PEDAGOGIA CLINICA E SINDROME DI TOURETTE Dott.ssa Vera
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PEDAGOGIA CLINICA E SINDROME DI TOURETTE Dott.ssa Vera
PEDAGOGIA CLINICA E SINDROME DI TOURETTE Dott.ssa Vera Colombo, pedagogista clinico, Segretario Regionale ANPECi Lombardia e Direttore ANPEC sez. Varese La mia conoscenza dell’A.I.S.T. – l’Associazione Italiana Sindrome di Tourette - risale all’inverno del 2010, quando un’amica, in riferimento alla professione che svolgoii, mi chiede se ho mai avuto a che fare con la Sindrome di Tourette. Lì per lì mi vergogno quasi di ammettere che della sindrome ricordo ben poco, giusto quello che ho studiato sui libri di scuola, ma non di più: un disturbo motorio e comportamentale, con esordio in età giovanile, caratterizzato dalla presenza di tic (motori, sonori e ideici-comportamentali). La mia amica mi aveva messo la pulce nell’orecchio… Nel frattempo prosegue la mia attività come consulente presso le scuole e un giorno mi capita davanti Samueliii. Chiede un colloquio allo sportello d’ascolto della sua scuola: «i miei compagni dicono che sono scemo e mi prendono in giro perché in classe urlo e lancio le cose…», mi racconta. Gli insegnanti mi parlano di un ragazzo con evidenti segnali di irrequietezza motoria, difficoltà di attenzione, aggressività (fisica e verbale, con oggetti e persone), coprolalia, scarsa autostima e depressione: «è un ragazzo difficile, ma non è colpa sua, poverino…», dicono. La loro affermazione è dovuta a quanto conoscono della storia personale di Samuel: il padre muore di tumore quando il bambino ha pochi anni e prima di andarsene, pensando di fare il bene del figlio, lo allontana da sé. Da allora la madre ha avuto diverse relazioni, mai concretizzatesi in un rapporto stabile, e di questo viene incolpato il figlio. Samuel ha una diagnosi di ADHD e a scuola è seguito da un’insegnante di sostegno. I Servizi Sociali che seguono il caso di Samuel hanno inquadrato la situazione con estrema facilità: hanno sommato situazione familiare e diagnosi, traendo la conclusione che i comportamenti problematici del ragazzo siano una richiesta di attenzione e una modalità (anche se non appropriata) per esprimere la sua rabbia. La soluzione proposta è un percorso di psicoterapia per madre e figlio e l’inserimento di Samuel in una comunità dove trascorrere il pomeriggio dopo la scuola, quando la madre è ancora al lavoro. Un caso diverso (ma ugualmente sottovalutato) è quello di Giovanni, 11 anni, che arriva allo sportello per un problema con i professori. Giovanni mi racconta che durante la lezione fa dei “versi”, i compagni ridono e il professore di turno gli mette la nota. Siamo ad ottobre e sua madre è già stata chiamata a colloquio 3 volte. Quando chiedo agli insegnanti, mi viene dipinto un quadro caratterizzato da irrequietezza motoria e difficoltà di attenzione, aggressività sia verso gli oggetti che le persone. Mi vengono confermati anche i famosi “versi” di cui mi ha parlato Giovanni , oltre al “fare il verso” ai professori e a sorridere spesso “in modo provocatorio”. Un docente mi dice: «è un atteggiamento inaccettabile, lo fa con la precisa intenzione di farmi perdere la calma…». Ma anche qui, secondo i docenti, c’è una spiegazione semplice: Giovanni è figlio di genitori separati non consensualmente, tant’è che gli stessi continuano a contendersi il ragazzo. Gli insegnanti sono convinti che Giovanni senta la mancanza della figura paterna e che cerchi di attirare la sua attenzione mettendosi in mostra, anche se negativamente. D’altro canto, la madre viene ritenuta inadeguata a educare Giovanni da sola, tant’è che la scuola consiglia vivamente alla famiglia di rivolgersi alla NPI di zona per una visita; i docenti consigliano, inoltre, alla madre di portare il ragazzo in un’altra scuola, poiché loro non sono in grado di gestire un caso come quello di Giovanni. Ricordano alla signora che se quest’anno il figlio verrà promosso, il prossimo verranno adottati criteri più severi, e cambiare scuola da promosso è tutt’altra cosa che farlo da bocciato. Eppure qualcosa non mi tornava. Le spiegazioni addotte dai docenti e dai vari enti erano davvero troppo semplicistiche. Quella pulce nell’orecchio di cui sopra cominciava proprio a darmi fastidio… vado sul sito www.tourette.it, da qualche parte si deve pur cominciare. Ecco cosa scopro: i tic sono vocalizzazioni o movimenti rapidi, ripetitivi, per lo più stereotipati, improvvisi. Percepiti come incontrollabili da chi li mette in atto, possono coinvolgere tutto il corpo. Ne esistono di motori, sonori, ideici e comportamentali. Quelli motori sono classificati in semplici (ammiccamenti, smorfie, scatti della testa o arti, innalzamento spalle, contrazione muscoli addominali) e complessi (saltelli, auto-allocontatto, manipolazione oggetti, esecuzione di sequenze motorie coordinate). Anche i tic sonori possono essere semplici (tosse, schiocco lingua, soffi, mugolii, brevi vocalizzi) o complessi (ecolalia, palilalia, coprolalia, verbalizzazioni stereotipate). I tic ideici e comportamentali, invece, sono idee riverberanti e disturbanti l’attività quotidiana ovvero veri e propri comportamenti stereotipati e ripetitivi che appaiono simili ad atteggiamenti compulsivi, manie per intenderci. Navigando sul sito, scopro anche una cosa “divertente”. Quest’estate (2011) il Governo Italiano ha dichiarato e riconosciuto la Tourette come malattia rara, peccato che interessi circa il 18% dei bambini in età scolare. La cosa che, però, attira maggiormente la mia attenzione è la classificazione che a livello mondiale viene fatta delle varie tipologie di Tourette. La sindrome di definisce Simple, se compaiono solo tic motori e sonori, Full Blown, se ai tic sono associate coprolalia, coproprassia, ecolalia e ecoprassia, e Plus, se vi sono anche altri disturbi quali l’ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), OCD (disturbo ossessivo compulsivo) e OCB (comportamento ossessivo compulsivo). Avevo trovato la risposta per i miei ragazzi! Era il momento di andare a parlare con qualcuno dell’AIST Associazione Italiana Sindrome di Tourette. Mi reco, quindi al Galeazzi di Milano, dove il prof. Mauro Porta, neurologo ed esperto di fama internazionale della sindrome di Tourette, gestisce l’ambulatorio del Centro per le malattie extra-piramidali e – appunto – la sindrome di Tourette. Ora, chi conosce la mia figura professionale, sa che il pedagoista clinico si distingue da altri professionisti dell’aiuto alla persona perché considera l’individuo non un insieme di sintomi, bensì una Persona, risultato di più dimensioni strettamente interconnesse tra loro: corporea – certamente – ma anche intellettiva, emotivo-affettiva e soprattutto sociale. Dovevate vedere la mia faccia quando il prof. Porta, un medico che cura le malattie, cerca di convincermi dell’importanza di andare oltre il sintomo per valutare la Persona nel suo complesso. Arriva perfino a dirmi che se un individuo tourettiano riesce a gestire la sua sintomatologia senza provare disagio sociale è assolutamente inutile che si rivolga a lui, è sano. «Ma lei è un medico», provo a contestare, «cura i sintomi». «Certo, ma il sintomo peggiore è proprio il disagio sociale», mi risponde. Capisco che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, non solo come approccio, ma anche come obiettivo: migliorare la qualità di vita delle persone. Ora, è naturale che il disagio non viene percepito solo dall’individuo affetto da Tourette. Grandemente coinvolte sono anche la famiglia, la scuola in caso di minori in età scolare, la società tutta che ci circonda. Ecco allora che il miglior mezzo per raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissi è fare in modo che questa società si trasformi in una rete sociale informata. D’accordo con il prof. Porta ho subito pensato che il pedagogista clinico fosse la figura professionale ideale non solo per accompagnare l’individuo in difficoltà, ma anche per svolgere un’azione di informazione rivolta prima di tutto all’individuo stesso, poi alla famiglia e quindi a tutti coloro che si interfacciano con la persona tourettiana. Perché è così importante informare, ancor prima che curare? Perché una maggiore conoscenza della sindrome faciliterebbe l’aumento di diagnosi corrette e soprattutto effettuate in tempi brevi, con un enorme risparmio di tempo e denaro, non solo per le famiglie, ma anche per il nostro sistema sanitario nazionale. Inoltre, a questo tipo di risparmio si aggiungerebbe anche quello in salute, evitando alle famiglie lo stress di aspettare anni prima di avere una diagnosi corretta e nel frattempo dover provare innumerevoli terapie e cure diverse senza alcun risultato concreto. Conoscere la sindrome significherebbe anche sapere che il suo andamento è tipicamente altalenante: questo permetterebbe di evitare paure e preoccupazioni debilitanti nel momento in cui la sintomatologia dovesse cambiare, perché sapremmo perfettamente che determinati tic possono sparire e lasciare posto ad altri, così come interessare parti diverse del corpo e modificarsi in intensità. Questo significa che potranno esserci periodi di quiescenza della malattia e periodi di maggior gravità, ma questo non dovrà portare né a false speranze né a crisi controproducenti. Se si conoscesse meglio la sindrome si saprebbe che nella maggior parte dei casi vi è un esaurimento spontaneo alla maturazione completa del cervello (20-25 anni). Se si conoscesse la sindrome ci si potrebbe opporre con coscienza e responsabilità a ricoveri psichiatrici, terapie psicologiche o indagini dei servizi sociali sulle competenze genitoriali. Va assolutamente ribadito, infatti, che la sindrome di Tourette non è un disturbo né psicologico né psichiatrico, ma prettamente neurologico. Ciò significa che ad essere interessate sono quelle parti del cervello che controllano l’inibizione degli impulsi e l’autocontrollo. Ecco perché un tourettiano ha problemi di irrequietezza, disattenzione, controllo dei movimenti, ecco perché può avere dei comportamenti autolesivi o considerati socialmente non accettabili. Ma se si conosce la sindrome si può intervenire in modo corretto e aiutare singoli individui e intere famiglie a migliorare la loro qualità di vita. L’intervento tempestivo è fondamentale soprattutto se pensiamo che le situazioni di disadattamento familiare, scolastico e sociale possono portare a riduzione di autostima, disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, depressione, isolamento… e questo proprio nell’età più delicata – l’infanzia e adolescenza – in cui l’individuo forma la propria identità. Al di là dell’intervento sui sintomi ticcosi, quindi, è di fondamentale importanza intervenire sulle variabili ambientali ovvero coloro che entrano in relazione con l’individuo. È vero che l’ambiente non può cancellare il disturbo, ma può fare molto riguardo alla gestione dello stesso, mantenendo quindi un’alta qualità di vita. Cosa può fare l’ambiente: può innanzitutto informarsi e imparare a conoscere la sindrome, quindi accettare il fatto che gli individui tourettiani abbiano delle esigenze specifiche, accogliere queste esigenze e sforzarsi di trovare delle soluzioni adeguate nel rispetto di tutti, aiutando l’individuo a stare bene con se stesso e con gli altri. Per il pedagogista clinico, questo significa accompagnare le persone lungo un cammino di consapevolezza e soprattutto di crescita personologica con l’obiettivo di rafforzare la propria personalità e ritrovare la fiducia in se stessi. Un cammino che è auspicabile percorra non solo l’individuo tourettiano, ma anche la famiglia che ha sofferto e ora lotta con lui. Questo ci porta a ritenere importante un’azione di sostegno e accompagnamento per i familiari (parent trainig), i quali hanno bisogno di essere capiti, ascoltati e sostenuti nella loro funzione di contenimento e filtro sociale. Lo stesso tipo di sostegno può essere fornito a tutti coloro che ne sentano il bisogno, la scuola in primis, ma anche parrocchie, centri giovanili, centri sportivi ecc. Come sempre accade, quando abbiamo a che fare con degli individui in difficoltà, l’unico mezzo per riportare l’equilibrio è lavorare in rete, basandosi su conoscenze e principi condivisi. Senza l’assunzione della propria (co)responsabilità, infatti, sarebbe molto più difficile - se non impossibile - raggiungere risultati soddisfacenti. i ANPEC Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici Pedagogista Clinico e Reflector iii I nomi sono di fantasia, nel rispetto della privacy di minori e famiglie ii
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