CAPITOLO PRIMO Le quattro di mattina. Ma chi le

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CAPITOLO PRIMO Le quattro di mattina. Ma chi le
CAPITOLO PRIMO
Le quattro di mattina. Ma chi le ha inventate, le quattro di mattina?
Mi trascino fuori dal letto, do uno schiaffone alla sveglia e ficco
i piedi nudi nelle pantofole, pestando qualcosa che sembrava una
fune pelosa e invece mi ricambia con un ululato.
Oh merda. Orazio mi aspettava educatamente accanto al letto per darmi il suo benvenuto mattutino e io invece inauguro la
giornata con una cattiva azione. Meroe mi rimprovererebbe per i
pessimi effetti sul mio karma.
Certo, se Orazio non avesse il vizio di sedersi sulle mie pantofole, questo accadrebbe molto meno spesso, con conseguente
calo d’impatto karmico. Probabilmente mi reincarnerò in un topo,
se proprio mi va bene.
Reprimendo il pensiero che avesse piazzato ad arte la coda in
modo che io la pestassi, per poi godersi una decina di minuti di
coccole e scuse, passo una decina di minuti a coccolarlo e a scusarmi: povero micio! La cicciona ha pestato quella povera codina
tigrata? Vediamo se un po’ di latte mitiga l’affronto.
Lo mitiga. Mentre Orazio dedica le sue attenzioni più diligenti
e devote al latte, io accendo il bollitore e metto su il caffè (senza il quale nessun fornaio può iniziare la giornata) gettando uno
sguardo allo squallore della mia piccola cucina con il pavimento
in pietra e, rabbrividendo, mi metto addosso qualcosa. Tendo a
vestirmi in cucina perché la camera da letto non è riscaldata, almeno fino a quando i forni non si accedono automaticamente,
alle quattro. Ho sentito le ventole entrare in funzione quando ho
spento la sveglia.
Una fornaia non è una cosa bella da vedere, in una mattina
fredda e buia. Lunghi capelli color topo tirati indietro impietosamente, volto assolutamente privo di trucco e occhi cerchiati da
ombre scure, dato che si è svegliata quando tutti gli altri dormono.
Le facce magre hanno l’aria scheletrica a quest’ora, mentre i visi
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grassocci sembrano le illustrazioni di un manuale di anatomopatologia, alla voce “adipocere”. Io sono del tipo sovrappeso, quindi
mi tocca l’adipocere. Sorrido al mio riflesso, finisco di lavarmi la
faccia, mi sistemo addosso due strati di tute da ginnastica e per
colazione metto a tostare del pane da intenditori: datteri e noci.
Niente male, altroché. Forse sarebbe meglio un filo più dolce.
Mi prendo un appunto: aggiungere un po’ più di miele la prossima
volta che lo faccio.
Mi sono messa a fare la fornaia perché volevo diventare commercialista. Fidatevi, ha un suo senso anche se non sembra. Cercavo un lavoro che mi permettesse di frequentare tutte le lezioni,
e la panetteria delle specialità italiane mi ha offerto un posto da
aiutante generica. Orario: dalle quattro alle nove del mattino, il che
mi permetteva di arrivare alla lezione di economia quasi in orario,
anche se un po’ infarinata.
Con il procedere dell’anno accademico i numeri diventavano
sempre più aridi ai miei occhi, e i prodotti da forno sempre più
affascinanti. È quasi un procedimento alchemico: si mettono insieme farina, acqua e lievito vegetale e alla fine dell’operazione
viene fuori qualcosa di lucido, croccante, arioso e delizioso.
Le quattro del mattino è un orario nel quale la mente tende
a divagare. Dov’ero rimasta? Ah sì. Riesco anche a ricordare il
momento esatto in cui è successo. È stato nel bel mezzo di una
riunione in cui si trattava un’acquisizione, e l’amministratore delegato parlava di fluttuazioni di valuta. Avrei dovuto esserne affascinata, ma tutt’a un tratto nella testa mi è scattato qualcosa: non me
ne importava nulla. Il nostro cliente era nei casini più di un campo
da calcio in un giorno di grandine, e a me non me ne importava
niente. Tanto il bastardo aveva comunque troppi soldi.
Non si può fare la commercialista – o meglio, non si può continuare a fare la commercialista – con questo atteggiamento. Ho
lasciato sulla scrivania del mio capo un biglietto in cui dicevo che
sarei ripassata per ritirare il premio annuale di produzione, me ne
sono andata a casa, ho calciato via le mie scomodissime scarpe,
mi sono tolta rabbiosamente quel ridicolo tailleur con le spalle
imbottite e mi sono messa una tuta, giurando a me stessa che,
qualunque mestiere mi sarebbe toccato fare per guadagnare la pagnotta per me e Orazio, mai più avrei indossato tacchetti a spillo.
Mi sono data alla panetteria a tempo pieno, portando a termine il
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mio apprendistato. Quando ho lasciato I pagliacci, don Toni mi ha
consegnato un pezzo della sua pasta da pane personale.
E ancora la tengo con me, a lievitare felice nel suo secchiello,
allevata con lo zucchero e mantenuta alla sua temperatura ottimale. Il lievito va nutrito e coltivato. La moglie di don Toni, la signora
de I pagliacci, ci parlava persino, con il suo lievito, e prima che in
casa mia arrivasse Orazio anch’io parlavo al mio. Adesso invece
parlo con il gatto, e spero che il lievito non se ne abbia a male.
Così ho messo su questa panetteria, Delizie terrene (mai sentito parlare di Hieronymus Bosch? Guardate l’immagine appesa
al muro vicino alla vetrinetta: riesce a intrattenere una coda per
parecchi minuti), sulla Calico Alley, nel centro città. Mi piacciono
le città. Anche alle quattro del mattino c’è sempre del movimento,
anche se da queste parti è facile che si tratti di qualcosa di losco.
Ci sono un sacco di balordi, nei dintorni. È uno dei motivi per cui
la mia panetteria ha delle costose e robuste triple serrature e porte
d’acciaio inossidabile di sicurezza. Non mi posso permettere di
correre rischi, in caso facciano irruzione: se mi buttano una siringa sporca nell’impastatrice perdo un’intera infornata.
Ieri mi è caduto l’occhio sulla posta impilata sul tavolo, quasi
tutte bollette intestate a Corinna Chapman, panettiera. C’era però
anche una sorta di bizzarro opuscolo religioso che mi accusava di
essere la donna scarlatta. Era fatto al computer, qualunque matto
può autoprodursi un opuscolo decente in questi tempi tecnologici. Il salario del peccato è la morte, proclamava. Curioso.
Orazio, con una zampina posata educatamente sul mio ginocchio, pareva volermi informare che era arrivato il momento di fare
colazione. Ho messo via l’opuscolo con l’idea di tornarci su in un
secondo momento: le città sono piene di matti. Ho messo un po’
di croccantini nella scodella di Orazio. Perché poi li fanno a forma
di pesciolini e di cuoricini? Non può certo essere per far piacere
ai gatti. Orazio si mangerebbe croccantini anche a forma di lettere
dell’alfabeto che formano la parola VELENO, se gli dovesse venire il suo solito languorino. E se li divorerebbe ovunque fossero,
senza bisogno di una scodella con sopra scritto GATTO. E chi altro
dovrebbe mangiarsi dei graziosi biscottini al pesce con vitamine e
minerali aggiunti da un piattino sul pavimento? E dato che ormai
sono adulta, non lo farebbe nessuno dei miei amici.
Dovevo fare il pane. Ho preso la mia seconda tazza di caffè e
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me la sono portata giù per le scale di pietra, in laboratorio. Sentivo
salire l’aria calda. Orazio mi avrebbe raggiunta appena finito di
fare colazione. È un gatto aristocratico, e ritiene maleducato mangiare in modo vorace. E comunque deve togliersi ogni briciola
dalle vibrisse prima di scendere a incontrare il nucleo antitopo, un
duo rozzo ma piacevole, anche se molto distante da lui in fatto di
eleganza.
Orazio è un vero signore: spesso mi rendo conto di essere incapace di rispondere ai rigidi requisiti che lui ritiene irrinunciabili
per una signora.
Sono scesa in laboratorio e le luci si sono accese sfarfallando,
lasciandomi abbagliata per un attimo. La pattuglia del nucleo antitopo mi si è stretta sulle gambe, impaziente di dimostrare di aver
lavorato alacremente tutta la notte e di essersi per questo meritata
una razione extra di Micio delizia.
Ho contato i cadaveri: sette topi e (orrore!) otto ratti, uno grande quasi come un gattino. Mi sono congratulata con loro per l’eccellente sorveglianza e ho versato la ricompensa nelle ciotole.
Ma lasciate che ve li presenti: alla vostra destra l’ufficiale del
controllo roditori Heckle, ex maschio bianco e nero dall’aria un
po’ abbacchiata, vagamente duro d’orecchio e con uno strano
bozzo sulla coda. Temuto combattente da strada, in gioventù, ormai in pensione. Alla vostra sinistra l’ufficiale del controllo roditori Jeckle, un’ex femmina giovane e forte, bianca e nera, che
ha partorito la sua unica cucciolata sotto all’impastatrice e adesso
non nutre più alcun interesse per il matrimonio. Ha rifilato a Heckle la miglior zampata destra che io abbia mai visto, una volta che
lui gironzolava un po’ troppo vicino ai suoi cuccioli, e da allora
hanno un rapporto basato sul rispetto reciproco più che sull’equilibrio del terrore. Tuttavia, mi è capitato di vedere Heckle lasciare
che Jeckle gli leccasse le orecchie, e una volta ho persino beccato
Heckle pulire il pelo a Jeckle. Quando si sono accorti che li stavo
guardando si sono un po’ imbarazzati. Per quello che posso vedere, mi sa che passeranno insieme la loro vecchiaia.
Mi sono dedicata all’impasto della prima infornata del mattino
con un sottofondo di mascelle che trituravano Micio delizia e grufolati di soddisfazione. Farina di segale, lievito naturale, acqua, un
misurino di farina bianca per alleggerire il tutto e poi accendiamo
la macchina e via con le pale. Il mio lievito per il pane di segale è
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fatto da un lievito naturale acido. Vendo tutto il pane di segale che
faccio ai ristoranti tipici dei paesi dell’Europa dell’est.
Ho anche un ordine per la pagnotta della salute, garantita senza grassi. Non ho detto all’acquirente che, a meno che non si tratti
di pane speciale o dolce, nel pane non ci sono mai grassi, ma non
credo che il Codice del commercio mi obblighi a farlo. La pagnotta della salute è senza glutine, e quindi devo usare il lievito chimico
per farla lievitare. Il glutine è fondamentale per il pane, e dà tutto
il valore nutritivo, oltre che il sapore. Ma tant’è: il cliente, come
recita la prima legge del capitalismo, ha sempre ragione. E tutto
sommato mi sembra un compromesso accettabile: loro ricevono
qualcosa di meglio della solita segatura e io vengo pagata. Anche
se devo dire che fare la pagnotta della salute non mi dà nessuna
soddisfazione: è troppo friabile, perché non ha elemento legante, ed è insipido, perché non c’è né sale, né zucchero né spezie.
Per chi lo mangia, tanto varrebbe cibarsi di una manciata di crusca grezza, e costerebbe anche meno.
Ricordo di aver recapitato una volta un vassoio di questo pane
a un qualche ricevimento salutista, e di essermi sorpresa a mormorare: «Mangiatevi questa segatura e andate al diavolo, gentaglia
yuppie del cazzo». Anche se forse ho un po’ esagerato. Va bene,
pagnotta della salute impastata, messa in teglia e infornata. Il lievito chimico reagisce e inizia la sua opera non appena viene aggiunto il liquido, la velocità è essenziale. Ho messo le teglie su una pala,
le ho fatte scivolare nel forno e ho messo il contaminuti.
Adesso i grissini, mentre cuociono i miei mattoncini di segatura. Lievito da pane, farina bianca, un pochino d’olio, acqua tiepida.
Forza, lievito! I muffin vanno in forno quando esce la segatura,
altra reazione chimica. Oggi mi sa che è una giornata da mela.
Tiro fuori una scatoletta di ripieno alla mela (sì, sì, lo so, ma sapete
quanto dovrò pelare per il pane alle patate di domani?) e prendo
l’apriscatole.
Niente apriscatole: affondo con sicurezza le mani là dove dovrebbe essere ma non c’è.
Maledizione. Devo essermelo portato di sopra in cucina. Salgo rumorosamente le scale con le mie Doc Martens (delle belle
scarpone solide sono essenziali se si sta in piedi tutto il giorno, e
almeno non ne esistono modelli con il tacchetto a spillo), trovo il
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malefico arnese, scendo giù di nuovo rumorosamente, mi tolgo la
giacca della tuta e apro la scatoletta.
Adesso inizia a fare proprio caldo, i forni sono arrivati alla
temperatura giusta. È ora di aprire la porta e dare il benvenuto al
nuovo giorno.
Il nucleo antitopo si precipita fuori con miagolii di sollievo,
come se fosse rimasto chiuso in ascensore per giorni, ed entra una
folata di aria fredda. Spengo una delle impastatrici e metto il pane
di segale a crescere. Preparo l’impasto per i muffin, senza però
aggiungere il latte, e mi fermo a guardare l’alba stiracchiandomi
la schiena.
Ma Heckle salta dentro di nuovo come se si fosse punto. Ha
qualcosa conficcato nella zampa, e la scuote freneticamente miagolando a distesa. Lo afferro e gli stacco una siringa.
Il micio si sdraia immediatamente a terra, lasciando che Jeckle
gli lecchi la ferita, e io mi precipito fuori, tremando dalla rabbia.
Drogati! Maledetti drogati incoscienti. Chi se ne frega di trovare un bidone dell’immondizia, tanto le siringhe si buttano per la
strada, una bomba a orologeria per gatti innocenti. Tiro un calcio
al muro con grande furia: uno spreco di risorse, dato che quando
hanno tirato su questa città l’hanno fatta per sopravvivere a qualunque cosa, a parte le eruzioni vulcaniche. Bestemmio nell’aria
grigia e gelida, a quell’ora antelucana. Poi vedo una sagoma accasciata sulla mia grata di ventilazione. Ecco perché era così caldo
in cucina, avevo un vagabondo sdraiato sulla grata! Mi avvicino a
grandi passi e afferro una spalla del tizio, colpevole di aver ferito
Heckle, con l’intenzione di dargli una bella scrollata e rimandarlo
per la sua strada.
Ma quello mi è sfugge di mano e crolla come se non avesse
ossa, cadendo sulla schiena. È una ragazza, lunghi capelli opachi
a coprirle il volto bluastro. E non di un celestino pallido, proprio
blu intenso come il mio pavimento di ardesia.
Non respira. Corro dentro, afferro il portatile e chiamo il 118.
Mi risponde una voce annoiata dicendo che la mia chiamata sarà
presa in carico al più presto, e mi dà istruzioni sulle tecniche di rianimazione cardiopolmonare. Oh Gesù, Giuseppe e Maria! Sento
che la pelle mi sta abbandonando, alla ricerca di un essere umano
più compassionevole. Questa qui probabilmente è un crogiolo di
malattie, inclusa l’AIDS e tutte le epatiti possibili, dall’A alla Z. E
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ha appena ferito uno dei miei gatti con la sua cazzo di siringa.
Quant’è bastarda la vita delle volte: così imparo a pestare la coda
di Orazio.
Ho ancora i guanti di lattice, e posso metterle sulla bocca la
pellicola trasparente per alimenti. Tremo dalla repulsione sdraiandola sui ciottoli freddi. Faccio un foro nella pellicola, svuoto il
cavo orale come mi hanno insegnato e le respiro in bocca. Non mi
pare di cogliere il battito, ma non saprei nemmeno dove sentire.
Su dài, Corinna, l’hai imparato a scuola. Bisogna spingere qui e
poi respirare, contare, poi spingere di nuovo e di nuovo respirare.
Le labbra sono morbide sotto il foglio di plastica. Sembra una
bambina, tutt’ossa e con la cassa toracica sporgente, e puzza come
una fogna. Insufflare, contare, comprimere, insufflare di nuovo.
Mi gira la testa. Non so per quanto tempo posso andare avanti a fare questa cosa, né se funziona. Respirare, tump, respirare,
tump. I due gatti mi guardano, sulla soglia. Orazio li raggiunge, ha
l’aria sconcertata. Lo capisco. Non so neanch’io perché lo sto facendo. È morta. Non ottengo niente in risposta a tutti quei colpi,
e spingo da fare male.
Inizio a sentire odore di bruciato: se non tiro fuori dal forno le
pagnotte della salute tra cinque minuti, di sicuro prendono fuoco.
Ma la verità è che non riesco a mollare questo cadaverino infantile
e lercio, cosa faccio se smetto? Torno dentro e sbarro la porta?
Sento delle mani sulle mie spalle. Qualcuno mi sta sollevando
per farmi alzare in piedi. Mi sollevo barcollando e li benedico, i due
infermieri scesi dall’ambulanza, che sembrano sapere benissimo
cosa fare.
Allora prendo un bel respiro, e questo riesco a tenerlo per me.
Rientro in laboratorio e tiro fuori le pagnotte dal forno. Sono
leggermente più croccanti del solito, ma sono sicura che i miei
intenditori non se ne accorgeranno nemmeno. Ritrovo il mio caffè, ormai freddo, e bevendolo comincia a diradarsi la nebbiolina
rossa che avevo davanti agli occhi. A scuola non me l’aveva detto
nessuno che per le tecniche di rianimazione ci voleva un allenamento da campione olimpionico.
Torno fuori, per vedere che succede. Non è proprio una decisione. Lo faccio e basta.
I paramedici hanno messo una maschera ad ossigeno sul viso
della ragazza, e le stanno iniettando qualcosa. Chiedo cos’è.
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