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Samantha Vitanza Le arti marziali oggi: si può parlare di socializzazione, educazione e cultura? Sommario Introduzione CAPITOLO 1 ARTI MARZIALI E SOCIALIZZAZIONE 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 CAPITOLO 3 LE ORINIGINI E LO SVILUPPO DELLE ARTI MARZIALI La socializzazione: il processo di formazione dell’individuo Lo sport elemento catalizzatore nei processi di integrazione e socializzazione Lo sport come percorso educativo e formativo Il valore educativo negli sport da combattimento Il combattimento? Sport da bambini Il ruolo del maestro. Differenze riferite all’insegnamento del karate-do. Allenatore, istruttore, maestro 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 CAPITOLO 4 KARATE: ASPETTI EDUCATIVI, FORMATIVI,PEDAGOGICI E PRATICA SPORTIVA 1.1 1.2 1.3 CAPITOLO 2 LE ARTI MARZIALI E L’INFLUENZA DEI MASSMEDIA 1.4 1.5 1.1 1.2 1.3 Le arti marziali: introduzione Il suffisso “DO” Il budo L’influenza della filosofia zen Karate-do: l’arte della mano vuota L’ossessione samurai I cartoni animati Le serie tv 2 Il Dojokun Gli aspetti pedagogici nella pratica del karate Gli aspetti formativi ed educativi nell’allenamento Il rapporto senpaikohai e il gruppo Il karate come attività sportiva Non parlerò di tecnica, di perfezione della tecnica, nulla di tutto ciò, con questa tesi cercherò di mettere in risalto il valore educativo, formativo e culturale di queste discipline, karate, come il in un nate mondo completamente differente dal ossia nostro, da quello occidentale, nei costumi, nelle usanze, etc… Di come a distanza di anni siano ancora vivi i valori etici che le hanno caratterizzate fin dal principio rendendolo un mezzo prezioso per il sistema pedagogico orientale. Attraverso la mia giovane esperienza e con l’aiuto di alcuni testi di studio proverò a spiegare come lo il concetto sport stimolatore ne anche di sia un per socializzazione, ottimo la elemento formazione dell’individuo stesso. Questo si verifica perché nella società attuale tutto ciò che viene fatto nel tempo libero assume un ruolo importante singolo. comuni nei Scuola, non altamente media più e i esaminerò come in e luoghi di società quella di che tuttora ogni punti un l’influenza avuto di altri soli soprattutto mediatica hanno formativi famiglia sono riferimento, Perciò processi i hanno oggi. mass sullo sviluppo delle arti marziali e/o viceversa. Con l’esposizione cinematografico serie di e di il cartoni condizionato il mondo qualche racconto di animati che dei successo qualche bambini. hanno Così quella che è la valenza educativa di queste arti, l’importanza dei giochi da combattimento. Metterò in risalto naturalmente il protagonista per eccellenza, il maestro e il suo difficile ruolo, includendo in un’unica figura il tecnico e l’educatore. 4 Per comprendere affascinante marziali al questo mondo misterioso delle arti e meglio mi soffermerò sul concetto del budo. Il budo giapponese, l’intervento della filosofia zen di quel mondo, in quel mondo. Lo vedremo riportato in Occidente. Dedicherò qualche riga a quello giapponese oggi, alle antiche sue come che è è la rimasta tradizioni società radicata nonostante l’eccessivo sviluppo tecnologico. Come vive il concetto di gruppo e com’è sentito il rapporto senpai-kohai all’interno di un dojo ma in ugual modo nella vita sociale. Accennerò alla filosofia del “DO”, la via e della sua importanza nella pratica del karate in senso completo. Infine illustrerò gli aspetti pedagogici riscontrabili nelle arti marziali, in particolare nel karate, fino a considerale delle attività sportive vere e proprie. Samantha Vitanza 5 Capitolo Prima di addentrarmi in quello che può essere il legame tra socializzazione e arti marziali e in che misura queste possano contribuire allo sviluppo del processo di formazione di un individuo vorrei introdurre il concetto di socializzazione. La socializzazione indica quel processo di informazioni capaci di trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale accumulato fino a quel momento grazie a due fattori : 1) che ogni società ha vita più lunga rispetto ai soggetti che ogni qualvolta la compongono; 2) il patrimonio culturale è composto sia dall’insieme di competenze sociali di base che da quello di competenze specialistiche che diversificano la società. Per questa distinzione si usa parlare di socializzazione primaria e secondaria 6 Quella primaria riguarda i primi anni di vita di un individuo fino a circa le scuole primarie; quella secondaria invece considera l’individuo che ha già avuto la sua socializzazione di tipo primario quindi la fase successiva quella che dall’inizio della scuola si protrae per tutto l’arco della vita. Vediamo più in dettaglio di spiegare questa distinzione: Le fasi della socializzazione primaria I modi e i risultati della prima fase di socializzazione condizionano i modi e i risultati delle fasi successive ma non le determinano. L’esperienza che l’individuo vivrà in questa prima fase determinerà il suo rapporto con il resto del mondo. E’ chiaro che se il risultato sarà appagante egli svilupperà un atteggiamento 7 positivo nei confronti della vita. Stiamo considerando un individuo-bambino quindi è necessaria un’adeguata stabilità affettiva, il contatto fisico continuo con i genitori. In questo modo nel bambino si svilupperanno sicurezza e fiducia in se stesso e nel mondo che lo circonda. Oltre a reagire ad input esterni lui stesso è autore insieme ai genitori del rapporto che si forma. I metodi di educazione dei genitori sono molteplici, la loro efficacia e la loro attuazione determinerà una buona o una cattiva interiorizzazione delle regole da parte del bambino. Man mano che cresce il rapporto si estenderà a fattori più esterni che andranno oltre i genitori e la famiglia e diventeranno sempre più diversificati da individuo ad individuo mantenendo sempre stabile la propria identità. Le fasi della socializzazione secondaria Abbiamo visto periodo che si sviluppa dalla scuola in avanti. La socializzazione secondaria è quell’insieme di prassi messe in moto dalla società che consentono all’individuo di assumere ed esercitare ruoli da adulti. E ricoprire così pluralità di ruoli separati tra loro. E’ un processo continuo. Quali sono gli agenti determinanti? 8 In primo luogo la scuola, prima realtà istituzionale con il quale l’individuo si confronta al di fuori delle mura domestiche, e ciò che ne consegue, istruzione, regole, etc. L’individuo è indotto a socializzare con gli altri facenti parte del gruppo, in questo caso specifico con la classe. In secondo luogo il gruppo dei pari, cioè individui che sono sullo stesso piano ma non hanno alcun legame affettivo o di lavoro. Ed infine non dimentichiamo i mezzi di comunicazione di massa in quanto è una realtà che al giorno d’oggi si sovrappone prepotentemente su ogni tipo di fattore di socializzazione. Un’ulteriore chiave di lettura per cercare di comprendere quelle che sono le varie fasi del processo formativo di un individuo è di analizzare gli aspetti della socializzazione mediata e della socializzazione immediata. Ci troviamo da una parte con degli organismi tradizionali ( vedi famiglia, scuola ) che costituiscono la cosiddetta socializzazione mediata in quanto attraverso regole, forme di linguaggio, valori, si pongono come MEDIATORI tra l’individuo giovane e la società. Dall’altra parte invece i mass media e il gruppo dei pari con ovviamente valori propri, regole, norme che danno vita a quella socializzazione detta immediata proprio in quanto essendo l’individuo in prima persona a viverle non ci sono interferenze o mediazioni che influiscono. Quindi da una formazione strettamente tradizionale passando ad una socializzazione fatta di 9 input esterni continui recepiti tramite mass media e gruppo dei pari, l’individuo si creerà un processo formativo che sia il più possibile adeguato alle sue aspettative personali. Tutto ciò gli consentirà di scegliere dove partecipare a seconda di tutte le offerte che l’industria culturale oggi propone: sport, cinema, tv, stampa, internet, etc.. La diffusione della pratica sportiva in quasi tutto il mondo è indice evidente dell’importanza che lo sport ha assunto come fattore sociale ed educativo. Esso è parte integrante della cultura di una società e si sviluppa in simbiosi con i cambiamenti che questa subisce nel corso degli eventi. Lo sport nel tempo è divenuto un evento di massa coinvolgendo tutte le classi sociali e tutti i gruppi d’età della popolazione. È uno strumento essenziale di integrazione sociale e di educazione al rispetto comune per tutti gli individui del mondo. Spesso purtroppo non è così. Basti vedere ed analizzare quello che succede durante una partita dove invece di accomunare le persone con la stessa passione vengono violentemente separate da un sentimento di conflitto. E questa ai giorni nostri è una triste realtà che nonostante ripetuti episodi di violenza, multe e sospensioni di eventi sportivi, non si è ancora riusciti a debellare. 10 Lo sport dovrebbe fungere da catalizzatore che unisce i cittadini del mondo indipendentemente dalla loro età e dalla loro origine sociale. Dobbiamo pensare che lo sport rappresenta un contributo incisivo all’educazione e alla formazione dei giovani. Lo sport raggiunge il suo fine quando insegna, educa a maturare e in questo caso maturare significa ammettere i propri limiti, costruire il successo sul sudore della fatica, confrontarsi con gli altri con spirito critico e senza considerare l’avversario come un nemico da offendere o umiliare. Lo sport è educativo. Educa se viene proposto e organizzato con l’intenzionalità educativa secondo parametri e progetti che privilegino l’educazione del singolo. Lo sport è fondamentale per la socializzazione del bambino e dell’adolescente ma anche dell’adulto che sviluppa così la capacità di stare con gli altri, di confrontarsi e seguire delle regole che insegnano al singolo individuo l’adattamento sociale. Diventa un mezzo per stare bene insieme con gli altri, rispettando tutti e condividendo le regole del gioco così come accade normalmente nella vita di tutti i giorni. E’ un ottima palestra per migliorare il proprio rapporto con gli altri oltre che migliorare il proprio benessere psico-fisico. 11 L’esigenza e la necessità di supporti educativi giungono da varie parti : dalla società, dalla famiglia, dalla scuola. Sinteticamente vedremo come può essere di ausilio lo sport e quali possono essere i parametri attraverso i quali può articolare un’azione educativa. Le funzioni fondamentali che può avere nella formazione della personalità e del carattere dei bambini e degli adolescenti. Analizziamo alcuni di questi punti fondamentali : esprime pulsioni primarie istintivamente finalizzate che in altro modo si esprimerebbero in modi in disaccordo con le norme sociali offre un contenitore idoneo sia sul piano personale che relazionale all’attività psico-motoria offre i modi di comunicazione ed un contenimento all’aggressività fisiologica che ha così un modo “socialmente tollerabile” di esprimersi costruttivamente offre modi e schemi per esprimere la competitività legata alla fisiologica affermazione di sé in un rapporto di compartecipazione. Secondo queste regole l’attività sportiva ben condotta come formazione in età evolutiva può ottenere alcuni risultati. 12 Possiamo così schematizzare le finalità di un’attività sportiva in età evolutiva : costruire uno sviluppo armonico del soggetto attraverso l’espressione delle competenze personali sia fisiche che psichiche stabilire un’abitudine a finalizzare in modo sano la competitività in un rapporto di complementarietà con la cooperazione e la condivisione in un gruppo aumentare l’autostima come elemento basilare della sicurezza personale contenere, finalizzare in un modo razionale costruttivo l’aggressività sia fisiologica che reattiva attivare la capacità di capire e rispettare le regole del gioco Tutto ciò può essere ottenuto attraverso una relazione educativa che tenda non solo ad allenare sia il corpo che la mente in quella disciplina specifica, ma anche facilitare una consapevolezza di ciò che si fa e di ciò che avviene ma anche delle sensazioni corporee e delle emozioni. Questo elemento della consapevolezza è fondamentale per la formazione perché è la base essenziale per sviluppare quel senso critico che è l’espressione più corretta di una personalità matura ed equilibrata. Questi sono tutti parametri fondamentali attraverso i quali lo sport può contribuire al processo educativo dell’individuo. 13 Il compito arduo in questo caso tocca al tecnico-educatore. Non è sempre facile motivare un bambino in vista dell’apprendimento di una determinata capacità motoria. Componenti come svogliatezza, stanchezza, apatia sono tutti segnali di una caduta motivazionale che può essere momentanea oppure definitiva verso quella specifica attività. Questo spesso accade perché l’attività sportiva viene scelta dall’adulto e non dal bambino quindi a volte forzata. Egli si troverà così ad affrontare una realtà già conosciuta, come ad esempio la scuola, e obbligata. Gran parte dei genitori spesso influisce in maniera negativa sulla fiducia in se stessi dei propri figli e sul loro orientamento all’autorealizzazione attraverso un eccesso di protezionismo, di presenza, di critica negativa. Ad ogni modo per utilizzare al meglio o sollecitare la motivazione del proprio allievo l’educatore sportivo dovrebbe conoscere ed impiegare un ampio repertorio di metodi e di risorse didattiche, ad esempio giochi ed esercizi diversi, capaci di stimolare la curiosità e l’esplorazione, attività ludiche e sportive, incentivi, conferme a promuovere l’autostima, l’appartenenza al gruppo e l’identificazione con l’insegnante. Vediamo come il gioco interviene spesso combinato con l’avviamento allo sport. Questo si propone in tutti gli sport così come nelle arti marziali, l’argomento che più ci interessa e che 14 tra breve analizzeremo. Attraverso il gioco il bambino fa esperienza del proprio corpo e delle sue possibilità di entrare in rapporto con l’ambiente da un punto di vista motivazionale. L’elemento gioco presente in alcune pratiche sportive assume le seguenti caratteristiche : attività che provoca piacere sensoriale attività di riconoscimento, di autovalutazione e di confronto attraverso regole competitive Man mano che il bambino cresce aumenta sempre di più l’importanza che conferisce alle relazioni con i coetanei e ai loro giudizi, questo sia in campo scolastico che in quello ovviamente sportivo dove la competizione è un fattore molto sentito. L’attività sportiva può essere considerata un gioco caratterizzato da finalità organizzato agonistiche. secondo L’agonismo modelli è un culturali comportamento ed indirizzato all’autoaffermazione competitiva e all’espressione disciplinata dell’aggressività. Ad esempio due bambini che gareggiano spontaneamente per superarsi non fanno altro che anticipare quell’esperienza agonistica che poi verrà organizzata dallo sport. Il bambino sviluppa così l’abilità, la stima di sé e soprattutto impara a riconoscere i propri limiti nel confronto con gli altri. Da un punto di vista educativo il tecnico deve sfruttare a proprio vantaggio la situazione, stimolando nell’individuo l’abilità e 15 l’autostima esclusivamente per fini agonistici senza sollecitare il ragazzo con aspettative troppo elevate. La frustrazione, lo scoraggiamento sono sempre l’alto prezzo che i bambini devono pagare per allenatori e genitori troppo ambiziosi. COSTRUIRE LA MENTALITA’ DEL CAMPIONE IN MODO EDUCATIVO SI PUO’! Per ottimizzare la prestazione di un atleta e riuscire a far coincidere la sua prestazione reale con quella potenziale è necessario tenere a mente alcune utili indicazioni: stabilire con l’atleta obiettivi in positivo e verificabili motivare l’atleta stabilire armonia mente-corpo scoprire le risorse dell’atleta migliorare la capacità di immaginazione fornire una dieta mentale (oltre che fisica) utilizzando un giusto linguaggio Da un punto di vista psicologico il campione è colui che: sa attivarsi e disattivarsi a seconda delle occasioni (controllo dell’ansia) 16 vede nei limiti le sue possibilità di vittoria riesce a dare il meglio di sé senza avere paura di sé stesso Anche negli sport di squadra è possibile lavorare sull’ottimizzazione della prestazione semplicemente tenendo bene a mente le 10 regole del team che vince: Avere obiettivi chiari ed elevati Costruire una struttura guidata dai risultati Disporre di membri competenti Favorire l’impegno unificato di tutti Creare un clima collaborativo Fornire standard di eccellenza Ricevere supporto esterno e riconoscimento Definire una leadership di principio, che si costruisce sul campo Lavorare divertendosi Pensare in sincronia Si è parlato di aggressività e di come lo sport possa aiutare a contenerla e ad incanalarla in modo sano e corretto. Entriamo nello specifico di ciò che più ci riguarda. 17 Spesso è stata posta sotto forme diverse la medesima domanda : “Come si può considerare educativi e privi di violenza tutti gli sport da combattimento?” Ma cosa vuol dire violenza? Analizziamo semplicemente il termine per rispondere alla domanda perché spesso e volentieri si utilizzano vocaboli gratuitamente di cui non si sa neppure il valore etimologico. Violenza è : “delitto commesso da chi con la forza o con la minaccia costringe qualcuno a fare qualcosa o gli impedisce di fare qualcosa”. Ora due atleti che si confrontano in un kumite seguendo regole prestabilite e rispettandole ovviamente entrambi non stanno certo commettendo atto di violenza ma stanno misurandosi semplicemente in una competizione sportiva o in una seduta di allenamento. È certo che tutto ruota intorno a tecniche di pugni e calci e qualcuno potrebbe asserire che un colpo ricevuto può danneggiare. È verità fino ad un certo punto in quanto in qualsiasi sport un atleta il cui fisico è spinto al massimo può subire danni. Ed è un rischio di cui l’agonista è consapevole. È anche vero d’altro canto che un atleta preparato oltre ad un’elevata soglia del dolore è predisposto a ricevere colpi entro sempre i limite del regolamento, del controllo e del rispetto. Non si sta lottando per la vita o la morte. Tutto è verosimile. Se consideriamo una partita 18 di calcio è molto più pericolo allora un’entrata di un difensore sugli stinchi di un’attaccante. E ancora più diseducativo vedere un giocatore che inveisce contro l’arbitro o che sputa in campo contro un altro giocatore. Dovrebbero rendersi conto dell’esempio che danno alla gente e non meravigliarsi se poi i tifosi si sfidano in atti violenti. Nel karate non si prosegue l’obiettivo di provocare danni fisici all’avversario, anzi è proprio chi danneggia l’incolumità dell’avversario che viene penalizzato. Proprio per questo bisogna abbattere i luoghi comuni e proferire che la pratica di quest’arte può avere una funzione educativa molto incisiva nel promuovere un rapporto sano tra i giovai e l’aggressività. Le nostre palestre possono essere una risposta. L’uomo ha sempre avuto bisogno di lottare per sopravvivere quindi questa forma di energia si può dire sia innata in ogni individuo. Attraverso gli sport da combattimento, se ben insegnati da tecnici competenti, impariamo a conoscerla e a controllare questa energia non soffocandola ma incanalandola ed indirizzandola verso un lavoro atletico sano e costruttivo. Chi è consapevole della proprio forza può così imparare a controllarla e non abusarne. Entrando in contatto con la propria aggressività, imparando a conoscerla. Il principio fondamentale è basata sul controllo, proprio questo è uno degli aspetti educativi più importanti della nostra disciplina dove l’orientamento della carica aggressiva assume importanza terapeutica in quanto tutte le potenzialità 19 dell’individuo hanno come traguardo l’autocontrollo e l’equilibrio psicologico. Chi pratica questo tipo di attività si può dire sfoghi in palestra questa energia interiore aggressiva restando nel contesto del rispetto delle regole ed evitando così danni. Il praticante di cui parliamo spesso è una persona che ha intrapreso una sfida con se stesso, che ha deciso di superare i propri limiti interiori, le insicurezze e le paure..e di crescere soprattutto. E così un quadrato di gara diventa l’immagine della nostra vita. La capacità di affrontare faccia a faccia l’avversario, di controllare l’emozione, di restare in piedi sopportando dolore e fatica, di accettare la sconfitta reagendo in modo positivo. Non tutti però sono agonisti o professionisti, alcuni si avvicinano a queste discipline per diverse ragioni : movimento fisico, autodifesa o a volte anche semplice curiosità. Una conoscenza superficiale della materia porterebbe chiunque a catalogarli come “roba violenta”e soprattutto non adatte ai bambini che da questa pratica verrebbero traviati e trasformati in picchiatori di strada. Niente di tutto questo. I bambini dopo aver acquisito bene le tecniche vengono messi uno di fronte l’altro per essere avviati alla pratica del combattimento, ovviamente in un 20 ambiente sano e corretto di divertimento e amicizia, soprattutto nell’ottica del rispetto reciproco. E proprio in quest’ottica imparano a riconoscere , controllare, canalizzare l’aggressività e iniziano a sfogare in modo positivo i propri istinti che come spesso la cronaca quotidiana ci mostra se repressi sfociano in episodi di bullismo e di violenza. La pratica delle arti marziali forgia il carattere degli individui, piccoli o grandi che siano, educando alla disciplina, al sacrificio ed al rispetto dei gradi sia superiori, che “danno ordini” per insegnare la via da percorrere in quanto più esperti, sia ai gradi inferiori poiché soggetti più deboli ed inesperti di cui non bisogna approfittarsi bensì aiutare nella crescita, nello sviluppo fisico, tecnico e coordinativo. Analizzando ciò che è stato scritto sopra emerge quindi come discipline quali appunto le arti marziali, la scherma e gli sport da combattimento siano complete ed indicate per ogni esempio di bambino. Queste discipline permettono di sviluppare alcuni aspetti molto importanti per la loro formazione dal punto di vista psicologico oltre che fisico per bambini un po’ impulsivi ed iperattivi. Per motivi opposti queste attività possono essere di aiuto per quei bambini la cui timidezza li porta ad evitare e ad avere timore del contatto fisico con gli altri. Inoltre sono attività che esigono una forte capacità di concentrazione per cui molto 21 importanti per imparare a decidere rapidamente, si sa che ogni esitazione è fatale per l’incontro. Se praticate secondo queste aspettative questi sport possono contribuire a sviluppare la stima di sé e la sicurezza complessiva del piccolo atleta. Praticare queste discipline è un’attività che si adatta molto bene alle caratteristiche del bambino, malgrado siano tecnicamente difficili e fisicamente impegnative. Parlando dalla mia esperienza posso dire che i piccoli praticanti possono sopportare benissimo l’impegno fisico traendo anche dei vantaggi, come può essere lo sviluppo della coordinazione, della mobilità articolare, etc.. Partiamo dalle definizioni delle singole figure. Allenatore : chi si occupa dell’allenamento fisico di un gruppo o di un singolo atleta, abituando mente e corpo mediante esercizi adeguati all’esecuzione di una specifica applicazione. Istruttore : chi istruisce, chi fornisce spiegazioni per la comprensione di una disciplina o più semplicemente di un movimento, per capirne l’obiettivo dell’applicazione 22 Maestro : che insegna un’arte, una disciplina, la “via”, nel nostro caso specifico, tanto da poterla insegnare ad altri ed essere preso come modello Da qui è evidente la differenza che esiste tra i vari ruoli, infatti la destinazione di ogni singola attività, pur essendo diretta ad uno scopo comune, è articolata in maniera diversa. L’allenatore si occupa più del lato fisico, mentre quello mentale è limitato; l’istruttore deve abbinare all’aspetto fisico quello educativo, spiegando il gesto, la finalità della tecnica. Il maestro riveste un ruolo spiccatamente educativo, spingendosi profondamente all’interno del lato mentale. La figura del maestro si incontra molto più raramente proprio perché viene associato ai termini disciplina ed arte. Rappresenta l’anziano, il saggio,che trasmette la propria lunghissima esperienza. Il maestro non insegna, possiamo dire che educa, completando quindi il ciclo di apprendimento. Il corpo impara (allenamento), la mente capisce lo scopo dell’allenamento (istruzione), il corpo e la mente si uniscono, raggiungendo il livello massimo dell’applicazione (maestria). In un ‘intervista il Maestro Nishiyama ha detto : 23 “...all’inizio della pratica noi tutti usiamo la forza muscolare. Abbiamo bisogno di utilizzare una grande azione fisica per fare un movimento poderoso. Continuando però questo bisogno cambia, così che generiamo una grande forza da piccoli movimenti. Questa è la “via” della natura, perché invecchiando perdiamo forza muscolare, quindi dobbiamo trovare un altro modo di generare energia, prima di essere troppo vecchi per farlo...” Solitamente il taiso viene svolto o da uno degli istruttori oppure da una cintura nera più esperta, non si distingue necessariamente la figura dell’allenatore. Ovvio che quando si passa alla lezione vera e propria, quindi all’istruzione, in quel caso tocca all’istruttore che dovrà conoscere i molteplici aspetti della pratica, miscelando psicologia, anatomia e filosofia.. subentra anche l’aspetto educativo. Proprio per questo dovrà essere d’esempio anche al di fuori del dojo, perché nel karate non s’insegna a comportarsi solo nel dojo ma anche nella vita. L’istruttore deve indicare il principio del cammino il resto spetterà al Maestro, a colui che ha già una lunga esperienza ed è in continua ricerca. Non certo per preparare dei cloni, fatti a sua immagine e somiglianza. Egli darà degli elementi ma la ricerca avverrà all’interno di ogni individuo. Per essere buoni maestri bisogna avere molte doti: competenza, buona capacità di creare rapporto, visione, realismo, 24 congruenza. Deve saper guidare, questa è la visione. Poi deve aiutare gli altri a capire. Queste sono capacità di comunicazione e di rapporto. Deve essere in grado di convogliare gli entusiasmi e la motivazione e dare il buon esempio. Queste sono la capacità organizzativa e la congruenza. Il rapporto tra maestro e allievi è una relazione di causa-effetto. Il suo impegno deve essere quello di esercitare la sua operosità rispettando i principi e le regole al fine di favoreggiare la funzione educativa della disciplina salvaguardando l’allievo. Di non incorrere, come anticipato prima, nel peggiore degli errori di volere creare dei “cloni” a propria immagine e somiglianza senza considerare le diversità soprattutto fisiche dei propri allievi. Non dovrà rivelarsi un despota (concetto di sola autorità) capace solo di impartire comandi pesanti e noiosi, ma dovrà essere anche preparato ad organizzare e coordinare attività ed esercizi più divertenti, procurandosi così un tipo di stima da parte degli allievi sorta non da impostazioni e timori, ma da ammirazione e simpatia. I diritti li acquisisce tacitamente se e in quanto buon maestro, che equivale a dire sacrificio, volontà e costanza, ovvero qualità necessarie per il conseguimento di tale obiettivo. Leggendo la rivista SAMURAI mi sono imbattuta in un articolo scritto da shike Bertoletti proprio su questo argomento con il quale mi sono 25 trovata pienamente d’accordo nonostante la mia ancora giovane esperienza, su come si fa a riconoscere un vero maestro. Esistono quattro categorie di maestri : quelli che sono nulli tecnicamente sul tatami, ma che sono molto simpatici fuori; quelli che sono bravi tecnicamente sul tatami, ma che sono nulli mentalmente ed intellettualmente fuori; quelli che sono nulli tecnicamente sul tatami e nulli mentalmente ed intellettualmente fuori; quelli che sono bravi tecnicamente, mentalmente e intellettualmente…. Nel primo caso sarebbe meglio evitare di seguire i suoi corsi. Avrà sempre un certo numero di allievi che lo seguiranno, affiggerà in bacheca (manovre strategiche) un certo numero di diplomi e si proclamerà grande qui e là. Entrerà nel mondo intellettuale pur non essendo uscito da nessuna “vera” scuola, senza nessuno spirito evolutivo. Nel secondo caso ci si trova ad allenarsi con tecnici esperti ma senza alcuna pretesa di discussione perché non hanno nulla da dire. In Giappone è consuetudine trovare maestri di questo tipo, eccellenti tecnici e praticanti, e sono là per far sudare gli allievi. E’ una metodologia fisica e molto forte. Nel terzo caso, uso le parole colorate di shike Bertoletti, bisogna scappare fin quando c’è tempo! Si dovrà imperativamente evitare 26 di avere delle relazioni con questi energumeni, che sono sovente degli impostori nella pratica del budo, che prendono i loro desideri per realtà e sono a volte dei megalomani con una notevole paranoia, con al seguito un certo numero di allievi creduloni con la stupidità che li rende diversi. Nel quarto ed ultimo caso ci troviamo invece davanti ad un vero esperto, un maestro, detentore di una conoscenza concreta, tanto sul piano tecnico che mentale, intellettuale e storico. Da questi indubbiamente si riceverà un’eredità culturale certa, trasmessa dalla loro anima. Manifestano tanta umiltà e consacrano la loro vita a perfezionare il loro sapere e a parlarne. Quello che più li contraddistingue è un certo CARISMA che conferisce loro una forte personalità. Danno prova di compassione verso gli altri e di conoscenza, non esibiscono diplomi di grado. Sono passati da tappe difficili ma nello stesso tempo esaltanti, equivalenti al livello della conoscenza acquisita. Come riconoscere allora un vero maestro da uno “falso”? Comparandolo con questi quattro modelli? Bisognerebbe interessarsi sul suo percorso e sul suo cammino del sapere. Nell’osservarlo sul tatami : la rapidità d’esecuzione, la precisione e la bellezza dei gesti abbinati all’efficacia, gli spostamenti, la potenza durante le applicazioni tecniche, la morbidezza, la postura diritta e la giusta attitudine del corpo. 27 Nel sentirlo parlare: il suo livello di conoscenza dovrà essere discretamente ricco, tanto sul piano tecnico, che storico, filosofico e perché no di aneddoti. Nell’avvicinarlo, sentire la sua efficacia, che ci rassicuri tramite la maestria dei suoi gesti e delle sue parole altrimenti sarebbe responsabilità inutile di un allenarsi maestro sotto di la arti marziali. Uno dei diritti dell’allievo è sicuramente la sua tutela; a livello pratico quello di ricevere una buona preparazione ed educazione sportiva mediante sicure attività formative,culturali,ricreative. I doveri fanno parte del reciproco rispetto. Io sintetizzerei un buon rapporto allievo-maestro / maestroallievo con il detto mu shin no shin (cuore a cuore). Deve risultare biunivoco sotto il profilo della stimolazione reciproca : un allievo che lavora bene e apprende con interesse stimola il maestro a lavorare bene e viceversa. 28 Capitolo Kill Bill, Zatochi, Matrix, a seguire fumetti, cartoni animati, videogiochi e manifestazioni come Oktagon, Martial Art o gli spettacoli dei monaci Shaolin: l’industria culturale globale è invasa da combattimenti ed esibizioni di arti marziali. Tra esotismi e sottoculture si spostano i confini tra Oriente ed Occidente. L’uscita nelle sale del film “L’ultimo samurai” si pone alla fine di un ciclo di uscite che da Kill Bill e Zatoichi sembra ribadire la vera e propria ossessione marziale che da qualche decennio pervade l’industria culturale globale. Narra lo scontro tra due realtà 29 militari differenti. Si vede il desiderio dei tradizionalisti di mantenere tutto ciò in cui credono e così il rituale del personaggio Mishima che pratica il seppuku di fronte agli eredi di coloro che nel film sconfiggono lo spirito del vecchio Giappone. In rilievo la frenetica corsa alla modernità tecnologica e commerciale voluta dal nuove imperatore e la cultura millenaria di un popolo dedito alla filosofia e alla guerra ideologica dei samurai. E’ un segnale. Come se l’Occidente cercasse di eticizzare la figura del combattente, anche se per farlo è costretto ad attingere lontano, all’esotico, al fondamentalmente estraneo. Le arti marziali prima degli anni ’70 non erano assolutamente pubblicizzate. I primi film ad essere trasmessi furono delle pellicole sul Judo. Un judo molto spettacolare pieno di evoluzioni acrobatiche, diverso dalla pratica vera e propria. Era la prima volta che venivano rappresentate le arti marziali in televisione. Il cinema cinese invece fece la sua prima apparizione in Italia appunto negli anni ’70, con un film orientale, il primo del suo genere, precursore di una miriade di pellicole che sarebbero seguite nel tempo. Il film in questione era “Cinque dita di violenza”, titolo sicuramente inquietante per quell’epoca. La trama era un classico del genere orientale. Parlava di un giovane allievo, Cinao, che pur di essere accettato in una famosa scuola di Kung fu, era disposto a fare i lavori più umili, all’interno della 30 stessa e nel frattempo si allenava segretamente per realizzare il “palmo d’acciaio”, tecnica che permetteva di colpire solo con il palmo delle mani. Quindi lui provava e riprovava rompendo tronchi e colpendo mattoni fino a realizzare l’impresa desiderata. Nel frattempo intrecci vari all’interno e all’esterno della scuola, con tradimenti, omicidi e ferimenti vari, molto cruenti e spettacolari, contribuivano a rendere il film ricco di azioni tecniche allora sconosciute. Il finale era e sarebbe stato sempre lo stesso con il nostro supereroe che dopo sacrifici e intensi allenamenti avrebbe sconfitto i rivali. Il film ebbe un successo straordinario: violento si, ma nuovo nel suo genere e per circa un decennio si proiettarono film simili, provenienti prettamente da Hong Kong. Il filone era sempre lo stesso, film girati in costumi d’epoca, rivalità tra scuole di kung fu, rigore samurai se si svolgevano in Giappone, e tanti tanti combattimenti e duelli a colpi di sciabola per la Cina e di katana per il Giappone. L’essenza era sempre la stessa, un rigoroso e sofferto allenamento, tecniche segrete tramandate da maestro ad allievo, specializzazione e virtuosismo, ora dell’artiglio, ora del palmo, ora del calcio, ora del salto, capelli intrecciati usati come frusta, chiodi lanciati come coltelli e soprattutto combattimenti interminabili, con il protagonista che pur colpito decine di volte continuava a combattere come se niente fosse. 31 Si vedevano spesso anche personaggi che volavano, superando fiumi, saltando da un albero all’altro come se fossero scimmie, o spostando enormi massi con la sola forza del pensiero. Insomma tutto un mondo marziale che a noi occidentali in quegli anni suscitava, da un lato entusiasmo, e dall’altro senso del ridicolo per le esagerazioni cinematografiche. Ma la vera svolta nel filone orientale, fu l'apparizione di quello che sarebbe diventato antonomasia, poi il mi mito per riferisco naturalmente a Bruce Lee. Il suo primo film trasmesso in Italia, fu il secondo film di arti marziali in assoluto, intitolato "Dalla Cina con furore". Offuscò subito il successo del precedente "Cinque dita di violenza", ma anche di tutti gli altri film trasmessi negli anni a venire. Furono molti i giovani folgorati dal modo di combattere di questo nuovo eroe, che tanto fece per la divulgazione del Kung Fu su scala planetaria, elaborando poi il Jeet Kune Do. Bruce Lee girò altri quattro film , "Il furore della Cina colpisce ancora", "L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente", "I tre dell'operazione Drago" e il non ultimato "L'ultimo combattimento di Chen", sì perché fu proprio in questo film che nacque il mito; durante la lavorazione il nostro eroe per un edema celebrale (così 32 sembra), perse la vita lasciando un vuoto incolmabile che ancora oggi dopo oltre trent'anni dalla sua scomparsa, nessuno è più riuscito a colmare. In quegli anni moltissimi film orientali furono trasmessi, ormai il filone era trovato, e ogni pellicola buona o cattiva che fosse, veniva proiettata, ma il successo dei film di Bruce Lee non fu mai eguagliato, anche se in molti hanno provato ad imitarlo, anche grandi atleti, ma il suo carisma ed il suo modo di interpretare le arti marziali, era per quell'epoca decisamente rivoluzionario, non più combattimenti interminabili dal tramonto all'alba, non più salta da una montagna all'altra, non più mani d'acciaio, trecce che frustano, spade che scintillano, ecc...al più, ebbe l'onore di far conoscere a noi occidentali l'uso di un'arma allora sconosciuta, il nunchaku, maneggiato magistralmente in sequenze spettacolari. Ormai il mondo occidentale conosceva le arti marziali e questo aprì la strada al marketing delle palestre che cominciarono a spuntare dappertutto come funghi, tutti volevano imparare a combattere come il mitico Bruce Lee. Le palestre si riempirono di giovani di tutte le classi sociali e di tutte le etnie, determinando quell’ossessione marziale di cui si parlava che a tutt’oggi sembra ben lunga dall’essersi esaurita. Anzi l’ossessione è declinata verso forme più spettacolari e invasive. Il kung fu è ovunque dagli spettacoli Shaolin ai videogiochi come Mortal Kombat o il famoso 33 Tekken dove personaggi si sfidano per mezzo di ogni tipo di arte marziale. Continuando il nostro percorso arriviamo agli anni ‘80, in quel periodo fece la sua apparizione un altro grande personaggio che cinematograficamente parlando, rivoluzionò anche il mondo delle arti marziali cinesi, Jackie Chan . Il suo primo film arrivato in Italia fu “Chi tocca il giallo muore”, seguito da “La mano che uccide”, il primo d’ambientazione moderna e il secondo in costume d’epoca. Il suo modo di rappresentare l’arte marziale era ed è decisamente insuperabile, sia per la funambolica fisicità delle sue tecniche, sia per la sua particolare interpretazione, quasi in chiave comica. Egli inaugurò quel filone che lo vide protagonista, in più di duecento film in cui come interprete saltava, colpiva, schivava, ruzzolava e maneggiava con maestria qualsiasi oggetto rendendolo un’arma micidiale, il tutto sempre con una forma di umorismo nelle scene molto diverso dai suoi predecessori, tutti con sguardi truci e tirati che il copione richiedeva. I suoi film che all’inizio erano chiaramente di stampo orientale, sono poi cambiati nel tempo e le ambientazioni che dalla Cina passavano ora in America, ora in Russia, ora in Europa, mostravano sempre di più la maestria tecnica di questo grande 34 atleta attore ed una delle sue caratteristiche cinematografiche è quella di mostrare, alla fine delle riprese, tutti i retroscena preparatori delle azioni tecniche più spettacolari per far capire a noi spettatori che aveva bisogno di alcuna controfigura nemmeno nelle azioni più pericolose, e questo la dice lunga sulla sua preparazione atletica come artista marziale. Prima di parlare di un altro grande personaggio di origine orientale, che fece la sua apparizione da noi in Italia negli anni ‘90, e cioè di Jet Li, è interessante elencare i più importanti personaggi cinematografici che sull’onda dei film di arti marziali, hanno creato il loro successo, come atleti praticanti e come attori di film del genere d’azione. Personaggi non di origine orientale, ma che hanno comunque contribuito moltissimo alla divulgazione nel mondo dell’arte marziale in generale. Citerò i più famosi. Erano i primi anni ‘80 quando fece la sua apparizione un giovane atleta belga, sguardo accattivante e fisico scultoreo, il suo nome è Jean Claude Van Damme, 35 atleticamente molto preparato anche per aver praticato la danza, cosa che lo ha reso particolarmente sciolto di gambe (famose le sue spaccate). Van Damme ha avuto il merito di far conoscere al grande pubblico l’arte marziale thailandese, la Muay Thai (fino ad allora poco rappresentata). Il suo primo film, intitolato “Kick Boxer l’ultimo guerriero” rappresentò molto bene lo spirito di sacrificio e la tenacia dei boxers thailandesi, con allenamenti estenuanti al limite del credibile (come prendere a tibiate una colonna portante o abbattere un giovane albero a calci, si sa al cinema tutto è possibile...). Il film e quelli che seguirono, molto spettacolari e ricchi di combattimenti, contribuirono non solo al suo successo personale, ma anche all’apertura di nuovi corsi di quelle che sarebbero diventate da li a poco le cosiddette discipline da combattimento o da ring; ovviamente ci si riferisce alla Thai Boxe, alla Kick Boxing, al Full Contact, che, anche se erano già conosciute da almeno un decennio, sono senz’ altro stati i film di Van Damme a renderle più attraenti per il pubblico di appassionati. Ecco allora che dai corsi di Karate e Kung Fu, molti giovani atleti, affascinati dai calci di Van Damme, iniziarono a seguire queste nuove discipline, come avvenne per il boom dei ninja tra gli anni ‘80 e ‘90; i film del giovane Michael Dudikoff, che interpretava il guerriero americano ninja biondo e atletico, che conosceva tutti i segreti dell’arte oscura, il Ninjutsu appunto, guerrieri mascherati esperti nel combattimento corpo a corpo e 36 padroni di ogni genere di arma e mimetismo. I film erano sempre su quel genere con l'eroe che vinceva continuamente, ma al pubblico piacevano e quindi anche i corsi di Ninjitsu aumentavano. Un altro grande personaggio che salì alla ribalta in quegli anni, esperto anch'egli di arti marziali è Steven Seagal, che contribuì moltissimo alla diversificazione del combattimento nei film d'azione essendo egli un esperto di Aikido. Nel suo primo film intitolato "Nico", egli interpreta le arti marziali in maniera particolare: se da un lato eravamo abituati a veder rappresentate le arti marziali prima con interminabili combattimenti, poi con fisicità tecniche alla Bruce Lee e in seguito con funamboliche evoluzioni alla Jackie Chan e con spaccate e calci volanti alla Van Damme, questo nuovo personaggio, rappresentava nello spirito un perfetto samurai, ma nell'azione un bullo senza paure che con tecniche di lussazione torsione, proiezione classiche sbaragliava tutti gli e dell'Aikido, avversari. Il successo dei suoi film fu travolgente, merito senz' altro del suo aspetto così carismatico, ma indubbiamente le sue tecniche erano decisamente risolutive. A differenza di quello che è accaduto per altre arti marziali, il successo di Steven Seagal, non ha contribuito all'incremento dei corsi di Aikido, perché se da un lato egli rappresenta quest'arte nel suo fine più estremo, l'Aikido 37 praticato in palestra rimane a tutt'oggi un'arte marziale priva di competizioni e con uno spirito tradizionale che la rende poco competitiva agli occhi del grande pubblico, ma grande nel suo intento che è quello di un'armonia tra corpo e spirito, in unione con l'universo, così come voleva il suo fondatore Sensei Morihei Ueshiba. Jet Li è il personaggio che a tutt'oggi insieme a Jackie rappresenta marziale cinese Chan l'arte per eccellenza. Arrivato sui nostri schermi con una produzione di successo americana, la saga "Arma Letale", egli recitò il ruolo del cattivo che strapazza senza problemi i poveri Mel Gibson e Danny Glover nel quarto episodio della serie. Il nostro eroe, sul circuito intenazionale, aveva già interpretato diversi film di ambientazione orientale, ma in Italia fu con "Arma Letale 4" che suscitò l’interesse di appassionati di arti marziali. Piccolo di statura, come quasi tutti gli orientali, egli diventa un gigante nelle esecuzioni tecniche. Sguardo intenso alla Bruce Lee, fisicità interpretativa alla Jackie Chan, grinta risolutiva alla Steven Seagal, insomma uno di quegli interpreti di arti marziali puri, al 38 quale spesso si vorrebbe assomigliare. I suoi ultimi film spesso ricorrono ad elaborazioni volute dalla computer grafica, per rendere più spettacolari le azioni tecniche, ma sono comunque pellicole con un alto contenuto tecnico e che hanno reso questo personaggio uno dei più attesi interpreti di film sulle arti marziali tuttora in scena. Ma fra tutti i personaggi non orientali, non possiamo dimenticare quello che fu ipoteticamente il capostipite dei futuri artisti marziali in assoluto, Chuck Norris. Come non ricordare il suo famoso combattimento con il compianto Bruce Lee, all'interno del Colosseo di Roma nel film "L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente"? Già campione di Karate in America, fu con quel film che più di trent'anni fa, cominciò la sua carriera di artista marziale. Da allora ha interpretato moltissimi film d'azione, impersonando il super-soldato pronto a tutto della squadra speciale Delta Force; poi l' eroe solitario pronto a salvare i più deboli, fino al recente "Walker Texas Ranger", serie in cui interpreta uno "sceriffo tutto di un pezzo" che combatte i cattivi a colpi di arti marziali sempre più elaborate nonostante non sia più giovanissimo. In questo trentennio cinematografico sono molti altri personaggi sono passati sui nostri schermi, alcuni addirittura veri campioni che magari hanno fatto solamente qualche apparizione, ma 39 elencarli tutti sarebbe impossibile e fuori argomento in questo contesto. Ricordiamo però il giovane figlio del mitico Bruce Lee, aveva tutto per essere una stella, la fisicità tecnica del padre e lo sguardo accattivante di stampo occidentale che resero subito Brandon Lee un personaggio gradevole. Eccellente interprete di Kung Fu e Jeet Kune Do (l’arte del padre), recitò in due film sui generis fino alla sfortunata interpretazione del protagonista del film che avrebbe dovuto consacrarlo sia come attore che come artista marziale: parlo del film “Il Corvo” in cui il nostro eroe in una scena cruciale venne ferito a morte da un colpo di pistola che chiaramente avrebbe dovuto essere caricata a salve. La prematura scomparsa del nostro giovane atleta, così com’era successo al padre vent’anni prima, fece nascere il dubbio di una leggendaria maledizione sulla famiglia di Bruce Lee, ma noi tutti preferiamo credere solo ad una classica fatalità, il loro mito rimarrà comunque per sempre. A proposito di spade invece, in questo trentennio cinematografico l’uso di queste armi è stato ampiamente rappresentato, sia per quanto riguarda lo stile europeo (con duelli per intenderci alla D’Artagnan), sia con pellicole di matrice cinese e giapponese dove l’uso della katana rappresentava un po’ l’essenza del film stesso. 40 Come non ricordare il film "I Sette Samurai" di Akira Kurosawa, con il grande Toshiro Mifune che fece della katana un’arma leggendaria e misteriosa agli occhi di noi occidentali. A metà anni '80 ci fu anche una serie televisiva intitolata "Samurai" che rappresentò benissimo i duelli giapponesi. Il protagonista Itto Ogami, era un Samurai (per la precisione un ronin, ovvero un samurai senza padrone) in continuo peregrinare in compagnia del figlioletto Daigoro. Ambientato nel Giappone medievale, dove le lotte tra clan erano all’ordine del giorno e Itto Ogami nel suo peregrinare, incrocerà spesso le lame contro altri samurai, ma la sua maestria avrà sempre la meglio. Era una serie molto interessante che rappresentava bene il Giappone di quell'era. Cinematograficamente le arti marziali sono ben rappresentate, ormai non c’ è combattimento che non proponga tecniche marziali più o meno verosimili e non sempre gli attori scelti sono dei veri esperti, come nel caso del film “Dragon - La Storia di Bruce Lee” ispirato alla vita del mitico Bruce Lee, dove come protagonista scelsero un vero attore che gli somigliasse fisicamente, con la mimica giusta e buone capacità interpretative. Bastano infatti dei corsi intensivi con uno o più esperti di arti marziali per realizzare un film, è stato così anche per "L’ultimo Samurai", dove il famoso attore interpreta alla perfezione dei combattimenti con la katana da sembrare un autentico samurai. Inoltre, bisogna ricordare che ai giorni nostri con le tecnologie computerizzate che hanno 41 permesso ai film d’azione d’essere sempre più spettacolari, qualsiasi attore può diventare un supereroe od un esperto marzialista. Prendiamo ad esempio il film The Matrix ,in cui l'attore protagonista Keanu Reeves proprio con l’aiuto di due esperti maestri e con la computer grafica, si trasforma in un vero campione di Kung Fu, offrendo tra l’altro una grossa pubblicità a questa antica arte marziale. Come inverosimili ma affascinanti, sono i due ultimi film sul Kung Fu: “La Tigre e il Dragone” e “Hero”. Girati in costume d’epoca, in una Cina antica più mistica e magica del solito, gli attori sono eccellenti atleti, tuttavia le elaborazioni fatte al computer, se da un lato ingigantiscono la spettacolarità dall’altro confondono il vero Kung Fu e il vero atletismo che potremmo ammirare. In quegli stessi anni arrivarono in Italia i cartoni animati giapponesi che mutarono radicalmente l’universo simbolico dell’infanzia italiana dando origine ad una generazione riferirà con Generation”. 42 cui successivamente l’epiteto di ci si “Goldrake Ripercorrendo, sia pure sinteticamente, il dibattito assai eterogeneo che si è svolto in Italia negli ultimi due decenni attorno al fenomeno dei "cartoni animati giapponesi" è necessario dire subito che dal punto di vista educativo è del tutto improduttiva una riflessione che si concentri sulla "pericolosità” in sé dei manga-anime; allo stesso modo in cui risultano del tutto improduttivi tutti i dibattiti che riguardano, ad esempio, la pericolosità o la virtuosità dei videogiochi, ovvero della televisione, o altro. È una riflessione improduttiva essenzialmente per due ragioni: dal punto di vista dell’analisi, si tratta di un problema mal posto, poiché prende in considerazione solo uno tra gli elementi del sistema complessivo, vale a dire il prodotto (o, in altri casi, lo strumento) e non allarga lo sguardo critico alla rete di mediazioni che intercorrono anche tra chi di questo prodotto fruisce e il contesto nel quale tale fruizione avviene; dal punto di vista dei contenuti, si rischia il confronto attorno a contenuti generici e necessariamente "drogati" (in genere, previsioni di foschi scenari e di effetti devastanti provocati dalla fruizione dei cartoni nipponici) che finiscono per crollare miseramente appena sono sottoposti al minimo confronto con la realtà. 43 In effetti, è difficile trovare delle prove che la cosiddetta "Goldrake generation", vale a dire la generazione che vent’anni fa ha assistito alla comparsa dei cartoons nipponici, con Mazinga e Goldrake, abbia avuto una riuscita migliore o peggiore delle precedenti. Per il loro quotidiano lavoro educativo, i genitori non hanno bisogno di questo tipo di dibattito. Al contrario, i genitori hanno bisogno di uscire dal "paradiso artificiale" delle risposte assolute e totalizzanti per potenziarsi, invece, sul terreno del confronto con le specifiche situazioni concrete, dove si richiedono modalità di pensiero maggiormente caratterizzate in senso congetturale, più aperte al confronto con la realtà, all’apporto di altre idee, al dubbio e all’apertura verso le infinite possibilità future. I genitori hanno bisogno di arricchire conoscenze e sviluppare capacità che li aiutino a orientarsi e decidere in un panorama di risorse educative che, negli ultimi anni del secolo trascorso, si è venuto a configurarsi secondo tratti nel tutto nuovi rispetto al passato. In merito a questo nuovo panorama delle risorse educative, faccio soltanto due esempi: 44 la risorsa "socialità", fino a 25/30 anni fa, era una risorsa facilmente accessibile, tale da non richiedere una particolare cura da parte dei genitori: l’esistenza di famiglie estese e numerose assieme alla maggiore sicurezza degli ambienti urbani e rurali offrivano a tutti i bambini ampie possibilità di gioco e di compagnia; al contrario, oggi la risorsa "socialità" è diventata una risorsa scarsa, tale da richiede ai genitori investimenti rilevanti di tempo e spesso anche di denaro per assicurare ai propri figli opportunità di gioco e di compagnia con altri bambini; per altro verso, la risorsa "informazione", intesa nei termini della quantità e della varietà di informazioni disponibili a differenti fini (didattico, ludico, ecc.), un tempo scarsa e di difficile accesso, è oggi facilmente disponibile attraverso canali diversi (tv, internet, libri per età differenziate, cd, dvd e così via). Il problema per i genitori, in questo caso, è quello di orientarsi nel labirinto delle diverse opportunità: selezionare, elaborare, filtrare; in altri termini, lavorare sull’abbondanza, più che sulla scarsità delle risorse. Allora, se riflettiamo sul fenomeno dei cartoni animati giapponesi nell’ottica del nuovo panorama delle risorse educative vediamo che questi, nel loro insieme, presentano tre elementi che si collocano sullo sfondo di tale panorama: 45 la pluralità delle proposte e dei generi: il mondo dei manga si articola non solo per le diverse fasce d’età dei destinatari ma spazia da prodotti che si rifanno alla fantascienza o al racconto sportivo o d’avventura, e così via; emerge perciò la necessità di orientarsi e di cogliere differenze e specificità; il carattere contraddittorio che caratterizza molti dei personaggi protagonisti, che presentano tratti ambigui o dissonanti, inducendo perciò a superare la divisione tranquillizzante tra il buono e il cattivo e a cogliere la conflittualità insita nella gran parte delle situazioni reali; la presenza di contenuti culturali che provengono da culture "altre", rispetto alle radici culturali europee, e che richiedono perciò un lavoro maggiormente mediato di "traduzione" e di comprensione. In altri termini, la riflessione sulle valenze educative dei manga finisce per evidenziare uno specifico campo problematico che in qualche misura riproduce il più ampio scenario di questioni che si trova oggi di fronte ai genitori. Si tratta di uno scenario che, proprio per fatto di caratterizzarsi nei termini del complesso intreccio di relazioni e comunicazioni globali, dell’emersione di inedite ’zone di confine' tra popoli, culture, appartenenze sociali e religiose diverse, della scissione tra l’accesso a nuove opportunità e libertà e i 46 rischi dell’isolamento e dell’emarginazione, impegna ogni genitore ad assumere un ruolo di mediatore, "traduttore/traghettatore" verso contesti, identità culturali e linguaggi diversi. Allora, se le cose stanno così, al di là del gusto personale per cui un certo tipo di prodotto può piacere o meno, di fronte all’esigenza di aprire la nostra cultura agli apporti dell’alterità e confrontarsi con la complessità del contesto sociale sia molto più pericoloso, ad esempio, il riemergere di atteggiamenti culturali xenofobi, se non addirittura razzisti, tali da considerare nemico ciò che non rientra nei parametri dell’eurocentrismo e da semplificare i conflitti nella rassicurante contrapposizione della guerra tra civiltà. Allo stesso modo, è pericoloso qualsiasi atteggiamento che conduce a reclamare misure censorie. E’ più preoccupante parlare di censura: spettacoli inquietanti di film condannati al rogo per offesa alla morale e di docenti denunciati per aver fatto svolgere a scuola ricerche sull’educazione sessuale. Credo che la censura non solo sia un rimedio peggiore del presunto male che vorrebbe contrastare, potenzialmente ma soprattutto mortale per una costituisca cultura un e pericolo un’educazione democratica: come certe droghe o certi farmaci, la censura crea assuefazione, reclama ulteriore censura e finisce per distruggere le potenzialità democratiche di un organismo sociale. 47 Oltretutto, un atteggiamento educativo orientato a richiedere interventi censori è correlato ad una visione distorta del potere e, in particolare, del rapporto tra la percezione del proprio potere di "fare il genitore" e gli altri poteri educativi; una visione e un atteggiamento di contrapposizione che punta a utilizzare il proprio potere per limitare o addirittura annullare il potere e l’influenza altrui. Laddove si impongono giochi a maggiore valenza cooperativa è necessario sviluppare concezioni che mettano in gioco il proprio potere come moltiplicatore del potere degli altri soggetti educativi coinvolti (scuola, educatori, specialisti, ecc.), affinché il potere accresciuto di questi possa a sua volta accrescere le possibilità dei genitori stessi. Non si tratta di una visione ottimistica né moderata; al contrario, è proprio la caduta dei fantasmi e dei bersagli illusori ad avviare la possibilità di uno sguardo che si diriga alla radicalità delle questioni in gioco e delle soluzioni possibili. In conclusione, non è un fatto preoccupante che esistano i cosiddetti cartoni giapponesi; sarebbe più controproducente si presentassero stati di questo genere: mono-mediale, nel quale di fatto i più giovani finiscono per fruire prevalentemente di un solo strumento di comunicazione (in genere, la televisione); 48 mono-tematico, tale cioè da enfatizzare solo una tipologia particolare di contenuti e di generi; mono-stilistico, nel senso di privilegiare un solo codice espressivo; mono-valoriale, riguardo alla proposta dei modelli di bene e di male, di giusto e di ingiusto; monopolistico per quanto concerne l’emittenza dell’informazione e delle proposte culturali ed educative. Un dibattito e un confronto attorno al fenomeno dei manga e in particolare alla loro valenza educativa deve essere produttivo: vale a dire, attorno a rischi e opportunità concrete. Lasciando alle spalle fanatismi e paure. Dalle paure e dalle drammatizzazioni esaltate non è mai nato nulla di buono; da sani atteggiamenti e di presa in carico dei problemi possono emergere idee e progetti comuni. Di seguito sono riportati alcuni dei più famosi cartoni animati che hanno in qualche modo influenzato il mondo dei bambini e non solo. La tematica si ripete. Il supereroe che mediante poteri marziali acquisiti da qualche anziano maestro lotta contro il male per la salvezza dell’umanità. Judo boy (1969): ragazzo esperto di judo che apprende le tecniche dal padre che viene ucciso da un misterioso assassino. Così Sanshiro partirà alla ricerca del colpevole. 49 L’uomo tigre (1982): sconsigliato ai più piccoli per la violenza delle immagini anche se esiste un forte richiamo ai valori universali come la solidarietà agli emarginati, l’amicizia e la lealtà sportiva. Ken Il guerriero (1983): nasce come fumetto manga giapponese ma visto l’enorme successo non tarda la sua realizzazione come cartone, dove il personaggio raggiunge una popolarità mondiale. Molti che praticano le varie arti marziali ammettono di essere stati influenzati non poco da questo personaggio che gli ha trasmesso la passione verso queste discipline. Dragon ball (1984): cartone animato più famoso degli ultimi anni che racconta le avventure del bambino Goku alle prese con rivali di ogni tipo che sconfigge con i suoi magici colpi marziali. Tartarughe ninja (1984): serie fumettistica e cinematografica che ispirata a Daredevil e ai ronin ben presto riscosse una grande notorietà. Narra di 4 tartarughe e 1 topo che per un potente agente mutageno assumono sembianze antropomorfe. Il topo che aveva assistito agli allenamenti di ninjutsu del padrone trasmise ciò che aveva appreso alle tartarughe e il loro compito fu quello di mettere giustizia tra i malviventi. 50 Ninja Naruto (2002): ragazzino di 12 anni, cresciuto senza genitori, tipo allegro combina guai ma con l’obiettivo di diventare il ninja più forte che ci sia. 51 Capitolo Il comune denominatore delle arti marziali è sicuramente l’alto contenuto morale e spirituale. Non vengono caratterizzate solo dall’aspetto pratico ma dalla filosofia e dal modo di vedere la vita. Con la pratica di queste discipline si possono modificare i comportamenti, inibire le paure, affrontare le difficoltà che la 52 quotidianità presenta. La pratica è ispirata e motivata dall’etica marziale che regola la condotta di colui che pratica inserendolo nel mondo come un’entità stabile e matura. Quando si parla di filosofia che circonda le arti marziali parliamo di pensiero ZEN, del concetto del “qui e ora”. Il profondo legame tra Zen e le arti marziali risale al periodo feudale giapponese. Influenze filosofiche e religiose hanno sempre permeato le arti marziali orientali e occidentali. Il continuo confronto con la morte è sempre stato per il guerriero esortazione ad una profonda meditazione. Le arti marziali si sono evolute dapprima come strumento di lotta, di combattimento, quindi l’antico dilemma, vincere o perdere, sconfiggere o venire sconfitto, uccidere o venire ucciso. Una dimensione derivante da un ambiente ostile dov’era necessario assicurarsi la sopravvivenza. Diventa poi forma di educazione sociale, dove gesti ed armi erano usati simbolicamente per esprimere un’idea, evocare una tradizione. Il karate come le altre arti tradizionali alle quali vediamo associati i suffissi DO e JITSU vedono nel perfezionamento della gestualità tecnica e nella ripetizione del gesto un mezzo per scavare profondamente nella propria anima al fine di trovarne la più pura essenza. Lo si vede anche nella ritualizzazione di alcuni movimenti durante il saluto iniziale e finale, la cura dell’abbigliamento, il rispetto, tutti principi che vengono richiesti all’adepto. Disciplina, volontà e sacrificio. Tre principi essenziali. 53 Si può quindi comprendere perchè le arti marziali vengano considerate “vie” : la via della flessibilità (judo), la via della mano vuota (karate-do), la via dell’unione degli spiriti (aikido). L’apprendimento della tecnica non è mai considerata come fine a se stessa ma come un percorso verso l’unione di mente e corpo. Un altro elemento comune è la constatazione che qualunque studio sulla storia delle arti marziali è basato su pochi fatti. I Maestri di un tempo non rivelavano il loro sapere, solo a pochi veniva concesso di dividere con loro tecniche e conoscenze. Vigeva “ l’assoluta segretezza” e la stessa esistenza della scuola era spesso tenuta nascosta alle autorità. Le tecniche di combattimento non venivano quasi mai trascritte ma solo trasmesse a voce a coloro che giuravano di mantenerne il segreto. Per questo motivo è estremamente difficile qualunque ricerca in questo campo. La leggenda di cui più si parla è quella legata alla figura di Bodhidharma, un monaco indiano giunto al tempio shaolin in Cina. Insegnò ai monaci del tempio tecniche di respirazione per sviluppare la forza e le capacità di autodifesa nelle zone montuose in cui vivevano. Da questi esercizi che chiamarono la lotta del tempio shaolin si pensa sicuramente possano discendere le tecniche di combattimento 54 cinesi e giapponesi. Il kung-fu per esempio si ritiene derivi da questa lotta. E’ sufficiente considerare l’attuale popolarità di alcune discipline come il kendo, il karate, l’aikido, il kyudo, il jujitsu e via dicendo per capire quanto siano stati incidenti l’esperienza e il contributo giapponese nella pratica del combattimento che sono tra i più antichi e durevoli mai documentati. Proprio perché le antiche arti marziali si svilupparono direttamente sui luoghi di battaglia e in modo particolare in Giappone. Al giorno d’oggi è il paese dell’Asia con più varietà di arti marziali. Anche da noi in Occidente sono sempre di più le discipline praticate nonostante ben poco si sapesse prima del 20° sec. e nonostante la loro diffusione sia stata molto più lenta rispetto all’Oriente. Sono stati descritti finora gli aspetti più comuni delle arti marziali, le loro radici, le loro tradizioni. Vediamone qualcuna in dettaglio. Possiamo perciò affermare che l’origine delle arti marziali è innegabilmente dovuta ad esigenze pratiche di preparazione, di uomini singoli o eserciti, al combattimento, sia esso armato o disarmato, con l’obiettivo della vittoria sul nemico senza porsi problemi di natura etica o morale. Senza negare quindi il valore umano di alcune personalità che sono esistite negli ambienti militari del passato, in origine la preparazione marziale aveva lo 55 scopo, meramente pratico, di aumentare l’efficienza nel combattere. Questo concetto di arte marziale viene chiamato secondo la terminologia giapponese “bujutsu”. Come si è potuto notare quando si parla di arti marziali il suffisso DO è ricorrente. Il concetto trova origine nel buddismo zen giapponese. Molteplici sono le traduzioni, “via”, la più comune, poi filosofia, sentiero, principio, dottrina, etc…. “DO” è la via al centro della quale l’uomo ricerca se stesso, sviluppa le capacità per affermarsi, conoscere e prendere coscienza. Il “DO” non è un principio strettamente giapponese ma un proposito generale dell’uomo. In tutto l’Universo l’uomo cerca di capire il nesso tra le cose della vita, causa ed effetto, impegnandosi nella ricerca del significato. Senza sforzarsi nella ricerca interiore l’uomo sarà sempre un essere vuoto, senza anima né spirito, simbolo di egoismo e malvagità. La “via” si illumina per quelle persone che cercano la sfida in se stesse come coloro che hanno insegnato la piena realizzazione dello spirito umano attraverso l’amore (Gesù, Buddha, etc..). 56 Eppure la via indicata non viene accettata dalla massa come possibilità da esperire ma solamente come forma da imitare. Quando si ricerca la perfezione ci si può scontrare con due diversi fattori: il primo riguarda il mondo esteriore, il secondo la ricerca interiore. Da qui semplicemente scaturisce la differenza tra budo e attività sportiva delle arti marziali. Esse si dividono quando c’è di mezzo lo scopo dell’esercizio . La prima facilita le decisioni importanti, l’altra si concentra sull’aspetto esteriore del gesto e degli esercizi. E’ il proposito che cambia. Mettendo in pratica il giusto comportamento ci si rende conto della consapevolezza dell’incompletezza delle forme e da qui scaturiscono nuove lotte interiori. Se questa sfida chiaramente assume un aspetto esteriore allora la maturità è inesistente. In Asia il budo è una “via”. Racchiude tutte le vie che derivano dalle arti marziali giapponesi. È composto da vari sistemi ( karate-do, judo, aikido,….)nella cui rappresentazione grafica è sempre presente il suffisso “DO”: Questo significa che la tecnica di combattimento non è lo scopo per chi la pratica ma un mezzo per raggiungere un più alto ideale. 57 Abbiamo accennato prima al bujutsu, quando si parla di budo s’intende un concetto fondamentalmente diverso. Nel periodo in cui nascevano le prime scuole di bujutsu alcuni maestri ebbero l’intuizione che lo studio di queste discipline marziali poteva costituire un addestramento notevole per affrontare le difficoltà della vita quotidiana e che poteva rappresentare un ottimo mezzo educativo per migliorare sia spiritualmente che fisicamente la persona umana nel suo insieme. Da questa intuizione nacque il budo. “BU” indica il principio del fermare, interrompere un’offensiva. “DO”, come abbiamo già spiegato nel paragrafo precedente, sta per via, cammino interiore. Cioè una via che percorsa deve portare al miglioramento del proprio Io, all’accrescimento delle proprie facoltà, per raggiungere l’armonia con se stessi, con gli altri e con l’intero Universo. Questa via nel budo viene percorsa utilizzando il bujutsu come mezzo per studiare, apprendere, assimilare, trasmettere un metodo educativo fondato certamente sula pratica delle arti marziali ma volto a creare condizioni di armonia sia in noi stessi che al di fuori nei confronti del nostro prossimo e della natura che ci circonda. La pratica del budo fa emergere due inclinazioni innate dell’uomo: da una parte l’impeto ad una crescita individuale che nasce dalla presa di coscienza, dall’altra l’esortazione insita 58 nell’essenza dell’uomo all’adeguamento e alla sottomissione della forza della natura. Il seguire la via crea il presupposto interiore per una disposizione che permette di vivere in armonia con entrambi gli aspetti. L’esistenza di questi opposti era già ben nota agli antichi maestri il cui obiettivo era quello di liberarsi dalla fondamentale paura della morte attraverso la pratica delle arti marziali. Per questo trovarono nella filosofia dello zen il tramite per raggiungere lo scopo. Rivolsero la battaglia contro il proprio io invece che contro il nemico perché si accorsero ch uccidendo non si risolveva il problema esistenziale. Questo è il valore del budo anche oggi. La pratica del budo può portare l’uomo all’armonia con se stesso e il mondo. Egli può imparare, nell’esercizio attenzione alle adeguate e prestando regolarità a riconoscere se stesso e realizzarsi come uomo (dan). Se il praticante non accetta queste condizioni e cerca solo la perfezione della forma allora non è ancora pronto per riconoscere la “Via”. Inserisco un aneddoto per rendere bene l’idea di questo concetto. Racconta di un professore universitario che una volta si recò da un maestro zen giapponese per chiedergli chiarimenti appunto su questa filosofia misteriosa. Fin dall’inizio il maestro capì che quel professore non aveva alcun interesse 59 all’apprendimento dello zen: ciò che più gli premeva era dare sfoggio della sua stessa conoscenza e delle sue profonde opinioni. Il maestro lo ascoltò e nel frattempo propose di prendere un tè. Versò il tè al suo ospite e una volta riempita la tazza continuò a versare. Il professore lo osservava sbalordito mentre la tazza iniziava a traboccare e il tè si versava dappertutto. Così alla fine non poté trattenersi e si rivolse al maestro : “LA TAZZA E’ PIENA, NON CI STA PIU’ NULLA!”. Il maestro replicò dicendogli che proprio come quella tazza era già talmente colmo delle sue opinioni e dei suoi concetti che mai avrebbe potuto assimilare lo zen, appunto se non svuotava la tazza. In Asia sono tante le scuole del budo ma tutte hanno lo stesso scopo: insegnano agli uomini a capire i propri nessi interiori ed a perfezionarsi attraverso la pratica. Ogni scuola ha sviluppato la propria tecnica (waza) ed esorta gli uomini a sviluppare il proprio spirito (shin) e la propria forza vitale (ki). Alla fine lo scopo è lo stesso: l’intero essere umano. 60 “…l’Arte Marziale è lo spirito di chi con una semplice lancia può far fronte, in nome della dignità, all’arma più potente, più sofisticata. Questo è lo spirito dell’Arte Marziale e, in definitiva, dell’uomo…” T. Deshimaru La parola giapponese zen deriva dal cinese ch’an e dal sanscrito dyana che significa non solo “meditazione” ma anche “tutto, insieme”. La traduzione occidentale non esprime profondamente il significato del termine che si limita a tradurre con meditazione. Non è facile definire il ruolo dello zen nelle arti marziali perché non ha una sua teoria : è una conoscenza interiore per la quale non esiste un dogma definito con precisione. Alla base dello zen vi è la consapevolezza della precarietà di tutte le cose, il continuo mutare della realtà a cui l’uomo deve adattarsi. Solo il vivere pienamente ogni istante della vita, nel 61 “qui e ora” porta alla vera libertà interiore. Qualsiasi gesto del quotidiano che per noi sembra insignificante per il pensiero zen assume un’importanza estrema perché è vera manifestazione della vita. Lo zen ci insegna che attraverso la piena consapevolezza nel vivere il momento presente si può raggiungere l’illuminazione, il satori. Il Buddhismo zen insegna a svuotare la mente, a liberarla da ogni idea radicata, da ogni influenza esterna. In questo modo si acquisisce un’elevata capacità ricettiva che permette di reagire così al minimo stimolo. Quando la mente è vuota si possono percepire le intenzioni di un avversario e decidere come agire. Si può acquisire il “sesto senso” in grado di avvertire il pericolo ed evitarlo. Se la mente però è turbata da pensieri o preoccupazioni non è possibile percepire totalmente le intenzioni dell’avversario. In passato il continuo confronto con la morte è sempre stato per il guerriero stimolo ad una profonda meditazione che lo ha portato ad elaborare proprie convinzioni religiose e filosofiche. Dai concetti esposti e dall’applicabilità dei principi zen alle esigenze del guerriero appare evidente come proprio la filosofia zen sarebbe diventata l’ideale fondamento delle arti marziali nel paese del Sol Levante. 62 Inoltre quasi conclusione fosse una dell’etica naturale filosofico- religiosa interiorizzata nel corso degli anni dedicati alla pratica spesso molto samurai si ritiravano nei monasteri zen. Il prestare attenzione alla propria gestualità e alle regole di comportamento nella pratica ha come obiettivo ultimo il liberare la mente dalle influenze del mondo esterno e ad addestrarlo ad essere presente con tutto se stesso ad ogni gesto ed in ogni momento. E’ famoso il detto “..ken zen ichin yo..”. il pugno e lo zen sono una cosa sola. Non c’è un secondo per pensare. Quando si agisce l’intenzione e l’azione devono essere simultanee. Il vuoto della mente e il duro allenamento del corpo permettono di raggiungere l’unione di mente e corpo. Tra percezione e reazione non c’è più nessun blocco; il tempo di reazione è il più breve possibile e la tecnica diventa perfetta in quanto eseguita in maniera in conscia, paradossalmente eseguita prima di essere pensata. Infine l’influenza dello zen sposta il proposito delle arti marziali dall’eliminazione dell’avversario, all’autodifesa, alla protezione dei deboli e allo sviluppo spirituale. 63 Un vecchio proverbio giapponese dice: “..fugu kuwanu hito iwaji..”. “E’ impossibile descrivere il gusto del pesce a chi non lo ha mai mangiato”: in ugual modo la vera natura del karate-do non può essere mai e in nessun caso spiegato a parole. E’ difficile stabilire esattamente quando il karate fece la sua prima apparizione in passato. E’ sempre rimasto a lungo un’arte segreta limitata ad una cerchia ristretta della popolazione di Okinawa. Nella storia del regno ci sono due periodi in cui ci fu il veto assoluto dell’utilizzo armi governo. ordinato dal Il primo risale al periodo dei unificati, occupati ognuno a supremazia territorio, Nanzan, dell’intero Hokuzan. Tre delle Regni contendersi la Chuzan, Prevalse il regno di Chuzan guidato dal sovrano Sho Hashi ( 1372-1439) il quale volle subito instaurare un governo non militare. Fu così che emanò un editto con il quale proibì l’uso e il possesso delle armi. Fu così che nei due secoli successivi l’intero regno godette di una pace indisturbata. Nel 1609 fu attaccato dall’esercito degli Shimazu. Principi del feudo di Satsuma che reclamava quelle terre come parte del suo dominio. All’inizio trovarono una buona difesa e una 64 ferrea resistenza ma l’effetto sorpresa giocò a favore degli Shimazu che riuscirono a conquistare Okinawa, l’isola principale delle Ryukyu. Anche sotto il loro dominio le armi furono bandite addirittura estese l’editto fino alle classi nobili. Alcuni storici e studiosi associano la nascita del karate a questo secondo bando visto che gli abitanti in qualche modo dovevano inventarsi qualcosa per sopravvivere. Si pensa anche che alcune tecniche già esistevano e che con questo secondo proibizione abbia perfezionamento di stimolato il tecniche già esistenti. Le isole Ryukyu erano state anche a lungo tributarie della Cina per cui subirono sicuramente l’influenza di alcune loro forme di combattimento: il kempo. Fu così che nacquero i due precursori del karate-do, il to-de e l’okinawa-te. La prima indubbiamente corrisponde a tecniche di combattimento appartenenti alla tradizione cinese del kempo e l’okinawa-te a tecniche di lotta indigene. Le arti marziali in Cina risalgono a circa 6000 anni fa. Essa attraversò secoli turbolenti, caratterizzati da guerre e ostilità tra le varie tribù nomadi. Tutto questo portò all’elaborazione di nuovi stratagemmi e metodi di combattimento per la costante necessità di sopraffare il nemico. 65 Ci furono tre uomini che ordinarono questi vari sistemi di combattimento creando quelle che potrebbero essere le tre scuole primitive delle arti marziali. I loro sistemi furono tramandati e perfezionati dal seguire delle nuove generazioni che le trasformarono nelle tecniche altamente raffinate che conosciamo oggi. Con la nascita di discipline come lo Shaolin. Lo Swang wu, il Tai chi, etc…. Notevole in tutto questo fu l’intervento della figura di Bodhidarma che venuto dall’India si accorse della debolezza sia fisica che spirituale di coloro che lo ascoltavano. Così introdusse i suoi insegnamenti: l’ekikin e il senzui. Senzui significa “..togliere la polvere dalla mente per scoprire la vera luce..”. Ekikin significa “disciplinare e irrobustire “ il corpo perché eki è cambio e kin muscolo.. questa strategia rappresenta la forza originaria dell’addestramento nelle arti marziali. Dopo l’invasione dei Satsuma tutti gli abitanti delle isole occultarono tutte le forme d i combattimento per fare in modo che non entrassero a conoscenza. Era un ‘abitudine non solo volta al karate ma a tutte le arti marziali, addirittura per custodire gelosamente queste forme era anche vietato scrivere dei trattati. 66 E’ proprio questo motivo, l’assenza di testimonianze scritte, che ci impedisce di sapere con precisione da chi fu creato il karate e come fu trasmesso. Tutto è stato tramandato solo oralmente. Chi insegnava karate lo faceva solo per interesse personale e chi lo studiava lo faceva perché gli piaceva. Con questo metodi di trasmissione niente di più facile che un kata insegnato in segretezza venisse poi alterato dall’allievo che l’aveva imparato e così l’avrebbe poi trasmesso e così via via. Perché il suffisso “DO”? “DO” si compone dell’ideogramma del piede che simbolizza l’andare, il camminare. L’ideogramma completo si compone di un cammino, una via tracciata e quindi per estensione il principio a cui occorre attenersi, la regola, la dottrina, e per astrazione la “via”. Per il Maestro Funakoshi il karate-do è la corretta interpretazione del karate e il suo giusto impiego. È il cammino per raggiungere l’illuminazione attraverso la pratica della mano nuda. E’ un percorso per il perfezionamento e l’ automiglioramento della tecnica perché in tal modo si migliora anche se stessi. Il karate-do mira internamente a migliorare la mente. La mente e la tecnica devono divenire una cosa sola nel karatedo, il do, è molto più della tecnica. Il karate praticato solo come sport ha come obiettivo la vittoria nella gara mentre il karate-do quello di vittoria nella vita. 67 La meditazione è il completamento della nostra pratica, è un viaggio interiore verso la consapevolezza di noi stessi che consiste nell’essere estremamente attento al proprio corpo, ad ogni gesto e movimento. La meditazione insieme all’allenamento marziale è la giusta strada da percorrere per praticare il vero karate-do. 68 Capitolo Ogni arte marziale ha un Dojokun. Quello del karate proviene da Okinawa e si avvicina molto ai principi del Comprende budo 5 giapponese. regole la cui comprensione interiorizzata sulla base dell’esercitazione vale quanto l’affinamento della tecnica. Fanno parte del saho, dell’etichetta, non sono principi che ci illuminano la via semplicemente leggendoli oppure enunciandoli ogni qualvolta si inizia una lezione. Non sono paroline magiche da recitare. Il Dojokun non vuole insegnare ma guidare l’uomo nel percorso della sua conoscenza, nello sviluppo globale e spirituale : 69 il rapporto con se stessi il rapporto con il mondo le vie della giusta aspirazione l’etichetta del comportamento la non violenza Qui di seguito li vedremo in modo più approfondito per capirne bene il significato in tutta la sua essenza: RICERCA LA PERFEZIONE DEL TUO CARATTERE Questo principio si riferisce al rapporto che l’uomo ha con se stesso. Tutto ciò non implica solo il corporeo ma al contrario porta l’uomo ad autocriticarsi in ogni azione che ostacolano il perfezionamento di se stesso. Attraverso ciò colui che pratica impara ad affrontare le propria asperità con lo stesso vigore con cui si dedica all’allenamento fisico con il quale impara a superare le difficoltà esterne. Può applicarla in qualsiasi situazione. Può rendersi conto se è in equilibrio con se stesso oppure se è in stato confusionale. Rientrano anche in questa regola la tendenza alla presunzione, all’egoismo, alla sopravvalutazione di se stessi, 70 all’ingiustizia, all’autocommiserazione, ai sentimenti incontrollati e simili. L’allenamento fisico con l’avanzare degli anni conosce necessariamente delle limitazioni, lo spirito invece può continuare a d essere perfezionato fino alla morte. DIFENDI LE VIE DELLE VERITA’ Questa regola si riferisce al rapporto che l’uomo ha con il mondo. Si basa sul fatto che nel cammino verso un obiettivo è necessaria una relazione armonica tra se stessi e le circostanze in quanto non si arriverà a nulla con l’egoismo. Ci deve essere un giusto equilibrio armonico tra interiorità ed esteriorità. Quando si instaurano delle relazioni l’atteggiamento deve essere equilibrato. Se si pretende più di quanto si dà, se si promette tanto mantenendo poco, a quel punto si suscita l’indignazione di colore che si trovano a dover compensare questo equilibrio. Certo è che un tale comportamento non consente un vero scambio di valori con gli altri e quindi nemmeno un rapporto sincero. CURA IL TUO SPIRITO DI AMBIZIONE 71 Questo principio si riferisce alla realizzazione dell’uomo in relazione ai suoi obiettivi personali. Qualsiasi scopo esso si pone di raggiungere necessita di un comportamento maturo per evitare errori. L’ambizione non sempre è un fatto positivo, lo diventa se associata ad una condotta interna matura. La filosofia del budo e non solo insegna che l’ambizione senza responsabilità smentisce sempre la vita. ONORA I PRINCIPI DELL’ETICHETTA Questo precetto ci insegna che vanno rispettate determinate regole comportamentali se si vuole capire gli altri ed essere compresi. Certo è che un individuo che si comporta in modo corretto ispira fiducia negli altri. Dà luogo ad una comunicazione con gli altri comprensibile e contribuisce a mantenere l’armonia nelle relazioni interpersonali. Le persone senza educazione comportamentale perdono di fiducia ed affidabilità. Le buone maniere provvedono alla convivenza pacifica tra gli individui e nelle arti marziali trovano la loro espressione nei principi: 72 …senza cortesia viene meno il valore del karate… …il karate inizia nel rispetto e finisce nel rispetto… Lo stesso Maestro Funakoshi definì la cortesia come la base di ogni educazione e il saluto (rei) come il suo simbolo più importante. Il rei che accompagna ogni gesto nell’esecuzione della forma pone l’uomo a superare ogni egocentrismo intero e gli consente infine di porsi agli altri uomini senza maschere. I praticanti , che oltraggiano il rei in qualche modo, si dimostrano persone immodeste, egoiste e non capaci di adattamento. Il modo con cui il praticante pone il saluto è uno specchio di se stesso. La pratica delle arti marziali richiede che una persona controlli il proprio atteggiamento nei confronti degli altri e osservi le vie del comportamento corretto. RINUNCIA ALLA VIOLENZA Questa regola ammonisce alla rinuncia alla violenza fisica ed al tempo stesso definisce tutte le forme di ricorso alla violenza quali indegne dell’uomo. 73 A livello avanzato nelle arti marziali se i praticanti ormai in grado di arrecare danno impiegano le loro conoscenze come mezzo di potere diventano un pericolo per la società e per gli individui. Su questo si basa la distinzione tra budo e bujutsu. Lo scopo del bujutsu mirava ad istruire a tutte le forme di uccisione mentre il budo all’autocontrollo, alla gestione dei propri istinti: …il karate non attacca mai per primo… Questa massima del Maestro Funakoshi spiega che l’uomo ha la capacità di trovare le vie della non-violenza se affronta le situazioni avendo vinto il proprio io. Una persona istruita dovrebbe essere in grado di valutare le circostanze e di cercare delle soluzioni. Se il risultato è la violenza non si differenzia poi troppo dall’animale. Nella storia delle arti marziali come nel resto dell’umanità vi sono molte testimonianze di grandi sofferenze causate dal ricorso alla violenza. L’esercizio del Dojokun è il mezzo più efficace per sfidare i limiti che sono dentro di sé e metterli in discussione. 74 Come in tutte le discipline così come nel karate è noto che la coltura delle abilità del corpo necessità di una pedagogia specifica per quanto riguarda l’insegnamento e di una differenziazione operativa idonea per quanto riguarda l’allenamento vero e proprio. Come sappiamo è anche vero che scindere è difficile per cui si rende indispensabile una scelta oculata di tempi allo sviluppo armonico, efficace e non traumatico del praticante. A tal riguardo anche nel karate vige la necessità di stabilire ruoli e competenze precise per il buon rendimento della scuola. Per la preparazione di un buon karateka concorrono diversi fattori. Da una buona conoscenza fisica del proprio corpo ad una fase preparatoria psicofisica per ottenere in modo organizzativo una completa e specifica coltura della disciplina prescelta. Diversi sono gli elementi da considerare in qualunque disciplina sportiva. Un fattore basilarmente discriminante è l’età per quanto concerne il metodo di insegnamento e di intervento sul soggetto praticante. Un problema che si presenta il più delle volte è infatti di cercare di creare gruppi omogenei, proprio perché i meccanismi naturali dello sviluppo organico, bio-fisiologico e neuro-psichico si presentano differenziati rispetto all’età cronologica nei vari 75 soggetti. E’ evidente anche che la struttura psico-fisica del bambino, che è in fase di formazione, richiede più attenzioni. Quindi essendo la pratica del karate un’attività che interessa tutta l’area corporea ed in toto l’integralità mente-corpo, se ben impostata, può rivelarsi per il bambino estremamente benefica. La corretta attività motoria conduce ad un sano ed intonato sviluppo della gestualità corporea, favorendo nel contempo l’equilibrio della personalità intera in relazione con il mondo. Altrimenti la pratica del karate può presentarsi del tutto controproducente se condotta in modo inadeguato fino a causare danni spesso irreparabili nel tempo. Ciò comporta grandi responsabilità da parte degli insegnanti. Una pratica sana di tale disciplina può mostrarsi come ottima terapia per la rieducazione del corpo e del carattere. Un’altra componente è il lavoro di gruppo. La sociologia moderna tende a promuovere lavori di gruppi misti senza alcuna discriminazione favorendo la compartecipazione di maschi e femmine alle varie attività consapevole tuttavia che gli individui appartenenti ai due diversi sessi appaiono per natura diversamente strutturati sotto il profilo fisico. Non s’intende fare una selezione ma ovvio che questa diversità comporta un approccio differente e un rapporto diverso con l’attività stessa. Per quanto riguarda il karate nello specifico ci si pone la domanda 76 di come potere amalgamare femminilità e arte da combattimento e quindi come plasmare una personalità femminile attraverso una tale disciplina. E’ opinione di molti studiosi che il karate sia emozionalmente più difficile per le donne rispetto agli uomini, in quanto esse avrebbero una percezione riguardante la loro vulnerabilità e il controllo di sé diverse; a ciò va aggiunta la motivazione culturale appunto per cui la donna che combatte può essere ancora in realtà poco concepibile. Oltre a questo si pone il problema della struttura muscolare La pratica del karate conduce alla costruzione di una struttura muscolare idonea per poter raggiungere l’efficacia della tecnica legate alla forza e alla potenza. Risulta normale che la struttura femminile trovi maggiore difficoltà del soggetto maschile nello sviluppo della forza. Quindi l’obiettivo non sarà quello di trasformare la donna in un guerriero a discapito della sua eleganza e grazia ma sfruttare queste componenti affinché la pratica del karate sia intesa anche come arte. Quando c’è armonia nel rapporto del praticante con l’ambiente e con il gruppo la pratica risulta essere più sana e proficua. Ne karate sorge il problema di differenziazione dei corsi e dei gruppi oltre che la distinzione tra principianti ed esperti. Concorrono tanti fattori da considerare: 77 1. Età 2. Anzianità di esperienza (kyu e dan) 3. Obiettivi (agonismo o pratica amatoriale) 4. Orari di attività C’è da dire che il lavoro in gruppi diversificati è più stimolante sia per i più esperti che per i meno esperti. Questi ultimi saranno incoraggiati a recepire nuove informazioni che gli “anziani” saranno in grado a loro volta di insegnare. Questo si manifesta soprattutto in occasioni di stage particolari dove spesso buona parte dell’allenamento viene svolto tutti insieme. Da questo ognuno, a seconda del proprio livello, porterà a casa nuovi elementi per il suo bagaglio di conoscenza. Un altro aspetto pedagogico da tener conto quando insegniamo è l’aspetto dell’esperienza pregressa, cioè individuare i pre-requisiti dei singoli per andare a costruire un piano di lavoro che consenta di raggiungere l’obiettivo senza danneggiare. Chiaramente maggiore attenzione va rivolta a coloro che si avvicinano per la prima volta ad una determinata attività sportiva, che sia bambino, ragazzo , adulto, maschio o femmina. Nel caso della pratica del karate bisogna anche valutare l’aspetto psico-sociologico dell’attività perché nonostante sia da tempo diffusa come disciplina mantiene sempre quel pizzico di insolito e strano capace di generare imbarazzo e diffidenza. 78 Anche analizzare gli obiettivi e le finalità per cui le persone si avvicinano ad una determinata attività è di fondamentale importanza. Può essere semplicemente per puro passatempo, per mantenersi in forma oppure per ottenere dei risultati nell’ambito della competizione, motivazione che coinvolge prettamente la fascia giovanile. Tuttavia nel caso del karate ci sono individui che iniziano non tanto per la pratica agonistica o per raggiungere chissà quali scopi ma anche per acquisire più sicurezza, per vincere delle paure. Rivolgendoci ai bambini tutto questo si traduce in un momento ludico oltre che una preziosa educazione e formazione della personalità che va al di là dello sviluppo puramente fisico e motorio del soggetto. Spesso è vero che la scelta è fatta dai genitori per impiegare in modo sano il tempo libero dei figli interpretando però arbitrariamente i gusti e le inclinazioni dei figli. Al fine di una piena realizzazione degli obiettivi componenti importanti lo diventano lo “spazio” e il “tempo”, avere strutture dove poter eseguire un sano lavoro di preparazione che non limiti il progetto di allenamento. 79 Per quanto riguarda il tempo siamo consapevoli tutti della frenesia della vita sociale in cui viviamo, così chi vuole ottenere dei risultati deve dedicarvisi a tempo pieno passando al professionismo. E qui sappiamo che si perdoni i canoni tradizionali e l’atleta diventa una macchina biologica da strutturare a pieno regime finché “va forte”. Tutto ciò è diseducativo e antisportivo poiché compromette quelli che sono i reali obiettivi di una sana attività fisica. Dal punto di vista pedagogico bisogna considerare anche le disponibilità e le predisposizioni del praticante. Sarebbe controproducente insistere sulle prestazioni di un atleta non sufficientemente disposto per trasformarlo in un campione a tutti i costi. Come accennavamo prima un buon tecnico deve analizzare i pre-requisiti di ogni singolo individuo per poter adattare ad ognuno un tipo di allenamento. E’ evidente che se le predisposizioni sono naturali queste si rivelano importantissime per il raggiungimento di risultati soddisfacenti. Si dovrà magari andare a stimolare aspetti latenti o non chiari nei confronti di chi per la prima volta si accosta alla praticata di una determinata disciplina. Per ottenere la fiducia e la disponibilità dell’atleta il tecnico dovrà far leva sulle motivazioni e dimostrare professionalità, molta accortezza e trasparente realismo. 80 grande La disciplina del karate rispetto ad altre attività consuete presenta la problematica di adattare la mentalità occidentale alla pratica di un’arte antica come quella orientale. Per poter risolvere questo problema basterebbe intendere, praticare il karate come disciplina (aspetto educativo-formativo), come arte ( aspetto estetico-formativo della gestualità nell’equilibrato rapporto corpo-mente), come sport (aspetto ludico e agonistico-competitivo), come autodifesa ( aspetto psicologico) e in ultimo come anticamente concepito cioè come karate-do, vale a dire come via come inteso secondo il budo. Non che il karate possa miracolosamente superare tutti i limiti fisici dell’individuo ma certo è che praticato saggiamente possa ottimizzare prestazioni personali in senso multi direzionale, promuovendo così delle abilità in grado di svilupparsi e supplendo con tali abilità alle carenze costituzionali di origine. In qualsiasi modo lo si voglia intendere , come pura e semplice arte marziale, sia come mezzo di difesa, sia come attività sportiva, sia come realizzazione del DO, l’importante è l’aspetto educativo-formativo. Bisognerà essere capaci di applicare tutti quei corretti criteri scientifici orientati al miglioramento psicofisico dell’allievo affinché la pratica non risulti lesiva per nessuno ed in nessun modo. 81 Nel karate anche il rapporto maestro-allievo assume aspetti particolari permanendo ancora l’influenza della matrice orientale: dove per maestro non s’intende una figura di un comune insegnante. Si propone anche in questo contesto l’importanza del rapporto maestro-allievo che è il collante dell’aspetto pedagogico. Trasmettere conoscenza non significava parlare di concetti generali a gruppi di allievi più o meno numerosi bensì transfondere individuo per individuo la singolarità, la virtù (i shin den shin). Il maestro lo trasmetteva ad un allievo (sho-deshi) come se dopo la sua morte il suo spirito avrebbe vissuto nel suo corpo. Dalla prospettiva orientale tutto ciò conferisce alla figura del maestro un aspetto carismatico. Osservandola dalla prospettiva occidentale potrebbe condurre alla fanatizzazione ed esaltazione eccessiva di un immagine. E’ vero anche che l’eliminazione di tale carisma svuoterebbe il maestro della sua autorità e quindi si cadrebbe nella mancanza di rispetto da parte degli allievi. Questo conduce inevitabilmente alla negazione delle sue qualità di insegnante e di conseguenza al disconoscimento dei valori della disciplina da lui trasmessi. Così, l’esperienza ci insegna, il praticante non è più allievo ma diventa fruitore di un servizio a pagamento e gli dà il diritto di pensare: “pago quindi faccio ciò che mi pare”. Un atteggiamento così distaccato dall’insegnante favorisce la dissoluzione e perde sensibilmente quella valenza formativa, quella carica umana, indispensabili al 82 raggiungimento di traguardi educativi. In tal caso l’insegnamento verrebbe ridotto alla pura e semplice “vendita di competenze” o “ richiesta d’istruzione a pagamento”. Si andrebbe ad usufruire soltanto della freddezza di un tipo di apprendimento esclusiva mento tecnico. Ma non è quello per cui il maestro percorre la sua strada, irta di sacrifici e sofferenze, e se obbligato a fare ciò per circostanza lui sa in cuor suo che non sta trasmettendo nessuna via e questo è causa di ulteriore sofferenza. …solo quando diventerà maestro a sua volta l’allievo si renderà conto della solitudine e della disperazione che caratterizzano la lotta che il maestro conduce contro l’enorme forza dell’inerzia umana… Il compito di insegnare è estremamente delicato: implica competenze specifiche e non può essere in alcun modo affidato a chi manca della dovuta preparazione. Lo stesso Gichin Funakoshi era un uomo colto, professore di letteratura ed insegnante per scelta di vita. E proprio grazie alle sue competenze pedagogiche è riuscito a coinvolgere il ministro giapponese della pubblica istruzione affinché il karate fosse inserito ufficialmente nelle scuole come materia d’insegnamento. E così come lui altri personaggi a cui è stato affidato il compito di 83 diffusione del karate nel mondo : Shirai Hiroshi, Tokitsu Kenji, etc.., tutti degni di vantare un alto grado di istruzione. Secondo una visione moderna della pedagogia ogni insegnante deve rivestire tutte le dovute caratteristiche per poter perseguire validi risultati educativi e formativi. Questo principio vale in generale nel campo dell’educazione fisica, nell’ambito del karate quando passa da arte marziale a disciplina sportiva. Ciò che caratterizza la robustezza interiore riguarda anche la robustezza fisica. Si è già ribadito più volte che sia dal punto di vista filosofico dell’Oriente antico sia dal punto di vista scientifico dell’Occidente moderno soma e psiche sono due aspetti inscindibili e complementari. Per queste motivazioni oggi da un tecnico che insegna karate ci si aspetta competenza e professionalità affinché i suoi risultati si mostrino di alta qualità sotto tutti i diversi profili. L’allievo nelle mani di un maestro diviene un soggetto che assimila. Oggi l’apprendimento non intende solo l’aspetto cognitivo ma si parla di risultato formativo derivante da un’esperienza articolata. In campo fisico non è più concepibile un lavoro di tipo militaresco che tiene conto solo ed unicamente dell’abilità ripetitiva e 84 meccanica dell’addestramento (drill) ma si preferirà mirare a tutti quei risultati ottenibili da una pianificazione ragionata di ciò che oggi viene definito “apprendimento motorio intelligente” (A.M.I.) Con questi requisiti l’apprendimento diventa più significativo in quanto coinvolge l’individuo nella sua interezza scaturendo così una “scoperta personale attiva”. A volte un certo tipo di allenamento militaresco potrebbe conservare le sue ragioni d’esistere quando non fosse possibile andare troppo per il sottile con alcuni soggetti. Bisogna sempre tener conto degli obiettivi prefissati, dell’utenza che ci troviamo ad allenare oppure a volte in caso di emergenza dove la situazione lo richiede una provvisoria forma di autoritarismo. In ogni caso una scuola di karate-do non deve per nulla assomigliare ad un campo di addestramento militare. Infatti c’è un enorme differenza tra l’addestramento acefalo militare del soldato e la formazione ascetica marziale del guerriero. Un buon tecnico dovrà fare in modo di scaturire nell’allievo il desiderio di apprendere con impegno ma dovrà stare attento che tale fiducia non divenga cieca generando forme di deleterio fanatismo. Solitamente un buon maestro non esalta mai la propria personalità. Come forse già scritto per altri aspetti l’insegnamento del karate richiede attenzioni molto particolari quando tale disciplina viene 85 praticata da soggetti appartenenti alle fasce di età più basse, dai bambini al di sotto dei 10 anni il cui organismo si trova ancora in stato di crescita. L’apprendimento dei bambini è prettamente imitativo, chiaramente esso è focalizzato sulla forma della tecnica non certo sull’efficacia e sulla potenza. Infatti le capacità di forza nel bambino non sono e assolutamente non devono essere sviluppate quanto quelle dell’adulto che possiede già una struttura osteomuscolare già confermata. Tutti gli eccessivi allenamenti rivolti allo sviluppo della forza sono estremamente negativi mentre positive sono le stimolazioni all’allenamento aerobico per lo sviluppo della resistenza alattacida. Soprattutto nell’età scolare l’insegnamento del karate diviene un po’ come l’arte di presentarlo come gioco, serio ed impegnativo, ma divertente e gratificante per chi lo pratica, sia esso allievo o maestro. Oggi il karate non solo sta assumendo le caratteristiche di una disciplina educativa sempre più adatta anche alla mentalità occidentale ma si pone ormai come vera e propria materia all’interno del sistema scolastico come alternativa alla lezione di educazione fisica. Un insegnante di karate deve essere anche un buon tecnico della comunicazione. Deve saper creare interesse e consapevolezza sui meccanismi che motivano all’azione. Deve improvvisarsi psicologo in grado di far scattare in ognuno dei suoi allievi la molla che li 86 motivi automaticamente a continuare a praticare karate. Infatti il miglior successo di un buon tecnico non è tanto quello di creare un campione ma quello di essere riuscito appunto a rendere consapevole e autonoma la motivazione a seguire la pratica. Ci si augura quindi che il karate nel nuovo spirito del do possa decisamente proporsi come vero strumento educativo-formativo. Le parole giapponesi senpai e kohai sono costituite dai kanji: sen che significa prima o davanti ko che significa dopo o dietro hai che significa collega o compagno Il loro significato letterale sarà quindi: senpai = anziano, superiore kohai = giovane, inferiore la relazione senpai-kohai è quindi legata ai rapporti che intercorrono tra persone di diverse età, esperienza, posizione sociale o potere. Senpai è una persona che procede o guida e implica che coloro che lo seguono, i kohai, siano i suoi compagni nella stessa attività. 87 “…uno che guida e altri che seguono percorrendo la stessa strada…” In Giappone un senpai è un uomo di esperienza che guida un uomo più giovane appunto chiamato kohai. Per comprendere meglio il valore del rapporto senpai-kohai è necessario approfondire solo alcuni aspetti della società giapponese che ancora ad oggi ha mantenuto vive le tradizioni e i valori del passato. Sia l’aspetto geografico che il suo isolamento sono elementi che hanno influito sullo sviluppo della cultura giapponese. Costretta a vivere in spazi limitati nonostante una popolazione numerosa si è evoluta esaltando l’ordine, la gerarchia, l’unità e la legalità. Il giapponese considera l’autorità necessaria alla sopravvivenza della società e l’obbedienza all’autorità una forma di collaborazione e non di costrizione. Il benessere del gruppo è molto più importante di quello del singolo. 88 La giusta attitudine del samurai verso la gente comune era quella di interessarsene proteggerla, e come un padre fa verso i suoi figli. Vediamo allora concetti della alcuni cultura giapponese, la gerarchia, l’etichetta, la famiglia, strettamente rapporto legati al senpai-kohai per poterci avvicinare il più possibile alla comprensione. Il Giappone nonostante la sua modernizzazione rimane comunque una società gerarchica legata alle sue antiche tradizioni che sono vive e che condizionano il presente. Tradizione e modernizzazione non sono in contrasto tra loro ma al contrario coesistono rafforzandosi l’uno con l’altra. La studiosa Nakane Chie nel trattato “La società giapponese” ci spiega che la gerarchia del Giappone moderno ha una struttura secondo una stratificazione “verticale” in base alle istituzioni piuttosto che “orizzontale” in base alle classi. 89 L’individuo giapponese non ha uno status individuale ma la sua identità è determinata esclusivamente dal ruolo che assume in una particolare istituzione. Il fine ultimo della gerarchia giapponese è la costituzione del gruppo che può essere di lavoro, di studio o anche familiare. Questo ci fa intendere che l’individuo giapponese tende nelle presentazioni a specificare l’azienda, la scuola o la famiglia quindi il gruppo a cui appartiene prima di ogni cosa mentre noi occidentali dichiariamo immediatamente il mestiere o la qualifica. E’ vero che l’individualità non viene incentivata ma esiste una sensibilità collettiva che dà l’impressione di avere a che fare con una sorta di “persona multipla”. La gerarchia non vuole proclamare la supremazia di un individuo sugli altri ma di stabilire compiti all’interno del gruppo in cui il valore dominante è l’armonia, che si manifesta nella gratitudine e lealtà del capo nei confronti dei suoi subordinati. La relazione senpai-kohai racchiude questi valori e rappresenta un modello di comportamento presente ad ogni livello nella società giapponese. In Occidente le differenze di età e di stato non influenzano i rapporti tra le persone come avviene in Giappone. I giovani e gli anziani possono avere un rapporto paritetico ovviamente nei limiti dell’educazione e del rispetto. In Giappone invece il loro comportamento è molto influenzato dalla consapevolezza del livello del grado di ogni persona del gruppo in accordo con l’età e 90 lo stato sociale. Differenza anche che coinvolge anche la forma linguistica (keigo)che va utilizzata con il più anziano. “…il rispetto degli anziani è un obbligo sociale che non può essere trascurato…” Niente può descrivere meglio questo aspetto della tradizione e della natura gerarchica della società giapponese che la parola senpai. L’atteggiamento verso il proprio senpai è caratterizzato da formalismo, obbedienza e fiducia. Il rapporto tra kohai e il loro senpai segue quindi le regole rigide imposte dall’etichetta. L’intera struttura della nazione è fondata sulla stessa concezione paternalistica che caratterizza il modella della famiglia giapponese. La famiglia è il pilastro della società giapponese in quanto propone i valori culturali, le tradizioni e il pensiero giapponese. A differenza del mondo occidentale in cui è dato maggior risalto all’indipendenza personale, gli ideali della famiglia giapponese sono continuità ed interdipendenza. I bambini sono molto amati e viziati mentre i nonni di solito occupano un posto speciale e godono di grande considerazione. Quindi l’inizio e la fine della vita sono considerati vicino al mondo spirituale e quindi degni di un rispetto maggiore. Qui la relazione senpai-kohai assume profonde analogie con la relazione esistente 91 all’interno della famiglia tra i genitori e i figli o tra il fratello maggiore e quelli più giovani. Anche nell’ambito scolastico il rapporto senpai-kohai è molto evidenziato. I kohai sono addestrati come soldati a servire il loro senpai. A prima vista sembrerebbe un rapporto ingiusto ma esso è basato sulla fiducia e sulla comprensione, sentimenti fondamentali nella cultura giapponese. I kohai rispettano e sono obbedienti al loro senpai ma questi devono dimostrare riguardo e gentilezza ai loro kohai. Il senpai una volta diplomato è introdotto nel mondo del lavoro e non dimenticherà mai i suoi kohai ma al contrario presenterà le loro candidature all’interno della compagnia in cui lavora. Questo ci fa intuire quanto sia spirituale ed emozionale il rapporto tra kohai e senpai. Come nella famiglia c’è una gerarchia naturale così anche nel budo: maestro e allievo, senpai e kohai, gradi avanzati e principianti, e tutte queste relazioni devono agire in modo congiunto, per presentare l’ordine e l’armonia del gruppo. Per un giapponese che pratica in un dojo non è difficile adeguarsi a queste norme, non deve far altro che ripetere le regole di comportamento che già applica sotto altra forma nella vita sociale. Per noi occidentali lo scontro con questa etichetta è evidente perché mal si coniuga con l’informalità che caratterizza i nostri rapporti quotidiani. 92 Questa relazione tra senpai-kohai così diffusa e naturale nella società giapponese è per l’occidentale nonostante pratichi un’arte marziale di difficile comprensione. Anche se dopo anni di pratica si entra in questo meccanismo perché la ricerca della via implica anche il seguire un maestro che ce la indichi e in cui avere fiducia. Il rispetto verso il senpai non deve essere provocato, il kohai deve avere desiderio naturale di rispettare il senpai. Elenco qui alcune regole generali, tratte da fonti autorevoli e mediate sulla base della mia esperienza, che dovrebbero essere applicate nel Dojo, al fine consentire ai tutti i praticanti di percorrere insieme la Via. 1. Quando un allievo inizia a praticare in Dojo, coloro che già praticano sono i suoi Senpai. Quelli che verranno dopo di lui saranno i suoi Kohai. E così rimarrà indipendentemente dal grado, età o esperienza. Dal momento che ognuno ha una relazione con quelli sopra o sotto di lui, questo sistema fa in modo che le cose si svolgano in modo ordinato. 93 2. Prima ancora di far entrare il principiante nel Dojo, occorre spiegargli come portare il Keikogi, come comportarsi entrando ed uscendo dal Dojo, come salutare l’insegnante e i suoi compagni. Questa è il modo migliore per riuscire ad inserire i nuovi arrivati nell’ambiente. Una buona accoglienza permetterà loro di sentirsi meno spaesati e saranno ben disposti a percepire la natura e il senso dell’Aikido. 3. Gli anziani devono preoccuparsi di non lasciare un principiante isolato, senza compagno, al bordo del tatami. Anche se la pratica con un compagno di pari livello dà maggiore soddisfazione, è indispensabile prodigarsi, affinché il principiante non si senta trascurato e venga preservata l’armonia fra i praticanti. 4. L’anziano ha il dovere, verso il Sensei e il Dojo, di far crescere il giovane di livello e di accudirlo come un fratello maggiore fa verso il minore, senza distinzione di sesso. 94 5. Il giovane ha un certo debito che egli deve ai propri anziani in virtù della loro buona volontà di trasmettere quello che hanno imparato. Il debito di gratitudine, concetto radicato nella cultura Giapponese e quasi incomprensibile per un occidentale, ha in questo contesto la sua applicazione. Nell’essere un anziano, nell’aiutare, nello stimolare quando si è pigri, nell’agire come un consigliere, allenatore e confidente, il Senpai si assume una grande responsabilità. Il Kohai che è stato ben addestrato e curato dal suo Senpai diventa un Onjin, una persona in obbligo di riconoscenza, e, come dice un vecchio adagio giapponese: “…vita e morte sono leggere come una piuma, ma l’obbligo è pesante come una montagna…” 6. E’ responsabilità degli anziani riversare gli insegnamenti del Sensei ai giovani ed aiutarli ogni volta che è possibile. Spesso l’insegnamento non è così formale come quello del Sensei, ma deve essere portato come esempio. Proprio come ogni Sensei ha il suo metodo personale per trasferire il suo stile, ogni allievo anziano inconsciamente sviluppa un suo metodo per aiutare il 95 Sensei nell’insegnamento e questi metodi diventano come una sorta di sotto-stili del Dojo. 7. Quando nel proprio Dojo viene in visita il praticante di un altro Dojo, egli può avere qualcosa da insegnare lui stesso o può avere qualcosa da ricevere in funzione di dove si posiziona nel rapporto SenpaiKohai. Per dovere di ospitalità e per far sentire il visitatore parte del gruppo, dovrebbero essere i più anziani del Dojo i primi a praticare con lui. 8. Se sei un principiante nelle arti marziali ricordalo e ascolta attentamente i consigli dei tuoi Senpai. La loro esperienza è dura da conquistare. 9. Se sei un allievo più avanzato, ricorda che l’allenamento è solo una parte delle tue funzioni nel Dojo. Ci sono dei Kohai, che hanno bisogno della tua guida ed è compito tuo fornire un buon esempio. 96 10. Nel Dojo si deve stabilire una bella atmosfera senza che ci sia bisogno di intervenire. Per ottenere questo risultato è indispensabile che ciascuno conosca e metta in pratica le basi del comportamento. La buona formazione dell’atleta e dunque del karateka implica certamente un elaborato lavoro di costruzione psico-fisica al fine di migliorare quanto più possibile le prestazioni. Vista come disciplina sportiva resta inteso che la preparazione atletica di base è fondamentale e tale obiettivo va perseguito utilizzando tutti i mezzi disponibili. Certo senza trascurare l’azione psicologica visto che è un’attività che coinvolge molto la mente. Un buon apporto psicologico con l’allenamento pone sicuramente delle basi solide per il raggiungimento di obiettivi ottimali. Ci si allontana da quello che è il karate come ricerca interiore del do e si ricerca la massima espressione della forma della che tecnica e consentano risultati soddisfacenti in campo agonistico. 97 La pratica di qualsiasi disciplina sportiva dovrà risultare almeno piacevole, stimolante e gratificante sotto ogni punto di vista. Alternare ed integrare i tipi di allenamento, variando l’obiettivo finale comporta una miglior risposta reattiva psico-fisica del soggetto nei confronti della pratica. Bisognerà studiare piani di allenamento adeguati per evitare traumi fisici o blocchi psicologici magari per la fretta di formare un campione. Non bisogna mai cadere nella monotonia dell’allenamento con ripetizioni esausti vedi allenamenti monotipici e martellanti esercitazioni tecniche. Pertanto i criteri fondamentali da seguire per lo sviluppo di un allenamento produttivo, efficace, non traumatico e controproducente, saranno i seguenti: continuità dell’allenamento, proprio per evitare affaticamenti e traumi da ripresa nel tentativo di recuperare velocemente varietà dell’allenamento, per non provocare stanchezza psicologica e affaticamento fisico per il continuo ripetersi di esercizi e tecniche sempre uguali gradualità dell’allenamento, lo sviluppo del carico di allenamento deve avvenire gradualmente specialmente all’inizio della preparazione idonea alternanza tra fasi di lavoro e fasi di riposo, far lavorare alternativamente distretti muscolari differenti facendo in modo che quando gli uni lavorano gli altri riposano. accurata registrazione dei dati di allenamento 98 Bisognerebbe sempre tener conto degli sviluppi dell’allenamento e l’evoluzione dei suoi effetti sul soggetto praticante. Esercizio di carattere generale, speciale di gara. Per quanto riguarda il karate essendoci anche il kumite, per allenarlo si propongono incontri di allenamento che possono rispecchiare in pieno le stesse modalità di una vera competizione. Per le competizioni di kata si useranno altre metodologie idonee tenendo di mira le conoscenze bio-meccaniche. Ricordiamoci anche che per le fasce più giovani il karate diviene valido strumento formativo in termini di educazione motoria, espressione ludica e attività ricreativa. Vediamone alcuni aspetti positivi che si possono sviluppare: riconoscimento del corpo attraverso l’espressione verbale e ludica, tramite giochi controllo dell’orientamento spazio-temporale e della coordinazione dinamica generale esplorazione dello spazio in condizione statica e dinamica presa di coscienza della simmetria del corpo esercizi più o meno impegnativi studiati per il controllo dell’equilibrio attività di controllo e di conoscenza del proprio respiro uso consapevole della propria destra e sinistra giochi prestabiliti di ruolo per interiorizzare le regole 99 rilassamento e concentrazione sul respiro (il mokuso diviene gioco della mente) Sono stati presi in considerazione diversi concetti di infatti di educazione molto valore, si socializzazione, e cultura. è parlato formazione, Problematiche dei tempi moderni. Ma si è parlato anche di budo, filosofia zen, etichetta. Questo può arti far rendere l’idea marziali, giustamente di come le adattate ai tempi, alla civiltà, alla nuova concezione sportiva, praticate nel modo corretto, possano essere una valida guida anche nella vita quotidiana di tutti i giorni. E di come, nonostante l’evoluzione dei tempi, la tradizione sia rimasta ben radicata. 100 È il praticante stesso che deve recepire tutto questo dentro di sé e non limitarsi all’ esteriorità della tecnica. E’ fondamentale non disperdere l’insegnamento dei maestri quando dicevano che non vi è limite alla ricerca, non esiste termine alla comprensione, la meta è solo dentro di noi, nel più profondo. Bisogna svuotare la mente non l’anima. Bibliografia 101 Davi M. Sedioli G., Il karate nell'età evolutiva, Società Stampa Sportiva Roma Deshimaru T., Lo zen e le arti marziali, SE Funakoshi G., Karate Do Nyumon, Ed. Mediterranee Funakoshi G., Karate Do. Il mio stile di vita, Ed. Mediterannee Lind W., Budo. La via delle arti marziali, Ed. Mediterannee Nakane C., La società giapponese, Raffaello Cortina Editore Porro N., Lineamenti di sociologia dello sport, Carocci Ratti O. Westbrook A., I segreti dei samurai, Ed. Mediterannee Tokitsu K., Storia del karate, Luni Editrice Topino V., Invernizzi P.L., Eid L, Karate giocando, Ed Carabà Nigi, Imparare ed insegnare karate oggi, Centro programmazione editoriale Massa, Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Editori Laterza Sun-tzu, L’arte della guerra, Bur Hyams, Lo zen e le arti marziali, Ed.Il punto d’incontro 102
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