David e Canova - IIS Forlimpopoli
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David e Canova - IIS Forlimpopoli
NEOCLASSICISMO Il termine Neoclassicismo indica il movimento di restaurazione dell’ideale estetico classico che si produce tra la metà del Settecento e gli inizi dell’Ottocento e che ha il suo culmine nell’età napoleonica. Il Neoclassicismo si irradia da Roma e da Parigi intorno al 1760, diffondendosi in Europa e negli Stati Uniti d’America, espressione della società borghese in ascesa. Il Neoclassicismo è la logica conseguenza sulle arti del pensiero illuminista. Il termine Illuminismo indica l’atmosfera culturale caratterizzante il XVIII secolo, detto pure “secolo dei lumi”. Le idee dell’Illuminismo (fiducia nel progresso, tensione verso una società giusta, uguaglianza di tutti gli uomini, tolleranza politica e religiosa, internazionalismo della cultura) furono diffuse soprattutto dall’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (1751-1772) e influenzarono anche la vita politica europea. L’estetica neoclassica ha la sua genesi verso la metà del Settecento e si sviluppa prima nel campo delle arti figurative che in quello della letteratura, inizialmente come reazione al gusto barocco e per certi aspetti in connessione con gli scavi di Ercolano e di Pompei e con la riproduzione delle opere d’arte venute allora alla luce. Assieme al rifiuto degli eccessi del Barocco (sensuale, naturalistico, amante del movimento e dell’ornamentazione), il Neoclassicismo, proteso al conseguimento della perfezione formale espressa dalla purezza delle linee, guardava all’arte dell’antichità classica, specie a quella della Grecia che si era sviluppata grazie alla libertà di cui godevano gli uomini delle poleis. Il massimo teorico del Neoclassicismo fu l’archeologo e storico tedesco Johan Joachim Winckelmann (1717-1768) che in numerosi studi, culminanti nella Storia dell’arte antica (1764), declinò un ideale di perfezione estetica, i cui caratteri fondamentali sono la DIGNITÀ, la GRAZIA e la SERENITÀ, la COMPOSTEZZA anche nella rappresentazione del dolore. Nell’arte degli antichi Winckelmann riconosce come valori: la bellezza dei corpi, la nobile semplicità e la quieta grandezza, il contorno, il drappeggio. Da ciò deriverà il gusto neoclassico per immagini di bellezza ideale, prive di imperfezioni, forme semplici e nitide, ottenute grazie a linee morbide e fluenti e contorni ben definiti, composizioni esatte e posate. L’ideale estetico di Winckelmann ha anche un significato etico e un significato politico. Nella sua concezione, infatti, il Bello coincide con il Buono e fiorisce solo nelle epoche di libertà. L’identificazione dell’ideale estetico con l’ideale etico, espressione di valori morali universali ed eterni, indusse alla ripresa di modelli morali e di virtù del mondo classico, in particolare della Roma repubblicana, riconoscendo all’arte finalità educative che incitavano al patriottismo, alla forza morale, al sacrificio. ARCHITETTURA L’architettura greco-romana diviene il modello di bellezza assoluta, tanto da modificare il modo di costruire, introducendo un processo di emulazione citazionistico. Tra i modelli principali, ricordiamo il Partenone, il Pantheon e gli archi di trionfo di epoca romana, gli edifici progettati da Andrea Palladio nel Cinquecento. Il risultato non è la riproduzione fedele degli edifici presi a modello, quanto piuttosto un pastiche di elementi tratti da diversi monumenti, reinterpretati in composizioni che diventano il simbolo della nuova stagione classica europea. La bellezza classica, intesa come custode delle virtù etiche e morali dell’uomo espresse dalle due maggiori civiltà europee, diventa simbolo dell’autorità politica, segnata da un forte sentimento nazionalistico. PITTURA Anche in pittura le opere degli artisti mirano a ricreare l’idea di perfezione che essi ritengono presenti nell’arte classica. La pittura si popola di eroi ed eroine dell’antichità classica i cui miti incarnano lo spirito laico e didascalico dell’Illuminismo, che attribuisce all’arte una funzione educativa. Il pittore francese JACQUES-LOUIS DAVID (1748-1825) fu l’artefice di una radicale riforma dell’arte basata su un rigoroso ritorno all’antico, recuperato sia come modello di bellezza assoluta che come esempio di virtù morali e civiche. 1 IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI, 1784, olio su tela, 425x330 cm, Parigi, Musée du Louvre. Commissionato per la corona francese, il dipinto fu eseguito nel corso del secondo soggiorno di David a Roma (1784-1785) e presentato al Salon parigino del 1785, dove riscosse notevole successo. Per il soggetto David s’ispirò all’Horace di Perre Corneille e alle vicende narrate dallo srorico romano Tito Livio. Nel corso della guerra tra Roma e Alba Longa, le due opposte fazioni decisero di risolvere il conflitto attraverso un duello fra tre fratelli albani, i Curiazi, e tre fratelli romani, gli Orazi. Dopo la vittoria, il romano Orazio, unico superstite, uccise la sorella Camilla, colpevole di piangere per la morte di uno dei Curiazi con cui era fidanzata. Il soggetto, scelto dalla storia della Roma monarchica, rappresenta le virtù civiche romane: i tre giovani giurano di vincere o morire per Roma. In conformità all’estetica neoclassica, David non mostra il momento cruento del combattimento, ma sceglie di rappresentare quello supremo del giuramento, che precede l’azione, e congela nei gesti tutti i personaggi che in tal modo illustrano l’amor di patria. La scena si svolge nell’atrio di una casa romana inondata dalla luce solare. L’impianto prospettico è sottolineato dalle fasce marmoree che racchiudono riquadri di pavimento in laterizi disposti a lisca di pesce. Nel fondo due pilastri e due colonne doriche dal fusto liscio sorreggono tre archi a tutto sesto oltre i quali, immerso nell’ombra, un muro delimita un porticato, mentre un’ulteriore arcata, a destra, lascia intravedere altri ambienti abitativi. I personaggi sono distinti in due gruppi incorniciati dalle arcate estreme mentre il vecchio padre si erge nel mezzo, isolato, conscio della propria centralità nella storia e consapevole di mettere a repentaglio la vita dei figli chiedendo loro il giuramento: “O Roma o morte”; parole che ha appena pronunciato, dato che ha le labbra dischiuse. Il rosso del mantello, che richiama su di lui la nostra attenzione, lo individua come personaggio chiave della rappresentazione, mentre leva in alto le spade lucenti che, successivamente, consegnerà ai figli. È proprio su quella mano tenuta stretta che sta il punto di fuga, lì i raggi prospettici conducono i nostri occhi. In direzione del padre e verso le spade si protendono anche le braccia dei tre fratelli, tenute alte nella solenne promessa. L’unisone del gesto e della posa spoglia i tre giovani della loro individualità, unendone simbolicamente le volontà. Al coraggio e alla determinazione virile si contrappongono i gesti teneramente compassionevoli delle donne. Le loro tre figure ripropongono lo schema iconografico del compianto degli eroi morti: in posizione più arretrata, la madre degli Orazi copre con il suo velo scuro, presago di lutto, i suoi due figli più piccoli, mentre la figlia Camilla, affranta e con le mani in grembo, si volge verso la cognata Sabina (moglie del maggiore dei fratelli). Questa, piegata verso di lei, le tiene sulla spalla una mano su cui appoggia il capo chino. A sottolineare la distinzione tra fermezza maschile e femminile abbandono al dolore non è soltanto la disposizione separata di uomini e donne, ma anche lo stile del disegno. L’anatomia muscolare, tesa e precisamente definita, degli Orazi - equivalente stilistico della severa decisione morale- è resa con contorni netti e pose ferme; nel gruppo delle donne, tale energico andamento rettilineo cede invece il passo a uno stile morbido, che mette in rilievo un linearismo fluente e uno sviluppo semicircolare della composizione. La coincidenza di stile e severità morale, di forma e contenuto, è rafforzata dall’impostazione complessiva della scena, razionalmente organizzata su una studiata e precisa scansione geometrica. La luce fredda e limpida definisce con precisione i corpi delle figure, mettendo in rilievo la semplicità e la razionalità dello spazio. L’architettura essenziale e disadorna e l’uniformità cromatica delle pareti nude sono in perfetta corrispondenza con la solennità dell’avvenimento, presentato attraverso una narrazione sintetica ma capace di esaltare l’intransigente messaggio morale dell’artista. 2 MORTE DI MARAT, 1793, olio su tela, 162x125 cm, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts. Dopo l’assassinio di uno dei leader della Rivoluzione, Jean-Paul Marat, avvenuto il 13 luglio 1793 per mano della giovane Charlotte Corday, David dipinse una delle sue tele più intense, opera che intendeva essere una sorta di santificazione laica di un martire della causa rivoluzionaria; per questo impostò l’episodio secondo il modello iconografico del della Pietà o delle Deposizione di Cristo: la ferita aperta sul costato gronda ancora sangue, la testa è riversa, il braccio destro abbandonato lungo la sponda della vasca, il lenzuolo macchiato di rosso appare quasi un sudario; il calamaio e la penna d’oca sulla cassetta, la penna ancora stretta nella mano destra e il coltello lasciato a terra sono come gli strumenti della Passione. Il cadavere di Marat emerge dall’oscurità: il fono è scuro e quasi monocromo, se non fosse per le fitte pennellate gialle formanti una sorta di pulviscolo dorato che sembra voler investire Marat. La sobrietà e l’essenzialità dell’arredo quasi monastico della stanza (la cassetta di legno – trasformata da David in una sorta di lapide- la vasca da bagno in cui il rivoluzionario è immerso per necessità curative, il ripiano di legno ricoperto da un drappo verde, che funge da scrivania, il lenzuolo rattoppato), stanno a testimoniare la virtuosa povertà di Marat, repubblicano incorruttibile, ucciso a tradimento proprio per le sue virtù, le stesse alle quali l’assassina aveva fatto appello per essere ricevuta, come testimonia il biglietto che Marat tiene nella mano sinistra. Nel rappresentare la morte di Marat la scelta di David cade su un momento successivo all’omicidio. In tal modo l’evento violento non è mostrato e il volto dell’assassina viene condannato all’oblio, mentre Marat diviene l’icona dell’eroe rivoluzionario moderno. SCULTURA Ripudiate le frivolezze del Rococò, gli scultori cercano nuovi modelli improntati alla sobrietà o alla naturalezza invocate dallo spirito illuminista. Nella scultura degli ultimi decenni del Settecento si vede chiaramente il riferimento ideale e formale al canone classico. Osservare, studiare e copiare le sculture classiche è considerato il modo migliore di formazione, ancor più che lo studio diretto della natura: gli antichi, infatti, avevano già fatto il passaggio dall’osservazione del dato naturale alla sintesi di esso attraverso il canone proporzionale, quindi erano il modello da imitare in quanto le loro opere erano addirittura più vere del vero. I modelli ricorrenti vengono dalla statuaria greca o romana. ANTONIO CANOVA Canova incarna i principi neoclassici di Winckelmann, sia nel disegno che nella scultura. Scopo di Canova è il raggiungimento della bellezza ideale, cioè quella derivante da un’idea di “bello” che l’artista si forma nella mente dopo aver constatato l’impossibilità di trovare un corpo perfetto in natura. A tale bellezza si può pervenire tramite la massima padronanza della tecnica scultorea e sempre imitando la scultura classica. Canova realizzò solo opere in marmo, unico materiale che, secondo lui, poteva rendere al meglio la morbidezza e la flessibilità della carne. Affinché tali caratteristiche fossero esaltate quanto più possibile, Canova trattò totalmente o parzialmente molte sue sculture con cera rosata o ambrata cosicché il colore del marmo finito fosse simile a quello dell’incarnato. Tutte le sculture canoviane sono condotte fino al sommo grado di finitura, levigate sino a che il marmo opaco non diventa totalmente liscio e traslucido. L’artista organizzò la propria bottega in modo da riservare a sé l’ideazione e la lavorazione della superficie finale, cioè l’attività creativa, mentre lasciava che gli aiuti svolgessero le funzioni meno importanti. Canova, partendo dal disegno definitivo, realizzava il modello in creta; gli assistenti traevano da questo il calco in gesso, in base al quale poi sbozzavano il marmo. A questo punto interveniva di nuovo Canova che conduceva l’opera a compimento. 3 AMORE E PSICHE, 1787-93, marmo, h 155 cm, Parigi, Musée du Louvre: l’artista ha fermato nel marmo un attimo che rimane sospeso: la tensione la tensione dei due giovani corpi che non si stringono, ma si sfiorano appena con sottile erotismo. È l’attimo che precede il bacio, un contatto che sta per avvenire, che l’atteggiamento dei corpi e gli sguardi preannunciano. Solo la visione frontale permette di trattenere un’immagine significativa del gruppo statuario, perché consente di coglierne la geometria compositiva lineare formata da due archi che si intersecano (e che mettono in gioco il corpo leggermente sollevato di Psiche, la gambe destra e le ali tese di Amore) e due cerchi intrecciati (le braccia dei giovani amanti) che sottolineano il punto d’intersezione degli archi. Tuttavia i rapporti reciproci tra i due corpi, pensati nello spazio, mutano continuamente girando attorno al gruppo scultoreo: solo così ci si accorge della complessità della creazione di Canova. EBE, 1816-17, marmo e bronzo dorato, h 158 cm, Forlì, Pinacoteca civica: nell’arco di un ventennio, a partire dal 1796, Canova realizzò quattro versioni di questa scultura, leggermente diverse tra loro; questa di Forlì è l’ultima. La divinità è sostenuta da un tronco d’albero; il suo busto è nudo, mentre la parte inferiore del corpo è avvolta da una veste leggera dalle mille pieghe che l’aria porta ad aderire al giovane corpo mostrandone ogni curva. Il chiaroscuro più pronunciato si riscontra lateralmente, nel mosso groviglio della veste che, dal fianco, accompagna la gamba arretrata. Tutto in Ebe tende alla grazia: il suo corpo giovane, il volto perfetto, la delicatezza con cui tiene la coppa e l’anfora, l’atteggiamento del corpo appena spinto in avanti, ma con il busto lievemente incurvato all’indietro. Canova ribadisce la sua aderenza agli esempi della statuaria classica sia esprimendo il bello ideale che eliminando le forti passioni e riesce a conciliare il movimento con la calma e la compostezza, ovvero le principali qualità che Winckelmann ravvisava nell’arte antica e indicava agli autori contemporanei come caratteri imprescindibili dell’operare artistico. Riesce anche ad infondere nella materia inerte la sensuale morbidezza della vera carne e una vaga parvenza di vita, colorendo con una patina dorata mista a cera le parti nude, in contrasto con il bianco delle vesti, e utilizzando materiali metallici per il vaso, la coppa, la collana che isola il busto dal collo, e il nastro che cinge i capelli esaltandone l’acconciatura. 4
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