, Atlante immaginario (Nomi e luoghi di una geografia fantasma), Marsilio Editori, Venezia 2014, pp. 160, euro 15. Giovanni Pascoli, Poemi cristiani, a cura di A. Traina, traduzione di E. Mandruzzato, nuova edizione riveduta e ampliata, Lindau, Torino 2014, pp. 232, euro 19. Eros Pessina, In viaggio (Poesie e racconti nel tempo), Genesi Editrice, Torino 2014, pp.56, euro 8. Enrica Salvaneschi - Silvio Endrighi, Libro linteo (Titolo IV. Efemeride), Book Editore, Ro Ferrarese 2014, pp. 80, euro 14. William Shakespeare - Anthony Munday - Henry Chettle - Thomas Dekker - Thomas Heywood, Tommaso Moro, a cura di E. Rialti, traduzione di J. Pearce, Lindau, Torino 2014, pp. 188, euro 18. Renato Spaventa, L’altra riva del fiume (Il viaggio del perdono), Libro + Dvd, Intento, Roma 2014, pp. 64, euro 22. Hans Tuzzi, Il mondo visto dai libri, Skira Editore, Milano 2014, pp. 156, euro 15. Aldo Maria Valli, Con Francesco a Santa Marta (Viaggio nella casa del Papa), Ancora Editrice, Milano 2014, pp. 80, euro 10. Piero Viotto, Paolo IV – Jacques Maritain (Un’amicizia intellettuale), Studium, Roma 2014, pp.300, euro 19. Roberto Volpi, La nostra società ha ancora bisogno della famiglia? (Il caso Italia), Vita e Pensiero, Milano 2014, pp. 176, euro 15. Questo fascicolo (n. 644) è stato chiuso in tipografia il 21 ottobre 2014. Il fascicolo precedente (n. 643) è stato consegnato al C.M. Postale di Perugia, per l’inoltro agli abbonati e alle librerie, il 25 settembre 2014. 752 ARES NOVITÀ JAVIER ECHEVARRÍA Eucaristia & vita cristiana & vita cristiana Javier Echevarría Eucaristia & vita cristiana pp. 264 € 16 «Queste pagine raccolgono riflessioni sgorgate dalla fede e rivolte anzitutto al credente. Ma potranno riuscire utili anche a chi non possieda la fede cristiana: lo aiuteranno a capire qualcosa sui motivi della vita e della speranza dei cristiani; dei nostri sforzi per essere migliori e per aiutare gli altri a raggiungere questa meta; del nostro gioioso coraggio per ricominciare dopo gli errori – piccoli o non tanto piccoli che siano – che costellano l’esistenza umana. Quei motivi si trovano proprio nell’Eucaristia» (Dal Prologo dell’Autore). Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenere lo sconto del 20% richiedendo il volume alle Edizioni Ares - Via Stradivari, 7 - 20131 Milano - Tel. 02.29.52.61.56 - fax 02.29.52.01.63 - www.ares.mi.it Belloni IMPRESA EDILE SRL Costruzioni industriali e civili Ristrutturazioni Manutenzioni Ingegneria civile VIA DOMENICHINO, 16 - 20149 MILANO Telefono 02 48009130 - Fax 02 48008492 [email protected] eni.com
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