L`avanguardia della tradizione “Leon Battista Alberti, riso e follia. Il

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L`avanguardia della tradizione “Leon Battista Alberti, riso e follia. Il
L’avanguardia della tradizione
“Leon Battista Alberti, riso e follia. Il mondo alla rovescia”
Professor Marco Bertozzi
Lezione del 04 novembre 2011
Introduzione di Ruggero Zanin
Diamo inizio a questa edizione del progetto “L’avanguardia della tradizione”, che è già la settima,
di cui io sono referente quest’anno.
Naturalmente l’anima del progetto è il professor Giuliano Martufi, qui presente; e come per le altre
edizioni, anche quest’anno si sono scelti due autori classici, uno più antico, Leon Battista Alberti, e
uno più moderno, Le Corbusier, per indagare appunto queste figure e soprattutto per inquadrarle nel
contesto culturale e storico in cui hanno operato. Anche in questa occasione la scelta dei due autori
classici è orientata in senso interdisciplinare, per cui quest’anno si è scelta soprattutto la dimensione
riguardante l’architettura o l’ingegneria, anche in senso lato, anche se nel caso appunto di Leon
Battista Alberti non parliamo soltanto di un pensatore architetto, ma anche di un importante
letterato, matematico e quant’altro, poi appunto vedremo.
Nel caso particolare dell’Alberti, possiamo anche dire che in qualche modo la lettura o la rilettura
delle sue opere ci porta davanti la figura non tanto di un uomo rinascimentale armonico, alla
maniera diciamo del disegno dell’uomo vitruviano di Leonardo, quanto piuttosto un uomo
contemporaneo, molto travagliato, molto complesso nella personalità, quindi molto vicino a noi
nelle molteplici sfaccettature che caratterizzano la sua opera, direi fino quasi ad arrivare alla
contraddizione.
Per avvicinarci a questo autore, a questo grande pensatore, abbiamo con noi Marco Bertozzi, che è
professore di Filosofia Teoretica all’Università di Ferrara, che venne già qualche anno fa qui,
proprio nel corso di un’altra edizione di questo progetto, a parlarci di un altro gigante del
rinascimento italiano, e cioè Pico della Mirandola. Come vedremo, lo stile filosofico del professor
Bertozzi è un po’ particolare, direi che è modulato su quella che è la grande scuola dei collaboratori,
dei discepoli di Aby Warburg, che rappresenta una innovazione degli studi anche del Rinascimento
di grande rilievo, e che appunto permette al professore di seguire non soltanto lo svolgersi delle
parole, ma anche le immagini, e questo è importante per esempio nella lettura del Palazzo
Schifanoia a Ferrara, oppure il tempio malatestiano di Rimini.
Chi volesse, appunto, rendersi conto della vastità degli interessi del professore, può far riferimento
ad un testo recente, Il detective melanconico, edito dalla Feltrinelli, in cui appunto i diversi saggi
mostrano le diverse sfaccettature, appunto, dei suoi interessi.
Professor Marco Bertozzi:
Grazie di questa bella presentazione che mi è stata fatta e grazie anche al mio antico compagno di
scuola, Giuliano Martufi, che già l’altra volta qui mi aveva invitato per parlare di Pico della
Mirandola e della Dignità dell’uomo, un famoso discorso che Pico della Mirandola aveva preparato
per discutere le sue novecento tesi a Roma, ma che non riuscì a pronunciare perché poi alcune delle
sue tesi furono ritenute eretiche; e lui se ne dovette poi fuggire da Roma e questo discorso non fu
mai pronunciato, ma ha avuto molta importanza, perché riguarda l’idea di uomo che aveva Pico
della Mirandola, che era diffusa in epoca rinascimentale.
Ho fatto questo breve preambolo perché questa volta, parlando di Leon Battista Alberti, vedremo
che l’uomo non ha un’immagine così alta agli occhi di Leon Battista Alberti. Non ce l’ha perché,
come prima si stava già dicendo, c’è in lui una inquietudine, un pessimismo, degli elementi tragici,
in un certo senso, e quindi molto moderni, che iniziano proprio con lui nel 1400: nel 1404 nasce, nel
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1472 muore. Questo è il suo periodo ed è certamente un periodo pieno di problemi e di storie
interessanti.
Il titolo di questa mia conversazione è appunto “Leon Battista Alberti, riso e follia. Il mondo alla
rovescia”.
“Riso e follia nell’uomo”, di Leon Battista Alberti, che è una sua opera che, ahimè, non molti
conoscono, ma è una delle sue maggiori imprese letterarie. La prima cosa, per parlare di un autore,
è di presentarlo. Io lo vorrei anche presentare in un certo modo, nel senso che avevo indicato, in
quanto a letture, per esempio un testo molto bello e importante di Eugenio Garin su Leon Battista
Alberti, e avevo anche segnalato che in appendice a questo saggio c’è un dialogo scritto da Leon
Battista Alberti che si chiama “Sogno” (Somnium). La cosa curiosa è questa: voi tutti conoscete,
naturalmente, Ariosto, “L’Orlando furioso”, e tutti sanno del viaggio che il conte Astolfo deve fare
sulla Luna a recuperare i cervelli. Anche oggi si parla di “fuga dei cervelli”; quando ricercatori
italiani se ne vanno all’estero, sono costretti ad andarsene all’estero. Dopodiché all’Università
dobbiamo tentare operazioni che si chiamano appunto “rientro di cervelli”. E’ una cosa molto buffa.
Voi ricordate come in questo canto trentaquattresimo Astolfo va sulla luna e trova, all’interno di
alcune ampolle, molte cose, trova cervelli e trova il senno perduto di Orlando ed anche di altri,
segno dunque che il senno, il raziocinio se n’è volato via, se n’è andato sulla Luna e che sulla Terra
è rimasta la follia. La follia non va mai via dalla Terra, questa rimane sempre, magari ritorna il
senno, ma la follia resta sempre. Questo, voi direte, ha un po’ a che fare con il titolo che io
propongo, “Riso e follia”, in questo testo letterario di Leon Battista Alberti.
La cosa curiosa – per questo ve lo dico – è che la fonte, cioè Ariosto, ha ripreso questa storia del
cervello, del senno, dell’ampolla all’interno della quale si trova, da un dialogo di Leon Battista
Alberti, che appunto è in appendice a questo saggio di Eugenio Garin. Questo ve lo dico come
premessa curiosa. Poi tra l’altro, come si diceva prima, io vengo da Ferrara, quindi Ariosto è ben
conosciuto sia nel mondo che anche dalle nostre parti. Quindi i cervelli, il senno, il raziocinio se ne
fugge sulla Luna e qua resta la follia.
Detto questo, la prima cosa è quella di presentare il
personaggio, e questa è una placchetta, una specie di suo
ritratto e autoritratto in cui, come vedete, qui in bella vista
c’è poi il suo simbolo, che è il famoso “occhio alato”, di cui
vi solo un breve cenno, ma di cui vi parlerà meglio di me
Alberto Cassani, che è uno specialista proprio di questo
argomento, che verrà a parlarvi in seguito di Leon Battista
Alberti e che scrive libri e saggi proprio sulla questione di
questo “occhio alato”.
Ma visto che questa è la prima occasione in cui parliamo di
Leon Battista Alberti, è la prima delle tre iniziative, quindi
bisogna un po’ presentare il personaggio. Come lo
presentiamo? La prima cosa da fare è quella di dire chi era
e come veniva rappresentato. Questa che vediamo è una
rappresentazione. Quale immagine noi abbiamo di lui?
Questa è un’immagine, questo è un profilo, come voi
vedete, ben dettagliato, preciso, che ci dà già qualche
segno, forse, della sua personalità: c’è una certa severità in
questo volto, che forse tradisce un po’ anche
quell’inquietudine di cui parlavamo prima e che adesso
possiamo anche vedere.
Ma quale immagine ci ha lasciato la tradizione, cioè che cosa si è detto di Leon Battista Alberti: chi
era, che importanza ha avuto? E così via. Nel fare questo, noi dobbiamo ricorrere a quel grande
monumento storico che è “La civiltà del Rinascimento in Italia” di Jacob Burckhardt, scritto nel
1860. Voi sapete che Jacob Burckhardt era un grande storico svizzero-tedesco, che se ne stava a
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Basilea, e allora gli storici si occupavano anche di storia del pensiero, di filosofia, di storia dell’arte
e così via. Le discipline non erano così settorializzate, forse, come oggi. E sapete anche che uno dei
suoi più grandi allievi si chiamava Friedrich Nietzsche, che frequentava le sue lezioni e con cui
appunto Burckhardt ebbe uno scambio epistolare.
Chi è, quindi, Leon Battista Alberti, come ci viene rappresentato nel bene e nel male da questa
grande storia della civiltà del nostro Rinascimento italiano? Che certo è del 1860, ma come sempre
noi partiamo anche da qui, perché poi questa immagine nel tempo si è anche rafforzata, anche se
oggi non è più ritenuta così valida, diciamo. Come viene, quindi, inteso Leon Battista Alberti,
questa personalità multiforme, come prima dicevamo? Perché Leon Battista Alberti voi sapete che è
un architetto, ma anche uno storico, ma anche un teorico dell’architettura, ma anche un teorico della
pittura, ma anche un teorico delle arti in generale, come anche della scultura, quindi “De pictura”,
“De architectura”, “De statua”, ha scritto un po’ di tutto, ha scritto una prima grammatica del
volgare. Quindi, se dovessimo esaminare appunto la sua attività, sarebbe sicuramente multiforme e
straordinaria.
Burckhardt ci presenta il Rinascimento italiano come una sorta di galleria di grandi personaggi che
hanno fatto la storia, e ce li descrive come se fossero un’opera d’arte: il primo capitolo del suo libro
si intitola “Lo Stato come opera d’arte”, ma è il Rinascimento stesso che è opera d’arte, come se
davvero cento grandi personalità avessero fatto, creato e costruito il nostro straordinario
Rinascimento.
All’inizio di questa storia lui pone, proprio Leon Battista Alberti è come l’immagine di questi
uomini strapotenti, qui dice la traduzione, cioè di questi uomini straordinari. Viene quasi da dire,
siccome prima ho nominato Nietzsche, dei “superuomini” in un certo senso, e cioè delle
individualità geniali o, meglio ancora, come spesso viene definito, un individuo universale, capace
quindi di fare tutto.
C’è una sua biografia, di cui parla Burckhardt, (ma non spiega bene chi l’abbia scritta questa
biografia), in cui viene presentato come un genio, quindi una individualità universale. Non solo nei
campi di cui abbiamo parlato, ma anche in altri, come attività ludiche, attività ginniche. Si
raccontano cose incredibili, come per esempio che egli, saltando a piè pari di fronte a un uomo,
passasse dall’altra parte, “saltando a piè pari scavalcasse le persone ritte in piedi”. Qui lui sta
citando questa biografia, scritta in latino, di Leon Battista Alberti. E poi altri episodi, come quello
che, stando dentro una chiesa con una moneta, era capace di tirarla in alto e farla rimbalzare sul
soffitto della chiesa, e cose analoghe. In più, eccelleva anche nel cavalcare, eccelleva nel parlare, e
così via. Inventò addirittura un congegno che era una camera ottica. E parla quindi di tutte queste
bellissime cose.
Naturalmente qui ci dà un’immagine straordinaria, perfetta, cioè di un individuo armonioso, perché
poi l’intenzione è di mettere in armonia tutte le sue attività, sia quelle architettoniche, quelle che
riguardavano le teorie delle arti, quelle che riguardavano gli aspetti letterari, perché Leon Battista
Alberti è autore e creatore non solo di architetture che adesso vedremo, ma anche di straordinari
scritti letterari. Prima vi dicevo come sia fonte assai importante di Ariosto, poi vedremo che è anche
una delle fonti dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, opera che voi tutti conoscete.
Ora è vero che lo scritto di cui parleremo, Momo o del principe, resta manoscritto per molto tempo,
si diffonde un po’ dopo la sua morte, c’erano quattro o cinque manoscritti certamente che
circolavano, nel 1520 abbiamo addirittura a Roma due edizioni a stampa. Quindi vuol dire che
forse, quando lui scriveva queste cose così moderne, i tempi non erano ancora del tutto maturi e poi,
invece, lo saranno nel 1520, in epoche anche erasmiane. Ma basta nominare in questo percorso
Giordano Bruno, che riprenderà anche lui in uno dei suoi testi la storia dell’uomo.
Io mi ricordo che molti anni fa quasi non avevo sentito parlare di questo testo letterario, mano a
mano mi sono accorto che invece ne avevo sentito parlare, cioè l’avevo già letto in altri testi, e
mano a mano che si va avanti si scopre quanto questo personaggio strano di cui parleremo fosse
diffuso. Però qui c’è un fatto, e cioè che all’interno di questa biografia, che poi sappiamo – e forse
doveva saperlo anche Burckhardt – l’aveva scritta lui stesso, quindi era una autobiografia, troviamo
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questi elementi che sono in gioco e di cui parliamo, cioè da un lato un aspetto ironico che adesso
vedremo e dall’altro un aspetto tragico, perché Burckhardt parla solo della parte bella della
biografia, ma quando invece Leon Battista Alberti comincia a raccontare che aveva avuto dei
problemi per studiare troppo, aveva avuto dei problemi quasi depressivi a un certo punto, e la
famiglia non l’aveva aiutato, cioè che lui ha sempre avuto un conflitto con la propria famiglia, una
famiglia illustre fiorentina, costretta per motivi politici ad andarsene verso Genova e con tutta una
serie di problemi. Ma insomma, lui con la famiglia aveva avuto sempre dei conflitti, fin da piccolo,
quindi questo certamente può avere influito sulla sua personalità. E quando poi racconta di sé,
perché sappiamo che è una autobiografia, dice che spesso si lasciva prendere dall’iracundia,
dall’ira, e spesso anche era triste e melanconico. E allora, per rinfrancarsi, faceva delle belle
passeggiate per ammirare la bellezza della natura. E questa ammirazione della bellezza della natura,
passeggiate sotto il sole e così via, sembrano degli esercizi terapeutici che poi teorizzerà molto bene
un grande filosofo del rinascimento come Marsilio Ficino nei suoi tre libri De vita.
Quindi, come vedete, Leon Battista Alberti è un laboratorio culturale enorme e straordinario di
questo periodo. Solo che a Burckhardt sfuggiva l’ironia. Io a volte ne parlo con i miei studenti,
dico: ma avete mai visto qualcuno che di fronte a un’altra persona salta, gli salta sulla testa? E’
impossibile! Esiste forse questa possibilità? Certamente no. Ma allora Burckhardt non è riuscito a
cogliere l’ironia, cioè Leon Battista Alberti raccontava di sé e raccontava anche questi episodi, che
sono un po’ episodi di carattere mitologico, ma forse prendeva anche un po’ in giro se stesso, quindi
qui vediamo che questo spirito inquieto e melanconico è pieno anche di ironia, e così sarà nei suoi
testi.
Ora, se andiamo avanti,
cominciamo a vedere quelle
che sono le sue opere
architettoniche.
L’Alberti
era stato in vari luoghi,
aveva vissuto in vari luoghi:
Firenze, Mantova, Ferrara,
Roma, Rimini e così via, e in
alcuni di questi luoghi ha
lasciato
capolavori
di
carattere
architettonico.
Questo è il Palazzo Rucellai
a Firenze, questo è Santa Maria Novella, che tutti conoscete, ve le faccio vedere solo per dire di che
cosa è stato capace, cioè quali disegni architettava Leon Battista Alberti e ci ha poi lasciato, il
tempio di San Sebastiano a Mantova (era uno dei suoi luoghi preferiti, naturalmente), la basilica di
Sant’Andrea a Mantova, non c’è bisogno di dire che sono prospettive, in questi casi l’architettura è
straordinaria, il tempio malatestiano a Rimini, un capolavoro assoluto. L’interno è fatto di rilievi
marmorei opera di Agostino di Duccio, ma le cui indicazioni pittoriche provengono dal suo trattato
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sulla pittura, quindi dava indicazioni che poi venivano seguite. Warburg lo sapeva bene e ha messo
in rilievo come, per esempio, dare movimento alle figure: il movimento alle figure veniva dato con
capelli fluttuanti, abiti che dovevano sembrare spinti dal vento e così via, perché tutto questo
doveva dare movimento alle
figure.
Quindi
non solo
l’esterno del tempio, ma anche
l’interno. Questa è una medaglia
al collo di Leon Battista Alberti
e dall’altra parte quello che
avrebbe dovuto essere, nella
fase definitiva, il tempio
malatestiano,
cioè
l’antica
chiesa di San Francesco, quella
cupola che poi non è mai stata
fatta in questa maniera. Questa è
una medaglia di Matteo de’
Pasti, che era poi colui che provvedeva alla costruzione, dopo aver avuto le indicazioni
architettoniche da parte di Leon Battista Alberti.
Questo è il famoso emblema dell’“occhio alato”, di cui
Cassani vi parlerà di più e meglio di me. Quello che qui
si può dire è che Leon Battista Alberti amava un po’
questi emblemi di carattere geroglifico. E il fatto che con
l’occhio qui si indichi la priorità della visione, cioè
l’importanza della visione, cioè la vista come la
principale attività conoscitiva dell’uomo, è uno degli
elementi che tendono a poter spiegare questo suo
emblema geroglifico. Difficile poi da spiegare in maniera
semplice, perché lui l’ha costruito anche in forma
simbolica, e allora non è semplicemente che, trovata una
spiegazione, come l’enigma della Sfinge, la storia è
finita, ma questa simbologia che lui ha ricreato è
certamente piena, ricca di tanti significati che
difficilmente poi esauriscono quello che lui voleva dire. Quando io dico un emblema di carattere
geroglifico, è perché certo l’elemento della vista, è ovvio, anche quello della divinità, l’occhio
divino che tutto guarda e tutto vede, e alato, c’è la velocità, che guarda tutto ed è anche
amministratore di giustizia, naturalmente. Questo può essere. Ma l’idea, se è vero che io avevo
parlato di geroglifici, può anche provenire da Plutarco, Iside e Osiride,
in cui si parla di animali, emblemi
eccetera egizi (o pseudo tali,
comunque, ma di carattere egizio), in
cui si dice che il falcone si distingue
per la acutezza della vista e la velocità
delle ali, lo sparviero, il falcone, che è
uno degli animali sacri al Pantheon
dell’antico Egitto. Questa è un’altra
miniatura.
In questo caso c’è Ferrara. Vi ho detto
delle corti a cui lui ha contribuito, in cui si è intrattenuto, nelle città
dove è stato: Mantova, Ferrara, Firenze, Roma, Rimini con lo splendido
tempio malatestiano. Questo è il campanile del duomo di Ferrara, in
cui, se qualcuno poi vuole salire, lì ci sono dei bravissimi campanari
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che di recente ci hanno guidato in visite straordinarie in cima a questo magnifico campanile, che si
dice albertiano, perché Leon Battista Alberti a Ferrara è stato, ed era lì a seguito del Pontefice anche
nel 1438, quando ci fu il primo insediamento del tentativo del Concilio delle Chiese tra Oriente e
Occidente, e quindi Alberti lì ha visto, l’imperatore, il patriarca d’oriente. Un fenomeno, uno
spettacolo che allora colpì la fantasia di tutta Europa e, naturalmente, dei pittori italiani, che poi
cominciarono a dipingere. Chi di voi è andato a Firenze e ha visto gli affreschi di Benozzo Gozzoli,
Il corteo dei magi, a Palazzo Medici Riccardi, avrà visto che lì sono rappresentati questi straordinari
personaggi che arrivavano.
Questo è il campanile albertiano, cosiddetto, probabilmente su suo disegno, ma non è del tutto
sicuro. Però Leon Battista Alberti ha lasciato un segno a Ferrara. Prima si parlava di Warburg; Aby
Warburg è questo grande storico dell’arte e della cultura che nel 1912 tentò di decifrare questi
complicati affreschi, trovando i primi elementi per
poterlo fare. 1912, se ci pensate, 2012, sono cento anni
da questo capolavoro della storia della cultura, questa
prima spiegazione che Aby Warburg diede di questi
affreschi. E siccome io sono anche il Direttore
dell’Istituto di Studi Rinascimentali, l’anno prossimo, a
metà febbraio, organizzeremo un grande convegno
dentro questa bellissima Sala dei Mesi, che forse
qualcuno di voi ha visto.
Ora, nella parte superiore, dove trionfano le divinità
dell’Olimpo greco, in quella mediana voi vedete che c’è
il segno dello zodiaco con tre figure che si chiamano
“decani” e sotto c’è la corte, c’è il magnifico Borso
d’Este, principe della città, con tutta la sua corte; nella
parte superiore, tra i fili di Minerva, quindi sapienti, alla
vostra sinistra in alto e alla destra di Minerva,
naturalmente, ma alla nostra sinistra in alto ci sono i
dotti, i professori, gli studiosi di Ferrara, dell’Università
di Ferrara di allora, e tra questi c’è Leon
Battista Alberti. Come vedete, questo
ritratto di profilo è estremamente somigliante a quello che abbiamo visto prima ed è un
omaggio che la corte, la città di Ferrara, il duca e la Corte, Leon Battista Alberti era
molto amico di Leonello d’Este, il predecessore di Borso d’Este, a cui dedicava molti
dei suoi libri. Qualcuno sostiene che anche questo Momo, di cui parleremo, a lui è
dedicato. Eccolo qua, questo è “Momo”.
Adesso si tratta un po’ di capire chi è questo
strano personaggio. Vi dicevo prima come
Leon Battista Alberti a un certo punto della
sua vita si trovava a Roma, siamo intorno al
1450, dove lui componeva questi famosi
dialoghi come Il sogno, cui prima facevo cenno, e sono
sempre delle cose molto strane perché il personaggio di
questo dialogo vuole andare da sveglio in un sogno. Ci
sono quindi delle stranezze straordinariamente curiose e
moderne all’interno di questi dialoghi, per questo
dicevamo prima che forse alcuni dei temi o dei modi in cui questi temi venivano posti all’epoca di
Leon Battista Alberti, quando lui era vivo, non si comprendevano molto bene, tant’è che poi lui se
ne dovette andare da Firenze perché in contrasto con gli allora governanti della città, perché non si
era compreso nemmeno con i letterati medesimi di questa città.
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Io immagino che non abbiate mai sentito parlare di Momo, o solo recentemente. Questo è un testo,
molto lungo fra l’altro, scritto in latino, lui scriveva benissimo in volgare e anche in latino, è – così
dicono i miei amici studiosi di letteratura umanistico-rinascimentale – forse il testo migliore, testo
straordinario, eccellente proprio da un punto di vista letterario. Nel 1450 circa scrive questo testo, lo
corregge, lo ricorregge, però non si capisce se aveva intenzione di diffonderlo oppure no. Sta di
fatto che nel 1472, dopo la sua morte, un po’ di manoscritti si diffondono e, come vi dicevo prima,
uno di questi manoscritti capita in mano ad un erudito ferrarese, Celio Calcagnini, agli inizi del
1500, e anche quei dialoghi di cui prima parlavamo, e li fa vedere e ne parla con l’Ariosto. Quindi
ci sono dei tramiti. Però questo testo rimane in circolazione in forma manoscritta e solo nel 1520 ne
vengono stampate addirittura due edizioni a Roma. Forse è proprio questo periodo in cui di Elogio
della follia si comincia a parlare e si ritrovano le radici in un libro come questo: Momo o del
principe.
Momo è una divinità un po’ bizzarra, una specie di briccone divino, di divinità dispettosa, che si
mette sempre di traverso, una specie di giullare, di buffone, una divinità molesta, fastidiosa per le
divinità stesse, come poi vedremo. Ma perché allora viene tollerato? Perché fa parte di questo
Pantheon? Perché a volte anche Zeus, che è il principe, ecco perché Momo o del principe, qui il
principe di questo testo, che è un testo di carattere allegorico, mitologico, filosofico (in realtà qui
bisognerebbe parlare di Leon Battista Alberti filosofo), il principe è Zeus, e la sua corte è il
Pantheon delle divinità greche, che spesso sono a concilio, e questo ricorda molto il Concilio di
Ferrara e di Firenze di cui prima parlavamo: gli Dei a Concilio. Perché allora, voi chiederete, Zeus e
le grandi divinità dell’Olimpo tengono con loro questa strana divinità che si chiama “Momo”, che è
così fastidiosa? Perché a volte, addirittura, gli chiedono consiglio?
Innanzitutto, nella storia della mitologia e delle fonti che noi abbiamo, nella teogonia di Esiodo, si
dice che Momo era figlio della notte e del sonno, da intendersi come una specie di incubo. Cioè noi
diciamo anche comunemente “quella persona è un incubo, non mi lascia mai in pace, mi dà fastidio,
dà fastidio a tutti”, chiunque la vede dice: “hai visto quello? Sì, per me è veramente un incubo”,
perché è una persona fastidiosa, molesta. Chissà quante volte avrete detto così di qualche vostro
conoscente. Allora che ci fa un personaggio del genere in mezzo a queste grandi divinità, figlio
della notte? Non si sa nemmeno chi sia il padre, però è una sorta di scherzo, di divino briccone.
Viene utilizzato a volte in questo modo: Zeus a un certo punto ha bisogno di diminuire il numero
degli umani, allora deve trovare qualche idea. Chi chiama per fare una cosa del genere? Chiama
Momo e gli chiede consiglio: come facciamo per diminuire il numero degli uomini e delle donne? E
lui consiglia, visto che c’è bisogno di una guerra: ti consiglio di creare Elena. Elena di Troia. Prendi
la madre Teti, la fai sposare con un umano eccetera eccetera, poi alla fine viene fuori questo
personaggio, è la storia di Elena che noi ben conosciamo, quindi si svilupperà una guerra, lì morirà
un sacco di gente e noi diminuiamo il numero degli umani.
Momo è una specie di consigliere un po’ bizzarro, anzi veramente strano, di cui lo stesso Zeus e gli
Dei dell’Olimpo a volte si servono. E cosa faceva questo Momo? Beh, se ne stava in ozio, guardava
gli altri, criticava tutti, perché l’idea e il termine stesso, “Momo”, in greco vuol dire colui che fa
dispetto, colui che critica, colui che dà fastidio. Ha proprio un po’ questo senso. E quindi è uno che
guarda, ne conoscete tanti che hanno questa personalità, che osservano guardano, non fanno poi
nulla in realtà e criticano. E criticano tutti, tutto e tutti. Di questi strani bricconcelli personaggi è
pieno il mondo in realtà, se cominciamo a pensarci bene, no?
E che critiche faceva? Che cos’è che diceva? Criticava tutto e tutti. Oppure faceva cose di questo
tipo, come ci racconta anche Leon Battista Alberti. Zeus a un certo punto dice: care divinità, datemi
una mano, io devo creare il mondo, ciascuno di voi faccia qualcosa. Ciascuna divinità dà qualcosa:
c’è qualcuno che crea gli alberi, qualcuno i fiumi, le case e così via; l’unico che se stava in ozio e
che non voleva fare nulla era proprio Momo. Allora gli Dei si arrabbiano, se la prendono con lui,
dicono: anche tu devi fare qualche cosa. Lui dice: va bene, allora farò qualche cosa. E che cosa
farà? Crea delle cose orrende: scarafaggi, topi, cioè le cose più orribili che si possano inventare.
Quindi anche nel momento in cui è costretto a fare qualche cosa, come noi diciamo, l’ha fatto per
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dispetto. Proprio così: l’ha fatto per dispetto. Oppure – questo lo troviamo in una favola esopica –
durante un colloquio che lui ha con Zeus, con Prometeo, con Atena eccetera eccetera, a un certo
punto lui critica, critica per come è stato fatto il toro. Perché? Il toro l’avete fatto male. Perché?
Scusate, quando il toro carica e va in avanti, gli occhi invece di averli qui ai lati della testa dovrebbe
averli sulle corna, quindi è stato un errore, perché non avendogli fatto gli occhi sulle corna lui non
riesce a capire dove va a sbattere.
O anche troviamo un’altra di queste mitologie legate sempre al Momo, in una delle favole di
Luciano. Luciano De Samosata è stato un grandissimo scrittore greco di favole, dialoghi di tipo
ironico e satirico, e Luciano ha una grandissima fortuna nel Rinascimento: tutti coloro che vogliono
scrivere cose di tipo ironico, satirico e così via riprendono le sue storie, le sue favole. E allora, in
una di queste favole, Momo rimprovera a Vulcano (che in questo caso aveva fatto l’uomo e in altri
casi è Prometeo che fa l’uomo) di aver fatto male l’uomo: “Perché tu avresti dovuto fare nel petto
dell’uomo una finestrella, di modo che noi potessimo vedere quali sono i suoi sentimenti, cosa
pensa, cosa non pensa, perché c’è una differenza fra come l’uomo appare e ciò che lui pensa
veramente, quali sono i suoi veri sentimenti, se ci sta raccontando il vero, il falso e così via. Quindi
hai sbagliato a fare l’uomo, dovevi farlo più trasparente.” Questa è una delle storie.
Momo critica tutti. In un’altra di questi miti, per esempio, lui critica Venere. Direte: come si fa a
criticare Venere? La più bella divinità femminile mai creata. Di Venere che cosa si può dire,
rispetto alla sua bellezza? Che è il massimo. Poi magari non avrà tutte le virtù, perché è sposata con
Vulcano, ma lo tradiva col grande guerriero Marte (e voi sapete che Vulcano li scoprì attraverso la
famosa reticella in cui fece cadere i due amanti). Ebbene di Venere dice che, quando camminava
(evidentemente la osservava bene) i suoi sandali facevano troppo rumore. Quindi critiche continue.
Qual è l’immagine di Momo? Dai testi antichi si dice che Momo
è vecchio, magro, pallido, con la bocca aperta, chinato verso
terra, che batte con un bastone che ha in mano la terra, forse
perché – dice questo trattato mitologico – tutti gli Dei degli
antichi furono figli della terra. Oggi Momi (o Momo) sono detti
tutti quelli che criticano perché sono mossi dall’invidia. Eccolo
qua, non è un bel personaggio a vederlo: vecchio, calvo, sporco,
sdrucito e così via. E’ curioso come poi questo personaggio sia
stato posto in analogia con Socrate, addirittura. Quando Leon
Battista Alberti parla, all’interno del suo testo Momo o del
principe, dei filosofi, lui dice in genere che non ha molta stima
dei filosofi perché sono dei gran chiacchieroni: chiacchierano,
chiacchierano, poi non si capisce nemmeno se a quello che
dicono ci credono davvero oppure no. Qui naturalmente critica e
prende in giro anche lui la figura del sofista. Però ci sono dei
filosofi che invece apprezza. Certamente, si sa, Platone ma
soprattutto, ma le due grandi figure dei filosofi che lui molto
apprezza sono Socrate e Democrito. E la storia di Socrate, se
vogliamo porla in analogia con quella di Momo è, come voi
sapete, la seguente. Nel Simposio di Platone a un certo punto,
Alcibiade, che ama Socrate, dice: Socrate non è bello (lo sapete, è calvo, non veste bene, ha un po’
di pancia ahimè, quando passa il tempo viene anche a noi) e tuttavia questo aspetto discutibile –
questa immagine che noi abbiamo – io a un certo punto, quando lui parla, non me la ricordo più. Ed
è come le figurette dei sileni. I sileni e i satiri, come voi sapete, fanno parte del corteo di Dioniso, di
Bacco, e se lo immaginiamo c’è già Momo: il personaggio è un po’ folle. Perché? Perché è ubriaco.
Ma quando è ubriaco poi dice anche la verità, in un certo senso. E com’è fatto? E’ calvo, emaciato,
non è molto pulito, è trasandato, ha una pancia che sembra un otre. E’ poi, a sua volta, un
personaggio strano. Però cosa dice Alcibiade? Dice che all’interno di Socrate sta invece la
preziosità, sta invece la sua divinità, sta la pietra preziosa, come accade con quelle statuette dei
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sileni che avevano uno sportellino (prima abbiamo parlato della storia della finestrella, in cui
l’uomo, secondo le critiche di Momo, doveva avere una finestrella, altrimenti non si capiva bene
che cosa pensasse e quali fossero i suoi sentimenti). E allora, dice Alcibiade, Socrate è come il
sileno, quindi brutto, ma dentro, quando noi apriamo queste statuette, questi sportellini delle
statuette, dentro troviamo una divinità, come dire che in questa interiorità si trova ciò che è divino,
ciò che è prezioso e ciò che è straordinario in Socrate.
Naturalmente tutto questo poi nel Momo di Leon Battista Alberti ha anche a che fare con la filosofia
dei cinici, dei filosofi cinici, che se ne giravano vagabondi per il mondo, criticando tutti, alla ricerca
dell’uomo, e così via.
Vi faccio vedere altre due immagini. Questa è una illustrazione
di un grande artista, Hans Holbein, per l’Encomium Moriae
(cioè l’Elogio della Follia) di Erasmo da Rotterdam, in cui
compare Momo. Come vedete, sembra che Zeus stia
sculacciando questo spiritello, questo bambino inquieto,
dispettoso. In realtà lo sta prendendo e lo sta cacciando giù dal
cielo, lo butta giù perché non lo sopportano più. E qui c’è
un’altra illustrazione di uno scrittore di favole, Gabriele Faerno,
a noi non molto noto, ma che nel cinquecento scriveva favole di
tipo esopico. Fece poi illustrare queste favole da un grandissimo
incisore, che ha molto a che fare con Ferrara, e che si chiama
Pirro Ligorio. Come vedete sono incisori di importanza
straordinaria, e se
Gabriele Faerno oggi è
poco
conosciuto
dovete sapere che egli
influenzò
anche
Charles Perrault, lo
scrittore de Il gatto
con gli stivali. Vedete
che c’è un toro. E’ l’illustrazione proprio della favoletta in
cui Momo sta criticando il fatto che al toro non siano stati
fatti gli occhi sulle corna, perché così appunto non sapeva
dove andare.
Qual è la storia del Momo? La storia è lunga e complicata,
ma adesso la descrivo in breve. Zeus è il principe e
Momo, a un certo punto, comincia a disturbare tutti. Come
dicevo prima, quando gli chiedono di dare un contributo,
lui produce scarafaggi; e poi parla male di tutti. A un certo
punto un’altra divinità, va a fare la spia a Zeus dicendogli:
guarda che Momo parla male di te. Gli Dei non ne
possono più e lo buttano giù, come abbiamo visto prima.
Dove va a finire Momo? Momo va a finire in Italia, in
Toscana. Allora cosa fa? Organizza una specie di rivolta
nei confronti degli Dei: comincia a parlare male degli Dei,
a raccontare tutte le loro malefatte e poi, a un certo punto,
mette in discussione l’esistenza stessa degli Dei e dice che se deve esserci qualcosa di divino, quello
è la natura medesima. Allora gli Dei si preoccupano, mandano giù una divinità che si chiama Virtù,
con una sua figliola che si chiama Lode, per cercare di capire che cosa sta succedendo. E Momo ne
combina un’altra delle sue: si trasforma in edera e mette incinta questa divinità. Si capisce che è
stato lui perché nasce una specie di mostriciattolo che si chiama Fama e che va in giro per il mondo
a spettegolare su tutto e su tutti. Allora, a quel punto, Zeus decide che forse è meglio riportare
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Momo in cielo. Lo riporta su, sperando che faccia meno danni. Però siccome poi vuole riformare il
mondo, perché il mondo non gli sembra fatto molto bene, allora chiede a Momo: siccome tu
conosci bene gli uomini, sei stato lì un sacco di tempo, lui dice: parlami degli uomini, del lavoro,
della professione migliore degli uomini. E lui comincia a raccontare: io ho fatto anche il sovrano,
ho fatto di tutto; ma quello che mi piace di più, che mi piace veramente tanto ed è straordinario è
fare il vagabondo, in latino è errones, cioè fare il mendicante, il picaro, avrebbero poi detto gli
spagnoli, cioè colui che si aggira, se ne va in giro per il mondo. Dice Zeus: ma come? Sì, perché
così non devo rendere conto a nessuno, posso dire quello che mi pare, tanto sanno che io sono un
giullare pazzo e così via. Se devo fare l’elogio dell’uomo, della dignità dell’uomo, faccio l’elogio
del mendicante. Dice: i mendicanti, questo tipo di vagabondi, di erranti, di mendicanti, che sono
una specie di filosofi cinici, a loro modo, possono anche dire tutto quello che vogliono, tanto poi
che gliene viene di male? E poi, se ci pensate bene, loro ridono, ridono di voi che vi vestite in
questo strano modo, con queste palandrane addosso, con tutte queste cose di cui vi adornate. Ma
non capite che in fondo basta vestirsi in maniera comoda? E’ inutile rendersi ridicoli in questo
modo. Voi ridete di loro, ma in realtà sono loro a ridere di voi.
La storia va avanti, naturalmente, poi Momo ha di nuovo dei guai perché offende le divinità
femminili. Queste divinità femminili lo castrano e lo cacciano giù nel mare, lo legano ad uno
scoglio, lo trasformano in donna e a un certo punto, mentre passano per questo mare a dare
un’occhiata al mondo, Caronte con un altro filosofo se lo trovano lì e gli dicono: ma tu cosa fai
qua? Dice: eh, mi hanno messo qui, ma guardate che buffa storia; io, quando dicevo quello che
pensavo, mi castigavano duramente, mi hanno cacciato giù dal cielo eccetera; quando invece io
dicevo quello che gli altri volevano, facevo il bravo ragazzo, mi trattavano sempre bene. Guardate
cosa succede, dunque, a dire la verità.
Dopodiché Zeus, che si trova ad avere a che fare su come riformare il mondo e non sapeva se
lasciare il mondo com’era o se cambiarlo, alla fine di questa storia si ritrova in mano un volumetto,
un libro che gli aveva dato Momo, ed erano delle istruzioni, Momo o del principe, e Zeus si accorge
che se lo avesse ascoltato all’inizio, forse le cose sarebbero andate meglio. E così si conclude la
storia.
Per quello che riguarda il mondo alla rovescia, come vi dicevo
prima, quando Zeus chiede ad Apollo: hai incontrato i filosofi? Ora,
in genere i filosofi vengono considerati dei gran chiacchieroni, dei
ciarlatani e così via, ma non Socrate – lo sappiamo – e Democrito.
A proposito di Democrito, ecco un’immagine. Questa è
un’incisione de L’anatomia della melanconia (1632) di Robert
Burton, un grande scrittore inglese. Come vedete, in alto c’è
Democrito; lo lasciamo qui perché è il finale di questa storia. A un
certo punto Apollo incontra Democrito in uno di questi episodi, uno
dei più importanti, e il filosofo Democrito tradizionalmente è
indicato come colui che andava scoprendo, si era ritirato appunto in
una collinetta dove pensava e lavorava e andava alla ricerca,
diciamo così, dell’origine della follia. Quindi tagliava gli animali,
anatomizzava, l’anatomia della melanconia perché pensava che
fosse importante trovare l’origine dell’umana follia. E questa si
doveva trovare all’interno dell’uomo medesimo, ma lui non poteva
tagliare gli uomini, naturalmente, quindi lo faceva con gli animali.
E quindi cercava questa melanconia o l’origine di questa follia in
un organo interno, nella bile, la bile nera.
Qui c’è un episodio in cui Apollo incontra Democrito e Democrito, vestito così malamente, anche
lui sporco, trasandato, perché sta lavorando, sta cercando, sta sperimentando, sta riflettendo, aveva
in mano un granchio e stava aprendo e guardando dentro a questo granchio. Apollo non riesce a
farsi ascoltare, allora comincia un po’ a prenderlo in giro, a fare gli stessi movimenti. L’altro se ne
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accorge, si distrae un po’ dalla sua concentrazione, dice: perché mi stai prendendo in giro? Perché
volevo attirare la tua attenzione; ma tu cosa stai facendo? Dice: sto cercando di capire; lo sai che io
sono alla ricerca della follia, il riso e la follia, e sto cercando di capire come funziona questo
granchio. La storia è questa: ci sono degli scritti attribuiti ad Ippocrate in cui il grande medico
dell’antichità (su cui ancora i medici giurano, il famoso “Giuramento di Ippocrate”), ma badate,
questo non è l’Ippocrate vero del quinto secolo avanti Cristo, ma sono dei testi in greco del primo
secolo avanti Cristo, quindi molto tardi, in cui si racconta questo: gli abitanti dell’isola di Abdera
sono disperati perché il loro grande legislatore, il saggio che ha dato loro le leggi, il filosofo
Democrito, sembra impazzito. Loro lo vedono che si è ritirato su una collinetta, sporco, lacero, e lì
anatomizza, taglia animali, scrive qualcosa in un libro e, quando loro si avvicinano, comincia a
ridere ferocemente. Una risata terribile, da cui si è spaventati. Come possono ridere in maniera così
sgangherata coloro che spesso noi sentiamo ebbri di vino, che spesso di notte sentiamo passare per
le strade con queste risate terribili, come delle scudisciate in faccia.
Chiamano allora, preoccupati, il grande Ippocrate e gli dicono: tu lo devi guarire, perché Democrito
era il rappresentante di tutti noi, colui che ci ha dato le leggi. I concittadini di Democrito pensano
che sia folle, perché vedono che ride in questa maniera sgangherata. Ippocrate lo va a trovare e cosa
scopre? Democrito dice ad Ippocrate: guarda che non sono io il folle, ma i miei concittadini. Io mi
sono ritirato qui perché me ne sono accorto – e da qui vedo benissimo che cosa fanno –, io gli ho
dato delle leggi e nulla funziona più, perché? Perché vedo che gli uomini e le donne non vedono
l’ora di sposarsi e poi subito dopo si lasciano, non vedono l’ora di fare figli e dopo li abbandonano,
ci sono quelli che sono potenti e ricchi e dicono “ah, beati quelli che non hanno nulla, voi sì che non
avete responsabilità, che state bene”, quelli che ovviamente sono poveri invidiano gli altri e così
via. Quindi questa è la follia, il mondo alla rovescia: sono loro i folli e non io. E allora io rido in
questa maniera perché non ho altro mezzo, se non spaventarli un po’ con questa risata terribile, che
si trasformerà in ironia, perché il Momo di Leon Battista Alberti è pieno di ironia. Allora Ippocrate
torna indietro dagli abitanti di Abdera e dice: voi mi avete fatto incontrare con il più grande saggio
del mondo. E tenta di spiegare loro il
perché. Certo Democrito non è molto
ottimista sull’umanità, anche se alla fine di
questo dialogo con Ippocrate, Democrito dà
un libro ad un giovane che sta passando.
Sembra in un certo senso – vedete, qui c’è
un libro aperto – che ci sia aperta questa
possibilità, pur avendo un’opzione così
terribile e così pessimistica sulla natura
umana medesima, un qualche spiraglio che
qualcuno, come poi Burton nel 1632, possa
riprendere in mano queste idee e proseguire
questa ricerca, tanto è vero che qui c’è
Democrito, come voi vedete, e il Burton si
farà chiamare Democritos junior.
Infine, proprio per ritornare al Democrito
del Momo che stava aprendo il granchio,
Apollo gli chiede: cosa stai facendo adesso? Dice: guarda che gli animali li ho già sezionati e ho
visto dov’è l’origine della follia; però mi manca il granchio, non lo so perché è molto strano: va
all’indietro, va di traverso, non si capisce dove sia il cervello, eppure lo deve avere, qui dentro ci
deve essere un qualche cervello, non sarà fuggito anche questo. Quindi la mia ricerca non è finita e
io continuo a cercare e a cercare di capire come il cervello subisca questi disastri proprio perché il
cuore… e dà una spiegazione proprio da medico, da anatomista, dice: il cuore si agita, si infiamma,
si riscalda il sangue, va in ebollizione e i vapori, come fossero fumi dell’alcol, salgono, salgono
verso il cervello e lo fanno scoppiare. E la ragione, alla fine, ne viene sconvolta.
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Difficile conciliabilità tra ragione e follia, come voi vedete, un mondo che spesso viene
rappresentato alla rovescia, un’immagine niente affatto conciliante e serena del Rinascimento, né da
un punto di vista culturale, né filosofico, che, come si diceva prima, è estremamente moderna e che
dimostra anche quegli elementi di inconciliabilità e tragicità della modernità stessa.
Intervento:
Volevo chiederle, Leon Battista Alberti ha una personalità molto inquieta, questi depressiva e usa
dei simboli che sono mitologici, usa l’“occhio alato”. La sua religiosità di che tipo è? Ci possono
essere anche dei collegamenti anche con la religiosità del tempo, quindi anche qualcosa di magico,
esoterico, pensando a Marsilio Ficino? Oppure lui è ortodosso, nel senso è cristiano, cattolico?
Professor Marco Bertozzi:
E’ un personaggio complicato Leon Battista Alberti, non ha la finestrella che possiamo aprire, però
lo possiamo capire. Sempre da questa sua biografia, è evidente che ci sia anche un riferimento
all’Egitto, quindi all’antica sapienza egizia e così via. Ma anche questo, con una certa misura e
moderazione, se così si può dire.
In questa biografia lui dice che era esperto anche del cielo, quindi sembra che si occupasse anche di
astronomia o di astrologia. E poi si dice che aveva fatto delle profezie a qualche principe d’Este,
quindi a Ferrara, aveva profetizzato che avrebbero avuto una serie di guai. Certo, è facile dire a
chiunque che avrà dei guai, perché chiunque di noi ce li ha. Non si scende nei particolari.
Però questa è una storia che viene spesso ripetuta, quindi come se avesse persino, fra le sue tante
doti, una sorta di dono della profezia, se così vogliamo dire.
Quanto alla sua religiosità, ci poniamo una domanda: ma l’autore è uguale al personaggio, è
identico al personaggio che sta costruendo, che sta creando? Certo che no, ma qualcosa c’è. Anche
Leon Battista Alberti procedeva un po’ mascherato, cioè proteggendosi da eventuali problemi e
attacchi che poteva avere, vuol dire che probabilmente o allo stesso Momo o a qualche altro
personaggio che c’è all’interno di questo straordinario testo letterario attribuisce qualcosa di sé.
Quando a un certo punto dice: Momo che cosa fa? Viene cacciato dal cielo e fa propaganda
anticeleste. Cioè parla male degli Dei. Dice: ma sono favole quelle che vi sto raccontando, cioè che
gli Dei sono dei disgraziati. In realtà, se ci dovesse essere qualcosa di divino, questo sarebbe la
natura medesima.
La modalità si spinge fino al panteismo spinoziano, addirittura.
D’altra parte qualcuno ha sostenuto il suo assoluto platonismo, e allora forse una qualche forma di
religiosità poteva esserci. Ma c’è anche una forma di religiosità mutuata per esempio da un
personaggio come Giorgio Gemisto Pletone, che era il fondatore della scuola neoplatonica di
Mistra, che era una cittadella vicino a Sparta, l’antica Sparta, che da lì viene a Ferrara nel 1438, poi
va a Firenze nel 1439, e che Alberti aveva conosciuto, e che viene in Italia per il Concilio delle
Chiese e diceva: guardate che ormai tutte le religioni sono alla fine, profetizzo che d’ora in poi ci
sarà un’unica religione per tutti, che sarà la religione degli antichi padri della Grecia. Quindi con un
rimando anche a idee di tipo neoplatonico, ma una particolare religiosità quasi esoterica, come era
la scuola di Platone a Mistra. La sua scuola di neoplatonismo aveva degli elementi proprio da
fratria, degli elementi paraesoterici, se vogliamo definirli in questo modo.
Fra l’altro Gemisto Pletone, autore che io studiato, e tra l’altro anni fa c’è stata una bella occasione
in cui i colleghi di Atene, per il cinquecentocinquantesimo, avevano organizzato un grande
convegno proprio a Mistra e avevano invitato tutti gli studiosi che si occupavano di questo autore
ed io fui invitato in questo luogo assolutamente straordinario. Gemisto Pletone è sepolto nel tempio
malatestiano a Rimini: perché? Perché dopo la caduta di Costantinopoli, come voi sapete, i turchi
avanzarono o si presero anche la Morea, dove si trovava Sparta. Il Pontefice cercò di organizzare
una crociata per riprendersela. L’unico che poi andò davvero, armato dai veneziani, fu Sigismondo
Malatesta, signore di Rimini. Andò, attaccò la cittadella di Mistra, che era imprendibile. Però
durante questo lungo assedio, che dovette interrompere poi a causa del freddo e delle malattie
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ritrovò la tomba e i registri di Giorgio Gemisto Platone. Li prese e se li riportò in Italia e li volle
mettere in un’arca che è sulla fiancata destra del tempio malatestiano, scrivendo che era il più
illustre dei filosofi bizantini, che lì veniva sepolto e aveva, per Sigismondo Malatesta, un significato
simbolico molto alto e molto forte, cioè la fiaccola della civiltà e della cultura orientale,
originariamente greca, che veniva riportata in Italia e che doveva riaccendere il nostro
Rinascimento.
Intervento:
Abbiamo parlato della figura del mendicante, e abbiamo parlato del Simposio in cui Eros viene
descritto da Platone come il mendicante, cioè come niente affatto bello, ma anzi come piuttosto
ruvido, che dorme per strada, eccetera. Tra Eros e la follia, appunto, c’è un collegamento che anche
il Rinascimento nostro in qualche modo ha colto.
Professor Marco Bertozzi:
Se vogliamo stabilire un rapporto fra il viandante, Eros e tutte le cose che abbiamo detto adesso, il
viandante, il vagabondo, il filosofo errante, un po’ lacero, un po’ strano, e tutti ridono di lui, ma che
ha in sé qualche cosa che attira gli altri, è lo stesso Socrate. Perché, se voi ricordate, nell’apologia di
Socrate che cosa succede? Che Socrate è molesto, è fastidioso, va ad aspettare gli uomini politici
che arrivano sull’agorà, sulla piazza, comincia a interrogarli e cosa scopre? Siccome l’oracolo ha
detto che lui è il più saggio di tutti, scopre che lui non sa e dice di non sapere, ma gli altri fanno
finta di sapere. E allora non si irrita solo l’uomo politico, ma anche quelli che gli stanno intorno, gli
artigiani e i poeti.
C’è anche questo aspetto del giullare. Qualcuno ha pensato che questi errabondi, vaganti, fossero i
fraticelli francescani che andavano a chiedere la carità. Io ho dei dubbi…
Intervento:
Il giullare di Dio, San Francesco.
Professor Marco Bertozzi:
Poi c’è la storia del giullare di Dio, naturalmente. Può darsi. Come dicevamo prima, all’interno di
queste costruzioni, di queste creazioni più o meno simboliche che fa Leon Battista Alberti, è
difficile riuscire a definire in maniera esclusiva qual è il significato. Forse, per comprenderlo, ci
sono una serie di elementi che contribuiscono alla comprensione di queste straordinarie costruzioni
letterarie.
Intervento:
Ultima cosa. Io ho letto una pagina da Rabelais ai miei studenti la scorsa settimana. In qualche
modo ci può essere un collegamento con un altro grande del Rinascimento europeo?
Professor Marco Bertozzi:
Ma certo. Io ho aperto subito il libro appena ho sentito la domanda. Come avete capito, la domanda
è molto opportuna: c’è questo elemento del carnevale, perché il giullare, il ridere, il prendere in
giro, il ridere degli altri, gli altri che ridono di noi, l’ironia, la satira, tutto questo sta a indicarci che
c’è un orizzonte, che è quello del carnevale, che di lì a poco sarà anche ben teorizzato.
Queste due righe che leggo adesso sono in perfetta sintonia con la domanda che è stata fatta. Dicevo
prima che a un certo punto c’è Caronte con un filosofastro che fanno un giro del mondo, prima di
capire se debba essere distrutto o meno. E mentre se ne vanno per il mondo incontrano dei pirati. E’
un episodio, anche questo, fra i tanti straordinari: “Ecco i pirati che, fatto il loro bottino, si
precipitano a gara fuori dalla nave, entrano in un luogo e lì, per divertirsi, secondo un loro singolare
e curioso costume eleggono, scegliendolo fra di loro, il re dei crapuloni”, il re dei pirati. Come
viene scelto il re del carnevale? Spargono di acqua la tolda della nave, poi buttano un topo e il topo
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comincia a scappare. A seconda della persona verso la quale scappa, quello diventerà il re del
carnevale dei pirati.
Intervento:
Vorrei capire come si concilia il rigore della ricerca di Leon Battista Alberti nei trattati edificatori, il
“De architectura”, il “De statua”, appunto con questo, invece, andare in modo irragionevole per il
mondo, diciamo così. Questa è una cosa.
Altra cosa: l’interesse per il temperamento malinconico dove ci porta? Visto che poi c’è qualcuno
che invece sostiene che era appunto il carattere irrinunciabile per la speculazione filosofica, per
esempio, per cui anche questa cosa come si spiega, come si giustifica?
Professor Marco Bertozzi:
Parto da questa seconda domanda, qui è tema per un’altra conferenza. Però il tema della
melanconia, su cui poi ho molto scritto. La storia della melanconia, detta proprio in dieci secondi, è
questa: ci sono due testi antichi, uno è quello dello pseudo Ippocrate che prima abbiamo visto, che
prende questa via anche della satira, dell’ironia, del mondo alla rovescia eccetera eccetera; poi c’è
un altro testo dello pseudo Aristotele, che però in questo caso, se non era di Aristotele, era di un suo
allievo molto vicino. E’ quello che oggi viene diffuso in libreria con il titolo La melanconia
dell’uomo di genio. In questo testo Aristotele (o chi per lui) che cosa dice? Esordisce dicendo che
tutti gli uomini di genio, e quindi uomini politici, anche personalità mitologiche, letterati, filosofi,
medici, scrittori, artisti eccetera, sono tutti melanconici: l’uomo di genio non può che essere
melanconico, poiché la melanconia sta a identificare – è difficile dirlo in due parole – il momento
della contemplazione. Quando si deve pensare, spesso ci si rinchiude nella propria stanzetta e lì si
pensa, si riflette. E’ un momento di solitudine, quasi di tristezza, ma in realtà ci si prepara, così
come fa l’artista contemplativo, a costruire, ideare qualche cosa per rimetterlo in società.
La melanconia si trasforma in depressione, naturalmente, quando invece uno si lascia sedurre da
Saturno e va giù fino in fondo e cioè non torna in società.
Questo secondo filone, quello seguito da Aristotele, in cui tutti gli uomini di genio sono
melanconici, ha dato poi la possibilità di costruire la personalità di genio, come ha fatto Marsilio
Ficino, per cui il melanconico ha una natura particolare che è una natura creativa; non solo artistica,
creativa in ogni senso. E il melanconico quindi, sembra strano, è attivo, ha una attività, una
ideazione mentale e una capacità contemplativa.
Voi pensate anche ai grandi scienziati, secondo la tradizione, chiusi nel loro laboratorio, io lo faccio
sempre come esempio: pensate ad Einstein, la grande genialità, con i capelli ritti e la lingua fuori,
che prendeva in giro il mondo in un certo senso. Naturalmente poi devono tornare in società, come
diceva Marsilio Ficino, perché altrimenti c’è questo rischio. Quindi melanconia, ironia e capacità
intellettuali stanno dentro insieme.
Per quanto riguarda l’altra domanda: è come se ci fossero due personalità contrapposte, in un certo
senso. Oppure che la sua non era una personalità conciliata, cioè che c’era una difficoltà di
conciliazione. Su questo ancora gli studiosi stanno discutendo. Io ho l’impressione che questa parte
letteraria sia una scelta del Leon Battista Alberti di cercare di comprendere l’umanità, cioè le cose
nuove, di andare a fondo nel comprendere qual è la natura umana, con questi risultati certamente
pessimistici. Per questo qualcuno parla di una contrapposizione tra Leon Battista Alberti e Pico
della Mirandola, cioè come se Leon Battista Alberti avesse scritto dopo Pico della Mirandola, cioè
dopo aver visto il discorso sulla dignità dell’uomo e lui, a quel punto, avesse pensato di scrivere un
discorso sulla non dignità dell’uomo, perché questo emerge: la natura umana è descritta nella
maniera che abbiamo visto prima, ma anche peggio.
In realtà Leon Battista Alberti ha scritto prima questo testo, anche se era diffuso solo in
manoscritto, ma, come io spesso dico ai miei studenti, leggendo prima Leon Battista Alberti ci
facciano un ottimo antidoto nei confronti del discorso sulla dignità dell’uomo.
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