pagina 1 - Fausto Biloslavo
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IL FOGLIO Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XII NUMERO 20 Rcs, Beirut Sul Corriere un vicedirettore attacca un azionista influente La guerra del 2005 non è finita Milano. Le tensioni intorno al Corriere della Sera sono molto forti. Ieri con un articolo che partiva dal centro della prima pagina del quotidiano, il vicedirettore ad personam Massimo Mucchetti è intervenuto per commentare la lettera di Marco Tronchetti Provera pubblicata sulla Stampa di domenica. Materia del contendere, lo spionaggio informatico a cui Mucchetti fu sottoposto da parte di uomini collegati alla sicurezza della Telecom – vicenda oggetto di un pamphlet del giornalista – e la protesta di estraneità di Tronchetti. La tesi di Mucchetti è che lo spionaggio aveva un obiettivo: provare che Rosalba Casiraghi, analista della società Miraquota, che collabora da molti anni con Mucchetti svolgeva il ruolo di fonte riservata sul dossier Telecom, in quanto sindaco della società telefonica. Straordinari il contesto e lo sfondo in cui si consuma la vicen- TRONCHETTI PROVERA da. Un vicedirettore del Corriere propone alla direzione e scrive sul suo giornale un articolo che attacca duramente uno dei più influenti azionisti. La redazione, al netto di alcuni fisiologici interessi di squadra, assiste vociferando. Il cdr fa sapere che domani incontrerà azienda e direzione; per il momento prende atto del fatto che non ci sono censure ed esprime soddisfazione per il clima plurale di voci che possono intervenire su qualunque argomento. Altri all’interno del giornale, dall’angolo visuale che le alte posizioni consentono, parlano addirittura di libanizzazione del Corriere. (segue a pagina due) Il baco di Mucchetti Interessi, sospetti e maledizioni attorno al velenoso rebus della proprietà di via Solferino Roma. Alla fine si scopre sempre che aveva ragione Enrico Cuccia. Almeno nella teoria, nel concepire la finanza come un santuario per iniziati e nel cercare di tenerla quanto più possibile lontana dal mondo vischioso e appariscente dei giornali. Lo spiega bene nel suo libro (“Il baco del Corriere”, Feltrinelli), dal punto di vista del facitore di giornali, Massimo Mucchetti, che del quotidiano di via Solferino è vicedirettore ad personam e del conflitto d’interessi fra banche ed editoria appare come il massimo esperto. Mucchetti vive in queste ore la rivincita sugli spioni informatici della Telecom di Marco Tronchetti Provera, azionista non più forte in Rcs. Ma la tesi mucchettiana va al di là della sua vicenda personale e ha trovato anche sul Manifesto, ieri, una convalida estrema nell’editoriale in cui Roberta Carlini chiede “una legge per separare la proprietà dei giornali e di tutti i media da quella di imprese non editoriali”. Non è dato sapere se il semicalvinista Cuccia arrivasse a vagheggiare tanto, negli anni Ottanta, quando consigliava a Gianni Agnelli (allora promosso da Giovanni Bazoli) di tenersi lontano dal gruppo Rizzoli. Scrive sempre Mucchetti che il padrone di Mediobanca suggerì al presidente della Fiat di “frazionare comunque il rischio mettendo in campo Gemina, dove la Fiat era egemone ma non sola e dove Mediobanca avrebbe garantito per tutti”. E Gemina avrebbe voluto dire Cesare Romiti. (segue a pagina due) L’en plein di Bazoli Dalla finanza lombarda al fondo di Gamberale passando per Hopa, la rete del professore si allarga Milano. La battaglia è durissima, e non riguarda solo il Corriere della Sera. In questo momento il vento spira dalla parte di Giovanni Bazoli. Romain Zaleski, suo fedele alleato, compra un pacchetto del 2,8 per cento di azioni Intesa Sanpaolo da parte dei francesi del Credit Agricole, con una riserva di acquisto di un’ulteriore quota dell’1 per cento del capitale della banca. La mossa rafforza la presa del banchiere bresciano sulla superbanca. Bazoli, inoltre, è molto vicino a chiudere la fusione fra la sua Mittel e Hopa, la finanziaria bresciana di Emilio Gnutti. Dal matrimonio nascerà una piccola Mediobanca capace di esercitare, fra l’altro, un ruolo centrale in Telecom. Hopa porta in dote il 3,7 per cento del capitale della società che, sommato al quasi due detenuto da Zaleski, porta al 5,6 per cento la quota del fronte bazoliano. Il matrimonio con Hopa allargherebbe l’influenza bancaria di Mittel, che al momento conta solidi presidi non soltanto in Intesa Sanpaolo ma anche in Banca Lombarda (che presto andrà in sposa alle Popolari Unite), pure al Monte dei Paschi di Siena (Hopa ha circa il 3 per cento del capitale). Non solo. Con Mittel/Hopa Bazoli metterebbe un piede anche in Unipol. Bisogna considerare, inoltre, che SuperIntesa ha capitale in eccesso per una cifra fra 7 e 8,5 miliardi di euro, che probabilmente distribuirà sotto forma di dividendo straordinario. (segue a pagina due) quotidiano Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO MERCOLEDÌ 24 GENNAIO 2007 - € 1 DIRETTORE GIULIANO FERRARA La Giornata * * * In Italia * * * Nel mondo PRODI: “PRESTO LE RIFORME”. IN SERATA L’INCONTRO CON IL RUSSO PUTIN. Da Istanbul, dopo l’annuncio della Commissione europea che promuove il programma di stabilità italiano per gli anni 2006-2011, il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha detto: “Ora i conti sono in ordine. Nei prossimi giorni proseguiremo a ritmo sempre più veloce il cammino delle riforme economiche”. L’ex ministro dell’Agricoltura, Altero Matteoli (An): “I conti erano e sono in ordine a prescindere dalla Finanziaria disastrosa voluta da Prodi e Padoa-Schioppa, grazie al buon governo della Cdl nella passata legislatura”. In serata il premier si è recato in Russia per incontrare il presidente, Vladimir Putin: “Abbiamo nuove sfere di interazione e nuovi progetti”, ha detto il capo del Cremlino. Prodi: “Presto importanti società italiane come Eni, Enel e Finmeccanica firmeranno contratti con partner russi”. IN LIBANO CINQUE MORTI E PIÙ DI 100 FERITI NELLO SCIOPERO DI HEZBOLLAH. Ieri il paese è rimasto paralizzato per la protesta indetta dal Partito di Dio contro il governo di Fouad Siniora. Nei quartieri cristiani ci sono stati scontri tra fazioni diverse. L’aeroporto è rimasto bloccato, molti voli sono stati cancellati. Domani si apre a Parigi la Conferenza per la ricostruzione del Libano dopo la guerra tra Hezbollah e Israele. Il dipartimento di stato americano ha sottolineato la responsabilità delle forze filosiriane negli scontri. * * * Maggioranza divisa sull’Afghanistan. Nonostante la mediazione di Romano Prodi, il centrosinistra non ha ancora trovato un accordo sul rifinanziamento della missione italiana. Ieri il premier ha spiegato che c’è bisogno di “far ricorso più attivamente a strumenti politici”. “Non basta una promessa di una soluzione politica al più presto”, ha detto ieri il ministro Alfonso Pecoraro Scanio: “Non abbiamo chiesto il ritiro immediato, ma questo atteggiamento è un estremismo di centro per noi inaccettabile”. Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, è tornato sulla natura poco pacifista del governo. Il centrodestra, contrario a concedere la fiducia al governo, ha ribadito che voterà “sì” al rifinaziamento della missione. Il leader di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, ha annunciato che sulla questione parlerà giovedì con Silvio Berlusconi per valutare la situazione. * * * Inchiesta dell’Antitrust sul caro benzina. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha aperto un’indagine su nove compagnie che avrebbero concordato il prezzo del carburante distribuito in Italia, falsando il mercato a danno del consumatore. Si tratta di Eni, Esso, Kuwait Petroleum, Shell, Tamoil, Total, Erg, Ip e Api. * * * Capezzone in sciopero della fame per i senatori contestati. L’ex segretario dei Radicali italiani, Daniele Capezzone, chiede che la Giunta per le elezioni “sciolga il nodo degli otto senatori rimasti fuori dalle porte di Palazzo Madama”. Tra questi c’è anche il leader radicale Marco Pannella. * * * E’ morto Leopoldo Pirelli, nipote del senatore Giovanni Battista Pirelli che nel 1872 aveva fondato il gruppo industriale. Aveva 81 anni. Si è spento ieri a Portofino. * * * Borsa di Milano. Mibtel +0.06 per cento. * * * Katzav incriminato per stupro. Il procuratore generale Mazuz ha formulato l’accusa nei confronti del presidente israeliano per violenza sessuale ai danni di una segretaria, molestie a tre impiegate della presidenza, concussione e abuso d’ufficio. I legali di Katsav hanno ribadito l’innocenza del loro assistito che, fino a quando non scadrà il suo mandato, il prossimo luglio, potrà essere processato soltanto per impeachment da parte della Knesset. * * * Attacco a Gaza in nome di al Qaida. Ieri un gruppo di miliziani ha fatto irruzione in un resort turistico, rivendicando l’azione a nome della rete terroristica di Bin Laden. Il centro è stato attaccato perché di proprietà di Dahlan, uomo di Fatah e stretto collaboratore dell’Anp, Abu Mazen. “Al Qaida è arrivata a Gaza”, hanno aggiunto i miliziani. A Nablus, in Cisgiordania, tre francesi sono stati rapiti e subito rilasciati da uomini delle Brigate dei martiri di al Aqsa. * * * Per Petraeus in Iraq ci vorrà molto tempo, perché la situazione “è grave”. Il nuovo comandante delle forze americane a Baghdad ha spiegato ieri, in un’audizione al Senato, il nuovo piano militare. Catturati 600 uomini di al Sadr nelle ultime settimane. Lo ha detto ieri il comando americano, specificando che appartengono all’esercito del Mahdi. A Baghdad un’autobomba ha ucciso sette persone. * * * Aperto il processo a Libby per il Ciagate. L’ex consigliere della Casa Bianca ha detto: “Non mi sacrificherò per proteggere Karl Rove”, vicecapo dello staff del presidente americano Bush. * * * In Afghanistan dieci morti in un attentato alla base Nato a Khost, al confine col Pakistan, fino a un anno fa a comando italiano. * * * Le truppe etiopi lasciano la Somalia. Lo ha detto il vicepremier Aidid. Entro una settimana arriverà la forza di pace africana. * * * La Cina ammette test missilistico. Pechino ha detto che l’11 gennaio è stato sperimentato un missile anti satellite. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 George Werde Bush Il presidente annuncia un piano per ridurre i consumi di benzina del 20 per cento in dieci anni. Il penultimo Stato dell’Unione è bipartisan anche sull’Iraq. Più soldati per “la battaglia ideologica dei nostri tempi” lle sue spalle c’era Nancy Pelosi, speaker della Camera. La maggioranza A dei parlamentari non s’aspettava granché e l’indice di gradimento era ai minimi storici, quasi ai livelli di Jimmy Carter e Richard Nixon. Il sesto e penultimo discorso sullo Stato dell’Unione di George W. Bush – pronunciato ieri notte innanzi al Congresso di Washington – non poteva cominciare in condizioni peggiori per il presidente, forse solo Bill Clinton nel 1998, pochi giorni dopo la rivelazione delle accuse di Monica Lewinsky, s’era trovato in una situazione più critica. Clinton, allora, esordì con un “signore e signori, lo stato della nostra Unione è ottimo” e propose di salvare il sistema pensionistico con i soldi del surplus di bilancio. La mossa politica piacque e i numeri di Clinton cominciarono a crescere. In 50 minuti, ieri notte, Bush ha provato a fare la stessa cosa, puntando su un articolato programma di riforme di politica interna – sanità, energia, ambiente, immigrazione, istruzione, sprechi – senza però rinunciare a ricordare “la battaglia ideologica decisiva dei nostri tempi” e a ribadire l’importanza del suo nuovo piano per l’Iraq (ieri il generale David Petraeus ha cominciato la sua audizione al Senato per ottenere la conferma della nomina a capo delle operazioni militari a Baghdad). Per andare incontro ai democratici, ma anche agli scettici del suo stesso partito, Bush ha proposto l’istituzione di un Comitato speciale consultivo sulla guerra al terrorismo composto dai leader dei due partiti al Congresso e, inoltre, ha chiesto di aumentare di 92 mila unità il numero dei soldati a disposizione dell’esercito americano. Bush ha ancora due anni pieni di governo, un tempo sufficiente ad ampliare il più possibile la copertura sanitaria degli americani, ridurre i consumi di carburante, tutelare l’ambiente, riformare la politica sull’immigrazione, limitare gli sprechi di bilancio, aumentare l’impegno contro l’Aids e rafforzare l’istruzione pubblica rinnovando il No child left behind act, in scadenza quest’anno. Su quest’ultimo punto è probabile che il Congresso democratico dia il consenso. Anche sul fronte dell’immigrazione è possibile che l’accoppiata Casa Bianca-Congresso vari una riforma complessiva delle norme sull’immigrazione, legalizzando i lavoratori clandestini che risiedono già negli Stati Uniti e promuovendo l’integrazione. Le due proposte più ambiziose presentate ieri notte da Bush sono state sulla sanità e sull’energia, argomenti che il presidente aveva già affrontato nello Stato dell’Unione del 2006. Quest’anno Bush propone una deduzione fiscale di 7.500 dollari per persona (il doppio per una famiglia) a prescindere se si riceva l’assicurazione sanitaria dal datore di lavoro oppure se la si compri autonomamente. Oltre quella cifra si dovranno pagare le imposte. L’idea è piaciuta al Washington Post, perché elimina l’attuale discriminazione nei confronti di chi non riceve l’assicurazione dall’azienda come benefit esentasse ed è invece costretto a comprarsela senza benefici fiscali. Tecnicamente si tratta del primo, parziale, aumento di tasse dell’era Bush, ma la Casa Bianca e il guerriero anti tasse Grover Norquist spiegano che le riduzioni saranno maggiori degli aumenti. Il piano dovrebbe far scendere i costi delle polizze e diminuire così i 47 milioni di non assicurati. Contemporaneamente, Bush propone di usare parte dei fondi del Medicare e Medicaid per destinarli a favore di un nuovo fondo che aiuterà gli Stati dell’Unione a predisporre piani per rendere le polizze più abbordabili. Per la prima volta Bush ha parlato di surriscaldamento della Terra e ha proposto un piano per la riduzione dei consumi di benzina del 20 per cento in 10 anni (the 20-10 plan) in modo da liberarsi dalla dipendenza del petrolio mediorientale. Il piano prevede regole per l’aumento dell’efficienza delle automobili, dei camion, dei Suv, ma anche incentivi per la produzione di carburanti alternativi e riduzioni delle emissioni dei gas inquinanti. Nel frattempo, Bush punta a un aumento della produzione petrolifera interna. Leopoldo Pirelli OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO WALTER VELTRONI NASCE UN PREDICATORE •BELLA POLITICA E FACCIA TOSTA. Spettacolare tappa napoletana del tour del sindaco di Roma, fra concetti alti e bellurie da sciampiste (Inserto I-IV) Luci e ombre della ribalta Veltroni fa festa a Napoli, i Ds gliela fanno a Roma Il sindaco gioca in proprio e nella partita del Pd non ha sponde. Però c’è CDB Roma. Il grande successo di pubblico e critica che ha accolto la seconda tappa della sua tournée non è bastato a dissipare le nubi. Nubi funeste che si sono improvvisamente addensate sulla rosea primavera di Walter Veltroni, benedetto da Carlo De Benedetti e magnificato da Luca di Montezemolo a più riprese, eppure sospeso nel limbo del suo secondo mandato da sindaco, in una condizione che ricorda quella di Sergio Cofferati al termine della sua segreteria in Cgil. Anche il Cinese, allora, riempiva cinema e teatri parlando di identità e valori, riempiva pagine di giornale e assemblee di girotondini – come il celebre caucus di Firenze, con Nanni Moretti a incoronarlo e Rosy Bindi che sembrava già offrirsi per il ticket – e si sa com’è finita. Il segnale della sindrome Cinese in arrivo, per Veltroni, si è manifestato ieri. Proprio nel giorno del grande trionfo popolare della sua “lectio”, a Napoli, quando il sindaco ha dichiarato di essere perfettamente d’accordo con Antonio Bassolino, che pochi giorni prima, al Corriere della Sera, aveva esortato i Ds a rompere gli indugi, ad accelerare, a dire insomma chiaro e tondo che il prossimo congresso darà il via alla “fase costituente del Partito democratico”. La campagna veltroniana, cominciata con la celebre intervista a Repubblica – quella che ai piani alti dei Ds era stata persino espunta dalla rassegna stampa – poggiava su parole d’ordine diametralmente opposte. “Veltroni: Partito democratico, così non va”, recitava il titolo. E il testo era anche più esplicito: “Io constato che quella di chi punta alla fusione Ds-Margherita… è un’operazione che si limita a sommare il 16 per cento e il 9 per cento. Io non credo che questa sia la strada maestra che porta al Partito democratico”. Come si vede, parole perfettamente coincidenti con quelle di Fabio Mussi, che al congresso ds si batterà per non fare il Partito democratico, e che in ogni occasione ricorda come l’Ulivo, nel ’96, andasse dai Verdi a Dini, mentre la lista dell’Ulivo da cui dovrebbe nascere il Pd si è ormai ridotta ai soli Ds e Margherita – nelle parole di Veltroni a Repubblica: “Io resto al mio schema del ’96. Per me allora (il Pd, ndr) era il partito dell’Ulivo, che poteva raggruppare il Pds, il Ppi, Rinnovamento italiano, i Verdi, lo Sdi”. L’esatto contrario, per farla breve, di quello che Bassolino ha dichiarato al Corriere. Il che non ha impedito al sindaco di scandire che sul Pd “Antonio e io pensiamo da dieci anni che si debba accelerare”. E che la pensino allo stesso modo da anni è vero – chiosava malignamente qualcuno – al congresso di Pesaro, infatti, erano entrambi contrari, schierati con il correntone di Fabio Mussi e Sergio Cofferati. E forse è proprio per non dispiacere a Mussi che alla scontata domanda sul rischio che tale accelerazione produca una scissione nei Ds, con tipica leggerezza veltroniana, il sindaco di Roma rispondeva: “Queste sono cose di partito”. E le cose di partito, per lui, non si mettono bene. “Servono facce nuove” Sabato, all’assemblea dei segretari di sezione ds, D’Alema ha tenuto un discorso assai più esplicito del solito sulla necessità del Partito democratico. Il giorno dopo è arrivata l’intervista di Bassolino. Quello dopo ancora l’intervista di Nicola Latorre e quella di Dario Franceschini. Una sinfonia culminata nelle parole del parisiano Franco Monaco, che dava ragione a Bassolino e Latorre, e citava perfino Alfredo Reichlin. Una sinfonia dinanzi alla quale le parole di Goffredo Bettini (“Servono facce nuove”) finivano sommerse. Come lacrime nella pioggia di quest’improvviso, piovoso inverno romano. Nell’immaginario popolare era considerato il secondo pilastro del capitalismo italiano Q uando il 18 aprile 2002 decise di togliersi la vita in modo clamoroso, uno scriteriato italo-svizzero scelse di schiantarsi con il suo piccolo aereo sul grattacielo Pirelli. La scelta non era casuale. Più di ogni altro edificio il grattacielo Pirelli era il simbolo dell’orgoglio di Milano. Anche chi predilige le città dal profilo uniforme dei tetti e si dichiara in architettura e urbanistica fieramente passatista, non può non riconoscere al Pirellone, come lo chiamano i milanesi, una dignità estetica indiscutibile. Gran parte del merito va agli autori, agli studi dell’architetto Giò Ponti e dell’ingegnere Pier Luigi Nervi e alla quantità di aziende che, ciascuna nella loro specialità, hanno contribuito a realizzare uno degli edifici allora più significativi d’Europa. Ma soprattutto il merito è di Leopoldo Pirelli, che quel grattacielo aveva voluto nel 1956, quando non solo il tenore di vita degli italiani stava migliorando, ma anche le grandi industrie sentivano il dovere di rappresentare la centralità nella vita cittadina. L’immagine della Pirelli come si era sviluppata nel corso degli anni alla periferia nord di Milano era l’immagine di una città fabbrica, confinante con altre città fabbriche che, come la Falk e la Breda, testimoniavano una vocazione industriale della città. Ma gli stabilimenti avevano un nome. Si chiamavano Bicocca, dal nome di un antico casino di campagna della famiglia Arcimboldi che Leopoldo Pirelli aveva voluto conservare e restaurare all’interno del grande recinto degli stabilimenti, dove ancora si producevano cavi e pneumatici. Quasi a simbolo la continuità di una tradizione culturale. Era stato il nonno Giovanni Battista Pirelli, laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano, a fondare una fabbrica per mettere a frutto in Italia il processo di vulcanizzazione, per produrre i cavi che avrebbero costituito l’intera rete telegrafica nazionale. Era stato Giovanni Battista a inaugurare nel 1909 lo stabilimento della Bicocca. Era stato il padre Alberto a continuare e a sviluppare l’opera, ad allargare gli interessi del gruppo, a trattare, grazie al suo prestigio internazionale, da una posizione di forza con il regime fascista, a fondare l’Istituto per gli studi per la Politica internazionale. A succedergli nella direzione delle società di famiglia sarebbe toccato al figlio primogenito Giovanni. Giovanni scelse di impegnarsi politicamente a sinistra, di dedicare i suoi talenti alla letteratura. Fu Leopoldo a entrare in azienda. Si laureò in Ingegneria, assunse con semplicità e riserbo la direzione di quello che, non solo nell’immaginario popolare, era considerato, insieme alla Fiat, uno dei due grandi pilastri dell’industria privata italiana. Toccò a lui gestire, con abilità e stile, il difficile passaggio verso una nuova forma di capitalismo. Nel 1992 si era fatto da parte. E’ morto ieri, a ottantun anni. Prometto che dopo questa non ne parlo più, ma dal momento che Leoluca Orlando è stato elevato per anni (e si sa pure da chi) al rango di Wanda Osiris della lotta alla mafia, di Pietro Micca del boom della giustizia, di Merolone della superdotata primavera palermitana, adesso che torna a fare il furbo per rimontare a cavallo è doveroso registrarlo. Fosse stato per lui, ha detto, il processo Andreotti non ci sarebbe stato. Bon. Come ci si poteva attendere, dal momento che la questione non riveste poi tutto questo interesse, le reazioni alle sue parole sono state scontate e semispente. Quasi tutte, da quella di Enzo Bianco, a quella di Andreotti, a Totò Cuffaro e via via a quelle di Salvatore Cardinale e di Rino Piscitello della Margherita. Ma una no, una è stata di un certo rilievo per due motivi. Primo, perché ha riguardato Nando dalla Chiesa che di Orlando è stato un po’ il gemello. Secondo, perché Dalla Chiesa ha scritto all’Unità: “Caro Orlando, non capisco”. Ora. Che Dalla Chiesa in generale non capisca era un fatto già abbastanza noto. Ma ammetterlo così apertamente non capitava dalla confessione di Arthur London. L’assedio di Beirut Hezbollah terrorizza e paralizza il Libano per far cadere Siniora Morti e feriti nello sciopero organizzato dal Partito di Dio e dai sindacati. Il premier lancia un appello contro le violenze Verso la Conferenza di Parigi Beirut. Hezbollah e i suoi alleati – comunisti, frange cristiane, sindacati – sono riusciti a paralizzare il Libano con violente manifestazioni di protesta e strade bloccate provocando almeno tre morti e un centinaio di feriti. L’obiettivo è far crollare il governo del premier, Fouad Siniora. Il quale ieri sera ha detto che “sono stati superati i limiti” e ha fatto un appello direttamente al presidente, il filosiriano Emile Lahoud, perché si convochi una sessione straordinaria del Parlamento in modo da evitare la guerra civile. “Questa è una rivolta e un tentativo di colpo di stato”, ha denunciato il leader cristiano Samir Geagea, difensore del governo che fa parte della coalizione antisiriana. Gli scontri con l’esecutivo da parte degli sciiti vicini a Siria e Iran continuano da novembre: barricate, manifestazioni, adunate chiamate dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, per invocare la caduta di Siniora, che gode dell’appoggio – e dei finanziamenti – dell’occidente. La dimostrazione di ieri ha a che fare con il sostegno internazionale visto che domani si riunirà a Parigi la Conferenza internazionale dei paesi pronti ad aiutare il Libano e il governo a riprendersi dalla guerra scatenata da Hezbollah contro Israele nell’estate scorsa. Da Dubai il sottosegretario di stato americano, Nicholas Burns, ha spiegato che gli Stati Uniti “contribuiranno finanziariamente, nel lungo termine, alla ricostruzione del Libano” e tale appoggio servirà a bloccare chi cerca di “rovesciare un governo democraticamente eletto attraverso la piazza”. Il dipartimento di stato ha detto che “gli Stati Uniti sono profondamente inquieti” e ha indicato la responsabilità di “fazioni libanesi alleate con la Siria”, che “tentano tramite la violenza, le minacce e l’intimidazione di imporsi politicamente in Libano”. Le proteste di ieri sono nate dalla convocazione di uno sciopero generale per protestare contro il piano di riforme economiche preparato dal governo in vista della conferenza di Parigi. A Beirut, come nelle maggiori città del paese, migliaia di persone sono scese in piazza aderendo all’iniziativa, ma la situazione è presto degenerata. Nella capitale le principali vie di uscita dalla città, in tutte le direzioni, sono state bloccate dai manifestanti, che hanno dato alle fiamme pneumatici e cassonetti dell’immondizia. Anche la strada per l’aeroporto è rimasta bloccata e 22 voli, in gran parte internazionali, sono stati cancellati. La rivolta è stata organizzata da centinaia di militanti di Hezbollah, che giravano in moto, mascherati e armati di radio portatili. Esercito e polizia hanno sparato diverse volte in aria, ma l’impressione è che avessero ordini di non intervenire in modo pesante. Secondo un’interpretazione più maligna che circolava nel caos delle strade, le forze di sicurezza avrebbero lasciato fare ai manifestanti: tra loro ci sono molti sciiti e Hezbollah ha ottimi agganci nella Gendarmeria. In più il grosso dei reparti dell’esercito è impegnato al sud e ai confini con la Siria, nella missione Unifil. I sostenitori del governo volevano recarsi al lavoro e hanno tentato di rimuovere i blocchi, ma dai lanci di pietre fra sciiti e sunniti a Beirut si è passati alle armi da fuoco, che hanno contrapposto soprattutto i cristiani delle Forze libanesi, guidati da Geagea, e i drusi di Walid Jumblatt a frange dell’opposizione. Hezbollah ha preferito mandare avanti i militanti arancioni del generale Michel Aoun, un tempo soprannominato il Napoleone cristiano del Libano, oggi alleato del Partito di Dio. “La nostra campagna aumenterà di giorno in giorno. Fino a quando non ci daranno ascolto, non daremo loro pace”, ha dichiarato ieri il leader cristiano filosiriano Suleiman Franjieh. Voci dalla missione Unifil Fonti del Foglio a Beirut dicono che l’opposizione punta a un’escalation delle violenze fino alla Conferenza di Parigi e oltre, ma temono che una qualsiasi scintilla potrebbe far riaffiorare lo spettro della guerra civile. A Parigi la comunità internazionale – a cominciare dall’Italia che ha assunto da pochi giorni il comando della missione dell’Onu nel sud del Libano – dovrà dare il suo contributo per abbattere i 40 miliardi di dollari di debito del Libano. Ieri 146 Caschi blu cinesi sono rimasti bloccati dagli scontri e dalla paralisi del paese mentre cercavano di raggiungere il sud del Libano. Dal comando italiano a Tiro si professa una stoica calma, assicurando che “le attività continuano, anche se evitiamo i viaggi superflui e non si è verificato alcun atto di ostilità nei confronti dei nostri soldati”. Il sud è a maggioranza sciita e ha aderito alla protesta bloccando la strada fra Tiro e Naqura, dove ha sede un comando dell’Onu. Ma anche se Hezbollah riesce a far crollare il governo libanese, quello che accade a nord del fiume Litani non riguarda la missione Unifil.
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