scenografie di un ritorno - IISS "Francesco De Sanctis"

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scenografie di un ritorno - IISS "Francesco De Sanctis"
SCENOGRAFIE DI UN RITORNO
( Orazio, sermones I, 5, vv. 50-85 )
1- L’allegra sosta a Caudio, nella villa di Cocceio Nerva (50-70), condivide con l’animata
traversata delle paludi Pontine ( 9-23 ) il primato dei versi riservati da Orazio alle varie tappe del
suo iter Brundisinum (serm. 1.5), composto sul modello dell’iter Siculum di Lucilio secondo il
metodo ellenistico dell’oppositio in imitando. Se poi si tien conto che altri sei versi sono dedicati
alla tumultuosa cena di Benevento (71-76), e ben nove alla notte dell’inganno d’amore trascorsa
nella Trivici villa (77-85), il soggiorno in Hirpinis occupa in tutto oltre un terzo dell’intera satira1.
Per un poeta come il Venosino non può trattarsi di una scelta dettata da scrupolosa obiettività
narrativa. Il viaggio fu certamente molto più lungo di quello raccontato nella longa charta, sicché i
luoghi, i fatti ed i personaggi che vi compaiono non furono selezionati a caso. Hanno ben ragione il
Gigante (p. 40) ed il Fedeli (p. 293) nel sostenere che la quinta satira del primo libro dei sermones
non è un semplice resoconto di cronaca odeporica, bensì un vero e proprio diario intimo del poeta,
una sorta di nÒstoj intellettuale e sentimentale verso la terra-madre, nella quale la sua vita, ormai
nobilis, aveva posto umili ma salde radici.
Ma perché un così gran rilievo alle tappe irpine? Le motivazioni, a mio avviso, potrebbero
essere state non poche e di varia natura. In primo luogo va ricordato che Venosa, prima di diventare
colonia latina nel 291 a.C., faceva parte della confederazione sannitica e molto probabilmente,
come sostiene il Salmon (p. 45), era compresa, insieme a Lucera, nell’œqnoj tîn `Irp…nwn2. Seppur
ciò non corrispondesse esattamente alla verità storica, è senz’altro vero tuttavia che il territorio
degli Irpini era alquanto vicino se non proprio confinante con l’ager Venusinus, ed i rapporti fra le
due aree sono archeologicamente attestati ancor prima che esse fossero sottoposte alla giurisdizione
romana. Inoltre, poco a nord di Compsa, uno dei principali oppida irpini, si trovavano le ricche
sorgenti dell’Aufidus, fiume tanto familiare al poeta da assurgere a simbolo del suo carattere
insofferente, irascibile e combattivo: acer (serm. 1.1.58), violens (carm. 3.30.10), longe sonans
(carm. 4.9.2), tauriformis (carm. 4.14.25), insomma quasi un destino già scritto in quelle acque che
scendendo dalle alture irpine irrigavano i primi lembi della siticulosa Apulia. L’Ofanto scorre ad
una certa distanza da Venosa, eppure i ricordi oraziani sono così vivi che non si può non
ammetterne una conoscenza diretta, identica a quella che il poeta ebbe del Vulture e di alcuni
piccoli insediamenti prossimi alla sua città natale (Aceruntia, Bantia, Forentum - carm. 4.4.14-16), i
quali venivano a costituire il piccolo grande orizzonte della sua fanciullezza. Chissà che Orazio non
abbia visto talvolta l’Ofanto proprio nel territorio degli Irpini: gli aggettivi che per esso adotta si
addicono più ad un torrente che ad un fiume, e l’Ofanto appunto, in alcuni periodi dell’anno, scorre
a mo’ di torrente prima di raggiungere la pianura. Che l’Ofanto poi avesse rappresentato
nell’immaginario fanciullesco di Orazio la barriera che lo divideva dal mondo suggestivo e
affascinante ma quasi irraggiungibile di Roma è un’ipotesi che mi sento di poter avanzare senza
1
Nel tragitto in Hirpinis non a caso ho incluso anche il soggiorno a Caudium. I Caudini erano sicuramente di stirpe
italica, ma tuttora si discute se facessero parte del Samnium ovvero costituissero insieme agli Irpini un’area
politicamente autonoma (oltre all’ormai classico Il Sannio e i Sanniti di E.T. Salmon cfr. A. La Regina, I Sanniti, e G.
Tagliamonte, I Sanniti, Longanesi, Milano 1996). Durante l’età romana la loro identità etnica e territoriale andò
gradualmente offuscandosi. Augusto assegnò l’intero ager dei Caudini alla colonia di Beneventum, ancora ben nota
come città di etnia irpina (Plinio, che in N.H. 3.105 registra un dato di fatto ormai consolidato, li annovera in regione
Hirpinorum). Non è improbabile che a Orazio sfuggisse l’antica distinzione fra le due popolazioni. In ogni caso, per lui
Caudium si collocava all’inizio di quella traiettoria memoriale che doveva ricondurlo alle sorgenti della sua vita.
2
Orazio sembra conoscere la storia antica della sua patria: in serm. 2.1, colloquiando con l’amico Gaio Trebazio Testa,
famoso giureconsulto anch’egli di origine meridionale (Velia), allude chiaramente alla sottomissione degli Italici da
parte di Roma (pulsis...Sabellis), e quindi alla loro nuova e misera condizione sociale (35-36). In altra composizione
(epist. 1.16), indirizzata all’amico Quinzio, probabilmente lo stesso Quinzio Irpino di carm. 2.11, egli si dichiara
espressamente Sabellus (49), che non giudico affatto sinonimo di Sabinus, come pure alcuni commentatori intendono.
Tale autoidentificazione etnica potrebbe anche ritenersi come la risoluzione del dubbio sollevato nei lettori dal poeta, a
mo’ di arguta quaestio, sulla propria origine in serm. 2.1.34 (Lucanus an Apulus anceps), e quindi come un’orgogliosa
rivendicazione di quella italicità che costituiva “il lievito della sua ispirazione e della sua arte” (D. Gagliardi, p. 192).
alcuna remora: la rappresentazione poetica del fiume mi pare ovunque metaforica, giacché traduce
il temperamento naturale del figlio di una terra aspra e fiera (fÚsij) che la disciplina intellettuale e
letteraria acquisita a contatto con la grecità e la romanità (nÒmoj) non riuscì mai a domare
compiutamente.
Benevento, quindi irpina, è certo che fosse la patria del plagosus Orbilius (epist. 2.1.71), alla
cui scuola di grammatica, in Roma, Orazio fu condotto ancora parvus dal pater optimus. La notizia
circa la sua terra d’origine ci è giunta grazie a Suetonio (de grammatici et rhetoribus, 9), ed è
attendibile. Ci è sconosciuto il motivo della scelta di un tal maestro; che abbia potuto suggerirla la
comune origine non sarebbe un’ipotesi da scartare, in considerazione del fatto che nell’antica Roma
i vincoli etnici avevano un loro indiscutibile peso politico e sociale. Avrà però contribuito anche la
buona fama di Orbilio, che le annotazioni di Suetonio e di Macrobio (Saturnalia, 2.6.4), sebbene
improntate a toni critici, non mettono affatto in discussione3.
Quasi sicuramente di origine irpina era pure l’amico Quinzio al quale è dedicata l’ode 2.11,
scritta tuttavia dopo il primo libro delle satire. Orazio gli si rivolge con la formula Hirpine Quinti, e
la maggior parte dei commentatori ritiene, in analogia con il Crispe Sallusti della 2.2, che si tratti di
una sarcastica inversione della normale sequenza nome-cognome. Non c’è dubbio che la prolessi
del cognomen fornisce al poeta, nel caso di Sallustio, la possibilità di recuperarne l’accezione
originaria e di esprimere per il suo tramite un personale giudizio tra il serio ed il faceto. Come per
dire: nomina sunt consequentia rerum. Credo che altrettanto non si possa affermare a proposito di
Quinzio, anche se lo schema espressivo è lo stesso, anzi con una più marcata funzione fatica.
Hirpinus come cognome è rarissimo e per giunta di dubbia autenticità; potrebbe invece trattarsi di
un etnico, collocato in posizione enfatica per consigliare all’amico una filosofia di vita, quella
epicurea, da cui non dista poi tanto il modello italico dell’abnormis sapientia e del vivere parvo,
altrove felicemente simboleggiato dal contadino Ofello; quindi, per ricordargli la cultura della sua
gente alla quale poco si addice la condizione di cittadino tormentato da angustie vane. Se tale
interpretazione fosse quella giusta, non sarebbe difficile dare una più precisa identità all’amico
Quinzio. Potrebbe verisimilmente trattarsi di un discendente di C. Quinctius Valgus, ricchissimo
possessor Sullanus e suocero di P. Servilio Rullo4. La Quinctia Valga era con molta probabilità la
gens irpina più potente e più in vista di Roma nel I a.C.
Questi i legami, più o meno documentati, di Orazio con la terra irpina, e certo non tanti e tali
da spiegare del tutto sia il rilievo particolare ad essa dato nell’economia del racconto, sia il tono
bonario e meno caustico che altrove con il quale vengono rievocati gli episodi di Caudio, Benevento
e Trevico. Il poeta infatti dà l’impressione di trovarsi in ambienti a lui molto familiari, e le stesse
disavventure non ne inaspriscono l’animo: la cena di Caudio viene prolungata iucunde fino a notte
fonda, l’oste di Benevento benché sprovveduto è tuttavia sedulus (ah, com’è tipicamente
meridionale questa figura!), la fanciulla di Trevico è sì chiamata mendax ma certo nel verso spicca
con maggiore evidenza, posto fra le due cesure, quel lungo stultissimus che egli si attribuisce.
L’Irpinia poi è la terra da cui incipit...montes Apulia notos / ostentare mihi, quos Atabulus torret...,
è cioè la vigilia di un’agognata e trepida ¢nagnèrisij, che nella poesia oraziana avrà sempre una
funzione altamente evocativa e, come la definisce il Gigante, epifanica (passim). Che poi
l’attraversamento dell’Apulia non desti nessun incanto, anzi procuri molta fatica, poco conta per
l’illustre viator: nel suo cuore la terra-madre ha ormai assunto connotati mitici, incancellabili, con i
quali palesemente vuole che confligga la misera e triste realtà dell’oppidulum dove venit vilissima
3
La pungente polemica di Orazio contro il suo antico maestro a me sembra nascesse non tanto dai modi bruschi
adottati, dei quali esiste traccia anche in un frammento (4, Morel) dell’altro illustre discepolo Domizio Marso, quanto
da un esagerato apprezzamento della letteratura arcaica, che tendeva a svalutare quella contemporanea. Il giudizio
negativo del Venosino trova per altro conferma in un frammento di Furio Bibaculo (3 Morel), nel quale Orbilio viene
definito litterarum oblivio, espressione che sintetizza molto bene il disprezzo che nutrivano i nuovi poeti verso gli
austeri ma incompetenti alfieri della tradizione.
4
cfr. Cicerone, de lege agraria. Sebbene nessun altro indizio lo suggerisca, tranne l’identità del nomen (la lezione
epigrafica, che possediamo, è Valgius e non Valgus; cfr. A Degrassi, ILLRP n. 523), non è affatto improponibile
l’appartenenza ad altro ramo della stessa gens del poeta C. Valgio Rufo, uno degli amici più cari di Orazio.
rerum.../ aqua, di Canosa dal panis lapidosus, e di Ruvo raggiunta longum / carpentes iter et
factum corruptius imbri.
“ Lo spazio vissuto - afferma P. Rossi (p. 65) - riveste nella poesia di Orazio un ruolo di
notevole rilievo. La nostra carta geografica, infatti, risente in larga misura della frequenza con cui il
poeta ripensa e ritrae i luoghi dei quali ha più diretta conoscenza ed esperienza di vita”. E non mi
sembra un’affermazione infondata, tanto più che negli studi più recenti su Orazio il tema della
geografia della percezione, seppur con varia lettura e diversa funzione, è centrale e ritorna
sistematicamente e con ampia documentazione testuale. Con ciò non intendo affatto identificare
come “spazio” autenticamente vissuto anche l’ager Hirpinus, il che rappresenterebbe una forzatura
inaudita, ma semplicemente cercare una ragione plausibile alla sua considerevole presenza nella
satira del viaggio. Al momento della composizione la percezione geografica del poeta ha come
luogo materiale di avvio la città di Roma, e muovendo da Roma il percorso della memoria si
proietta su di una traiettoria che ha come punto di arrivo la terra-madre. Lungo quella traiettoria, in
prossimità della terra-madre, è l’Irpinia, che viene quindi ad essere, come prima appunto dicevo, la
vigilia del riconoscimento, e alla stregua di ogni vigilia uno spazio-tempo di straordinaria intensità
emotiva, tale da suscitare un irrefrenabile bisogno di sosta.
Tra le tante ipotesi sull’origine etnica di Orazio, come ho già detto, è stata avanzata anche
quella di una sua appartenenza alla dura e tenace stirpe sannitica. Quantunque il Sonnenschein (pp.
339-340), che per primo la propose in virtù di una ragionevole interpretazione del v. 49 dell’epistola
1.16, sia stato più volte contestato e smentito in nome di ipotesi alternative alquanto stravaganti,
essa rimane ancora la più credibile5. Non è il caso di dare qui eccessivo peso ad una questione
secondaria ai fini di una comprensione critica del poeta venosino, questione per altro legata ad una
cultura filologica non più attuale, e tuttavia si deve riconoscere che l’affinità caratteriale e morale
con gli Italici ritorna con insistenza in quasi tutte le raccolte. Altri su questo tema hanno dato
contributi interessanti pure di recente, che varrà la pena di tenere nella giusta considerazione anche
nel prosiego del presente studio, perché, quale che sia stata l’etnia di Orazio, è innegabile che in lui
la componente culturale italica è fortemente attiva sino al punto che talora assume persino funzione
parenetica6. Ce n’è abbastanza, quindi, per non ritenere casuale il rilievo dato alle tre brevi soste in
Hirpinis.
Orazio è di certo tra i poeti latini quello che più frequentemente ritorna sul suo passato così
come si è andato stratificando, di caso in caso, nella coscienza. La sua memoria ha un’incredibile
energia lirica, e per questo aspetto la sua sensibilità ci appare decisamente moderna: il Pascoli vi
avvertì un’intensa e, direi, totale affinità che tradusse in alcuni tra i suoi migliori carmina, di cui ho
dato altrove una lettura intimistica, riducendo al massimo le motivazioni erudite (pp. 114-119). Mai,
inoltre, il ricordo si disgiunge dall’immagine, che anzi lo arricchisce sempre di significati quasi
profetici, comunque dichiarati come fino ad allora incompresi (si potrebbero qui citare ancora una
volta la “miracolosa” notte sul Vulture di carm. 3.4, e la riemergenza dello spazio infantile
dell’incantevole fons Bandusiae di 3.13), perché esso non è semplice reminiscenza di eventi, bensì
ricerca inesausta, per il loro tramite, e quindi scavo delle verità esistenziali occultatesi nella
coscienza. Sebbene egli si esprima con mordace ironia sulle dottrine correnti della tradizione orficopitagorica, con un po’ di audacia ermeneutica rintraccerei nel suo costante ricorso all’¢n£mnhsij un
qualche contatto intellettuale con quell’antico filone escatologico che ebbe origine nelle città della
5
cfr. B. Stenuit, Le parents d’Horace, in “Les études classiques” 45, 1977, pp. 125-144.
I forti legami di Orazio con la cultura italica sono stati di recente oggetto di interessanti contributi, tra i quali ritengo
giusto segnalare: in Orazio da Venosa, Osanna, Venosa 1983: G. Cipriani, Morale arcaica nel programma educativo
del padre di Orazio, pp. 45-61; G. Romaniello, Fons Bandusiae e nostalgia di Orazio per la terra nativa, pp. 157-170;
in Certamen Horatianum-Atti dei Convegni, Osanna,Venosa 1992: F. Della Corte, Orazio a Venosa, pp. 259-272; in
Bimillenario oraziano-Atti del Convegno, Osanna,Venosa 1993: G.B. Bronzini, Sondaggi per una lettura antropologica
di Orazio, pp. 203-216; D. Foraboschi, Orazio tra latifondo e sogno contadino, pp. 219-223; D. Gagliardi, La Lucania
nella poesia di Orazio, pp. 181-192.
6
Magna Grecia, e trovò in parte accoglienza e compiuta sistemazione in alcune incomparabili pagine
di Platone7.
La radicale estraneità, o anche alterità, dello statuto letterario della satura alla poesia alta e
“riconosciuta” impose ad Orazio, che pure per primo le conferì un canone modulato sul linguaggio
“medio” e su un maggior equilibrio di strutture comunicative, un diverso trattamento formale dei
temi che afferivano alla sua storia individuale, e quindi alle regressioni etiche e sentimentali verso
le sue origini italiche. Nei carmina, come ho brevemente detto, queste si traducevano in trasalimenti
o sublimazioni; nei sermones, invece, non ci sono le condizioni per simili trasgressioni e prende il
sopravvento la rappresentazione realistica di ambienti e personaggi. Insomma, l’immagine si fa
scena, e si ha talora l’impressione che il poeta voglia tentare, per un più forte coinvolgimento dei
destinatari, l’impervia strada della drammatizzazione8. Se, pur in considerazione delle esplicite e
reiterate riserve oraziane (epist. 1.19.39-42; 2.2.292-296; ars 470-476), meglio conoscessimo in
qual modo avvenissero, almeno nei circoli letterari, le recitationes di tali componimenti, forse
potremmo capire più a fondo le loro finalità comunicative9. In ogni caso, come vedremo in seguito,
la percezione dello spazio irpino si manifesta tutta in chiave scenica e presenta connotazioni
letterarie fortemente realistiche. Al di là delle tante e appassionanti questioni erudite sollevate dai
filologi e in gran parte ancora irrisolte, bisogna preliminarmente, a mio avviso, individuare la o le
ragioni primarie che indussero il poeta di Venosa a scegliere tale forma nel rivelare quella sua
percezione.
2- La prima tappa irpina è Caudium, dove l’illustre delegazione arriva da Capua dopo un tragitto
relativamente breve, circa 38 miglia secondo il calcolo del Coarelli (p. 20), ma abbastanza comodo
grazie alla via quasi tutta in piano. Qui vengono accolti nella plenissima villa di L. Cocceio Nerva,
famoso giureconsulto forse di origine umbra, che nell’anno 39 aveva ricoperto la carica di consul
suffectus. La villa è situata in zona alta, super Caudi cauponas, e offre agli ospiti una lunga e lauta
cena durante la quale si svolge la divertente contesa fra Sarmento e Messio Cicirro.
Le osterie di Caudio erano forse un po’ fuori del nucleo urbano, archeologicamente non
ancora ben individuato, e costituivano lungo la via Appia una mansio quasi obbligata, in
quell’epoca, come del resto anche prima, molto frequentata, in prevalenza da mercanti che venivano
o si recavano in Grecia o in Oriente. Non è difficile perciò immaginare quale fosse, sotto il profilo
sociale culturale ed economico, un tale ambiente intorno al 37 a.C., anno probabile del viaggio a
Brindisi. Né meraviglia, proprio per il clima portuale che vi si respirava, che qui si svolga la farsa
descritta da Orazio con la solita doctrina scritturale e con particolare diletto.
La farsa (vero e proprio spassoso exodium), in forma di duello (litis), che il Bronzini riporta
ai primordi delle civiltà mediterranee in quanto rito propiziatorio e apotropaico (p. 211), Orazio la
fa rappresentare, all’interno della villa (l’aggettivo plenissima è semanticamente affine allo stesso
termine satura) dal liberto etrusco Sarmento e dall’ingenuus osco Messio Cicirro. L’incipit è
un’invocazione alla Musa secondo il canone epico, ma in chiaro tono parodistico (51-54), come già
si evince dall’attacco con il nunc. Tale connotazione epico-comica, che risponde ad un’ispirazione
ludica, percorre tutto il resto del brano, sia nei moduli del diverbium che in quelli fonico-ritmici. A
me sembra, infatti, che qui non si possa negare, dal punto di vista letterario, un audace intento
sperimentale, quello cioè di far confluire e amalgamare nel verso atipico della satura elementi
propri di due generi fra loro molto distanti: l’epos e il teatro comico popolare. Ma se gli elementi
7
Sul rapporto Orazio-Pitagorismo vale la pena cfr. L. Ferrero, Storia del Pitagorismo nel mondo romano, Facoltà di
Lettere e Filosofia, Torino 1955, p. 373 e n.. 530; sulla ricezione platonica delle teorie orfico-pitagoriche l’ottimo
contributo di G. Pugliese Carratelli, Mnemosyne e l’immortalità, in Tra Cadmo e Orfeo, Il Mulino, Bologna 1990, pp.
379-389; e dello stesso Le lamine d’oro orfiche, Adelphi, Milano 2001.
8
Circa la contiguità tra satura arcaica e teatro comico cfr. M. Citroni, Musa pedestre, in Lo spazio letterario di Roma
antica, Salerno, Roma 1993, I, pp. 311-327. Spunti interessanti si possono trovare anche in due classiche monografie:
E. Fraenkel, Orazio, Salerno, Roma 1993; e U. Knoche, La satira romana, Paideia, Brescia 1979, pp. 105-141.
9
La pratica della lettura inter amicos delle sue composizioni viene talora attestata dallo stesso Orazio. Ricordo, ad
esempio, i vv. 222-223 di epist. 2.1, sebbene conditi con l’immancabile garbato humour.
dell’epos sono appunto quelli della narratologia canonica (il proemio con l’invocazione alla Musa e
la presentazione dei contendenti, l’immediata alienazione dell’autore in un impersonale io narrante,
lemmi e sintagmi del lessico bellico seppur talora banalizzati, l’alternarsi del discorso diretto e di
quello indiretto, l’andamento apparentemente solenne del ritmo dattilico), gli elementi del teatro
comico popolare, invece, sono di varia ascendenza e costituiscono, a loro volta, una miscela nella
miscela. Proviamo ad esaminarli.
Il motivo della contesa, ovvero del contrasto, è largamente presente in tutti i sottogeneri del
dramma comico, anche come parodia dei certamina dell’epica. A seconda del tipo della fabula e
dell’autore cambiavano, naturalmente, le modalità e i contenuti del contendere. Esiste, ad esempio,
una ben marcata differenza fra le altercationes di Plauto e quelle di Terenzio. Ugualmente si può
dire, più in generale, per i battibecchi della palliata e quelli della togata o dell’Atellana, quantunque
questi ultimi siano testualmente documentati in misura molto limitata, e per tanto ricostruibili solo
induttivamente. Nel nostro caso non c’è dubbio che la fonte lontana siano gli antichi fescennini, la
più vicina e quella preminente, con ogni probabilità, le piéce atellaniche di L. Pomponio e Novio10.
Con una piccola dose di temerarietà, interpreterei la scelta dei due personaggi della farsa di Caudio,
la cui identità è stata ed è ancora variamente dibattutta11, in chiave assolutamente letteraria:
Sarmento, se è lo stesso personaggio di cui parla Giovenale (5.3), era di origine etrusca, come
appunto uno dei due autori meglio noti di Atellane, L. Pomponio Bononiensis; Messio, di contro,
per ragioni onomastiche non poteva che essere campano (Orazio lo definisce osco), come lo era
molto probabilmente, di origine o discendenza, Novio. Ancora, secondo le antiche testimonianze,
l’Etruria aveva dato i natali alla fescennina iocatio, mentre in Campania erano state inventate e
recitate le prime tricae atellane, non molto dopo contaminatesi con alcune ben affermate forme del
teatro comico popolare siceliota e magnogreco, i mimi e i fliaci. Orbene, pare proprio che con la
scenetta di Caudio Orazio abbia voluto riportare il teatro popolare greco-italico alla terra della sua
primitiva incubazione, dove poi sarebbero man mano confluite e si sarebbero mescolate, prima di
arrivare a Roma, altre tradizioni pur esse italiche, i fescennini e la satura; in tal modo rivendicando
per la mesógheia osca, che la regio irpina in questo caso rappresenterebbe, il grande ruolo svolto
nella mediazione culturale fra gli Etruschi e gli Italioti. Difatti, il breve exodium contiene elementi
che si possono a buon motivo far risalire a tutte le forme arcaiche di drammatizzazione comica;
insomma, si tratterebbe, a mio avviso, di un piccolo pastiche composto con gran gusto, ma dettato,
oltre che da una vaghezza sentimentale, da un preciso interesse letterario, come meglio preciserò di
seguito.
Sebbene dal testo si deduca facilmente che i “duellanti” furono chiamati da Mecenate e dagli
altri convitati ad improvvisare la loro performance (l’improvvisazione, come si sa, era tipica del
teatro popolare arcaico, sia greco che latino-italico), stento a credere che i due attori non fossero
professionisti, o quanto meno esperti in tal genere di esibizioni. Orazio volutamente presenta subito
Sarmento come scurra, e nulla impedisce di credere che Sarmento fosse appunto un nome d’arte,
come talora si sostiene a proposito di Maccus Plautus. Altrettanto ritengo che si possa dire per
Messio Cicirro; lo consiglia anche la stessa struttura del verso, così ben equilibrato nella perfetta
corrispondenza dei due genitivi accoppiati in apertura e in chiusura. Per altro, proprio il nome
Messius, certamente osco e più precisamente sannitico (La Regina, p. 329 ss.), è attestato anche
nella variante Mesius da Varrone (de lingua Latina, 7.96) come personaggio dell’Atellana (Pappus
Mesius)12. Il secondo nome Cicirrus, circa il quale viene ancora in genere accolta l’opinione del
10
Dei primi, seppur c’è da tener conto della mediazione letteraria operata da Lucilio nell’iter Siculum, Orazio di certo
possedeva una fondata e critica conoscenza, come dimostra in epist. 2.1.139-155, dove fa anche espresso riferimento
alla pratica delle ingiurie che i contendenti si scagliavano versibus alternis (146), nonché alla progressiva transizione ad
bene dicendum delectandumque. Delle seconde non pare far gran cenno, e tuttavia attesta indirettamente di aver
assistito ad una loro rappresentazione sottolineando la grossolanità di Dossennus (epist. 2.1.173), la cui lezione in alcuni
codici è, forse più esattamente, Dorsennus / Dorsenuus.
11
Una ragionata e puntuale disamina delle varie ipotesi è stata condotta da G. Cambier, Equi te esse feri similem dico,
in “Latomus“ 19 (1960), pp. 59-64, e da A. La Penna, Due questioni oraziane, in “Maia”, 19 (1967), pp. 154-158.
12
Tale lectio si riscontra anche in un codice secondario oraziano (C) al v. 58.
Dieterich (“galletto” o “pulcino”, archetipo della maschera napoletana Pulcinella13) fondata su una
glossa di Esichio (2.481), a me sembra richieda tutt’altra spiegazione. Il Bronzini (p. 214) ha
supposto nel nome Cicirrus (che nei codici compare trascritto variamente: oltre alla lezione più
frequente cicirri, anche cicerri, cicerci, cicirrhi) pure la presenza della radice coir-, che rimanda a
co‹roj, “maiale”. La ritengo un’ipotesi fonicamente e semanticamente accettabile. Aggiungo che
Maialis è il titolo tràdito di un componimento di Pomponio14, ed è anche un animale in qualche
modo legato ai riti delle feste fescennine (Orazio, epist. 2.1.143), così come simbolico è il tralcio
(sarmentum), che doveva essere connesso a drammatizzazioni arcaiche celebrate in occasione della
vendemmia (non soltanto greche o magnogreche, ma anche italiche e latine, tra le quali forse la
satura). Inoltre, la denominazione “galletto” poco si concilierebbe con l’enorme corposità di Messio
dileggiata dai lazzi di Sarmento, e quindi sarebbe anomala rispetto al modulo delle contrapposizioni
che anima principalmente la farsa: Sarmento è liberto e parassita, Messio uomo libero e, per quanto
orribile, con una sua dignità; Sarmento è noto, Messio no; in ultimo, appunto, Sarmento è gracile,
Messio grande e grosso. E ben sappiamo quanto nelle farse fosse indispensabile, e lo sia tuttora,
l’ingrediente della differenza fisica. Lo era certo soprattutto nelle Atellane (di solito improvvisate su
un semplice canovaccio), come lasciano supporre molti frammenti rimastici nonché alcune fonti
iconografiche. Concludendo, mi sembra una congettura plausibile che Orazio, per rendere più
esilarante la scenetta, abbia messo a confronto una persona piccola e mingherlina, come un tralcio,
con una alta e pingue, come un maiale.
Altro elemento di sicuro interesse storico-filologico è la presenza di componenti testuali che
rimandano al mimo, e quindi al fliace. Non sono cospicue, ma, data la brevità del brano, certamente
indicative. Già il Waltz (p. 94) attribuiva ad un modello teatrale ellenistico l’espressione pastorem
saltaret uti Cyclopa (63), poi ripresa e modificata in epist. 2.2.124-5 (...ut qui / nunc Satyrum, nunc
agrestem Cyclopa movetur). Il collegamento con il mimo è supposto da altri studiosi, come il La
Penna che parla di un “elegantissimo mimo”15, partendo dal convincimento che, pur se ispirata e
sostanziata da una profonda sensibilità etica, la vis comica di Orazio fosse debitrice per alcune
forme della sua teatralizzazione a tradizioni peculiari della cultura popolare italica (1968, p. LV).
Appunto la danza costituiva un aspetto caratterizzante del repertorio scenico del mimo, almeno di
quello sviluppatosi sull’eredità dei fliaci italioti. In questo filone doveva verosimilmente rientrare il
mimo con il Ciclope che danza, prestandosi molto bene tale figura mitologica alle finalità artistiche
dell’ilarotragedia. Noi non possediamo né titoli né frammenti e neppure pitture vascolari che
possano confermarlo, ma il v. 66 della satira in esame qualche indicazione pur la fornisce: Orazio fa
dire a Sarmento che Messio avrebbe tutti i requisiti per rappresentare la danza del Ciclope anche
senza la maschera (usa larva per sottolinearne la bruttezza) e i coturni degli attori tragici, che ne
avrebbero di più esaltato la goffaggine. Se ne può agevolmente dedurre che il mimo del Ciclope era
in realtà uno spettacolo paratragico. E poiché l’allusione, così come è strutturata, lascia intendere in
modo chiaro che i dotti spettatori di Caudio e gli uditori o lettori immediati ne avessero diretta
conoscenza, pare ovvio immaginare che si trattasse di un dramma di successo16. Infatti, fu proprio
negli ultimi anni della repubblica e durante il periodo augusteo che il mimo raggiunse il massimo
gradimento presso il pubblico di Roma. Lo stesso Orazio ci offre qualche spunto al riguardo, specie
quando in serm. 1.10.6, per significare ancora una volta la sua distanza dai gusti correnti, non si
dichiara disposto ad apprezzare come opera di poesia (pulchra poemata) i mimi di Laberio,
scomparso solo da qualche anno (43 a.C.).
La farsa di Caudio, il tagliente giudizio su Laberio ed altre note sparse sul teatro, presenti in
forma più o meno esplicita nei sermones, costituiscono tuttora una questione aperta, e per certi versi
13
A. Dieterich, Pulcinella, Leipzig 1897, p. 240.
P. Frassinetti, Atellanae fabulae, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967, p. 42. Allo stesso Pomponio viene attribuita
un’altra trica dal titolo Porcaria o Porcus (Frassinetti, cit., pp.53-54).
15
A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Einaudi, Torino 1979, p. 24.
16
Non è infrequente ritrovare nella poesia latina allusioni a spettacoli teatrali. Più volte sono stato tentato di scrivere
qualche nota sul bellissimo brano di Ifigenia nel de rerum natura, in quanto convinto che Lucrezio nel momento della
composizione conservasse viva memoria di un dramma effettivamente visto.
14
centrale, nella complessa ricostruzione della genesi della dottrina letteraria oraziana. Sono essi da
ritenere un’anticipazione delle tesi poi esposte nell’epistola ad Augusto ed in quella ai Pisoni,
oppure non c’è affatto alcun legame fra tali spunti critici occasionali della produzione giovanile e le
organiche trattazioni della maturità? Io credo che un nesso, anche se esile, si debba supporre. Nelle
composizioni epistolari il giudizio di Orazio sul valore poetico e, più in genere, artistico del teatro
arcaico e di quello contemporaneo è inequivocabilmente negativo. Si tratta in effetti di un giudizio
storico: rozzo ed eccessivamente sfarzoso il primo, troppo spettacolare, frivolo e vacuo il secondo.
“Dietro l’epistola ad Augusto e l’Ars poetica - annota giustamente il La Penna (1963, p. 154) - c’è
un programma augusteo di restaurazione del teatro latino...Perché questa restaurazione del teatro?
Perché il teatro era la letteratura più popolare, quella che non solo agiva sulle classi medie, più o
meno colte, ma anche sulla plebe”. L’aristocraticità intellettuale di Orazio non poteva accettare che
tale restaurazione avvenisse con materiale letterario antiquato o scadente, mirava evidentemente, al
di là della sua preferenza per l’elegante poesia dei circoli letterari, ad un modello di teatro che
abbinasse alti sentimenti morali ed un accuratissimo labor limae, modello non ancora prodotto dai
Latini, a differenza dei Greci, e difficilmente realizzabile, a suo parere, in quel particolare contesto
culturale e civile.
Dunque, nel mirino di Orazio non ricadono soltanto gli ancora troppo esaltati patres del
teatro tragico e comico antico17, la cui responsabilità soggettiva era in fondo giustificabile per
l’ancora immatura cultura letteraria romana, ma anche e soprattutto i balordi autori del teatro plebeo
dei suoi tempi18. Come si spiega allora l’inserimento, operato alcuni decenni prima, di una piccola
pièce da teatro comico popolare nel testo di una satira? Già all’epoca della composizione dei
sermones Orazio si era formata una ben chiara opinione sulla crisi del teatro latino, benché non
avesse ancora maturato l’idea di discuterne esplicitamente, al che poi lo indusse senza dubbio
l’iniziativa politico-culturale di Augusto. Nel primo e nel secondo libro delle satire trascorre
un’ampia schiera di personaggi, più o meno noti, del mondo dello spettacolo: autori, histriones,
scurrae e gladiatori. Su tutti si spande, tra lo scherno e l’irritazione, il giudizio perentoriamente
negativo del Venosino. Anche quello sul commediografo Fundanio (serm. 1.10.40-42) è secondo
me solo in apparenza di apprezzamento: non c’è termine nel testo che ne riconosca un effettivo
valore artistico. I suoi personaggi e le loro azioni connotative appartengono al repertorio consueto, e
i suoi libelli, per quanto comes, non sucitano altra impressione se non quella di sentirli garrire,
sicché l’espressione unus vivorum la intenderei in senso ironico, come per significare che al di là
della modestia di Fundanio non c’è proprio null’altro. Non mi sembra, per altro, una prova a favore
dello stesso Fundanio, anzi esattamente il contrario, il fatto che Orazio gli affidi in serm. 2.8 il
racconto della grande abbuffata nella casa di Nasidieno, che contrasta evidentemente con la serena e
piacevole cena consumata nella villa di Cocceio Nerva. Insomma, non rinvengo alcun elemento
testuale che dell’Orazio dei sermones riveli un’opinione sul teatro latino contemporaneo diversa da
quella dichiarata nelle epistole. Allora, la farsa di Caudio innanzitutto, ma anche i successivi episodi
di Benevento e Trevico potrebbero voler significare, in aggiunta alle considerazioni da me in
precedenza fatte, che quanto ordinariamente si portava sulle scene di Roma altro non era che la
traduzione meglio spettacolarizzata, ma in sostanza artefatta e banalizzata, delle rappresentazioni
improvvisate cui si poteva assistere iucunde nei luoghi naturali della comicità italica, fenomeno del
costume e non già dell’arte. La valutazione dell’Italum acetum come mero divertissement, del tutto
estraneo alla poesia, trova conferma nelle già richiamate note sugli antichi fescennini (epist. 2.1.139
17
In epist. 2.1.50 ss. Orazio prende in esame tutti i patres, e ne stigmatizza l’alta stima di cui ancora godono presso il
pubblico romano, per il quale adeo sanctum est vetus omne poema. Soltanto a proposito dell’urbanus Terenzio fa uso
del termine ars.
18
L’analisi che ne fa, sempre nell’epistola ad Augusto a partire dal v. 182, includendo anche altri spettacoli, è spietata e
senza riserva alcuna. Sicché non è pensabile che nell’ars poetica, come talora si legge, egli abbia cambiato parere; in
effetti prospetta una palingesi, nella quale egli stesso per primo non crede.
ss.), e si può ritenere una communis opinio degli intellettuali augustei (Virgilio, Tibullo, Livio19),
tutti scoperti biasimatori del teatro contemporaneo. Un simile atteggiamento si era probabilmente
già manifestato nella cerchia dei neoterici, in difesa della poesia dotta e contro la degenerazione dei
gusti della classe media e di quella aristocratica, che gli spettacoli allora in voga (Atellane, mimi,
tabernarie, ecc.) finivano per assecondare e peggiorare ulteriormente.
3- Anche la scenetta di Benevento sa tanto di essere topica del teatro comico minore, forse della
fabula tabernaria20, sulla quale Orazio dimostra di avere sicure e forse personali conoscenze
allorché con fulminee stroncature cita i suoi maggiori rappresentanti: L. Afranio (epist. 2.1.57) e T.
Quinzio Atta (epist. 2.1.79). Si tratta di un exodium molto breve, ambientato nel luogo più
caratteristico della baldoria libera e spensierata, una taberna, dove saltano tutti i vincoli sociali e
culturali. Qui la teatralizzazione è affidata alla narrazione, ma questa è talmente fresca ed essenziale
da produrre nel fruitore (ascoltatore o lettore che sia) un immediato impulso alla visualizzazione.
Orazio ottiene tale effetto grazie soprattutto ad un’efficacissima aggettivazione: l’oste, benché
sedulus o forse proprio per questo, poco manca che bruci, mentre li gira allo spiedo, gli ossuti
(macros) tordi riservati agli illustri ospiti. Infatti, la fiamma (Volcanus, ancora una parodia dello
stile aulico) si propaga rapidamente per veterem culinam fino a lambire la sommità del tetto. Ne
nasce un grande tramestio, con i convitati e i servi tutti presi, gli uni perché avidi, gli altri perché
timentis, a mettere in salvo il cibo e a spegnere il fuoco. La caratterizzazione singola e collettiva dei
personaggi, lo si può rilevare facilmente, riesce molto bene, forse meglio di quanto si sarebbe
potuto conseguire sulla scena. Come per dimostrare che essa non è poi così indispensabile per
suscitare il riso, e per affermare finalmente le infinite potenzialità, e quindi il primato, della poesia
da lettura su tutte le altre forme di cui si era nutrita l’ormai inadeguata e superata letteratura arcaica.
L’ultima scenografia irpina è quella dell’affumicata vicina Trivici villa. S’intuisce dai pochi
versi un ambiente non dissimile dalla squallida osteria di Benevento; qui si svolge, però, una storia
diversa: l’attesa vana di una mendax puella e un sogno lascivo, che appunto sorprende il poeta. Il
tema della ragazza ingannatrice rimanderebbe immediatamente all’epigrammatistica erotica
dell’Antologia Palatina (Asclepiade, Meleagro, ecc.), ma io credo che in questo punto il poeta
continui nel confronto tra poesia da lettura e teatro, essendo anche tale personaggio femminile
molto caro alla produzione comica minore21. Il comportamento canzonatorio della Trivicana
(possiamo plausibilmente adottare questo etnico in analogia con quelli riportati in nota come titoli
di altrettanti drammi latini) insieme alla comicità di Messio Cicirro, alla goffa premura dell’oste
beneventano e, aggiungerei, alla nostalgia canterina per l’amica lontana del barcaiolo e del
viaggiatore durante la traversata delle paludi Pontine (15-17) sono tante tessere autentiche che
vengono a comporre il colorito mosaico della cultura orale italica, verso la quale l’atteggiamento di
Orazio è esattamente l’opposto di quello schernitore e denigratorio degli autori del teatro comico
minore. E potrebbe essere stato anche questo un valido motivo per polemizzare aspramente con
loro.
Romualdo Marandino
19
In tal senso, cioè come vagheggiamento degli antichi carmina laeta, giudicati però versus incompti, riterrei il passo
vergiliano di georg. 2.385-396, e ugualmente quello tibulliano di 2.1.50 ss. Più scoperta, invece, risulta in Livio la
polemica antiteatrale (7.2.13).
20
Fra i titoli di Afranio ne conserviamo uno alquanto indicativo, Incendium.
21
Caupuncula sembra sia stato il titolo di una delle poche commedie scritte da Ennio. Di Nevio conserviamo un buon
numero di frammenti della Tarentilla, primo dramma comico latino nel quale compare il personaggio di una ragazza di
liberi costumi non romana. Dello stesso genere ci restano tre titoli di Titinio: Ferentinatis, Setina e Veliterna, donne, per
così dire, della provincia, oggetto di derisione per i cittadini dell’Urbe. E’ un tema molto interessante sul quale varrebbe
la pena indagare più a fondo. L’irrisione per i rustici è poi tipico delle Atellane di Pomponio e Novio.
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