letto di ossa

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letto di ossa
Patricia Cornwell
letto di ossa
Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
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Prologo
22 ottobre 2012
ore 6.20
Nel punto in cui il fiume Redwillow confluisce nel Wapiti, nella
regione nordoccidentale dell’Alberta detta Peace, le acque sono di
un verde scuro e spumeggiano impetuose intorno a tronchi caduti e isolotti di sabbia grigia con piccole spiagge di sassolini chiari.
Fitti boschi di abeti e pioppi rivestono i pendii delle colline, e
sulle sponde rocciose dei fiumi crescono arbusti a inclinazioni impossibili, che tendono i rami sottili verso il sole prima che la forza di gravità li pieghi e li spezzi.
La corrente spinge a riva tronchi e rami secchi o li raccoglie in
nidi in cui ribollono le rapide, che trascinano a valle gli alberi caduti
in un ciclo senza fine di vita e di morte, di rinascita e decadimento.
Non vi è traccia di insediamenti umani: non vedo costruzioni,
rifiuti o inquinamento creati dall’uomo; mi sembra di assistere alla
violenta catastrofe avvenuta settanta milioni di anni fa, quando
un branco di pachirinosauri trovò la morte all’improvviso durante
una migrazione e centinaia di esemplari presi dal panico cercarono
di fuggire e annegarono tentando di attraversare il fiume in piena.
Le loro enormi carcasse vennero divorate dai carnivori, si decomposero e si disarticolarono. Nel corso dei secoli, le loro ossa
vennero spostate dalle frane e dalla corrente del fiume, trasformandosi in affioramenti e depositi glaciali praticamente indistinguibili dai massi erratici e dal substrato di roccia granitica.
Le immagini che scorrono sullo schermo del mio computer po9
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trebbero essere di una natura selvaggia rimasta incontaminata dal
Cretaceo a oggi, se non fossero state riprese da un essere umano
che regge in mano una videocamera mentre naviga a gran velocità in acque poco profonde, evitando banchi di sabbia, scogli semisommersi e tronchi galleggianti.
Non riconosco elementi dell’esterno né dell’interno della barca a idrogetto, non vedo pilota né passeggeri a bordo, solo la battagliola a poppa e la sagoma di una persona controsole, un’ombra
dai contorni netti che si staglia contro le acque chiare e impetuose
e il cielo azzurro senza nuvole.
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Controllo l’ora sul mio megaorologio in titanio con cinturino in gomma e prendo il caffè, nero e senza dolcificante. Sento passi distanti nel corridoio dell’edificio a forma
di proiettile in cui lavoro, al margine orientale del campus
del Massachusetts Institute of Technology. È il quarto lunedì di ottobre e il sole non è ancora spuntato.
Sette piani sotto il mio ufficio in cima al palazzo, il traffico lungo Memorial Drive è intenso: in questa zona di
Cambridge l’ora di punta comincia prima dell’alba, con
qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione. I fari si muovono lungo gli argini del fiume Charles, appena increspato,
come occhi di insetti luccicanti. Oltre lo Harvard Bridge la
città di Boston è una barriera scintillante che separa gli imperi terreni della finanza e delle università dal porto e dalla Massachusetts Bay.
A quest’ora il personale non è ancora arrivato, ma forse
i passi che ho sentito sono di uno degli investigatori. Non
capisco perché Toby, Sherry o chiunque sia di turno dovrebbe essere a questo piano, però.
In realtà non ho idea di chi abbia preso servizio a mezzanotte. Cerco di farmi venire in mente quali macchine ho
visto nel parcheggio quando sono arrivata, un’oretta fa. I
soliti suv e furgoni bianchi e una delle nostre unità mobili per l’analisi delle prove materiali, mi pare. Non ho fatto
caso a chi altro ci fosse. Ero troppo occupata a consultare
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il mio iPhone, con segnali acustici e messaggi a ricordarmi
gli appuntamenti e le videochiamate in programma per la
giornata. Oggi pomeriggio ho un’udienza in tribunale. Mi
innervosisce non rendermi conto di quello che ho intorno
perché sono troppo occupata a fare dell’altro.
Dovrei prestare più attenzione a ciò che mi circonda, mi
rimprovero, ma non posso preoccuparmi di chi è di turno.
È ridicolo che io debba pensare a queste cose. Frustrata, rifletto che a quanto pare il capo del reparto investigativo,
Pete Marino, da qualche tempo a questa parte non si premura più di aggiornare il calendario elettronico. Eppure
non ci vuole molto a spostare i nomi da una data all’altra,
in maniera che io sappia sempre chi è in servizio. È da un
po’ che Marino non lo fa più. Se ne sta parecchio per conto
suo, ultimamente. Dovrei invitarlo a cena, preparargli qualcosa di buono e chiedergli come sta. Il solo pensiero mi fa
venire il nervoso. Sono poco paziente in questo momento.
“Uno sconosciuto mentalmente disturbato. O forse sarebbe più corretto dire ‘malvagio’.”
Tendo le orecchie per cercare di capire chi c’è nel corridoio, ma non sento più nessuno mentre faccio ricerche in
Internet, clicco su diversi file e mi arrovello sempre sugli
stessi particolari, finché mi rendo conto di quanto mi senta
sconfitta e di come questo mi faccia arrabbiare.
“Hai sortito l’effetto desiderato, almeno stavolta.”
Non esiste nulla di abbastanza macabro o raccapricciante da impressionarmi, avendone viste di tutti i colori in vita
mia, ma ieri pomeriggio sono stata colta alla sprovvista. Stavo passando una domenica tranquilla a casa con mio marito
Benton, avevo musica in sottofondo e il MacBook aperto sul
bancone della cucina nel caso fosse successo qualcosa che
era meglio sapessi subito. Ero rilassata e intenta a preparare
uno dei piatti preferiti di mio marito, il risotto con gli spinaci come lo fanno a Sondrio, sorseggiando un Geheimrat
J Riesling che mi ricordava Vienna e il motivo del nostro
recente viaggio nella capitale austriaca.
Ero assorta a pensare a persone a cui voglio bene, mentre
cucinavo una buona cenetta e bevevo buon vino, quando mi
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è arrivata un’e-mail con allegato un file video. Erano esattamente le diciotto e trenta, ora della costa orientale. Il mittente mi era sconosciuto: [email protected]. Non
c’era messaggio e l’oggetto era: c.a. dott.ssa kay scarpetta,
direttrice cfc, tutto maiuscolo, grassetto, font Eurostile.
All’inizio sono rimasta semplicemente stupita dai diciotto secondi di video muto, clip copiate e incollate di una gita
in barca in una parte del mondo che non ho riconosciuto.
Mi sembrava un video abbastanza innocente e non mi ha
detto niente la prima volta che l’ho visto. Ho pensato che
me lo avessero mandato per sbaglio. Poi, però, a un certo
punto il filmato finiva e appariva un’immagine volutamente scioccante, in formato jpeg.
Lancio un’altra ricerca nel cyberspazio senza riuscire
a trovare niente di utile a proposito del pachirinosauro,
un dinosauro erbivoro con uno spesso rigonfiamento sul
muso, di forma arrotondata, e un collare osseo dotato di
corna, che probabilmente gli servivano nei combattimenti
con altri animali. Un bestione dall’aspetto alquanto singolare, simile a un rinoceronte, con le gambe corte e un muso
grottesco, che pesava due tonnellate. Guardo il disegno e
penso che mi sarebbe difficile amare un rettile con quella
faccia, eppure Emma Shubert, quarantotto anni, paleontologa, amava i pachirinosauri e adesso le è stato tagliato un
orecchio oppure è morta, se non tutti e due.
L’e-mail anonima è arrivata qui all’indirizzo del cfc, il
Cambridge Forensic Center che io dirigo. Probabilmente lo
scopo è intimidatorio: qualcuno vuole farmi paura. Penso
a una barca a idrogetto che sfiora veloce un fiume migliaia
di chilometri a nordovest da qui, in quella che sembra una
zona sperduta del mondo. Osservo la sagoma sottoesposta,
simile a un fantasma, seduta sullo sfondo, probabilmente su
una panca, rivolta verso la persona che sta girando il video.
“Chi sei?”
Poi guardo la ripida parete rocciosa, che adesso so essere
il letto di ossa del Wapiti, un cimitero di dinosauri. Quindi
appare un’immagine jpeg, violenta e crudele.
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È un orecchio umano, tranciato, ben definito e delicato, senza peli sulla cartilagine curva.
Un orecchio destro. Carnagione chiara, probabilmente di
un bianco. Probabilmente di una donna, di sicuro non di
un maschio adulto o di un bambino, ma non posso escludere che appartenga a un adolescente, maschio o femmina.
Il lobo presenta un buco al centro e il giornale sporco di
sangue su cui l’orecchio è stato fotografato è facilmente
identificabile: è il “Grande Prairie Daily Herald-Tribune”, il
quotidiano locale della regione in cui Emma Shubert lavorava l’estate scorsa, nel Nordovest del Canada. Non riesco
a vedere la data, solo il frammento di un articolo riguardante un parassita dei pini di montagna responsabile della distruzione di molti alberi.
“Che cosa vuoi da me?”
In quanto membro dell’afme, l’Istituto di medicina legale delle Forze armate, faccio capo al dipartimento della Difesa e, se ciò allarga la mia giurisdizione a livello federale, di certo questa non arriva a comprendere il Canada. Se
Emma Shubert è stata assassinata, non sta a me seguire il
caso, a meno che il suo cadavere non giunga qui, a migliaia
di chilometri a sudest da dove è scomparsa.
Chi è stato a inviarmi questo file e cosa ha intenzione di
farmi fare? Forse quello che ho fatto dalle sei e mezzo di
ieri pomeriggio.
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“Avvertire le forze dell’ordine, preoccuparmi, sentirmi
impotente e piena di collera” mi dico.
Sento scattare la serratura biometrica del laboratorio informatico forense, vicino al mio ufficio. I passi che ho sentito non erano di Toby né di qualche altro investigatore,
bensì di mia nipote Lucy. Ciò mi sorprende e mi fa piacere perché ero convinta che non venisse al cfc stamattina.
Credevo fosse in volo per New York, o forse un’altra destinazione, non lo so più. È molto occupata in questi ultimi tempi: sta mettendo a posto quella che definisce la sua
“casa di campagna”, una proprietà piuttosto estesa che ha
comprato a Lincoln, a nordovest di qui. E poi va e viene dal
Texas per prendere l’abilitazione per l’elicottero bimotore
che ha acquistato. Dice che ha problemi per i quali io non
posso fare niente e mi tiene dei segreti. L’ha sempre fatto,
e io immancabilmente me ne accorgo.
“Sei tu? Caffè?” le scrivo per sms.
La vedo comparire sulla soglia, snella e in forma perfetta. Ha una maglietta nera abbastanza aderente, un paio di
calzoni neri di seta, con le tasche laterali, e scarpe da ginnastica di pelle, anch’esse nere. Vedo le vene gonfie sugli avambracci muscolosi e sui polsi. Ha i capelli con i colpi di sole biondo-rossicci ancora bagnati, dopo la doccia.
Ho l’impressione che sia appena uscita dalla palestra e che
sia diretta a un appuntamento con qualcuno di cui non so
niente, anche se non sono nemmeno le sette del mattino.
«Buongiorno.» Mi ero scordata quanto piacere mi fa stare con lei. «Credevo fossi in volo.»
«Sei arrivata presto.»
«Ho un sacco di esami istologici arretrati da fare e probabilmente non riuscirò a finirli neanche oggi» le rispondo. «E nel pomeriggio ho un’udienza in tribunale. Devo testimoniare al processo Mildred Lott. Una pagliacciata: mi
hanno convocato solo per far scena.»
«Non ti illudere.» Lucy sembra preoccupata.
«Lo so, potrebbero mettermi in imbarazzo. Anzi, me lo
aspetto.» La guardo, incuriosita.
«Vai con qualcuno, mi raccomando. Con Pete Marino,
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magari.» Si è fermata al centro della stanza con la moquette grigio canna di fucile e guarda in su, verso la cupola
geodetica di cristallo.
«Eri tu che giravi per il corridoio poco fa?» domando. «Stavo cominciando a temere che si fosse introdotto un estraneo.» È il mio modo per chiederle come mai è qui.
«No, non ero io» risponde. «Sono appena arrivata. Dovevo controllare una cosa.»
«Non so chi altro ci sia, a quest’ora, in servizio» aggiungo. «Se non eri tu, chi era? Chiunque sia di turno non dovrebbe trovarsi a questo piano.»
«Sarà Marino. A quest’ora... Mi stupisco che tu non abbia notato il suo mezzo succhiabenzina nel parcheggio.»
“Senti chi parla” penso, ma non glielo dico. Mia nipote non guida niente che abbia meno di cinquecento cavalli, in genere V12, preferibilmente di fabbricazione italiana,
anche se l’ultimo acquisto che ha fatto è inglese. O almeno
mi pare, ma potrei sbagliarmi. Le auto potenti non sono il
mio forte. Non sono abbastanza ricca per potermele permettere e, anche se lo fossi, non spenderei i miei soldi in
Ferrari ed elicotteri.
«Cosa ci fa Marino qui a quest’ora?» chiedo.
«Ha mandato a casa Toby ed è restato lui, ieri sera.»
«Come sarebbe? È tornato dalla Florida ieri sera! Perché ha deciso di fare il turno di notte? Non fa i turni, lui.»
Non ha senso.
«Meno male che non è successo niente di così grave da
richiedere la nostra presenza sulla scena di un crimine, perché secondo me ha dormito tutta la notte. Oppure è stato su
Twitter. Non va mica bene. Soprattutto fuori orario, quando gli si allentano i freni inibitori.»
«Non capisco.»
«Ti ha detto che si è portato un materasso gonfiabile in
ufficio?» mi chiede Lucy.
«Non sono permessi. Chi è di turno non può dormire.
Da quando in qua Marino fa i turni?» insisto.
«Da quando non va più d’accordo con la sua donna.
Com’è che si chiama?»
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«Chi?»
«O si dedica alle decorazioni mignon ed evita di guidare.»
Non so di cosa stia parlando.
«Succede sempre più spesso, purtroppo.» Lucy mi guarda negli occhi. «Come si chiama quella che ha conosciuto
su Twitter e a cui ha dovuto dare l’unfollow in più di un
modo? Quella che gli ha fatto fare delle figure meschine.»
«Cosa sono le “decorazioni mignon”?»
«Decorazioni fatte con bottiglie mignon di liquori, che
prima si beve. Io non ti ho detto niente.»
Ripenso all’11 luglio, compleanno di Marino, che non è
mai stato un giorno di festa per lui e lo è sempre meno col
passare degli anni.
«Dovresti chiederlo a lui, zia Kay» dice Lucy.
Mi viene in mente quando siamo andati a trovare Marino nella sua nuova casa, nella zona ovest di Cambridge.
Una casa di legno con un giardino minuscolo, caminetti funzionanti e pavimenti “di vero parquet”, come dice
lui vantandosi. Nel seminterrato ha installato una sauna e
un laboratorio e ha messo un punching-ball per darsi delle arie. Quando sono arrivata, con una quiche di asparagi e un salame di cioccolato bianco, l’ho trovato in cima a
una scala, intento ad appendere una fila di teschietti di vetro che si accendevano e si spegnevano. Mignon di vodka
Crystal Head, che ordina direttamente dalla distilleria per
le sue “creazioni”, mi ha spiegato, ancor prima che io gli
facessi domande. Ho dato per scontato che li avesse comprati vuoti e all’ingrosso. “Mi preparo per Halloween” mi
ha detto, tutto fiero. Avrei dovuto capire che aveva ricominciato a bere.
«Non mi ricordo cos’hai in programma per oggi, a parte rompere le scatole a qualche altro allevatore di maiali»
dico a Lucy, cercando di non pensare alle cose terribili che
ha fatto Marino da ubriaco.
«Nel Sudovest della Pennsylvania» risponde Lucy, guardandosi intorno come alla ricerca di cambiamenti di cui
avrei dovuto informarla preventivamente.
Ma non ho cambiato niente, o almeno non mi pare. C’è
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un nuovo bonsai, un ginepro, sul tavolo delle riunioni di
acciaio satinato: tutto qui. Le fotografie, i diplomi e i certificati che Lucy sta passando in rassegna sono sempre gli stessi, così le gardenie, le orchidee e la palma sagù. Non sono
cambiati neppure la mia scrivania a mezzaluna, nera e laminata, la libreria coordinata e il bancone di granito nero
alle mie spalle.
Poco tempo fa mi sono liberata del microscopio per microdissezione e l’ho sostituito con uno scanner ScanScope
che mi permette di archiviare i vetrini in formato digitale.
Guardo Lucy che scruta il monitor, lo accende e lo spegne.
Poi prende la tastiera, la volta e controlla il mio insostituibile microscopio Leica, che non darò mai via perché non c’è
nulla di cui mi fidi di più dei miei occhi.
«Maiali e polli nella contea di Washington, in Pennsylvania, sempre più o meno la stessa storia» dice continuando a
girare per il mio ufficio, controllando e toccando le mie cose.
«Gli allevatori pagano la multa e poi ricominciano come se
niente fosse» aggiunge. «Dovresti venire con me, un giorno, per vedere con i tuoi occhi come tengono i maiali. Ammassati come sardine. La gente è crudele con gli animali,
persino con i cani.»
Un trillo annuncia che le è arrivato un sms sull’iPhone.
Lucy lo legge.
«Gli scarichi degli allevamenti finiscono nei ruscelli, nei
fiumi.» Digita la risposta con i pollici, sorridendo a chi le
ha inviato il messaggio, come se lo trovasse divertente o si
trattasse di qualcuno a cui vuole bene. «Spero che li beccheremo in flagrante e li faremo chiudere.»
«Mi raccomando, sii prudente.» Non mi entusiasma il
suo nuovo zelo animalista. «È gente che campa di quello.
Le cose potrebbero mettersi male.»
«Com’è successo con lei?» Indica il computer e il video
che ho guardato poco fa.
«Non lo so» confesso.
«Anche Emma Shubert è andata a rompere le scatole a
gente che campava del suo lavoro?»
«So solo che ha trovato un dente di dinosauro due giorni
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prima di scomparire» replico. «Sembra fosse il primo: era
un letto di ossa scoperto di recente. Lei e alcuni colleghi
avevano cominciato gli scavi due o tre estati fa.»
«Un letto di ossa che poteva rivelarsi il più redditizio
di tutti» dice Lucy. «Un cimitero di dinosauri morti tutti
insieme. Una cosa molto insolita, forse senza precedenti.
Un’opportunità incredibile per poter ricostruire interi scheletri, riempire un museo, attirare turisti da tutto il mondo,
appassionati di dinosauri o di escursioni in mezzo alla natura. A meno che la zona sia talmente inquinata che nessuno ci vuole andare.»
È risaputo che Grande Prairie è importantissima per la
produzione di gas naturale e petrolio.
«Duemilasettecento chilometri di oleodotti per trasportare greggio sintetico dalle sabbie bituminose dell’Alberta alle raffinerie del Midwest e poi giù giù fino al golfo del
Messico» dice Lucy infilandosi nel mio bagno, dove c’è una
macchina per il caffè espresso sull’armadietto vicino al lavandino. «Inquinamento, riscaldamento globale, un disastro totale.»
«Prova le cialde Illy. Nel barattolo grigio argento» le dico.
«Per me doppio, grazie.»
«È una mattina da Cubano, secondo me.»
«Lo zucchero di canna è nell’armadietto» le spiego. Bevo
l’ultimo sorso di caffè freddo e premo di nuovo play.
“Cosa mi è sfuggito? Mi sono persa qualcosa.”
L’istinto mi dice che c’è qualcosa che mi sfugge e mi concentro nuovamente sulla figura sottoesposta, i cui lineamenti
sono nascosti dal bagliore del sole. Non mi sembra una persona grande e grossa: potrebbe essere una donna come un
uomo minuto o un ragazzo, con un cappello a larghe tese
e una veletta sui lati. Lo tiene con due dita della mano destra, forse per non farselo portare via dal vento. Non posso esserne certa, però.
Non riesco a discernere un solo lineamento nel viso oscurato né a capire cosa indossi, a parte una giacca con le maniche lunghe, oppure una camicia, e un cappello. C’è anche un lievissimo riflesso nella zona temporale destra che
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mi fa pensare che porti gli occhiali, forse da sole. Ma non
posso esserne sicura. Non so niente di più adesso di quando mi è arrivato questo file, dodici ore fa.
«Non ho sentito più niente dall’fbi, ma Benton vuole che
ci vediamo nel pomeriggio, ammesso che io finisca in tempo in tribunale» dico sovrastando il rumore della macchina del caffè. «Sarà una riunione informale, visto che non è
successo niente, a parte il video che mi è arrivato.»
«Qualcosa è successo» ribatte Lucy dal bagno. «Qualcuno ha perso un orecchio. A meno che non sia un falso.»
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