L`oltre il dualismo cognitivo di una psicologia debole, nel sostrato
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L`oltre il dualismo cognitivo di una psicologia debole, nel sostrato
L’OLTRE IL DUALISMO COGNITIVO DI UNA PSICOLOGIA DEBOLE, NEL SOSTRATO RELIGIOSO DEL MONDO di Giorgio Girard Il disagio spirituale e, oserei dire addirittura “epistemologico”, che l'uomo occidentale può avvertire assistendo al lento ed inesorabile sgretolamento delle cattedrali ideologiche entro le quali si era rifugiato per secoli - salvo poi trovarvisi imprigionato - potrà forse trovare sollievo in una ulteriore riflessione, un secondo passo che é come un varcare la soglia per uscire da una sorta di scontatezza. Ho ormai la consuetudine di intendere un mondo chiuso nella sua logica di ovvietà e naturalezza attraverso la categoria del dualismo. Oggigiorno il soggetto debole mi sembra esprima la sua "debolezza" attraverso quel sottile suo adattarsi ad un mondo che ha perduto, di massima, i suoi parametri dualistico-moralistici, aprendosi alle contraddizioni di realtà complesse ed essenzialmente inafferrabili, e cercando un adattamento che finisce per disperdere i sensi di colpa a vantaggio di un'utilità ad oltranza che possiamo chiamare quindi un'utilità a-morale, o a-moralmente utile come è stato a più riprese da me indicato altrove. Forse è certamente troppo pensare ad una perdita assoluta del senso di ciò che è bene e di ciò che è male, ma credo si possa almeno dire che l'antica ingenuità aderiva ad un mondo completamente diverso, ad un mondo regolato appunto dal dualismo anche nelle sue fasi eversive o comunque conflittuali, animato da credi potenti e sorretto da fedi e "ragioni" quali oggi ci pare di scorgere ormai più soltanto nel mondo islamico. Fede e ragione, entrambe trovavano il loro fondamento nel dualismo (dio - satana, vero - falso) attraverso una reciproca negazione. Infatti nella logica dualistica del monoteismo l'inferno è necessario a fondare il paradiso. Naturalmente per capire ciò occorre estendere il significato della parola “monoteismo” oltre il suo ambito strettamente teologico, e giungere a vedere questa parola come il prototipo di una logica che organizza il mondo secondo un modello dualistico rigoroso. I paradigmi sono infatti quella sorta di “quid” essenziali che - non essendo visibili per il loro carattere non tematico e, quindi, di orizzonte - organizzano e danno consistenza al mondo visibile. Essi conferiscono l‟idea di un modello operativo sottratto alla vista e, quindi, per lo più inconsapevole, non troppo diversamente dal termine “sostrato” che compare nel titolo di questo mio articolo. In questo senso, Dio e satana, e il bene e il male che ci segnalano, sono paradigmi in quanto modellano dualisticamente, “quasi a nostra insaputa”, ogni nostra asserzione sulle cose. Dire inferno comporta l‟immediata evocazione del suo opposto, il paradiso, ed è questa la logica soggiacente al tradizionale “pensare” dell‟occidente; i due poli entrano nel pensiero dell‟uomo raccogliendo rispettivamente tutto il male e tutto il bene e fondando paradigmaticamente la definizione delle cose. Come 1 il male è l‟opposto del bene, e l‟inferno lo è del paradiso, così la vita diventa opposta alla morte, l‟uomo alla donna, ecc. ecc., l‟uomo si separa dalle cose e si fonda come individuo giocando sulla negazione: io sono io perché non sono altro. Ci fondiamo come soggetti nominando gli oggetti che ci stanno di fronte ed in questa contrapposizione troviamo le radici della nostra identità. I luoghi di destinazione del giudizio divino hanno quindi sin da subito assunto anche la funzione di premesse organizzative dell‟esperienza umana. L‟inferno come luogo metafisico per eccellenza, posto lontano dalla nostra vita ma embricato alle radici del nostro rappresentarci; altro polo di una negatività necessaria a fondare il positivo del bene, e quindi la nostra stessa identità espressa come un non del non (Io verso il non Io). Ma consideriamo più da vicino la differenza metodologica tra psicologia forte e psicologia debole. Penso alle lacune della riflessione psicologica che tenda a sottrarsi alla considerazione eminente dei formidabili cambiamenti occorsi nell'ambiente psicologico con l'avvento delle nuove tecnologie, e quindi della comunicazione di massa. Se la differenza tra l‟uomo-servo della gleba del duecento, quello delle diligenze settecentesche, quello di Internet, e forse quello bionico dei secoli futuri resta sullo sfondo nell‟affermare che “pur sempre di uomo si tratta” (ciò che è peraltro sostenibile), il tempo sparisce nel senso che non considera l'essere umano nel suo divenire: la psiche è la psiche, cioè quell'invariante che resta immutata in quanto oggetto e in quanto sostanza. Mentre invece da un punto di vista “debole” - dove il tempo e la storia mettono in rilievo anche una "storia psichica" - l'epoca elettronica ha cambiato l'uomo, nelle sue cognizioni, nelle sue emozioni, nella sua etica. L'aggettivo "debole" della psicologia debole tende a conferire l'idea del concentrarsi su qualcosa che fluisce nel suo continuo divenire, e che non può essere facilmente fermato per un tentativo di descrizione, e nemmeno di calcolo; si riferisce quindi ad un tipo di psicologia che non può fondarsi sull'idea di una psiche pensata come un oggetto, o considerata come "corpo esteso". Qui autori come Michel Foucault ci sono di aiuto. Inoltre una nozione di verità che trovi nei fatti la sua conferma è intrinseca invece ad un modo di ragionare sostantivo e in qualche modo anche letterale. In questa prospettiva metodologica si può a malapena concepire che il merito e la fama possano venire costruiti con mezzi mediatici; perché il merito c’è se la persona in questione ha fatto delle buone performance, e non può crearsi linguisticamente attraverso il “proclamarsi meritevole” in assenza di fatti oggettivamente verificabili. Questo è ancora il dualismo che regge il consueto ordine delle cose, ma che sembra smentito proprio dalla comune osservazione secondo la quale i migliori spesso fanno fatica ad emergere. D'altro lato un modo di ragionare alternativo a questo, valuta invece il linguaggio come un recondito facitore di realtà, dove il saper parlare è premiato più che il saper fare. Ciò sovente ci scandalizza nella 2 nostra pretesa, in certo senso endogena e strutturale, di un assetto forte della realtà in cui ciascuna cosa stia al suo posto e occupi la sua giusta casellina. Tuttavia il “secondo passo” o “la nuova soglia” da varcare invitano a pensare che i fatti in loro stessi siano inutilizzabili senza una loro descrizione, ovverossia una loro interpretazione. Questo è un punto di vista ermeneutico, che tende a confliggere con quello scientifico obiettivo. Nonostante i significativi sviluppi della comunicazione di massa a prevalente configurazione tecnologica fin dagli scorci dell‟ottocento, tendo a pensare che l'era del dualismo dominante nella cognizione dell‟uomo verso il mondo – e la sua pretesa che se una cosa è “in un certo modo” non possa essere qualcosa che assomiglia al suo contrario - sia soprattutto durato fino a quando la tecnologia della comunicazione ha iniziato ad incidere sulla mente umana attraverso i suoi sconvolgenti ed inediti prodotti, anche solo 30 o 40 anni fa. Ma è importante sottolineare che stiamo parlando, non di una élite, bensì di una massa: infatti la crisi elitista ha molto preceduto la crisi della massa, che solo ai giorni nostri si manifesta nei suoi caratteri di disorientamento cognitivo ed emozionale. Basti pensare alle “confusioni” dell‟arte novecentesca rispetto alle chiare e solari rappresentazioni di quella rinascimentale, italiana e fiamminga. Penso che in quelle “confusioni” si vada ben “oltre” il dualismo e che il principio del rispetto del dato di realtà rappresentato dalla figura “così come la vediamo” sia abbondantemente “saltato” nella cosiddetta arte non figurativa, ovvero non dualistica, o oltredualistica. Da tutto ciò si può trarre allora un esempio paradigmatico di quanto sta capitando oggi a livello della cognizione sociale allargata e quindi per così dire “di massa”. La confusione non è più solo artistica, e così come oggi, dopo un secolo e più di tentativi “oltre soglia” (oltre la sostanzialità dualistica che indica ciascuna cosa come se stessa, perché ben distinta e separata dalle altre), molti sono in grado di apprezzare le varie arti informali, concettuali, ecc. attraverso una graduale assuefazione ad un nuovo assetto estetico percettivo-emotivo, così il soggetto che chiamo “rappresentativo” – in rapporto al “soggetto di coscienza” di un tempo - si è poco a poco addestrato a far fronte ad un mondo che sembra avere caratteri e contorni sempre meno dualisticamente definiti nei termini di una loro inambigua chiarezza, dove anche linguisticamente il virtuale fa spessissimo premio sull‟effettivo (“sciopero virtuale”, espressione che implica la corrente assuefazione ad una confluenza ed inclusione degli opposti, se letteralmente assunti; abbiamo invece un inedito esempio di “letteralismo tecnologico” nella precisione quasi ossessiva con cui la più recente meteorologia azzecca le sue previsioni). La capacità di trarre insegnamento dall'effimero e dall'inconsistente richiede riflessioni profonde che sembrano dunque in cammino nella storia. La compenetrazione e compensazione tra termini dualisticamente opposti sta tendenzialmente diventando una nuova struttura riconoscibile nel funzionamento del mondo e vigono atteggiamenti culturali compensatori espressi in letteratura, teatro, cinema, cantautori, ecc. dove l'ambivalenza e i compensi tra sedicenti opposti vengono trasmessi e correntemente compresi, la gente capendo sempre più che la vita è complessa e che il dualismo ne è una sorta di approssimazione semplificatoria e distorcente, anche se necessaria. 3 Si tratta quindi ormai di un soggetto che non limita il proprio quadro cognitivo a rispondere ai requisiti monoteistici – spesso senza peraltro “crederci” – del si e del no („del paradiso e dell‟inferno”), ma che è capace di ampliarlo a circuiti dove trovano posto, attenzione, e perfino attesa, quelle irrazionalità palesi - di cui, per esempio, è metafora il Blob di Rai 3 - che riscontriamo nella rete di insignificanza che siamo capaci di intravvedere, magari divertiti e eventualmente senza angoscia, sotto la coltre della correttezza dualistica ufficiale. D'altro lato, l'atteggiamento politeistico sembra molto meno letteralmente dualistico ed esprime assai più da vicino la realtà umana, che ad ogni momento s‟imbatte in contraddizioni letterali: la portinaia che si assenta, lascia un cartello con su scritto "torno subito", e chi cerca di lasciare un pacco per un amico capisce che quel "torno" significa "me ne vado", e che quel "subito" significa "poi". Tuttavia la religione è la grande metafora per dire che anche quanto non può in definitiva essere veramente capito fino in fondo - diciamo il misterioso occasionarsi del mondo - è operativo nella nostra vita. Ci spaventerebbe un mondo in cui tutto potesse esser previsto fin nelle sue particolarità più marginali e chiamiamo “religiosa” la nostra capacità di “meravigliarci” nella irrinunciabile sfuggenza e aleatorietà della vita e del suo mistero. Dio - o forse piuttosto i molti dèi che rappresentano l'ognora mutevole stato dell'anima, seguendo per esempio Hillman -, e la “religione” (o meglio, la religiosità del sottrarsi ad un appiattimento sul più ovvio scorrere del mondo), sono, ragionando politeisticamente, le grandi metafore per accadimenti ed eventi che la mente dell'uomo e la stessa scienza psicologica vorrebbero capire come se essi fossero letterali in quanto materiali e come tali magari anche obbedienti al calcolo e suscettibili persino di una programmazione, ammantandosi di una progettualità che li renderebbe dominabili-, ma che invece non lo possono che del tutto grossolanamente, dato che essi sono sempre nuovi perché non si ripetono mai nello stesso modo. Ma la ripetizione è fondamentalmente necessaria alla scienza ed ogni esperimento deve esser programmato in tutto il suo essenziale letteralismo e dualismo in modo tale da poter esser ad ogni momento riprodotto e ripetuto nelle esatte condizioni della prima volta; mentre la divina presenza in accezione politeistica nella realtà del mondo presume un soltanto apparente separarsi sostantivo delle cose tra loro e anche un solo apparente ripetersi dell‟esperienza intellettuale ed emotiva dell‟uomo (pensiamo ai “flussi di coscienza” di William James). Come dice anche Hillmann, nell‟anima si dà sempre invenzione e quindi essa non può ripetersi; e questo pensiero echeggia quello di un linguaggio il quale, piuttosto che riprodurre una realtà che è già “la fuori” bella e pronta ad esser descritta, la crea. Ci si domanda dunque quasi ovviamente quanto nella realtà attuale lo stesso nostro parlare, mediaticamente o meno, di crisi finanziaria mondiale la rafforzi o la prolunghi. La sostanza stessa delle cose e dell'essere umano sembra dunque molto presente e importante in una psicologia forte, la quale corrisponde dunque a come l‟individuo “sente immediatamente il proprio mondo”, e cioè dualisticamente; più che in quella debole, per la quale invece le separazioni paradigmatiche "dio uomo - natura" sono molto meno scontate e incisive in quanto l‟anima del mondo si dispiega a “confondere” le separazioni tra le anime individuali presidiate dalla filosofia scolastica di S. Tommaso d‟Aquino. 4 In ciò consiste anche la grande innovazione junghiana: l'aver portato alla psicologia la prospettiva politeistica - attraverso l'inconscio collettivo evocante la non sostanza e la non separazione - che consente quel posizionamento marginale dell'uomo nel mondo che surrettiziamente e in varie forme la psicologia forte rifiuta come antiumanistica. Ma tutte queste sembreranno a qualcuno delle inutili elucubrazioni. Il mondo così come noi lo percepiamo ci si mostra come un mondo di cose e di fatti. Lo chiameremo “mondo tematico”, cioè un mondo che si presenta a noi nella sua visibilità immediata e nella sua chiarezza. Normalmente ci fermiamo lì, per cui il nostro ragionare sulle cose del mondo si mantiene al livello delle sue manifestazioni visibili, le quali ci paiono esaurire tutto ciò che conta veramente. Questo atteggiamento lo chiamiamo atteggiamento “fattuale o tematico”. E‟ ben difficile che un articolo di giornale termini senza proporre una soluzione al problema che viene discusso. Ciò è indotto da un atteggiamento “rispondente” al problema del “che fare”, quindi un atteggiamento basato sulla risposta. E‟ un atteggiamento che soddisfa il naturale bisogno dell‟uomo di vedere ciascun problema incanalato alla soluzione ed è allora plausibile pensare al fatto che noi ci troviamo sempre, o quasi sempre, in un mondo di risposte, ovvero in un mondo dominato dall‟urgenza di trovare soluzioni ai problemi (per cui è molto facile trovare qualcuno che ci dica quello che dobbiamo fare!). Ma noteremo che la risposta, che in certo modo ci tranquillizza perché avvia a soluzione il problema, tende a trovar sede in un alveo strutturato in una credenza, sia essa più o meno pensata, più o meno tormentosamente cercata, o più o meno spontaneamente superficiale. Possiamo allora dire che la credenza è una sorta di rimedio al malessere che ci sarebbe senza la salvaguardia della risposta al problema, risposta che la credenza stessa favorisce. Ma possiamo anche dire, andando oltre, che la credenza – la quale è tutto sommato una sorta di garanzia al nostro bisogno di certezza (che si intravede nell‟intercalare consueto delle interviste, per esempio sportive, alla televisione in cui raramente è assente un “sicuramente”) - è ciò che ci impedisce di restare nell‟innocente atteggiamento del semplice domandare. Possiamo pensare che il mondo contemplativo così apprezzato nella filosofia antica - e costellato e incorniciato dal piacere della riflessione - sia costituito da un mondo di domande in cui in definitiva l’efficienza è valutata meno del benessere. Si potrebbe allora ulteriormente pensare che se l‟uomo vive lontano dal mondo della domanda e resta permanentemente in un ambiente psicologico dominato dai temi della vita corrente - e quindi della risposta egli perde l'occasione di contemplare. Ma, in una prospettiva psicologica debole, il fatto di avere accesso alla contemplazione va ben oltre la sua apparente futilità se considerata dall‟uomo pratico e sempre affaccendato che scorgiamo costantemente intorno a noi, perché contemplazione in questo contesto significa accettazione profonda della fondamentale incertezza dell‟uomo, così temuta dall‟uomo stesso. 5 Tutte le cose hanno almeno due facce di cui una è dimenticata dall‟essere umano per conseguire una temporanea tranquillità. Ma dato che questo autoinganno serve anche un‟apparente efficienza, si può ben sospettare che questa stessa efficienza derivi da un sistematico - e “voluto” - sfuggire alle domande fondamentali; per cui il benessere è qualitativamente sorretto dalla forza e dall’estensione delle domande che ciascun uomo riesce a sopportare. Contemplare la domanda significa infatti continuare a pensare senza il presidio della certezza, e ciò è costoso, implica un processo di svuotamento che assomiglia ad un indebolimento profondo dell’io volto alla sua ricostituzione sotto un altro segno. In definitiva il mondo della domanda è nascosto alla vista dal mondo tematico: esso consiste in una cornice, un‟atmosfera, un orizzonte, qualcosa che resta invisibile proprio in quanto assolutamente presente. A me sembra che quei segmenti culturali che non giungono a percepire il monoteismo come un paradigma crucialmente agente nella storia restino in un ambiente psicologico della risposta, ostacolando quella presa di coscienza della contemplazione che a me sembra consista in una consapevole accettazione dell‟incertezza umana. Nel concludere mi rendo conto che il discorso svolto in questo articolo è parso soprattutto restare in un‟orbita individuale che considera lo sforzo del singolo di oltrepassare i suoi limiti dualistici per così dire “naturali”. Mentre avrei voluto sottolineare anche e forse sopratutto la capienza e la specificità epocale che porta il soggetto rappresentativo a fruire anche spiritualmente dei segnali di indistinzione, di inconsistenza e di ambiguità che questa nostra stranissima epoca lascia trasparire sotto la coltre del suo dualismo perbenistico e talora feroce. Potrei suggerire al lettore una rilettura di questo articolo con un‟attenzione particolare al varcare la soglia come una sorta di risveglio collettivo degli esseri umani di questa nostra epoca dalla scontatezza e banalità del loro mondo. BIBLIOGRAFIA Campanini, M., Illuminati, A. (a cura di), Avempace, Il regime del solitario, B.U.R., Rizzoli, Milano, 2002. Caiani, L. 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