a muntagna - CLEAN edizioni
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6 ’a muntagna 7 Vittorio Paliotti È, prima di ogni altra cosa, una notizia di cronaca, di quelle che richiamano gli inviati speciali, e bisogna, perciò, darla subito: a Napoli c’è un personaggio il quale ogni giorno, da dieci anni a questa parte, prima e non dopo le sei del mattino, cioè all’alba, dalla sua casa di Posillipo si mette a fotografare il Vesuvio. Una foto, due foto, un’intera pellicola. È l’ora quella in cui la notte lentamente si trasforma in giorno. Il gioco delle luci fa sì che lo scenario cambi di minuto in minuto, anzi di attimo in attimo ed è dunque possibile, solo che alla costanza e alla pazienza si accoppi un talento da artista, ottenere un numero elevato, talvolta elevatissimo, di immagini diverse l’una dall’altra; una diversità che si accentua in ragione dell’evolversi delle stagioni. Colui che fa tutto ciò, si chiama Andrea Jappelli, è un non più giovanissimo architetto e ha sempre coltivato la fotografia intesa come arte e resa tanto più autentica in quanto eseguita senza il soccorso di filtri e senza sbavature tecniche, bensì semplicemente tramite una sapiente scelta dell’inquadratura e un aggiustato posizionamento dell’obiettivo. Il suo interesse per il Vesuvio, quindi, il suo amore per il Vesuvio, non è di antichissima data; fiorì quando, dopo aver a lungo abitato in una casa tutt’altro che panoramica, si trasferì a Posillipo, la Posillipo dei poeti e delle canzoni. Si affacciò per caso all’alba, un giorno dell’anno 2000, appunto, Andrea Jappelli, vide davanti a sé, in primo piano, il Vesuvio dibattersi fra cielo e mare ed ebbe un colpo di fulmine. Aveva, per fortuna, la macchina fotografica a portata di mano, incominciò a fare degli scatti; si accorse che il volto del Vesuvio si trasformava in continuazione e continuò a scattare foto. Lì per lì non se ne rese conto Andrea Jappelli e forse ancora non ne ha preso coscienza, ma ognuno di quei clic era una dichiarazione d’amore al Vesuvio. A esse, come provarono e provano, con la loro eccezionalità, le fotografie una volta stampate, il Vesuvio rispose, anzi corrispose. Sicché il reciproco amore continuò e poté concretizzarsi, col trascorrere degli anni, una fototeca di cui questo libro dà solo parzialmente conto; che è unica nel suo genere e che ha tutto il diritto di esser collocata accanto alle più grandi fra le tante raccolte pittoriche riguardanti il Vesuvio. Peraltro il Vesuvio, finora poco fortunato come soggetto di fotografie in quanto solitamente fissato su stereotipate cartoline, ha, invece, avuto una importanza pittorica notevolissima anche se non sempre coerente. Parlarne è tutt’altro che superfluo, precisando però che il vulcano è assurto a simbolo iconografico di Napoli in epoca alquanto recente. Se è infatti vero che la più antica fra le immagini del Vesuvio giunte fino a noi è un affresco pompeiano che, conservato ora al Museo Nazionale, lo raffigura con una sola cima, come appunto esso era in origine, è altrettanto vero che il vulcano tardò moltissimo a essere accettato come simbolo di Napoli. Nella celebre Tavola Strozzi risalente al Quattrocento e che costituisce il più antico documento vedutistico di Napoli, il Vesuvio non è affatto effigiato. Nel Cinquecento e nel Seicento i pittori, per l’immediata identificazione di Napoli, si avvalevano di raffigurazioni del Castel dell’Ovo, o del Castel Nuovo, o della Certosa di San Martino. Solo come fondale, ma confuso fra altre montagne, nei primi decenni del Seicento in dipinti dedicati a Napoli si incominciò a inserire un quasi irriconoscibile Vesuvio. Perché il Vesuvio diventi protagonista di qualche raro dipinto, bisognerà attendere l’eruzione del 1631; fu infatti allora che, col nascere degli studi vulcanologici, qualche pittore ebbe l’idea di raffigurare in primissimo piano il vulcano in fiamme. In realtà la grande fortuna iconografica del Vesuvio ebbe principio nella 8 seconda metà del Settecento quando, più o meno in coincidenza con lo svilupparsi del Gran Tour, si diffuse la moda, fra i viaggiatori stranieri in visita a Napoli, di scalare l’allora rosseggiante vulcano. Fu appunto allora che il Vesuvio incominciò a qualificarsi come simbolo di Napoli. E anzi la richiesta di dipinti col Vesuvio fu tale che, per accontentare i viaggiatori si andarono diffondendo quelle gouaches che ebbero il loro illustre capostipite in Philipp Hackert, ma anche ottimi esecutori in Saverio della Gatta e Alessandi D’Anna, e poi da cento e cento anonimi artigiani. Sul finire del Settecento, ormai simbolo unico e incontrastato di Napoli, veniva effigiato perfino su piatti, piattini, tazze, vasi, ventagli; veniva addirittura inserito sui fondali dei presepi, come se mai a Betlemme ma a Napoli fosse nato il Bambinello. Un presepe col Vesuvio sul fondale è tuttora conservato nel museo di Monaco di Baviera. Ancora un secolo e siamo nell’Ottocento: trionferà un pastello del francese Edgar Degas. E se dalla famosa Scuola di Posillipo nasceranno splendide immagini del Vesuvio, come quelle firmate da Giacinto Gigante o da Anton Pitloo, da altre mani verranno fuori dipinti vesuviani così scontati, così retorici e così folcloristici, da giustificare pienamente quell’odierna polemica interpretazione del vulcano costituita dall’inatteso, multicolore e quasi incredibile acrilico dell’americano Andy Warhol che ormai fa bella mostra di sé nelle Gallerie di Capodimonte. E le allusioni, suggestivamente caricaturali, del napoletano Ernesto Tatafiore. È questo l’universo iconografico col quale si è trovato a dover fare i conti Andrea Jappelli. Attraverso dieci lunghissimi anni, Jappelli ha instancabilmente ritratto il Vesuvio avvalendosi degli strumenti più attuali che offrono i nostri tempi. E durante questi dieci anni è lentamente maturato un miracolo, qual è ogni opera d’arte. Perché opere d’arte a tutto tondo sono le immagini che Jappelli ha saputo rubare alla luce, e che inoltre ci offrono una sicura testimonianza circa le condizioni in cui hanno dovuto operare, col pennello e con la tavolozza, i maestri che l’hanno preceduto. Il miracolo sta anche nel fatto che con un soggetto così scontato quale è appunto il Vesuvio, da sempre sotto gli occhi di tutti noi, Jappelli sia riuscito a sfuggire, sempre, proprio sempre, alla convenzionalità. La pioggia, il vento e la neve, non soltanto il sole hanno contribuito, di stagione in stagione, di attimo in attimo, a cambiare, a trasformare, a moltiplicare il volto di quella che gli antichi napoletani, come i poeti, chiamavano ’a muntagna; ma per accorgersene e farcene prendere atto occorrevano gli occhi di un artista. Il rosso, il marrone, il violetto, il nero, il giallo, il verde, l’azzurro, l’arancione, il grigio, il rosa, il celeste sono i colori che, in queste immagini, sembrano inventati dall’autore, così come dallo stesso sembrano tracciate le curve, le linee, gli angoli, i cerchi. E invece no: questa sconfinata tavolozza e questa sterminata geometria stanno, per scelta della natura, nella luce di Napoli, sempre pronte, però, ad andare, venire, ritornare oppure scomparire per sempre. Ringraziamo Jappelli che ci ha aiutato a comprenderlo. 9 15 Comm’è bella ’a muntagna stanotte... bella accussí, nun ll’aggio vista maje! N’ánema pare, ignata e stanca, sott’’a cuperta ’e chesta luna janca... Tu ca nun chiagne e chiagnere mme faje, tu, stanotte, addó staje? Voglio a te! Voglio a te! Chist’uocchie te vonno, n’ata vota, vedé! Comm’è calma ’a muntagna stanotte... cchiù calma ’e mo, nun ll’aggio vista maje! E tutto dorme, tutto dorme o more, e i’ sulo veglio, pecché veglia Ammore... Tu ca nun chiagne e chiagnere mme faje, tu, stanotte, addó staje? Voglio a te! Voglio a te! Chist’uocchie te vonno, n’ata vota, vedé!... Bovio: Tu ca nun chiagne
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Scritto da Pietro Rega
Sabato 09 Maggio 2009 21:09 - Ultimo aggiornamento Mercoledì 13 Maggio 2009 20:37