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RASSEGNA STAMPA lunedì 16 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA L’ARCI SUI MEDIA LOCALI ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA WELFARE E SOCIETA’ SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 14/03/15, pag. 14 Landini parte con Emergency e Libera Il capo della Fiom raduna i movimenti interessati alla “Coalizione sociale” pensata per fare opposizione a Renzi Coinvolti Libertà e Giustizia, Arci, centri sociali e associazioni di studenti. Aut aut a Sel e Rifondazione: partiti fuori MATTEO PUCCIARELLI MILANO . Seduti al tavolo di Maurizio Landini oggi a Roma ci saranno gli altri due soggetti che insieme alla Fiom si preparano a sorreggere l’esperimento della “Coalizione sociale” antiRenzi: Emergency e Libera. Con loro, pezzi di Arci, Libertà e Giustizia, sigle studentesche come Rete della Conoscenza e Uds e poi il mondo dei centri sociali, quelli meno radicali. Ma non i partiti come Sel o Prc; su quelli c’è quasi il veto, tanto che ad alcune delle associazioni che parteciperanno al vertice è stato fatto notare che le strade sono due: o si sta nel “campo” delle formazioni politiche oppure si sceglie la via del sindacato delle tute blu. La convocazione è arrivata con una lettera firmata da Landini in cui si legge che «la politica non è proprietà privata ». Per questo serve «promuovere la partecipazione», «superando il frazionamento». Dall’antimafia ai precari, dagli operai al volontariato. Sono mondi diversi tra loro, uniti dalla mancanza di un referente politico di peso. L’idea è dare il via a un cantiere che sul medio termine (unodue anni di gestazione) punti a diventare un soggetto politico. Per ora ci si limita ad essere “l’associazione delle associazioni”. Landini si muove con i piedi di piombo, teme molto di bruciarsi. «Prima di ogni cosa occorre ricreare un terreno favorevole, anche come mobilitazione e movimento» ripetono gli uomini più vicini a lui. Giorni fa Gino Strada, parlando ai delegati sindacali via telefono dal Sierra Leone, è stato chiaro: «Per un polo di aggregazione impegnato su diritti, pace e uguaglianza io ci sono, per quel che posso fare». E anche il legame personale del sindacalista emiliano con il fondatore di Libera don Luigi Ciotti — che ha presentato una proposta di legge per il reddito minimo, allargando quindi la propria sfera di interesse — è ben saldo. La “Coalizione sociale” — ragionano in Corso Trieste — avrebbe un’autorevolezza che per certi versi le sigle della sinistra radicale non hanno più. L’assenza di Landini alla Human Factor di Sel a Milano è stata vissuta male da Nichi Vendola. Mentre poche settimane fa Stefano Rodotà, intellettuale vicino al leader dei metalmeccanico, in un’intervista su MicroMega definì quei partiti «zavorre ». I riferimenti sono più che altro europei. In ottobre, al comizio di chiusura del festival dei giovani di Syriza ad Atene, erano in tre sul palco: il padrone di casa Alexis Tsipras, il leader degli spagnoli di Podemos Pablo Iglesias e proprio Landini. Non a caso il segretario della Fiom ha in testa una via di mezzo tra i due esperimenti vincenti della sinistra radicale europea: coniugando il mutualismo dei greci con l’idea molto “indignados” di imporsi nel dibattito bypassando i partiti. La riflessione parte da un dato di fatto: nei paesi europei a suo tempo denominati “Pigs”, complice la crisi che ha impoverito molti, si stanno aprendo insperate praterie a sinistra. Italia a parte. Copiare modelli stranieri è impossibile ma importare alcune pratiche e discorsi sì. E difatti il linguaggio di Landini è cambiato molto negli ultimi mesi. Il continuo riferimento alla necessità di «unire i soggetti che il governo (o “il neoliberismo”) ha diviso», è una frase2 chiave del sindacalista ma pure un must di Tsipras. Così come nel concetto di ambire alla “maggioranza” — cioè conquistare il consenso andando oltre il bacino della sinistra radicale, oltre ai confini della fabbrica — si intravedono le parole e il piglio di Iglesias. Ora la prima vera tappa è la manifestazione del 28 marzo a Roma. C’è solo una possibile variante al disegno di Landini. Cioè il sogno, mai abbandonato, di guidare un giorno tutta la Cgil. del 14/03/15, pag. 4 Coalizione Fiom, ora si fa sul serio Massimo Franchi Il progetto. Questa mattina prima riunione informale della «associazione di associazioni». Landini: nè Podemos nè Syriza, ma vogliamo cambiare il paese contro l'alleanza Renzi-Confindustria. Il leader dei metallurgici riunisce in sede Libera, Emergency, Arci, Libertà e giustizia. A metà aprile il lancio del nuovo movimento Le mail sono partite venerdì scorso. Destinatari una cinquantina di associazioni, movimenti, personalità. Quasi tutti vecchi compagni di strada: Emergency, Libera, Arci, Giustizia e Libertà, vari costituzionalisti. Come nuovi compagni di viaggio si possono citare gli studenti, le partite Iva, i freelance, perfino i gruppi cattolici. Una vera «rete» da aprire «sul territorio». Nessun partito invitato, nessun partito all’orizzonte. Ma, si sa, la panna mediatica si monta in fretta. Ed è bastato un articolo del Corriere della Sera che dava conto della lettera del segretario generale della Fiom per creare un pandemonio: «Nasce la Podemos di Landini». Questa mattina alle 10 invece alla sala Airoldi del seminterrato della palazzina ex Flm di Corso Trieste 36 si terrà semplicemente la prima riunione di un lungo percorso della già ampiamente annunciata «coalizione sociale». La volontà è quella di «una chiacchierata informale» partendo da chi ha partecipato a “La via maestra” a difesa della costituzione due anni fa. Un confronto chiuso ai media che tra i partecipanti non avrà nomi altisonanti anche perché non ci saranno né Gino Strada (il primo a dire sì pubblicamente al progetto) né Don Ciotti, impegnati altrove e sostituiti da loro collaboratori, mentre Stefano Rodotà è ancora alle prese coi postumi di una frattura alla gamba. La novità comunque c’è ed è rilevante. La Fiom è la promotrice di questo progetto e ha un’idea su come portarlo avanti. La forma che dovrebbe prendere la «coalizione sociale» è quella di «un’associazione di associazioni», sulla falsariga di “Libera” di Don Ciotti che non a caso è in prima fila nella partita. Un appuntamento più istituzionale per lanciare il progetto dovrebbe esserci a metà aprile. Nessuno — tanto meno Landini — si è dilettato con nomi o simboli. Al momento l’unico nome e l’unica proposta è semplicemtne «coalizione sociale», definito «uno spartito» ancora tutto da scrivere. Con alcuni caposaldi però: indipendenza, autonomia, pensiero collettivo. Fare politica — «come la Fiom fa da 115 anni» — promuovendo la partecipazione, seguendo i principi della Costituzione. L’idea di Landini — che oggi sarà esaminata dagli altri movimenti e da buona parte del gruppo dirigente nazionale e locale della Fiom — è quello di darsi obiettivi stringenti a partire dal tema lavoro. Lo scopo è riconquistare diritti in tutti i campi: beni comuni, giustizia, partecipazione. Gli strumenti saranno vari: dal referendum abrogativo a quello 3 propositivo, dalla legge di iniziativa popolare alla contrattazione sociale sul territorio. Nessuna partecipazione diretta a qualsiasi tipo di elezione, ma non si esclude di appoggiare singoli candidati o movimenti locali. In stretto rapporto — come è sempre stato — con i partiti e movimenti politici della sinistra. Il modello dunque non è Podemos (partito nato da una protesta sociale) o Syriza (federazione di partiti e movimenti). «Io non so parlare né spagnolo né inglese, parlo a malapena l’italiano. Quello di domani (oggi, ndr) è solo l’avvio per dare sostanza a una lotta per cambiare il paese non come vogliono governo o Confindustria ma come vogliono le persone che hanno a cuore giustizia sociale, libertà e i diritti del lavoro», ha ribadito Landini. Se proprio si vuole guardare a un modello, ad un esempio del passato si può pensare al sindacato che in Inghilterra finanziava il Labour o alla rinascita del partito socialista francese. Nel frattempo in agenda c’è già un appuntamento a Firenze il 23 marzo. E la manifestazione del 28 marzo, che da ieri ha anche un nome e un programma: si chiamerà “Unions”, la primavera dei diritti e si terrà di (sabato) pomeriggio a Roma con corteo da piazza Esedra (ore 14) a piazza del Popolo, esattamente lo stesso programma de “La via maestra” del 12 ottobre 2013. Landini ha lanciato l’idea della coalizione sociale a novembre: mettere assieme chi ci sta contro Renzi e la sua coalizione con Confindustria. A Cervia tre settimane fa ha avuto il via libera da parte dell’assemblea nazionale dei delegati. Il documento con al centro il progetto di «coalizione sociale» ha ricevuto con oltre il 90 per cento avendo il voto favorevole anche della componente riformista dei “camussiani” guidati da Gianni Venturi. La stessa Camusso è stata messa al corrente del progetto e delle riunioni già organizzate. Non che questo abbia diminuito la sua contrarietà, ma (i probabili) attacchi che arriveranno da altri esponenti della Cgil hanno comunque uno scudo solido nel fatto che l’operazione è già stata spiegata e illustrata ai vertici di Corso Italia. Da Repubblica.it del 14/03/15 Landini: "Pd nel silenzio distrugge diritti" A porte chiuse l'evento per il lancio della 'coalizione sociale' alternativa al Pd di Renzi. All'evento Emergency, Libera, Arci, Libertà e Giustizia, Articolo 21. Guerini: "Conferma che sua opposizione era politica e non sindacale" ROMA - Riunificare il popolo della sinistra, questa la missione che Maurizio Landini si è riproposto con la "coalizione sociale" che oggi ha fondato, richiamandosi espressamente all'articolo 2 della Costituzione, insieme ad associazioni e rappresentanti della società civile nella sede nazionale della Fiom, in corso Trieste a Roma. "Ho sentito parlare qualcuno di urla per quanto mi riguarda. Io sinceramente sono abituato a discutere di merito più che stare attento ai decibel", ha detto il leader sindacale al termine dell'incontro a porte chiuse per la fondazione della coalizione. Una coalizione nata per difendere "i diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme". Il leader sindacale ha replicato in questo modo al capogruppo pd Roberto Speranza, che lo aveva criticato per essere espressione di "una sinistra massimalista che urla". "Vorrei ricordare che una parte del Pd ha votato per la cancellazione e dello statuto dei lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla". Landini: "Io urlo? Pd fa cose peggiori cancellando diritti" 4 "A volte - ha aggiunto - si può non urlare, ma fare qualcosa che è peggiore della urla e peggiorare le condizioni dei lavoratori. Io sto attendo a quello che dicono o fanno. Io inviterei ad avere rispetto delle proposte che si fanno e ricordare che questo parlamento, e in particolare la maggioranza hanno votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori". Poi ha sottolineato in vista della manifestazione del prossimo 28 marzo ("aperta a tutti i soggetti che hanno portato a scioperare insieme Fiom e Cgil in autunno"): "Oggi c'è stato un importante avvio di discussione con una presenza molto più ampia del previsto. C'è stata la conferma della disponibilità a costruire la coalizione sociale nel rispetto della Costituzione". Per il segretario Fiom, "l'elemento di novità è che questa azione mette al centro come si realizzano i diritti dei cittadini, a partire dal diritto al lavoro". Ed è proprio la difesa dei diritti di tutti che la 'coalizione sociale' si pone come obiettivo. Landini, poi, ha ribadito la necessità di "rinnovare il sindacato per evitare la cancellazione": il governo Renzi, ha proseguito, "non ha mai avuto un voto per cancellare lo statuto e i diritti, questo voto non glielo ha dato nessuno". Unire ciò che il governo divide. Il segretario Fiom ha ribadito, poi, il ruolo del sindacato: "Noi facciamo il nostro mestiere di movimento sindacale e sociale, agiremo sui luoghi di lavoro per riconquistare i contratti, ma cambiare le leggi vuol dire fare proposte per costruire un consenso e se necessario fare proposte di referendum abrogativi perché quando una legge non va bene si cambia". Nessun partito. La coalizione non è un abbozzo di partito, Landini ci ha tenuto a specificarlo nel corso della seduta, arrivando persino a minacciare chi lo pensasse di tornarsene a casa - secondo quanto racconta lo storico costituzionalista della sinistra Gianni Ferrara - e come ha ribadito lui stesso alla stampa, arrivando fino a scherzare sul termine: "Partito? - ha detto -. Non capisco questa parola". Lo spirito della coalizione. Una coalizione sociale, dunque, che nasce, spiega ancora Landini, da una certezza, "che la politica non è proprietà privata" e da due assunti, "la fine del lavoro" e quello secondo cui "la società non esiste, esistono solo gli individui e il potere che li governa" con cui è stato creato "lo spettro di un futuro già presente con cui siamo chiamati a fare i conti in tutta Europa" e che sta scatenando "una guerra tra poveri". Per questo, scrive ancora Landini, "serve superare le divisioni, il frazionamento, le solitudini collettive e individuali e coalizzarsi insieme". È questo, "lo spirito innovativo" su cui si fonderà la nuova coalizione sociale, "indipendente e autonoma", puntualizza ancora, per la quale, sabato, potrà già essere possibile "individuare punti di programma condivisi" per una "visione nuova del lavoro, della cittadinanza, del welfare e della società". Presenti all'incontro numerose associazioni, da Emergency a Libera, da Libertà e Giustizia all'Arci ad Articolo 21. E rappresentanti di alcune categorie professionali come avvocati, farmacisti e dottorandi di ricerca. E non è mancata la partecipazione di un rappresentante politico vero e proprio, impersonato dalla senatrice ex M5s Maria Mussini. Ma il vicesegretario del PD Lorenzo Guerini commenta: "Non capisco bene in che cosa consista la sua proposta però ciò che mi sembra abbastanza evidente è che si conferma che l'opposizione di questi mesi era più politica che sindacale". http://www.repubblica.it/politica/2015/03/14/news/landini_-109498289/?ref=search 5 del 15/03/15, pag. 2 di Salvatore Cannavò È ARRIVATO L’ANTIRENZI LANDINI C’È, E SPARA SUL PD LA “COALIZIONE SOCIALE” VARATA DAL SEGRETARIO FIOM PRENDE FORMA GIÀ IN PIAZZA IL 28. AD APRILE È PREVISTA ANCHE UNA “LEOPOLDA” ROSSA Cosa sarà davvero la “coalizione sociale” di Maurizio Landini si capirà un po ’ alla volta. Quello che è chiaro da ieri, giorno in cui il segretario della Fiom ha riunito alcune decine di associazioni, strutture sociali, singole persone in una sede Fiom assediata dai giornalisti, è che la Coalizione è stata avviata e che ha un avversario molto preciso: il governo Renzi e le politiche europee di cui è portatore. “NOI NON ACCETTEREMO il terreno che ci è imposto da altri”, ha precisato il leader sindacale nelle conclusioni. “Vogliono decidere come siamo vestiti, quali mutande portiamo, che calzini indossiamo. È il modo migliore per evitare che nasca la coalizione sociale”. Il riferimento è al Corriere della Sera che ha parlato di un “progetto Podemos”, un modo per alludere “a un perimetro ristretto e poi depotenziarlo”. Lo stesso atteggiamento assunto da Matteo Renzi quando ha parlato di un Landini “sconfitto che si butta in politica”. La strada del “partito”, però, è esclusa: “Chi ha in mente questa soluzione può anche andarsene”, dice all ’ inizio della sua introduzione. E, non si sa se, folgorati dalla frase, i primi a lasciare la sala saranno proprio i due senatori ex M 5 S, Maria Mussini e Maurizio Romani, ospiti inaspettati e che abbandoneranno i lavori dopo circa mezz’ora. Di partiti non si vede traccia. Non c’è Sel né il Prc. Sarà presente Alfonso Gianni, già stretto collaboratore di Fausto Bertinotti e poi sottosegretario nel governo Prodi, oggi attivo nell’Altra Europa con Tsipras. Ma è una presenza individuale. Il grosso dei partecipanti compone una rete di associazioni più o meno grandi, più o meno radicali. C’è Libera con Gabriella Stramaccioni anche se la struttura, come spiegato ieri al Fatto da don Luigi Ciotti non farà parte in quanto tale della Coalizione. Ma non è un caso che la sua campagna “100 giorni per un reddito di dignità” sia tra le prime misure proposte ieri. Avrebbe dovuto intervenire da Milano via streaming Cecilia Strada, ma un guasto ha impedito il collegamento. L’Arci è rappresentata da Filippo Miraglia che mette a disposizione i suoi circoli per pratiche mutualistiche; c’è Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, Legambiente, il Forum per l’acqua pubblica, ma anche i centri sociali che hanno dato vita allo Strike Meeting, quelli del nord-est, gli studenti della Rete della conoscenza e dell’Udu, la Flc-Cgil, i Comitati “Per una buona scuola”, l ’ associazione di avvocati free lance e i parafarmacisti, la fabbrica recuperata Rimaflow che sta organizzando una Casa del Mututo soccorso. Nessuna “costituente di un nuovo partito” e nemmeno una iniziativa in cui “cinque decidono il progetto” spiega Landini. La Coalizione potrebbe divenire una “associazione di associazioni” ma anche uno spazio in cui dare spazio a singoli e personalità. Del resto, tra le figure finora coinvolte da Landini ci sono nomi come Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, Gino Strada, Sergio Cofferati. L’importante è che ci sia “un programma condiviso tra soggetti diversi” e “un’azione collettiva” contro le politiche di austerità in Europa e in Italia, da radicare sui territori. Offrire di nuovo “il diritto alla coalizione” a chi lavora ma anche a chi, ad esempio, difende l’ambiente. Il problema del rapporto con la politica è però presente. In diversi invitano a non contrapporsi alla sinistra 6 esistente, in particolare le strutture più legate a Sel. Landini chiude dicendo che non c’è contrapposizione con i partiti ma la politica che propone è quella basata su un mix di “programma e iniziative: avremo successo se avremo consenso”. Il progetto non sarà semplice anche perché, al momento, poggia sulle spalle della sola Fiom dove, però, sono convinti che “ne valga la pena”. Qualche segnale positivo è giunto dalla Cgil, ieri assente, ma con alcune strutture che hanno aderito alla manifestazione del 28 marzo lanciata dalla Fiom: sono la Cgil dell’Emilia Romagna, la Flc, il sindacato di scuola e università, e la Fisac-Cgil del Lazio. E il rapporto con la Cgil resta decisivo. “Anche il sindacato ha bisogno di rinnovarsi” ripete il segretario Fiom e non è un mistero che questa sua iniziativa sia rivolta a offrire una via d’uscita dalla sconfitta subita sul Jobs Act e alle difficoltà che il sindacato sta vivendo. Quello del 28 marzo sarà un appuntamento rilevante. Landini precisa che la Coalizione non deve cercare la prova della piazza a tutti i costi, non ora, e l’appuntamento, “Unions”, è stato già indetto dalla Fiom. Lo scontro con Renzi, sarà evidente, come dimostra il nuovo attacco mosso ieri al premier e al Pd: “Nel silenzio si distruggono i diritti”. PRIMA DEL 28, la coalizione si farà europea partecipando al Blockupy di Francoforte contro la Bce. Il 21 marzo ci sarà invece la giornata per ricordare le vittime di tutte le mafie, promossa da Libera a Bologna. Ma il primo vero appuntamento nazionale, una sorta di “Leopolda sociale” si svolgerà a metà aprile presso un albergo confiscato alle mafie nei pressi di Roma. Sarà una grande assemblea con tavoli tematici e l’occasione, quindi, per mettere a punto programma e iniziative future. Poi, propone Landini alla costituenda Coalizione, ci sarà il 25 aprile a Milano e il 2 giugno a Bologna, in difesa della Costituzione. Infine, il radicamento territoriale. La proposta è di organizzare Coalizioni sociali a livello di base: si cita l’esempio del Fondo di solidarietà creato a Pomigliano ma anche Milano dove la festa della Fiom presso la fabbrica recuperata Rimaflow potrebbe divenire una festa della Coalizione sociale. del 15/03/15, pag. 6 Il battesimo di Landini nasce Coalizione sociale “Il Pd distrugge i diritti” Speranza: “La soluzione non sono le sue urla in tv” La replica: “Avete cancellato lo Statuto dei lavoratori” TOMMASO CIRIACO ROMA . La strategia della coalizione sociale a trazione Fiom trapela dalla finestra di un seminterrato di corso Trieste. Lì dentro, da sei ore, associazioni e frammenti di sinistra ragionano a porte chiuse del progetto di Maurizio Landini. Finché il numero uno dei metalmeccanici prende la parola per fissare i paletti: «La mia idea è costruire qualcosa che difenda i diritti di cittadinanza, a partire da quello del lavoro. Ma altri vogliono decidere per noi, dirci anche quali mutande e calzini indossare. Hanno già costruito lo schema del sindacalista che lancia un partito e approda in Parlamento. Se accettiamo questo terreno, il progetto non decollerà». Guai a parlare di partito, allora. Almeno per il momento. «Non conosco il significato di questa parola...». Guai a mostrarsi parte di un sistema che si intende scardinare. Guai soprattutto a contaminarsi con piccoli e grandi leader di Palazzo. «La politica, oggi, è lobby». È un battesimo affollato e un po’ troppo blindato. Il servizio d’ordine con felpa Fiom a caratteri cubitali filtra senza sconti i partecipanti. I cronisti sono tenuti alla larga. In sala, a 7 dibattere, ci sono almeno quindici sigle: Legambiente ed Emergency, Libertà e giustizia e pure Libera (“ma non faremo parte della coalizione”, precisano dall’associazione), Arci, Uds e centri sociali. I partiti, invece, sono banditi. «La sinistra — si accende uno dei relatori — cerca di rinascere con la ricerca di un santone. Noi percorriamo un’altra strada». Certo, c’è qualche candidato della lista Tsipras reduce dalle Europee. A far rumore, in ogni caso, è soprattutto l’assenza di Sel. Alla vigilia non sono mancati i contatti con la galassia vendoliana, ma il messaggio fatto recapitare da Landini è stato chiaro: «Ne parliamo un’altra volta, grazie ». Tre incauti senatori ex grillini si presentano comunque al raduno, sfidando il veto. Dopo pochi minuti vengono messi garbatamente alla porta. Lo scontro più aspro, però, è con la minoranza del Pd. È la prima tappa di una guerra che sembra solo all’inizio. A gettare benzina sul fuoco della polemica è Roberto Speranza. «Più spazio alla sinistra — sostiene il capogruppo dem, intervenendo a Bologna durante la convention di Area riformista — non può significare una sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive di Landini». Poi tocca a Pierluigi Bersani esorcizzare il potenziale competitor: «Non credo che Maurizio voglia mettersi in politica. Questa coalizione sociale mi sembra un movimento che mette in discussione un’idea di sindacato più che un soggetto politico». Il leader della Fiom non gradisce e poco dopo reagisce: «Sono abituato a discutere di merito, più che di decibel. Inviterei ad avere rispetto delle proposte che si fanno, senza dimenticare che il partito di maggioranza — non tutto, ma in buona parte — ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Si può anche non urlare, ma fare cose peggiori». È proprio sugli effetti del Jobs act che il sindacalista intende sfidare i democratici. E non fa nulla per nasconderlo: «Mai un governo aveva cancellato i diritti senza alcun confronto con i sindacati». Anche le organizzazioni dei lavoratori, però, devono cambiare. «Rinnovarsi», a costo di cambiare pelle: «Per impedire la cancellazione del sindacato confederale bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo. Mettere insieme tutte le forme di lavoro, non solo quello salariato». Un solo nodo, però decisivo, resta ancora da sciogliere: che forma avrà questa eterogenea coalizione sociale, per ora a metà strada tra un movimento e un sindacato? Il numero uno dei metalmeccanici non fa nulla per risolvere il rebus, anzi punta tutto sulla contaminazione: «La politica non è proprietà privata. Un nuovo partito? Lo chieda a Speranza, lui fa politica. Noi ci occupiamo di sindacato e abbiamo la nostra autonomia ». Qualcosa in più si capirà nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione Fiom convocata per il 28 marzo a Roma. Ad aprile, poi, sono previsti un altro paio di appuntamenti con Landini. Nel frattempo si riuniranno i gruppi tematici per occuparsi della piattaforma programmatica. Con alcuni punti fermi: «Contestiamo le politiche della Commissione europea e della Troika. E vogliamo unire tutto ciò che il governo sta dividendo». del 15/03/15, pag. 2 Landini, la coalizione è servita Antonio Sciotto Fiom. «Non siamo un partito, ma siamo qui per unire tutti quelli che il governo ha diviso». Il leader delle tute blu Cgil presenta il suo nuovo soggetto. All’incontro con movimenti e associazioni, ma senza politici 8 né stampa, c’erano anche studenti, avvocati e partite Iva. Con i distinguo di Libera e l’attacco frontale da parte del Pd E così è nata: non in piazza, o con uno sciopero, ma con una discussione a porte chiuse. Lontano dalla stampa, «dal clamore dei media», come aveva precisato qualche giorno fa la stessa Fiom, invitando i soggetti della costituenda Coalizione sociale. E mostrando una certa allergia sia nei confronti dei politici che dei giornalisti. Un netto distacco dall’“apparato” — in altri ambienti si direbbe la “casta” — che il segretario dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini, ha voluto rimarcare, proprio perché l’intento di questo nuovo soggetto è quello di riappropriarsi della politica: fin dalla base, dai movimenti e dalle associazioni, e ovviamente dai luoghi di lavoro. «Perché la politica non è una proprietà privata», come ha evidenziato nella famosa frase scritta in grassetto nella sua lettera di convocazione agli alleati. Per l’ennesima volta Landini, aprendo i lavori poco dopo le 10,30 nella sala riunioni della Fiom nazionale a Roma, ha ripetuto che «la coalizione sociale non vuole essere un partito e non vuole fare un partito». Anzi, come ha spiegato il costituzionalista Gianni Ferrara uscendo durante una pausa, ha detto che «chi pensa che siamo qui per fare un partito se ne vada a casa». Questo non vuol dire che la Coalizione sociale non faccia politica, anzi: la fa nel senso più nobile del termine, e Landini cita l’articolo 2 della Costituzione, quello che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Unirsi, «coalizzarsi», è quindi un diritto e anche un dovere. Unirsi, «unire quel che il governo ha diviso»: per questo, ripete Landini, «serve superare le divisioni, il frazionamento, le solitudini collettive e individuali e coalizzarsi insieme». È questo, «lo spirito innovativo» su cui si fonderà la nuova coalizione sociale, «indipendente e autonoma», puntualizza ancora, ribadendo i concetti che aveva scritto nella sua lettera: per poter affermare una «visione nuova del lavoro, della cittadinanza, del welfare e della società». Nel corso dei diversi interventi si traccia un possibile percorso, da fare insieme: con Libera, Arci, Emergency, ma anche Legambiente, Libertà e giustizia, il gruppo Abele. E ancora, la possibilità di coinvolgere le associazioni di freelance e partite Iva, come gli avvocati di Mga, i farmacisti, i dottorandi di ricerca. Chiaro che Landini vuole andare oltre il sindacalismo metalmeccanico di stampo classico, per coinvolgere i nuovi lavoratori, anche quelli che non si riconoscono come dipendenti. Per tracciare un nuovo «Statuto dei lavoratori», a partire dall’elaborazione della stessa Cgil, ma non solo, e anche andare a un «referendum»: per «cancellare quello che delle leggi attuali non ci piace, come il Jobs Act». E per fare questo, «bisogna creare consenso, diffondere e coltivare una cultura dei diritti», e «lo possiamo fare solo se stiamo nelle fabbriche ma anche fuori». Dove serve la solidarietà: «Perché sempre più persone si avvicinano al sindacato dicendo che non arrivano alla fine del mese, e allora a queste persone noi dobbiamo dare risposte». Non a caso la saldatura con i gruppi cattolici, e con associazioni come Emergency che assicurano l’assistenza sanitaria a poveri e immigrati. E poi i recenti riferimenti, tra il serio e il faceto, a papa Francesco. Allargare oltre il consueto steccato della sinistra, abbandonare i vecchi partiti che hanno perso, polverizzati da Renzi, Grillo, e Salvini. Bisogna dare un messaggio di «nuovo», al di là dei contenuti più solidi, e questo Landini lo sa bene. Anche se ieri è arrivata una prima puntualizzazione di Libera, che ha spiegato che sì, partecipa e collabora, ma che non entra in nessuna coalizione sociale: «Libera non partecipa a nessuna coalizione sociale», ha fatto sapere l’associazione di Luigi Ciotti in 9 una nota. Libera specifica di aver soltanto raccolto l’invito a «incontrarsi per affrontare singole questioni di comune interesse». «Nel manifesto conclusivo di Contromafie, gli Stati generali dell’antimafia svolti a Roma nell’ottobre 2014 abbiamo indicato con chiarezza i dieci punti su cui siamo impegnati, come rete che raccoglie oltre 1.600 associazioni». Lo scontro con i democrat Come si può immaginare le peggiori stoccate sono venute dal Pd. Non solo l’entourage renziano, che ha parlato solo in serata: «Si conferma che l’opposizione di questi mesi era più politica che sindacale», dice il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. Ma i più acidi sono quelli dell’area riformista del Pd, che vedono togliersi potenziale terreno sotto i piedi, mentre vorrebbero essere loro, pur in preda a un eterno amletismo, a interpretare la sinistra a sinistra del Pd (vedi i brillanti risultati sul Jobs Act). E così Roberto Speranza dice che «la parola scissione non esiste, non fa parte del vocabolario Pd», e che «la soluzione non può essere una nuova sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive di Landini, ma avere più sinistra nel Pd e nella nostra azione di governo». Molti aspettano fiduciosi. Gli risponde Landini, che si dice «più attento ai contenuti che ai decibel»: «Il partito di maggioranza, non tutti — aggiunge — ha votato la cancellazione dello Statuto dei lavoratori. Ma il partito, questo governo, non hanno mai avuto un mandato del popolo su un tale programma». Porte aperte alla coalizione sociale dal Prc di Paolo Ferrero («Ottima notizia») e da Sel di Nichi Vendola: «È una necessità». L’appuntamento sabato prossimo a Bologna per la manifestazione di Libera, e poi sabato 28 a Roma, in Piazza del Popolo. del 15/03/15, pag. 9 Landini in movimento ‘Il Pd cancella diritti io provo a difenderli’ Speranza lo aveva attaccato: le urla non servon Un partito non è, una lista elettorale neanche. L’assemblea (a porte chiuse) di ieri non è l’avvio di Podemos o Syriza all’italiana. Ma solo «una chiacchierata» che apre la strada alla nascita della «coalizione sociale» fatta di movimenti e associazioni che fuori dai partiti - ma nella società - affianchi e sostenga le ragioni dei lavoratori, che il Pd ha ormai abbandonato. Ancora non si sa in che modo evolverà la «cosa» concepita dal leader della Fiom Maurizio Landini. Ma è evidente a tutti l’impatto politico di un’operazione che potenzialmente potrebbe riconfigurare la sinistra, riaggregando il vasto campo che non si riconosce nelle scelte politiche e nelle riforme di Matteo Renzi e del suo governo. Un’iniziativa che avrà presto la «controprova» della piazza, con la manifestazione contro il «Jobs Act» di sabato 28 marzo a Roma. Che crea problemi a tutto il Pd, e grandissimi imbarazzi alla Cgil di Susanna Camusso. Nella sede nazionale della Fiom ieri c’erano rappresentanti di tante realtà: da Emergency ad Arci, da Libera ad Articolo 21, ma anche categorie professionali. L’unica «politica», la senatrice ex-M5S Maria Mussini. Landini ha spiegato che il cantiere della «coalizione sociale» ha l’obiettivo di «mettere nelle condizioni di poter difendere i diritti» di tutti, «diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme». Per cui - se il capo gruppo Pd Speranza lo attacca, «le urla di Landini non servono» - lui risponde che «non era mai successo dal dopoguerra che un governo facesse leggi che cancellano i diritti senza consultare i diretti 10 interessati né i sindacati, che semmai c’è l’intenzione di cancellare». Ma anche diritti sociali e civili, antimafia, ambiente, «la politica non è proprietà privata». Di partito non se ne parla, giura Landini, e in ogni caso le critiche del Pd (sinistra bersaniana compresa) valgono poco: «Vorrei ricordare - dice - che una parte del Pd ha votato per la cancellazione dello Statuto dei Lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla». E la Fiom? «Facciamo il nostro mestiere di movimento sindacale e sociale. Agiremo sui luoghi di lavoro lo e il distacco riservatigli dal mondo dal quale proviene: e cioè quello del sindacato. Meno scontati, forse - e per questo più dolorosi - i distinguo e le critiche esplicite arrivati al suo progetto dalla minoranza interna al Pd, che dal Jobs Act alle riforme costituzionali (fino all’allarme sul rischio di svolte autoritarie) ha un pacchetto di lagnanze e di proposte assai vicino a quello del leader Fiom. Invece, lui lancia la sua «coalizione sociale» ed apriti cielo. per riconquistare i contratti. Ma cambiare le leggi vuol dire fare proposte per costruire un consenso. E se necessario fare proposte di referendum abrogativi perché quando una legge non va bene si cambia». Matteo Renzi sembra convinto che molto presto la «coalizione sociale» diventerà una cosa più concreta. «Si dimostra che l’opposizione della Fiom di questi mesi, era politica non sindacale», è la tesi del premier e dei renziani, che a questo punto vogliono cambiare le regole sindacali varando una legge sulla rappresentanza sindacale e attuando l’articolo 39 della Costituzione. Il problema più serio per adesso però ce l’ha la Cgil e il suo leader Susanna Camusso. Nessun commento ieri dal segretario generale, in visita con degli studenti ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ma in Cgil ormai c’è palese preoccupazione, perché Landini sta chiaramente superando le «linee rosse». «La Cgil non può fare un partito politico, una corrente di un partito, né essere mallevadore di un movimento politico», disse a suo tempo il segretario. E Landini - sia pure giurando di non farlo certamente è andato oltre. Mettendo a rischio l’autonomia della Cgil, e indebolendo la Confederazione nei confronti degli altri sindacati, delle controparti. E anche verso un governo che già non nasconde la sua ostilità. del 15/03/15, pag. 10 Landini in campo: per i diritti coalizione sociale e sfida al Pd ROMA Oltre la minoranza Pd, oltre il sindacato e, soprattutto, contro Matteo Renzi: Maurizio Landini (e la Fiom), dopo settimane di annunci in tv, ieri hanno lanciato ufficialmente la loro «coalizione sociale a difesa dei diritti di tutti i lavoratori» che si articola sulla Fiom e su associazioni e movimenti sociali che vanno da Libera ai No Tav. È dalla piazza, che Landini vuole cominciare, e lo ribadisce fin quasi allo sfinimento, con lo scopo di non affossare il progetto trasformandolo in un partitino. Ma, nel lungo periodo, è alle prossime elezioni e all'avversario Renzi, che il segretario della Fiom guarda, con l'occhio del politico e, non più, solo, del sindacalista. E, non a caso in serata, è uno degli uomini più vicini a Matteo Renzi, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerinì a replicare: «Non capisco bene la sua proposta però conferma che l'opposizione di questi mesi era. più polìtica che sindacale». LA POLITICA NON È PRIVATA Sta di fatto che è nata la coalizione sociale targata Landini, o meglio, targata Fiom, come lo stesso segretario chiarisce ricordando l'avallo dell'organizzazione. La novità è che alla classica mobilitazione sindacale si aggiunge la mobilitazione di piazza e associazioni di 11 varia origine e finalità: da Emergency a Giustizia e Libertà, da Arci ad Articolo 21 fino a LiberàTcHè smentisce una sua adesione alla coalizione ma al fianco della quale la Fiom scenderà in piazza a Bologna il 21 marzo. Del resto, è lo stesso Landini a spiegare la sua strategia nella riunione, convocata (a porte chiuse) con una lettera che, in grassetto, metteva in evidenza le parole: «la politica non è proprietà privata». «Bisogna partire dai territori, bisogna aggregare sulla base della lotta per i diritti e contro la povertà e non solo della difesa dei salariati», spiega Landini nel suo intervento conclusivo non escludendo una sua discesa in campo in un prossimo futuro ma chiarendo che, «chi oggi vuoi fare un partito è meglio che vada via». L'idea, insomma, è quella di coagulare tutto il malcontento e la protesta con qualche strizzata d'occhio all'esperienza degli spagnoli di Podemos o ai greci di Syriza ma anche agli italiani di 5Stelle sapendo, però, che la situazione italiana è molto diversa da quella di altri paesi alle prese con l'austerity. Landini dovrà vedersela con il sordo malumore della Cgil (che ieri non ha proferito parola) e la durissima contrarietà della sinistra dem, «Le uria non servono», ha liquidato il progetto il bersagliano Roberto Speranza. Il leader di Sei Nichi Vendola sposa invece la nascita della nuova coalizione definita come una «necessità» e annuncia la partecipazione alla manifestazione Fiom del 28 marzo a Roma. Netta infine la contrarietà degli altri sindacati metalmeccanici, «Landini pone fine a ogni suggestione di unità sindacale», chiosa Marco Bentivoglio segretario della Fim. D.Pir. Da Radio popolare del 13/03/15 Intervista alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci su Coalizione sociale Da Radio popolare del 14/03/15 Intervista al vicepresidente nazionale Arci Filippo Miraglia su Coalizione sociale Da Repubblica.it del 15/03/15 Il battesimo di Landini nasce Coalizione sociale "Il Pd distrugge i diritti" La strategia della coalizione sociale a trazione Fiom trapela dalla finestra di un seminterrato di corso Trieste. Lì dentro, da sei ore, associazioni e frammenti di sinistra ragionano a porte chiuse del progetto di Maurizio Landini. Finché il numero uno dei metalmeccanici prende la parola per fissare i paletti: «La mia idea è costruire qualcosa che difenda i diritti di cittadinanza, a partire da quello del lavoro. Ma altri vogliono decidere per noi, dirci anche quali mutande e calzini indossare. Hanno già costruito lo schema del sindacalista che lancia un partito e approda in Parlamento. Se accettiamo questo terreno, il progetto non decollerà». Guai a parlare di partito, allora. Almeno per il momento. «Non conosco il significato di questa parola...». Guai a mostrarsi parte di un sistema che si intende scardinare. Guai soprattutto a contaminarsi con piccoli e grandi leader di Palazzo. «La politica, oggi, è lobby». È un battesimo affollato e un po' troppo blindato. Il servizio d'ordine con felpa Fiom a caratteri cubitali filtra senza sconti i partecipanti. I cronisti sono tenuti alla larga. In sala, a 12 dibattere, ci sono almeno quindici sigle: Legambiente ed Emergency, Libertà e giustizia e pure Libera ("ma non faremo parte della coalizione", precisano dall'associazione), Arci, Uds e centri sociali. I partiti, invece, sono banditi. «La sinistra — si accende uno dei relatori — cerca di rinascere con la ricerca di un santone. Noi percorriamo un'altra strada». Certo, c'è qualche candidato della lista Tsipras reduce dalle Europee. A far rumore, in ogni caso, è soprattutto l'assenza di Sel. Alla vigilia non sono mancati i contatti con la galassia vendoliana, ma il messaggio fatto recapitare da Landini è stato chiaro: «Ne parliamo un'altra volta, grazie ». Tre incauti senatori ex grillini si presentano comunque al raduno, sfidando il veto. Dopo pochi minuti vengono messi garbatamente alla porta. Lo scontro più aspro, però, è con la minoranza del Pd. È la prima tappa di una guerra che sembra solo all'inizio. A gettare benzina sul fuoco della polemica è Roberto Speranza. «Più spazio alla sinistra — sostiene il capogruppo dem, intervenendo a Bologna durante la convention di Area riformista — non può significare una sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive di Landini». Poi tocca a Pierluigi Bersani esorcizzare il potenziale competitor: «Non credo che Maurizio voglia mettersi in politica. Questa coalizione sociale mi sembra un movimento che mette in discussione un'idea di sindacato più che un soggetto politico». Il leader della Fiom non gradisce e poco dopo reagisce: «Sono abituato a discutere di merito, più che di decibel. Inviterei ad avere rispetto delle proposte che si fanno, senza dimenticare che il partito di maggioranza — non tutto, ma in buona parte — ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Si può anche non urlare, ma fare cose peggiori». È proprio sugli effetti del Jobs act che il sindacalista intende sfidare i democratici. E non fa nulla per nasconderlo: «Mai un governo aveva cancellato i diritti senza alcun confronto con i sindacati». Anche le organizzazioni dei lavoratori, però, devono cambiare. «Rinnovarsi», a costo di cambiare pelle: «Per impedire la cancellazione del sindacato confederale bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo. Mettere insieme tutte le forme di lavoro, non solo quello salariato». Un solo nodo, però decisivo, resta ancora da sciogliere: che forma avrà questa eterogenea coalizione sociale, per ora a metà strada tra un movimento e un sindacato? Il numero uno dei metalmeccanici non fa nulla per risolvere il rebus, anzi punta tutto sulla contaminazione: «La politica non è proprietà privata. Un nuovo partito? Lo chieda a Speranza, lui fa politica. Noi ci occupiamo di sindacato e abbiamo la nostra autonomia ». Qualcosa in più si capirà nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione Fiom convocata per il 28 marzo a Roma. Ad aprile, poi, sono previsti un altro paio di appuntamenti con Landini. Nel frattempo si riuniranno i gruppi tematici per occuparsi della piattaforma programmatica. Con alcuni punti fermi: «Contestiamo le politiche della Commissione europea e della Troika. E vogliamo unire tutto ciò che il governo sta dividendo». http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/03/15/il-battesimo-di-landininasce-coalizione-sociale-il-pd-distrugge-i-diritti06.html?ref=search Da il SecoloXIX.it del 14/03/15 Landini lancia la “coalizione sociale”: «La politica non è proprietà privata» Roma - Oltre la minoranza Pd, oltre il sindacato. Soprattutto, oltre e contro Matteo Renzi: Maurizio Landini, dopo settimane di annunci, ha posto la prima pietra della sua “coalizione sociale”, «a difesa dei diritti di tutti i lavoratori» e già affiancata da una selva di associazioni e movimenti sociali. 13 È dalla piazza, dalla Rete, che Landini vuole incominciare, come ha ribadito sin quasi allo sfinimento, con il chiaro scopo di non “bruciare” il progetto mutuandolo in partito. Ma, nel lungo periodo, è alle prossime elezioni e all’avversario Renzi, che il segretario della Fiom guarda, con l’occhio del politico e non più solo del sindacalista. Non a caso, se Renzi opta per il silenzio, in serata è uno degli uomini più vicini al premier, Lorenzo Guerini, a replicare: «Non capisco bene la sua proposta, però conferma che l’opposizione di questi mesi era più politica che sindacale». Sta di fatto che ufficialmente è nata la nuova “coalizione sociale” targata Landini. Anzi: targata Fiom, come è lo stesso segretario a sottolineare, ricordando come l’iniziativa abbia avuto l’avallo delle tute blu e parta anche dall’azione nelle aziende. La novità, però, è che alla classica mobilitazione sindacale si aggiunga un’ampia mobilitazione di piazza, oltre ad associazioni di varia origine e finalità: da Emergency a Giustizia e Libertà, da Arci ad Articolo 21, sino a Libera, che smentisce una sua adesione “ufficiale”, ma al fianco della quale la Fiom scenderà in piazza a Bologna il 21 marzo. Del resto, è lo stesso Landini a spiegare la sua strategia nella riunione, convocata a porte chiuse con una lettera che, in grassetto, metteva in evidenza le parole «la politica non è proprietà privata». Bisogna partire dai territori, bisogna aggregare sulla base della lotta per i diritti e contro la povertà e non solo della difesa dei salariati, spiega Landini nell’intervento conclusivo, non escludendo una sua “ufficiale” discesa in campo in un prossimo futuro, ma chiarendo che, «chi oggi vuol fare un partito è meglio che vada via». L’idea, insomma, rimarca quella della mobilitazione dal basso del Movimento 15-M in Spagna, o la stella nascente, sempre a Madrid, di Podemos, senza disdegnare l’ellenica Syriza o la tedesca Linke. Tutti riferimenti lontanissimi dalla rottamazione renziana, lontani dalla minoranza Pd. «Inviterei ad avere rispetto delle nostre proposte senza dimenticare che il partito di maggioranza ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Si può anche non urlare, ma fare cose peggiori», è la replica al vetriolo che Landini affida al leader di Area Riformista, Roberto Speranza, che da Bologna osservava come la soluzione alla richiesta di più sinistra non siano «le sue urla» in tv. Più aperto, invece, il leader della sinistra Dem, Gianni Cuperlo, che invita a «guardare con rispetto all’iniziativa di Landini». E se Massimo Cacciari avanza una soluzione oggi a dir poco originale («Area riformista e Landini si mettano insieme»), il leader di Sel, Nichi Vendola, sposa in pieno la nascita della nuova coalizione, definita come una «necessità», e annuncia la partecipazione alla manifestazione Fiom del 28 marzo a Roma, che Landini, tra l’altro, apre a chiunque «voglia condividere i nostri obiettivi». Sarà quella, forse, la prima, vera cartina di tornasole di un progetto che punta al referendum abrogativo sul Jobs Act e dal quale, per il numero 1 delle tute blu, dovrebbe partire anche un «rinnovamento del sindacato» per evitare la sua stessa morte. Perché, avverte Landini, con queste politiche «il rischio c’è». Quasi a voler rafforzare la tesi, il sindacalista ricorda come il governo «abbia cancellato i diritti conquistati da chi lavora», anche se «questo consenso non gli è mai stato dato da nessuno». Insomma: a sinistra, da oggi, Renzi ha un nuovo “nemico”. http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2015/03/14/ARAr7doD-politica_proprieta_coalizione.shtml Da il Giornale.it del 16/03/15 Sindacati e piazza. Landini segue il modello Cofferati 14 Dice che non vuole creare un partito ma solo fare politica. Usa questa ambiguità per restare a metà del guado e utilizzare il sindacato a suo uso e consumo Adalberto Signore Continua a ripetere che no, non ha alcuna intenzione di creare un partito ma vuole soltanto fare politica «uscendo dagli schemi tradizionali». La differenza è sottile e, soprattutto, si perde nell'equivoco visto che disegnare i confini di quello che è oggi un partito e di quali possano essere i modelli tradizionali non è per nulla facile. Maurizio Landini lo sa bene. Anzi, è proprio su questa ambiguità che gioca il segretario della Fiom per restare a metà del guado e utilizzare il sindacato a suo uso e consumo. L'operazione è ormai in fase avanzata e difficilmente riusciranno a farlo desistere le ritrosie della stessa Cgil. Susanna Camusso, infatti, non l'ha presa per nulla bene, tanto che ieri ha voluto mettere in chiaro di non essere stata informata dell'iniziativa Coalizione sociale . Inutile, insomma, aspettarsi da Landini passi indietro. D'altra parte, il leader della Fiom sa bene di essere molto efficace, soprattutto in televisione. Al punto che i talk show del prime time se lo contendono e lui se la gode, tanto che - ironizzano i suoi detrattori nel sindacato - è stato ospite di tutte le reti con la sola eccezione di Rai YoYo . Ieri, per dire, è stata la volta di In 1/2 ora su RaiTre, trasmissione nella quale ha ribadito quasi fosse un mantra che non vuole «né fare politica né uscire dal sindacato». Di più: chi descrive il lancio della sua Coalizione sociale come una «operazione politica» è «in malafede». Con buona pace della Camusso. Landini, dunque, tira dritto. E sembra ripercorrere le orme di un suo noto predecessore. Come il leader della Fiom sta cercando di riunire sotto l'ombrello della Coalizione sociale associazioni come Emergency, Arci e Articolo 21, allo stesso modo Sergio Cofferati strizzò l'occhio a lungo ai girotondi. Fu anche grazie a loro che nel 2002 l'allora segretario della Cgil riuscì a portare al Circo Massimo 700mila persone (tre milioni secondo gli organizzatori) contro la modifica dell'articolo 18. Alla piazza - ovviamente con numeri diversi - guarda anche Landini che il 28 marzo sfilerà contro il Jobs Act. Ma le similitudini non finiscono qui se pure Cofferati è andato avanti per anni a giurare che lui no, in politica non sarebbe mai entrato. Con tanto di ritorno da «quadro» alla Pirelli quando nell'ottobre 2002 lasciò la segreteria Cgil a Guglielmo Epifani. I buoni propositi, però, durarono poco. Il tempo di essere eletto sindaco di Bologna nel 2004, parlamentare europeo nel 2009 e 2014 e infine correre alle primarie del Pd per la scelta del candidato governatore della Liguria. Storia recente di un sindacalista che non voleva far politica. Da Radio 24 - il sole24ore.com del 16/03/15 A sinistra di Renzi Le inchieste di Daniele Biacchessi Cosa bolle in pentola a sinistra del Partito Democratico di Matteo Renzi? Se dovessimo giudicare gli ultimi movimenti molto. C'è Maurizio Landini che lancia la sua Coalizione sociale e chiama a raccolta la Fiom e il mondo dell'associazionismo: Arci, Libera, Emergency, libertà e giustizia, Articolo 21. Il progetto non sembra quello di realizzare un vero e proprio partito come erroneamente indicano molti osservatori di cose politiche, ma un cartello di opposizione al Governo su temi del lavoro, politiche sociali, diritti, ambiente, antimafia, . 15 Anche le varie anime delle minoranze del Pd sono in subbuglio. L'attivissimo deputato dem Alfredo D'Attorre ha organizzato una nuova tappa della road map che porterà a breve numerosi parlamentari di minoranza a dar vita ad un soggetto politico organizzato che si muoverà all'interno del Partito Democratico. Infatti, sabato 21 marzo a Roma l'assemblea vedrà la partecipazione anche di rappresentanti della Cgil e di Sel e avrà come titolo "A sinistra nel Pd". Ma questo continuo darsi da fare non pare portare a qualcosa di sostanzioso: la Coalizione sociale di Landini, la rete di amministratori e sindaci di Nicky Vendola col suo «Human factor», i bersaniani di Roberto Speranza, i potenziali scissionisti come Gianni Cuperlo, Pippo Civati e Stefano Fassina decisi a non votare o votare contro leggi e riforme del governo. A sinistra di Renzi la frantumazione resta totale e alla fine nessuno dei contendenti riesce a scalfire la popolarità e la fiducia di cui gode ancora il presidente del Consiglio. di Daniele Biacchessi http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/effettogiorno/2015-03-16/sinistra-renzi103222.php Da Quotidiano Nazionale del 14/03/15 Landini: "Il Pd ha distrutto i diritti dei lavoratori". Bersani avverte Renzi: "Sul partito voglio vedere i fatti" Alla chiamata del leader Fiom per lanciare la coalizione sociale hanno risposto diverse associazioni, dall'Arci a 'Giustizia e libertà'. Speranza: "Le sue urla non servono". Convegno di Area Riformista a Bologna Roma, 14 marzo 2015 - Il leader della Fiom Maurizio Landini battezza la 'cosa rossa' nella sede nazionale della Fiom: un incontro a porte chiuse per fondare la 'coalizione sociale' alternativa al Pd di Matteo Renzi: non un partito, ma una formazione politica nelle intenzioni del segretario dei metalmeccanici della Cgil. E a Bologna si riunisce Area Riformista del Pd, con un intervento di Bersani. COALIZIONE LANDINI - "La politica non è proprietà privata": è lo slogan scritto in grassetto sulla lettera che Landini ha inviato ad associazioni, simpatizzanti e iscritti alla Fiom per fondare "una coalizione sociale" alternativa a quella dei partiti esistenti. Alla 'chiamata' del leader Fiom hanno risposto membri di diverse associazioni, da Arci a Giustizia e Libertà, Articolo 21 e singoli membri di altre reti sociali. "C'è bisogno di una coalizione sociale. Questo è un movimento d'opinione che farà anche delle cose concrete. Non diventerà un partito", commenta la presidente nazionale di Libertà e Giustizia Sandra Bonsanti. E anche Landini chiarisce: "Chi pensa sia iniziata una fase preparatoria per la nascita di un nuovo partito sbaglia. E se ne vada a casa". Il giurista Gianni Ferrara, lasciando la riunione, ha ribadito: "Non siamo venuti qui per fondare un nuovo partito. Su questo Landini è stato chiarissimo: ha invitato a uscire e andarsene a casa chi invece volesse farlo". Ferrara ha insistito sulla prospettiva comune proposta da Landini qualificandola come "coalizione sociale, aperta a chiunque voglia farne parte". Una coalizione sociale per difendere "i diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme", ha affermato Landini, sottolineando che di fronte al processo di "fortissima svalorizzazione" del lavoro serve anche "un rinnovamento 16 del sindacato". "C'è bisogno di un rinnovamento del sindacato per evitarne la cancellazione". Poi Landini ha risposto indirettamente alle accuse di Roberto Speranza (Pd), che da Bologna aveva affermato che la soluzione alla richiesta di una maggiore presenza di sinistra nella politica italiana "non può essere una sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive di Landini, ma avere più sinistra nel Pd e più sinistra nella nostra azione di governo". "Ho saputo di dichiarazioni relative a chi urla. Io mi concentro sul merito - ha replicato Landini -. Ricordo che questo governo e in particolare il partito di maggioranza ha cancellato i diritti dei lavoratori. Questo è peggio delle urla". BERSANI A BOLOGNA - A Bologna si è riunita Area Riformista - convegno dal titolo 'La sfida dei riformisti nel Pd, la sinistra, il governo, l'Italia' - e oltre a Speranza c'era anche l'ex segretario del Pd Pierluigi Bersani. Che ha dichiarato: "Noi siamo sempre con l'idea di stare con tutti i piedi nel Pd. A chi ci dice 'se non siete d'accordo andate fuori', io rispondo: no, vai fuori tu, che questa è casa mia". E ancora: "Un'area di sinistra larga - ha detto - con la radice ulivista non va dispersa, perché nel campo largo tendono a prevalere posizioni riformiste". "Nell'ipotesi che la legge elettorale rimanga tale e quale, io non sono in condizione di votare quella legge così com'è fatta", ha ribadito Bersani, perché, ha spiegato, qui si tocca "un tema di fondo, il tema della questione democratica in questo Paese: per questo - ha detto ancora Bersani - sono assolutamente convinto che ci sarà la disponibilità a ragionare". Cosa succederà se si dovesse invece arrivare a una rottura su questo punto? "I nostri statuti - ha risposto Bersani - mettono la famosa eccezione alla lealtà, la mettono sui temi di rango costituzionale, come è anche ovvio... Però questa è una risposta anche un po' burocratica. Ci fosse mai una rottura su questo punto io non sottovaluto - è stato l'allarme dell'ex segretario Dem - anche elementi di incrinatura seria, profonda: per questo - ha osservato - dico non succederà, si ragionerà. Questo voglio credere". LA REPLICA DI GUERINI - "Sulla legge elettorale abbiamo discusso a lungo e credo che la formulazione attuale sia equilibrata e funzioni bene. Ci confronteremo nel merito nelle prossime settimane anche se per me va bene così perché coglie gli obiettivi prefissati", ha detto Lorenzo Guerini, sottolineando che "gli ultimatum non fanno bene al Pd". http://www.quotidiano.net/landini-cosa-rossa-1.757891 Da Globalist del 14/03/15 Landini con le associazioni per sfidare Renzi Il numero uno della Fiom convoca le associazioni, dall'Arci a Libera, per costruire un'alternativa alle politiche del governo. Maurizio Landini lancia un'idea di coalizione sociale per difendere "i diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme". "Riunificare il lavoro per estendere i diritti a tutti", questo l'obiettivo di Maurizio Landini, secondo il quale "ciò porta al cambiamento anche del sindacato: il processo in atto sta portando alla cancellazione del sindacato confederale perchè porta i sindacati alla competizione tra loro. Per impedire questo processo bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo" puntando "a mettere insieme tutte le forme di lavoro, non solo quello salariato". "Sono abituato a discutere di merito più che di decibel sono attento a quello che si dice: inviterei ad avere rispetto delle proposte che si fanno senza dimenticare che il partito di maggioranza, non tutti al suo interno, ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori". 17 La riunione a porte chiuse ha visto la partecipazione di diverse associazioni, da Emergency ad Arci, da Libera ad Articolo 21. Presenti anche rappresentanti di alcune categorie professionali come avvocati, farmacisti e dottorandi di ricerca. E non manca la partecipazione di un rappresentante politico vero e proprio, impersonato dalla senatrice ex M5s Maria Mussini. Tutti i partecipanti sono stati convocati da Landini presso la sede nazionale della Fiom con una lettera di invito nella quale si chiede di dare forma a dei "punti di programma condivisi nello spazio nazionale" che muovano da una certezza: "La politica non è una proprietà privata". http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=70726&typeb=4&Landini-con-leassociazioni-per-sfidare-Renzi Da AskaNews del 14/03/15 Landini e associazionismo di sinistra riunito in sede Fiom Roma, 14 mar. (askanews) - E' riunito nella sede della Fiom di corso Trieste a Roma il mondo dell'associazionismo di sinistra, come Libera, Emergency, Articolo 21, Arci, categorie professionali: hanno risposto all'appello del segretario del sindacato dei metalmeccanici, Maurizio Landini, per fare il punto sulla possibilità di costruire l'alternativa all'attuale governo, a Matteo Renzi. "La politica non è una proprietà privata", è lo slogan di Landini, il quale, al termine della riunione a porte chiuse farà sapere alla stampa l'esito dell'incontro. Sinistra, Landini vara "coalizione sociale" sinistre, lotta a scelte Renzi Roma, 14 mar. (askanews) - Il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha lanciato la coalizione sociale nell'incontro con l'associazionismo di Libera, Emergency, Arci, Giustizia e libertà, Articolo 21, delle categorie professionali e dei dottorandi di ricerca, ma è chiaro: " Chi pensa che si tratti di una fase preparatoria per la costituzione di un partito può andare a casa", non capisco la parola partito".In vista della manifestazione del sindacato dei metalmeccanici della Cgli, il prossimo 28 marzo contro le politiche del lavoro del governo Renzi, e, prima ancora, di quella di Libera, a Bologna mercoledì 18, Landini ha convocato tutte le associazioni di sinistra - chiamata alla quale hanno risposto anche due senatori ex M5s -, le quali hanno confermato la loro disponibilità a costituire un soggetto, nel rispetto della Costituzione, che preveda un'azione per "la realizzazione dei diritti di cittadinanza, a partire dal lavoro al centro di un processo di fortissima svalutazione".Nell'incontro con i giornalisti al termine dell'assemblea di oggi nella sede Romana della Fiom, Landini non ha mancato di rispondere al capogruppo del Pd, Roberto Speranza, il quale ha accusato il leader delle tute blu di essere l'esponente di "una sinistra massimalista che urla": "Sono abituato a parlare del merito più che dei decibel, di quello che si dice e si fa. Direi di non scordare che parte del Pd ha votato per la cancellazione dello Statuto dei lavoratori. Si può fare peggio di chi urla", ha detto il sindacalista, aggiungendo che "non è mai successo che il Parlamento cancellasse i diritti conquistati senza confronto con i sindacati e le persone interessate".La coalizione sociale, nelle intenzioni di Landini, dovrà servire a "superare le divisioni, il frazionamento, le solitudini collettive e individuali e coalizzarsi insieme" e agire "sui luoghi di lavoro per riconquistare i contratti": "Cambiare le leggi sottolinea il leader della Fiom - vuol dire fare proposte per costruire un consenso e se necessario fare proposte di referendum abrogativi perché quando una legge non va bene 18 si cambia. Siamo di fronte a un gioco al ribasso da ribaltare, unificando il lavoro ed estendendo a tutti i diritti". Quindi fa sapere che il prossimo appuntamento è ad aprile, per una due-giorni aperta a tutti coloro che condividono il progetto, per cominciare a decidere contenuti, priorità, metodo e come organizzare la campagna. Infine Landini torna al suo ruolo principale quando afferma "che c'è bisogno di rinnovare il sindacato contro chi lo vuole cancellare". Parole che potrebbero fare da sponda a chi sostiene che per il leader della Fiom sia iniziata la lunga corsa ala segreteria della Cgil. Da Rassegna.it del 16/03/15 Umbria, scatta raccolta firme per difesa civile non violenta “Scatta anche in Umbria la Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, con banchetti di raccolta firme a sostegno di una proposta di legge “Scatta anche in Umbria la Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, con banchetti di raccolta firme a sostegno di una proposta di legge da presentare al Parlamento che chiede la realizzazione di una difesa civile alternativa alla difesa militare che sia finanziata dal bilancio statale attraverso l’opzione fiscale (il 6 per mille) in sede di dichiarazione dei redditi. La proposta è stata presentata oggi, 16 marzo 2015, a Perugia dal Comitato Umbro della Rete della Pace in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato Margherita Belia (Rete degli Studenti), Mario Bravi (Cgil Umbria), Paolo Tamiazzo (Arci Umbria), Antony Xavier Ladis Kumar (Acli Perugia) e Alessandra Paciotto (Legambiente Umbria). La proposta vuole dare piena attuazione all’articolo 52 della nostra Costituzione (la difesa della patria) istituendo nel nostro ordinamento forme di Difesa civile, in coerenza con l’articolo 11 (il ripudio della guerra). Nel concreto, la proposta di legge - che i cittadini potranno sottoscrivere anche in Umbria presso tutte le sedi dei soggetti aderenti oltre che nelle iniziative che saranno messe in campo nei prossimi due mesi - punta all’istituzione e al finanziamento del Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta che comprenda i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo e che abbia forme di interazione e collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile, il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ed il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. “Dunque – hanno sottolineato dal Comitato Umbro Rete della Pace - non un nuovo calderone dal quale tirare fuori nuove poltrone o possibili carriere, ma una messa a sistema di corpi già esistenti in uno spirito nuovo di collaborazione e sinergia”. Il finanziamento della nuova Difesa civile sarebbe garantito, oltre che dallo spostamento di risorse dalla spesa militare, sostanzialmente rimasta immutata nonostante la crisi, anche dalla possibilità per i contribuenti di destinare a questo scopo il 6xmille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. “L’Umbria – hanno sottolineato i rappresentanti della Rete - ha una forte identità sulle questioni della Pace, per una storia che tutti conosciamo da San Francesco ad Aldo Capitini. Questa campagna , dunque, può essere un’occasione per rilanciare fortemente l’identità dell’Umbria come terra di Pace”. A livello nazionale la campagna è promossa da sei reti che raggruppano oltre 200 associazioni: chi volesse ulteriori informazioni può visitare il sito www.difesacivilenonviolenta.org. http://www.rassegna.it/articoli/2015/03/16/119828/umbria-scatta-raccolta-firme-per-difesacivile-non-violenta 19 L’ARCI SUI MEDIA LOCALI del 14/03/15, pag. IX (Palermo) L’ANTIMAFIA CHE FATICA E NON FA AFFARI SALVO LIPARI DIECI ettari di terreno confiscati a Giovanni Marino, nipote di Luciano Liggio. È il 1999 quando l’allora sindaco di Corleone, Giuseppe Cipriani, decide di assegnarli alla cooperativa “Lavoro e non solo” dell’Arci. Comincia allora un percorso di fatica, di risposta ad attentati e intimidazioni e di lotte condivise con chi nel paese ha scelto di stare dall’altra parte della barricata. E comincia un cammino che ha portato da tutta Italia a Corleone migliaia di ragazzi che hanno imparato a “sudare”, a lavorare una terra tolta ai poteri criminali e a riportare nei loro territori il senso di una battaglia concreta. Estate 2013. A Librino, periferia di Catania, l’Arci decide di giocare una partita importante in un quartiere segnato dal degrado ma anche da una grande voglia di riscatto. Lo fa mettendo in piedi un campo estivo che punta al recupero di una struttura sportiva e lo fa coinvolgendo i ragazzi di quel territorio. In questi decenni la Carovana antimafia dell’Arci e di Libera ha toccato centinaia di località e coinvolto migliaia di persone. Decine e decine di associazioni, movimenti, scuole, pezzi consistenti della società civile hanno lavorato e continuano a lavorare per opporsi a mafia, corruzione e malaffare. Ogni giorno e quasi sempre senza clamore. Realtà come quella del Centro Olimpo di Palermo, in cui 34 persone hanno deciso di sfidare tutto e tutti e, grazie a una collaborazione virtuosa con istituzioni e associazioni, hanno fondato una cooperativa per riaprire il supermercato confiscato in cui lavoravano, sono l’esempio che uno scenario diverso è possibile. Ma di esempi così se ne possono fare centinaia. L’arresto di Roberto Helg ha scatenato un dibattito anche aspro ma a tratti superficiale sull’antimafia vera e quella di facciata. Un dibattito che torna ciclicamente, da Sciascia in poi, e che rischia di confondere tutto, di riempire a caso un grande calderone. Negli ultimi decenni c’è stato un proliferare di protocolli di legalità, accordi, intese. C’è chi, per fortuna una minoranza, ha utilizzato l’etichetta di antimafioso per continuare a fare affari, a mantenere rapporti, ad alimentare un sistema illegale. C’è un pezzo della politica che dietro il paravento dell’antimafia prova, nel migliore dei casi, a nascondere la propria incapacità di governare, di gestire i processi, di dare risposte, e nel peggiore a coprire i propri rapporti con pezzi di potere quanto meno discussi. Tutto questo può dare un colpo mortale al movimento antimafia ma può anche essere, al contrario, una scossa più che positiva. Per fare autocritica, per capire dove si è sbagliato e soprattutto per ritrovare una capacità di analisi e selezione che una volta apparteneva ai soggetti organizzati della società. Non si può delegare solo alle forze dell’ordine e alla magistratura il compito di individuare le mele marce. Abbiamo rinunciato a scavare nella complessità, a esaminare a fondo e conoscere i territori. Ma abbiamo anche rinunciato a fare i conti con un fatto assolutamente non nuovo. C’è da sempre un pezzo della borghesia palermitana e siciliana che ha scelto da che parte stare e che tipo di potere esercitare. Magari celando i propri comportamenti dietro un paravento di antimafiosità. Fare finta di non saperlo è ipocrita. Tutto questo però non può consentire di buttare il bambino con l’acqua sporca. Lo dobbiamo a chi in questi anni ha provato a comporre un puzzle che diventa via via più grande e che continua a farlo, seppure con limiti ed errori frutto anche di ingenuità. Un esempio per tutti: non si può dare addosso a Addiopizzo per aver firmato il protocollo con 20 Confcommercio e dimenticare un impegno paziente che in tutti questi anni ha dato coraggio a moltissimi imprenditori e imprenditrici. L’impegno dell’Arci e degli altri movimenti e associazioni che hanno condiviso e condividono importanti pezzi di strada dovrà essere quello di non consentire strumentalizzazioni e semplificazioni e di continuare ogni giorno a costruire quel puzzle, con fatica, sacrifici e scelte di vita non semplici. L’autore è presidente dell’Arci Sicilia Da L’Arena dell’11/03/15 La prova di lettura per gli stranieri scatena le proteste Fasoli del Pd: «Gesto umiliante» L'Arci: «Non è affatto sensibilità» Il sindaco Cristiano Zuliani finisce di nuovo nell'occhio del ciclone. Ha destato infatti sconcerto ed indignazione la notizia apparsa ieri sul nostro quotidiano relativa all'originale iniziativa del primo cittadino, che ha sottoposto alcuni stranieri residenti da tempo nel suo Comune, e quindi ben integrati, ad un pre-esame di italiano in funzione dell'ottenimento della cittadinanza. Il comitato territoriale Arci di Verona, con un comunicato, ha preso immediatamente le distanze dal sindaco leghista del più piccolo centro della Bassa. «Poiché Zuliani si è reso protagonista nel recente passato non per meriti derivanti dal suo operato di amministratore, ma solo per aver pronunciato frasi chiaramente razziste», scrive Michela Faccioni, presidente del comitato Arci, «appare improbabile che ora egli tenti di giustificare quest'altra trovata facendo leva sulla sua presunta sensibilità per le sorti di queste persone e dichiarando che ha fatto tutto ciò nel loro interesse in modo da evitare il blocco della pratica per altri sei mesi». Quindi, invita il sindaco «ad ad occuparsi delle reali necessità che riguardano il governo del suo Comune e a non inseguire ribalte mediatiche su temi che lo porterebbero forse alla bocciatura, perché, date le premesse, se fosse lo stesso Zuliani a sottoporsi ad un esame di italiano e di cultura non sorprenderebbe ne risultasse non idoneo». Il consigliere regionale del Pd Roberto Fasoli rincara la dose: «Il sindaco non può ergersi a giudice del grado di conoscenza della lingua italiana dei cittadini che hanno avuto il decreto dal ministero. È un gesto di maleducazione che umilia le persone che si sono integrate e lavorano nel nostro territorio». «Condanno questo comportamento», conclude Fasoli, «soprattutto perché fa fare brutta figura alla nostra città che mostra così un volto inospitale verso le persone che nel tempo si sono integrate». L.M. http://www.larena.it/stories/397_basso_veronese/1089133_la_prova_di_lettura_per_gli_str anieri_scatena_le_proteste/ Da Corriere di Maremma dell’11/03/15, pag. 7 Le fiamme hanno lambito la conduttura del metano. Assalto incendiario alla Casa del Popolo Sfiorata l'esplosione: "Poteva essere una strage" di Juliane Busch 21 GAVORRANO - Sfiorata la tragedia lunedì sera alla Casa del Popolo dove i vandali hanno dato fuoco a un pannello nelle prossimità della conduttura del gas che porta alla cucina. Fortunatamente al momento dell'incendio si stava svolgendo un corso di danza all'interno della struttura e i partecipanti, accorgendosi del fumo, hanno reagito subito e spento il fuoco prima che potesse andare fuori controllo. Purtroppo questo è solo l'ultimo episodio di una lunga serie di danni fatti alla struttura. Il vicesindaco Giulio Querci è intervenuto subito e ha deciso l'immediata chiusura del parco. "Dopo l'ennesimo atto vandalico ho deciso che da domani (oggi. ndr) il parco della Casa del Popolo sarà chiuso": così ha annunciato sul suo profilo Facebook. "Ogni giorno viene tolto più di un sacchetto di spazzatura gettato in terra dai figli incivili (età dai 10 ai 20 anni) di alcuni - racconta amareggiato e arrabbiato il vicesindaco - Come se non bastasse, gli stessi causano migliaia di curo di danni alla struttura spaccando vetri e vasi cementati, sfondando le porte a calci, urinando ovunque e defecando negli angoli bui come le bestie. Sempre gli stessi forzano le finestre per entrare nella sala del Black & White, sbarbano i lampioncini del parco o li prendono a sassate, si arrampicano sul tetto della Casa del Popolo a fare chissà cosa. Ma lunedì sera "...è stato toccato l'apice, hanno dato fuoco a una pannellatura (un muro) causando danni ingenti alla struttura e rischiando di far saltare per aria tutto, visto che a mezzo metro dalle fiamme c'erano le friggitrici della Festa dell'Unità alle quali ovviamente è collegata la linea del metano". Un testimone racconta: "Non si sono nemmeno resi conto che potevano fare una strage, perché all'interno si trovavano persone che frequentavano una scuola di ballo e per pura fortuna si sono accorte dell'incendio e lo hanno spento prima che raggiungesse le tubazioni del gas. Dobbiamo dire grazie a loro se non è successo un disastro". Querci ha riassunto l'accaduto con due parole, "amarezza infinita, e non ha potuto fare altro che chiudere per il momento il parco e sporgere denuncia contro ignoti ai carabinieri. E' già la quarta denuncia in due anni, ma per ora la situazione non è mai cambiata, tanto che il Comune si è visto costretto a prendere una decisione irremovibile, quella della chiusura, perché ci sono anche responsabilità personali in caso avvenissero incidenti, anche se la volontà sarebbe il contrario, quella di far utilizzare il più possibile la struttura. Servirebbe un sistema di sorveglianza. preferibilmente con un circuito di telecamere, ma è una spesa troppo alta per le casse del partito che gestisce la struttura. La chiusura del parco non va comunque a inferire sui corsi di cucito, cucina, computer, teatro o canto organizzati dall'Arci che sono frequentati da decine di persone le quali poi vanno a mangiare in pizzeria, a lezione di danza infrasettimanale o a ballare il sabato sera. Inoltre nella Casa del Popolo trovano sede l'Arcicaccia Bagno di Gavorrano e l'associazione dei disoccupati Progetto Lavoro. Anche molte altre associazioni locali usufruiscono della struttura per iniziative, raccolta fondi, pranzi e cene di autofinanziamento. Da il Tirreno del 10/03/15, pag. XIII (Pontedera-Empoli) STASERA AL CIRCOLO L’Arci contro le spese militari, iniziativa a Petroio "Bum bum..chi è che spara?" è il titolo provocatorio dell'iniziativa organizzata da Arci Empolese Valdelsa e Arci servizio civile Empoli con l'adesione di Gees (Gruppo Empolese Emisfero Sud) e Rete Lilliput, che si svolgerà oggi alle 21,15 al circolo Arci di Petroio. «Saranno con noi Francesco Mancuso, dell'Università di Pisa e Cisp - spiegano gli organizzatori - autore di vari libri sul tema degli armamenti e disarmo e Sara Bandecchi, 22 presidente di Arci servizio civile Toscana. In questi tempi in cui venti di guerra soffiano ormai da ogni parte, senza parlare dei conflitti di cui nemmeno si parla da parte dei media, ci sembra giusto ed utile analizzare come il nostro Stato usi le risorse, che tipo di budget sia destinato alle spese militari, che tipo di commercio venga fatto delle armi e soprattutto se parlare di disarmo sia ancora possibile ». Durante la serata verranno raccolte le firme per la campagna «Un'altra difesa è possibile » a cui l'Arci aderisce. Questa sarà la seconda tappa di raccolta firme nel nostro territorio, dopo quella del 22 febbraio al circolo di Pagnana e «quindi un'altra opportunità per tutti coloro che credono nella pace, di firmare per questa importante campagna», si spiega ancora. Obiettivo della campagna è «quello di dare uno strumento ai cittadini per chiedere allo Stato l'istituzione della Difesa nonviolenta ovvero per la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; la preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; la difesa dell'integrità della vita, dei beni e dell'ambiente dai danni che derivano dalle calarnità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni». L'obiettivo dell'Arci e degli altri promotori è quello di dare finalmente piena attuazione all'art. 52 della Costituzione (sacro dovere della difesa della patria) istituendo forme di Difesa civile e nonviolenta in coerenza con l'art. i i (ripudio della guerra). In pratica si tratta di chiedere un dipartimento che comprenda i corpi civili di pace e l'Istituto di ricerche sulla Pace e il disarmo e che abbia forme di collaborazione con il dipartimento della protezione civile, quello dei vigili del fuoco e col Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale. Da Ansa (Bologna) del 15/03/15 Fiori presso beni confiscati alla mafia Bulbi di tulipano a creare il 'Giardino della Legalità' (ANSA) - BOLOGNA, 15 MAR - Bulbi di tulipano piantati attorno ai 5 beni confiscati alla mafia a Bologna. E' partita questa mattina da Piazza dei Martiri, alla presenza del sindaco Virginio Merola, un'azione di 'guerrilla gardening', ribattezzata il 'Giardino della Legalità' e organizzato dal Centro Antartide, Coop Adriatica, Arci Bologna, Il Cassero, Coop Avola e Libera, in occasione della XX Giornata delle memoria in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che sarà in programma a Bologna il 21 marzo. Da Trentino Corriere Alpi dell’11/03/15 Torna “25 Music Contest”, il concorso promosso dall’Arci TRENTO. Serata all’insegna della musica live questo mercoledì di marzo dall’aria che si tinge di preludio primaverile. Musica per tutti i gusti e palati. Sul fronte contest arriva alla quarta e penultima data il “25 Music Contest”, concorso promosso da Arci del Trentino e che premierà le due migliori band con la possibilità di suonare sul prestigioso palco della Festa della Liberazione di Trento Oggi alle ore 21 al Chinaski di via degli Orbi a Trento si sfidano a suon di note incrociando gli strumenti tre formazioni. Sul palco quindi il cantautorato di Corrado Nascimbeni, il rock della band rivelazione 2015 L'Ira Di Giotto, e i Supercanifradiciadespiaredosi, il trio sperimentale rock e molto altro reduce dall'esperienza dell'Arezzo Wave 2014. Come sempre sarà presente la giuria scelta, composta dai ragazzi delle associazioni Aguaz, Dodicimilawatt, Associazione Offset, Associazione Megaras e Sanbaradio Trento. Tinte rock blues anche al Bar Fiorentina di 23 via Calepina dove dalle 20,30 si esibisce il progetto The Blurred Shadows con un repertorio ci cover di livello internazionali e nazionali. Serata jam session jazz invece per il Ciclo Well in jazz con concerto d’apertura a cura del trio Wot ore 21 al Wellcafè presso l’Auditorium S Chiara a Trento che poi si presteranno come open band stand per chiunque voglia esibirsi. A disposizione microfono, basso, batteria, pianoforte e amplificatore. Folk songwriting dal sapore western al Feeling Pub di Piazza Garzetti sempre a Trento con il concerto di Tiziano Campagna e Daniele Valle che intrecciano un dialogo virtuoso fra le loro chitarre dipingendo storie selvagge dal sapore del west americano. Live anche per il Dela Cruz acoustic duo on stage al Tiki Lounge Bar di Piazza Duomo con musica spagnola dalle ore 19,30. (k.c.) http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/tempo-libero/2015/03/11/news/torna-25-music-contestil-concorso-promosso-dall-arci-1.11028051 Da Cn24tv.it del 13/03/15 Policy pubbliche per lo sviluppo, l’Arci chiede incontro a Oliverio “Il nostro Paese è immerso in una crisi globale che non è più solo economica. Si tratta di una crisi di sistema non più sostenibile.” È quanto si legge in una nota della Presidenza di Arci Calabria. “Il tema dell’Expo, ormai alle porte, Nutrire il Pianeta, Energie per la Vita, segnala un grande problema emergenziale, quello dell’impossibilità di soddisfare i bisogni dell’umanità continuando colpevolmente ad adottare un modello di sviluppo storicamente inadeguato e che ha dimostrato tutte le sue drammatiche insufficienze. – Prosegue la nota - Emerge forte la necessità di ripensare il rapporto tra economia e società, tra profit e non profit, tra produzione e ambiente, rimettendo al centro l’uomo e la società. All’ideologia e alla massimizzazione del profitto si contrappongono sempre più, e con rinnovata forza, alternative di pensiero e stili di vita. All’egoismo fanno da contraltare fenomeni di aggregazione sociale che sanno coniugare benessere individuale e responsabilità collettiva. Reti di imprese e di comunità, insieme a nuove forme di cittadinanza organizzata e a nuovi modelli di governance, provano a far ripartire i territori, sintetizzando e coniugando impresa, produzione, valore, capitale sociale, capitale umano e patrimonio comune. Un nuovo progetto di società, oggi non può prescindere dal rafforzamento di processi di intrapresa, di intraprendenza, di autonomia della società civile organizzata dal pubblico e dalla politica. Si può certamente uscire dalla crisi con un nuovo patto sul tema dei diritti, dell’equità sociale, della democrazia, ma a patto di tessere alleanze virtuose e positive tra soggetti di terzo settore, sindacati, movimenti e i diversi attori sociali portatori di istanze di cambiamento. Nel tempo della crisi affermiamo il valore e la necessità dell’associazionismo come antidoto alla desertificazione sociale, culturale e democratica. Abbiamo bisogno ora più che mai di promozione, tutela e pratica dei diritti, di luoghi collettivi alternativi ai modelli di società che producono solitudine e isolamento, per la ricostruzione di comunità e relazioni col territorio, per conquistare nuovi spazi di libertà e di benessere. Vogliamo farlo declinando la promozione sociale come strumento di emancipazione e autoorganizzazione delle persone, rafforzando l’esercizio della cittadinanza attiva, che agisca consapevolmente tanto i propri diritti quanto le proprie responsabilità, per ricostruire il necessario e possibile equilibrio fra protagonismo individuale e dimensione collettiva. Vogliamo farlo difendendo e affermando pienamente il diritto alla cultura e alla ricreazione 24 che stanno alla base della nostra storia e nel nostro nome, e che in questi tempi sono spesso considerati superflui o stravolti in senso consumistico. Le pratiche diffuse delle nostre basi associative, dei circoli, fatte di democrazia, partecipazione, auto-organizzazione non finalizzate al profitto ma al benessere e all'interesse pubblico sono per loro natura pratiche di un mondo diverso. Per questo crediamo che la loro tutela, la loro difesa, la loro qualificazione, il loro sviluppo, la loro capacità di contare nella vita pubblica sia un contributo alla costruzione dell'alternativa necessaria. La legge sull’associazionismo di promozione sociale è stata approvata a livello nazionale nel 2000 ma la Regione Calabria non l’ha mai recepita, per come avrebbe dovuto. Serve con urgenza, per non compromettere l’apporto di una delle gambe del Terzo Settore calabrese alla crescita sociale-sconomica e culturale del territorio, sviluppare e disciplinare le attività ricreative come i servizi di somministrazione di alimenti e bevande, turismo, sport e animazione culturale o musicale. Il tutto con l’obiettivo di valorizzare il ruolo ed il valore aggiunto delle associazioni di promozione sociale. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica di quanto importante sia l’apporto alla nostra vita sociale di realtà che in regione coinvolgono migliaia di tesserati e che sono in grado di proporre nuovi e importanti strumenti per risolvere problemi complessi, che hanno bisogno di un impegno collettivo. Siamo un’associazione che opera per la promozione dei diritti culturali, per il rafforzamento del dialogo interculturale, per la rigenerazione e la riqualificazione degli spazi pubblici, per la creazione di pratiche artistiche, per l’affermazione dei valori della pace e dei diritti umani universali, per lo sviluppo di reti di cooperazione internazionale, pratichiamo la legalità e la cittadinanza democratica, ci battiamo per i dirittti dei migranti, dei rifugiati e delle minoranze contro ogni razzismo. La nostra rete di associazioni, circoli e loro soci, diffusa capillarmente sul territorio nazionale e regionale (circa 5.000 circolo e 1 milione di soci), può rappresentare un importante laboratorio permanente di elaborazione politica e di partecipazione. Siamo, insieme a molte altre organizzazioni e movimenti sociali, un’associazione che si fonda sulla partecipazione popolare e sul radicamento territoriale, e pur ben consci dei nostri limiti e difficoltà crediamo che questa caratteristica debba essere considerata un elemento di interesse pubblico da riconoscere e valorizzare. Tanto più in un momento storico in cui è evidente che la democrazia rappresentativa tradizionale, concentrata sul ruolo dei partiti da sola non è più sufficiente e che è necessario sviluppare anche la democrazia partecipativa per coinvolgere nelle decisioni pubbliche i corpi intermedi e i cittadini organizzati per promuovere l’interesse generale. Rivendichiamo con forza una legislazione che riconosca, promuova e difenda in modo pieno il ruolo e il valore della complessità della nostra azione di associazione di promozione sociale, al pari di quella di tanti altri soggetti del Terzo Settore. Soprattutto in una fase delicata per il futuro della Calabria, che dovrà sfruttare al meglio il contributo e l’apporto dei corpi intermedi e di tutte le componenti della società civile per elaborare proposte di senso e traiettorie di sviluppo connesse al nuovo ciclo di programmazione, allo scopo di raggiungere gli obiettivi strategici di inclusione e coesione sociale previsti dal programma Europa 2020. – Conclude la nota- Sui temi dell’associazionismo di promozione sociale, sulla legge 383 da recepire al più presto a livello regionale, colmando un grave vuoto normativo, oltre che su temi strategici, politicamente rilevanti per il mondo della cultura, del welfare, dell’ambiente, dell’agricoltura sociale l’Arci chiederà al Presidente Oliverio un incontro per chiedere di impregnarsi ad accelerare i processi di partecipazione delle organizzazioni di terzo settore e del partenariato socio-economico alle scelte strategiche e alla definizione delle policy pubbliche per lo sviluppo della Calabria.” 25 http://www.cn24tv.it/news/108024/policy-pubbliche-per-lo-sviluppo-l-arci-chiede-incontro-aoliverio.html Da Strill.it del 12/03/15 Reggio – Convegno “Storie di ordinaria resistenza a Reggio Calabria” organizzato da Arci e Libera Sabato 14 marzo 2015 alle ore 16,30 presso la Sala Biblioteca della Provincia di Reggio Calabria a Piazza Italia si terrà il convegno “Storie di ordinaria resistenza a Reggio Calabria” organizzato da Arci e Libera Reggio Calabria. L’incontro sarà moderato da Davide Grilletto, Presidente Provinciale Arci Reggio Calabria. Interverranno: Francesco Spanò, Coordinatore Libera Reggio Calabria; Mimmo Nasone, Coordinatore Libera Calabria; Stefania Gurnari, Libera Memoria; Domenico Quattrone, Arci Legalità; Tiberio Bentivoglio, Imprenditore; Giusi Nuri, Cooperativa Sole Insieme. All’iniziativa prenderanno parte i 40 partecipanti al “Viaggio della Legalità” promosso da Arci Solidale- Circolo Arci Ghezzi Lodi. - See more at: http://www.strill.it/citta/2015/03/reggio-convegno-storie-di-ordinariaresistenza-a-reggio-calabria-organizzato-da-arci-e-libera/#sthash.31hywNZd.dpuf Da il Vostro Giornale dell’11/03/15 A Savona l’evento “Mapas2″, per far conoscere il progetto di cooperazione internazionale Savona. Giovedì 12 marzo Arci Savona e Arci Liguria organizzano – in collaborazione con l’associazione Itala – Cuba ed il Patrocinio del Comune di Savona – l’evento “Mapas2 a Savona”, evento per far conoscere il progetto di cooperazione internazionale realizzato da Arci Liguria con il contributo della Regione Liguria. Mapas2 è parte del progetto internazionale “Santa Fé: Rafforzamento dei servizi socioculturali per lo sviluppo comunitario”, che affronta l’esclusione di parte della popolazione dalla vita culturale. Santa Fé è un quartiere periferico de L’Avana, un villaggio di pescatori, che non riesce a fruire della ricchezza culturale che da sempre caratterizza la città; inoltre, soffre una condizione sociale complessa, recentemente aggravata dal disastroso danneggiamento del Cinema Oasis e della Casa della Cultura, i due centri identitari e aggregativi d’eccellenza della comunità. Il progetto internazionale lavora alla ricostruzione di questi luoghi e prevede la messa in atto di processi partecipativi che rompano l’isolamento della popolazione locale e dei giovani in particolare. Il calendario di giovedì 12 marzo prevede una serie di incontri nel pomeriggio – sera: ore 17:30 Incontro presso la Sala Rossa del Comune di Savona con la partecipazione di Claudia Gonzales Rosado (Direttrice della Casa della Cultura di Santa Fé), Lorena Rambaudi (Assessore Cooperazione Internazionale Regione Liguria), Jorg Costantino (Assessore Cooperazione Internazionale Comune di Savona) Walter Massa (Presidente Arci Liguria) e Giuditta Nelli (Responsabile Cooperazione Internazionale Arci Liguria ed ideatrice del progetto) 26 Ore 19:00 Visita delle Officine Solimano Ore 20:00 Cena presso la SMS San Bernardo (per info e prenotazioni 349/3816057 o [email protected]). Parte del ricavato sarà devoluto realizzazione di progetti artistici, culturali, sociali a Santa Fé – L’Avana (Cuba) “Il Comitato Arci Savona ha fortemente un appuntamento di restituzione pubblica di quanto è stato fatto a Cuba nell’ambito del progetto Mapas2 in quanto siamo convinti che, pur in tempi di tagli alle risorse per la solidarietà e la cooperazione internazionale, sia fondamentale proseguire l’azione della nostra associazione per sostenere la cultura e l’inclusione sociale sia nel nostro Paese che all’estero” afferma Alessio Artico, Presidente Provinciale Arci. http://www.ivg.it/2015/03/savona-levento-mapas2-per-far-conoscere-il-progetto-dicooperazione-internazionale/ 27 ESTERI Del 16/03/2015, pag. 23 Europa, un esercito comune per stare al centro della storia Nei giorni scorsi il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha proposto di procedere con la costituzione di un esercito europeo per far vedere alla Russia che l’Europa è «seria nel difendere i propri valori» e «credibile nel reagire a minacce alla pace in uno Stato membro o in uno Stato vicino». Non serviva un indovino per sapere che gli inglesi avrebbero subito alzato un fuoco di sbarramento. «La nostra posizione è chiarissima: la difesa è responsabilità nazionale e non europea»: così, senza mezzi termini, il governo. «Un esercito europeo sarebbe una tragedia per il Regno Unito»: così, più brutali ancora, gli antieuropei dell’UK Independence Party. Una risposta favorevole, seppure con meno passione, alla proposta di Juncker è venuta, invece, dal governo di Berlino, a nome del quale la ministra della Difesa, Ursula von der Leyen, ha detto che «un esercito europeo è il futuro». Nel complesso, tuttavia, la proposta di Juncker è caduta, Italia compresa, quasi nel vuoto. Non lo meritava. Per più di una ragione. Perché essa corrisponde a uno dei temi della sua campagna elettorale per la nomina a presidente della Commissione Europea, tanto che l’averla ripresa ora è un atto di responsabilità politica nei confronti degli elettori che dovrebbe essere apprezzato da tutti coloro che auspicano e chiedono un rapporto più diretto tra cittadini e istituzioni europee. Perché con l’avanzare una proposta di stampo così apertamente europea e proiettata nel futuro, Juncker ha dimostrato di voler restituire alla Commissione l’orgoglio e il ruolo di rappresentante dell’interesse comune europeo, smettendo i panni — indossati durante i dieci, timidi anni del suo predecessore — di mero esecutore dei voleri dei governi nazionali. Perché l’Europa non può pensare (Russia e crisi ucraina insegnano) che l’elemento della forza abbia perduto ogni peso nelle relazioni internazionali, né che i suoi interessi coincidano sempre e comunque con quelli della Nato, cioè degli Stati Uniti. Perché la costituzione di un esercito europeo consentirebbe una razionalizzazione delle spese militari e degli armamenti, oggi suddivisi e frammentati tra le diverse difese e industrie nazionali. Molta strada resta da fare perché la proposta di un esercito europeo, la cui natura dovrà in ogni caso tener conto della neutralità di quattro Paesi membri (Austria, Finlandia, Irlanda, Svezia), possa essere tradotta in pratica. Per quanto gli eserciti nazionali abbiano già sviluppato una notevole esperienza nel lavoro in comune e per quanto l’ultima revisione dei trattati europei espressamente preveda la possibilità che anche nel campo della difesa i Paesi che lo vogliano possano procedere a collaborazioni più strette, il cammino verso un esercito comune europeo non sarà agevole. La già ricordata neutralità di Austria, Finlandia, Irlanda e Svezia, gli arsenali nucleari del Regno Unito e della Francia, i rapporti con la Nato e gli Stati Uniti saranno tra i tanti nodi che si dovranno sciogliere. Insieme alla moneta, la spada è da sempre il simbolo più forte e diretto della sovranità. Con l’euro e la Banca centrale europea, gli stati europei hanno messo in comune la potestà di battere e governare la moneta. Condividere con altri anche il potere di decidere sull’uso della forza militare sarà un passo sostanzialmente definitivo e, per questo, ancora più difficile. Tanto più difficile in quanto a favore di un soggetto come l’Unione Europea, a tutt’oggi formalmente privo persino di una propria bandiera e di un proprio inno dopo che alcuni governi hanno impedito al drappo azzurro con le dodici stelle d’oro e all’Inno alla 28 Gioia di Beethoven di essere riconosciuti come i suoi simboli ufficiali. E che esercito si può dare se non può neppure sfilare dietro a una bandiera e rendere gli onori militari al suono di un inno? Sulla strada che porta a un esercito comune, l’Unione si troverà, come Cesare, di fronte a un Rubicone. In un mondo e in un tempo nei quali dalla sicurezza alla finanza, dall’energia all’ambiente, dalla ricerca all’immigrazione, la dimensione nazionale non basta più, l’Europa dovrà decidere se essere coesa anche nell’uso della forza facendo il passo finale verso l’unione politica o essere ai margini della storia. Si può dire che Juncker abbia lanciato la palla in avanti? Sì. E ha fatto bene. È là che si deciderà se quello di Mario Draghi dovrà restare il solo numero utile da chiamare per parlare con l’Europa. del 16/03/15, pag. 1/6 Europa, ascolta le parole di Atene MARIANA MAZZUCATO IL PRINCIPALE problema dell’Europa, si sente spesso ripetere, è che l’unificazione monetaria non è stata accompagnata da una vera politica fiscale comunitaria. E che senza una vera “unione fiscale” sarà impossibile uscire dalla crisi. Per “unione fiscale” si intende però soprattutto la necessità di correggere le differenze tra i Paesi. OVVERO tra quei Paesi (fiscalmente irresponsabili) a cui è stato consentito di spendere troppo, finire nei guai e incrementare il rapporto tra debito e Pil e gli altri Paesi (fiscalmente prudenti) che si sono comportati in maniera responsabile, stringendo la cinghia e rendendosi più competitivi. “Unione fiscale” vorrebbe dunque dire che i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione, come è stato spiegato questa settimana a Cernobbio da Richard Koo (capo economista di Nomura ndr), Yanis Varoufakis e dalla sottoscritta, molto lontana dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli. Senza violare le regole di confidenzialità della conferenza di Cernobbio, quelle che gli anglosassoni chiamano Chatham House rules , permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni prima di incontrarci nella magnifica Villa d’Este sul lago di Como. Le posizioni convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui i soldi vengono spesi. Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi prociclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto. Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella 29 domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro. Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile di cui ci ha parlato a Cernobbio il brillante economista di Princeton Alan Kruegher che è stato il consigliere economico di Obama durante quegli anni. Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare. Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e invefakis maggiormente in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal compact. È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del governo greco. Varou- viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi forstono ti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile articolare una vera soluzione. Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La 30 «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune. ( Traduzione di Marzia Porta) del 16/03/15, pag. 1/9 Il dilemma dei due stati nelle urne di Israele BERNARDO VALLI GERUSALEMME È COME la morte. Tutti ammettono che esiste e che è inevitabile. Ma si spera che arrivi il più tardi possibile. Non ci si pensa quindi troppo o la si ignora. È un modo un po’ brutale, me ne rendo conto, per affrontare il problema di cui, malgrado l’importanza, non si è parlato direttamente durante la campagna elettorale israeliana appena conclusa. Mi porta a questa azzardata immagine Amos Oz, uno dei maggiori scrittori viventi. Assente dal dibattito in vista del voto di domani, ma ben presente nelle menti e negli scritti, la questione è in realtà un dilemma: è meglio arrivare a uno Stato binazionale o a due Stati divisi, uno israeliano e l’altro palestinese? Oppure lasciare le cose così come sono, moltiplicando gli insediamenti israeliani nei territori occupati (o contesi)? I partiti di estrema destra, quello di Nafali Bennet (Habayt Hayeudi) o di Avigdor Liberman (Yisrael Beiteinu), archiviano tutti gli interrogativi. Per loro la sovranità o il controllo di Israele sull’intera Palestina, con formule diverse, non sono in discussione. Sono un dogma. E nel corso della campagna elettorale gli altri partiti, in particolare quelli concorrenti di destra, per recuperare o non perdere voti si sono discostati con cautela da quelle posizioni estreme o addirittura le hanno appoggiate. IL TEMA della sicurezza è uno dei più sentiti e attraversa in diagonale la società. Dice Amos Oz che in generale ci si adagia da anni in una specie di violenta e incosciente routine, «una gestione del conflitto», pur di rinviare la grande decisione dei due Stati. L’appuntamento inevitabile in un futuro imprecisato, da rinviare il più possibile, sorge puntuale nella mente degli israeliani. Per gli uni è una rinuncia al Grande Israele. Per altri un incubo. Per altri ancora l’unica soluzione. Una soluzione obbligata; o razionale; o dovuta, trattandosi di un vitale adeguamento alla realtà, che certo travolge convinzioni, ma salva dal peggio. La letteratura contemporanea israeliana ha l’affascinante peculiarità di esprimersi in un’antichissima lingua restaurata e ammodernata: l’ebraico. E gli scrittori che l’alimentano (come i registi e gli attori nel cinema, altrettanto vivo e critico della società) sono spesso le indispensabili coscienze di un paese in preda ad ansie e passioni. Nel pieno della campagna elettorale, quando nessuno affrontava il futuro assetto della terra contesa da due popoli, Amos Oz ha detto, in due conferenze, che quel trascurato problema è una questione di vita o di morte per Israele. Se non si creano al più presto due Stati può nascere il timore di vedere deli- nearsi tra il mare e il fiume Giordano uno Stato arabo. L’autore di Giuda, l’ultimo suo romanzo, scarta l’idea di uno Stato binazionale, come quello spagnolo o belga. Per lui non è possibile in Medio Oriente. E pensa che la paura di uno Stato arabo possa portare a una temporanea dittatura di fanatici israeliani che opprimerebbe entrambi, gli arabi e gli stessi oppositori ebrei con una mano di ferro. La dittatura avrebbe una vita breve. È difficile infatti nella nostra epoca, secondo Amos Oz, che la dittatura di una minoranza, in tal caso israeliana, riesca a sopravvivere a lungo e non venga schiacciata dalla maggioranza. Da qui l’urgente 31 necessità di creare due Stati ben divisi, perché una convivenza oggi è impossibile. Lo sanno bene entrambi i popoli. Ma adagiarsi in «una gestione del conflitto» come accade da anni, vale a dire continuando a usare il bastone in Cisgiordania, i missili a Gaza, affrontando puntuali intifade, scontrandosi con Hamas e con gli hezbollah, e aspettando o subendo altrettanto puntuali ventate di terrorismo, ritarda soltanto l’inevitabile appuntamento della divisione. Quella di Amos Oz può essere presa come una visione romanzesca, se non si tiene conto della situazione mediorientale, e delle giustificate apprensioni che essa suscita in chi vi è immerso. Ce l’ha sotto gli occhi. Durante la campagna elettorale non si è parlato, è vero, di quel che Amos Oz chiama una questione di vita o di morte per Israele, e che la stragrande maggioranza dei paesi del pianeta, Stati Uniti in testa, chiede, cioè la nascita di uno Stato palestinese. Benyamin Netanyahu ha dimenticato da un pezzo il discorso pronunciato a Bar Ilan nel 2009 in cui accettò il concetto di due Stati e precisò di non avere l’intenzione «di costruire nuove colonie o di espropriare terre per quelle esistenti». I coloni nei territori occupati sono 350 mila, non sono mai stati tanti, e ce ne sono inoltre 300mila a Gerusalemme Est, che Israele ha conquistato nel 1967 e che ha annesso in seguito, con una decisione giudicata illegale da larga parte del mondo. Infatti quasi tutte le ambasciate, comprese l’americana e l’italiana, sono a Tel Aviv, nonostante la Knesset abbia dichiarato Gerusalemme capitale di Israele. Penso che a Gerusalemme gli israeliani abbiano diritto alla precedenza, sul piano religioso. Per gli ebrei è il centro dell’universo, è la prefigurazione della Gerusalemme celeste. Mentre per i cristiani quel che conta non è tanto il luogo quanto la figura di Cristo. E per i musulmani prima di Gerusalemme vengono la Mecca e Medina. Sul piano politico capita tuttavia, come sabato sera, durante un breve dibattito televisivo con il laburista Isaac Herzog, che Benyamin Netanyahu si comporti con spavalderia. Ha detto spazientito: «Se gli ebrei non hanno il diritto di costruire a Gerusalemme, dove possono farlo? ». In realtà costruiscono da tempo a valle e sulle alture, dove vogliono, nonostante gli inviti a non farlo dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma in quel contesto e con quel tono l’affermazione significava anche scartare l’idea dei due Stati, poiché Gerusalemme dovrebbe essere la capitale condivisa, sia pure in una sempre più vaga prospettiva. I palestinesi si stanno abituando alla vicina Ramallah, loro capitale provvisoria in espansione? Netanyahu si è rivolto agli elettori del Likud e a quelli degli altri partiti di destra, la cui base popolare è spesso di origine orientale (sefardita). Ma in generale anche agli israeliani per i quali è impensabile una rinuncia sia pure parziale alla città per millenni punto di riferimento per gli ebrei sparsi nel mondo, e da anni annessa definitivamente allo Stato ebraico. Ma nella battuta su Gerusalemme c’era una frecciata anche per il presidente americano. Attraverso John Kerry, il segretario di Stato, Barack Obama aveva ribadito poche ore prima, la necessità di uno Stato palestinese, di cui parte di Gerusalemme potrebbe appunto essere la capitale. La polemica con la Casa Bianca sul nucleare iraniano, portata da Netanyahu al Congresso di Washington, potrebbe essere almeno in parte disinnescata se gli Stati Uniti non arrivassero, entro fine mese come stabilito, a un accordo con Teheran. E non è scontato. L’estensione delle colonie in Cisgiordania, e il continuo aumento della loro popolazione, creano invece una netta e permanente divergenza con Obama sul problema palestinese. Problema destinato a ritornare in primo piano perché in aprile Abu Mazen, presidente dell’Autorità di Ramallah, il più mite e conciliante capo palestinese, dovrebbe presentare una denuncia contro Israele al Tribunale criminale internazionale per l’occupazione della Cisgiordania. Gli Stati Uniti l’hanno ritardata a lungo, minacciando anche di sospendere gli aiuti alla Palestina. 32 Non pochi intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, sostengono che la vittoria dell’Unione sionista, la coalizione di centrosinistra, non cambierebbe nulla. O molto poco. Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni non si sarebbero impegnati molto nel precisare il loro progetto sul problema palestinese. Si sono limitati a esprimere la vaga intenzione di rianimare il processo di pace. Per Herzog e Livni, in caso di vittoria primi ministri a turno, sarebbe comunque più agevole normalizzare i rapporti con il vasto mondo che, come Amos Oz, considera i due Stati affiancati una questione essenziale. del 16/03/15, pag. 10 Taliban in due chiese è strage di cristiani Il Papa: “Noi perseguitati” Almeno 15 morti e 70 feriti negli attentati a Lahore Il dolore di Francesco: “Colpiti per la loro fede” GIAMPAOLO CADALANU NULLA è così efficace come la responsabilità di un massacro per chi vuole rivendicare il primato del fanatismo, alzando mani insanguinate. Questo hanno fatto i Taliban pachistani, insidiati nel loro primato nell’integralismo dall’avanzata del sedicente Stato Islamico: hanno voluto dimostrare nel modo più atroce possibile che, quando si tratta di violenza, non si sentono secondi a nessuno. E hanno mandato attentatori suicidi a farsi esplodere fra i cristiani davanti a due chiese a Lahore, la città considerata “capitale culturale” del paese, per poi rivendicare con orgoglio la strage a nome del Tehriki- Taliban Pakistan (TTP). Secondo i resoconti diffusi dalle agenzie stampa, entrambi gli attentatori sono stati fermati da agenti della sicurezza, sia davanti alla chiesa cattolica di St. John che alla protestante Christ Church, ma si sono subito fatti saltare in aria facendo strage di fedeli. I morti sono almeno 15, i feriti una settantina. Le immagini della St. John sembrano indicare che il kamikaze si sia fatto saltare proprio davanti al cancello d’ingresso, tanto che persino la scritta che sovrasta l’entrata è danneggiata. La zona è quella di Youhanabad, che ospita almeno centomila cristiani. Se l’intenzione dei Taliban, oltre alla rivendicazione del primato integralista, era quella di rilanciare l’odio religioso, gli attentati sono riusciti nell’intento: oltre quattromila cristiani di Lahore sono scesi in piazza per protestare, a volte con sassi e bastoni. Alla fine due persone, presunti militanti islamici, sono state linciate e poi arse vive dalla folla. I cristiani — una minoranza che vale il due per cento dell’intera popolazione pachistana, 180 milioni di persone — hanno inscenato altre manifestazioni anche a Peshawar, Quetta e Multan, con bus rovesciati e pneumatici dati alle fiamme. Ha richiamato i fedeli alla pace, invece, papa Francesco: durante l’Angelus il pontefice ha espresso il dolore per i cristiani uccisi, sottolineando che «il mondo cerca di nascondere questa persecuzione». Secondo i rapporti dell’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”, sono 150 milioni i cristiani perseguitati nel mondo, e non solo nei paesi a maggioranza musulmana, ma anche indù o buddista. Nel Pakistan, però, la situazione appare particolarmente preoccupante. L’attacco contro le due chiese di Lahore è il più grave dal 2013, quando due bombe in una chiesa di Peshawar uccisero 82 persone. Nello scorso novembre in un villaggio del Punjab la folla ha pestato a sangue e poi bruciato vivi due giovani sposi cristiani, accusati di blasfemia. E resta ancora aperta la vicenda di Asia Bibi, cristiana e madre di cinque bambini, 33 condannata a morte nella stessa regione per un gesto blasfemo, che lei nega. Nel 2011 almeno due politici pachistani — Shahbaz Bhatti, ex ministro per le minoranze, e Salman Taseer, ex governatore del Punjab — sono stati uccisi per aver preso posizione a favore della donna. Ma la preoccupazione aumenta se i cristiani diventano obiettivo di una campagna destinata a “tenere la testa” del fondamentalismo, come sembrano dimostrare gli attentati di ieri. Il TTP, decapitato nel 2013 con l’uccisione del leader Hakimullah Mehsud con l’attacco di un drone Usa e in difficoltà per gli attacchi delle forze governative di Islamabad e per la defezione di importanti esponenti Taliban verso il gruppo di Abubakar Al Baghdadi, sembra voler riguadagnare con il sangue il terreno perduto. Del 16/03/2015, pag. 3 Africa, Medio Oriente, Nord Corea Quel massacro silenzioso di fedeli In due anni il numero di cristiani ammazzati è quadruplicato Francesca Paci C’era una volta «Aguirre furore di Dio», ossia quando il cristianesimo evocava lo spettro dei conquistadores armati di spada, croce e bandiera spagnola, la quintessenza del colonialismo. Oggi i cristiani bianchi sono una minoranza e gli altri hanno spesso a mala pena il potere di difendersi, ma tutti scontano l’antico peccato originale evocato dall’Aguirre del film di Herzog in un mondo mai stato così poco occidente-centrico e anche per questo pronto a prendersi la rivincita sui più deboli. «Gli ebrei del XXI secolo» L’ultimo rapporto di «Open Doors International» disegna la ramificata persecuzione di una comunità religiosa che lo scorso anno l’ambasciatore israeliano all’Onu Ron Prosor definì «gli ebrei del nuovo millennio». Prosor additava i Paesi musulmani, che di fatto occupano 8 dei primi 10 posti della lista nera. Ma, laddove secondo il think tank Pew i cristiani costituiscono il 70% delle vittime dell’odio religioso (in due anni il numero di morti è quadruplicato passando da 1201 nel 2012 a 4344 nel 2014), non c’è solo la Mezzaluna. In pole position per il 13° anno consecutivo c’è la Corea del Nord con i suoi almeno 50 mila cristiani rinchiusi in lager degni di Primo Levi. L’esodo dal Medioriente Per quanto incalzato da Pyongyang, il Medioriente, terra dei primi cristiani, vede il loro numero assottigliarsi da almeno mezzo secolo. Il Center for American Progress ne calcola tra 7 e 15 milioni (5% della regione) concentrati tra Egitto, Siria e Libano. Ma se i copti egiziani (10%) si sono rifugiati tra le braccia del presidente Sisi (ancor più dopo l’esecuzione di 21 di loro da parte degli jihadisti libici) gli altri fanno le valigie. Il milione e mezzo di cristiani iracheni del 2000 è ormai un terzo (il 40% degli ospiti dei campi profughi iracheni è battezzato) mentre in Siria i killer del Califfato braccano come animali gli epigoni d’una comunità che si sentiva tra le più tutelate dell’area (e rimpiange Assad). In realtà oggi se ne parla. Ma passate le breaking news i cristiani del Medioriente tendono a tornare «nell’angolo cieco della nostra visuale del mondo», come ebbe a dire l’intellettuale francese amico di Che Guevera Régis Debray, «troppo» cristiani per i terzomondisti e «troppo» esotici per l’Occidente. La sfida islamista 34 Le radici della neopersecuzione dei cristiani sono sempre, sotto sotto, più economiche o etniche che religiose. L’islam inoltre, Corano alla mano, ritaglia un posto privilegiato a cristiani e ebrei, le Genti del Libro. Eppure, anche allontanandosi dal Medioriente sono i Paesi musulmani quelli che rendono la vita più difficile ai fratelli maggiori. Come le Maldive, paradiso di turisti in cui la croce va tenuta nascostissima. Come l’Iran, l’Arabia Saudita, la Libia. Come la Nigeria terrorizzata da Boko Haram. Come il Pakistan, dove i cristiani sono appena il 2% e, incalzati anche giuridicamente dalle condanne per blasfemia (vedi Asia Bibi, in carcere da oltre 5 anni), si sentono braccati (a onor del vero il Pakistan ha attentati ogni giorno e non solo contro le chiese). In problema in molti di questi Paesi è il divieto del proselitismo, ma se i cattolici adottano un profilo invisibile anche i più agguerriti gruppi evangelici o neocatecumenali si guardano bene dallo sfidare le autorità come i profeti armati di Cortés. Le vittime più ignote Potrà sembrare un paradosso ma da qualche anno i cristiani martirizzati in nome di Allah godono almeno di un’attenzione mediatica negata ad altri (in alcuni casi sono target anche perché più appetibili per chi cerca visibilità). Oltre che nei lager nord-coreani in cui si sconta la devozione a un Dio diverso da Kim Il-sung o nei villaggi poverissimi dell’Orissa indiana, i cristiani vengono ammazzati in Messico e in Colombia, dove magari gli assassini ostentano pesanti croci d’oro al collo ma non tollerano il richiamo alla legalità dei sacerdoti vicini ai più poveri. La Cina comunista sta sperimentando una lievissima apertura verso il «culto del male» ma resta saldamente a metà della classifica dei Paesi peggiori in cui vivere per un cristiano. del 16/03/15, pag. 10 IL CASO. SPUNTA UNA BANDIERA AL COLOSSEO Siria, più di 215 mila vittime in quattro anni di guerra ROMA . In quattro anni, la guerra in Siria ha ucciso più di 215mila persone. È il bilancio presentato dall’osservatorio siriano per i diritti umani. «Abbiamo contato 215.518 morti, di cui 66.109 civili», ha affermato Rami Abdel Rahmane, direttore dell’ong. Fra le vittime civili, 10.808 sono bambini. E il numero di sfollati è vicino ai 4 milioni. Ieri l’ennesimo massacro alla periferia di Damasco. I caccia governativi, secondo i ribelli, avrebbero bombardato Douma, causando 18 morti e oltre 100 feriti, inclusi bambini e donne. Una tragedia senza fine che ieri ha convinto il segretario di Stato Usa John Kerry ad ammettere nel corso di un’intervista: «Dobbiamo negoziare con il presidente Assad per mettere fine alla guerra civile in Siria». E proprio nel quarto anniversario dall’inizio del conflitto, allarme sicurezza ieri al Colosseo: sul primo anello è comparsa una bandiera siriana lunga 8metri. E’ stata esposta sulla facciata esterna, verso l’ingresso della metro. Ad accorgersene, sebbene l’intera zona sia sotto controllo di polizia e carabinieri, sono stati alcuni vigili in servizio che passando hanno notato la bandiera appesa. Secondo una prima ricostruzione, sarebbero almeno tre gli autori del gesto, entrati pagando il regolare ticket di ingresso dopo aver nascosto la bandiera in uno zainetto. Una volta entrati avrebbero quindi raggiunto l’area esterna e, indisturbati, l’avrebbero stesa verso l’ingresso della metro. Gli uomini della Digos hanno subito ascoltato il personale di sicurezza in 35 servizio e sono stati già richiesti i nastri dei video di sorveglianza interni ed esterni. Una delle telecamere potrebbe infatti aver ripreso l’intera scena. ( flaminia savelli) del 16/03/15, pag. 12 Dall’Islam all’Apocalisse anatomia del Califfato Ecco cos’è, cosa vuole e come si può sconfiggere GRAEME WOOD COS’È lo Stato islamico? Da dove viene, e che intenzioni ha? La semplicità di queste domande può trarre in inganno, eppure pochi leader occidentali sembrano conoscere la risposta. Dopo aver conquistato Mosul, in Iraq, lo scorso giugno, oggi il gruppo controlla un territorio più esteso del Regno Unito. Il suo leader dal maggio del 2010 è Abu Bakr Al Baghdadi, di cui sino all’estate scorsa circolava una sola immagine: una foto segnaletica sfocata risalente all’occupazione dell’Iraq, quando Al Baghadi fu detenuto dagli Usa a Camp Bucca. Poi, il 5 luglio 2014, Al Baghdadi è salito sul pulpito della Grande Moschea Al Nuri di Mosul per pronunciare un sermone del Ramadan. In quel discorso, il primo del genere tenuto da un Califfo da molte generazioni, Al Baghdadi ha messo a fuoco i suoi propositi, non più sfocati ma ad alta definizione, e la propria posizione, che non era più quella di un combattente ricercato bensì di comandante di tutti i musulmani. Da allora l’arrivo dei jihadisti provenienti da ogni parte del modo procede con ritmi e numeri senza precedenti. Per certi versi la nostra ignoranza sull’Is è comprensibile: si tratta di un regno eremita; pochi sono andati e tornati; Al Baghdadi ha parlato a una telecamera solo una volta. Ma quel discorso, e tutti gli innumerevoli altri video propagandistici, sono reperibili online. Se ne può dedurre che l’Is rifiuta la pace per principio; che è assetato di genocidio; che le sue opinioni religiose lo rendono strutturalmente incapace di operare modifiche, anche se da esse dipendesse la sua stessa sopravvivenza; e che si considera foriero della fine del mondo. Lo Stato Islamico, noto anche con il nome di Stato Islamico dell’Iraq e Al Sham (Isis), s’ispira a una caratteristica varietà di Islam la cui strategia è determinata da particolari convinzioni riguardo alla strada che porta al Giorno del Giudizio. Convinzioni che possono aiutare l’Occidente a imparare a conoscere il proprio nemico e a prevederne il comportamento. Abbiamo frainteso la natura dello Stato Islamico in almeno due modi. Innanzitutto, tendiamo a considerare il jihadismo monolitico e ad applicare la logica di Al Qaeda a un’organizzazione che l’ha eclissata. I sostenitori dello Stato Islamico con cui ho parlato attribuiscono ancora ad Osama bin Laden il titolo onorifico di “sceicco”. Dai tempi d’oro di Al Qaeda (1998-2003 circa) il jihadismo però si è evoluto, e molti jihadisti disdegnano le priorità del gruppo e la sua attuale dirigenza. Bin Laden considerava il suo terrorismo il preludio a un Califfato che pensava non avrebbe mai visto durante la propria vita. La sua organizzazione era flessibile e operava come una rete geograficamente diffusa di celle 36 autonome. L’Is esige invece un territorio riconosciuto e una struttura che lo governi dall’alto. Siamo vittime anche di un altro equivoco, frutto di una campagna dalle buone intenzioni ma ingannevole che nega la natura medievale della religiosità dello Stato Islamico. Peter Bergen, che nel 1997 intervistò per primo Bin Laden, intitolò il suo primo libro Holy War Inc. in parte per sottolineare l’appartenenza di Bin Laden al mondo secolare moderno. Bin Laden ha dato al terrore una struttura aziendale e ne ha fatto un franchising. Richiedeva specifiche concessioni politiche: come il ritiro delle forze Usa dall’Arabia Saudita. I suoi uomini si muovevano nel mondo moderno con piglio sicuro. Il giorno prima di morire, Mohammed Atta fece acquisti da Walmart e cenò da Pizza Hut. Quasi tutte le decisioni dell’Is aderiscono a ciò che esso definisce, sui manifesti, sulle targhe e sulle monete, “la metodologia profetica”. La maggior parte delle iniziative del gruppo appaiono infatti prive di senso se non le si osserva alla luce di un impegno volto a riportare la civiltà al settimo secolo e, in definitiva, a scatenare l’Apocalisse. La realtà è che lo Stato Islamico è islamico. Molto islamico. La religione predicata dai suoi seguaci più ferventi deriva da interpretazioni coerenti e addirittura colte dell’Islam. Quasi tutte le sue leggi aderiscono alla “metodologia profetica”, il che significa attenersi meticolosamente alla profezia e all’esempio di Maometto. I musulmani possono rifiutare lo Stato Islamico, e quasi tutti lo fanno. Ma fingere che non si tratti di un gruppo religioso e millenario di cui, se lo si vuole combattere, occorre comprendere la teologia ha già indotto gli Stati Uniti a sottovalutarlo e ad appoggiare iniziative insensate per contrastarlo. Dobbiamo conoscere la genealogia intellettuale dell’Is se vogliamo agire in modo da non rafforzarlo, ma semmai aiutarlo ad autoimmolarsi nel suo eccessivo fervore. I. DEVOZIONE Lo scorso novembre lo Stato Islamico ha diffuso un video in stile telepromozione che faceva risalire le sue origini a Bin Laden. Riconosceva Abu Musab Al Zarqawi, spietato capo di Al-Qaeda in Iraq dal 2003 alla sua uccisione nel 2006, come suo più immediato progenitore, seguito nell’ordine da altri due leader guerriglieri che hanno preceduto Al Baghdadi. Dalla lista era assente Ayman Al Zawahiri, successore di Bin Laden: il chirurgo oftalmico egiziano che attualmente dirige Al-Qaeda. Al Zawahiri non ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi ed è sempre più odiato dai suoi compagni jihadisti. Nel dimenticatoio, insieme ad Al Zawahiri, è stato relegato anche un religioso giordano di 55 anni: Abu Muhammad Al Maqdisi, considerato a ragione l’architetto intellettuale di Al Qaeda nonché il più importante dei jihadisti sconosciuti ai comuni lettori. Nella maggior parte delle questioni dottrinali, Al Maqdisi e lo Stato Islamico sono d’accordo. Entrambi sono strettamente identificati con l’ala jihadista di un ramo del sunnismo chiamato salafismo dall’arabo “al salaf al salih”, i “pii antenati”. Questi antenati sono il Profeta in persona e i suoi primi seguaci, che i salafiti onorano ed emulano come modelli in ogni ambito: guerra, abbigliamento, vita familiare e persino igiene dentale. Al Maqdisi è stato maestro di Al Zarqawi, che ha combattuto in Iraq tenendo a mente i suoi consigli. Con il tempo però Al Zarqawi ha superato il suo mentore in fanatismo, sino a meritarsi il suo rimprovero. Punto del contendere tra i due era la propensione di Al Zarqawi per lo spargimento di sangue e, in fatto di dottrina, il suo odio verso gli altri musulmani, al punto di scomunicarli ed ucciderli. La punizione per l’apostasia è la morte e Al Zarqawi aveva ampliato sconsideratamente l’elenco di comportamenti che potevano fare di un musulmano un infedele. Seguendo la dottrina del takfiri, l’Is è votato alla purificazione del mondo tramite l’uccisione di un gran numero di individui. La mancanza di resoconti obiettivi dai suoi territori rende impossibile determinare la reale portata del massacro, ma i social media lasciano intendere che le esecuzioni individuali si succedano continuamente e le uccisioni di massa a distanza di poche settimane. Gli “apostati” musulmani sono le 37 vittime più frequenti. Risparmiati dall’esecuzione automatica sembra siano i cristiani che non si oppongono al nuovo governo: Al Baghdadi consente loro di restare in vita a patto di versare un’imposta speciale, detta jizya, e riconoscere la propria sottomissione. L’autorità coranica per questa pratica non è messa in discussione. Senza conoscere questi fattori, nessuna spiegazione dell’ascesa dello Stato Islamico può dirsi completa, ma focalizzarsi su di essi escludendo l’ideologia riflette un altro pregiudizio occidentale: che, se a Washington o a Berlino l’ideologia religiosa non ha un gran peso, lo stesso debba essere vero a Raqqa o a Mosul. Quando un carnefice dal volto coperto esclama “Allahu Akbar” nel decapitare un apostata, talvolta lo fa per motivi religiosi. Molte delle organizzazioni musulmane più convenzionali si sono spinte a dire che lo Stato Islamico sia, in realtà, non-islamico. È rassicurante sapere che la grande maggioranza dei musulmani non ha alcun interesse a sostituire le pubbliche condanne a morte ai film di Hollywood. Ma i musulmani che considerano lo Stato Islamico non-islamico sono, come mi ha spiegato Bernard Haykel, studioso di Princeton nonché maggiore esperto della teologia del gruppo, «a disagio e politicamente corretti, con una visione edulcorata della propria religione » che trascura «ciò che la loro religione storicamente e legalmente prevede». Molte smentite della natura religiosa dell’Is affondano e proprie radici in una «tradizioneinterconfessionale- cristiana-priva di fondamento», ha detto. Stando ad Haykel, gli appartenenti allo Stato Islamico sono profondamente intrisi di fervore religioso. Le citazioni coraniche sono onnipresenti, e «persino i combattenti snocciolano di continuo questa roba». «Si mettono in posa di fronte all’obiettivo e ripetono i loro precetti base con tono monotono, e lo fanno inin- terrottamente». Haykel considera l’idea che lo Stato Islamico abbia distorto i testi dell’Islam insensata e sostenibile solo grazie a una deliberata ignoranza. «Le persone vogliono assolvere l’Islam», dice. «È come un mantra: “l’Islam è una religione di pace”. Come se si potesse parlare di “Islam”! L’Islam è ciò che i musulmani fanno e il modo in cui interpretano i loro testi». Testi comuni a tutti i musulmani sunniti, non solo all’Is. «Questi tipi hanno la stessa legittimazione degli altri». Tutti i musulmani ammettono che le prime conquiste di Maometto non furono una faccenda pulita e che le leggi di guerra tramandate dal Corano e nei racconti del Profeta erano pensate per un’epoca violenta. Secondo Haykel, i combattenti dell’Is si rifanno del tutto al primo Islam e ne riproducono fedelmente le norme belliche. Tale comportamento include diverse pratiche che i musulmani moderni preferiscono non riconoscere come parte integrante dei loro testi sacri. «Schiavitù, crocifissioni e decapitazioni non sono pratiche che degli squilibrati [i jihadisti] scelgono selettivamente dalla tradizione medievale», dichiara Haykel. I combattenti dell’Is «si pongono al centro della tradizione medievale, e la smerciano all’ingrosso». La nostra incapacità di apprezzare le essenziali differenze tra Is e Al Qaeda ha portato a compiere decisioni pericolose. II. TERRITORIO Decine di migliaia di musulmani stranieri sono immigrati nello Stato Islamico. Le nuove reclute provengono da Francia, Regno Unito, Belgio, Germania, Olanda, Australia, Indonesia, Stati Uniti e molti luoghi ancora. Molti vengono a combattere e molti intendono morire. Lo scorso novembre ho incontrato in Australia Musa Cerantonio, un trentenne che Neumann e altri ricercatori identificano come una delle due “nuove autorità spirituali” che inducono gli stranieri a unirsi all’Is. È stato per tre anni il televangelista della tv cairota Iqraan . L’ha dovuta lasciare perché invitava a fondare un Califfato. Adesso predica attraverso Facebook e Twitter. Cerantonio mi ha raccontato la gioia che ha provata quando il 29 giugno Al Baghdadi è stato dichiarato Califfo e l’improvvisa e magnetica attrazione che la Mesopotamia ha 38 iniziato a esercitare su di lui e i suoi amici. «Mi trovavo in un hotel [nelle Filippine] e, mentre guardavo la tv, mi sono domandato: Che ci faccio in questa fottuta camera?». L’ultimo Califfato è stato l’impero ottomano, che raggiunse il proprio apice nel XVI secolo per poi avviarsi a un lungo declino, sino a quando il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, lo sconfisse nel 1924. Tuttavia Cerantonio, così come molti sostenitori dell’Is, non considera il Califfato legittimo perché non applica appieno la legge islamica, che prevede lapidazioni, schiavitù e amputazioni, e perché i suoi califfi non discendono dalla Quraysh, la tribù del Profeta. Il Califfato, mi ha detto Cerantonio, non è solo un’entità politica ma anche un veicolo di salvezza. La propaganda dello Stato islamico diffonde a scadenze regolari i giuramenti di baya’a , fedeltà, che giungono da gruppi jihadisti di tutto il mondo musulmano. Cerantonio ha citato un detto profetico secondo il quale morire senza giurare fedeltà equivale a morire jahil , nell’ignoranza, e quindi a “morire nel dubbio”. Considerate quale sorte i musulmani (o i cristiani) immaginano che Dio riservi alle anime di coloro che muoiono senza aver riconosciuto l’unica vera religione: non vengono né salvate né condannate definitivamente. Analogamente, ha aggiunto Cerantonio, il musulmano che riconosce un Dio onnipotente e prega, ma che muore senza giurare fedeltà a un legittimo Califfo e senza sostenere gli obblighi che derivano da quel giuramento, non ha vissuto una vita pienamente islamica. III. L’APOCALISSE Tutti i musulmani riconoscono che Dio è l’unico a conoscere il futuro. Ma sono anche concordi nel ritenere che ci ha concesso di scorgerne un lembo nel Corano e nei racconti del Profeta. Lo Stato Islamico si discosta da quasi ogni altro movimento jihadista in quanto crede che le scritture di Dio gli affidino un ruolo centrale. Questo ruolo rappresenta la più netta distinzione tra l’Is e i movimenti che lo hanno preceduto, nonché la più esplicita definizione della natura religiosa della sua missione. Al Qaeda si comporta grosso modo come un movimento politico clandestino i cui obiettivi concreti rimangono sempre chiari: l’espulsione dei non-musulmani dalla Penisola araba, l’abolizione dello Stato di Israele, la fine del sostegno alle dittature nei territori musulmani. Anche lo Stato Islamico ha alcuni interessi concreti, ma la Fine dei Giorni è un leitmotif della sua propaganda. Bin Laden raramente ha parlato di Apocalisse. Durante gli ultimi anni dell’occupazione Usa dell’Iraq, gli immediati padri fondatori dello Stato Islamico scorsero ovunque segni della fine del mondo. Lo Stato Islamico attribuisce una grande importanza alla città siriana di Dabiq, nei pressi di Aleppo. A essa ha intitolato la sua rivista di propaganda e ha celebrato follemente la conquista assai faticosa delle sue pianure, prive di importanza strategica. Il Profeta avrebbe detto che è proprio qui che si accamperanno gli eserciti di Roma. Gli eserciti dell’Islam verranno loro incontro e Dabiq per Roma sarà una Waterloo. I propagandisti dello Stato Islamico fremono di impazienza all’idea di un simile evento e implicano costantemente che si avvererà presto. Nella narrazione profetica che preannuncia la battaglia di Dabiq, il nemico viene identificato in Roma. A cosa possa corrispondere “Roma” adesso che il Papa non ha più un esercito rimane oggetto di dibattito. Cerantonio suggerisce che Roma rappresentasse l’Impero romano di Oriente, la cui capitale era l’attuale Istanbul. Dovremmo dunque considerare Roma la Turchia, la stessa che novant’anni fa pose fine all’ultimo autoproclamato Califfato. Altre fonti dello Stato Islamico suggeriscono che qualsiasi esercito di infedeli, americani in primis , potrebbe rappresentare Roma. IV. LA LOTTA La purezza ideologica dello Stato Islamico contiene una virtù che la controbilancia: quella che ci permette di prevedere alcune iniziative del gruppo. Raramente Osama bin Laden era prevedibile. Lo Stato Islamico invece ostenta apertamente le proprie mire: non tutte, 39 ma abbastanza perché, ascoltando attentamente, si possa capire come intende governare ed espandersi. Puniti per la nostra iniziale indifferenza, oggi affrontiamo indirettamente l’Is attraverso i curdi e gli iracheni sul campo di battaglia e con regolari attacchi aerei. Queste strategie non hanno cacciato l’Is da nessuno dei suoi principali territori, sebbene gli abbiano impedito di attaccare direttamente Baghdad ed Erbil e di massacrare gli sciiti e i curdi che vi abitano. Alcuni osservatori, tra cui alcuni prevedibili esponenti della destra interventista, hanno chiesto a gran voce un inasprimento dell’offensiva e reclamato il dispiegamento di decine di migliaia di soldati americani. Simili esortazioni non dovrebbero essere sminuite troppo frettolosamente: un’organizzazione dichiaratamente genocida si trova alle porte delle sue potenziali vittime e commette ogni giorno atrocità nei territori che già controlla. Un modo per annullare il sortilegio che lo Stato Islamico esercita sui propri sostenitori sarebbe quello di sopraffarlo militarmente e occupare le zone della Siria e dell’Iraq attualmente in mano al Califfato. Al Qaeda non può essere sradicata perché è in grado di vivere sottoterra, come uno scarafaggio. Lo Stato Islamico no. Se perde la propria presa sul suo territorio in Siria e in Iraq cesserà di essere un Califfato. I Califfati non possono esistere sotto forma di movimenti clandestini, perché richiedono un’autorità territoriale. L’Is potrebbe non riprendersi più se tutte le sue forze raccolte a Dabiq venissero sconfitte. Debitamente contenuto, lo Stato Islamico è probabilmente destinato a causare la propria fine. Nessun Paese gli è alleato e la sua ideologia garantisce che ciò non cambi. Le terre che controlla, benché vaste, sono perlopiù disabitate e povere. Mentre langue o si rimpicciolisce lentamente, la sua convinzione di essere motore della volontà di Dio e agente dell’Apocalisse perderanno vigore e i fedeli che si uniscono alle sua fila saranno sempre meno. Con il diffondersi di nuove testimonianze di infelicità dal suo interno, anche gli altri movimenti islamisti radicali saranno screditati: nessuno ha cercato con maggiore determinazione di implementare con la violenza la stretta osservanza della Sharia. Ed ecco i risultati. Anche se le cose andassero in questo modo è improbabile che la morte dello Stato Islamico avvenga rapidamente e non è detto che le cose non possano prendere comunque una piega disastrosa. Se Al Qaeda giurasse fedeltà allo Stato Islamico, incrementando ad un tratto l’unità della sua base, potrebbe trasformarsi nel nostro peggior nemico. In mancanza di una simile catastrofe, o forse della minaccia che Stato Islamico attacchi Erbil, una vasta invasione di terra peggiorerebbe di certo la situazione. V. DISSUASIONE Definire il problema dello Stato Islamico “un problema con l’Islam” sarebbe facile, addirittura scagionatorio. La religione consente molte interpretazioni e i sostenitori dell’Is sono moralmente responsabili per quella da loro scelta. Tuttavia, limitarsi a denunciare lo Stato Islamico come non-islamico può essere controproducente, soprattutto se coloro a cui giunge tale messaggio hanno letto i testi sacri e visto come questi giustificano chiaramente molte delle pratiche del Califfato. I musulmani possono dire che la schiavitù oggi non è legale e che nel nostro contesto storico la crocifissione è sbagliata. Molti di loro affermano precisamente questo. Tuttavia non possono condannare esplicitamente la schiavitù o la crocifissione senza entrare in contraddizione con il Corano e l’esempio del Profeta. «L’unica posizione fondata che gli oppositori dello Stato Islamico potrebbero adottare — afferma Bernard Haykel — è quella di dire che alcuni testi fondamentali e alcuni insegnamenti tradizionali dell’Islam non sono più attuali». E quello sarebbe davvero un atto di apostasia. I funzionari occidentali farebbero probabilmente meglio a trattenersi del tutto dal commentare su aspetti relativi al dibattito teologico islamico. Lo stesso Barack Obama ha 40 lambito il tema del takfiri quando ha affermato che lo Stato Islamico è «non-islamico». Sospetto che la maggior parte dei musulmani concordino con Obama: il presidente ha preso le loro parti sia contro Al Baghdadi che contro i nonmusulmani sciovinisti che tentano di addossare loro gesti criminosi. I musulmani però, nella maggior parte, non sono inclini a unirsi alla jihad. E coloro che invece lo sono, vedranno semplicemente confermati i loro sospetti: ovvero, che gli Stati Uniti mentono sulla religione per propri scopi. Nel ristretto ambito della propria ideologia, lo Stato Islamico ferve di energia e persino di creatività. Ma al di fuori da esso difficilmente potrebbe essere più arido e silenzioso: una visione della vita come obbedienza, ordine, e destino. Musa Cerantonio potrebbe mentalmente passare dal contemplare le uccisioni di massa e la tortura eterna a discutere le virtù del caffè vietnamita o dei dolci al miele. Potrei godere della sua compagnia come di un vizioso esercizio intellettuale, ma solo sino a un certo punto. Quando recensì Mein Kampf nel marzo del 1940, George Orwell confessò di «non essere mai riuscito a detestare Hitler»; qualcosa in quell’uomo emanava un’aria da perdente, anche quando le sue mire erano vili o aberranti. «Se stesse uccidendo un topolino, saprebbe come farlo sembrare un drago». I partigiani dello Stato Islamico condividono in parte quello stesso atteggiamento: credono di essere coinvolti in una lotta che va oltre la propria vita e che essere risucchiati dalla tragedia stando dalla parte della virtù sia un privilegio e un piacere, soprattutto quando è al tempo stesso un peso. ( © 2-015 the Atlantic Media co. Distribuito da Tribune Content Agency. Traduzione di Marzia Porta) Del 16/03/2015, pag. 4 Il sogno di Herzog è realizzare la “speranza” di Ben Gurion Il laburista ora favorito per la vittoria: includerò gli arabi Erede di una famiglia protagonista della formazione d’Israele, educato nella scuola ebraica più esigente di New York, ufficiale nell’unità più segreta di Tzhaal e leader politico quasi per caso, sottovalutato da avversari che riesce a sorprendere: Isaac Herzog può riportare i laburisti a guidare il governo dopo 15 anni perché incarna un’idea di sionismo basato sulla democrazia auspicata da David Ben Gurion, capace di includere tutti, arabi compresi. Come i Kennedy Se gli Herzog vengono considerati i «Kennedy d’Israele» è per un albero genealogico che assomiglia a quello dello Stato: il nonno Isaac Halevi fu rabbino capo ashkenazita nella Palestina mandataria e quindi d’Israele, il padre Chaim fu capo dello Stato per dieci anni, governatore di Gerusalemme dopo la riunificazione, ambasciatore all’Onu e capo dell’intelligence militare, per zio ha avuto il ministro degli Esteri Abba Eban, fra i fratelli ha l’ex generale Michael consigliere sul negoziato con i palestinesi di quattro premier e la madre Aura, francofona d’origine egiziana, ha fondato il Concorso biblico nazionale e il Consiglio di «Beautiful Israel» per promuovere il legame delle nuove generazioni tanto con il Vecchio Testamento che con la natura. Aggiungendo il lontano cugino Sidney Hillman, consigliere di Franklin D. Roosevelt, e la moglie Bessie, che affiancò Eleanore Roosevelt, si arriva a comprendere perché gli analisti adoperano l’espressione «sangue blu» per descrivere il mondo da cui proviene Isaac, nato nel 1960. Non a caso quando Shimon Peres ha chiesto agli elettori di votarlo, ha esordito così: «Conosco la sua famiglia da anni». 41 Alle radici laburiste, Herzog somma esperienze che ne descrivono il carattere. Quando il padre è ambasciatore all’Onu, a New York, studia nella scuola «Ramaz» dell’Upper East Side, una roccaforte «modern orthodox» fra le più esigenti e difficili di Manhattan. Nei corpi di élite Al momento di vestire la divisa enra nell’«Unità 8200» - l’intelligence elettronica - di cui allora nessuno conosceva l’esistenza e ne diventa ufficiale. Studia l’arabo e secondo alcuni «lo padroneggia». Avvocato nello studio di Tel Aviv che fu del padre, entra in politica con i laburisti nel 1999, quando il premier Ehud Barak, ultimo premier laburista, lo vuole come consigliere. Diventerà deputato e poi ministro ma sempre accompagnato da scarsa considerazione, degli alleati come degli avversari, per un’espressione mite ed una voce che lo fanno sembrare una «bambolina» ovvero proprio ciò che suggerisce il soprannome «Bougie», inventato dalla mamma quando era piccolo sommando il termine francese per bambola - «poupee» - con quello ebraico «buba». Ma lui è tutt’altro che docile. Nel 2013 sfida nella corsa alla leadership del partito Shelly Yachimovich, eroina delle proteste contro il carovita. Nessuno crede che possa farcela ma lui alle primarie prevale 58 a 41 per cento, diventa il volto del Labour e comincia a rigenerarlo. Dice di «voler andare al governo» ma nessuno gli crede. C’è chi chiede a Yachimovich di tornare ma «Bougie» tiene duro perché ha in mente un «sogno». «I miei modelli sono Obama e de Blasio - afferma - voglio realizzare i sogni di Israele» ovvero, «più solidarietà e speranza». La «solidarietà» è per chi soffre puntando a ridurre le differenze sociali ricchi-poveri ereditate da Netayahu. La «speranza» ha invece a che vedere con i palestinesi di Abu Mazen, a cui manda a dire «a Ramallah c’è un interlocutore nella pace», suggerendo «creatività per superare lo stallo». Ma ciò a cui più tiene è la «coesione interna» - da cui il termine «Campo sionista» per il patto elettorale con Tzipi Livni - per tornare alle origini di un sionismo inteso come «società democratica» ovvero «inclusiva di tutti». Anche degli arabi. Da qui l’ipotesi, ventilata da Herzog, di nominare un «ministro arabo nel mio governo». Per far capire che il progetto di Ben Gurion può riprendere la sua strada. 42 INTERNI del 16/03/15, pag. 3 Democrazia nei partiti e burocrazie sindacali Renzi prepara l’affondo Allo studio ddl sull’articolo 49 della Costituzione Taddei: “Presto un incontro con le parti sociali” FRANCESCO BEI ROMA . Dicono sia stato un fallo di reazione. Dopo aver ascoltato Bersani due giorni fa a Bologna scagliarsi contro «le soluzioni leaderistiche » e le «organizzazioni liquide», Matteo Renzi è sbottato: «Bene, è ora di aprire il capitolo di come devono funzionare i partiti. Con le maggioranze e le minoranze». Da qui parte l’idea di una legge per attuare il neglettissimo articolo 49 della Costituzione, quello che vorrebbe i partiti «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Il problema è proprio quel «metodo democratico». La monocrazia di Berlusconi vi corrisponde? E le espulsioni dei dissidenti cinque stelle sarebbero compatibili con uno Statuto pubblicato in Gazzetta ufficiale? La materia è incandescente e il premier, peraltro, non ha ancora pronto un disegno di legge. Vorrebbe che prima se ne discutesse nel Pd. Ma certo lancia oggi la sua «sfida culturale a chi lamenta la mancanza di democrazia nei partiti». Il fatto è che di questi temi si discute praticamente da sempre, dai tempi della Costituente e di Costantino Mortati. «Poi non se ne fece nulla - ricorda Pino Pisicchio, firmatario di una delle numerose proposte di legge sul tema - perché il Pci aveva paura che uno Scelba mettesse il becco negli affari interni di Botteghe Oscure. In seguito continuarono tutti a far finta di niente perché faceva comodo ai partiti continuare a fare quello che a loro pareva». La «sfida culturale» di Renzi è rivolta anzitutto al Pd, l’unico in fondo ad avere uno Statuto che già prevede una complessa e articolata vita interna. Del problema se ne sta occupando il vicesegretario Lorenzo Guerini, che in settimana dovrebbe ultimare la stesura di una bozza da presentare in direzione. Ma basta fare un salto all’archivio della Camera per constatare che molto è già stato fatto: lo stesso Pierluigi Bersani, nella scorsa legislatura, aveva depositato una pdl «per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione in materia di democrazia interna dei partiti». E Ugo Sposetti, poche settimane fa, fece approvare quasi all’unanimità in Senato un emendamento all’Italicum che impone ai partiti di dotarsi di uno Statuto se vogliono presentarsi alle elezioni. I tempi insomma sono maturi. Lo stesso Sposetti anticipa l’intenzione di «ripresentare presto in parlamento un articolato preciso per dare personalità giuridica ai partiti». L’altra grande «sfida culturale» per Renzi è la legge sulla rappresentanza sindacale. Un argomento in apparenza tecnico, ma che sottende una gigantesca questione politica: cosa devono fare i sindacati, a nome di chi firmano contratti validi erga omnes? In giorni di acceso scontro con Maurizio Landini, va da sé che il primo pensiero è quello di una ritorsione contro il leader Fiom. «Landini entra in politica perché il sindacato lo ha abbandonato », disse il premier alcune settimane fa. In realtà, paradossalmente, la riforma della rappresentanza sindacale potrebbe essere l’unico punto di congiunzione tra Landini e il capo del governo. Che non a caso ne discussero nel loro ultimo incontro a palazzo Chigi, trovandosi d'accordo sull'idea di una legge per «smontare le burocrazie sindacali e ridare potere di scelta ai lavoratori». Un po’ quello che il segretario vorrebbe fare nel suo partito. La novità l’annuncia Filippo Taddei, il consigliere economico del premier: «Entro 43 poche settimane organizzeremo un incontro a palazzo Chigi perché su una discussione così importante non possiamo tagliare fuori le parti sociali». In attesa di questa “sala verde 2”, i maligni sospettano che aprire a Landini una strada per farsi largo al vertice della Cgil sia anche un modo per tenerlo lontano dalla politica. E aiutarlo a far fuori un’avversaria che lui e Renzi hanno in comune: Susanna Camusso. del 16/03/15, pag. 16 Primarie Pd a Casson così Venezia ha votato per dimenticare il Mose Il senatore oltre il 55%, battuti i renziani Pellicani e Molina. 13 mila alle urne dopo gli scandali. Alle elezioni di maggio probabile sfida con una leghista MATTEO PUCCIARELLI DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA . Se non è un trionfo poco ci manca, i seggi sono chiusi da poco più di un’ora e Felice Casson stappa già lo spumante alla «Casa Fortuna », a Mestre. Dieci anni dopo la sconfitta alle elezioni contro Massimo Cacciari, l’ex pm si prende un pezzo di rivincita alle primarie: un civatiano che spazza via due renziani, e così sarà lui il candidato sindaco di Venezia il prossimo 31 maggio. Con il 55,6 per cento dei voti ha battuto il giornalista della Nuova Venezia Nicola Pellicani, appoggiato dal Pd renziano (24,4 per cento); e l’ex consigliere comunale e avvocato Jacopo Molina (20%), renziano pure lui ma senza il grosso del partito alle spalle. Per il senatore, 61 anni, era sì una vittoria attesa, con i sondaggi degli ultimi giorni (tutti ufficiosi) che lo davano in vantaggio, ma non con uno stacco così netto. L’impostazione legalitaria della sua campagna elettorale, in contrapposizione al cosiddetto «apparato», lo hanno premiato in una città ancora scossa dall’arresto, nel giugno scorso, del sindaco pd Giorgio Orsoni, rimasto invischiato nello scandalo legato al Mose. «Quella vicenda ha pesato molto sul voto — spiega un deluso Pellicani — un voto che comunque ha dato una indicazione netta. Peccato perché ho avuto poco tempo per far conoscere la mia proposta, adesso però guardiamo avanti, le nostre idee restano valide». E’ un voto che potrebbe dare un segnale anche a livello nazionale, visto che Casson (area Civati) ha avuto spesso una posizione di dissenso verso il governo di Matteo Renzi. E visto che a livello locale la sua candidatura ha trovato l’adesione di Sel, Rifondazione e ambientalisti, in antitesi rispetto alle dinamiche romane. Scontri interni a parte, il centrosinistra può comunque dirsi soddisfatto: nonostante gli scandali dei mesi passati, la partecipazione è stata buona. Nei 36 seggi dislocati tra Venezia, Mestre e Marghera sono andati a votare circa 13mila cittadini, addirittura qualche decina in più rispetto al precedente del 2010, quello in cui prevalse proprio Orsoni. Le votazioni erano aperte anche agli stranieri (trecento elettori in tutto) e agli under 18: ma solo diciotto minorenni si sono recati alle urne, numero abbastanza deludente. Nessun problema ai seggi, al massimo un po’ di fila nel centro storico della laguna. Unica nota movimentata di una giornata sonnacchiosa e di attesa, le Sentinelle in piedi in piazza a Mestre; una cinquantina di persone scortate dai carabinieri, con i militanti dei centri sociali a fronteggiarli. 44 Adesso lo sguardo è proiettato alle elezioni vere e proprie, e Casson potrebbe vedersela con Francesca Zaccariotto, ex leghista ed ex presidente della Provincia. Ma con il centrodestra diviso in più rivoli e il M5S in via di implosione, in una città storicamente «rossa», il risultato potrebbe sembrare a portata di mano. Lo stesso Casson ostenta sicurezza. Anche se nessuno può sapere se davvero per il centrosinistra i postumi dell’affare Mose siano finiti qui. del 16/03/15, pag. 4 “Cambiamo o siamo finiti” Landini sferza il sindacato Gelo Cgil: si muove da solo Il capo Fiom sfida Renzi: falso il suo consenso, cambieremo più noi il Paese Apertura sulla legge della rappresentanza. “Ma vediamo cosa vogliono fare” PAOLO GRISERI ROMA . Il dado è tratto: «La Fiom e i lavoratori cambieranno il paese più di Renzi». Maurizio Landini lancia il guanto di sfida al governo di centrosinistra «che ha scelto di cancellare lo Statuto dei lavoratori e di schierarsi dalla parte delle imprese». Per questo la coalizione sociale lanciata dal segretario della Fiom «non è un’operazione partitica » ma «una proposta di riforma radicale del sindacato che rischia di scomparire sotto i colpi delle leggi del governo Renzi». Landini nega di voler fare un partito: «Chi lo dice lo fa per denigrarci». Non sarebbe la prima volta: l’accusa alla Fiom di voler fare politica è stata un refrain della Fiat negli ultimi anni. Ma anche se la “coalizione sociale” non è l’embrione di un partito, il nuovo modello sindacale proposto da Landini crea sussulti e irritazione. La più clamorosa è quella dei vertici della Cgil che, con una nota hanno smentito le affermazioni del leader della Fiom a «In mezz’ora »: «Né il segretario Susanna Camusso, nè la segreteria della Cgil erano stati informati dell’iniziativa organizzata dalla Fiom per l’avvio di una ‘coalizione sociale’, né tantomeno hanno espresso appoggio». La Camusso non interviene direttamente. Dopo i mesi del dialogo diretto tra Landini e Renzi, rapporto che tendeva a saltare i vertici di Corso d’Italia, il silenzio del segretario generale della confederazione è un messaggio indiretto a entrambi. Che l’operazione lanciata da Landini possa cambiare la natura del sindacato è dimostrato dalla curiosità con cui dai partiti si guardava ieri all’iniziativa della Fiom di chiedere incontri a tutti i gruppi parlamentari in vista della manifestazione del 28 marzo per i diritti del lavoro. Landini fa le consultazioni? «Ma quali consultazioni? La Fiom ha incontrato tutti prima delle manifestazioni importanti ». Eppure, il governo lascia filtrare una mossa che finirebbe per andare incontro alle proposte della Fiom, quella di regolamentare per legge la rappresentanza sindacale. Cavallo di battaglia di Landini perché certificare quanti iscritti ha davvero un sindacato significa dare il diritto di trattare con le controparti a chi è rappresentativo e non a chi firma accordi più o meno graditi alle aziende. «Ma bisogna vedere quale legge sulla rappresentanza vuole varare il governo», risponde guardingo il leader della Fiom. Un accordo tra Cgil, Cisl e Uil con Confindustria era stato firmato a gennaio 2014. E ieri la Cgil ha ripetuto che quell’intesa «potrebbe essere la base per la nuova legge». A suo tempo la Fiom aveva 45 criticato quell’accordo. Contraria a regolamentare la rappresentanza per legge è la Uil, come ripete il segretario Barbagallo. Al di là degli aspetti tecnici, una legge sulla rappresentanza finirebbe per favorire quel sindacato di movimento, basato sulla democrazia diretta, che la Fiom propone da tempo. E che avrebbe conseguenze anche nella maggiore delle tre organizzazioni sindacali: «Immagino una Cgil in cui il segretario generale sia eletto direttamente dai delegati degli uffici e delle fabbriche — dice Landini — penso a un sindacato che confronti le sue piattaforme con la coalizione sociale che proponiamo di formare. Perché la piattaforma degli edili non deve essere discussa insieme alle organizzazioni ambientaliste o a chi vigila sulla legalità negli appalti? ». Perché il sindacato deve modificare a tal punto la sua natura? «Perché quella natura è già cambiata. Abolire il ruolo dei contratti nazionali, come si sta facendo consentendo alle aziende ogni sorta di deroga, significa far prevalere il modello di un sindacato d’azienda, frantumato in tante realtà diverse. La coalizione sociale dovrebbe sopperire a quella frammentazione, rimettere insieme associazioni, lavoratori e disoccupati », risponde Landini. Che annuncia per aprile «due giorni di discussione con le associazioni della coalizione». Una Leopolda della Fiom? «Non diciamo stupidaggini ». Per ora l’unico appuntamento è quello del 21 marzo con le minoranze del Pd, a cui andranno anche esponenti di Sel. Ma in quell’occasione per il sindacato ci sarà la Cgil, non la Fiom. del 16/03/15, pag. 1/27 Una nuova sinistra extra-parlamentare ILVO DIAMANTI MAURIZIO Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque. NON una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, pre-destinata a governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito — e concluso — dal tragico (e non casuale) rapimento di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti — temporanei — destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extraparlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultra-proporzionale) permettesse loro una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si propone di fare oggi — meglio, domani — Maurizio Landini. Intercettando — e alimentando — il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia, Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4 italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%. 46 Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina al 30%). Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è, dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro, anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il ritorno alle urne non sembra vicino. Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più, tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medio-alta (fra 45 e 65 anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunic-azione”. In particolare, la televisione. Dove il segretario generale della Fiom-Cgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti. Così Landini — come, soprattutto, Salvini — alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la “questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento anti-politico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare. Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al 50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%). La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”, che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito — almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che “neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto. Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che piace al premier. 47 Del 16/03/2015, pag. 8 Salvini ora insegue Forza Italia “L’alleanza è un mio auspicio” Andrà da Berlusconi per chiedere l’appoggio a Zaia. FI insiste: insieme ovunque o niente Marco Bresolin È passato meno di un mese da quando Matteo Salvini diceva che «in Veneto prendiamo più voti se corriamo da soli». Un mese in cui si è consumata la traumatica uscita di Flavio Tosi, con tutto ciò che ne consegue e ne conseguirà. E così il segretario leghista è passato dalla spavalderia di chi ha già la vittoria in tasca («Forza Italia? Non mi interessano alchimie o capriole» diceva dieci giorni fa) a dichiarazioni più caute. «L’alleanza con Forza Italia è un mio auspicio - ha detto ieri durante il suo tour in Veneto a sostegno di Luca Zaia - perché insieme abbiamo ben governato e mi piacerebbe tornare a governare». Un’alleanza che il leader del Carroccio si è addirittura spinto a definire «naturale». Ritorno da Silvio Evidentemente le notizie lasciate trapelare da Arcore nei giorni scorsi hanno messo un po’ di agitazione in casa Lega. Berlusconi non ha dato per scontato l’appoggio a Zaia e ha fatto capire di non aver gradito le recenti uscite sul suo conto del segretario leghista. Tre giorni fa «avere Berlusconi leader del centrodestra sarebbe come tornare indietro». Ieri, a precisa domanda in un’intervista sul sito «Affaritaliani», ha glissato: «Non parlo più di persone, ma solo di progetti». Questo perché tra domani e mercoledì i due si rivedranno. L’intesa sulle Regionali va chiusa «al più presto»: Salvini chiederà pieno appoggio al candidato Edoardo Rixi in Liguria, ma soprattutto a Zaia in Veneto. Berlusconi gli ricorderà che questo potrebbe costare a Forza Italia l’alleanza con Ncd in Campania (che è corteggiato dal Pd). E dunque chiederà come minimo di togliere di mezzo la candidatura di Claudio Borghi, responsabile economia della Lega, che però ha già iniziato la campagna elettorale in Toscana. Poi c’è il discorso al Sud: il leghista ha confermato che presenterà il suo movimento Noi Con Salvini in Puglia e Campania. Berlusconi gli darà il via libera solo se questo non ostacolerà i suoi candidati. Per ora la linea è ufficiale di Forza Italia è quella di Altero Matteoli, presidente del comitato per le elezioni regionali: «Appoggeremo Zaia solo se si raggiungerà un accordo a livello nazionale». Il coordinatore veneto di FI, Marco Marin, è decisamente più possibilista: «Siamo per continuare l’esperienza del buon governo in Veneto». Ma in regione ci sono i fittiani che frenano: la senatrice Cinzia Bonfrisco vuole evitare «un cedimento totale alla Lega» perché «determinerebbe una prevedibile fuga di esponenti di Forza Italia verso la Lista Tosi o la Lista Zaia». Opinioni, perché alla fine la quadra la troveranno solo Salvini e Berlusconi. La dieta televisiva Intanto ieri si è conclusa la prima settimana senza Matteo Salvini in tv. Un record. Zero presenze nei salotti dei talk politici, neanche un collegamento esterno. Una decisione dicono dal suo staff - presa da tempo per «tirare un po’ il fiato». Ma certo non sfuggirà che questa è stata la settimana della cacciata di Tosi. Il segretario ha preferito evitare dibattiti in tv per lanciare messaggi quotidiani via Radio Padania: una strategia per ricompattare la base. Il digiuno, comunque, è già finito: stamattina sarà in collegamento dalla Sicilia a «L’Aria che tira», domani si replica con Agorà e in serata a «Otto e Mezzo». La routine è ricominciata. 48 LEGALITA’DEMOCRATICA del 16/03/15, pag. 22 Si uccide il giudice che si vantava col boss “Dovevo fare il mafioso” Giusti, ex gip di Palmi, viveva da solo e con l’obbligo di dimora Arrestato due volte, aveva avuto una prima condanna a quattro anni GIUSEPPE BALDESSARRO MONTEPAONE (CATANZARO) . Si è tolto la vita impiccandosi. Lo hanno trovato appeso ad un finestrone, morto da diverse ore. Giancarlo Giusti, 48 anni, ex giudice reggino, aveva già tentato di uccidersi. Nel carcere di Opera lo avevano salvato i secondini. Nella sua villetta di Montepaone, dove aveva l’obbligo di dimora, nessuno invece ha avuto la possibilità di soccorrerlo. Viveva da solo, con il peso di una condanna definitiva a quattro anni di reclusione che gli era stata inflitta dalla magistratura milanese e l’angoscia di una nuova inchiesta catanzarese. Un magistrato che, secondo i magistrati lombardi e calabresi era al soldo dei clan della ‘ndrangheta. Uno che, dicono le accuse, si faceva pagare a suon di decine di migliaia di euro oppure con escort e cene in hotel di lusso. Giusti si è impiccato da semi libero, beneficio che gli era stato concesso proprio per le sue condizioni psicologiche, legate a un primo tentativo di suicidio del settembre del 2012. È stato trovato morto ieri mattina da un parente, allarmato per il fatto che non lo sentiva da alcuni giorni. Sarà l’autopsia a stabilire esattamente data e ora del decesso. A Montepaone vive anche una sorella di Giusti, dalla quale era stato accolto per il periodo in cui era agli arresti domiciliari e dopo che si era separato dalla moglie. Chiamati a intervenire nella prima mattinata, i carabinieri del Reparto operativo di Catanzaro e della Compagnia di Soverato non hanno potuto che constatare il decesso. Giusti non ha lasciato alcun biglietto per spiegare i motivi del suicidio e, tuttavia, era noto come le inchieste sul suo conto lo avessero letteralmente sconvolto. Era stato arrestato una prima volta nel 2012 nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Dda di Milano sul clan dei Lampada. L’antimafia aveva scoperto che veniva utilizzato per avere informazioni su eventuali inchieste in corso. Dopo l’arresto venne immediatamente sospeso dalle sue funzioni per decisione del Csm. Da quella prima indagine emersero, in particolare, i presunti rapporti tra Giusti e il boss Giulio Lampada che organizzava per lui festini a base di sesso. Fu proprio durante un colloquio telefonico, intercettato dagli inquirenti che Giusti pronunciò una delle frasi che lo inchiodarono poi al processo: «Tu non hai capito — disse — chi sono io. .. sono una tomba, peggio di. .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Dopo l’arresto e la condanna a quattro anni di reclusione in primo grado, divenuta definitiva la scorsa settimana, Giusti tentò di suicidarsi nel carcere di Opera dove venne salvato miracolosamente. Non si è mai detto colpevole. Durante un’intervista a Klaus Davi ammise solo di «essere stato leggero». Spiegò così il suo rapporto con il boss: «Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto. Con Lampada c’era un rapporto affettivo, amicale. Gli volevo bene, lo consideravo una persona da abbracciare, un confidente. Ho sbagliato ad accettare donne e cene, ma non gli ho mai concesso nulla in cambio». E ancora: «La mia è stata una debolezza dovuta al momento terribile che stavo attraversando per la mia separazione. Sono stato stupido. Anche se presi informazioni per mezzo delle forze dell’ordine e di persone vicine ai servizi citate nel processo con nome e 49 cognome, nessuno mi disse mai nulla. È stato un errore molto grave il mio, ma sono stato condannato ingiustamente». Nel febbraio del 2014 a carico di Giusti fu emessa una nuova ordinanza di custodia cautelare, questa volta su richiesta della Dda di Catanzaro. In questo caso l’accusa a carico di Giusti era quella di avere ricevuto 120mila euro per favorire, nella qualità di giudice del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre elementi di spicco della cosca Bellocco della ‘ndrangheta. Fatto che gli era costata l’accusa di corruzione in atti giudiziari, aggravata dal fatto di avere agevolato una cosca di ‘ndrangheta. Per l’inchiesta che aveva portato al secondo arresto di Giusti si attendeva adesso la sentenza da parte del Tribunale di Catanzaro. Sentenza che non sarà più emessa. del 16/03/15, pag. 10 Contro il racket lavoro paziente non chiacchiere Da alcune settimane, si rincorrono interrogativi sullo stato di salute dell’antimafia in Sicilia, ma non solo. Come distinguere l’impegno per la legalità dagli sbandieramenti di convenienza e dalle parole ispirate, ma inutili? Come riconoscere – in sostanza – le iniziative che modificano la realtà, dagli slogan che “bucano” i media, ma non spostano gli equilibri consolidati del malaffare? Un primo criterio per tentare una risposta, è quello che individua i fatti distinguendoli dalle chiacchiere. Ad esempio, per le imprese che hanno ottenuto il rating di legalità, le chiacchiere “stanno a zero”. Il sito dell’Antitrust ne indica 391, il che significa che già oggi è possibile contare migliaia tra imprenditori, manager e dipendenti che praticano (non predicano) un’idea di azienda moderna e strategica, che hanno scelto come operare nel mercato e si sono assunti l’impegno volontario di conservare le tre stellette oppure di migliorare la valutazione indipendente della loro solidità, biennio dopo biennio. Altri fatti di cui pochissimo (giustamente) si parla, sono quelli ascrivibili al lavoro quotidiano delle associazioni antiracket. Forse non tutti hanno un’idea esatta di cosa significhi portare un commerciante o un imprenditore a denunciare un’estorsione. È un percorso che inizia avvicinando con cautela una persona sfinita, sfiduciata, che non dorme la notte per paura di non farcela o che succeda qualcosa alla sua famiglia. Questa persona va convinta che ha di fronte non ragazzini volenterosi ma interlocutori fidati, a loro volta ascoltati dalle istituzioni pronte ad agire senza esporre inutilmente (magari in forma di eroe) chi denuncia. La fiducia non si compra: il lavoro sotterraneo può durare mesi e non è detto che produca il coraggio per il passo finale, che si concretizza in un’aula di tribunale piena di persone che affiancano l’imprenditore che dovrà puntare il dito e far condannare l’estorsore. Il tutto – attenzione – non nella comoda Milano (dove il silenzio è la regola) ma nelle zone più controllate dalle cosche in Calabria, Sicilia, Campania. Se di questi fatti i media non parlano fino agli arresti, significa che il meccanismo ha funzionato: se invece finiscono sui giornali, vuol dire che c’è scappato il morto. Ci sono poi i fatti dell’Associazione costruttori, che ha applicato per la prima volta il nuovo Codice etico, dichiarando decaduto il presidente di una sede provinciale del Sud, già 50 sospeso perché rinviato a giudizio per bancarotta. Una decisione netta dei probiviri nazionali dell’Ance, che ha trasportato dalle buone intenzioni scritte sulla carta alla realtà un confine reputazionale severo, non mancando di suscitare reazioni molto forti (anche di tipo legale) da parte dell’interessato e dei suoi sodali. Si potrebbe continuare con altri fatti, tutti ben distinguibili dalle chiacchiere. Ma c’è un ulteriore discrimine utile a rispondere alla domanda iniziale: quello che invita a distinguere le pagliuzze dalle travi di evangelica memoria (Luca 6,41). Anche nel fronte schierato per la legalità esistono persone, enti, associazioni, categorie professionali, onestamente impegnati a riflettere sui propri risultati e i propri limiti; poi ci sono quelli che si limitano a lamenti e critiche – anche non fondate, a volte feroci – su tutto ciò che non derivi dal proprio impegno. Un atteggiamento manicheo, furbesco, purtroppo diffuso. Lo stesso che auto-giustificava pratiche a dir poco opache con vibranti richiami allo “Stato assente” perché “facesse la sua parte”. Ci sono voluti decenni per riportare ciascuno al suo, anche se è ovvio che nei momenti di crisi si riaffaccino vecchie abitudini non del tutto debellate: così i giornalisti infilzano imprenditori e politici, questi se la prendono con giornalisti e magistrati, i quali ultimi scuotendo il capo ribadiscono che la categoria “società civile” è un’invenzione (loro esclusi, ovviamente). Fatti, umiltà, tenacia, spirito autocritico: la risposta è dentro questo perimetro. 51 WELFARE E SOCIETA’ del 16/03/15, pag. 10 DEMOGRAFIA Italiani in retromarcia di Rossella Cadeo Una società sempre più anziana, con figli che si temporeggia a mettere al mondo e i residenti giovani che se ne vanno senza che il conteggio finale sia pareggiato da arrivi e rientri. In compenso, nella speranza di vita, si è accorciato il divario di genere e gli orizzonti di sopravvivenza si sono spostati più in là. Non è incoraggiante l’ultima foto demografica scattata dall’Istat. Una tendenza all’invecchiamento del capitale umano che va tenuta (e per tempo) in adeguata considerazione nella pianificazione del bilancio pubblico e nei progetti di rilancio del Paese. Tanto più che la spesa sanitaria e assistenziale è già sotto pressione, il mercato del lavoro è in contrazione e il sistema previdenziale è costantemente sotto revisione e in fragile equilibrio. Il record più allarmante segnato nel 2014 riguarda le nascite: poco più di mezzo milione i neonati (-5mila rispetto al 2013), il dato più basso dall’Unità (in Italia nel 1861 c’erano infatti circa 26 milioni di abitanti, ai confini attuali, e i nati allora si aggiravano sul milione). I decessi invece sono stati quasi 600mila nel 2014 (-4mila rispetto al 2013), cosicché il saldo naturale ha chiuso ancora una volta con il segno negativo (-1,4 per mille) e ha allargato la forbice tra nati e morti (da -7mila unità del 2007 a -86mila nel 2014). Anche le straniere (diversamente dal passato) non hanno dato una mano alle culle, benché procreino in media quasi un figlio in più rispetto alle italiane (il loro tasso di fecondità totale è pari a 1,97 contro 1,31 ma si attestava su 2,65 nel 2008). «Va sfatata l’idea che la popolazione immigrata possa magicamente risolvere il problema della bassa natalità - osserva Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia dell’Università di Milano Bicocca -. Il suo comportamento riproduttivo si sta allineando a quello della componente italiana e la soglia dei due figli a coppia (in media) non è più garantita neppure dagli stranieri». E pure l’innalzamento dell’età media al parto non contribuisce a dare nuova linfa alla popolazione: dai 30 anni del 1999 ora siamo a 31,5. Un paese di vecchi, più che per vecchi? La conferma viene anche dagli indici sulla speranza di vita e dai rapporti tra fasce d’età. Un bambino che nasceva nel 1974 aveva di fronte a sé un orizzonte medio di sopravvivenza di 69,6 anni, una bambina sei anni in più, 75,9. Uomini e donne nati nel 2014 procedono più lontano (ma anche più “vicini”) nel processo di allungamento della sopravvivenza: per gli uomini si è superata la soglia degli 80 anni di vita “attesa” e per le donne siamo quasi a 85. Quanto alla composizione della popolazione, ecco che l’indice di vecchiaia (il rapporto percentuale tra over 65 e under 15) è salito di oltre 30 punti, da 126,6 del 2000 a 157,3: ogni cento giovani ci sono quasi 160 anziani. Non meglio è andato l’indice di dipendenza, che rapporta la popolazione in età non attiva (under 15 e over 65) a quella in età lavorativa (15-64 anni): in tre lustri è salito di sette punti, da 48 a 55,2, a indicare un peggioramento del carico sociale fortemente spinto dalla crescita della componente più anziana. I dati statistici aggiungono che l’Italia perde smalto anche nei flussi internazionali. Nel 2014 - complice la difficile congiuntura - se ne sono andati 48mila stranieri e 91mila italiani, in totale circa 140mila persone (un 10% in più rispetto al 2013). Gli arrivi di stranieri sono stati 255mila (-9% rispetto al 2013), mentre i rientri di italiani in patria appena 26mila (-7,3% rispetto a un anno prima). Se il saldo migratorio con l’estero resta quindi positivo per circa 142mila unità è grazie soprattutto alla componente straniera, e in 52 particolare al fenomeno dei ricongiungimenti familiari. Un risultato che non impedisce comunque al tasso migratorio di scendere al 2,3 per mille, il livello minimo degli ultimi cinque anni. «Al di là del dibattito sugli sbarchi - commenta Blangiardo - oggi l’immigrazione dal punto di vista della mobilità tradizionale, dettata cioè da motivi di lavoro, è meno rilevante rispetto al passato. L’Italia non si presenta più come un Paese attraente per chi cerca un’occupazione e gli stranieri tendono a ridistribuirsi sul territorio europeo se non addirittura a tornare nei Paesi d’origine. Ma quel che è più preoccupante è la forza espulsiva nei confronti di giovani italiani, i quali in genere sono dotati di un alto livello di formazione e spesso si vedono costretti a cercarsi un futuro altrove. C’è un’incapacità allarmante di valorizzare un patrimonio di risorse rispetto al quale si è investito, anche molto, in formazione». Alla fine - tra scarse nascite, minori decessi, allungamento della vita, calo dell’appeal nella foto 2015 dell’Italia si contano più o meno gli stessi residenti dell’anno prima: 60 milioni e 808mila persone (+0,04%, il livello di crescita più basso degli ultimi dieci anni), ma con una decisa tendenza all’invecchiamento. «Senza contare l’onda di piena che, originatasi negli anni 60, tra 10-15 anni andrà a ingrossare la platea degli over 65 osserva ancora Blangiardo -. A questi si aggiungeranno gli “anziani importati”, la componente degli stranieri nati altrove ma residenti in Italia e destinati a invecchiare presso di noi: è impensabile che tornino nei Paesi d’origine proprio nell’età in cui maggiormente avranno bisogno di un sistema assistenziale e sanitario che è e sarà comunque più efficiente che altrove». Per evitare che peggiorino le conseguenze della mancata crescita demografica occorre dunque una terapia d’urgenza. «Due sono le possibili linee di intervento. Da un lato è necessario ringiovanire la popolazione dal basso della piramide dell’età: occorrono almeno 250mila nascite aggiuntive all’anno per mantenere il Paese stabile sui 60 milioni di abitanti. Il rilancio della natalità significa aiutare i progetti di fecondità di chi vuol fare figli. Occorre di fatto avviare le misure di quel Piano per la famiglia che pure esiste e che, da anni, attende attuazione concreta - conclude Blangiardo -. Dall’altro lato occorre gestire la situazione attuale, ossia contenere gli effetti problematici derivanti dall’invecchiamento, favorire la potenzialità delle persone anziane, creare le condizioni perché i meno giovani siano ancora disponibili a essere produttivi, magari attraverso incentivi di gratificazione, come già avviene nel “sentirsi utile” per chi opera nel volontariato, ma anche con interventi di incentivazione di tipo economico, ad esempio sul fronte della tassazione e dei contributi». 53 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 16/03/15, pag. 25 Nancie, la prof più brava del mondo: i miei ragazzi leggono quaranta libri l’anno All’insegnante Usa che ha vinto il “Nobel della Scuola” un premio da un milione di dollari da spendere in 10 anni RICCARDO LUNA DUBAI . L’insegnante più brava del mondo è una signora con i lunghi capelli bianchi, gli occhi blu, il sorriso dolce di una nonna e un determinazione feroce: «Ho cambiato il modo di insegnare, ho fatto innovazione senza chiedere il permesso a nessuno» aveva detto fra gli applausi al mattino, quando ancora non sapeva che di lì a poche ore avrebbe vinto la prima edizione di quello che viene già chiamato “il premio Nobel della Scuola”. Si chiama Global Teacher Prize, vale un milione di dollari a rate per dieci anni (a patto di insegnare per almeno altri cinque, però), e lo ha voluto un imprenditore sociale di origini indiane, Sunny Varkey, attraverso la fondazione che porta il suo nome. Si è svolto a Dubai in uno di quegli hotel da sogno che fanno impazzire i turisti. Per due giorni qui si sono dati appuntamento un migliaio di persone per assistere sì alla finale del premio, ma soprattutto per celebrare un mestiere spesso dimenticato eppure così importante: il mestiere di insegnante. «Il vero scopo del premio è risvegliare l’attenzione del mondo verso il ruolo degli insegnanti» ha detto poco prima dell’annuncio del vincitore l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che ha ricordato i suoi professori, «senza i quali non sarei mai arrivato alla Casa Bianca », e ha finito indicando solennemente i dieci finalisti sul palco: «Voi siete bellissimi ». Il Global Teacher è partito appena un anno fa. Cinquemila candidature da più di cento paesi, e a ottobre la prima lista dei migliori 50 (anche due italiani, Daniele Manni e Daniela Boscolo). E già lì si è intuito che questo non sarebbe stato un premio qualsiasi, perché portava alla luce persone meravigliose con delle storie bellissime. Qualche settimana fa la lista dei migliori 10. Tre dagli Stati Uniti, uno dal Regno Unito, uno da Haiti e il resto da Africa e Asia. Si può dire, senza mancare di rispetto alla vincitrice, che alcuni degli altri finalisti sono dei veri giganti del nostro tempo: su tutti forse Phalla Neang, la più votata sul web, che ha inventato un metodo che combina musica e computer per insegnare l’inglese e la matematica ai ragazzi ciechi in un paese, la Cambogia, in cui la disabilità viene spesso vista come la punizione per i peccati commessi in una vita precedente. Ma hanno destato grande emozione anche le storie di Azizullah Royesh, che ha fatto avanti e indietro più volte dall’Afghanistan per le guerre, fino a quando ha fondato una scuola che gli è costata la condanna a morte dei taliban perché le sue studentesse avevano lanciato una campagna contro lo stupro; e di Stephen Ritz, che in uno delle zone più degradate degli Stati Uniti, il Bronx meridionale, ha trasformato la scuola in un orto e attraverso il cibo insegna a ragazzi altrimenti perduti il rispetto, il lavoro e un futuro possibile (si contano un centinaio di orti con il suo metodo). Ma ha vinto Nancie Atwell, 63 anni, una superstar del mondo dell’istruzione (i suoi libri, in cui spiega il suo metodo didattico, sono acclamati best seller). Anche se fino a ieri sera non aveva ancora una voce che la racconti su Wikipedia e non usa il profilo Twitter da un anno. Non un caso: la storia di Nancie e quella degli altri nove finalisti è stata la celebrazione degli insegnanti come persone, la loro rivincita sulla tecnologia. Solo qualche 54 anno fa si sarebbe parlato di portare i tablet nei paesi in via di sviluppo (ricordate l’OLPc di Nicholas Negroponte?) e di software e lavagne multimediali come supporti essenziali. E invece qui i dieci finalisti avevano tutti in comune solo una grande passione: una passione per l’insegnamento e un vero amore per gli studenti. E non importa se non ci sono risorse, non importa se in qualche caso c’è la guerra alle porte, non importa se il ministro di turno non fa la riforma che tutti aspettano. «Facciamo innovazione senza permesso» ha ripetuto più volte Nancie Atwell. La sua ha un sapore antico e profuma di carta. Il suo metodo, consacrato da un centro per l’insegnamento e l’apprendimento che ha fondato nel 1990 nel Maine, si basa sui libri. «I miei ragazzi ne leggono almeno 40 l’anno». Quali? È qui la novità: «Li scelgono loro. Da una libreria che aggiorniamo continuamente con più di diecimila titoli. Sono loro a dirmi cosa vogliono leggere, di cosa vogliono scrivere e imparano a farlo ». Così molti dei suoi allievi sono diventati scrittori, e gli altri hanno comunque avuto ottimi voti. Sono cresciuti. Con il milione di dollari del premio anche la scuola crescerà: «Possiamo andare avanti altri dieci anni». Il suo messaggio è tutto nelle parole che ha detto dal palco: «I giorni in cui siamo felici ci fanno saggi e qui dentro dieci persone sanno cosa vuol dire. Oggi con me hanno vinto tutti gli insegnanti del mondo». Che cosa ha ancora da insegnare?, le ha chiesto un giornalista. «Io? Io sto ancora imparando come trasformare la scuola, ogni scuola, in un luogo di felicità e saggezza». Felicità, ecco, se c’è una sola parola che unisce tutte queste storie è felicità. Per noi, che ascoltiamo queste storie, invece ce n’è un’altra: gratitudine. 55
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http://www.allinfo.it/wp/2014/06/11/la-musica-in-mezzo-al-guado-lincontro-mercoledi-18giugno-2014-sala-convegni-senato-della-repubblica/
Altri link che hanno ripreso il comunicato stampa di invito ...