Il Senato Usa sfida Bush

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Il Senato Usa sfida Bush
quotidiano comunista
Anno XXXVII n. 76
euro 1,10
Venerdì 30 Marzo 2007
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SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158
Francia al voto
Televisione
Corri sull’acqua
Dopo i richiami all’identità nazionale
torna il tema della sicurezza. E i
sondaggi inondano la politica
Il reality show scatena le polemiche,
c’è chi lo vuole e chi no. Ma il format
pervasivo perde ascolti
Una sfida al Polo Nord per Francesco
Galanzino, industriale, ambientalista
e maratoneta estremo
3
Il salario
dimenticato
17
18
Herat, giornalisti afghani del
Protection Centere of Journalist
in piazza per chiedere
la liberazione di Adjmal. Foto Ap
Galapagos
P
rodi vuole vincere le elezioni locali del 27 maggio. Ieri
ha fatto annunciare il rimborso (imposto dalla Ue)
dell’Iva sulle auto aziendali: un mare
di soldi, 5,3 miliardi per tre anni).
Mercoledì i suoi hanno imitato Berlusconi, con il taglio dell’Ici sulla prima casa. Tutto bene, salvo che Visco
è stato costretto a ingoiare il boccone amaro della rinuncia alla riforma
della tassazione delle rendite, decisa
con la manovra per il 2007. La rinuncia a modificare e uniformare (al
20% l’aliquota) il regime di tassazione delle rendite finanziarie priva il fisco di risorse stimate - da Padoa
Schioppa - in 1,2 miliardi per il 2007
e 2,5 miliardi a regime per gli anni
successivi. Poca roba, visto l’entità
della manovra correttiva che abbiamo subìto per mettere a posto i conti del 2007. Ma Prodi non se l’è sentita di dare un’altra stangatina ai contribuenti alla vigilia di elezioni: si è
adeguato e ha rinunciato.
La mancata riforma non è solo
questione di minor gettito, di minore risorse disponibili. I dati sulle entrate fiscali nel 2006 e nei primi due
mesi del 2007 indicano un fisco che
scoppia di salute. Di più. Ieri è arrivata l’ennesima stima sull’evasione fiscale: un imponibile non tassato da
300 miliardi l’anno e un’evasione da
125-130 miliardi. Prima di aumentare di nuovo le tasse ci sarebbe un
piatto ben più ricco. Ma la riforma di
Visco aveva un fondamento morale,
di equità: oggi chi prende due soldi
di interessi dalla banca o dalle poste
paga il 27% di ritenuta, mentre chi
specula - l’esempio migliore sono «i
furbetti del quartierino» - e incassa
ricche plusvalenze, paga su queste
solo il 12,5%. Molto meno di quanto
pagano le imprese sugli utili o, sull’aliquota marginale, un lavoratore
con 20 mila euro di retribuzione.
Quanto al costo del lavoro, una ricerca Eurispes di ieri dice che in Italia è
cresciuto, tra il 2000 e il 2005, molto
meno della media Ue e che in Europa - secondo Eurostat - i salari nell’industria e nei servizi dell’Italia superano solo quelli di Grecia, Spagna
e Portogallo. Ma ieri il commissario
Almunia ha invitato l’Italia alla moderazione salariale, pur se la priorità
è redistribuire i redditi: attraverso la
spesa sociale, i salari e con il fisco.
In quest’ottica, rinunciare alla riforma della tassazione delle rendite
è una controriforma: una strizzata di
occhio ai ceti medi, ma soprattutto
medio-alti. E una marcia indietro.
Per far ingoiare questo boccone amaro, il governo ha promesso che già
da quest’anno ridurrà l’Ici sulla prima casa e introdurrà dei bonus fiscale per gli inquilini in affitto. I due
provvedimenti dovrebbero raccogliere ampi consensi, anche elettorali.
L’Ici non è amata. Anche perché,
facendo riferimento ai valori catastali, penalizza chi vive in abitazioni costruite di recente. Insomma, va bene
eliminarla; ottimo detassare gli affitti. Prodi però non può rimangiarsi
quello che era scritto nel suo programma. Questo vale per i Dico come per la riforma delle rendite: l’aliquota unica va reintrodotta. Prodi ci
ripensi: ammesso che oggi non scatti un «trappolone» sul voto di fiducia
sul decreto sulle liberalizzazioni.
note da lontano
Se tace la sinistra
della sinistra
Rossana Rossanda a pagina 2
Sinistra
PAGINA
Karzai «deve parlare con i Taleban», come ha fatto l’Italia: rilasci due detenuti o
altrimenti Adjmal Nashbandi, l’interprete di Mastrogiacomo, sarà ucciso. E’ la
minaccia di mullah Dadullah, intervistato da Skytg24. Da ieri è a Kabul
Rahmatullah Hanefi, il mediatore di Emergency. L’associazione di Gino Strada
chiama a manifestare sabato a Roma per la liberazione di Adjmal e di
Rahmatullah. A Herat intanto un nostro militare ferito in un attacco.
PAGINA 5
l6
Mussi: addio al Pd
Il Prc apre il cantiere
Il Senato Usa sfida Bush
Udc
I senatori degli Stati uniti sfidano il veto presidenziale e approvano la legge che finanzia le missioni militari ma impone una
data per il ritiro dei marines dall’Iraq. E’ ormai esplicito lo
scontro tra il Congresso e la Casa Bianca
PAGINA 4
PAGINA
l8
Berlusconi e Casini,
separati in casa
Petruccioli cancella la Rai
Norma Rangeri
Il presidente della Rai ha fatto
bingo, in una mossa sola ha
cancellato la Rai. Claudio
Petruccioli chiede al Cda del
servizio pubblico di sottoscrivere un
documento di indirizzo che esorta i
direttori dei telegiornali a tenersi
alla larga dagli indigesti panini che
ogni giorno rifilano a milioni di
teleutenti. E, in seconda battuta,
invita i direttori di rete a cancellare
dai palinsesti i reality show.
Avrebbe fatto prima a dire che la
Rai non c'è più e bisognerebbe
reinventarla. Senza il «panino» non
ci sarebbero i telegiornali per come
li conosciamo. Senza i reality
morirebbero i palinsesti di Rai e
Mediaset. E la telenovela di
vallettopoli non avrebbe quel
formidabile cast di politici e
soubrette che la tiene in cartellone.
Se dai telegiornali si toglie la
filastrocca quotidiana delle
dichiarazioni degli esponenti di
partitoni e partitini, crolla tutto il
castello, svapora la lottizzazione,
finisce la storia della triplicazione
delle testate. Il Tg1, filogovernativo,
il Tg3, filodiessino, il Tg2 filoFini
non avrebbero ragione di esistere. E
infatti il direttore del Tg1, Gianni
Riotta, si tira fuori. Afferma che di
«panini» non sa nulla e si mette
all'occhiello le interviste al
governatore della Banca d'Italia e
al Presidente della Repubblica. Non
chiamiamoli «panini», ma la teoria
di figurine (da Pecoraro Scanio a
Paolo Bonaiuti), servite a pranzo e
a cena, non sono frutto di nostre
allucinazioni. Più schietta la
reazione del direttore del Tg3,
Antonio Di Bella («sarà un processo
lungo, non un cambiamento
dall'oggi al domani»).
L'informazione in tv è dettata,
come le nomine, dagli equilibri
politici e la spazio di libertà dal
manuale Cencelli della notizia è
una dura conquista. Di là da
venire. Invece la cancellazione dei
reality, in teoria, potrebbe essere
tecnicamente una scelta semplice.
Se non fosse che sono diventati
l'architrave dei palinsesti.
SEGUE A PAGINA 17
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venerdì 30 marzo 2007
2
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marco boccitto
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L’
Unione festeggia lo
scampato pericolo, la
Casa della libertà si divide dopo la gaffe colossale del cavaliere, l’Udc si vanta della
sua prima sortita, la grande stampa esulta per il delinearsi di una
maggioranza variabile che prefigura quella che vorrebbe invariabile.
Il solo che non nasconde il malumore è il Capo dello stato che suggeriva sottovoce una bella unità nazionale. Prodi ha sperimentato per
la prima volta una maggioranza diversa da quella in cui era nato senza rompere la medesima. La Margherita ha sperimentato che i fili
tessuti col centro tengono. I Ds,
che perseguono lo stesso disegno
magari con una loro propria egemonia, hanno sperimentato che il
75% degli iscritti li segue. Il correntone ha sperimenato che resta più
o meno allo stesso punto in un partito che non è più quello di dieci o
venti anni fa, salvo il compulsivo
votare di Emilia e Toscana ogni
proposta del segretario, quale che
essa sia. Bertinotti ha sperimentato la contestazione di un po’ di giovani politicamente approssimativi
per lungo tempo accarezzati.
E’ un percorso a direzione unica
nel quale le due coalizioni ancora
in campo si stanno accorgendo
che uno spostamento al centro,
con tagli delle ali di destra e sinistra, si può realizzare meglio per
scivolamenti ed erosioni successive che tornando alle urne. Berlusconi è più debole di quando non
fosse all’indomani del voto. Ma è
più debole anche quel 13% della coalizione vincente che era fuori dall’Ulivo e non sarà rappresentato
dal futuro partito democratico. E
che finora ha preferito tessere con
il presidente del consiglio, Rifondazione per prima, accordi, per così
dire, ragionevoli e privati, invece
che cercar di diventare una forza
del 13%, e non una sommatoria di
sigle che non si parlano. Ma non si
regge a lungo su una condizione
puramente, oltre che stentatamente, numerica - della serie «senza di
noi non ce la fanno». Tentano di
farcela «senza di noi» tutti, salvo
forse Prodi, più per una sua onestà
di carattere e per qualche diffidenza sia verso Rutelli sia verso Fassino, che per amore di unità a sinistra. Da martedì dunque la sinistra
della sinistra è costretta a parlarsi.
E si mandano più o meno vaghi segni di apertura. Il più disponibile a
ridiscutere sembra Bertinotti, per
quanto la funzione di presidente
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note da lontano 12.
Rossana Rossanda
Intervenire
della Camera glielo consenta, e
avendo dovuto dismettere la speranza che attorno a Rifondazione
si formasse un coordinamento vero e di qualche spessore, invece
che una somma di gruppi e frammenti parlamentari ciascuno forzato a convivere. Non che le altre sigle si siano invece appassionate a
darsi una piattaforma comune.
Adesso che il ricatto «se cade questa maggioranza arriva Berlusconi»
sta venendo meno, nessuno è protetto più dalle impossibilità. Bisogna scoprire le carte.
Quali carte? L’Unione si è basata
su un programma prolisso che eludeva molti scogli. La necessità di
raccogliere tutti i voti in giro pur di
metter fuori Berlusconi ha indotto
a rilevare i punti comuni e trascurare le discriminanti, invece che affrontarle e cercare un punto alto di
mediazione. I punti comuni, o forse il punto comune, era metter fine
a una manomissione personale e
di gruppo delle leggi e delle leve di
decisione, che è stato il collante delcentrodestra, al perseguimento di
interessi privati, al disprezzo per la
divisione dei poteri. E, buon ultimo, esprimere l’intenzione di rendere meno iniquo, senza altre precisioni, il rapporto fra poteri economici e lavoratori. Nonché una politica estera che esprimesse un rifiuto della guerra, simbolizzato dal ritiro del nostro contingente dall’Iraq. Su questi due ultimi punti, il
programma è stato particolarmente reticente, perché assai moderate
sono le posizioni della Margherita
e della maggioranza dei Ds, ed esitanti i sindacati, eccezion fatta per
la Fiom. L’approfondimento è stato nullo.
In tema di situazione internazionale, quando si è formata l’Unione, nessuno sembra aver pensato
che Bush avrebbe tirato dritto, anzi
sarebbe andato a un’escalation della guerra in Medioriente, contro le
posizioni del Congresso, e ora anche del Senato. In queste settimane, l’escalation è diventata un rischiatutto. Se un anno fa era in fibrillazione soprattutto l’Iraq, ora è
altissima la tensione anche in Afganistan e non si può escludere che
Bush punti a un incendio anche in
Iran. Negli Usa parlano i democratici, che non sono certo estremisti,
lo denuncia Brzesinski, ma l’Unione è muta. E quando D’Alema tenta una mossa, certo non eccessiva,
ne è impedito e non solo dal Dipartimento di stato.
Più grave, nella perpetua dicussione sui numeri al Senato e le manovre delle parti per tenere in piedi
o per battere il governo, non c’è alcuna discussione nel merito. Né al
parlamento né, che si sappia, nelle
sinistre alla sinistra dell’Ulivo. Il
massimo dell’assurdo s’è raggiunto sull’Afghanistan dove quella italiana continua a definirsi missione
di pace anche se l’infittirsi degli
scontri rende qualsiasi missione di
pace sempre meno praticabile.
Con il pretesto, non del tutto infondato, di proteggere «i nostri ragazzi» se la loro diventa zona di guer-
Carla Casalini
Il salario che preoccupa i delegati metalmeccanici
Tutta l’attenzione, a parte le
cartografie mutevoli nella sinistra, e
nel centro-centro, sembra attirata
dalla calamita dei «tavoli di
concertazione», dove effettivamente
i sindacati avranno non pochi
problemi a ’trattare’ con gli
imprenditori, ma anche con il
governo di centro-sinistra, sulle
pensioni, i diritti sociali, le
condizioni del lavoro. Un governo e
una maggioranza che per altro si
apprestano a far passare, con
l’ennesima fiducia al senato, le
«liberalizzazioni» targate Bersani
(c’è di mezzo anche la Tav) e hanno
di fronte a sé lo scoglio incombente
del Disegno di legge Lanzillotta sui
«servizi pubblici locali» - ossia sulla
loro privatizzazione - sul quale
rischiano di infrangersi
spezzandosi. In questa selva di
appuntamenti speranze e timori,
sembra derubricato dalla ribalta
degli «eventi», il contratto nazionale
dei metalmeccanici che scade a fine
giugno ma per il quale i tre
sindacati Fim, Fiom, Uilm stanno
tentando di mettere insieme una
piattaforma comune, su una strada
resa impervia anche da molte
ragioni di «contesto» politico, in
primis le scelte di questo governo,
unitamente alla sua debolezza che
funziona da ricatto implicito su
movimenti e attori sociali.
Le segretarie nazionali dei tre
sindacati metalmeccanici si
rivedranno il 2 aprile per discutere
ancora della piattaforma, ed è a
loro che si rivolge l’appello di
lavoratori e delegati partito da
Modena, che ora alle prime firme
ne sta aggiungendo altre allargando
l’arco di adesioni nella regione:
rispondono sia rsu che singoli
delegati, moltissimi della Fiom, ma
ci sono anche iscritti a Fim e Uilm.
Il punto significativo però non è
tanto la conta di chi e da dove,
bensì piuttosto il merito che suscita
la «perplessità e preoccupazione»
dei firmatari, perché quel merito
tocca pesantemente tutti gli uomini
e le donne al lavoro nelle aziende
metalmeccaniche: il problema è
infatti il salario esiguo, insufficiente,
che i sindacati prevedono nella
piattaforma.
Fim, Fiom, Uilm pare stiano
avvicinando le proprie posizioni su
questioni cruciali come l’ambiente,
ossia la sicurezza sul lavoro. Così
come si annuncia una buona
piattaforma comune per quanto
riguarda il lavoro precario:
vincolata e limitata, però, dalle
politiche del governo di
centrosinistra. Il fatto che non sia
stata «cancellata» ma neppure
«superata» la legge 30 del governo
Berlusconi (detta «legge Biagi» dal
centrodestra), riduce infatti la
possibilità dell’agire sindacale e
ra, sono state affacciate nuove «regole di ingaggio» - in parole povere, combattere - e la necessità di
fornire i mezzi relativi. La sommarietà è da tutte le parti: forse che
per essere stata avallata l’impresa
di Bush dall’Onu e per stare sotto il
comando Nato, si è obbligati a seguirla? Com’è che la Francia non la
segue, non ha un solo uomo in Afghanistan, e non succede niente di
catastrofico? Né il governo né i pacifisti dicono tutta la verità su quello cui ci obbliga o non ci obbliga il
far parte della Nato, dentro alla
quale l’art. 5 permetterebbe assai
più libertà che non si creda.
Una politica estera di relativa autonomia si potrebbe avere, e un intervento pubblico simile a quello
che regge da solo Gino Strada, sarebbe moralmente urgente quanto
il ritiro delle truppe. Che pensa la
sinistra della sinistra sul punto in
cui siamo? Che dirà, che direbbe alla conferenza di pace, se ci sarà? Lo
stesso vale per il conflitto israelopalestinese, dove non si profila un
passo avanti rispetto a Condoleezza Rice, che punta manifestamente a riaccendere il conflitto fra Hamas e Al Fatah. E per il voto del
Consiglio di sicurezza sull’Iran, stupidissima prova di forza che riunifica un Iran che in atto di dividersi
sulle follie di Ahmadinejad? Non è
detto che passerebbe, ma un’analisi, una previsione e una proposta
di intervento serio la dovremmo
avere.
Ieri Prodi ha detto che se sulla
politica estera la maggioranza co-
molto conforta le pratiche
padronali.
Ma il salario resta punto di
divisione tra i sindacati, e punto
dolentissimo per i lavoratori: tanto
che, nell’appello dei delegati
modenesi si giudica del tutto
insufficiente anche la proposta più
alta, quella della Fiom, che propone
un aumento di 130 euro (più 20 di
aumento dell’istituto di mancato
premio), mentre la Uil si attesta su
122 euro (più 30) e la Fim sui 100
euro.
Il problema è però, prima di tutto,
come si traducono questi numeri in
salario concreto? Se infatti, ad
esempio, i 100 o più euro di
aumento si riferissero al salario dei
lavoratori collocati al V livello (e al
momento sul punto non c’è
accordo tra i sindacati) questo
significa un aumento a scendere
lungo i livelli più bassi. Nell’ultimo
contratto, ad esempio, l’aumento
per chi si trova al III livello fu di soli
86 euro - e i lavoratori lo
inghiottirono con amarezza. Non
pare si possa ripetere l’esperienza,
anche perché nel secondo, terzo e
quarto livello si raccoglie quasi il 50
per cento di tutti i metalmeccanici.
Ma sul salario c’è anche un’altra
richiesta pressante da molti luoghi
di lavoro, perché ci siano «aumenti
egualitari». Quantità e qualità,
dunque. Senza dimenticare l’altra
«preoccupazione» che si concentra
sulla flessibilità degli orari: «ce n’è
già troppa». Ma anche su questo
tema incombono sia i desideri degli
imprenditori, che l’inclinazione del
governo ai «tavoli».
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
PRESIDENTE valentino parlato
AMM.DEL. emanuele bevilacqua
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nosce dei conflitti, «sul sociale è
unita». Ma davvero? Precarietà,
pensioni e sviluppo sostenibile dipendono strettamente dal movimento dei capitali, protetto fino ad
ora dai trattati dell’Unione europea, sui quali sicuramente non c’è
accordo nella maggioranza di governo. C’è qualcuno che intende
mettere sul tavolo il dossier nella
sua interezza, e non solo davanti alla Confindustria ma davanti a noi
stessi? Il silenzio della sinistra della
sinistra nei vuoti festeggiamenti
del cinquantenario europeo è stato
impressionante. Siamo di fronte a
una crisi sociale neanche tanto strisciante, ma né le regole della Banca centrale né il trattato di Maastricht né il patto di stabilità sono stati
esaminati nella loro effettività, nelle loro difficoltà, negli spiragli che
si aprono davanti alle turbolenze
dell’occupazione.
E’ un terreno sul quale il silenzio
o le misure parziali e abborracciate
hanno finora prevalso, e sulle quali
l’«antagonismo» sembra soltanto ridursi agli slogan. Una continua
concessione alle manifestazioni ultime e inefficaci di protesta accompagna una sostanziale indifferenza
o rassegnazione. Quando sento dire: a me parole come anticapitalismo non interessano, mi vengono
in mente i diciottenni italiani del
1939: ma a me la guerra non interessa. Come se fosse un optional.
Una piattaforma che contrasti la
deriva centrista va formata. Senza
questa non prenderà corpo nessuna alternativa. E senza qualche forma di organizzazione non avrà
gambe. Non basterà a definire il
che cosa e il come l’incontro di stati maggiori, che finora hanno difeso un patriottismo di sigla e si sono
separati uno dall’altro. Quanto alla
partecipazione di chi è estraneo
agli stati maggiori è tutta da inventare. Ma c’è una cogenza delle relazioni internazionali e del rapporto
di forze sociali, come sono venuti
strutturandosi negli ultimi due decenni, cui non si sfugge. E la cui dimensione non viene intaccata neanche dalla più grande manifestazione di protesta. Occorre un programma e, come si diceva una volta, una strategia. Parola fastidiosa e
bellicosa, ma il conflitto è il conflitto. Questa è la mia persuasione.
Non è quella di tutti coloro che
non sopportavano Berlusconi né
di tutti quelli che il partito democratico non incanta. Ci sono due
posizioni rilevanti che considerano
tiratura prevista
91.000
finita ogni potenzialità di una forma politica, più o meno collettiva e
organizzata.
La prima è quella di Marco Revelli, che ritiene inutile qualsiasi coordinamento politico in qualche modo organizzato perché, per quante
correzioni e distacchi si proponga,
deriverebbe dalla tradizione dei
partiti del secolo scorso, interamente da rigettare. E non solo per la rigidità del metodo o dell’errore delle scelte concrete compiute: il farsi
«corpo politico» dell’espressione diretta dei bisogni, materiali e immateriali, della gente non può che portare a ipostasi burocratico-produttiviste-belliche. E’ anche l’opinione di quella parte dei movimenti,
che aveva sperato di trovare qualche cinghia di trasmissione diretta
in questo o quel partito, e delusa, li
considera tutti ceto politico che mira solo alla propria riproduzione.
In verità Revelli punta più alto,
non si illude su una spontaneità
della società civile come sembra in
alcune sue recenti polemiche: punta a quella che una volta ha chiamato una «cristianizzazione» delle relazioni, un lento e profondo rivolgimento delle culture della modernità basate sull’homo faber, da cui sarebbero derivati tutti gli erramenti
del ’900.
L’altra posizione viene dal pensiero di Antonio Negri e riflette di
Marx la persuasione della creatività del capitale che nel crescere forma i suoi soggetti «antagonisti», oggi non più un proletariato reso desueto dalle tecnologie ma, nei suoi
punti più avanzati, figure sociali alte, entrate in possesso della tecnica, accanto a moltitudini che portano in sé un bisogno di eversione o
sovversione, se non rivoluzione,
che ogni rappresentanza falsifica e
azzera. Per ambedue le posizioni,
la globalizzazione liberista non
può essere né elusa né affrontata
da una «politica», essa produce da
sé e al suo interno i suoi puntuali,
interessanti e plurali anticorpi.
In questo quadro politico e culturale in mutazione, dove si colloca il
manifesto? Assiste o interviene?
Nel suo ennesimo e difficile passaggio finanziario e nell’obbligo di riconoscere, ogni narcisismo messo
da parte, che non è riuscito a superare in 35 anni la barriera delle
30.000 copie, a un costo impossibile e in un progressivo perdere di peso sulla scena politica, a chi parlare
e che cosa proporre è una decisione che il giornale deve prendere.
Non fra un paio di anni, ma oggi.
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L’antenna benedetta
Caro manifesto, sono rimasta sbalordita scoprendo che
oramai sono le compagnie telefoniche a finanziare le comunità religiose. Nella città
di Terni, il parroco della chiesa di San Francesco ha deciso di offrire l'altura del suo
campanile, nel pieno centro
storico della città, alla Telecom per l’installazione di un
«ripetitore» per la telefonia
mobile. Trovandosi la chiesa
nell’immediata prossimità di
almeno tre scuole (un liceo,
una scuola media e una elementare), insegnanti, genitori e parte della cittadinanza
hanno protestato apertamente per le conseguenze, sulla
salute dei ragazzi, dell'emissione continua di onde elettromagnetiche - oltre che
per un intervento che deturpa un'opera d'arte risalente
al Duecento - ma non sono
riusciti a ottenere alcun chiarimento se non quello relativo alla cifra che la chiesa riceverà da Telecom per questo
servizio: circa 15 mila euro al
mese. Nonostante lo scorso
27 febbraio sia stata anche
presentata al comune di Terni una petizione contro l'installazione dell'antenna, con
apposte parecchie centinaia
di firme, la Telecom ha già
DIR. AMM. guglielmo di zenzo
DIR. TECNICO claudio albertini
DIR. RESPONSABILE sandro medici
iniziato a montare il marchingegno che presto svetterà sul
centro storico della città, oltre che sulle teste di centinaia di ragazzi. La raccolta delle
firme sta continuando, nell'intenzione di presentare
una nuova petizione, ma a
oggi né da parte del comune,
né da parte della parrocchia
è giunta alcuna risposta. Ancora una volta gli interessi
del potere politico e di quello
religioso si sovrappongono
perfettamente. Ancora una
volta a farne le spese sarà la
salute dei tanti ragazzi che
dovrebbero invece rappresentare il futuro stesso di
queste (e spero anche di altre) comunità.
Claudia Bartolucci
Auguri sui generis
Mi chiedevo cosa regalare a
un
compagno-ingegnere,
nonché fratello, nel giorno
della discussione della tesi.
E il modo migliore per farteli
è tramite questo giornale che
più volte ci ha fatto discutere
sulla politica e sul concetto
di democrazia. E anche se
credi «che un libro vietato in
un vecchio paese significa infinitamente di più di miliardi
di parole vomitate dalle nostre università» (Milan Kundera) non posso esimermi
dal complimentarmi per questo traguardo raggiunto da
un ormai «ingegnere sui generis»! Auguri Karmine!
Gianni D'Errico
Il pane nero di Carosio
Circa il ricordo di Nicolò Carosio, comparso martedì sulla pagina dello sport a firma
di chi scrive, il fatto che il Secolo d'Italia («Carosio un
compagno che ha sbagliato»
di Carlo Gambescia) lo sbatta in prima pagina dopo averlo distorto e stravolto solo
per simulare un caso di revisionismo, questo, in sé, non
sarebbe affatto sorprendente. E' invece molto sorprendente che un vistoso e anonimo box su Repubblica di ieri
(«Secolo e manifesto, un derby su Carosio») affermi, fuori
dalle virgolette, e dunque,
per così dire, di propria farina: «Il quotidiano comunista
infatti ha dimenticato di quella volta che il mitico cronista
diede del 'negraccio' a un
guardialinee etiope ai Mondiali del Messico».
Proprio su quell'incredibile
episodio concludeva, viceversa, l'articolo del manifesto.
Anche a Repubblica dovrebbe essere noto che l'assenza
totale di filologia (e cioè di
un minimo controllo delle
fonti) è la farina con cui si impasta il pane (nero) del revisionismo.
Massimo Raffaeli
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
La Francia verso l’Eliseo
Dall’identità nazionale all’arresto dei nonni sans papiers davanti alle scuole
François Bayrou
In base all’ultimo sondaggio
il candidato centrista
alle presidenziali
è in crescita di 3 punti
e si attesta al 20%.
Jean-Marie Le Pen invece
scende dal 13 al 12%
Ségolène Royal
La candidata socialista
ora viene data al 27%,
a un solo punto da Sarkozy.
A sinistra il trotzkista
Besancenot avrebbe invece
il 4,5%. Arlette Laguiller
di Lutte ouvriere al 3%
Nicolas Sarkozy
Secondo le ultime rilevazioni
il leader dell’Ump perde
consensi a destra e scende
al 28%. Tutti i sondaggi
continuano comunque
a darlo favorito in caso
di ballottaggio con Ségolène
Voilà, la sicurezza è tornata
Anna Maria Merlo Parigi
E
voilà che, dopo l’identità
nazionale, la sicurezza fa irruzione nella campagna
elettorale. Due temi portatori di voti a destra e all’estrema destra. Dopo i fatti della gare du
Nord, in un comunicato Jean-Marie Le Pen ha predetto ieri agli altri
candidati «un risveglio doloroso» al
primo e al secondo turno.
Il 2007 come il 2002? Sarkozy gioca questa carta, sperando di recuperare voti all’estrema destra. «Noi dovremmo avere i sans papiers, le imprese in deficit, la gente che froda e
dire ancora grazie? - ha affermato
in un incontro nella regione Nord io ho bisogno della Francia silenziosa, immensamente maggioritaria e
che dice: adesso basta». Uno dei
suoi portavoce, il deputato Patrick
Devedjian, sottolinea con soddisfazione che «la sicurezza torna al centro del dibattito».
Ma questa tesi non è del tutto
confermata dalla prima parte degli
avvenimenti di martedì sera alla gare du Nord e tanto meno dalla mobilitazione dei genitori e degli insegnanti, che oggi pomeriggio organizzano una manifestazione a Parigi di sostegno a Valérie Boukobza,
la direttrice della scuola materna
della rue Rampal nel XIX arrondissement, che è stata fermata alcune
ore venerdì scorso per aver protetto, aprendo le porte della scuola,
bambini e genitori dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia di fronte
all’istituto in occasione dell’arresto
del nonno di uno degli scolari, un
sans papiers di origine cinese.
Martedì pomeriggio, alla gare du
Nord, gli avvenimenti hanno avuto
due fasi ben distinte. Dopo che, verso le 16,15 un uomo di 33 anni viene fermato dagli agenti della Ratp
senza biglietto del métro e risponde dando un colpo di testa a un
agente per scappare, ma viene placcato a terra con violenza, dei passeggeri protestano spontaneamente per il modo con cui è stato fermato (per la legge, viaggiare senza bi-
glietto è un’infrazione, non un crimine, prevede una multa, non l’arresto). I poliziotti accorrono. Qualcuno comincia a urlare: «Liberatelo». Poi la situazione degenera e qui
ha inizio la seconda fase dell’avvenimento, del tutto diversa dalla prima. Fino alle 23,30, scontri tra qualche centinaio di giovani e le forze
dell’ordine, sempre più numerose,
Dopo gli scontri alla gare du Nord,
protagonisti i viaggiatori esasperati
per i modi violenti della polizia,
un altro tema caro alla destra riaccende
i toni della campagna elettorale
«Immaginiamo
la Francia del
futuro», recita lo
striscione che
campeggia sullo
schieramento di
poliziotti nelle
strade di Parigi
Caso Hoekelet
Senza biglietto,
non «irregolare»
Il viaggiatore senza biglietto
all’origine dei disordini di martedì
alla gare du Nord di Parigi non
sarebbe un «irregolare» con
precedenti penali. A smentire le
dichiarazioni del ministro
dell’interno François Baroin è
l’avvocato di Angelo Hoekelet, il
congolese di 32 anni comparso
ieri in tribunale per rispondere
dell’accusa di «minacce e violenze
contro un pubblico ufficiale».
Secondo il legale l’uomo avrebbe
ritirato il 5 aprile un permesso di
soggiorno che gli era già stato
accordato. Sarebbe regolarmente
entrato in Francia per effetto di un
ricongiungimento familiare.
L’avvocato ha ottenuto dalla corte
un rinvio al 2 maggio.
gas lacrimogeni, insulti a Sarkozy.
Un gruppetto, armato di barre di
ferro trovate sul posto, attacca un
negozio Foot Locker e lo svaligia.
Tredici persone, di cui cinque minorenni, sono state fermate. Nove
agenti sono stati feriti leggermente.
Così racconta i fatti un testimone: «Io passo alla gare du Nord tutte le sere e martedì non erano dei
giovani che hanno provocato questi avvenimenti. C’erano degli anziani, dei giovani, dei quarantenni,
dei ben vestiti, dei bianchi, dei neri.
Del resto, l’uomo fermato, con una
violenza assolutamente condannabile, aveva 33 anni. La gente si è opposta alla sua polizia credendo di
avere a che fare con un arresto abusivo. Mi è stato detto che un ragazzino era stato picchiato dai poliziotti.
Questo fatto ha luogo dopo i rastrellamenti di fronte alle scuole che
hanno molto colpito la popolazione. C’era folla, i poliziotti erano dappertutto, minacciosi, e quando hanno cominciato a disperderci, i più
duri e i casseurs sono rimasti. Io sono andato via, non ho visto la fine.
Ma era una manifestazione sponta-
Nel paese campione dei sondaggi
Gli istituti demoscopici ormai
«fanno la notizia» con i dati
quotidiani sui candidati.
Sono ricchi e potenti, legati
al grande capitale. Ma la loro
attendibilità è messa
sempre più in questione
A. M. M. Parigi
Sarkozy perde tre punti, Royal e
Bayrou ne guadagnano tre
ciascuno. È l’ultimo sondaggio,
che conferma il testa-a-testa tra
il candidato dell’Ump e la rivale
socialista. La Francia è il paese
campione dei sondaggi: se ne
fanno in media tre al giorno
(quelli politici rappresentano
solo il 15% del fatturato, ma
servono da vetrina per gli istituti
demoscopici). E’ un mercato da
circa 800 milioni di euro l’anno
– ma nel 2002 Jacques Chirac e
Lionel Jospin avevano speso
580mila e 630mila euro (cifre da
raddoppiare aggiungendo gli
investimenti ufficiali di Eliseo e
Matignon per sondare
l’opinione pubblica). Sarkozy,
candidato dell’Ump, da ministro
degli interni (cioè fino a lunedì
scorso) ha commissionato a un
istituto – l’Ifop, che è di
proprietà di Laurence Parisot,
presidentessa del Medef, la
Confindustria francese –600.000
euro di sondaggi qualitativi.
Come ad ogni elezione, i
sondaggi sono nel mirino. Ieri,
questo argomento è stato
investito dal centrista François
Bayrou. Un suo collaboratore,
Hervé Morin, parla di «cifre
distorte, truccate». Per Morin,
«attraverso i sondaggi si cerca di
creare l’avvenimento, di essere
in prima pagina». La
Commissione statale ad hoc
invita alla «prudenza» nelle
interpretazioni, dopo aver
apertamente criticato due
sondaggi che non hanno
rispettato le norme convenute (è
stata testata l’ipotesi di un
ballottaggio Bayrou-Sarkozy e
Bayrou-Royal – con Bayrou
vincente nei due casi – ma
nessun sondaggio permette di
dire che Bayrou sarà presente al
secondo turno). L’alchimia dei
sondaggi resta un segreto di
fabbricazione: ma qualcosa sta
filtrando, e non è rassicurante.
Per esempio, pare che il 30-50%
dei francesi interrogati (su una
base media di mille persone)
rifiuti di rispondere. Inoltre, i
sondaggi vengono realizzati solo
via telefono fisso: ma ormai un
terzo dei francesi – i più giovani,
i più poveri – hanno solo il
cellulare e quindi sono esclusi
d’ufficio. Infine, c’è la
«ponderazione» dei risultati. Per
esempio, Jean-Marie Le Pen è
sempre molto basso nei
sondaggi. Ma gli istituti lo
«raddrizzano» sulla base di un
coefficiente ricavato dal «ricordo
del voto» in precedenti elezioni
e dai risultati reali in quelle
stesse elezioni. Così, calcola Le
Canard Enchainé rispetto a un
sondaggio Ipsos del 16 marzo,
mentre 38 persone su 1193
hanno risposto di voler votare
Le Pen, alla fine il termometro
ha dato il candidato del Fn al
16,6%: la cifra grezza è stata
moltiplicata per un coefficiente
pari a 3,278, che ha gonfiato i 38
lepenisti a 125. Il Canard cita il
famoso demografo Alfred Sauvy:
«In ogni statistica, l’inesattezza
del numero è compensata dalla
precisione dei decimali». Gli
istituti si difendono: «Cosa
significherebbe la pubblicazione
di dati grezzi, che sappiamo
fallaci?» – scrivono Roland
Cayrol e Stéphane Rozès
dell’istituto Csa. «Far credere
che Le Pen otterrebbe meno voti
del suo livello reale? Far credere
che un altro candidato ne
otterrebbe di più? No: questa
richiesta mira, a screditare i
sondatori, lasciando credere che
manipolano i dati. Al contrario,
noi rivendichiamo pienamente
questo lavoro di natura
scientifica sui dati». I principali
istituti che operano in Francia
sono in mano a grossi capitali:
oltre a Ifop della presidente del
Medef, Sofres è filiale del
numero due mondiale del
settore (Tns, inglese); Ipsos è il
numero sei mondiale, con
finanzieri del calibro di Pinault;
Csa è di Lagardère, amico di
Sarkozy e padrone di Havas, di
una tv e di free press, Bva ha nel
capitale Rothschild; solo Lh2 è
un’impresa di medie
dimensioni.
nea, non una rivolta. Tutto ciò è
una buona illustrazione della Francia di Sarkozy, dove si montano gli
uni contro gli altri. Un bel clima di
odio, irrispettoso, che questo governo di piromani ha ampiamente
contribuito a generare. Una Francia dove dei tranquilli viaggiatori si
oppongono alla propria polizia, dove la minima scintilla può accendere un’insurrezione».
Certo, non tutti i commenti sui siti dei giornali sono su questo tono
:molti rivelano sentimenti di esaperazione contro «i giovani» delle
banlieues. Ma la reazione di fronte
alla scuola e quella dei normali viaggiatori della gare du Nord che percorrevano i corridioi che portano a
varie linee del métro e alla Rer (Rete express urbana) segnalano una
frattura tra una parte sempre più
consistente della popolazione e la
propria polizia. La stessa indignazione che ha avuto luogo di fronte
alla scuola di rue Rampal e che
esprime il Resf (Rete educazione
senza frontiere), un’associazioine
che aiuta le famiglie sans paiers dei
bambini scolarizzati in Francia.
«Abbiamo rispetto per la legge commenta una mamma - ma ci sono momenti in cui bisogna saper disobbedire alla regola». Per «umanità», semplicemente, per «solidarietà», in nome di un «atto cittadino».
In tutte le scuole materne e elementari di Parigi, direttori e insegnanti
hanno firmato un comunicato di
solidarietà con la direttrice della
rue Rampal. Le associazioni confermano «un clima molto reattivo», come afferma Jean-Pierre Dubois, presidente della Lega dei diritti dell’uomo. «La gente non ne può più di
uno stato dello spirito centrato sul
kärcher e sulla feccia», aggiunge.
«C’è una presa di coscienza che
non si può fare qualunque cosa, come i mini-rastrellamenti di sans papiers che si moltiplicano», dice Pierre Cordelier, portavoce del Resf.
«Della gente che finora non si era
mai preoccupata della sorte dei
sans papiers si dice: come è possiobile che una cosa del genere succeda in Francia?», afferma. Persino i
sindacati dei poliziotti sono preoccupati per la sfiducia che ormai regna tra la popolazione, specie la
più povera, e le forze dell’ordine. Alcuni criticano velatamente la politica seguita finora dall’ormai ex ministro degli interni, Nicolas Sarkozy.
Ma il suo giovane successore,
François Baroin, mercoledì si è recato alla gare du Nord per affermare che continuerà sulle linea del
suo predecessore.
Il problema è che i politici che si
oppongono a Sarkozy hanno reagito solo alla seconda parte degli avvenimenti della gare du Nord, senza dire una parola sulle prese di posizione dei cittadini, sulla protesta
che cresce contro la repressione.
«Ci battiamo - dice un insegnante ma abbiamo paura di non venire
ascoltati». Certo, Ségolène Royal ha
commentato: «Evidentemente i
viaggiatori devono pagare il biglietto, ma che un semplice controllo
possa degenerare in uno scontro
così violento è la prova che qualcosa proprio non va». Visto che questo «non è la Repubblica», Royal
propone «una Repubblica dell’ordine giusto», dove «la polizia», come
«i cittadini» siano rispettati. Stesso
tono da parte di Bayrou. «Tutto questo per un biglietto di metro… siamo a questo punto - ha detto - perché da tempo la polizia è stata trasformata unicamente in una forza
di repressione». Per Bayrou, «non
può continuare così. Ne usciremo
restituendo alla polizia un ruolo di
prevenzione e di accompagnamento e spiegando ai giovani, in particolare in banlieue, che questi incidenti si traducono sistematicamente
contro di loro».
Ma nessun candidato antiSarkozy ha ritenuto opportuno approfittare dell’occasione per riprendere alla base i valori del vivere assieme, al di là dei richiami al rispetto dell’ordine con meno violenza
da parte delle autorità. Eppure, dicono in molti, sarebbe stato un richiamo più producente all’«identità francese» di quello del tricolore e
della Marsigliese, che tanto ha fatto
discutere negli ultimi giorni.
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
4
internazionale
Ma. Fo.
Appello dalla prigionia: «Ritiratevi da Baghdad»
La crisi internazionale aperta dalla detenzione di 15 soldati britannici da parte dell’Iran
non sembra risolversi in tempi brevi - mentre nel Golfo Persico aumentano i movimenti militari.
Il governo britannico ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu di approvare una
dichiarazione che «deplori» la cattura e detenzione dei suoi soldati, e il Consiglio ha cominciato ieri sera a discuterne - anche se ci
sono obiezioni al testo sottoposto da Londra. Intanto però la mossa ha provocato la reazione iraniana. Tehran non ha rilasciato ieri l’unica donna del gruppo preso prigioniero una settimana fa nello Shatt-el Arab; la decisione, ha detto un comandante militare all’agenzia semiufficiale Mehr, è stata «sospesa» e «il comportamento di quelli che stanno
a Londra è la causa». In serata Tehran ha però offerto a Londra accesso ai detenuti.
L’ipotesi di rilasciare Faye Turney, marinaio, 26 anni, era stata annunciata mercoledì.
L’immagine della giovane donna, foulard ne-
L’Iran diffonde una lettera
attribuita alla soldatessa
prigioniera. Mentre il Consiglio di
sicurezza discute la crisi, e gli Usa
intensificano le manovre militari
Manifestanti anti-britannici ieri a Tehran
foto Ap
ro sui capelli biondi, mentre «confessa» in tv
che il suo gruppo ha violato le acque iraniane ha suscitato indignazione in patria.
L’Iran ora rilancia: ieri sera l’ambasciata
iraniana a Londra ha diffuso una lettera - la
seconda - attribuita a Faye Turney e indirizzata al parlamento britannico: «E’ tempo
che cominciamo a ritirare le nostre forze dall’Iraq e che li lasciamo determinare il loro futuro», fa appello.
Tehran chiede che i britannici ammettano
di aver illegalmente sconfinato in acque ira-
niane, cosa che Londra nega. Nessuno concederà mai un’ammissione, mentre si moltiplica la propaganda: il video, la lettera, gli studenti filoregime mandati ieri a manifestare
all’ambasciata britannica a Tehran, con slogans truculenti («morte alle spie»).
Al Consiglio di sicurezza Onu ieri Russia,
Cina, Indonesia, Qatar e altri hanno obiettato che non c’è modo di stabilire in modo indipendente dove si trovassero le imbarcazioni britanniche quando sono state intercettate. Il punto è che nelle acque del Golfo si sta
giocando una partita molto dura. «Con la
scusa di controllare le navi che entrano in
Iraq, [i britannici] vogliono rendere normale
amministrazione violare la sovranità di altri
paesi», ha dichiarato ieri Ali Larijani, capo
del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano: «Ma devono sapere che il costo sarà alto». Sullo sfondo c’è un’impennata della tensione militare nel Golfo. Ieri la Russia ha lan-
Dopo i deputati, anche i senatori approvano il finanziamento delle guerre, ma con una scadenza
Il senato sfida Bush: via dall’Iraq
Il presidente giura
che metterà il veto
sulla legge che fissa
una data per il
ritiro, e Congresso
raccoglie il guanto.
Grazie al «pork»
Roberto Zanini
S
e la minaccia del presidente americano Bush di mettere il veto sulla data di ritiro delle truppe era una sfida, ebbene il senato americano
l’ha raccolta e rilanciata con pari
intensità. Con un voto largamente
partigiano e una maggioranza risicata ma significativa, i senatori degli Stati uniti hanno votato 51 a 47
la legge che finanzia le campagne
militari americane secondo le richieste del presidente, ma impone una data di scadenza per il ritiro dei marines da Baghdad. Da ieri la Casa bianca e il parlamento
sono ufficialmente in rotta di collisione.
Il pacchetto approvato ieri dal
senato prevede che gli Stati uniti
spendano 122 miliardi di dollari
in una serie di provvedimenti mili-
tari in cui le guerre in Iraq e in Afghanistan fanno naturalmente la
parte del leone, e il ritiro delle truppe entro marzo del 2008. Un analogo provvedimento approvato alla camera parla di settembre del
2008: le due leggi andranno armonizzate prima di sottoporle alla firma del presidente e al suo «inevitabile» veto. Sono addirittura più soldi di quanti ne avesse effettivamente chiesti Bush al momento
di lanciare la sfida al parlamento e
chiedere il rifinanziamento delle
guerre da qui all’eternità. E il motivo di questa abbondanza di dollari c’è. Nello slang politico di
Washington di chiama pork barrell, il barilotto della carne di maiale. Si tratta di provvedimenti economici che dovrebbero essere in
qualche modo collegati alla guerra, ma che in realtà sono stati infilati su richiesta di questo o quel senatore in cambio del suo voto favorevole, un po’ come accade per
la finanziaria italiana intorno alla
mezzanotte dell’ultimo giorno utile per il voto.
Nel feroce pacchetto bellico approvato dal senato, quindi, si trovano anche gustose curiosità come 24 milioni di dollari di finanziamenti ai coltivatori di barbabietola da zucchero (evidente traccia di
un senatore della sugar belt americana, gli stati zuccherieri del sud),
12 milioni di dollari per servizi forestali (un altro senatore il cui collegio è evidentemente tappezzato
di boschi), 3,5 milioni di dollari
per «visite guidate del Campidoglio», 2 milioni di dollari per un
programma di eccellenza universitaria nel Vermont, 22,8 milioni di
dollari per finanziare ricerche geotermiche eccetera.
La crescente opposizione alla
campagna d’Iraq e un po’ di pork
hanno quindi determinato l’approvazione della legge che finanzia la guerra e le impone una data
di scadenza, e il fuoco di fila tra Casa bianca e Congresso è cominciato. Se portato alle estreme conse-
Bush insieme
alla speaker
democratica
della Camera,
Nancy Pelosi
ap
Scandalo procuratori,
ora Gonzales traballa
Franco Pantarelli New York
«Alberto Gonzales avrà molto da
spiegare», si dicevano l’un l’altro i
membri della commissione Giustizia del Senato, ieri, dopo la deposizione del suo ex capo dello staff Kyle Sampson, che aveva praticamente sbugiardato il suo ex capo sul
ruolo da lui svolto nella cacciata
dei procuratori federali per scarsa
lealtà verso George Bush. Gonzales
infatti andrà a testimoniare davanti alla commissione il 17 aprile e tutti pregustano il suo arrampicarsi
sugli specchi per conciliare il suo
pubblico «non ne sapevo nulla» di
due settimane fa con il «Gonzales e
Miers (l’ex consigliera legale di Bush, ndr) sono stati coinvolti per
due anni nelle discussioni su quali
procuratori licenziare» spiattellato
ieri da Sampson.
Poi però, viste le esplicite parole
dell’ex collaboratore di Gonzales,
un dubbio ha cominciato a sorgere: riuscirà il ministro della Giustizia a restare al suo posto fino al 17
aprile? La domanda era legittima
perché la possibilità che a Gonzales venga «consigliato» di dimettersi prima di quella data per evitare
che gli schizzi del fango in cui sarà
costretto a rotolarsi possano arrivare fino alla Casa bianca è considerata tutt’altro che remota.
Ieri, poco prima che la deposizione di Sampson cominciasse, proprio il ministero della Giustizia ha
diffuso una dichiarazione pubblica
per «correggere se stesso». Quando
abbiamo detto che Karl Rove non
ha avuto alcuni ruolo nel licenziamento dei procuratori, ci siamo
sbagliati, diceva in sostanza la dichiarazione, firmata da Richard
Hertling, uno dei tanti «facenti funzioni» che in questi giorni guidano
il ministero della Giustizia.
Ma siccome il fatto che avevano
mentito era ormai diventato evidente grazie al materiale raccolto
dalla commissione del Senato, con
quella dichiarazione il ministero
ha tentato di neutralizzare in extremis - riuscendoci - almeno alcune
delle pallottole che i senatori erano
pronti a sparare proprio durante la
deposizione di Sampson sul fatto
che la Casa bianca aveva volutamente nascosto la verità per salvare il «cervello di Bush». Allo stesso
modo, si speculava ieri, le eventuali dimissioni di Gonzales prima della sua deposizione del 17 aprile potrebbero servire a evitare di sottoporlo a una figura talmente barbi-
guenze - difficile prevedere se accadrà: negli ultimi anni, spesso è
bastato pronunciare le parole «sicurezza nazionale» per far liquefare qualsiasi opposizione parlamentare ai piani bellici dell’amministrazione Bush - il conflitto vedrà un vincitore e un vinto. Ed è il
presidente, non il Congresso che
dallo scorso gennaio è controllato
dai democratici, ad avere in questo momento le carte peggiori.
Il voto al senato è arrivato proprio mentre Bush stava arringando uno scelto manipolo di parla-
mentari repubblicani, invitandoli
a opporsi con ogni mezzo all’inserimento di date di ritiro nelle leggi
finanziarie. Il presidente non si è
fatto sfuggire l’occasione e, circondato da un pugno di fedelissimi, si
è offerto alle telecamere: «Siamo
compatti nell’affermare con forza
- ha detto - che quando le nostre
truppe sono impegnate in combattimento devono ricevere tutti i fondi necessari. Abbiamo i nostri comandanti militari impegnati sul
campo in difficili decisioni, e non
devono avere le mani legate». «Io
non so se ci sia mai stato - ha replicato il presidente del senato Harry
Reid, un democratico del Nevada
- se ci sia mai stato un presidente
che abbia così gravemente danneggiato le nostre truppe». Somiglia a quel letale gioco reso celebre da Hollywood in cui due giovani guidano la propria automobile
verso un precipizio, e vince chi salta giù dall’auto per ultimo. In Gioventù bruciata finisce malissimo.
Se Congresso o Casa bianca
non modificano le proprie posizioni, l’uno togliendo la data del ritiro o l’altra accettando tale data, la
legge non passerà e i finanziamenti all’esercito in guerra verranno a
mancare. «I soldi che ci sono bastano fino a metà di aprile», ha avvertito il Pentagono. Manca davvero poco. E se - evento poco probabile - l’armata resta al verde, sia
Bush che il parlamento non vogliono portarne la colpa.
Ministro sulla graticola
Il suo ex capo dello staff
depone contro il titolare della
giustizia Usa: ha partecipato
alle discussioni sui giudici
«scomodi» da licenziare.
Sempre più difficile
la posizione dell’uomo
di Bush alla vigilia della
deposizione del 17 aprile
ciato un monito agli Stati uniti: «Il Golfo persico è in uno stato di agitazione tale che ogni
azione (...) militare rischia di aggravare ancora di più la situazione», ha detto il ministro
degli esteri russo Sergei Lavrov. Si riferiva alle esercitazioni condotte dagli Usa e concluse proprio ieri: le più ampie manovre nel Golfo dal 2003. Il Pentagono ieri ha notato che le
esercitazioni sono state decise due settimane fa e intensificate in seguito all’aumentata
tensione tra l’Iran e le nazioni occidentali.
Da febbraio ormai gli Usa hanno rafforzato
la propria presenza con una seconda portaerei (ieri il comando della Marina militare
Usa annunciando che la Nimitz salperà per
il Golfo, dove darà il cambio alla Eisenhower). Pochi giorni fa l’agenzia Ria-Novosti citava un «alto ufficiale dei servizi segreti militari» russi secondo cui le esercitazioni
americane preludono alla «preparazione per
operazioni di terra e aeree contro l’Iran».
notizie
Somalia
Giornata di guerra: scempio
sui corpi dei soldati etiopici
A Mogadiscio, teatro ieri di una nuova
giornata di guerra, la rabbia è esplosa
contro i soldati etiopici. La battaglia
infuriata nella capitale avrebbe fatto
almeno 13 morti con la conseguenza di
far saltare il fragile cessate-il-fuoco
concordato sabato e frutto dei negoziati
tra il principale clan di Mogadiscio, gli
Hawaiye, e il governo di transizione. La
rabbia della popolazione ha infierito sui
corpi di due soldati etiopici, caduti
insieme con altri 5 nei combattimenti, allo
stesso modo in cui la violenza fu inflitta la
scorsa settimana su due soldati somali
morti. Un congresso di riconciliazione
nazionale è in programma a Mogadiscio
dal 16 aprile al 16 giugno. Ma dopo la
violenza delle ultime settimanela
situazione appare compromessa.
Medioriente
Peres sul Piano: «Trattiamo
ma alle nostre condizioni»
Sul piano di pace saudita in discussione
al vertice in corso a Riad, il vice premier
israeliano Shimon Peres ha anticipato ieri
quella che sarà la posizione di Israele,
affermando che non si può imporre allo
stato ebraico di accettare il piano saudita
così come è stato formulato. «Non c'è
che un solo modo - ha detto - per
superare le differenze: il negoziato. Non ci
si può dire: dovete accettare ciò che vi
proponiamo così com’è».
Cuba
Castro contro il biofuel Usa
«3 miliardi rischiano la fame»
Nel primo articolo pubblicato da
quando, il 27 luglio scorso, si è
sottoposto a una complicata operazione
all’intestino, il leader cubano Fidel
Castro ha attaccato l’uso dei carburanti
derivati dai cereali, molto sponsorizzati
dal presidente americano George Bush.
E’ una «idea sinistra» e «una tragedia»,
scrive Castro, che potrebbe significare la
«Condanna a morte prematura per fame
e sete per oltre tre miliardi di persone
nel mondo». Questo è il titolo
dell’editoriale pubblicato ieri da Granma,
l’organo di stampa ufficiale del Pc
cubano, che il lider maxiimo dice di aver
scritto come «commento» alla recente
riunione avuta da Bush con le grandi
industrie automobilistiche americane.
Zimbabwe
na da coinvolgere un ben pezzo di
Casa bianca.
Sampson, comunque, non è stato «il John Dean di Bush» come
molti avevano previsto-sperato
pensando all’uomo di Richard
Nixon che durante lo sviluppo dello scandalo Watergate mollò il suo
capo e raccontò tutto ciò che sapeva. La ragione per cui si è offerto di
testimoniare, ha spiegato Sampson, è che questa faccenda è stata
«personalmente devastante per
me e la mia famiglia» e a questo
punto vuole mettersela alle spalle.
Non fino al punto, però, da fargli
perdere il suo senso di lealtà nei
confronti di Bush. Quando per
esempio si è discusso dei «motivi»
per cui gli otto procuratori sono stati licenziati lui si è imbarcato in
una involutissima discussione.
Ai senatori che sostenevano che
i licenziamenti sono stati decisi per
ragioni politiche contrabbandate
con valutazioni professionali, lui
ha replicato che «la distinzione fra
le due cose è largamente artificiale». Le colpe dei licenziati non erano state «politiche» ma erano state
di «non portare avanti le priorità
del presidente e del ministro della
Giustizia».
Qual è la differenza?, gli ha chiesto incuriosito un senatore. Sampson ci ha pensato su e poi ha prodotto un fantastico «In un certo
senso ciò che è accaduto potrebbe
anche essere descritto da qualcuno come un fatto politico».
Questa storia, come si sa, ha fatto arrabbiare anche alcuni repubblicani che credono ancora nell’idea che le istituzioni debbano
funzionare. «Il ministero della Giustizia è stato ridotto a uno stato di
completa confusione», ha tuonato
per esempio Arlen Specter, che prima del cambio di maggioranza era
il presidente della commissione
Giustizia.
«Tutti i procuratori ora sono inquieti, non sanno che fare e si chiedono chi sarà fra loro il prossimo a
cadere». Che poi è la stessa accusa
che alcuni di loro, non tanto inquieti, hanno rivolto allo stesso Gonzales l’altro ieri, durante una riunione che doveva restare segreta ma il
cui contenuto è finito sul New York
Times. Qualcuno ha chiesto un
commento alla portavoce di Gonzales, Tasia Scolinos, e lei ha risposto stizzita: «Era una riunione riservata, non un’iniziativa di relazioni
pubbliche».
«Basta con le sanzioni»,
appello dal vertice Sadc
I leader di 14 paesi africani, al termine
del vertice straordinario della Sadc
(Comunità per lo sviluppo dell'Africa
meridionale) svoltosi ieri a Dar es
Salaam, Tanzania, hanno lanciato un
appello perché vengano tolte tutte le
sanzioni contro lo Zimbabwe. Nel
comunicato finale si esprime anche
solidarietà col popolo e il governo del
paese. I leader Sadc si rivolgono anche
a Londra affinché «onori i suoi impegni»
e fornisca aiuti ad Harare per attuare la
riforma agraria. Il vertice straordinario
aveva lo scopo di determinare una
posizione comune nella crisi politica
dello Zimbabwe, dove è in corso un
drammatico braccio di ferro tra il regime
di Mugabe e l'opposizione. Ma sempre
ieri il governo tedesco ha chiesto
l’inasprimento delle sanzioni Ue.
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
internazionale
5
Emergency
Rahmat e Adjmal, sabato
manifestazione a Roma
Il mullah
Dadullah
nelle immagini
trasmesse ieri
da Sky Tg24
Foto ap
Il comandante
dei taliban sfida
il presidente Karzai:
liberi due dei nostri,
o ammazzeremo
l’interprete
di Mastrogiacomo.
Militari italiani
attaccati a sud
di Herat: soldato
ferito a un braccio
Fausto Della Porta
I
l presidente afghano Karzai
deve trattare con i taliban
la liberazione di Adjmal, altrimenti uccideremo l’interprete di Daniele Mastrogiacomo catturato assieme al giornalista di Repubblica e tuttora prigioniero degli studenti coranici.
È questo il messaggio lanciato ieri dal mullah Dadullah, il comandante militare della guerriglia islamista intervistato da Sky
Tg24, che ha specificato che la richiesta al governo di Kabul per
ottenere il rilascio di Adjmal è
Dadullah: trattate
o uccidiamo Adjmal
sempre la stessa: la scarcerazione di due taliban che l’esecutivo
afghano si sarebbe in un primo
tempo impegnato a rilasciare,
venendo poi meno alla parola
data.
Il comandante militare sta diventando più popolare della guida spirituale, il super ricercato
mullah Omar, dopo aver ottenuto un successo personale nella
gestione del sequestro del reporter occidentale, cerca di capitalizzarne i risultati in termini di
propaganda interna. Anzitutto,
con l’intervista concessa alla tv
italiana, prova a mettere fine a
giorni d’incertezza sulla sorte di
Adjmal. «L’autista del giornalista Daniele è in mano nostra.
Non è un uomo qualunque, suo
zio è responsabile governativo
nel distretto di Bagram, lui stesso ha lavorato in una base militare americana. Ma il presidente
Karzai dovrebbe avere a cuore
la sua sorte, come ha avuto a
cuore la sorte di Mastrogiacomo. Lo dimostri, tratti con noi.
L’Italia è il paese guida per la «giustizia»
e le carceri in Afghanistan. E per
«sgravare» gli Usa, nel nuovo penitenziario
di Pol-i-Charkhi saranno trasferiti molti
detenuti di Guantanamo e di Bagram.
Che cosa succede nelle prigioni afghane?
Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco
I
l ministro della difesa afghano, Abdul
Rahim Wardak, ha appena inaugurato
il nuovo blocco di massima sicurezza
del carcere di Pol-i-Charkhi, nei pressi
di Kabul. «Non manderemo più nessuno a
Guantanamo; - ha annunciato - d’ora in
poi, chiunque sarà arrestato per terrorismo
finirà a Pol-i-Charkhi». «Guantanamo è
qui, dunque. - ha scritto Francesco Battistini, inviato del Corriere della Sera il 26 marzo - Appena fuori Kabul, direzione est. Un
cassone di cemento armato, telecamere,
microspie e sensori laser: 324 celle, 172
guardie addestrate dalle forze speciali Usa,
filo spinato e mura insormontabili».
Alla realizzazione della Guantanamo afghana ha contribuito in modo decisivo l’Italia. Nella ripartizione dei compiti per garantire la «sicurezza interna» dell’Afghanistan
sono stati infatti individuati cinque «pilastri prioritari» _ nell’illustrazione della cooperazione italiana è un tempio greco con le
colonne portanti specifiche per ognun paese -, la cui costruzione è stata posta sotto la
leadership di altrettante «nazioni guida»:
l’esercito è stato affidato agli Usa, la polizia
alla Germania, l’anti-narcotici alla Gran
Bretagna, il disarmo delle milizie parallele
al Giappone, la giustizia all’Italia. E’ stato a
tal fine costituito nel 2003, sotto il governo
Berlusconi, «l’Ufficio italiano giustizia» che,
diretto dall’ambasciatore Jolanda Brunetti
Goetz, si occupa del «ripristino di un’efficace amministrazione giudiziaria» in Afghanistan. In tale quadro rientra la «costruzione
Altrimenti verrà dimostrato
quello che io penso. Karzai è solo un burattino nelle mani di Bush, della Gran Bretagna e dell’ambasciata italiana». Poi lancia una sfida alle truppe, britannici e americani anzitutto, che
stanno dando la caccia ai suoi
uomini nel sud e nell’est del paese: «Con me ci sono uomini di
diverse nazionalità e uomini di
al Qaeda. Venite qui a cercarli e
non colpite innocenti in altre zone», minaccia Dadullah, prima
di aggiungere che tuttavia «per
ogni arrestato di al Qaeda ce ne
sono dieci taliban».
Ma la giornata di ieri è stata
contrassegnata anche dall’ennesimo attacco contro le truppe
italiane. Secondo quanto riferito dal ministero della difesa,
una pattuglia di militari era impegnata «in normale attività di
ricognizione» nei pressi di Shindad, circa 70 chilometri a sud di
Herat, nell’Afghanistan occidentale, quando è stata attaccata da
«elementi ostili» a colpi di arma
Ha raccolto oltre 90mila adesioni in soli tre
giorni l'appello lanciato da Emergency.
Oltre a migliaia di cittadini «comuni»,
hanno risposto personaggi del mondo
della cultura, dello spettacolo e
dell'informazione. Tutti insieme si
ritroveranno domani a Roma, in piazza
Navona (ore 14.30), per chiedere la
liberazione di Rahmatullah Hanefi e Adjmal
Nashkbandi. Tra i firmatari dell'appello ci
sono Davide Riondino, Vauro Senesi,
Ascanio Celestini, Dario Fo, Franca Rame,
Beppe Grillo, Jacopo Fo, Furio Colombo,
Antonio Tabucchi, Sandro Portelli,Antonio
Cipriani ed altri ancora, insieme alla
presidente di Emergency Teresa Sarti.
Sono molte, poi, le amministrazioni locali,
prefetture, associazioniche in queste ore
drammatiche si stanno mobilitando. A loro
Emergency chiede di partecipare anche in
questa occasione, la prima a carattere
nazionale. «Siamo convinti che tanti di
coloro a cui sta a cuore la pace e che
credono che la via della solidarietà sia
l'unica percorribile - si legge nella
conclusione delll’appello - vorranno
partecipare, portando così• il proprio
importante contributo alla definitiva
conclusione di questa drammatica
vicenda». Per firmare l'appello:
www.emergency.it.
da fuoco. Un incursore della Marina del Comsubin, uno dei reparti speciali delle forze armate,
è rimasto ferito a un braccio in
maniera non grave, tanto che
non si è resa necessaria la sua
evacuazione d’urgenza.
Resta il fatto che - come sottolineato negli ultimi giorni da documenti dell’intelligence e analisi dei militari - i soldati italiani a
Herat e Kabul, aree un tempo
considerate «tranquille» sono
nel mirino di taliban e della coalizione di studenti coranici, signori della guerra e jihadisti che
mirano a indebolire sempre più
il già debole potere esercitato
dal governo centrale grazie al sostegno delle migliaia di soldati
inquadrati nel contingente multinazionale dell’Isaf, a guida Nato. L’ultima azione di guerra
contro i militari italiani si era verificata domenica scorsa, quando una bomba artigianale (Ied)
era esplosa al passaggio di un
convoglio nella provincia di Farah - sempre nell’area dell’Af-
ghanistan occidentale assegnata dalla Nato al controllo dei soldati italiani - senza provocare feriti. Nella stessa provincia, il 20
marzo, una pattuglia di forze
speciali italiane era stata presa
di mira da colpi di armi automatiche.
In precedenza, un altro attentato contro gli italiani si era verificato l’8 marzo scorso, nei pressi della capitale Kabul: una pattuglia era stata presa di mira a
colpi di lanciarazzi Rpg, ma nessuno era rimasto ferito. In quell’occasione i soldati erano a bordo di un blindato.
I soldati italiani di stanza in Afghanistan sono oltre duemila,
tra Kabul e la parte occidentale
del Paese. Proprio nell’ovest, un
settore in cui la missione della
Nato Isaf è affidata al comando
del generale italiano Antonio
Satta, negli ultimi mesi c’è stata
una recrudescenza di attacchi
contro le forze di sicurezza afghane e i militari della Coalizione.
La Guantanamo afghana è italiana
o riabilitazione di infrastrutture: tribunali, uffici, prigioni».
Dopo una iniziale concentrazione delle attività nella capitale,
Kabul, «l’attenzione dei progetti italiani va ora gradualmente
espandendosi alle province ed ai distretti».
Rientra in tale quadro la costruzione di altre carceri. Ufficialmente per migliorare le
condizioni di vita dei detenuti.
Tale impegno è stato confermato, con
esemplare spirito bipartisan, dal governo
Prodi. Lo scorso 6 febbraio, alla commissione III della Camera, il sottosegretario per
gli affari esteri Gianni Vernetti, dopo aver
assicurato che il governo cerca di potenziare e migliorare il «programma giustizia»
con il coordinamento della nostra ambasciata a Kabul, ha sottolineato: «Abbiamo
fornito un contributo concreto non soltanto in termini di uffici del ministero, ma anche di tribunali, procure e carceri; a questo
si aggiunga la formazione di 2.000 operatori della giustizia: giudici, procuratori, avvocati, operatori penitenziari».
Resta da vedere quanto questi «operatori
di giustizia» operino per la giustizia. E quale sistema di giustizia possa essere costruito da chi, dopo aver occupato il paese, gli
detta le norme di diritto che esso deve seguire, compresi «il nuovo codice di procedura penale, il codice minorile, le iniziative
per la qualità della vita nel sistema penitenziario del paese».
Una cosa però è certa: la costruzione di
nuove carceri, finanziata dall’Italia, serve.
Soprattutto agli Stati uniti. Come ha confermato sei mesi fa il segretario generale delle
Nazioni unite l’11 settembre 2006, nel centro di detenzione di massima sicurezza di
Pol-i-Charkhi dovrebbero essere trasferiti
gli afghani detenuti a Guantanamo (Cuba),
il cui numero è stimato in circa 70, e parte
di quelli detenuti nella base aerea di Bagram in Afghanistan, il cui numero è stimato in circa 800.
Formalmente quindi essi passeranno,
con il beneplacito dell’Onu, «dalla custodia
militare degli Stati uniti a quella delle autorità afghane». Come sottolinea Battistini,
«la nuova Guantanamo afghana servirà per
l’ opinione pubblica mondiale: se ci sarà
qualche abuso, ora la colpa sarà di Kabul».
Di fronte all’indignazione suscitata nel
mondo dalle torture praticate dai militari
statunitensi ai prigionieri di Guantanamo,
Bagram, Abu Ghraib e altri centri di detenzione, Washington cerca, nei casi in cui è
possibile, di consegnare formalmente i prigionieri alle «autorità» nazionali. Così,
quando verranno alla luce altre prove di torture, saranno queste a risponderne. Allo
stesso tempo i prigionieri continueranno
ad essere in mani statunitensi: lo conferma
il fatto che le guardie afghane del centro di
detenzione di massima sicurezza di Pol-iCharkhi sono state scelte e addestrate da
forze speciali Usa, esperte in tecniche di tortura.
Ai prigionieri trasferiti da Guantanamo,
Bagram e altri centri di detenzione statunitensi, si aggiungeranno quelli che saranno
catturati nell’operazione Achille della Nato/
Isaf e in altre future operazioni militari. C’è
quindi bisogno di nuove carceri, dove imprigionare e interrogare chiunque, talebano o no, resista all’occupazione o debba comunque essere interrogato sotto tortura
per estorcergli informazioni o fargli confessare crimini non commessi.
A Pol-i-Charkhi, riferisce sempre Francesco Battistini, potrebbe essere finito anche
Rahmatullah Hanefi, il mediatore di Emergency arrestato dai servizi afghani dopo la
liberazione del giornalista Mastrogiacomo
e che, come riporta Teresa Strada, è già stato torturato con scosse elettriche e anche,
secondo la testimonianza di un agente ferito in un attentato raccolta dall’inviato di PeaceReporter Enrico Piovesana «pestato ben
bene». Tutto questo sotto la copertura del
«programma giustizia», finanziato e realizzato dal governo italiano per «rispondere
adeguatamente alla diffusa domanda di
giustizia in Afghanistan nel rispetto degli
standard internazionali sui diritti umani».
Afghanistan
Il mediatore
è in cella a Kabul
Enrico Piovesana * Lashkargah
I
eri mattina Lashkargah si è svegliata sotto assedio. La polizia
afgana, armata fino ai denti,
bloccava tutte le strade: vietato
circolare in tutta la città. In cielo volavano bassi gli elicotteri da combattimento «Apache» e i grandi quelli da
trasporto «Chinook», a doppia elica,
facevano avanti e indietro dalla base
Nato britannica, sfiorando le cime
degli alberi. Tutto questo, a causa
della visita a sorpresa del presidente
afgano Hamid Karzai.
Una visita sgradita. La gente è irritata, nessuno può muoversi, andare
a lavorare, andare al bazar. «Karzai è
arrivato per dimostrare che il governo centrale esercita la sua autorità
fin qui», dice Noor Agha. «Ma guardate: viene lui e la gente deve sparire, la città si deve svuotare! Quando
il potere ha paura del popolo, quel
potere non esiste».
Ma in cielo non volano solo elicotteri per pattugliare le strade. Più in alto, appena visibili, i jet militari statunitensi e britannici rombano tra le
nuvole senza sosta. «Vanno a bombardare», dice Asadullah, dipendente locale di Emergency. «Sulle montagne di Sangin, Musa Qala, Naw Zad:
da quelle parti le bombe cadono
ogni giorno».
Rahmat è a Kabul. Dopo il nervosismo e la tensione di questa mattinata, verso l’ora di
pranzo è giunta da
Kabul la conferma
della notizia che circolava qui a Lashkargah fin da ieri: Rahmatullah Hanefi è
stato trasferito da
qui a Kabul.
Il manager dell’ospedale di Emergency a Lashkargah,
prelevato dai servizi
segreti afgani lo
Speranza
scorso 20 marzo e
L’ambasciatore
da allora sparito nel
italiano Sequi vuole
limbo del National
visitare in carcere
Security
Departl’uomo che ha
ment, è stato trafavorito
sportato ieri pomela liberazione
riggio da qui alla cadi Mastrogiacomo
pitale a bordo di un
e che i servizi afghani
convoglio di mezzi
hanno arrestato
dell’Nsd. In questo
momento si trova
detenuto all’interno
dell’Investigation Department, una
delle tre prigioni governative di Kabul, al cui interno si trova un ambulatorio gestito da Emergency. Allo staff
dell’organizzazione, però, non è stato consentito di vedere Rahmat.
L’ambasciatore Ettore Sequi vuole
vederlo. A Kabul si lavora febbrilmente per far sì che Rahmat possa ricevere in carcere una visita ufficiale
del diplomatico italiano in Afghanistan, insieme a un rappresentante
dello staff di Emergency. Un incontro che l’organizzazione richiede a
gran voce da dieci giorni, e che è fortemente voluto dallo stesso ambasciatore: «Speriamo di riuscire a fargli visita nelle prossime ore», ha dichiarato Sequi, contattato per telefono. «Vogliamo verificare di persona
come sta lui e come stanno le cose rispetto al suo fermo. Speriamo che
torni libero al più presto perché qui
in Afghanistan Emergency è una realtà estremamente importante, come
il governo italiano ben sa».
Ettore Sequi sta lavorando anche
per Adjmal Nashkbandi, l’interprete
afgano di cui si sono perse le tracce
dal giorno della liberazione di Mastrogiacomo. «La vita per noi non ha
nazionalità - sottolinea Sequi -. Fin
dal primo momento il governo italiano si è battuto per la liberazione di
tre ostaggi e non solo per riavere Daniele».
Per rispondere alle polemiche dei
giornalisti afgani, che nei giorni scorsi hanno accusato il governo afgano
e quello italiano di avere usato due
pesi e due misure nella gestione di
questa crisi degli ostaggi, ha anche
organizzato un incontro con la stampa locale, nel grigio salotto in cemento armato dell’ambasciata di Kabul.
«Il nostro obiettivo è solo uno», ha ribadito Sequi: «che il giovane interprete Adjmal e il capo dello staff di
Emergency Rahmatullah vengano liberati».
PeaceReporter
il manifesto
6
&società
venerdì 30 marzo 2007
politica
Dai Ds al Pd La mozione Mussi andrà al congresso,
ma poi lascerà per «aprire un nuovo processo politico»
La sinistra lo farà:
«Via dopo Firenze»
La sezione
Balduina di
Roma dove la
mozione Mussi
ha battuto
quella di Fassino
Foto Alberto
Critofari/ A3
Andrea Fabozzi Roma
P
robabilmente non è la notte insonne consumata tra
le ultime mediazioni e
nemmeno la lunga assemblea di sei ore dedicata a vincere le
residue resistenze: se i dirigenti
della sinistra Ds appaiono stravolti è perché sanno di aver fatto dopo aver tanto annunciato un passo senza ritorno. La scissione nei
Ds ci sarà, anche se hanno ragione a rifiutare il termine: la Quercia
andrà a morire e dalle sue ceneri
non nascerà soltanto il Pd. Ma anche, subito, un «movimento politico autonomo organizzato» con
gruppi parlamentari alla camera e
al senato. In futuro, si immagina,
un partito nell’unione con Rifondazione o con la sua parte maggioritaria e nel «dialogo» con vecchie
nuovi socialisti. E se il partito ancora non si vede c’è però ben piantato un paletto non facile aggirare:
«La nuova forza unitaria e di governo - sostiene la sinistra Ds - sarà
collocata nel Pse».
Il senso della rottura di ieri dei
delegati e dirigenti della mozione
Mussi - firmata dal ministro dell’università e da Cesare Salvi, Fulvia Bandoli e Valdo Spini - non sta
nell’estremo richiamo a Piero Fassino: «Fermatevi, non sciogliete i
Ds». La risposta del segretario del
partito è un no scontato. Sta invece nel fatto che la prospettiva futura è ormai indicata con chiarezza,
e non è certo quella di fare la sinistra del Pd. Ma invece quella di
«aprire un processo politico nuovo a sinistra», «raccogliere forze
per crearne una più grande». Progetto vagheggiato da almeno
vent’anni, ma possibile «ora che
tutta la sinistra, senza eccezioni,
condivide la stessa responsabilità
di governo».
Potrebbe sembrare in contraddizione con questa scelta di rottura
il fatto che i rappresentanti della
mozione «A sinistra per il socialismo europeo» abbiano deciso comunque di andare al congresso
nazionale dei Ds a metà aprile a Firenze. Un congresso considerato
sostanzialmente di scioglimento.
Ma - anche oltre le intenzioni dello stesso Mussi e soprattutto contro la volontà di Salvi - si tratta di
una scelta di mediazione: nella
corrente specie nelle regioni rosse
Emilia e Toscana il coraggio della
rottura netta ancora non c’è tutto.
Una decisione dovrebbe essere definitiva: non si accetteranno incari-
La sinistra della Quercia si prepara al grande passo
con l’incognita delle amministrative di maggio. Da
subito un «soggetto politico autonomo organizzato».
Angius resta alla finestra contando sul fallimento del
Pd, ma non esclude un futuro insieme. Purché nel Pse
chi direttivi nel partito. E un attimo dopo l’avvio della fase costituente del Pd ognuno andrà per la
sua strada.
L’appuntamento dunque è segnato, ma non immediato. Al congresso Mussi terrà «la relazione
della vita», spiegherà le ragioni della sinistra anche se Fassino ha in
mente di schieragli contro proprio
il leader del Pse Martin Schultz
per farsi dare la benedizione al Pd.
Se la presenza del socialista tedesco è sicura, meno sicuro è quello
che dirà. Anche perché Fassino
per stemperare le tensioni con la
Margherita ormai parla sempre
più spesso di Internazionale socialista - rassemblement per tutti i gusti con 161 aderenti - e sempre meno di Pse. Dopo il congresso ci saranno le amministrative a fine
maggio e anche lì per molti diessini di sinistra sarà difficile lasciare,
specie nelle città dove la corrente
è debole. O all’Aquila dove la sinistra ha dalla sua il candidato sindaco dell’Unione.
Senza alcuna intenzione di fermarsi, Fassino chiede a Mussi come ad Angius di «provare il budino» prima di rifiutarlo: entrare nel
Pd acconciandosi a fare la sinistra.
Non esclude il segretario di indurre qualcuno in tentazione e deve
anche subire il pressing dei dalemiani che vogliono almeno provare ad evitare la rottura. O a trattenere un po’ di compagni.
Dall’altra parte la mozione Angius dopo il buon risultato nei con-
gressi di sezione (9%, la sinistra ha
il 15,5% il che può far dire a Mussi
che un iscritto su quattro è contrario al Pd) ha in mente una diversa
strategia. Con cortesia il portavoce della terza mozione Alberto Nigra apprezza l’appello di Fassino,
ma sottolinea come il segretario
«elude le nostre richieste». Al congresso i delegati della terza mozione non necessariamente rifiuteranno gli incarichi direttivi. Proveranno a far approvare un ordine
del giorno per tenere il partito nel
Pse. Poi staranno alla finestra, tre
mesi o poco più. Un tempo nel
quale i destini del Pd dovrebbero
compiersi nei lavori della costituente con l’approvazione del manifesto: Fassino infatti vuole accelerare il debutto al 2008. Prima diceva: ci vuole il Pd per sostenere
Prodi. Adesso ammette: se non facciamo il Pd cade Prodi. Ma tutto è
ancora possibile: ci sono le amministrative, soprattutto c’è Rutelli
tentato da Casini. Ma se il partito
democratico dovesse nascere, allora anche gli uomini di Angius guarderebbero volentieri al «movimento politico autonomo organizzato» di Mussi. Purché resti ben saldo quel paletto, un vero problema
per Rifondazione: «Bisogna restare dentro il Pse».
Pci-Pds-Ds-Pd
Fassino, questione di sigle
Interpellato (sull’Unità e sul Riformista) con qualche
vibrazione emotiva dal fondatore del Partito democratico
della sinistra sul senso e i destini del Partito democratico,
il segretario dei Democratici di sinistra (non) risponde
(sul Riformista) abbassando il livello delle vibrazioni.
Occhetto chiedeva che fine hanno fatto «il sogno» della
svolta, la fantasia della sinistra sommersa, lo spirito della
«carovana», le speranze del primo Ulivo, Fassino
risponde spiattellando dati (del congresso), date (del
cammino fatto dall’89 a oggi), programmi (del nacituro
partito: riformista, del lavoro, dello sviluppo, per i
giovani (di talento), della cittadinanza, della democrazia,
della pace come valore fondante (cioè della guerra come
pratica costante?)). E passi: è Fassino. Ma la gaffe di
chiamare Ds il partito nato dalla svolta, quella se la
poteva risparmiare. Era il Pds e Occhetto ne era il
segretario, un po’ di rispetto. Poi cadde la P del partito,
ora torna la P e cade la s di sinistra. Tutto qui.
(I.D.)
Appalta Ue, lo scandalo si allarga
Si aggrava la posizione dei tre
italiani fermati, che da ieri devono
rispondere anche di riciclaggio. E
intanto si scopre il caso della sede
della commisione in Albania
Alberto D'Argenzio Bruxelles
Passano i giorni e si fa sempre più delicata la
posizione dei tre italiani fermati martedì
mattina nello scandalo di euro-corruzione
legata agli affitti ed agli appalti per la sicurezza delle delegazioni della Commissione europea all'estero. Ieri i tre, oltre alle accuse di
truffa, corruzione attiva e passiva, falso in atto pubblico ed associazione a delinquere, si
sono visti affibbiare pure quella di riciclaggio di denaro sporco, ma gli investigatori
non escludono che possano essere contestati altri reati. Già oggi i giudici della camera di
Consiglio dovranno invece decidere se confermare o meno la custodia cautelare per il
39enne assistente parlamentare Sergio Tricarico, per il funzionario della Commissione
Giancarlo Ciotti di 46 anni e per l'imprenditore 60enne Angelo Troiano.
Intanto ieri sono emersi anche altri elementi delle indagini, dopo il caso della mazzetta di 600 mila euro richiesta ad un imprenditore finlandese per aggiudicarsi la costruzione della sede della Commissione di
Nuova Delhi. I nuovi fatti avvengono in Albania e vedono protagonista Ciotti, un capo
settore della Dg Relazioni estere (in pratica
il ministero degli esteri della Commissione),
incaricato fin dal 2002 di seguire la pratica
relativa alla nuova sede di Tirana. Secondo
quanto riporta un'agenzia, l'indagato avrebbe scelto, contro il parere del personale della stessa delegazione, un edificio in periferia
e che doveva ancora essere costruito, ossia
un progetto. «Ciotti - racconta una fonte - fece un contratto di affitto preliminare sulla
base del quale la ditta prescelta ottenne un
finanziamento da una banca e avviò così la
costruzione dello stabile». In pratica una
trattativa diretta. A «vincere» l'appalto è la
Europa building shpk, una società con sede
a Tirana e controllata in tandem da un imprenditore locale e da un italiano residente
in provincia di Potenza. Potenza è anche la
città da cui viene l'assistente parlamentare
Sergio Tricarico e che ospita la procura incaricata di seguire il filone italiano dell'inchiesta.
Torniamo in Albania: l'edificio seleziona-
to da Ciotti alla periferia di Tirana, venne costruito fra il 2004 e il 2005 e quindi occupato
per quattro piani dalla locale delegazione
della Commissione europea, mentre il quinto viene adibito a residenza del capo delegazione. Alla fine di questa trafila l'erario comunitario si trova a pagare un affitto che varia tra i 40 ed i 50 mila euro al mese, una
somma tre volte più alta di quella che stanziava prima per una sede che stava pure nel
centro della capitale albanese.
Al di là della presunta frode, i fatti fanno a
pugni con quanto sostengono i portavoce
della Commissione. Gli uomini di Barroso
continuano a sottolineare la bontà dei controlli, inaspriti con la riforma Kinnock del
2000, e a ripetere che un «capo settore (come Ciotti, ndr) non ha il potere di firma», ossia che non può concludere da solo contratti a nome dell'esecutivo comunitario. Facendo uno più uno risulta che o i controlli non
erano così buoni o che qualcun altro a livelli
superiori era d'accordo con l'indagato.
Parla infine Gianni Rivera, l'ex pallone
d'oro ed ex uomo della Margherita è infatti
venuto a Bruxelles per un attestato di stima
verso il suo assistente: «Sono stupefatto - ha
detto -, Tricarico è una persona affidabile
mi è stato consigliato da molte persone conosciute».
La rottura più difficile: annunciata però impossibile
Corsi e ricorsi, ma i protagonisti sono sempre gli stessi
E Salvi disse: bene,
ho aspettato per 7 anni
Roma
E alla fine Salvi disse:
«Finalmente! Dovevamo farlo
sette anni fa».
Sette anni fa, l’anno del primo
congresso dei Ds a Torino, quello
di Veltroni e I Care, Cesare Salvi
era ministro del lavoro. Lo era
diventato con D’Alema a palazzo
Chigi, una nomina che aveva il
sapore della sfida. ’A Jospe’, facce
vede’: circolava questa battuta
dalemiana, il primo ministro
voleva mettere alla prova le
posizioni sempre più di sinistra
di Salvi. Posizioni vicine alla linea
socialista del primo ministro
francese Lionel Jospin, allora
profeta delle 35 ore. Sette anni fa
Salvi fu il protagonista di una
clamorosa rottura con il
segretario del partito Veltroni
pochi mesi dopo averne votato la
mozione al congresso di Torino.
E’ in quei giorni che si colloca
l’opzione per la sinistra di quello
che è oggi uno dei leader della
mozione Mussi. Accadde subito
dopo la sconfitta alle regionali,
quella che portò D’Alema a
dimettersi da primo ministro, e
l’affondamento del referendum
elettorale sul quale i Ds avevano
puntato.
I protagonisti sono gli stessi di
oggi. E certamente Salvi ci avrà
ripensato, uscendo ieri
pomeriggio dalla riunione della
mozione Mussi e pronunciando
quel «dovevamo farlo sette anni
fa». Nel 2000, analizzando quelle
sconfitte, l’allora ministro del
lavoro passò direttamente dalla
maggioranza veltroniana alla
sinistra della sinistra, di quelli
che da allora in avanti sono
diventati i suoi compagni di
schieramento interno. La
minoranza diessina raggiunse
cifre molto raramente toccate
poi, oltre il 25% del partito,
organizzò un convegno
separatista, chiese a gran voce la
convocazione della platea
congressuale per una svolta
politica certo non soddisfatta
dall’appoggio al nuovo inquilino
di palazzo Chigi: Giuliano Amato.
I protagonisti sono gli stessi,
Gavino Angius all’epoca era un
custode della linea veltroniana al
punto che dopo le dichiarazioni
più impertinenti di Salvi gli
intimò di dimettersi da ministro.
Oggi Angius condivide con Salvi,
sia pure da diversa mozione,
molte critiche al partito
democratico.
Anche allora o forse molto più
allora la sinistra della Quercia
marciava divisa: non fu
facilissimo il rapporto tra Salvi e
la componente storica della
sinistra interna, gli ex comunisti
democratici di Tortorella,
qualche problema di movimento
negli spazi stretti ci fu anche con
gli ultimi arrivati, i comunisti
unitari di Crucianelli. Tanto che
Salvi fondò una corrente tutta
sua, Socialismo 2000 - sette anni
fa appunto - tenuta in vita e
separata dal resto della sinistra
del partito fino all’ultimo
congresso nel 2005.
Salvi, dunque, voleva rompere
sin da allora. Anche se non colse
l’invito di Angius a «fare come
Lafontaine», il ministro del
cancelliere tedesco Schroeder
che su posizioni di sinistra lasciò
governo e Spd. Anzi, Salvi ricucì.
Merito di D’Alema: i protagonisti
sono sempre gli stessi. Come
oggi il ministro degli esteri si è
assunto il ruolo di frenare
Fassino per cercare di trattenere
la sinistra della Quercia, allora e
con maggior fortuna si impegnò
a sedurre le minoranze. Sette
anni fa, prima che il 2000 finisse,
Salvi decise così di votare per
D’Alema presidente dei Ds.
A. Fab.
venerdì 30 marzo
Daniele Sepe
und rote jazz fraktion
Maiolati Spontini
(An)
-
Teatro ore 21,30
Ginevra Di Marco
Firenze -
Pinocchio Jazz Club ore 21,30
venerdì 30 marzo 2007
il manifesto
&società
politica
7
«Giovani e maschi»
Il partito ai raggi X
Il Prc: «Cantiere a sinistra»
Matteo Bartocci Inviato a Carrara
«F
inalmente è finito il Pci». Pietro Folena, che nel partito di
Berlinguer prima e con i dirigenti del correntone poi ha vissuto gran parte della sua esperienza politica
primo di approdare nella Sinistra europea,
lo dice con il massimo del rispetto ma con
una punta di sollievo. Perché per la prima
volta dalla crisi dell'89 la sinistra politica in
Italia è di nuovo in mare aperto e senza un
porto sicuro alle spalle. Nella conferenza
programmatica di Rifondazione comunista
a Carrara, arrivano forti gli echi dell'annuncio di scissione della sinistra diessina riunita a Roma in una drammatica riunione a
porte chiuse. Ed è ormai evidente a tutti
che il quadro politico che rischia di arrivare
alle elezioni europee del 2009 sarà completamente diverso dall'attuale tanto a sinistra
quanto a destra e forse perfino al centro.
Può sembrare curioso ma non troppo
che all'appuntamento con la «storia» Rifondazione ci arrivi con una conferenza di programma che in apparenza è l'appuntamento più identitario che esista e invece segnala, quantomeno, un primo giro di boa verso
il futuro, un evento programmato da tempo
e costretto a misurarsi con una fase diversa
da quella preventivata. Le affermazioni di
Mussi e compagni non lasciano indifferenti
i dirigenti e i quadri di Rifondazione riuniti
alla fiera di Carrara ma l'impressione è che
ormai non si discuta più del se esiste una sinistra (plurale quanto si vuole ma una)
quanto piuttosto del come farla esistere.
Per la prima volta si parla, almeno qui a Carrara, di sinistra senza aggettivi.
«Il dibattito interno ai Ds ci interessa ma
non vogliamo interferire - dice a fine giornata il segretario di Rifondazione Franco Gior-
La ricetta di Ciccio Ferrara:
«Pronti a forme di democrazia
diretta. Negli ultimi anni il
partito è diventato troppo
burocratico ed autoreferenziale»
Carrara
Rifondazione arriva sulle spiaggie della
Versilia, vicino a Carrara, sull'onda della
sua prima esperienza di governo, con un
ex segretario che da presidente della
camera non interviene sui lavori del
partito ma continua a dire la sua sulle
prime pagine dei giornali e dopo le fratture
del «caso Turigliatto» che hanno quasi
monopolizzato le centinaia di conferenze
di programma locali culminate nella
Pochi reduci molte new entry
Seppure il nome il simbolo e le
semplificazioni lo facciano
pensare, il Prc non è affatto un
partito di reduci del Pci. Il 55%
degli iscritti non ha avuto altra
tessera che quella di Rifondazione.
I giovani sono parecchi e il vero
boom è stato dopo le
manifestazioni del 2001 a Genova:
un quarto degli iscritti ha preso la
tessera nel 2002.
Schema a tre alla
conferenza di
organizzazione: il partito
rimane, lavora alla
Sinistra europea e già
guarda al dialogo con gli
ex del correntone.
Bertinotti: «Partiamo
dalla cultura politica che
ci unisce». Giordano:
«Mantenere l’autonomia»
Ma le donne restano fuori
Le donne sono il 26,1% degli
iscritti, che tra l’altro non sono
giovanissimi visto che solo il 17,5%
dei quadri ha meno di 30 anni. Più
si sale nei livelli «gerarchici» e
meno le donne sono
rappresentate: le segretarie di
circolo sono il 15% e tra loro il
46,2% ha da 45 a 64 anni. Ci sono
parecchi giovani, molto più al Sud
che al Nord (22,5% contro 12,4%),
e forse è un segno di quanto il
partito della Rifondazione
comunista sia riuscito a crescere
grazie alla vitalità dei movimenti
meridionali, dall’esperienza
pugliese alla Campania, a
Scanzano.
Un militante di Rifondazione
durante la campagna per
le primarie del 2005. Foto A3
dano - ognuno mantiene la propria autonomia organizzativa, noi proponiamo la Sinistra europea. La prospettiva della rifondazione comunista fa parte della nostra identità ma l'elemento dirimente qui è la critica
del capitalismo e la convinzione che un altro mondo è possibile». Fausto Bertinotti, in
una breve visita quasi da semplice ascoltatore alla conferenza del suo partito, non cita
la Sinistra europea di cui pure è presidente
ma insiste invece sul concetto di «cantiere»:
«E' fondamentale che le sinistre italiane dovunque siano collocate ricomincino a discutere a partire dalla cultura politica, da
un'idea di dove vogliamo andare e da dove
ricominciamo a porre il problema della trasformazione della società».
A proposito di identità, Maurizio Zipponi, dirigente Fiom oggi in segreteria è netto:
«Basta per favore con quelli che sanno già
come va a finire, se camminiamo verso una
sinistra e basta, senza aggettivi, allora ascoltiamo tutto ma guardiamo anche dove mettiamo i piedi».
La prima giornata della conferenza fila
via senza particolare emozione della platea,
in modo piuttosto burocratico. Rifondazione mantiene per ora un campo a cerchi concentrici: Prc, Sinistra europea, sinistra plurale. Forse domani qualcuno di questi soggetti sarà di troppo o sarà molto diverso da
quello attuale. Ma ormai il dado è tratto:
«Siamo partiti - spiega Gennaro Migliore, capogruppo del partito alla camera - chi co-
me noi si è fatto carico dell'incontro con i
movimenti non può che insistere sulle relazioni con tutte le forze della società. Ma del
Prc c'è bisogno».
Sul carattere socialista della sinistra che
verrà si sbilancia un po' di più invece Pietro
Folena: «Penso a un nuovo socialismo, non
certo al tardocraxismo ma al socialismo delle origini, quello del 1892 che diede vita al
partito socialista dei lavoratori». Perciò l'ex
diessino propone alla sinistra della Quercia
una rotta dal basso, un confronto sul documento stilato tra gli altri da Aldo Tortorella:
«Forse può essere una base comune». Per
capirlo sarà decisiva l'estate, dopo i congressi di Ds e Margherita e nelle tante, infinite,
feste di partito.
Attentissimi al lavoro
La metà dei quadri (il 48%) è
iscrittà anche a un sindacato (quasi
tutti nella Cgil ma non manca un
2% nella Cisl o Uil e il 6% in
sindacati di base). Più alta
l'iscrizione ad associazioni come
l'Arci o l'Anpi: il 55,5%. Tra le aree
di impegno politico prevale il
lavoro (48%), seguito dall'ambiente
(37,2%), dalla cultura (30,8%, di
gran lunga la prima per gli under
29) e infine i diritti civili e
l'antifascismo (entrambi al 21%).
Terapia d’urto per Rifondazione comunista
quattro giorni iniziata ieri e che si
concluderà domenica con l'intervento di
Franco Giordano.
Subito sotto un congresso, la conferenza
di programma è solo la terza nella storia
del Prc. Un appuntamento programmato
da tempo ma che gioco forza ha assunto
un carattere ben diverso con i «cantieri»
aperti a sinistra da Mussi e Bertinotti.
«Con il progetto del Partito democratico
- dice dal palco il responsabile
organizzazione Ciccio Ferrara nella
relazione introduttiva - intendiamo
misurarci a viso aperto in una
competizione di lungo. Con la sinistra Ds sottolinea invece - condividiamo molte
battaglie comuni nel parlamento e nel
paese. Ci sentiamo dentro un dibattito che
parte da domande analoghe ed è rivolto
verso l'innovazione della cultura politica».
Secondo il dirigente del Prc «nessuno
rinunci a nulla, non si possono mettere
discriminanti, ognuno parte da sé ma la
prospettiva deve essere misurarsi in un
confronto i cui tempi e modalità vanno
condivisi».
Sul tappeto è previsto il manifesto che
darà contorni più chiari alla Sinistra
europea ma l'occasione è troppo ghiotta
per mettere più di qualche puntino sulle i.
Alla platea di 700 quadri nazionali, un po'
distratta e un po' dubbiosa sugli ultimi voti
parlamentari, il responsabile
organizzazione Ciccio Ferrara propone
nientemeno che una «terapia d'urto», che
non esclude nemmeno «la
sperimentazione di forme partecipative
più avanzate, anche di democrazia
diretta»: «Burocratismo, autoreferenzialità,
verticismo, correntismo esasperato,
separatezza istituzionale» sono i mali che
attanagliano Rifondazione per Ferrara.
Due gli altri interventi dal palco, quello
della responsabile dei giovani comunisti
Elisabetta Piccolotti e i risultati
dell'inchiesta sul partito presentati da
Vittorio Rieser.
Dall'inchiesta, che inizia sotto due
incipit curiosi - il socratico «conosci te
stesso» e una citazione dai Simpson, «Ho
scoperto che era comunista perché non
beveva la birra Duff» - emerge un partito
vitale soprattutto al Sud, attivo nel mondo
del lavoro e nell'associazionismo, ma
molto istituzionale. Non un partito di
reduci (il 55% non ha avuto altra tessera
che questa), con un quarto degli iscritti
arrivati dopo Genova. Resta però un
partito maschile (le donne sono il 26,1%) e
non giovanissimo (solo il 17,5% dei quadri
ha meno di 30 anni).
Forti le contraddizioni di genere. Nelle
istituzioni è eletta una donna contro
quattro uomini. Più si sale nella
«gerarchia» e meno donne sono
rappresentate. E un questionario su 10 non
«riconosce il problema» o «non sa di cosa
si parla». A dire che la «vita del partito è
escludente per le donne» è il 65,2% delle
risposte al femminile contro il 49,4% degli
uomini. Proprio questo è il tema al centro
della giornata di oggi.
M. Ba.
il manifesto
8
&società
venerdì 30 marzo 2007
politica
Berlusconi rompe
ma non molla l’Udc
Il Cavaliere all’assemblea della Cdl
accelera sulla ’Federazione’. Con l’Udc
è rottura ma «porte aperte se ritorna».
Intanto tutti insieme alle amministrative.
Casini: «Io come Craxi? Un onore»
Carla Casalini
S
eparati in casa, conviventi
per interesse. La riunione
di ieri di quel che resta della Casa delle libertà, è la
presa d’atto della rottura con l’Udc
ma insieme l’assicurazione dello
stesso Berlusconi che «alle amministrative andremo insieme», più
una poco credibile riverniciatura
della parabola del figliol prodigo:
«se ritorneranno, porte aperte».
Il partito di Cesa e Casini conferma la condivisione nel voto di maggio. Con qualche avvertenza di ’salvaguardia’. Prima di tutto una giustificazione: «Non conveniva forzare le cose - si schermiscono dall’entourage di Pier Casini - in questo
momento siamo già al centro dell’attenzione, tanto basta». La parola ’centro’ a quanto pare è divenuta quasi un tic, la lingua vi si impiglia. Neppure Silvio Berlusconi resiste, la impugna come una clava e
la stravolge a sé: «Io c’entro».
Nell’Udc, la ’convivenza’ nel voto amministrativo viene impudicamente addossata ai Berlusconi e ai
Fini: «Ce lo chiedono»; ma a una
nostra domanda precisa vien fuori
un’ombra di preoccupazione: «...a
meno che non siano tentati da
qualche pulsione vessatoria del tipo ’con noi sì, ma vi togliamo un
po’ di sindaci...». L’ombra trapela
anche nelle dichiarazioni ufficiali
del segretario Lorenzo Cesa, «fiducioso» che gli accordi precedenti alla vicenda afghana «terranno».Il
problema sembra solo «la dichiarazione di qualche scalmanato», ma
se non fosse così «ognuno si organizzaerà».
Gli «scalmanati» sono ovviamente nella Lega. E il coordinatore Roberto Calderoli non la manda a dire: «Davvero curioso: uno se ne va
da una coalizione votando a Roma
assieme al governo, e poi in periferia passa a riscuotere sindaci e assessori. Il voto al senato sull’Afghanistan è molto rilevante, e noi abbiamo posto pesantemente la que-
Franco Carlini
I taxi, le banche, le assicurazioni, un po' di
farmacie, le ricariche dei cellulari, le tariffe
autostradali. Il governo ha alle spalle un
buon numero di iniziative a favore del cittadino-consumatore. Nulla di rivoluzionario,
ma come il ministro Bersani ha ieri ricordato, sono tutti provvedimenti che recuperano un ritardo storico rispetto ad altri paesi
dell'Europa. Del tutto impropriamente sono
state definite liberalizzazioni, ma solo i provvedimenti sui taxi e sui farmaci da banco
possono essere così definiti. Negli altri casi
si tratta di nuove regolazioni che vanno a
vantaggio del cittadino tagliando margini di
profitto che risultavano troppo distanti dai
costi. Alcune di queste norme hanno funzionato, altre no. La sconfitta più pesante è avvenuta sui taxi dove di nuove licenze non se
ne vedono, prolungamenti dei turni qualcosa, ma incombono nuovi aumenti. L'obbligo alle banche di modulare i tassi a seconda
di quelli europei è stato facilmente aggirato
da circolari interpretative emesse dall'Abi e
subite dal governo. Più significativa la contesa del ministro Di Pietro contro gli aumenti
immotivati delle tariffe delle autostrade: per
la prima volta è stato detto di no ai rincari,
quando le concessionarie non avevano fatto
gli investimenti previsti; la vertenza è in corso e finirà con un passo indietro del governo
stione». Ma l’Umberto invita ad abbozzare: «Bossi mi ha consigliato
di non essere troppo negativo con
l’Udc», spiega il capogruppo dei deputati del Carroccio Roberto Maroni, che però rilancia: «Non intendo
seguire il consiglio».
Silvio Berlusconi ha tentato l’assemblea di tutti i parlamentari della Cdl - mancavano per l’appunto i
centristi - per certificare, ieri mattina, la rottura tra Forza Italia An e
Lega da un lato e l’Udc dall’altro, o
piuttosto per riaggregare le residue
membra dolenti della sua Casa.
«La Cdl c’è - ha accentuato il Cavaliere - è l’Udc che ha deciso di non
farne più parte». Quindi, sia chiaro: il centrodestra «anche senza
l’Udc ha la maggioranza nel paese». Ma forse non è poi così sicuro
se, «prendendo atto che per ora
l’Udc non possiamo considerarla
al nostro fianco», il leader della destra, fra il rumoreggiare dei leghisti
che partecipavano all’assemblea,
ha invitato: Dobbiamo avere pazienza, e auspichiamo sempre che
l’Udc torni sui suoi passi».
Intanto però Berlusconi accelera
verso quella «federazione» delle destre che è stata lasciata attendere
«un po’ troppo». Si capisce, anche
se le sue parole vi girano attorno,
che sono proprio le sue passate ’esitazioni’ ad aver contribuito alla perdita di tempo, il suo aver sperato
che il governo Prodi crollasse grazie a una «spallata» o per autocom-
notizie
Liberalizzazioni
Tra Berlusconi e Casini ormai è
separazione fatta. Foto Ap
bustione. «Finora sono rimasto in
silenzio perchè i sondaggi ci dimostravano che questo governo andava così male, mentrew saliva la fiducia nei nostri confronti...». Adesso si riparte in quarta, e «Bossi mi
ha autorizzato», e Fini ci sta.
Il leader di Alleanza nazionale si
sbraccia addirittura, «grazie a Berlusconi per questa riunione», ha
esordito ieri mattina all’assemblea
dei parlamentari,«che conferma
che la Cdl c’è,sa cosa vuole e non
ha problemi di leadership». Poi Fini cade in una delle consuete involontarie topiche . «Questa non è
una rifondazione ma un rilancio,
con la ’federazone’», servono «azioni comuni» e la Cdl «deve essere
Taxi, cellulari, banche. Luci e ombre
delle liberalizzazioni governative
La rivoluzione dei taxi è fallita,
le banche aggirano le regole.
Ok solo per i farmaci. E sui
telefonini fioccano le proteste:
le compagnie ritoccano le tariffe
o con lunghissime cause in tribunale.
C'è poi la questione dei cellulari, che riguarda praticamente tutti gli italiani. Il costo fisso di ricarica è stato abolito dall'inizio
di questo mese e che ciò sia avvenuto in un
breve lasso di tempo è quasi miracoloso.
Tuttavia continuano le proteste delle associazioni dei consumatori e riguardano il fatto che i gestori di telefonia hanno in parte recuperato gli introiti perduti varando nuovi
piani tariffari con costi più elevati, per esempio nello «scatto alla risposta». In questo caso tuttavia occorre essere chiari: a meno che
si tratti di aziende di stato in paesi di socialismo reale, nessun governo in un sistema a
economia mista può obbligare una qualsiasi impresa a vendere prodotti o servizi a un
prezzo fissato. Quello che un governo può e
che deve fare è agire con decisione contro
icartelli (trust) tra imprese che si accordano
per non farsi concorrenza tenendo artificiosamente alti i prezzi, in modo da non danneggiarsi artificiosamente. Nel caso delle
multe alle assicurazioni proprio di questo si
trattava e indagini analoghe delle autorità riguardano i costi dei prelievi con il Bancomat o le commissioni sulle carte di credito.
L'altra cosa che governo e autorità devono garantire è il massimo della trasparenza,
di modo che, senza trucchi di marketing, i
cittadini possano facilmente conoscere
quanto costano le prestazioni dei diversi
concorrenti e fare la loro scelta consapevolmente. L'obbligo di chiari cartelli che segnalino i prezzi delle benzine va in questa direzione; si parla anche di un portale internet
che metta a confronto i diversi servizi bancari; è stato poi proposto un «tabellone» pubblico dedicato alla telefonia cellulare, avendo verificato che le imprese private da sole
non provvedevano: va in questa direzione,
ma appena un po', l'informazione fornita
dal consorzio Patti Chiari dell'Associazione
bancaria italiana, ma ha il limite intrinseco
di essere controllato dalle banche stesse, le
quali possono decidere liberamente se aderire oppure no.
Quanto alle aziende telefoniche, non c'è
dubbio che i loro portali non brillino per
chiarezza e per diversi motivi: per reticenza,
perché mescolano in maniera confusa le
promozioni con le informazioni di base e
perché sembrano fatti da persone che non
hanno molta idea di come si dispongano le
informazioni sul web. Se un tale luogo pubblico di confronto venisse realizzato, allora
il consumatore potrebbe scegliere con maggiore coscienza il suo fornitore e il piano telefonico. Tanto più in una situazione in cui
l'alchimia sempre più confusa delle diverse
offerte tenderà a essere superata da proposte più secche: negli Stati Uniti la Sprint, per
esempio, ha cominciato a offrire abbonamenti «piatti» con numero illimitato di chiamate e libera circolazione dei bit in collegamento alla rete. Per parte sua, poi il governo
amico dei consumatori, dovrebbe togliere
un po' di accise sulla benzina e sui telefoni,
ma se ne guarda bene.
L’esecutivo cerca i fondi nel «tesoretto», ma è stop sulle rendite finanziarie. Critiche Rifondazione e «Sbilanciamoci!»
Il governo scommette tutto sul taglio dell’Ici
Roma
La maggioranza e il governo puntano tutto sull’Ici: la nuova carta per
recuperare consensi - certamente
anche in vista delle elezioni amministrative di maggio - è fare il più
possibile campagna sul calo delle
tasse, in questo caso su una delle
più «odiose»: l’Ici sulla prima casa.
Ieri il viceministro dell’Economia
Vincenzo Visco ha confermato che
nel disegno di legge delega sulla
tassazione delle rendite finanziarie è stata introdotta una norma
per i futuri sgravi Ici - che «saranno consistenti»dice lo stesso Visco
- e, nello stesso tempo, il governo
sta pensando a una aliquota unica
per gli affitti - un 20% di cedolare
secca, scorporata dalle voci del reddito e uguale per tutti - che dovrebbe liberare tanti immobili fino a oggi sfitti e far emergere il tanto nero
sul mercato. E, sempre a proposito
di nero, ieri sono arrivati i dati del-
una lepre che indica la strada...».
Ahimé, per ogni lepre c’è un cane
che l’insegue, Fini non ci pensa ma
l’Udc ribadisce di lavorare contro il
«bipolarismo» che la ’Federazione
delle libertà’ tenta di rilanciare.
«Noi lavoriamo per ricostituire il
centro, basta col bipolarismo: e
speriamo che la legge elettorale ci
aiuti», ribadiscono i centristi. E Casini reagisce alla punzecchiatura di
Berlusconi che lo taccia di novello
«Craxi» nella pretesa di essere un
nuovo «ago della bilancia» della politica italiana, onorandosi del paragone con un uomo che, a parte alcune pecche, lui considera un grande. Felice, Bobo Craxi felicita Casini.
la Cgia di Mestre, secondo cui l’imponibile evaso in Italia sarebbe addirittura di 310 miliardi di euro. Le
rendite finanziarie, infine, restano
solo un titolo del disegno di legge
delega, perché per il momento il
governo ha rinunciato a riunificarle tutte sotto un’unica aliquota (si
pensava al 20%, via di mezzo tra il
12,5 cui sono sottoposte le rendite
finanziarie, e il 27% che grava sui
conti correnti). Una rinuncia sgradita a Rifondazione comunista,
che segnala come il tema sia contenuto nel programma dell’Unione
e che dunque espungerlo dal disegno di legge delega sia stato una
forzatura: «Il programma dell'Unione - sottolinea il capogruppo del Prc al Senato Russo Spena prevede espressamente l'aliquota
unica. Non si adduca, dunque, in
futuro la mancanza di risorse per
intervenire sui salari, sugli stipendi
e sulle pensioni basse e minime».
E in effetti la mancanza di risorse sta diventando una scusa buo-
na per non dare nulla a nessuno, e
la lista dei «pretendenti al tesoretto» (il surplus di gettito disponibile, solo 2,5 miliardi di euro) si allunga, mettendo in elenco adesso anche lo sgravio dell’Ici. Il sottosegretario all’Economia Mario Lettieri
conferma infatti che gli sgravi Ici
«dovrebbero essere finanziati con i
fondi del tesoretto», e aggiunge
che «l'orientamento è quello di
mettere una franchigia per l'imposta comunale sugli immobili sulla
prima casa, rapportata a 100 metri
quadri». Nonostante il tema sia giocabile nell’immediato della campagna elettorale, non sembra probabile che si possa godere delle riduzione Ici per quest’anno: «È molto
probabile - ha spiegato Lettieri che la riduzione dell'Ici avrà effetti
nell'anno fiscale 2008». Alla «manovra del 2008» Lettieri ha anche rimandato il tema del riordino delle
aliquote, ma è chiaro che questa diventa poco più di un’opinione e bisogna capire se il puntare i piedi di
Rifondazione avrà un qualche effetto immediato, se cioè verrà reinserita nel ddl la tassazione delle
rendite. Perché si faccia la riforma
della tassazione delle rendite insiste anche l’associazione «Sbilanciamoci!», che sottolinea il carattere
di equità del provvedimento: «Milioni di euro di guadagni realizzati
con la vendita di azioni dai grossi
personaggi della finanza o dai ricchi immobiliaristi sono di fatto
quasi detassati, mentre la tassazione è ancora molto alta sui risparmi
che gli italiani hanno depositati
nelle banche - spiega l’associazione - Crediamo sarebbe giusto finanziare gli sgravi Ici per la prima
casa e la detrazione Irpef sugli affitti attraverso l'abolizione di una situazione di palese regressività fiscale. L'armonizzazione si potrebbe fare anche a un livello più alto,
al 23%, restando in linea con la tassazione in altri paesi europei e non
rischiando quindi fughe di capitale».
Fiducia anche al Senato
la Idv alza la voce
Parlano di scelta «presa a malincuore»,
di «doppia amarezza». Ma alla fine il
ministro dello Sviluppo economico
Pierluigi Bersani e quello per i Rapporti
con il parlamento Vannino Chiti hanno
piazzato la fiducia sulle liberalizzazioni
anche al Senato. Si vota questa
mattina tra le 12 e le 13 e al
momento senza particolari patemi
d’animo. Tra i «Sì» infatti ci sono già
anche quelli del dissidente Franco
Turigliatto e del senatore a vita Giulio
Andreotti, oltre a quelli degli altri
senatori a vita. L’unico rischio, che
sembra però già arginato, è quello
lanciato dall’Italia dei valori. Ieri
mattina il senatore Giuseppe Caforio
ha annunciato se il governo non ritirerà
«le autorizzazioni alla costrizione del
nuovo impianto di rigassificazione
previsto nell’area di Capobianco a
Brindisi» si potrebbe «determinare il
mancato sostegno all'esecutivo».
Giornalisti
Farina radiato dall’Ordine
Berlusconi: «Solidarietà»
Renato Farina, l’ex vice direttore di
Libero, è stato radiato dall’ordine
professionale dei giornalisti. La
decisione è stata presa dal Consiglio
nazionale con 68 voti a favore, 5
astenuti, 2 contrari e 4 schede bianche.
Silvio Berlusconi ha deciso di esprimergli
personalmente la solidarietà sua e di
tutto il partito di Forza Italia: «Ha sempre
difeso la libertà ci auguriamo che possa
continuare la sua professione».
Inchiesta a rischio
Annullate le perquisizioni
sulle toghe lucane
Il Tribunale della libertà di Catanzaro ha
disposto l'annullamento dei
provvedimenti di perquisizione e
sequestro eseguiti nei confronti della
dottoressa Felicia Genovese, Sostituto
Procuratore Antimafia di Potenza, di suo
marito Michele Cannizzaro, Direttore
Generale dell'Azienda Ospedaliera dello
stesso capoluogo lucano e della
Dottoressa Iside Granese, Presidente del
Tribunale di Matera. Lo ha spiegato ieri
mattina il difensore, Giancarlo Pittelli,
affermando che «il Tribunale della libertà
ha dovuto prendere atto della
illegittimità degli atti compiuti dal dottor
De Magistris. Si tratta di un episodio di
inusitata gravità poiché i provvedimenti
sono stati adottati al di fuori dei casi
consentiti dalla legge in quanto ad
indagini scadute da lungo tempo. Si
tratta di un fatto rispetto al quale non
ricordo precedenti. L'accaduto è ancor
più grave poiché si tratta di un
procedimento a carico di magistrati in
servizio con ruoli importantissimi». Il pm
De Magistris non ha commentato in
alcun modo la decisione, anche se la
scelta del tribunale del riesame potrebbe
aver inferto un colpo pesante
all’inchiesta che aveva svelato
l’esistenza di un inquietante potentato
capace di influire praticamente su tutte
le istituzioni lucane.
&società
Cei, l’imbarazzo di Fassino
venerdì 30 marzo 2007
il manifesto
politica
In piazza
a favore
dei Dico
Foto
Emblema
Roma
«I
l documento della Cei
contiene molte cose interessanti, ma sul punto dei politici cattolici
va al di là del giusto». Aspetta un
giorno intero, Piero Fassino, per
dire la sua sulla nota della Cei, e
quando lo fa cammina sulle uova. Certo il segretario dei Ds
non può che dirsi in disaccordo
sul diktat dei vescovi ai parlamentari, ma appena pronunciata la frase fatidica già si pente. E
si precipita a omaggiare monsignor Bagnasco «è una persona
equilibrata, saggia e prudente.
Spero che i suoi comportamenti
siano equilibrati e prudenti». E’
solo un esempio di quel «silenzio assordante» come lo definisce polemico il socialista Enrico
Boselli, dei futuri
leader del Partito
democratico. PerIl segretario dei Ds dice che
ché se Piero Fassila nota «va al di là del giusto».
no si limita a una
frase, Francesco
Ma poi loda il Family day, e
Rutelli evita persidifende i ministri che sfileranno
no di aprire bocca. E ci vuol poco
in piazza il 12 maggio
a capire che più
che alla sorte delle coppie di fatto, i due pensino
Fioroni, ne facciano un’occasioa quella del nascituro partito.
ne per guadagnare terreno nel
Creatura fragile, ancor più in bisuo partito, ecco che il segretalico quando si toccano i temi
rio dei Ds ne approfitta. E quandei diritti e del rapporto con la
do Giovanni Minoli (che lo interChiesa di papa Ratzinger. Come
vista per «La storia siamo noi»)
dimostra l’atteggiamento super
gli chiede cosa ne pensi, risponprudente, per non dire ipocrita,
de tranquillo che «anche un micon cui sia la Margherita che i
nistro ha la libertà di manifestaDs guardano al prossimo appunre, si tratta di una posizione pertamento «cattolico», il Family
sonale». Del resto, come hanno
day. Se Rutelli cerca di evitare
già fatto fin troppi diessini in
che i teodem, o anche solo il miquesti giorni, anche lui dice di
nistro della Pubblica istruzione
«guardare a questa manifesta-
Firenze
zione con molto interesse e rispetto. Infatti non è contro il governo, nè contro la sinistra». Fermandosi giusto un passo prima
dell’adesione televisiva , visto
che si chiede perplesso «se è opportuno che Fassino, Berlusconi o Casini siano in piazza. Se il
tema è la famiglia , è più importante questo del politico che sfila».
Chissà se monsignor Bagnasco apprezzerà tanta attenzione. La nota della Cei sulle coppie di fatto, come è stato già
scritto, è frutto di un compromesso. Forse non così «sofferto»
come pensa il senatore ulivista
Giorgio Tonini, ma evidente anche nelle reazioni del giorno dopo. Così dai microfoni di Radio
vaticana Giuseppe Anfossi, presidente della commissione Cei
Il Comune: «Nozze
vietate a coppia gay»
Respinta dal comune di
Firenze la richiesta di una
coppia gay, presentata nei
giorni scorsi, di poter affiggere
le pubblicazioni di
matrimonio. Lo hanno reso
noto i due richiedenti,
Francesco Piomboni e Matteo
Pegoraro, rispettivamente
presidente e segretario del
«Giglio Rosa», la sezione di
Firenze dell'Arcigay. I due, che
stanno insieme da un anno e
mezzo, hanno assicurato che
proseguiranno la loro battaglia
e presenteranno ricorso
presso il Tribunale di Firenze.
9
notizie
Roma
per la famiglia, ieri mattina già
cercava di ridimensionare la dura reprimenda ai parlamentari
cattolici.«Non vogliamo fare
pressioni indebite su di loro»
giurava, definendo «pastorale»
e «tecnica» la nota di mercoledì.
I vescovi si sono «preoccupati di
parlare alle persona con stile
evangelico». Ma quando si arriva al dunque, alla parte che lui
definisce per l’appunto tecnica,
monsignor Anfossi non si è limitato a ribadire che «il legislatore
che si sente parte della chiesa
non può votare» per i Dico. Ne
ha approfittato per attaccare le
«pressioni ideologiche che vengono da lobby vere e proprie, a
cominciare da quella che è legata al mondo dell’omosessualità». Potente e a quanto pare davvero pericolosa, visto che, spiega il vescovo, «il nostro modo di
intervenire (sui Dico, ndr) difende una parte di popolazioneda
ingerenze che sono violente e
non democratiche».
Una frase che giustamente fa
saltare i nervi a Franco Grillini.
«Magari fosse vero il presunto
potere della lobby omosessuale
- ironizza il deputato diessino,
presidente dell’Arcigay - La verità è che, dopo la nota della Cei,
è del tutto evidente che il Family day avrà una connotazione discriminatoria e omofobica».
Niente a che vedere quindi con
la paciosa «attenzione» di Piero
Fassino, tanto che Grillini aggiunge che «chiuque il 12 maggio parteciperà a quella manifestazione avrà chiaroche chi propone un unico modello famigliare vuole escludere da diritti e tutele una parte rilevante, se non
la maggioranza della popolazione».
G.P.
Riaperte le sale operatorie
del Policlinico Umberto I
Sono state riaperte ieri pomeriggio le
sale operatorie del pronto soccorso del
Policlinico Umberto I. Dopo la chiusura
cautelativa di mercoledì, ieri
approfondite verifiche da parte dei
servizi di prevenzione della Asl Rm A e
del Policlinico Umberto I hanno verificato
che sussistono condizioni tali da
consentire la riapertura delle camere
operatorie. Secondo il direttore generale
Ubaldo Montaguti «le sale sono state
riaperte per evitare ulteriori disagi a
pazienti e staff sanitario». I controlli
effettuati dalla Asl Roma A evidenziano
come i batteri di legionella siano
«scarsamente contagiosi» e gli interventi
messi in atto garantiscano la salute dei
pazienti ricoverati. Il ministro della
Salute Livia Turco esclude la chiusura
dell'ospedale ma chiede che siano
accelerati i lavori di ristrutturazione per i
quali, ieri, la regione Lazio ha stanziato
28 milioni di euro. Un allarme è stato
invece lanciato dalla Fials per la quale,
senza che venga loro spiegato il motivo,
i dipendenti dell’ospedale non possono
effettuare la visita medica periodica resa
obbligatoria dalla legge 626/94.
Sardegna
Le servitù militari
tornano alla Regione
Sono 43 gli immobili militari che
verranno dismessi in Sardegna e
passeranno direttamente alla Regione.
Altri sei sono stati dichiarati «dismissibili
con la partecipazione della Regione
Sardegna per la rilocalizzazione della
funzioni». Tra tutti spicca l'ex arsenale
militare di La Maddalena per il quale «le
parti si impegnano per la soluzione delle
problematiche relative alla ricollocazione
del personale civile».
Danimarca
Testamento biologico,
prime prove per una legge
E la Germania si divide
su tre possibili modelli
La commissione Igiene e Sanità
del Senato allarga e rende
pubblico il confronto sulle
«dichiarazioni anticipate di fine
vita». Due giorni di convegno
Tra i sette e i nove milioni di
tedeschi hanno già scritto il
proprio testamento biologico.
Al Bundestag si comincia
a discutere la nuova legge
Eleonora Martini Roma
Punto primo: le «dichiarazioni anticipate
di volontà sui trattamenti sanitari», altrimenti dette «Testamento biologico» «non
sono una rivoluzione». «Si inseriscono nella tradizione deontologica medica di astenersi da misure terapeutiche superflue o
opzionali» (parole del frate francescano e
professore di medicina newyorkese Daniel
Sulmasy). Il problema semmai è decidere
se debbano essere obbligatorie per ciascun cittadino, come attualizzarle nel corso della vita del paziente, se debbano essere vincolanti per i medici o meno, e quali
limiti abbia l’eventuale obiezione di coscienza del personale sanitario, subito invocata ieri dalla teodem Paola Binetti.
Punto secondo: mai nominare al riguardo la parola «eutanasia», né tanto meno
«suicidio assistito». Il dibattito sulla dolce
morte è altro e, come ha detto la ministra
Livia Turco, «l’obiezione che il testamento
biologico aprirebbe la strada al suo sdoganamento è priva di fondamento». Tradizionalmente, e italicamente, l’eutanasia è pratica considerata immorale. E associata ad
una sorta di condanna a morte non consensuale.
Punto terzo: la discussione si scalda e i
punti di vista divergono non poco su come definire l’accanimento terapeutico e
se il termine è adeguato e esaustivo. Sta al
malato o ad un suo fiduciario stabilire il limite dell’accanimento terapeutico o ai sanitari? La nutrizione e la respirazione artificiale sono misure ordinarie di assistenza o
trattamenti medici che possono essere rifiutati (come sostiene Mina Welby)? Non
sarebbe meglio parlare di «mezzi straordinari», locuzione meno restrittiva, secondo
il professor Sulmasy?
Che nel dibattito pubblico italiano ci fosse la necessità di approfondire e allargare
il confronto sulle «differenti implicazioni
tecniche ed etiche» che riguardano un tema tanto delicato come le direttive antici-
pate di fine vita, si è reso evidente ieri, nella prima giornata del convegno internazionale promosso dalla presidenza del Senato e dalla commissione Igiene e Sanità. A
Roma, presso la sala capitolare del convento di Santa Maria sopra Minerva, medici,
tecnici ed esperti di bioetica provenienti
da vari paesi, hanno discusso di «Testamento biologico: le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari». Due
giorni – oggi la parola ai rappresentanti
delle principali confessioni religiose sulle
questioni etico-morali – fortemente voluti
dal presidente della commissione, il senatore e medico Ignazio Marino, come «ulteriore contributo all’ascolto» sui nodi emersi durante i lavori di analisi degli otto ddl
depositati e le audizioni di 49 esperti e associazioni iniziate il 27 luglio 2006 e quasi
concluse, e prima di dare l’avvio all’iter
parlamentare legislativo sul testamento
biologico. Una legge, ha sottolineato Marino, «che sia nell’interesse di tutto il paese
e di tutti i cittadini». Un metodo, quello
dell’ascolto, molto apprezzato dalla ministra Livia Turco che ieri ha aperto i lavori e
dal presidente del Senato Franco Marini
che non potendo intervenire ha inviato un
messaggio. Marini ha richiamato, poi, l’articolo 32 della Costituzione e ha posto l’accento sull’«urgenza della questione» che
«pone il legislatore di fronte all’esigenza di
trovare in breve tempo delle soluzioni incisive» «che siano in grado di superare i conflitti ideologici esistenti». Livia Turco, invece, che ha parlato di «carattere non assolutamente vincolante» del testamento, «ma
allo stesso tempo non meramente orientativo dei desideri del paziente», ha auspicato una legge «di larghe intese». Necessaria
in quanto «il valore delle scelte del malato,
il diritto all’autodeterminazione, il divieto
dell’accanimento terapeutico, sono ormai
parte della nostra cultura, ma disciplinati
in maniera inadeguata». Turco si è poi soffermata sul concetto di accanimento terapeutico che «esprime l’idea di azioni che
non riescono più a conciliare due piani:
quello di cura e quello del prendersi cura
del malato». A questo proposito ha annunciato un’iniziativa straordinaria per la presa in carico domiciliare e lo stanziamento
di 10 milioni di euro per l’acquisto di comunicatori vocali per i malati di sclerosi laterale amiotrofica.
Il dibattito continua oggi. La parola, ancora una volta, alle religioni.
M. Al. Berlino
«Non c'è una soluzione del tutto convincente». Il presidente del Bundestag Norbert Lambert ha riassunto con questa frase il dibattito sul testamento biologico cominciato ieri nel parlamento tedesco.
Si stima che tra i sette e i nove milioni
di persone in Germania abbiano redatto
il proprio testamento biologico, che attualmente vale solo come indicazione terapeutica. Oggi i medici possono scegliere di adeguarsi o meno alla volontà espressa dal paziente. Il che ingenera una serie
di ricorsi in giudizio che per i parenti e soprattutto per i pazienti si trasforma in un
calvario. A tutto ciò la politica intende ora
mettere un punto: «I cittadini vogliono
avere la certezza del diritto su tali questioni», ha dichiarato Joachim Stünker, portavoce del partito socialdemocratico.
Le differenti posizioni in materia hanno, in Germania, poco a che fare con l'appartenenza partitica: le alternative in campo attraversano i cinque partiti rappresentati nel Bundestag. Sostanzialmente si
confrontano tre punti di vista che danno
al testamento biologico un peso specifico
differente. Da una parte ci sono coloro
che, guidati dal vice-capogruppo CduCsu Wolfgang Bosbach, lavorano per una
legge che tenga in considerazione la volontà del paziente «solo quando il corso
della malattia conduce univocamente alla morte», come specifica la proposta:
«Nel dubbio per la vita». La seconda posizione appoggia la proposta di legge di
Stünker, Spd, per la quale il testamento
biologico deve essere rispettato in ogni caso, «indipendentemente dal tipo e dallo
stadio della malattia»: la costituzione non
prevede alcun dovere alla vita, dicono tra
gli altri la ministra della giustizia socialdemocratica Brigitte Zypries. Un ricorso al
giudice tutelare sarebbe previsto solamente in caso di un insanabile dissenso tra
medico e paziente. Infine ci sono coloro
che, come l'ex-ministra della giustizia socialdemocratica Herta Däubler-Gmelin e
Monika Knoche, die Linke, non sono affatto convinti del fatto che una legge possa risolvere i dilemmi che si aprono nei reparti di terapia intensiva.
Non molto dissimile la posizione dell'Ärztekammer: l'ordine dei medici tedesco, tendenzialmente, è per il rispetto della volontà del paziente. Ma attraverso il loro presidente, Jörg Dietrich Hoppe, la categoria ha mostrato di non gradire una legislazione in materia. «Chi a 25 anni scrive un testamento biologico, dopo un incidente la potrà pensare diversamente», ha
detto Hoppe invitando il legislatore a lasciare che le decisioni vengano prese intorno al letto del malato, con i parenti e i
medici. Se qualcosa deve essere regolato,
hanno chiesto, deve essere la stesura del
testamento, il resto spetta a chi si confronta quotidianamente con questi casi. Anche l'ordine non è però del tutto compatto.
La conferenza episcopale tedesca ha
ammonito la politica a diffidare di un'interpretazione estensiva della volontà del
paziente che cancelli la linea tra il lasciar
morire e l'aiutare attivamente a morire.
Ma in Germania la voce della chiesa non
attraversa così facilmente le pareti del parlamento.
Scontri per la Casa della
gioventù, italiano in prigione
Il Tribunale della libertà di Copenhagen
deciderà oggi se scarcerare o meno un
giovane italiano di 29 anni, Marco
Orefice, arrestato nel capoluogo danese
mentre si recava a una manifestazione di
solidarietà contro lo sgombero della casa
della gioventù. Orefice è accusato da
due poliziotti di aver lanciato un sasso
contro le forze dell’ordine, fatto che il
ragazo nega. Secondo la sua versione,
sarebbe stato fermato solo per essere
intervenuto contro il fermo di un altro
manifestante da parte di un agente.
Orefice, originario di Roma, s trova da
tempo in Danimarca dove studia e lavora
vicino Copenhagen presso un’università
internazionale. Quella di oggi è la
seconda udienza del Tribunale della
Libertà. Durante i tre giorni di scontri che
seguirono la chiusura della Casa della
gioventù, la polzia danese arrestò 850
persone, 59 delle quali sono ancora in
carcere tra cui uno svedese e tre
americani. Nel corso di prima udienza, il
Tribunale della libertà aveva confermato
altre due settimane di prigione per il
giovane italiano. I retai contestati vanno
da lesione a pubblico uffiale a corteo
violento alla trunativa dell’ordine
pubblico. Se condannato Orefice rischia
l’espulsione per tre anni dalla
Danimarca, con la conseguente perdita
del lavoro. Sul suo caso è stata
presentata un’interrogazione
parlamentare, mentre il nostro ministero
degli Esteri ha incaricato l’ambasciatore
italiano in Danimarca di seguire l’udienza
di oggi.
il manifesto
10
politica
Ogm, soglia più bassa
per la bioagricoltura
L’Unione europea
respinge
l’equiparazione tra
coltivazioni tradizionali
e biologiche
AlbertoD’Argenzio Bruxelles
Tolleranza zero sull’uso degli
Ogm nell’agricoltura biologica, questo è il giudizio emesso
ieri dal Parlamento europeo.
Con 324 voti contro 282, e 50
astensioni, la plenaria dell’Eurocamera ha infatti approvato
un emendamento alla legislazione comunitaria che impone lo 0,1% come soglia massima per la presenza di organismi geneticamente modificati
nei prodotti Bio. Il limite è praticamente pari allo zero assoluto, visto che lo 0,1% è il più basso livello rilevabile tecnicamente. Un mese fa nella Commissione agricoltura dello stesso Parlamento europeo era invece passata la posizione, appoggiata dal Partito popolare e
da una buona fetta dei liberali
e dei verdi, che mirava a imporre per il Bio la medesima
soglia di contaminazione prevista per l’agricoltura tradizionale: lo 0,9%. Con il voto di ieri
viene quindi eliminata la pericolosa equiparazione tra l’agricoltura tradizionale e quella
colture: se viene rilevata una presenza di
Ogm superiore allo
0,1% si perde il diritto a marcarsi con il
simbolo Bio, passando alla categoria dell’agricoltura tradizionale. Perché la posizioni diventi legge
nella Ue, manca ancora la parola, determinante, dei ministri
dell’agricoltura. I 27
su questo punto sono al momento divisi. La maggioranza
delle capitali la pensa
diversamente dal Parlamento, ma Italia,
Manifestazione di Greenpeace contro gli Ogm Foto Ap
Grecia, Austria ed Ungheria stanno cercanbiologica, un paragone che mido di convincere la Polonia a
nava il concetto stesso di biolosposare lo 0,1%, in modo da
gico, oltre a addensare nubi,
avere i voti sufficienti per creaanche economiche, su un setre una minoranza di blocco
tore in cui l’Italia è leader, conche obblighi gli altri Stati memtando su un fatturato che la pobri a mediare verso l’approvane al terzo posto nel mondo e
zione di una soglia di contamial primo in Europa.
nazione più bassa per il bioloIl Parlamento ha in sostanza
gico. Il voto di ieri è quindi
deciso ieri di eliminare ogni
doppiamente importante vipossibile confusione tra agristo che rafforza la posizione
In un carteggio con il Comune,
nel ’96 la prefettura di Bologna
lanciava l’allarme sull’uso dei
vigilantes per servizi di ordine
pubblico. Indagati due poliziotti
Giusi Marcante Bologna
Due poliziotti sono indagati
nell'inchiesta della procura di
Bologna sulle Pattuglie Cittadine, i vigilanti convenzionati
con il Comune che il 2 giugno
2004 sono intervenuti nei tafferugli tra i partecipanti al presidio che aveva contestato la parata militare e le forze dell'ordine. Un terzo poliziotto è in via
di identificazione perché indossava il casco. In piazza quella
mattina quelli delle Pattuglie
entrarono indisturbati nell'area delimitata (un video della polizia scientifica mostra
uno di loro che scavalca la transenna e mostra a un agente del-
&società
venerdì 30 marzo 2007
del gruppo, minoritario, di capitali che si battono contro
l’apertura agli Ogm. «Il voto
del Parlamento non può che
restituirci serenità - afferma
un rinfrancato Paolo de Castro, ministro dell’agricoltura
– la nostra posizione di tolleranza zero rispetto alla contaminazione da Ogm negli alimenti ottenuti da agricoltura
biologica trova così ascolto e
soddisfazione. Ora speriamo
che questa decisione del Parlamento possa tradursi concretamente in una decisine del Consiglio europeo». I tempi di questa decisione non sono al momento chiari, visto che sempre ieri il Parlamento ha chiesto a larghissima maggioranza
di rinegoziare con la Commissione la procedura decisionale
da applicare a questa materia.
Al momento l’Eurocamera viene solamente consultata, ieri
ha chiesto di avere potere di
veto sugli Ogm. Vedremo se
l’esecutivo comunitario le darà ragione o se la materia rimarrà di competenza degli Stati membri, fino a che non verrà risolta questa questione pro-
cedurale, non si affronterà la
sostanza.
Che il tema sia difficile, lo dimostra il risultato di ieri al Parlamento, che per quanto amplio, è stato assai sofferto. Di
fatto si è assistito in aula ad un
accerchiamento del partito dello 0,9%, composto da Popolari, liberali e da una parte dei
Verdi, da parte di tutte le altre
forze politiche, dall’estrema sinistra all’estrema destra. Comunisti, socialisti, eurodestra
(che comprende An e la Lega)
ed Identità, tradizione e Sovranità, il gruppo di estrema destra che conta su Msi e Front
National, si sono uniti votando a favore della soglia dello
0,1%. Gli eurodeputati italiani
verdi, liberali e popolari si sono invece divisi praticamente
a metà, una parte con la tolleranza zero ed un'altra con la
soglia comune dello 0,9%. In
pratica un voto bi-partisan
che fa felici da destra a sinistra, ma soprattutto Legambiente che molto si è spesa per
sensibilizzare gli eurodeputati
sui rischi di una relazione troppo stretta tra Ogm e biologico.
«Quelle Pattuglie sono fuorilegge»
la mobile un falso
distintivo di polizia), strattonarono
e trascinarono a
terra dei manifestanti come testimoniano anche le foto agli
atti dell'inchiesta per violenza
privata, lesioni aggravate, usurpazione di funzioni pubbliche
e possesso di contrassegni di
forze di polizia. Omesso rapporto è invece l'ipotesi della pm
Morena Plazzi verso il dirigente di un commissariato cittadino che quella mattina era il responsabile della sicurezza pubblica e un sovrintendente delle
volanti della Questura. Ieri i
due si sono presentati negli uffici della Procura per essere interrogati e hanno risposto alle domande affermando con forza
che loro i pattuglianti non li conoscono. Cosa ben diversa dalle affermazioni di uno dei vigi-
lanti che è un ingegnere minerario e ha detto al magistrato di
conoscere il dirigente del commissariato «da una vita». L'inchiesta sulle pattuglie è partita
da quella (poi archiviata) che la
procura aveva aperto contro i
manifestanti per resistenza. E'
della Digos il rapporto dove si
evidenzia che i pacifisti avrebbero resistito non a poliziotti
ma a privati cittadini con guanti neri e la passione per le manifestazioni della sinistra antagonista alle quali almeno in un'altra occasione, il 21 maggio
2005, alcuni di loro sono stati
avvistati. Agli atti di questa inchiesta c'è anche un nuovo documento che chiama in causa
il ruolo del Comune di Bologna. Ricostruisce il carteggio
tra la Prefettura e Palazzo d'Accursio con richieste di chiarimenti sul ruolo delle Pattuglie
che nel febbraio del 1987 si videro revocare proprio dal Prefetto l'autorizzazione alle attività di polizia. Dubbi e perplessità investono il Comune in più
occasioni con note che la Prefettura invia su sollecitazione
diretta del Viminale e soprattutto sulla scia di una circolare del
1996 dell'allora ministro dell'Interno Giorgio Napolitano che
vieta l'attività di sicurezza dell'ordine pubblico per queste associazioni e la affida solo a chi
può essere soggetto all'art. 134
del TULPS (le guardie giurate).
Il comune ha risposto nel marzo 1998, c'era ancora la giunta
Ds, sostituendo nel testo della
convenzione con le Pattuglie le
parole «sorveglianza e prevenzione» con «presenza vigile e attiva». Le «perplessità» del Viminale sono continuate e sono
state segnalate sempre dalla
Prefettura anche in occasione
del rinnovo del febbraio 1999,
pochi mesi prima dell'avvento
dell'era Guazzaloca che l'ha
mantenuta in essere come altrettanto ha fatto l'amministrazione di Sergio Cofferati aumentando anche il budget da
poche settimane. Insomma un
rilancio continuo di carte mentre non si fermavano i pattugliamenti che avvenivano non tanto e non solo nei parchi e giardini o davanti alle scuole ma ad
esempio in zona universitaria
dove venivano effettuati arresti
e fermi. Sono le Pattuglie che
trasmettono all'Ateneo fior di
relazioni sull'attività svolta negli ultimi 15 anni. Tutta questa
documentazione è stata acquisita dall'inchiesta della pm
Plazzi che ha indagato per abuso d'ufficio anche funzionari
comunali per ora ignoti.
Verona
Il Critical wine
delle terre ribelli
Paola Bonatelli Verona
Il vino è legato alla terra ma sono le lotte sociali a
trasformare la terra/il territorio in spazi vivibili dove costruire forme e strumenti di comunanza che
possano diventare stili di vita e produzione. Così la
quinta edizione di Critical Wine/Terre ribelli, che si
apre stasera a Verona al csoa La Chimica - che nel
2003 ne ospitò la prima edizione con la rimpianta
presenza di Luigi Veronelli - parla il linguaggio dei
comitati vicentini «No Dal Molin» contro l'allargamento della base militare Usa, ma anche quello dei
comitati No Tav e No Ponte, dei cittadini di Scanzano, dei veneziani No Mose, fino alla più vicina lotta
contro i cementifici che distruggono la provincia veronese. Se nelle passate edizioni - che negli anni
hanno prodotto cloni sparsi in molte città italiane,
fino a costituire una rete - s'è lavorato molto sull'autocertificazione e sul prezzo-sorgente, due elementi che permettono di seguire il prodotto dall'origine
fino alla trasformazione e al passaggio distributivo creando un cirQuinta edizione
colo virtuoso anche riguardo alle
Comitati contro
modalità di relazione sociale, quela base di Vicenza,
st'anno saranno le diverse forme
NoTav e NoMose
di cittadinanza «in agire» sui terriall’edizione che
tori le vere protagoniste del Critisi inaugura stasera.
cal Wine. Persone, uomini e donDomenica un presidio
ne, che non animeranno soltanto
di informazione
gli stand delle «degustazioni libeal Vinitaly
re e guidate dai riot-sommelier»
o il mercato autogestito di verdura, frutta, salumi e artigianato ma
parteciperanno ai dibattiti e agli workshop previsti:
nel pomeriggio di sabato «Aree urbano agricolo relazionali:da non-luoghi a spazi psichicamente vivibili» a cura della rete A/RE/e, coordinamento informale tra cittadini, contadini, artigiani e gruppi sensibili, mentre domenica sarà la volta del Patto Nazionale di Solidarietà e Mutuo Soccorso per «Relazioni
e racconti delle lotte popolari dalla Val di Susa alla
Sicilia». Così gli «Aperitivi Tellurici» saranno gestiti
dal presidio permanente No Dal Molin con «Abbatti Dal Molin coltiva Molinara» e dai coordinamenti
popolari NoTav.
Non mancherà, come da tradizione, l'occasione
per un'iniziativa esterna. Quest'anno la scelta è caduta sul gigantesco ambaradam della 41a edizione
del Vinitaly - 86 mila metri quadrati di esposizione
e 4300 aziende da oltre 30 Paesi - aperta ieri alla Fiera di Verona dal ministro delle Politiche Agricole,
Alimentari e Forestali Paolo De Castro: «Faremo un
presidio davanti alla Fiera domenica mattina- annuncia Filippo, uno dei portavoce della Chimica con un gruppo di produttori critici che andranno
ad informare gli altri produttori/consumatori sulle
nuove direttive europee OCM e PAC, che favoriscono la grande produzione e soffocano i piccoli vignaioli. In secondo luogo parleremo di Vicenza con i
produttori dell'area No Dal Molin e di quanto questa servitù militare peserà sulle risorse e sulla valorizzazione di un territorio così importante e a ridosso della città. Inviteremo ovviamente a boicottare
Zonin, che incarna sia la grande produzione agroindustriale che il sostegno più bieco alle logiche delle servitù militari e delle speculazioni conseguenti».
venerdì 30 marzo 2007
il manifesto
&lavoro
capitale
11
Solo in Portogallo si paga il lavoro di meno. Surreale Almunia: «Non aumentate gli stipendi»
Salari italiani fuori dall’Europa
Francesco Piccioni
L’
impressione c’era. Ma
vedersela confermata
così, dalla brutalità dei
numeri, condita dal linguaggio asettico della statistica
spiegata al popolo, beh... fa una
certa impressione.
I salari italiani sono i più bassi
d’Europa. Punto. Portoghesi a parte, abbiamo toccato il fondo tra i
«quindici» che costituiscono l’Europa «vera», quella che serba memoria del «modello sociale europeo». Più indietro ci saranno le
new entry, gli affamati dell’Est che
giocano tutta la propria competitività su un costo del lavoro ancora
più vicino al terzo mondo che non
al Vecchio Continente.
Noi siamo i penultimi dei «quartieri alti». Il bello (si fa per dire) è
che abbiamo perso posizioni anno
dopo anno. Tra il 2000 e il 2006 –
spiega il rapporto Eurispes, elaborato sui dati ufficiali Eurostat filtrati dall’Ocse – siamo stati sorpassati
in tromba dai nostri cugini mediterranei Spagna e Grecia. Solo nel
2004 il salario medio annuo di un
lavoratore italiano dipendente dell’industria o dei servizi (con esclusione dunque dei salariati agricoli
e dei dipendenti pubblici) era di
15.597 euro, mentre uno spagnolo
intascava 26 euro in meno e un
greco arrancava a 12.434. L’anno
successivo lo spagnolo ci lasciava
a 1.000 euro di distanza, il greco a
430. Nel 2006 la situazione è peggiorata ancora, con l’iberico a ve-
Foto Gabriella Mercadini
leggiare sui 17.412 euro, il greco
che ci guarda dall’alto dei suoi
16.720 e l’italiano che si barcamena con 16.242. Il portoghese piange a 13.136, è vero, ma in due anni
ha ridotto il distacco da 7.000 euro
a soli 3.000. Si può anche dare tutta la colpa al governo Berlusconi,
ma la chiave vera è la subordina-
zione completa di qualsiasi governo alle pretese di Confindustria, oltre che ai «diktat» provenienti dai
diversi organismo sovranazionali
(Ue, Fmi, Bamca Mondiale, ecc).
Un crollo simile delle retribuzioni nette arriva in conseguenza di
una dinamica salariale arretrante,
più che «bloccata». Nel quinquen-
nio considerato, infatti, il salario
medio lordo europeo è cresciuto
del 18%, mentre in Italia solo del
13,7. Gli ultraliberisti inglesi hanno addirittura impazzato con un
+27,8, mentre i già ricchi svedesi si
sono accontentati di un +7,7. Vero
è che il costo medio per ora lavorata risulta ancora leggermente più
McDonald’s paga poco. Anche in Cina
tarla sono le catene di fast food
Guangdong, le multinazionali del fast
americane la notizia diventa stuzzifood non rispettano i minimi salariali.
cante. McDonalnd’s, Kentucky
Fried Chichen e Pizza Hut pagano i
Lo denuncia un quotidiano locale
loro dipendenti solo 4 o 5 yuan
l’ora, denuncia un quotidiano locaPersino in Cina, mecca dei bassi salari per
le che esibisce come prova i contratti firmale multinazionali, le catene di fast food coti dai lavoratori. Tutti a part time, come nel
minciano ad avere qualche problemino.
resto del mondo, in gran parte giovani che
Nelle zone più ricche e sviluppate si adottafanno i camerieri e gli sguatteri per pagarsi
no politiche a sostegno dei salari. All’inizio
gli studi.
dell’anno la città di Guangzhou, capoluogo
China Daily ha ripreso la notizia, segno
del Guangdong, ha fissato la paga minima
che il governo cinese non intende chiudere
oraria a 7,5 yuan, quasi un dollaro. Un cifra
un occhio. Sia McDonald’s che Yum Brandecisamente alta per gli standard cinesi e,
ds Inc. (la società di Louisville a cui fanno
probabilmente, rispettata da pochissime
capo le catene del pollo fritto e di Pizza
aziende di Guangzhou. Ma se a non rispetHut) sostengono d’osservare scrupolosa-
Bmw
Fabbrica in India
La Bmw ha inaugurato ieri la
sua prima fabbrica di auto in
India, a Chennai, la quarta città
indiana per grandezza. Qui il
costruttore tedesco assemblerà
la Serie 3 e la Serie 5 - auto di
segmento medio-alto e alto per abbattere i pesanti dazi
sull’importazione di vetture di
lusso. Una strada maestra dal
punto finanziario ma che non
dovrebbe cambiare le sorti del
costruttore bavarese in India,
dove resterà un marchio di
nicchia in mezzo a un mare di
auto di piccola cilindrata, dalla
Maruti alla Tata e
Mahindra&Mahindra. Più
importante è il segnale che la
Bmw manda ai suoi rivali storici
di casa, la Mercedes, che in
India è sbarcata a produrre già
dal 1993 e attualmente è il
costruttore di lusso numero uno
del paese, con circa 2.000
macchine vendute ogni anno in
un segmento di mercato
infinitesimale, pari allo 0,03%.
La scommessa dei costruttori di
automobili è sul futuro
dell’India, automobilisticamente
parlando: se nel 2000 cinque
indiani su mille avevano una
macchina, nel 2010 le
previsioni parlano di undici su
mille, con circa 13 milioni di
quattroruote sulle strade contro
i 5 del 2000.
mente le leggi del lavoro cinesi. Il capo dell’ufficio del lavoro del Guangdong annuncia ispezioni nei ristoranti; «se risulterà che
le catene di fast food hanno infranto le norme, dovranno risarcire i loro dipendenti».
Nella vicenda, per ora, non c’è traccia del
(cosiddetto) sindacato cinese. Quello che,
spalleggiato dalle autorità statali, ha imposto - unico caso al mondo - la sua presenza
nei magazzini Wal Mart. La multinazionale
di Bentonville è stata costretta a cedere perchè una grossa fetta delle merci che commercializza è made in China.
In Cina McDonald’s ha 790 ristoranti e
50 mila dipendenti. Yum Brands, con 2 mila ristoranti e 100 mila addetti, trae dalla Cina un terzo del profitto operativo globale.
La Confindustria: «Non toccare
legge 30 e contratti a termine»
Sara Farolfi
La partita vera si giocherà dopo Pasqua. Quando dalle parole si dovrà passare ai fatti.
Seduti al tavolo di concertazione aperto ieri a Palazzo
Chigi sui temi del welfare e
del mercato del lavoro, i convitati (governo e parti sociali)
hanno ribadito le rispettive
posizioni. Ma come in ogni
partita che si rispetti, ogni
mossa ha la sua importanza.
Almeno per indicare la piega
che il gioco prenderà.
Rinviato a data da definirsi
il discorso «pensioni», le posizioni restano distanti anche
in materia di mercato del lavoro. E questo, sia detto per
inciso, nonostante l’atmosfera conviviale che pare si respirasse, tra ammiccamenti di
fortuna e provvidenziali omissis. Ieri insomma si è dato un
occhio al menù. Aspettando
l’ora del pasto, prima di lasciarsi andare ai commenti.
Naturalmente la legge 30
non è neppure stata nominata. Ci mancherebbe, al tavolo
erano seduti governo, sindacati e Confindustria. Il ministro del Lavoro, Cesare Damiano ha centrato la discussione sulla riforma degli ammortizzatori sociali, e questo
ha riscosso il plauso di tutti i
presenti. «Vogliamo portare
le tutele a livelli europei» ha
esordito Damiano. Più in generale l’obiettivo sarebbe
quello di «migliorare le tutele
per i giovani, le donne e gli
over 50, adeguando anche le
pensioni più basse». Allo studio ci sarebbe l’innalzamento dell’indennità di disoccu-
Via al tavolo
Ieri il primo incontro
governo-parti sociali
sul mercato del lavoro.
Fammoni (Cgil):
«L’esecutivo s’impegni
contro la precarietà»
pazione, ma anche i contratti
di solidarietà, la Cassa integrazione autofinanziata e il
sostegno al reddito per il lavoro discontinuo e temporaneo. Mancava però il tesoriere e i conti senza l’oste, si sa,
difficilmente tornano. Cgil,
Cisl e Uil, come anche Confindustria, hanno chiesto certezza sulle risorse per varare
una riforma che costerebbe,
secondo alcune stime, alme-
no due miliardi di euro. «Delle risorse necessarie, se ne
parlerà al momento opportuno», ha tagliato corto il ministro Damiano.
Sulla riforma del mercato
del lavoro, Damiano si è tenuto sul generico, limitandosi a
ribadire «la necessità di rendere più conveniente il lavoro stabile». Che fare dunque
dei contratti a tempo determinato? Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria è più che esplicito: «Siamo contrari a qualsiasi revisione dei contratti a termine,
va contrastata l’idea che al di
fuori del tempo indeterminato tutto il resto sia prateria».
«Questi contratti - ha detto invece Giorgio Santini, segretario confederale Cisl - rappresentano un punto critico
quando si procede con continue proroghe». Fulvio Fammoni, segretario confederale
Cgil, si dice comunque complessivamente soddisfatto:
«Dire che si intende privilegiare il lavoro stabile e contrastare perciò le forme di legge
non coerenti è un passo importante - dice - Poi è chiaro
che il tutto sarà da declinare
in fatti concreti». Insomma, li
rivedremo dopo le feste. E forse al governo non basterà il
ramoscello d’«ulivo».
alto in Italia (21,3) rispetto a Spagna (14,7) e Grecia (13,3); ma è colpa soltanto del «cuneo fiscale», più
alto da noi.
Insomma: a livello di salario lordo siamo quart’ultimi, sul netto
(quello che effettivamente ci viene
dato in busta paga) siamo in fondo (col Portogallo ormai in scia).
Le cose peggiorano considerando
l’evoluzione del tasso di inflazione. Fatto uguale a 100 sia il valore
del salario che quello dei prezzi al
consumo nell’anno 2000, infatti, risulta che i salari italiani a dicembre 2006 sono pari a 116,7 mentre
i prezzi sono saliti a 120. Oltre tre
punti in meno (e stiamo parlando
dll’inflazione «ufficiale», non di
quella «reale»). Fin troppo facile, a
questo punto, capire come abbia
agito l’«effetto congiunto» tra erosione del potere d’acquisto e contenuta dinamica salariale.
In una giornata così, suona decisamente surreale – per non dire
provocatoria – l’ennesima sortita
del commissario europeo all’economia, Joaquin Almunia, che nel
suo Rapporto trimestrale sull’eurozona ha invitato l’Italia a «moderare i salari», che nel nostro paese si
sarebbero mossi in modo «particolarmente pronunciato». Diciamola
così: se Almunia fosse un rappresentante democraticamente eletto
di un paese democratico, questo
paese non avrebbe che da ingiungergli di restituire il mandato. Immediatamente. Di «ideologi liberisti» che non guardano neppure le
proprie cifre, non si sente davvero
il bisogno.
Pechino
6 operai morti nel tunnel
A Pechino è crollato un tunnel della
metropolitana in costruzione per le
Olimpiadi del 2008. Sei operai sono
stati sepolti dalla macerie. Il
padrone ha bloccato l’accesso al
cantiere e ha sequestrato i cellulari
agli altri lavoratori. Ha cercato di
nascondere l’incidente. Una
settimana fa aveva fatto altrettanto
il propietario di una miniera di
carbone nello Shanxi. Dove ieri
un’altra esplosione di grisou ha
causato 26 morti.
Statali
Oggi scioperano
con le RdB-Cub
Si fermano per tutta la giornata di
oggi i lavoratori pubblici che aderiscono allo sciopero indetto dalle
Rappresentanze di Base (RdBCub). Precari compresi, perché proprio la condizione dei contratti «atipici» è uno dei punti centrali della
mobilitazione. Di loro non si riesce
neppure a sapere il numero esatto,
visto che - oltre ai ministeri centrali
- il lavoro precario si è diffuso a
macchia d’olio in tutti gli enti locali
e nel parastato (a cominciare dalla
sanità). Parecchie università - ma è
solo uno dei tanti esempi possibili si rifiutano di render note le cifre.
Così si va un po’ a spanne: chi dice
400.000, chi ipotizza anche
700.000. La causa è invece unica: il
blocco del turn over, che impedisce di procedere alle assunzioni ormai da quasi 15 anni.
Una misura estrema che non poteva ovviamente essere applicata
davvero. E infatti tutte le amministrazioni (persino la Giustizia e la
Difesa) sono ricorse ai contratti atipici per far fronte alle necessità. Ma
tutti sembravano più «virtuosi»: le
spese per il personale calano da anni, mentre si gonfiano quelle per
«beni e servizi» (la voce sotto cui finiscono gli stipendi dei precari).
Sotto accusa da parte delle RdB
anche il piano di «smantellamento» della pubblica amministrazione, presentato a grandi linee proprio ieri ai sindacati e piaciuto a
nessuno. In sintesi si parlerebbe di
riduzione del personale, di qualità
e quantità dei servizi all’utenza,
chiusura di sedi, mobilità, niente assunzioni né stabilizzazione dei precari. Un vero disastro.
Allo sciopero le RdB accoppiano
una manifestazione nazionale a Roma, con partenza da piazza della
Repubblica alle 9,30 e corteo fino a
Corso Vittorio, sede del ministero
della funzione pubblica. Prima ancora, però, ci saranno dei presidi di
protesta davanti al ministero della
difesa e a quello dell’economia, in
via XX settembre, nonché in piazza
Madonna di Loreto, sede dei Servizi educativi del Comune di Roma.
Al termine del corteo, infine, i lavoratori del ministero della giustizia
raggiungeranno via Arenula per un
altro presidio.
Una delegazione sarà ricevuta da
Gianni Pagliarini, presidente della
Commissione lavoro della Camera,
per discutere di precarietà. Un’altra sarà invece ricevuta a palazzo
Chigi da Enrico Letta i il ministro
Nicolais.
Fr. Pi
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
12
editoriale
Gli aeroporti sono
anche grandi mercati
che realizzano
fatturati notevoli.
Nella foto Eidon,
l’interno
dell’aeroporto
di Fiumicino
Un’altra felpa
è possibile?
Marlowe
S
e per i fagiolini è scoppiato
un pandemonio, chissà cosa
succederà adesso, che le Coop hanno lanciato una linea
di moda «etica», con connessa sfilata
milanese. Felpe, jeans, polo e camicie, tutte prodotto con marchi «equi
e solidali», provenienti da paesi le
cui produzioni tessili sono note più
per l’infimo livello dei costi di produzione (salari) che per lo stile o l’eticità. Invece quella della Coop è «una
sfilata etica», protagoniste sette cassiere - non anoressiche, nonostante
gli stipendi del commercio non siano proprio da grandi abbuffate - e
tre continenti: l’India, per la precisione il villaggio di Madaplathuruth nel
Kerala, con un programma di produzione di polo e t-shirt; l’Africa (Cameroun), per il cotone per jeans e felpe;
l’Argentina, con un’altra filiera tessile pilota. Dove sta «l’etica»? Nella certificazione sugli standard di lavoro,
negli accordi presi con le cooperative e comunità locali, nel divieto di
uso di lavoro minorile, nel comprare
il cotone a prezzi «maggiorati» rispetto a quelli del mercato mondiale delle materie prime... Basterà?
Il precedente progetto, quello dei
fagiolini del Burkina Faso, si è attirato critiche nel mondo del Fair Trade
(riportate da Liberazione lo scorso sabato). L’ingresso dei colossi della distribuzione (e del profit) in un commercio prima riservato a piccole nicchie di non profit fa rumore. Prima
critica: il costo ecologico del trasporto, da continenti lontani a noi. Si
può obiettare che vale per tutti, le
cattive Chiquita come le buone felpe: la cosa singolare è che la stessa
obiezione al Fair Trade era stata fatta qualche mese fa dal liberistissimo
Economist. Ma un conto è prendere
atto del fatto che sempre più il consumatore italiano guarda , oltre che
all’origine e alla composizione dei
prodotti, anche al numero dei chilometri che ha fatto per arrivare qui; altro conto è bollare negativamente
tutta la merce che viaggia: che facciamo, proibiamo le importazioni?
Seconda obiezione, sostanziosa,
di chi guarda con sospetto all’ingresso dei colossi nel Fair Trade: il danno ai produttori locali, in particolare
nel biologico. Una sorta di «concorrenza tra buoni». Vale per i fagiolini,
varrà anche per le camicie indiane e
le felpe del Camerun. E’ una questione tanto antica quanto affascinante.
Basta rileggersi lo scontro tra Ricardo e Malthus sulle importazioni dall’India: allora, fu Malthus a schierarsi per il protezionismo, a tutela del
tessile inglese. Dopo due secoli, siamo ancora lì: siamo capaci solo di
importare sfruttamento, o anche di
esportare diritti. Magari non in punta di fucile?
E’ scontro aperto tra la cordata
italiana e l’australiana Macquerie
per la conquista della società
che gestisce Fiumicino.
Il patto di sindacato di Gemina ha
messo nell’angolo la famiglia Romiti
Virginia De Papi
«I
l vecchio leone non ruggisce più.
Ma per lui il viale del tramonto è
cominciato da tempo». Un anziano operatore di Borsa, uno di quelli che negli anni '80 aspettava il verbo di «Cesarone» per vendere o acquistare, descrive
così, con crudezza, quello che sta avvenendo
in Gemina. Un modo suggestivo per dire che
Cesare Romiti è al capolinea, messo nell'angolo da quei salotti finanziari che lo hanno
coccolato per decenni. In effetti la sensazione è che il vecchio leone non sia più quello
di una volta, che il suo potere sia ormai ridotto al lumicino e che quello di Gemina potrebbe essere l'ultimo atto del manager che per
oltre trent'anni ha tenuto banco nella comunità degli affari. La verità, al di là della battaglia azionaria che si potrebbe scatenare in
Gemina per il controllo degli aeroporti di Roma, è che Cesare Romiti ha smesso di contare ormai da qualche anno, nel momento in
cui gli è stato tolto di mano il gioiello di via
Solferino, il Corriere della Sera, di cui è stato
presidente per anni. Da quel momento è iniziata per lui la fine. Perchè nel mercato della
finanza e della politica non aveva più nulla
Aeroporti di Roma:
l’addio del leone
da mettere sul piatto della bilancia.
Martedì scorso il patto di sindacato di Gemina ha di fatto sfiduciato la famiglia Romiti, escludendo Piergiorgio e Cesare dalla lista
che andrà a comporre il consiglio d'amministrazione di Adr, l'asset più importante e più
di valore di Gemina. La colpa apparente di
Cesare Romiti è di essersi schierato con gli
australiani di Macquarie, il gruppo che controlla il 44,7% di Adr, ma gli azionisti di maggioranza di Adr (51%), raggruppati in Leonardo, la società presieduta da Paolo Nicoletti
su nomina della maggioranza, gli rimproverano un vecchio vizio, di non voler cacciare
una lira per gli investimenti di Adr.
Il paradosso della storia vuole che i «giudici» di Romiti siano quegli stessi gruppi che
negli anni lo avevano appoggiato. Gli azionisti di Leonardo infatti sono Benetton, Clessidra, Capitalia, Mediobanca, Generali, Fonsai, ovvero tutto il gotha della finanza che
una volta era nella galassia di piazzetta Cuccia. Ora Romiti è sul fronte opposto, per una
volta è contro i salotti buoni e questo forse
gli costerà l'ultima poltrona che conta.
«Io licenziato? Assolutamente no», giura
Cesarone in una fugace battuta ai giornalisti
ma dalle parole che seguono si capisce che
l'ultima spiaggia di Cesare Romiti non sono
più i suoi vecchi amici di Mediobanca o di
Capitalia ma gli australiani. «Vedrete che ce
la faranno», aggiunge con un filo di speranza. Ma come spiega un personaggio che segue da una posizione cruciale la vicenda Gemina, la partita che si sta giocando non è soltanto finanziaria ma è anche di natura industriale e attiene in particolare allo sviluppo
degli Aeroporti di Roma. Sul tavolo della trattativa c'è un piano industriale che prevede
ingenti investimenti, oltre ai quattrini da
sborsare per pagare la quota degli australiani. I soci di Leonardo hanno offerto a Macquerie tra i 900 milioni e 1,1 miliardi di euro
ma il colosso australiano per il momento resiste ed è pronto a ingaggiare una battaglia.
I quotidiani nei giorni scorsi annunciavano l'inizio della procedura d'asta che si prevede in questi casi ma in Gemina specificano che non siamo ancora all'asta vera e propria, la speranza è che le frenetiche trattative
in corso tra i due schieramenti portino a una
ricomposizione in funzione di un accordo
sul piano industriale che dovrebbe portare a
un rilancio degli Aeroporti di Roma. Se l'accordo, molto difficile a questo punto, non si
trovasse scatterebbe la ridda dell'asta con esiti alquanto incerti sui futuri equilibri di Adr e
dunque di Gemina, visto che gli Aeroporti di
Roma sono davvero una delle partecipazioni
strategiche della finanziaria di via Turati. In
tutta questa vicenda rimangono oscure le vere intenzioni degli australiani: mentre pare
evidente che Cesare Romiti si illudeva di restare della partita senza un grande sforzo finanziario, gli australiani qualora volessero
passare al comando, dovrebbbero mettere
parecchi quattrini nel rilancio degli aeroporti di Roma.
La cosiddetta «asta» che si aprirà avrà una
tempistica inevitabilmente flessibile. Il meccanismo di offerte e possibili rilanci, potrebbe fermarsi alla prima proposta - si ipotizza
una forchetta di prezzo a 900-1.100 milioni
di euro per il 45% di Adr in mano agli australiani - consentendo a Macquarie di cedere la
loro partecipazione realizzando una considerevole plusvalenza e imponendo di conseguenza ai soci Gemina di metter mano al
portafoglio in modo impegnativo. Ma il meccanismo di asta può sortire anche l'effetto
opposto, vale a dire che può indurre Macquarie a formulare un rilancio sulla quota di
Leonardo (controllata al 100% da Gemina)
che potrebbe risultare irrinunciabile per i soci della finanziaria milanese, anche alla luce
delle ingenti risorse a cui può attingere il
gruppo australiano.
affari automobilistici
affari finanziaria
affari di soldi
Agli italiani piace anche low cost
Londra batte New York
I paperoni tedeschi
Il fenomeno del low cost - una
moda nel mondo dei viaggi e
della moda - sbarca ora nell’auto. Una ricerca italiana sostiene che un italiano su cinque è
pronto a comprare una macchina a basso costo; un’altra prevede che nel 2012 saranno ben
18 milioni le auto di questo tipo vendute nel mondo (oggi si
vendono ogni 12 mesi circa 50
milioni di quattro ruote). La ricerca italiana della TNS Infratest, commissionata dalla Renault-Dacia (Dacia è il marchio romeno che produce la Logan, auto a basso prezzo ma
grande e accessoriata come
una berlina media), fornisce alcuni dati interessanti. Su un
campione di 1.000 persone di
diversa estrazione socio-culturale e provenienza geografica,
il 35% indica il prezzo quale primo criterio di scelta per l’acquisto di un’automobile, seguito a
pari merito da sicurezza e con-
Dal punto di vista produttivo e
dei saldi della bilancia
commerciale, la Gran
Bretagna è una vera frana: il
suo deficit è il peggiore
d’Europa, visto che ha sfiorato
i 130 miliardi di euro. Ma sul
fronte finanziario Londra sta
riacquistando il dominio che
aveva caratterizzato gli anni
’20 e ’30: nel 2006 ha superato
New York. Secondo uno
studio presentato martedì
dalla Napier Scott Excutive
Search un contributo decisivi
alla conquista del primo posto
l’hanno fornito gli hedge fund,
ma anche il balzo del 54%
delle acquisizioni realizzate
nel Vecchio Continente che lo
scorso anno hanno
movimentato 1.700 miliardi di
dollari, la stessa cifra realizzata
negli Usa. Il boom della
finanza ha contribuito a
aumentare l'occupazione nel
settore. Ma ancora di più sono
Oltre 13 milioni di euro. A tanto ammonta lo stipendio percepito nel
2006 da Josef Ackermann, a.d. di
Deutsche Bank. Si tratta del compenso più alto tra i top manager delle
trenta società quotate al Dax di Francoforte: 1,2 milioni di euro in più rispetto a quanto dichiarato nel 2005
dallo stesso Ackermann, e circa 5 rispetto a Wolfgang Reitzle (7,37), a.d.
del gruppo energetico Linde, arrivato secondo nella speciale classifica.
In Germania, le imprese presenti
nel listino azionario principale sono
obbligate per legge a rendere pubblici i compensi dei consiglieri d'amministrazione. E ogni anno, non mancano le polemiche. In un paese che
fatica a uscire da una delle peggiori
crisi occupazionali del secondo dopoguerra, i milioni portati a casa da
pochi privilegiati sono come un pugno nello stomaco. Le imprese, però, fanno utili. E questo è quanto basta. Solo 1,2 milioni della retribuzione di Ackermann, sono fissi. Tutto il
resto dipende dall'andamento di
sumi. Un intervistato su cinque è pronto per un acquisto
di macchina low cost; il 60% degli interpellati ha già comprato
beni e servizi low cost, il 50%
considera corretto l’associazione del concetto del basso prezzo a un’auto, il 22% degli interpellati che considera positivamente il fenomeno low cost
nel suo complesso sono giovani. L’altra ricerca è del’istituto
di ricerca Roland Berger e associa la crescita degli acquisti di
auto a basso costo a due motivi: l’espansione dei mercati interni indiano e cinese e la diminuzione del potere di acquisto
di molti automobilisti europei.
La Dacia Logan, con cui il gruppo Renault ha aperto la strada
a tutti gli altri costruttori, è venduta oggi in versione berlina e
station wagon. L’indiana Tata
sta progettando un modello da
poco più di 2000 euro, la Fiat e
gli altri inseguono.
(f. p.)
cresciute le retribuzione dei
manager delle grandi
multinazionali del credito e
della finanza. La Napier Scott
(che non casualmente è una
società che si occupa di
ricerche di personale) ci fa
sapere che lo scorso anno le
retribuzioni degli operatori
finanziari di Londra sono
cresciute del 22%, mentre a
New York si sono dovuti
accontentare di un «modesto»
15%.
Tradotto in soldoni, il
compenso medio di un
manager di vertice del settore
creditizio nel 2006 è stato di
208 mila euro. Pochi?
Decisamente no: gli stesi
manager in media si sono
messi in tasca oltre 2,3 milioni
di euro di premi di
produttività, di gratifiche varie
per gli obiettivi raggiunti, oltre
il 20% in più dei colleghi
statunitensi.
mercato dell'istituto di credito. Tagliare posti di lavoro, in questo senso, può essere molto redditizio.
Ma non è solo il contestato a.d. di
Deutsche Bank a poter contare su
compensi meravigliosi. A sfogliare la
graduatoria, si incontra Michael
Diekmann, a.d. del colosso assicurativo Allianz, che si è portato a casa
nel 2006 5,3 milioni di euro. E ancora: Dieter Zetsche - il manager a cui
è stato affidato il compito di risollevare dalla crisi la DaimlerChrysler che ha ricevuto 5,1 milioni.
Nulla se si considera quanto ha
guadagnato Wendelin Wiedeking,
l'a.d. della casa automobilistica Porsche. Il dato non è noto, perché la
Porsche non è quotata al Dax e non
c'è quindi alcun obbligo di trasparenza sugli stipendi. Gli addetti ai lavori, però, non hanno dubbi: è più
ricco di Ackermann, se si considera
che i sei consiglieri d'amministrazione della società hanno incassato
complessivamente nell'ultimo anno
oltre 45 milioni di euro.
(ma.bo.)
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
il capitale
13
Commerci: negli squilibri europei
spicca l'eccezione tedesca
Nel 2006 due terzi dei 27 paesi dell'Ue hanno
presentato una bilancia commerciale in
passivo e quasi tutti in peggioramento rispetto
al 2005. Fa eccezione la Germania, le cui
esportazioni sono cresciute in valore
nell'ultimo anno di oltre il 13% portando a un
miglioramento dell'attivo. L'export tedesco nel
2006 ha superato 885 miliardi di euro, più o
meno la somma dell'export di Francia, Italia e
Spagna. In questi paesi, il tasso di crescita
delle esportazioni si è mantenuto sotto il 10%
e non è riuscito a bilanciare il deficit
energetico. Italia e Spagna sono in particolare
fra i paesi dove il disavanzo commerciale si è
più aggravato: in Spagna è ormai livelli
imbarazzanti (-88 miliardi di euro, il
quadruplo di quello italiano). Lo squilibrio
maggiore nell'area Ue è tuttavia quello del
Regno unito, la piazza finanziaria d'Europa,
dove il passivo sfiora adesso i 130 miliardi
(erano un centinaio nel 2005).
Nonostante la Germania, nel 2006 il
disavanzo complessivo extra-Ue dei paesi
dell'Unione ha così sfiorato i 200 miliardi di
L’Italia va. Ma non corre
euro. Cina e Russia sono, insieme a Norvegia e
Corea, i paesi verso i quali il deficit Ue è
peggiorato di più, mentre il sostegno
dell'economia Usa ha garantito una crescita
solo marginale dell'attivo (+ 2 miliardi): Cina e
Russia sono attualmente i mercati di sbocco
più dinamici per le merci europee, con tassi di
crescita superiori al 20%. Anche per l'insieme
dei 13 paesi della zona euro i conti con l'estero
sono andati in rosso, a -9 miliardi dai +14,8 del
2005: oltre alle due grandi potenze orientali, a
trainare le esportazioni dell'area sono le
economie dell'est europeo, e in particolare
Repubblica ceca e Polonia.
(er.ge.)
il libro
«Imagine»
di una fabbrica
Antonio Peduzzi
Ernesto Geppi
L
a Confindustria è fiduciosa nella ripresa: anzi, siccome in via Dell’Astronomia sono moderati, è
«moderatamente» fiduciosa. La
parola ripresa, riferita all'economia italiana, ricorre ben otto volte nell'ultimo supplemento alle
Note economiche del suo Centro
studi, anche se quasi mai vi appare da sola. E' spesso accompagnata dall'aggettivo «moderata» o da
un esplicito «da consolidare» o
dalla cauta precisazione che la
rpresa ha luogo «dopo il calo del
2005»: ciò avviene quando si parla in generale dell'attività economica e della crescita del Pil ma anche quando si descrivono i dati
sul clima di fiducia delle imprese.
La ripresa diventa invece «forte»
quando viene commentato il contributo degli investimenti lordi
delle imprese, mentre è ripresa
senza mezzi termini quella attribuita ai consumi e alla produzione industriale.
Insomma, le imprese investono, anche se non sono ancora sicurissime del futuro. L’aria di ripresa fa ringalluzzire gli industriali, e appena se ne presenta l’occasione cercano di fare i primi della
classe, o almeno ci provano: nell’ultimo rapporto «L’Italia vista
dall’Europa», presentato martedì
a Bruxelles, passa così la lettura
secondo la quale «le imprese stanno reagendo, ma il sistema paese
è in ritardo».
Uno dei corollari di questo quadro è che, siccome il prodotto interno lordo ha accelerato (da quasi zero nel 2005 a +1,9% nel 2006)
è aumentata anche la produttività del lavoro nei comparti industriali (+1,2%), e ciò ha comportato - lo segnala proprio Confindustria - il rallentamento del costo
del lavoro per unità di prodotto,
dal +2,9% al +1,3%, che ora viaggia più lento dell'inflazione: bene,
vuol dire che c'è in giro anche un
tesoretto delle imprese pronto
per essere utilizzato per congrui
rinnovi contrattuali, per investire
sul lavoro e per portare le retribuzioni un po' più vicino agli standard dei principali partner dell'eu-
ro.
Ma sta andando davvero tutto
bene, ancorché moderatamente?
Per esempio, i consumi sono davvero in ripresa? In effetti, qualche
dubbio viene. I consumi hanno
rappresentato per tutto il 2006
una delle componenti più deboli
del pil insieme alle spese della
pubblica amministrazione: il loro
ritmo di crescita è continuato a
oscillare attorno all'1%, esattamente sugli stessi valori registrati
per buona parte del 2005 quando
i consumi erano però la parte più
dinamica (si fa per dire) di un pil
praticamente tramortito, con investimenti sotto zero. Nell'ultimo
trimestre del 2006, quello che ha
segnato il recente grande balzo
congiunturale del pil che ha dato
la stura alle voci sulla ripresa, la
crescita dei consumi delle famiglie è stata la metà di quella degli
investimenti, oltre un punto al di
sotto di quella del prodotto lordo.
E il 2007 non sembra aprirsi sotto migliori auspici. A gennaio le
vendite al dettaglio, che identificano una parte rilevante della spesa
per consumi, hanno segnato una
crescita zero rispetto allo stesso
mese dell'anno precedente, confermando l'andamento piuttosto
sonnacchioso dell'ultimo trimestre del 2006. Tenuto conto degli
effetti stagionali, l'Istat stima a
gennaio una riduzione congiunturale dello 0,4% nel valore delle
vendite che depurata dell'incremento dei prezzi verosimilmente
si aggrava in termini di volume.
Questo andamento è più marcato
con riferimento alle spese per prodotti alimentari, e riguarda non
solo la piccola ma anche la grande distribuzione (eccetto ipermercati e discount). L'andamento
peggiore delle vendite al dettaglio
si manifesta nelle regioni del sud,
dove la crescita è negativa e dove
il ritmo di crescita è stato per quasi tutto il 2006 più lento rispetto al
resto del territorio.
Proprio dal sud vengono le note più dolenti per un mercato del
lavoro che, al di là dell'aumento
dell'occupazione, non dà molti altri segni di solidità. Non solo si
tratta di una crescita fondata sui
tempi determinati, sui part time,
sulla regolarizzazione dei lavora-
C
Un reparto Fiat
dello
stabilimento di
Mirafiori.
Foto Emblema
Dopo quattro anni di stagnazione, dall’economia
italia arrivano segnali di ripresa. Le imprese
hanno ricominciato a investire e fanno profitti
a scapito dei salari: il costo del lavoro per unità
di prodotto crece meno dell’inflazione
tori stranieri, ma è una crescita
concentrata quasi solo nelle regioni del nord e che esclude di fatto
quelle del meridione. Pessimi segnali, non proprio tipici dei periodi di ripresa, provengono dalle regioni del meridione (ma in parte
anche da quelle del centro), dove
cresce la porzione della popolazione (specialmente quella femminile) che rinuncia anche solo a
cercare un lavoro, testimonianza
di un mercato del lavoro informale e sottoposto agli arbitri più vari.
Ad essere in ripresa, probabilmente, sono per il momento proprio le imprese. La produzione industriale per esempio nell'ultimo
anno ha cambiato passo, e il 2006
è stato chiuso con una crescita annuale dell'1,8%, dopo il disastro-
so -1,7% del 2005. Il 2007, di cui è
disponibile al momento solo il dato di gennaio, si è aperto in maniera però in parte contraddittoria
dal momento che, tenuto conto
degli effetti stagionali e del numero di giorni lavorativi, gli indicatori della produzione e del fatturato
hanno mostrato risultati nel complesso deludenti. A spingere di
più, anche all'inizio del 2007, sono i comparti più pesanti della
manifattura, e in particolare quelli metalmeccanici (specialmente
la meccanica e la siderurgia) e
quelli della filiera chimica. Si tratta di settori per lo più dedicati alla
produzione di beni di investimento e orientati all'export. Da 21 mesi il fatturato dell'industria è infatti tirato soprattutto dalla domanda estera.
Quest'ultima ha segnato nell'ultimo anno un aumento della componente extra-Ue e una ricomposizione dei principali mercati di
sbocco. I dati di febbraio, diffusi
nei giorni scorsi dall'Istat, evidenziano infatti una ulteriore riduzione della quota del nostro export
extra-Ue assorbita dagli Stati uniti, che negli ultimi tre mesi è scesa di circa tre punti rispetto al
2005 con una diminuzione in termini di valore quasi del 5% rispetto allo stesso periodo dello scorso
anno. Che siano questi i primi effetti dell'atteso rallentamento
Usa, del progressivo indebolimento del dollaro e del prevedibile
riassorbimento del loro pesante
deficit commerciale? L'incognita
è pesante, visto che gli Usa rappresentano ancora quasi un quinto delle nostre esportazioni extraUe e una componente fondamentale per limitare il passivo commerciale. Nel frattempo cresce
l'importanza dei nostri fornitori
di energia (Russia e area Opec),
che negli ultimi tre mesi hanno
colmato buona parte del vuoto
dei minori acquisti degli Usa.
Le origini del tesoretto: virtù e ombre dei conti pubblici
Roberto Romano - Cristina Tajani
La trimestrale di cassa ha delineato uno scenario macroeconomico e della finanza pubblica in netto progresso. Evidenzia la forte
crescita del Pil per il 2006 pari all'1,9% rispetto alle iniziali proiezioni pari all'1,4%,
unitamente ad un significativo incremento
delle entrate fiscali (strutturali) che il governo stima in 8-10 mld di euro (0,7% del Pil),
oltre ad una situazione dei conti pubblici
particolarmente positiva. Queste proiezioni
sono al netto delle entrate possibili legate all'adeguamento della tassazione della rendita, pari a 1,2 miliardi. Tassazione delle rendite che - notizia di mercoledì - è saltata e
rinviata a non si sa quando. Comunque sia
il quadro generale appare favorevole e permetterebbe politiche pubbliche adeguate
per far fronte a problemi non più rinviabili,
per esempio l'adeguamento delle spesa sociale per dare delle risposte alle famiglie. In
prima approssimazione il governo sembra
sottovalutare gli effetti della manovra finanziaria per il 2007, l'effetto trascinamento legato alla crescita economica e la conseguente crescita delle entrate fiscali.
Il quadro «macro» è solo in apparenza po-
sitivo. Indubbiamente la crescita del Pil, in
ragione della crescita del commercio internazionale e della domanda estera, è più alta di quella preventivata, ma conferma la distanza rispetto all'Ue a 12. Se osservassimo
l'Italia dall'Europa, più che di crescita economica dovremmo parlare di una mancata
crescita del Pil pari a quasi un punto percentuale di Pil. L'Ue cresce nel 2006 del
2,8%, mentre l'Italia dell'1,9%. Sostanzialmente la crescita dell'Italia rimane più bassa di quella europea, nonostante una crescita degli investimenti fissi lordi che ormai supera la media europea anche in rapporto al
Pil (Eurostat 2007), cioè 19,5% per Ue e
20,6% per l'Italia.
I conti pubblici ed in particolare gli aggregati finanziari che interessano l'Ecofin sono
molto favorevoli. L'indebitamento netto
delle amministrazioni pubbliche cresce di
6 miliardi di euro (a 64,7 miliardi) rispetto
al 2005, ma tale risultato è l'esito (cercato)
delle misure straordinarie. Diversamente
l'indebitamento sarebbe pari al 2,4%, perfettamente in linea con i parametri di Maastricht, che diventa il 2,3% nel 2007 a legisla-
zione vigente. Sostanzialmente un risultato
di gran lunga migliore di quello preventivato che era pari al 3,6%. In qualche misura si
può sostenere che la manovra delineata dal
governo eccede di un punto percentuale di
Pil rispetto alle sue stesse indicazioni.
L'avanzo primario come il debito complessivo mostrano segni di netto miglioramento. L'avanzo primario per il 2007, a legislazione vigente, sale al 2,6% del Pil rispetto allo 0,2% del 2006, mentre per il debito c'è
una crescita imputabile interamente alle
misure straordinarie non ripetibili nel corso del 2007, comunque molto più bassa rispetto le previsioni delineate nella Relazione Previsionale e Programmatica (RPP). Infatti, il debito era previsto al 107,6% del Pil,
mentre il risultato finale colloca il debito al
106,8%.
Ma sono le entrate fiscali «addizionali» a
sorprendere nella relazione trimestrale. Rispetto al 2005 sono state registrate nel 2006
maggiori entrate tributarie per quasi 36
mld di euro, cioè un incremento del 9,9%.
Per il 2007 sono previste maggiori entrate
pari a quasi 17 mld (finalizzate a ridurre l'in-
debitamento). Le entrate Ire (la vecchia Irpef) sono state più alte di quasi 9 mld di euro; l'Ires (autoliquidazione Ires e Ire-Irpeg-)
di quasi 7 mld di euro; le imposte indirette
(Iva, imposta di registro ed altre) hanno avuto una crescita del 6,9% rispetto al 2005,
cioè 12,3 mld di euro. Le entrate «una tantum» contabilizzate nella trimestrale di cassa (pagina 47) sono pari a quasi 6 mld di euro. Sostanzialmente il governo potrebbe disporre di quasi 13 mld per il 2007 da utilizzare per far fronte ai problemi del Paese, oppure 10 mld come calcola «prudenzialmente» il governo. Una dote importante che potrebbe essere utilizzata per rispondere ai
tanti problemi del Paesi e a dare una risposta parziale alla polarizzazione del reddito.
La riduzione del prelievo a carico delle imprese dovrebbe essere coerente con il riordino della tassazione della rendita finanziaria, ma le entrate aggiuntive e non previste
potrebbero essere una risposta alla domanda di adeguamento dello stato sociale italiano. Le principali sofferenze sono legate alla
disoccupazione, al sostegno alla famiglia, all'abitazione e alla esclusione sociale.
on «Mirror, un modello di lavoro nell'economia della conoscenza», Sergio Galbiati,
Giuseppe Giaccardi e Marina Perego avevano provato a mettere
in forma il dominio cerebrale ad Avezzano, in un'area italiana in cui Micron, multinazionale delle memorie
flash e dei sensori d'immagine, opera
da un decennio. Oggi con «Imagine» i
tre autori propongono lo studio del
capitale umano nel mercato internazionale dei semiconduttori visto dall'Italia. Nella prima fase hanno dispiegato la rete del nous poietikós, in questa seconda si sono impegnati nel
compito di modellizzare la sussunzione delle forze di lavoro nel dominio cerebrale.
Gli analisti di solito distinguono tra
sussunzione formale e sussunzione
materiale. Ma nessuna sussunzione
materiale è possibile se ad assumere
qualcosa in posizione subalterna non
c'è una forma dominante. In senso
stretto, qui è in discussione l'essere di
quelle che i cervelli Micron chiamano
«persone» e «risorse» perché dovrebbero pur sapere che essere non è un
predicato
reale,
ma è l'esser-posto
della cosa, come
notava Kant. Parliamo di risorse
che sono pur sempre poste come cose, a dispetto del
fatto che il management le chiami,
civettando, persone. Lo scopo di
Galbiati & C. è esaminare come le
persone che lavorano in un'impresa ad alta tecnologia diventino risorse
eccellenti e come «il territorio» possa
essere luogo educativo e di progetto,
promotore di nuovo sviluppo. In verità le «persone» configurate come «risorse» sono l'approdo estenuato della
servitù su cui si erge la signoria che trascina in trionfo prede di guerra. Una
guerra è stata perduta, perché gli excombattenti entrino nella configurazione rappresentante delle persone-risorse.
Configurazione rappresentante è
l'espressione giusta per indicare il grado raggiunto dalla servitù mentale sotto il dominio cerebrale dell'azienda:
l'operare dell'uno è l'operare dell'altro, il pensare dell'uno è il pensare dell'altro. Heidegger ha chiamato il moderno l'epoca dell'immagine del mondo, dove «immagine è la configurazione della produzione rappresentante».
Tutto questo per delineare in stile
non troppo barbarico le modalità di
impatto tra il cervello di Micron e quello che il management usano chiamare territorio. «Imagine» documenta il
caso di studio sul capitale umano di
Micron Technology Italia, il confronto
con gli stakeholder esterni, i risultati
pratici ottenuti dall'impresa «con l'approccio maieutico allo sviluppo» le
proposte di lavoro rispetto a esigenze
strategiche riconosciute come indispensabili per «crescere insieme con
un territorio che vuole crescere».
Il livello di organicismo dell'approccio richiede nel lettore resistenza alla
ferocia. Il fatto che Micron qualifichi il
proprio atteggiamento come approccio maieutico allo sviluppo dovrebbe
suscitare indignazione. La circostanza
per cui l'azione di Micron sarebbe
«un'azione di frontiera», di «ecologia
culturale», configura una sovranità informale che è possibile unicamente al
prezzo di aver depotenziato le sovranità vere. Se un'azienda prende il potere, è sempre perché la politica ha accettato la disfatta.
S. Galbiati, G. Giaccardi, M. Perego:
Imagine. Laterza ed., 2007
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
14
La massima originalità, la massima sintesi,
il massimo dinamismo e la massima portata.
Ecco che cos'è la pubblicità Filippo Tommaso Marinetti
Come testimonia
la querelle
nata a San Paolo
del Brasile in seguito
alla decisione
di vietare i cartelloni,
è tempo di studiare
nuove strategie
per una promozione
«sostenibile»
dei consumi
Una piccola storia
dei percorsi seguiti
dalla pubblicità
nella sua progressiva
colonizzazione
degli spazi urbani.
Dai testi solo verbali
di fine XV secolo,
ai poster concepiti
per essere colti al volo
dai tram e dalle auto
stati scambiati per pacchi bomba.
Il paradossale risultato di operazioni come queste è che hanno stimolato nei potenziali consumatori reazioni difensive più potenti, che a loro volta inducono la realizzazione
di nuove pubblicità ancora più aggressive. Abbandonato a se stesso,
insomma, il mercato non solo non
si autoregola, ma si trasforma in
una spirale viziosa che continua ad
avvitarsi su se stessa.
E sebbene nell’epoca di Internet e
dell’onnipotenza mediatica che
mette fortemente in discussione
l’importanza delle «piazze» e dei
centri cittadini, sia forse lecito
aspettarsi in tempi non troppo lontani, se non la scomparsa, per lo
meno un forte ridimensionamento
della funzione del manifesto tradizionale, così come avevamo imparato a conoscerlo dall’Ottocento in
poi, questo non significa che gli spazi pubblicitari verranno presto cancellati dai luoghi pubblici urbani.
Anzi, forse proprio perché si sta avvicinando una fase di declino, non
si può escludere che la pubblicità si
faccia, se possibile, ancora più aggressiva di quanto sia stata finora.
Vanni Codeluppi
N
ella prima fase della sua
vita, l’affissione dei manifesti pubblicitari non doveva rispettare regole precise. A partire dalla fine dell’Ottocento, le città furono così progressivamente invase da cartelloni sempre più grandi, tanto che in Parigi,
capitale del XIX secolo Walter Benjamin annotava con un certo divertimento come a qualcuno potesse
addirittura capitare di svegliarsi la
mattina e di trovare la propria finestra coperta da un manifesto. Oggi,
invece, le norme esistono, ma spesso non vengono rispettate, o si rivelano inadeguate e arretrate rispetto
alla rapida evoluzione del mercato.
Lo spazio urbano si presenta perciò sempre più inquinato da un eccesso di stimoli sensoriali, legati soprattutto alla crescente intensità
del traffico automobilistico, ma anche all’insolente invadenza dei messaggi pubblicitari. Come una sorta
di velo che copre lentamente ma
inesorabilmente edifici e spazi urbani, i manifesti danno vita a una
fastidiosa «cacofonia» visiva.
Il segnale di un problema
Ha fatto notizia, nei mesi scorsi, la
decisione del consiglio comunale
di San Paolo del Brasile, una città di
venti milioni di abitanti, di eliminare i cartelloni pubblicitari dalle strade a partire dal primo gennaio
2007. Come era prevedibile, questa
misura ha suscitato proteste e cause legali per la difesa degli interessi
economici che ne venivano disturbati, con il risultato che oggi la pubblicità nei luoghi pubblici della megalopoli brasiliana non è scomparsa, sebbene sia meno invasiva di
prima. Il tentativo di San Paolo, e
l’eco che ne è derivata in tutto il
mondo, rappresentano comunque
un segnale che il problema esiste, e
che è necessario trovare soluzioni
adeguate.
In Italia, in particolare, la presenza dei grandi pannelli pubblicitari
assume una particolare rilevanza
perché si trova a coesistere con gli
importanti segni delle città storiche, spesso occultandoli. Non a caso, il comune di Roma ha da tempo
avviato una serie di interventi in
questa direzione, sia lottando contro le numerose affissioni abusive
(soltanto nel 2006 è stato eliminato
più di un milione di manifesti), sia
vietando i pannelli più grandi, sia
infine allestendo in alcune aree cittadine speciali rivestimenti a raggiera che dovrebbero impedire le affissioni «non controllate».
Città come palcoscenico
Solo pochi giorni fa anche il ministero dei beni culturali, all’interno
di una serie di provvedimenti che
dovrebbero essere rivolti alla riqualificazione delle periferie, ha citato
il ruolo spesso negativo che la pubblicità gioca nella definizione dei
panorami urbani. Del resto, persino alcuni pubblicitari si sono posti
il problema di una armonica collocazione dei materiali promozionali
all’interno del contesto storico e architettonico italiano: ancora a Roma, infatti, la Agat (Associazione
Grandi Affissioni Temporanee) ha
organizzato nei primi giorni di marzo una mostra fotografica a Palazzo
Venezia, Pubblicittà, con l’obiettivo
di promuovere intorno a questo tema una riflessione pubblica. Il problema però è complesso e merita
di essere affrontato tenendo conto
anche delle sue origini storiche.
Il manifesto pubblicitario ha sem-
Mimmo Rotella,
«Live», 2001 décollage
Pubblicità senza progresso
sul volto delle metropoli
pre avuto bisogno dello spazio urbano come palcoscenico in cui potersi esprimere. Se questo era vero
già per le prime forme elementari
di propaganda, comparse nelle città alla fine del quindicesimo secolo
(ai tempi in cui gli avvisi ufficiali
erano ancora composti soltanto di
testi verbali), il fenomeno è diventato soprattutto evidente nell’Ottocento, quando il progressivo sviluppo dell’industrializzazione e un intenso processo di urbanizzazione
che riguardava grandi masse di persone provenienti dal mondo rurale
hanno trasformato le piazze e le
strade di maggiore transito dei centri cittadini nel luogo fondamentale
di espressione della comunicazione pubblicitaria.
È nato così il poster, che ha incominciato a utilizzare le immagini e
ha invaso le città con formati sempre più giganteschi. E il passante
ha dovuto abituarsi alla lettura di
questi «quadri stradali» nuovi e sorprendenti, manifesti espressamente progettati per inserirsi con decisione entro la scena urbana.
Contemporaneamente, il crescente utilizzo di nuovi mezzi di trasporto veloci, come il tram o l’automobile, ha imposto agli individui di
imparare a vedere in tempi sempre
più rapidi i manifesti pubblicitari. E
a loro volta i mezzi pubblici sono diventati strumenti per l’esposizione
di «manifesti» in movimento, svolgendo una funzione analoga a quella che era stata un tempo dei cosiddetti «uomini sandwich», le persone cioè che giravano per le strade
portando sul davanti e sul retro del
corpo dei cartelloni pubblicitari.
Già a partire dall’Ottocento, in-
somma, la pubblicità non si è limitata a aumentare le proprie dimensioni, ma ha progressivamente moltiplicato i luoghi della sua presenza. A quell’epoca qualche voce si
era levata per protestare contro
questa infiltrazione sempre più capillare, ma si trattava di reazioni ancora isolate: in quanto simbolo del
progresso economico e sociale in
corso, la pubblicità non poteva che
essere pienamente accettata, nono-
stante gli sconvolgimenti che portava nella vita urbana.
Nel corso del Novecento, il processo di occupazione di tutti gli spazi urbani e sociali da parte della
pubblicità ha continuato a svilupparsi, tanto che oggi il nostro orizzonte appare ormai saturo. Accanto ai luoghi (almeno all’apparenza)
più consoni alla diffusione dei messaggi promozionali – lo schermo televisivo, innanzi tutto, ma anche, e
Dall’Art Nouveau al boom economico
Una mostra di manifesti al Castello di Rivoli
Si intitola «Pubblicità. Passioni e sentimenti» la mostra che, curata da
Cristiano Buffa e allestita fino al 29 aprile al Castello di Rivoli, si
articola intorno alla ricchissima raccolta di manifesti che Dino Villani,
uno dei più attivi pubblicitari italiani fra gli anni Trenta e gli anni
Sessanta, collezionò durante la sua attività e donò poi alla Rai-Sipra.
Di questa collezione, attualmente conservata presso il presso il
Dipartimento Pubblicità e Comunicazione dello stesso Castello di
Rivoli, l’esposizione presenta circa centotrenta manifesti che mettono
in evidenza alcuni dei temi più importanti della comunicazione
murale in Italia prima dell'avvento della televisione, dall'invenzione
del tempo libero, alla propaganda del regime, dalle passioni politiche
all'affermazione della società dei consumi.
Disposte in sequenza cronologica e secondo raggruppamenti tematici
che rispecchiano gli interessi professionali di Villani, le opere –
firmate dai protagonisti della comunicazione pubblicitaria del
Novecento, da Sepo a Marcello Dudovich, da Gino Boccasile a
Erberto Carboni, da Nico Edel a Armando Testa – compongono, più
che un percorso storico, una lettura «dall’interno» dell’evolversi della
pubblicità in Italia partendo dai primi decenni del Novecento, quando
il manifesto esprime il valore di una marca attraverso la ricostruzione
di un ambiente, fino agli anni Sessanta, che vedono imporsi la nuova
«seduzione del prodotto».
ora soprattutto, gli schermi grandi
e piccoli legati ai nuovi media, dal
computer al telefonino – la pubblicità tende giorno dopo giorno a
espandersi occupando molti luoghi sociali dove in precedenza non
era presente: dalla superficie esterna delle impalcature degli edifici in
ristrutturazione, alla superficie (interna ed esterna) dei taxi, dei treni
e degli aerei, fino addirittura ai gusci delle uova e alla fronte delle persone disponibili a cedere in affitto
un pezzo del loro corpo.
Perfino il luogo privato per eccellenza, la toilette, ha subito l’assalto
inesorabile della pubblicità: proprio di recente la campagna promozionale del film Borat ha trovato
nei bagni dei locali pubblici un inedito campo di azione.
Di fronte a una presenza tanto eccessiva e ingombrante, appare naturale che le reazioni di rifiuto e di
protesta siano diventate più forti.
Ma i risultati almeno finora hanno
portato il contrario degli effetti voluti. Proprio nel costante tentativo di
inseguire i consumatori, ormai scaltriti e insofferenti nei confronti dei
«consigli per gli acquisti», le imprese non solo cercano di occupare
spazi sempre maggiori, ma investono tutte le loro energie allo scopo
di trovare modi efficaci e originali
per farsi notare: è nato così il cosiddetto «guerrilla marketing», che cerca di colpire il target nei contesti e
nei momenti in cui meno se l’aspetta. Ne è un esempio recente la campagna promozionale di una nuova
serie televisiva americana, per la
quale sono stati collocati nella metropolitana e nelle strade di Boston
piccoli pupazzi luminosi che sono
I «fiori» di Marinetti
In passato i sostenitori della presenza della pubblicità nelle città affermavano con baldanza che essa contribuisce a rendere lo spazio urbano più bello, colorato e allegro. Celebre in questo senso è la lettera
che Filippo Tommaso Marinetti
scrisse nel 1927 a Mussolini per difendere le insegne luminose di Piazza Duomo a Milano, che alcuni volevano eliminare in nome della salvaguardia dell’estetica della piazza.
Secondo Marinetti, infatti, gli avvisi
luminosi andavano salvaguardati
perché erano «i fiori eccitanti, i frutti succosi e i putti danzanti della
nuova estetica futurista del ferro veloce e dell’audace cemento armato» ed erano «belli d’una nuovissima ma sicura bellezza».
Pochi sono oggi i fautori del ruolo
«estetizzante» della pubblicità, anche se è innegabile che esistano luoghi urbani importanti la cui identità si è formata soprattutto grazie alle immagini, ai colori e alle luci dei
neon e dei grandi cartelli che li
«adornano»: piazze celebri come Times Square a New York e Piccadilly
Circus a Londra, quartieri come
Ginza a Tokyo, intere città come
Las Vegas non sarebbero neanche
immaginabili senza la pubblicità.
Ma questo ragionamento non si
può applicare indiscriminatamente, e tanto meno in presenza degli
edifici importanti dell’architettura
storica.
La necessità di difendersi
Eppure, proprio partendo dal presupposto che attualmente – come
dimostrano gli esiti del caso di San
Paolo – la pubblicità non si può eliminare da un giorno all’altro perché rappresenta uno strumento indispensabile per lo sviluppo economico (senza tenere conto del fatto
che le stesse amministrazioni locali
ne hanno bisogno per sostenere le
loro sempre più esangui finanze),
appare necessario tentare di fare
convivere le esigenze della pubblicità con quelle della qualità della vita
delle persone.
Si tratta, cioè, di difendere i manifesti, ma anche di difendersi dai manifesti, regolando il ruolo sociale
della pubblicità e creando nuove
forme che, come avviene con il consumo sostenibile, riescano a conciliare esigenze diverse e aprano la
strada verso una vera e propria
«pubblicità sostenibile».
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
cultura
15
Ibride variazioni sul fantastico di Antonia Byatt
Stefania Consonni
R
iferendosi ad alcuni incroci discorsivi ed epistemologici che, spesso impercettibilmente, legano la nostra
epoca all’Ottocento, Michel Foucault proponeva trent’anni fa una locuzione
paradossale: «Noialtri vittoriani». Viene da
pensare in questi termini anche a proposito
di Antonia S. Byatt, nota al grande pubblico
per il mélo vittoriano-postmoderno Possessione, perché è senza dubbio il paradosso a
fare da nume tutelare all’ultima sua raccolta
di racconti, La cosa nella foresta (Einaudi,
trad. di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, euro
12,50). In queste cinque storie, infatti, troviamo l’Eneide e l’Arcimboldo fianco a fianco
con i Teletubbies e i piercing all’ombelico,
oppure un mostro medievale e gli arnesi di
tortura dell’ostetricia sette-ottocentesca fianco a fianco con dolcissime reminescenze infantili dei bombardamenti di Londra e con
resoconti di vecchie faccende domestiche come la lucidatura a piombo delle stufe di ghisa. Più sottile il paradosso della relazione che
in questi racconti si stabilisce fra realtà e immaginazione, cioè fra una descrizione erudita, a tratti enciclopedica, di dettagli anche microscopici del mondo naturale e quotidiano
– ai quali si era già abituato il lettore di Angeli
e insetti – e l’ingresso di una dimensione «altra»: oscura, soprannaturale, perturbante.
Sono racconti, questi della Byatt, peculiari
della sua scrittura, che come già nel Genio
nell’occhio dell’usignolo e nel Fiato dei draghi riprende la vena fantastica – quella delle
fiabe per adulti – dei fratelli Grimm e di Andersen, ma anche il meraviglioso di Ovidio e
Virgilio, le leggende e il folklore nordeuropeo, i racconti dell’arcano e del grottesco di
Poe, il gotico pseudosettecentesco di Karen
Blixen e non ultimo il macabre sexy e postfemminista di Angela Carter.
Non a caso, il titolo originale della raccolta
Pietro Perconti
T
anto è vero che le riviste
specializzate sono uno dei
principali strumenti per
l'avanzamento della ricerca
scientifica, tanto è palese che, sfortunatamente, in genere non servono
anche la causa della divulgazione
del sapere. Sembra che ogni anno
vengano pubblicati circa venticinque milioni di saggi scientifici su circa duecentomila testate specializzate: non si fatica a credere che ciascun articolo, spesso dedicato a un
minuscolo argomento ritenuto interessante soltanto a poche persone
già avvertite, abbia un numero di lettori che può essere contato sulle dita di una mano. Tra le poche riviste
a essere in grado di avanzare ipotesi
culturali di ampio respiro, «Forme
di vita» dedica il suo ultimo numero
(edito da DeriveApprodi) a problemi di Logica e antropologia, rivolgendosi a chiunque sia interessato a
comprendere cosa ne è della natura
umana nel periodo attuale, caratterizzato da trasformazioni tecnologiche e scientifiche particolarmente significative.
In un articolo comparso alcuni
mesi fa sul domenicale del Sole 24
Ore, Diego Marconi osservava come
la filosofia di orientamento analitico, che fino a poco tempo fa contava su Ludwig Wittgenstein come su
Nei racconti appena
usciti da Einaudi
con il titolo «La cosa
nella foresta»,
la scrittrice inglese
dà fondo al suo gusto
di mischiare
l’irrazionale
con dettagli presi
dal mondo naturale
e da quello domestico
Ferdinand Hodler, Studio per «Il Giorno», 1898-1899
è The Little Black Book of Stories, dove l’enfasi è sul «nero», inteso come specifico genere
letterario, con regole e topoi basati sulla
«temporanea sospensione di incredulità» codificata dal primo romanticismo. Genere
che la Byatt riprende con espliciti segnali e
omaggi, e che mescola però con un’empirica
osservazione e catalogazione dell’ordinarietà, della banalità quotidiana, insomma con
una vis interpretativa schietta, iperrealisica
quasi, dettata da quel sano principio inglese
che è il common sense: quello di grandi e rassicuranti narratori come Jane Austen o Dickens, che di gotico si sono occupati, sì, ma solo marginalmente.
Prendiamo ad esempio la storia che dà il titolo alla raccolta. Due bambine evacuate da
Londra durante la seconda guerra mondiale
si avventurano in una foresta, incuranti del
fatto che «nelle fiabe, la gente fa dei segni sui
tronchi degli alberi, o srotola un filo, o lascia
una traccia di sassolini bianchi...per ritrovare la strada», e finiscono perciò con l’imbattersi in una Cosa, una bestia disgustosa e sanguinaria, mezzo ameba e mezzo drago. Una
Cosa che tuttavia, allo stesso tempo, la voce
narrante descrive con un realismo nitido,
anacronistico rispetto all’ambientazione ipnotica e nebbiosa, come un amalgama di
«carne putrida e vegetali in decomposizione», un misto di «protesi di materiali fabbricati dall’uomo, pezzi di rete metallica, canovacci sporchi», e (chissà poi perché, ma l’effetto realistico è notevole) «paglietta di ferro
con residui di fondopentola, dadi e bulloni
arrugginiti». Un po’ come se sotto l’egida (appunto paradossale) di Foucault, ma anche di
Borges, l’Enciclopedia – quel luminoso modello epistemologico nato in Francia nel Settecento e basato su un rapporto individualizzante, puntualizzante, catalogante delle parole rispetto alle cose – si divertisse a rimescolare le carte con l’oscurantismo, l’orrore
grafico, la violenza icastica del Bestiario medievale, e con le sue Cose spaventose e innominabili.
L’ingresso dell’irrazionalità nell’apparentemente familiare si coniuga dunque anche al
suo inverso: il ritorno straniante di pungenti
dettagli realistici, di nomi scientifici e linguaggi specialistici, di un meticoloso catalogo della normalità che àltera i codici di indeterminatezza – di oscurità – del noir.
Prendiamo un’altra storia di metamorfosi
fantastica: in «Una donna di pietra» una anziana lessicografa, addolorata per la morte
della madre, si trasforma – non senza una
specie di felicità – in pietra vulcanica e gemme semipreziose, «pirolusite, ignimbrite,
omfacite, uvarovite, glaucofane, scisto, argillite, gneiss, tufo». Ancora, la collezione di curiosità mediche custodita presso l’ospedale
in cui è ambientato il racconto «Body Art» –
siringhe, flaconi, «seghe e morsetti, forcipi e
pinze, stetoscopi, tiralatte e orinatoi», «cervelli e testicoli umani in vasi di formaldeide»,
scheletri in bottiglia «con contorno di fiori
secchi, grappoli d’uva di cera» – diventa, da
sinistra Wunderkammer barocca, materiale
di lavoro per una artista neoconcettuale che
ne trae una moderna raffigurazione della
dea Kali.
L’invenzione fantastica si amalgama, insomma, in questi racconti al dettaglio pseudoscientifico, secondo la raffinata formula
strutturale già presente in romanzi come Possessione, che oltre a diversi piani temporali
intreccia circostanze documentarie dell’epoca vittoriana con patenti plagi di Robert
Browning e Christina Rossetti, per poi ricomporre fatti e finzione – vittorianesimo e postmoderno, storicismo e sperimentalismo –
nella voce onnisciente di una postfazione
vecchia maniera. O come in The Biographer’s Tale, inedito in italiano, che attraverso una narrazione a scatole cinesi costruisce en abyme la storia di un biografo, problematizzando la relazione fra la proliferazione
di frammenti di «autenticità» e l’invenzione
di una forma che, proprio in virtù di una coerenza fittizia, darà a tali frammenti lo statuto
di «storia».
«Realismo autocosciente» lo ha chiamato
Antonia Byatt, con ironia autoreferenziale, rimandando implicitamente all’esempio di
quei romanzi capienti ed elaborati che Henry James, snobbando i contemporanei vittoriani, aveva liquidato come «vaghi mostri
senza forma».
Oltretutto
SCOMPARSO
ARIODANTE MARIANNI
Poeta, pittore e traduttore di Dylan
Thomas, di Auden, di W.C.
Williams, di Emily Dickinson e
dell’intera opera poetica di Yeats,
Ariodante Marianni è morto a
Roma all’età di ottantacinque
anni. Ha scritto centinaia di testi,
ma la soggezione verso Giuseppe
Ungaretti, che fu suo maestro e di
cui fu anche segretario, gli ha
impedito a lungo tempo di
pubblicarli. Quando si decise a
fare uscire le sue poesie era ormai
ottuagenario, ma fece in tempo a
raccogliere notevoli apprezzamenti
critici. Con il nome d’arte di Ario
firmò la sua pittura, dando un
contributo di rilievo al panorama
delle avanguardie italiane, dagli
anni ’50 alla metà dei ’70, gli
anni fertli di Dorazio, Mulas, Perilli.
SULLE TRACCE DI PIERO
Luce, prospettiva, geometrie
perfette: la pittura «metafisica» di
Piero della Francesca è il soggetto
di un tour imperdibile, che
coinvolgerà tre sedi, a partire da
questo week-end: Arezzo,
Sansepolcro e Monterchi. La
mostra «Piero della Francesca e le
corti italiane» (fino al 22 luglio)
propone un viaggio sulle tracce
dell’artista nei suoi luoghi di
origine in un rinascimentale
affresco che prevede anche le
opere di artisti «vicini» (da
Pisanello a Veneziano all’Alberti).
I nessi tra logica e antropologia in «Forme di vita»
uno tra i propri punti di riferimento,
sembra ormai averlo completamente rinnegato. La ragione del distacco
da Wittgenstein risiede nell'incompatibilità tra alcune sue idee e il programma di ricerca delle scienze cognitive, divenuto ormai l'orizzonte
di riferimento della maggior parte
dei filosofi analitici.
Per esempio, mentre Wittgenstein riteneva che l'impresa filosofica non dovesse in generale mettere
capo all'elaborazione di teorie e tanto meno di teorie compromesse con
le scienze naturali, i cognitivisti non
fanno che elaborare e vagliare ipotesi teoriche su ogni aspetto della conoscenza naturale e artificiale. Ancora: mentre Wittgenstein riteneva
che la soluzione dei problemi filosofi dovesse passare per una valutazione del modo in cui essi vengono formulati linguisticamente, per le scienze cognitive il linguaggio non ha un
ruolo così speciale nella conoscenza
umana. Anzi, molti cognitivisti ritengono che non si possa comprendere
come funziona il linguaggio verbale
finchè non si prendono in considerazione i processi cognitivi non linguistici che lo rendono possibile.
Preso atto di ciò, il gruppo di filosofi che si riunisce intorno a «Forme
L’ultimo numero
della rivista edita
da Derive e Approdi
torna al progetto
originario della filosofia
analitica, ossia
alla proposta
di una descrizione
materialistica
degli aspetti biologici
dell’esistenza umana,
a partire dai fenomeni
del linguaggio
di vita», tra cui Massimo De Carolis,
Felice Cimatti, Paolo Virno, Stefano
Catucci,ha pensato che è venuto il
momento di ispirarsi sistematicamente alle intuizioni di Wittgenstein e di rilanciare una sorta di filosofia analitica «delle origini»: una filosofia materialista, anche se di un tipo di materialismo diverso da quello del cognitivismo. Quest'ultimo,
infatti, sarebbe affetto da una profonda difficoltà a trattare gli aspetti
pubblici della vita umana, come per
esempio i fatti di linguaggio e la normatività. La dimensione pubblica in
cui sono immersi gli esseri umani
ha, dice De Carolis, una forma del
tutto differente rispetto a quella delle altre specie animali. Ogni animale
vive in una propria nicchia ecologica, in gran parte esclusa ai membri
delle altre specie. Negli esseri umani, tuttavia, il rapporto con l'ambiente assume le forme di una «apertura
al mondo» in cui gli aspetti sociali e
la loro influenza sulla strutturazione
della psiche individuale non si lasciano ridurre al metodo naturalistico delle scienze cognitive. Per comprendere la natura umana e la sua
«antropologia» occorre dunque
prendere in considerazione da quale logica profonda è prodotta la visione ecologica tipica degli esseri umani. E proprio in questa prospettiva la
rivista si propone di esaminare il
ruolo che diversi operatori logici, come la negazione, svolgono nel produrre il tipo di rappresentazione
che contraddistingue il commercio
umano con il mondo.
Complessivamente siamo davanti a una sorta di «materialismo logico», come sostiene Paolo Virno, ossia una posizione che ricava dalla ba-
se logica della metafisica la specificità ecologica della società umana.
Secondo gli autori della rivista, la
sfida lanciata alle scienze cognitive
è segnata da una ragione politica: esse infatti rifletterebbero un atteggiamento di tipo individualistico, anzi
un «individualismo programmatico» tipico «dell'assetto economico
del mondo moderno». Se le cose
stanno in questo modo, allora «forse non è un caso che sia proprio il
quotidiano della Confindustria che
sia diventato il principale paladino,
fra i grandi quotidiani, delle scienze
cognitive».
È una tesi, tuttavia, un po' forzata.
È vero che le scienze cognitive riflettono una certa immagine delle persone umane, fatta di continuità con
il resto della natura, rifiuto del dualismo tra anima e corpo ed enfatizzazione degli aspetti interni della vita
individuale. Ma l'insieme delle loro
assunzioni non implica affatto una
particolare visione politica. Non a
caso, Noam Chomsky, ossia uno dei
teorici più influenti nel panorama
delle scienze cognitive, è anche uno
degli intellettuali marxisti più attivi
nel mondo.
Il fatto è che l'immagine della natura umana propagandata dalle
scienze cognitive è collocata a un livello tale di astrazione da consentire sia a Chomsky di trarne alimento
per le sue idee radicali sia ad altri di
coltivare le loro differenti opinioni
politiche in modo altrettanto coerente con la loro adesione al cognitivismo. D'altra parte l'individualismo tipico delle scienze cognitive è
ormai da parecchi anni avvertito come un limite anche all'interno di
quello stesso programma di ricerca,
tanto che lo studio degli aspetti sociali della cognizione è oggi di fatto
il cuore pulsante del panorama del
cognitivismo contemporaneo. Ma,
al di là dei singoli passaggi della discussione, la rivista solleva una questione decisiva. Le scienze cognitive
non propongono soltanto una serie
di evidenze parziali.
Al contrario, stanno delineando
una nuova immagine della natura
umana e dei rapporti sociali, benchè non sia chiaro quanto ciò accada in modo deliberato e consapevole e quanto per inerzia. In ogni caso
rivelare al più presto questa nuova
immagine, discuterla e apprezzarne
le conseguenze sulle nostre vite è essenziale per comprendere che genere di influenza la scienza contemporanea avrà sul nostro futuro.
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
16
Potete chiamarmi un po' come vi pare, tranne
sir. Meglio Lord dei Lord oppure semidio Bono, U2
nell’accettare il cavalierato della regina Elisabetta
Esce il 20 aprile
«Il mio paese»
di Daniele Vicari,
viaggio emozionante
per una ripresa
possibile da sud
a nord. Sulle tracce
del film di Joris Ivens
voluto da Mattei
al tempo della
strategia del petrolio
Foto grande: una scena da un cantiere
da «Il mio paese» di Vicari. In alto la scena di
Grottole censurata nel film di Joris Ivens
Missio e i misteri
di una copia Rai
Silvana Silvestri Roma
U
no dei film più importanti di
quest’anno sta per essere distribuito nelle sale in maniera
del tutto nuova: Il mio paese
di Daniele Vicari uscirà con la Vivo Film
(che produce con il sostegno dell’associazione centenario Cgil in collaborazione
con Rai Cinema) il 20 aprile in sette città
contemporaneamente e poi nei circoli
del cinema Arci-Ucca, sale d’essai e luoghi di incontro, dove si potrà vedere non
solo in pellicola ma anche in digitale,
qualche volta accompagnato da concerti. Se si vuole comprendere qualcosa di
più del nostro paese, il viaggio che ci fa
compiere Vicari è un importante momento di riflessione e di emozione. Il
punto di partenza è il documentario che
fu commissionato da Enrico Mattei a Joris Ivens, L’Italia non è un paese povero
del ’60 (che aveva la Rai come partner televisivo) per mostrare come sarebbe
cambiato il paese grazie allo sviluppo petrolifero. Compiva così un viaggio da
Marghera a Gela lungo la penisola fino
ad arrivare in un sud così povero che il titolo sembrava una contraddizione (scene in ogni caso censurate nella messa in
onda). In compenso in quella fine di anni cinquanta si respira un’energia e una
tensione verso il futuro che sembra un
inno all’attività umana. Quelle torri che
illuminavano la notte lungo le vie ferroviarie erano il simbolo del cambiamento
da paese agricolo a paese industriale, la
trasformazione che il grande documentarista olandese ricercava in ogni parte
del mondo. Vicari ripercorre la penisola
al contrario, dal sud al nord e ci fa vedere qual è lo stato del nostro paese oggi:
disoccupazione, cassa integrazione, fabbriche dismesse, cattedrali nel deserto,
riconversioni. Ma anche la forza di riprendere in mano la situazione, cambiare rotta e qualche volta ricominciare la
via dell’emigrazione. Infatti momento
centrale del film è il pullman che parte
dalla Sicilia e arriva in Germania (ce ne
sono centinaia), un cammino ripreso da
molti italiani verso un posto di lavoro
più sicuro. La scena di raccordo è fortemente drammatica ed è raccontata senza bisogno di parole: sulla spiaggia si tro-
Una valle dell’Eden
da ristrutturare
va buttata dal mare un’agendina a pezzi
scritta in arabo, qualche scarpa, poi il
pullman un viaggio lungo 48 ore dove
non c’è tanto da chiacchierare. Nel mediterraneo diventato un tragico cimitero di
esuli e migranti non ci sono più sonde a
pescare nel fondo, anche noi siamo ridiventati un popolo migrante.
Lungo il film veniamo a sapere perchè
un saldatore specializzato ha dovuto tornare a fare il pescatore, proprio come
uno dei protagonisti del film di Ivens che
sarebbe diventato operaio, sentiamo i
brividi di una disoccupazione durata
troppo a lungo, lo sguardo della madre
di cinque figli sulla scena più censurata
a suo tempo (Grottole), la miseria del
passato, i nuovi imprenditori del vino e
dell’olio e gli operai della Fiat di Melfi dove chi è rimasto senza lavoro confessa la
sua paura nel futuro, allo stesso modo
degli imprenditori. I ricercatori dell’Enea, i tessili di Prato nei loro capannoni deserti, la situazione di Portomarghera, la Montedison dismessa. È un film
che si vede d’un fiato ed è la prima volta
da tanto tempo che il tema del lavoro è
trattato senza farlo diventare commedia
a tutti i costi: ci sono tutti i volti, le situazioni, le ambientazioni di un paese che
non troviamo di solito nel cinema italiano (non perchè non si voglia farlo, ma
perchè non lo si vuole produrre): una
materia ben più vitale di ogni fiction addomesticata. «Ho voluto raccontare il
mondo del lavoro e come è cambiato, valorizzando solo uno degli elementi raccontati da Ivens. Volevo verificare cosa è
accaduto all’ambiente e all’economia.
Anche l’emigrazione è cambiata: tra il
’57 e il ’70 ci fu un esodo verso il nord,
dal ’90 in poi centomila persone ogni anno lasciano il paese, la differenza è che
oggi emigrano quelli che hanno studiato. Ho scelto il tema del lavoro perchè resta uno dei temi universali, come l’amore e l’amicizia. Era il cuore del lavoro di
Ivens, per lui il lavoro era il cuore della
trasformazione del mondo, rimosso da
parte dei nostri intellettuali, della nostra
classe dirigente». Il nuovo tipo di distribuzione sia in pellicola che in digitale
«Il colore della libertà» di Billie August
Al Bellaria Film Festival, la retrospettiva dedicata a D. A. Pennebaker
La storia in un santino
Cinema
Arriva nelle sale italiane Il colore
della libertà di Billie August. Il Mandela, raccontato da Joseph Fiennes, nel ruolo del suo guardiano,
non boero, del carcere duro di Robben Island (è dunque un militare
più umano, come esige lo stereotipo) e poi nelle prigioni via via più
normali, fino alla liberazione finale, nonostante la performance misurata e sottilmente critica di chi interpreta il leader dell'Anc, Dennis
Haysbert, è ossessionato dalla «sindrome del santino», che è il bianco
consapevole, dall'accento scozzese, più che il leader nero in lingua
Xhosa. Ma ha al suo attivo più di
una ossessione: anche per esempio, lo spiegarci che la Danimarca
ha fatto il suo dovere (l'embargo,
più dell'Italia), ma che non si stia
comunque glorificando, con i soldi
di Eurimages, un pericoloso «terrorista comunista». Bensì un nazionalista liberale, simbolo stesso non di
un altro Sudafrica, ma dello stesso
paese democratico che nel 1948 subì solo una di quelle «parentesi fasciste», come le chiamava Croce,
quasi incomprensibile. Che l'Anc
L’uscita di scena della pellicola
è per il 2019, anno in cui è
previsto che il 99% degli
schermi mondiali utilizzeranno
proiettori digitali. Ci vorranno
poi altri 9 anni affinché l'ultimo
1% degli schermi
cinematografici adotti il
digitale. Un piccolo numero di
sale, soprattutto in Europa,
sarà più impermeabile al
cambiamento, e per
marginalità economico
commerciale e anche per una
scelta extra-razionale, che le
spingerà nel corso dei prossimi
anni a continuare ad utilizzare
una tecnologia considerata da
antiquariato. Nel 2006 gli
schermi digitali nel mondo
hanno raggiunto quota 2.866,
con un aumento rispetto
all'anno precedente del 383%.
A trainare la crescita sono stati
gli Stati Uniti con il +1.031%.
grazie a AccessIT's Christie/AIX
il principale operatore del
mercato digitale Usa.
Dennis Haysbert in «Goodbye Bafana»
sia un partito liberale è ovvio, anche Roosevelt lo era, ma che alla distruzione di quella «parentesi» abbiano partecipato anche sindacati
rivoluzionari, il Pac e i comunisti lo
si dovrebbero dire per legge, salvo
pagare penali.
E anche non tacere mai che una
liberale purosangue, come Margaret Thatcher, considerasse la Pretoria razzista il Paradiso in terra e il
culmine della civiltà occidentale anticomunista, degno di Pinochet.
R.S.
permetterà una lunga tenitura, le proiezioni possono avvenire ovunque con un
identico noleggio. In più nel sito www.ilmiopaese.it ognuno potrà mettere immagini personali sulle proprie esperienze di lavoro e queste immagini diventeranno un nuovo documentario.
«È un film che sarebbe piaciuto a
Ivens, dice Virgilio Tosi grande maestro
di documentaristi al Centro sperimentale (ultima gestione esclusa), che racconta anche la scoperta e il lavoro di Missio,
suo allievo di cui parliamo qui accanto.
Specialista del cinema scientifico, collaboratore di Zavattini e che di Ivens è stato amico fraterno autore del libro «Joris
Ivens Cinema e Utopia», Tosi aggiunge:
«L’utopia viene fuori nel finale del film
di Ivens, con il cantastorie che canta
l’era dell’atomo pacifico. Allora non esisteva ancora la parola ecologia, non
c’era un rapporto tra industria e qualità
della vita. Questo è un film che potrebbe
fare aprire un dibattito sui problemi del
nostro paese. Ivens sarebbe contento
del tuo lavoro».
La fantomatica messa in onda del film di Ivens censurato in Rai è stata raccontata da Stefano Missio,
un dei nostri documentaristi più interessanti in
Quando l’Italia non era un paese povero del ’97,
quando era studente al Centro sperimentale.
«Al film di Ivens, dice Missio, avevano lavorato
anche i fratelli Taviani, Valentino Orsini e Tinto
Brass (in quegli anni una promessa) soprattutto
per il suo ruolo di montatore e di aiuto di Ivens.
Nel ’60 Brass che lavorava ancora per la Cinématèque, era assistente al montaggio di Ivens per un
documentario su Chagall. Il bambino che vola in
una scena infatti si ispira chiaramente a Chagall.
Ivens lo vorrà come aiuto nel suo film italiano. Doveva essere un’esercitazione di dieci minuti e io,
con la scusa che dovevo fare interviste chiesi due
ore di girato però mi preparai molto bene e montai 43 minuti. È stato un materiale prezioso anche
perchè personaggi che non ci sono più raccontano
i fatti. Andai a Amsterdam a selezionare le lettere
di Ivens, ho trovato riscontri molto interessanti.
Già mentre stavano montando il film, la Rai il 16 dicembre del ’59, trasmise un documentario prodotto da una società petrolifera dove diceva esattamente il contrario di quello che il film doveva raccontare, cioè che in Italia non c’era petrolio, che
era un’assurdità continuare a scavare e a fare delle
ricerche. Questo per capire il clima in cui Ivens lavorava. La Rai aveva dato l’Ok, avevano girato tutte le scene, erano al montaggio e contemporaneamente manda in onda questo documentario sullo
stesso tema, prodotto da una delle «sette sorelle».
Poi Ivens lo mandano in onda d’estate a tarda notte. Ho trovato una lettera di Brass che scrive a
Ivens, che è andato in onda molto dopo l’ora di
programmazione e il titolo fu cambiato da «Le due
città» a «L’albero di Natale» ed essendo in piena
estate si può immaginare quanti l’avranno visto,
tanto più che ho consultato il Radiocorriere: c’è un
box senza nessuna spiegazione. Ho trovato negli
archivi Rai nel ’96 la copia che era andata persa:
non era stata archiviata come autore perché Ivens
aveva chiesto che fosse scritto: estratti di un film di
Joris Ivens e poi chi ha fatto la catalogazione non
ha messo il nome dell’autore nè il titolo complessivo, ma i titoli dei singoli episodi. Quando ho caricato la pellicola per vederla in moviola, sulle scatole
c’era scritto «Potenza, strettamente regionale».
S.S.
2019, addio pellicola
Documentari di resistenza
Elfi Reiter
Don’t look back, non guardare
indietro, è il titolo del documentario che vede Bob Dylan
impegnato nel tour di tre settimane in primavera del 1965
nelle città inglesi: è datato 1967
e la firma è quella di D.A.
(Donn Alan) Pennebaker. Nato
nel 1925 in Illinois, il cineasta è
uno dei pionieri del cinema verità avendo il suo stile rivoluzionato, fin dai primi anni cinquanta, il cinema documentario con l’abbandono della voce
off narrante per una costruzione dell’opera a favore dell’osservazione diretta e ininterrotta di persone e fatti.
Dont look back si potrà (ri)vedere in più di un’occasione: ai
primi di giugno, nell’ambito
dell’omaggio dedicato al cinema di Pennebaker (e di Chris
Hegedus, sua moglie con cui realizza e produce film dal ’77) al
25˚ BellariaFilmFestival - Anteprima doc (diretto da Fabrizio
Grosoli) e in contemporanea al
7˚ Biografilmfestival (diretto da
Andrea Romeo) di Bologna
(una connessione fortemente
voluta dall’assessore alla cultura della regione, Alberto Ronchi, per dare più spazio e spazi
alle culture cinematografiche).
Il Biografilm si caratterizza attraverso una serie di ritratti,
quasi monografie, di musicisti
noti; David Bowie, Depeche
Mode, John Lennon e Yoko
Ono fino all’americana Suzanne Vega, mentre Bellaria ha optato per un cartellone dai lavori
più a carattere documentaristico, a partire dal primo corto
Daybreak Express: un tour nella metropolitana di New York
con le musiche di Duke Ellington girato nel 1953. Poi il celebre Monterey Pop del ’68 (con
contributi musicali tra gli altri
di Jimi Hendrix, Janis Joplin,
Ravi Shankar e gli Who), alcuni
documenti sulla danza come
Dance Black America e altri titoli ancora. Chissà se si vedrà anche quell’1PM realizzato origi-
nariamente con Godard e Richard Leacock sul nascente
movimento di resistenza contro la guerra in Vietnam e che,
finanziato da una rete tv, avrebbe dovuto chiamarsi 1AM (One
American Movie)? Terminate le
riprese nel ’71, sia Godard che
Leacock avevano abbandonato
New York, e Pennebaker ha
montato il girato da solo chiamandolo appunto 1PM (One
Parallel Movie, ossia One Pennebaker Movie come preferì dire Godard) per non incorrere
nelle penali da contratto.
Questo per dire che Pennebaker non ha documentato solo musica, ma si è infilato dietro le quinte della campagna
elettorale di Bill Clinton nel ’92,
il cui risultato The War Room
fu nominato all’Oscar come miglior documentario nel ’94, e
aveva seguito (con la moglie e
Pat Powell) per 18 mesi le lotte
al congresso sulla politica energetica durante l’era di Jimmy
Carter: 300 minuti di Energy
War targati 1978.
il manifesto
venerdì 30 marzo 2007
visioni
17
Reazione reality, nessuno
li vuole tutti li trasmettono
Giulia Sbarigia
L’
abbattimento dei reality show, annunciato dal presidente della Rai Claudio Petruccioli, nelle intenzioni dovrebbe
iniziare già dalla prossima stagione, il dibattito però si è scatenato fin da subito. A Piero Fassino, intervistato da Gianni Minoli per la Storia siamo noi, in onda ieri sera su Raidue, va tutto
bene: «Io non ho snobismi: secondo me il servizio pubblico
deve offrire tanto La storia siamo noi quanto i reality». Il ministro della pubblica istruzione invece identifica Grande fratello e
affini con il tormentone degli ultimi mesi. Per Giuseppe Fioroni,
dunque, i reality sarebbero causa e prodotto del «bullismo»: «È
ora di finirla con la politica dei
bullini - ha detto - e andare verso un auditel di qualità per i nostri ragazzi perché loro stanno
poche ore a scuola e molte ore
davanti al video». Prima del
trash, del cosiddetto bullismo,
della volgarità, della realtà che
però è confezionata in studio, di
Vallettopoli che pesca in quell’humus a piene mani e soprattutto prima della bomba lanciata da Petruccioli va considerata
la crisi d’ascolti del «format del
nuovo millennio» che qualcuno, alla prima edizione del Grande fratello, aveva salutato come
un’inedita fase tutta sperimentale della tv.
Il Grande fratello 7 si arrabbatta intorno al 20% di share, l’ultimo reality, Un, due tre stalla, trasmesso da Canale 5, si inabissa
al 17%, prima di farlo morire
probabilmente tenteranno la
carta di cambiargli fascia oraria.
Sui palinsesti per il momento la
situazione reality è questa, ma
poi c’è tutto il riverbero, i pomeriggi pieni di Melita Toniolo e Sonia Gloria Roy, il lelemorismo
La «casa» del Grande Fratello
L’intenzione del presidente della Rai
di cancellare dai palinsesti dell’azienda
«Il grande fratello» e affini ha scatenato
le polemiche. Il format perde ascolti, ma dal 4
aprile su Raidue parte «La sposa perfetta»
imperante, i giornali che non
mancano di aggiornarci quotidianamente sul bacio in piscina
o le presunte carezze sotto le coperte. Ad aprile, poi, dovrebbe
approdare su Raidue un nuovo
programma prodotto dalla Magnolia di Giorgio Gori, La sposa
perfetta. Protagonisti: mamme
chiocce, figli mammoni e aspiranti fidanzate, insomma suocere, pupe e secchioni, già lo chiamano reality-comedy. Da oggi
invece parte il venerdì reality su
Mtv, serata Wanna be night dalle 21. Tutto materiale americano: si inizia con Dancelife, è prodotto da Jennifer Lopez e segue
sei giovani ragazzi che sognano
di diventare ballerini affermati,
accanto a loro qualche nome
dello star system: Nelly Furtado,
Mary J Blige, Omarion, The Pussicat Dolls e Ashlee Simpson.
Poi c’è Cheyenne, la vita di una
giovane teenager in procinto di
diventare una rockstar e infine
Hogan knows best: Brooke’s
story, avventure e peripezie della figlia di Hulk Hogan nel mondo della musica.
Per il momento i programmi
che sul piccolo schermo vanno
forte restano le serie, e non solo
quelle curatissime, sfornate per
lo più in America, che alimenta-
no l’ossessione cofanetto dvd,
ma anche prodotti nostrani come Il medico in famiglia. Insomma l’idea (soggetto, sceneggiatura, trattamento, messa in scena...) è premiata, l’idea vuota
perde pezzi. E intanto, per sopperire all’illusione di mostrare la
vita vera, basta una web-cam e
un accesso alla Rete, stampa e siti raccolgono la sfida e l’intrattenimento fai-da-te si completa,
al resto ci pensa You Tube.
Il problema è che i network
producono sempre meno, le case di produzione sempre di più.
La multinazionale Endemol Big brother è un format globale,
c’è in Spagna come sulla tv satellitare libanese, ogni paese lo declina localmente, sembra che la
versione italiana sia una delle
peggiori - ora è in vendita, se
Mediaset, come sembra, riuscirà a accaparrarsela avrà contenuti e contenitore e la Rai resterà al palo.
segue dalla prima
Sia perché vanno in onda occupando
prime e seconde serate, sia perché i
figuranti che vi partecipano sono la
materia prima con cui vengono
rimpinzate le trasmissioni, tutte: da Porta
a Porta a Buona Domenica, da Matrix a
La vita in diretta. È la fabbrica dei
Format che annulla la creatività degli
autori e ingrossa i bilanci di colossi come
Endemol, casa madre del Grande Fratello,
e dei fratelli minori (la Magnolia di
Giorgio Gori con l'Isola dei famosi).
La multinazionale dei contenuti una
decina d'anni fa trovò in Italia il paese
della cuccagna, da conquistare come una
grande prateria con gli indiani in fuga.
Anche chi, in una prima fase, salutò
l'avvento del reality come la rivoluzione
della televisione, oggi deve convenire che i
prodotti di quella fabbrica sono serviti ad
abbassare i costi di produzione e la
qualità generale della televisione,
uccidendone ogni spirito innovativo e
vitale. Oltretutto la malattia ha
contagiato la politica in modo clamoroso.
Senza i reality non ci sarebbe vallettopoli,
mancherebbe la materia prima, il
connubio tra vallette e onorevoli, ormai
pane quotidiano dell'informazione dei
telegiornali e dei talk-show della sera.
La pornografia dei sentimenti, il
voyeurismo, la pseudo-realtà ha
vampirizzato la realtà, operandone una
censura violenta.
I consiglieri del centrosinistra, Sandro
Curzi e Nino Rizzo Nervo, obiettano a
Pretruccioli che i reality non sono tutti
uguali, che non bisogna confondere il
contenitore con il contenuto, lo invitano a
non assumere una posizione di rifiuto
ideologico, lo avvertono del pericolo di
lasciare alla concorrenza il succulento
bottino dell'auditel.
Ma è proprio il contrario. È l'ideologia del
reality la radice del problema, il voler
contrabbandare per vita vissuta le
sceneggiate secondo copione. Che il gioco
della simulazione sia stato scoperto, che
anche il più ingenuo tra i telespettatori
abbia capito che si tratta di uno show ne
è la dimostrazione. A parte il fatto che il
genere è in crisi e dopo aver guadagnato
picchi di ascolto sta raschiando il barile
della media classifica. Quanto alla
concorrenza, ci devono spiegare perché il
servizio pubblico dovrebbe gareggiare con
Mediaset sul suo terreno. Norma Rangeri
Big Brother
calibro 9
Abruzzese, il format
non comunica più
DENTRO L’AMERICA
DI WISEMAN
Per inquadrare il dibattito su ascesa
e declino dei reality abbiamo chiesto
un parere a Alberto Abruzzese, da
sempre antenna sensibile della comunicazione.
«La crisi di ascolti rafforza la vecchia posizione, non mia, che aveva
manifestato un giudizio radicalmente critico nei confronti della svolta determinata dai reality. Una svolta preparata tra l'altro attraverso una serie
di passaggi attivati da uomini di cultura della tv e non dal marketing, perché Guglielmi ha fatto e pilotato determinate cose a Raitre che erano
l'abbandono della struttura classica
della televisione e la penetrazione
nell'esperienza quotidiana.
I reality hanno sviluppato un format planetario, una dimensione postnazionale della tv che in qualche
modo l'ha spostata sul privato, un
universo in cui tutte le categorie relative a una forma di comunicazione
di massa che tiene sul sociale, vengono a cadere, e questo privato ha rivelato quello che aveva rivelato la telecamera di Raitre dentro le aule dei
processi: un avvicinamento brutale
al mondo com'è e non al mondo come viene ideologizzato. Il reality mostrava culture molto miste, mescolate, ’corrotte’, nel senso di confuse,
penetrate dalla dimensione dei consumi, dal fascino delle merci, dall'erotismo diffuso, ma anche l'articolazione del discorso, che fosse scritto
da sceneggiatori o fosse spontaneo
non conta, perché sempre la comunicazione ha la sua componente artificiale, quelle persone in qualche modo dialogavano, pensavano, ragionavano sulla loro esistenza. E il pubblico si è riconosciuto, ha riconosciuto
la novità ed è stato appassionato da
quel linguaggio. All'inizio era inevitabile affrontare la discussione in cui i
componenti della tavola si dividevano tra quelli che sostenevano che il
reality fosse spazzatura e quelli che
in qualche modo ne erano stati captati e affascinati. Trascurando di ragionare anche sugli elementi tecnici,
perché lì c'erano gli ingredienti del
successo: il buco della serratura, le dinamiche di gruppo e di potere alla
Foucault che si svolgono all'interno
di un recinto e dello spazio chiuso.
Naturalmente un format si può
rinnovare, ma a un certo punto compie un ciclo, si usura e si consuma. E
siamo alla fase del consumo. Il reality ha avuto successo anche perché
non era solo un programma di tv generalista, ma satellitare e in rete, cioè
era un formato che si prestava alla
multimedialità. Anche messo alla
prova. Quello che è conversazione
nella stanza chiusa che poi si offre
nello spirito del voyeur come dimensione dello spettacolo, è però la via
di ingresso per quel tipo di intrattenimento e di conversazione che passa
attraverso la telefonia mobile, le chat
e tutta una serie di forme di interazione personale, faccia a faccia, che
escono fuori da ogni formato, o comunque hanno interiorizzato alcuni
formati e danno la sensazione di essere più liberi e più originali, più rispondenti ai bisogni personali».
(a cura di Antonello Catacchio)
Ai 40 anni di attività come
documentarista di Frederick Wiseman,
è dedicata la retrospettiva che si
svolgerà dal 12 aprile ogni giovedì e
venerdì nell’Aula Magna del Polo di
Mediazione interculturale e
comunicazione di Sesto San Giovanni
(Mi). Opere che scandagliano in fondo
i mali della società Usa e quella
occidentale, analizzate nella loro
interezza, come nel caso del primo film
proposto: «Ticut follies» girato nel 1967
nel manicomio criminale di
Bridgewater, passando (13) a «Law
and Order» (1969) sulla natura
ambigua delle forze dell’ordine. «Basic
training» (26) girato nel 1971,
racconta il periodo di addestramento di
un gruppo di reclute nell’esercito
americano.
MONTECARLO FOLIÈS
Tra ironia e dissacrazione, inaugura
oggi l’edizione 2007 del Festival
Printemps de Montecarlo, con due
opere di Kagel: «Exotica» e
«Bestiarium». Opere mai eseguite in
Italia e in Francia. In particolare
«Exotica» - composta dal 1972 è
caratterizzata, spiega il compositore
argentino: «Dall’allargamento
dell’organico strumentale come
principio estetico». Tra le novità
assolute, figurano 5 prime mondiali di
giovani compositori come: Franck
Bedrossian, Frédéric Durieux, Michael
Levinas,Frédéric Verrières.
BEATLES ALLA PARMIGIANA
Al conservatorio oggi e alla casa della
musica domani, apre la rassegna
«1967. Sgt. Pepper’s e dintorni» con
un seminario su «40 anni dopo»,
quella stagione straordinaria del rock
che sconvolse il mondo della musica.
Fra i relatori: Roberto Agostini, Lelio
Camilleri, Marco Capra, Allan Moore. Il
2 e 3 aprile Giorgio Casadei terrà un
seminario su «Cover Music. L’arte di
arrangiare». Gran finale il 4 con
l’Orchestra Spaziale, una band di 15
elementi, in concerto che presenterà
«We’re Only in It for the Beatles», con
musiche dei Fab Four e di Zappa.
REGGIO CALABRIA FILM FEST
La terza edizione del Reggio Calabria
Film Fest (11-14 aprile), vedrà
protagonisti, tra gli altri, Carlo Verdone,
Francesca Neri, Carlo Delle Piane,
Giovanni Veronesi, Alessandro D'Alatri.
La rassegna, dedicata a Leopoldo
Trieste e organizzata dalla Minerva
Pictures Group, s'intitolerà
«Retrospettiva sul cinema italiano». Fra
le anteprime, alcune scene di «Lillo e
Greg the movie» di Luca Rea; la mostra
delle opere di Natino Chirico. Da
quest'anno inoltre partirà il concorso
«Cortoraro», con giuria presieduta da
Mimmo Calopresti e composta da
Marco Giusti e Enrico Magrelli.
RETTIFICA
Nell’articolo uscito ieri di Giampiero
Cane dedicato alla mostra su Magnus,
il quotidiano l’«Avvenire» è stato
erroneamente segnalato come
l’«Avvenire d’Italia».
il manifesto
18
venerdì 30 marzo 2007
sport
Correndo sull’acqua
Guglielmo Ragozzino
S
abato 7 aprile, vigilia di Pasqua, si svolgerà la maratona del Polo Nord. Gli iscritti sono 56 e uno di essi, che
correrà con i colori di Greenpeace
– o meglio con un berretto dell’associazione ecologista, visto che le
condizioni ambientali non consentono altro – ha raccontato ieri
in una conferenza stampa da dove arriva e dove conta di andare.
«Mi chiamo Francesco Galanzino, ha detto il maratoneta. Non sono un professionista di gare, faccio altro per vivere. Attualmente
sono un industriale del compostaggio e in passato sono stato anche vicepresidente dei giovani di
Galanzino alla Sahara Race, una delle maratone nei deserti organizzata nel 2006
Confindustria, quando
il presidente era Garrone. Avevamo una bella
menti le scarpe abituali da corsa.
Una maratona al Polo Nord
pretesa, allora. Quella
Vedremo al palo.
per l’italiano Francesco
di guardarci intorno,
«Sì perché la gara si svolgerà su
dioccuparci dell’"alun anello di 8 chilometri e passa,
Galanzino, 44 anni, industriale
tro". Ma ci hanno buttaintorno al palo che segna il Polo.
e testimonial della campagna
to fuori, con cortesia, è
Non è un gioco di parole. C’è effetovvio. Ho 44 anni, so«Energia e Clima» di Greenpeace tivamente un palo al Polo. Noi gli
no perciò molto più
gireremo intorno per 5 volte pervecchio dei miei rivali
correndo i 42 chilometri canonici.
nelle corse. Così prendo in giro i
estremo. Per esempio ho stabilito
Per tenere il percorso di gara sotto
ventenni: quando li lascio indie– anche su consiglio di grandi scacontrollo, temendo i crepacci, gli
tro, posso scherzare, ma in amicilatori – che è meglio avere un po’
organizzatori hanno preferito un
zia. Ho moglie e figli e gli allenafreddo che sudare. Di qui la scelta
circuito a una gara in linea».
menti e i giri per il mondo credo sidell’equipaggiamento. Inoltre ho
La maratona del Polo completa
ano compresi in famiglia. Per
messo a punto il contenitore per i
una serie di 4 gare in ambienti
esempio, per la gara al Polo, mi soliquidi da bere durante la gara. Il
estremi e desertici. Le prime tre si
no fatto prestare da un amico una
recipiente sarà a contatto della pelsono svolte nei deserti del Cile, del
cella frigorifera, tenuta a - 30 grale, in modo che il mio stesso caloSahara egiziano, del Gobi cinese.
di. Una cella ampia, 20x30 metri.
re corporeo gli impedisca di gelaGobi, in mongolo, vuol dire deserMi sono allenato correndo su un
re; altrimenti è finita. Non so ancoto. C’era da celebrare l’anno del
tapis-roulant e girando con una
ra con quali calzature si gareggedeserto indetto dall’Onu... C’era
mountain-bike. Ho provato l’atrà: al Polo i cambiamenti metereoda affrontare il vento estremo, il
trezzatura e corretto il mio atteglogici sono frequenti. In caso di necaldo estremo. I percorsi erano di
giamento in condizioni di freddo
ve, si useranno le racchette, altri200 chilometri, da percorrere in
sette tappe. In ogni percorso, un
«tappone» da 80-100 chilometri.
«Io il tappone lo percorrevo in 10
ore, ma i veri eroi erano quelli che
ci mettevsano 30 ore, e arrivavano
stremati al termine della tappa».
Ogni concorrente delle lunghe maratone nel deserto, portava con sé
tutto il necessario fino all’arrivo finale, nello zaino: tutto quello che
ognuno prevedeva di bere, mangiare; e il letto su cui dormire.
Il conto di Galanzino è di avere
avuto con sé, nel Gobi, 24 mila calorie, quanto a dire 3 litri di gasolio. E con tre litri di gasolio, nota il
maratoneta, un’auto fa, se è molto
sobria, 50 o 60 chilometri. Un uomo fa tre o quattro volte tanto.
Senza avere mai vinto, Galanzino
è primo in classifica e ha anche ricevuto, senza nascondere la grande felicità, l’ambito premio Chatwin, «il favoloso viaggiatore al
quale tutti ci ispiravamo, da ragazzi. E anche dopo».Forse non dobbiamo crederlo, ma Greepeace garantisce che la volta del Sahara
non ha vinto perché si era fermato
per ammirare le piramidi; e in Cile
per ammirare il panorama.
Cosa significano le imprese di
Galanzino, il suo futuro viaggio al
Polo, la prossima gara , le gare dell’anno passato? E che cosa ha a
che fare la sua storia personale
con Greenpeace? La risposta non
manca. In primo luogo è una testimonianza, condivisa, dell’avanzata del deserto, o meglio della desertificazione, dell’assottigliarsi
dei ghiacci perenni, per l’effetto
serra e l’indebolimento per mano
umana delle difese naturali. Poi è
la prova della possibilità di vivere
insieme a una natura difficile, senza mai tentare di distruggerla.
Magnini e Phelps,
squali d’acquadolce
Marco Perisse
SuperPippo si è ripetuto: campione del mondo per la seconda volta consecutiva. Regala all'Italia il
primo oro di questi mondiali di
nuoto e poco importa se deve condividere il titolo ex-aequo col canadese Brent Hayden che chiude
i 100 s.l. con lo stesso tempo di
48''43. Filippo Magnini entra nella storia del nuoto bissando il successo di Montreal. In tempi di rivoluzione della disciplina, non è
poca cosa: basti pensare che il
grande olandese Van den Hoogenband finisce solo sesto in una gara velocissima che ha visto ben
cinque atleti in uno spazio di 9
centesimi e tutti i finalisti sotto i
49 secondi. Il mondiale di Melbourne impressiona ogni giorno
di più per la straordinaria vitalità
e i valori tecnici che sta mettendo
in mostra. I bilanci si fanno alla fine: ma già si intravede una generazione di nomi blasonati come
quelli di Van den Hoogenband e
Hackett, che hanno segnato
un'epoca del nuoto maschile, pensionata dall'ondata di nuovi talenti: al terzo posto nei 100 si piazza
Eamon Sullivan, speranza di un team australiano che proprio nel
mondiale organizzato in casa appare in crisi di turn-over, e al quarto il sorprendente brasiliano Cesar Cielo Filho. E se a SuperPippo
sono mancati negli ultimi 5 metri
le energie per chiudere con un
tempo mondiale e vincere in solitudine, «riconfermarsi a questi livelli - ha commentato il ct Alberto
Castagnetti - è incredibile». Un risultato di valore assoluto. «Negli
ultimi 5 metri ero stramorto, non
avevo più le gambe. Ma sono cam-
pione del mondo. Nuotare con
questo tempo una finale mondiale - ha detto felice il pesarese - è
comunque bellissimo: ho difeso il
mio titolo e i colori italiani». Magnini entra nell'olimpo dei grandi
e simbolicamente riceve nella cerimonia di premiazione anche il testimone della specialità dallo zar
Alexander Popov che gli consegna
l'oro dei 100.
Il fenomenale Michael Phelps
continua la sua caccia al record di
Mark Spitz e conquista la finale
dei 200 misti dispiegando una
straordinaria sicurezza che lo porta a mettersi al collo il quarto oro
iridato con un altro record del
mondo: 1'54''98. Finora non ha
sbagliato un colpo. In ogni finale
individuale ha conquistato il titolo fermando il crono sul nuovo primato mondiale. Dietro di lui, l'argento dei misti va all'altro americano Ryan Lochte e il bronzo all'ungherese Laszlo Cseh che stabilisce il nuovo record europeo in
1'56''98. Anche in questa gara un
lotto di finalisti velocissimi, sotto i
2', impensabile ai tempi del miglior Rosolino e di Sidney: ovvero
appena qualche anno fa. E siccome ormai tecnici, atleti e osservatori dicono unanimi che la vasca
della Rod Laver Arena è deprecabile perché non assorbe il moto ondoso e ha pessime corsie, viene
da chiedersi cosa sarebbe accaduto alla tabella dei primati se si fossero disputati i campionati in una
piscina più veloce. L'impressione
è che il nuoto abbia ancora molto
da stupire. Speranze azzurre oggi
nella rana maschile con Paolo Bossini e Loris Facci, che hanno ottenuto tempi d'eccellenza per la finale dei 200 dove l'uomo del pronostico è il giapponese Kitajima.
venerdì 30 marzo 2007
il manifesto
televisioni
programmi di oggi
CIFRE IN CHIARO
ATTUALITA’ RAITRE
La crisi internazionale e i suoi riflessi sul prezzo del greggio, è
l’argomento trattato dalla rubrica del tg3 curato e condotto da
Luca Mazzà. Ospite in studio il presidente dell’Adoc, Carlo Pileri. Non solo petrolio, fra i temi del giorno il via libera dell’Unione europea al pagamento delle bollette nei supermercati e
della sperimentazione del check box, la cosiddetta scatola nera, sulle auto. Si parlerà anche di aste immobiliari.
12.25
IL GLADIATORE CHE SFIDO’
L’IMPERO DI DOMENICO PAOLELLA
ITALIA 1965 (103’) LA7
Peplum con l’atletico Rock Stevens e Massimo Serato.
Il senatore Lucio Quintilio organizza con la frode una
spedizione in Tracia per impossessarsi di un tesoro. Il
suo piano è sventato da Spartaco. Cinque anni dopo «Spartacus» di Kubrick, Paolella lo riprende con esiti molto più modesti.
TV7
ATTUALITA’ RAIUNO
C’è Fausto Bertinotti e il cardinale Angelo Scola, a confronto
sul rapporto tra Stato e Chiesa, l'Islam, l'attualità politica, nel
settimanale condotto da Gianni Riotta. Tra gli ospiti anche l'attrice Laura Morante, servizi su Paola Barale e il mondo dello
spettacolo nell'epoca di Vallettopoli e un ritratto di Paris Hilton, la ricca e viziatissima ereditiera, su vizi e virtù del jet set
internazionale.
LEGAMI DI PEDRO ALMODOVAR
SP 1990 (101’) SKYCINEMAMAN
Appena uscito dall'ospedale psichiatrico Ricky (Antonio Banderas) capita sul set di un film e si innamora
della protagonista. Decide di sposare Marina (Victoria
Abril), ma lei è un'attrice di film porno e a lui sembra
ovvio tenerla sequestrata a casa sua, ben legata. La situazione non preoccupa granché la
ragazza. Classico Almodovar...
GREY’S ANATOMY
SERIE TV ITALIA1
Nel primo episodio, Izzie (Katherine Heigl) prende a cuore il caso di un paziente in attesa di un trapianto di cuore. Nel secondo George (T. R. Knight), si occupa di un’anziana donna - dimessa - ma che non vuole lasciare l’ospedale. Il venerdì ospedaliero prosegue con «Nip/Tuck» (22.55), protagonista Conor
(Stark Sands) da uno psichiatra con i due genitori divorziati.
ESSI VIVONO DI JOHN CARPENTER
USA ’88 (101’) STUDIO UNIVER.
Cronenberg parla di oggi fingendo di fare fantascienza.
Il titolo «eXistenZ» è il nome di un gioco, duro monito
contro i mostri partoriti dalle tecnologie genetiche e
contro lo scivolamento progressivo e irreversibile dentro i buchi neri di una realtà virtuale
molto «povera di gioco».
21.00
mattino
RAI1
RIVOLTANTE
SOPORIFERO
7
14.00
6
21.00
7
21.00
8
RAI2
RAI3
La 25a ora (1.25 La7) in
contemporanea con l’uscita
nelle sale viene trasmesso il
documentario di Federico
Micali «99 amaranto» di
Federico Micali, liberamente
tratto dal libro «Tenetevi il
miliardo» di Carlo Pallavicino.
E’ la biografia, in prima
persona, di Cristiano
Lucarelli e del suo intenso
attaccamento alla maglia del
Livorno.
RETEQUATTRO
CANALE5
18.50
20.00
20.30
21.10
19.10 J.A.G. - Avvocati in divisa
“Due città”
20.00 Classici Disney
20.10 Tom & Jerry
20.30 TG2 - 20.30 - TG2 10 minuti
21.05 La stagione dei delitti 2 “Film
nero”con Barbara De Rossi,
Cristina Moglia.Regia di
Donatella Maiorca,Daniele
Costantini.
20.00
20.10
20.30
21.05
TG Sport
Blob
Un posto al sole
Mi manda Raitre,
conduce Andrea Vianello.Un
programma di Stefano Coletta,
Sara Veneto,Andrea Vianello.
Regia di Fulvio Loru.
23.10 TG3 - TG Regione
23.25 TG3 Primo Piano
19.30
19.52
19.55
20.20
L’antipatico
Meteo 4
Sipario del TG4
Walker Texas Ranger “Figlio di
Thunder - seconda parte”
21.05 Commissario Cordier “Ore
disperate”con Pierre Mondy,
Bruno Madinier,Charlotte
Valandray,Antonella Lualdi.
23.10 I Bellissimi di Rete 4
18.45 Chi vuol essere milionario,
conduce Gerry Scotti.Regia di
Giancarlo Giovalli.
20.00 TG5 - Meteo 5
20.31 Striscia la Notizia - La voce del
turbolenza, conducono Ezio
Greggio e Enzo Iachetti.
21.10 Scherzi a parte, conduce
Claudio Amendola,con Cristina
Chiabotto e Valeria Marini.
22.50 TG2
23.00 Confronti, conduce Gigi
Moncalvo.
23.45 GLOB, l’osceno del villaggio Prima puntata, conduce Enrico
Bertolino.
23.15 Scelta d’amore - La storia di
Hilary e Victor (Drammatico,
1991) con Julia Roberts.
23.30 Matrix, conduce Enrico
Mentana.
1.20 TG5 Notte - Meteo 5
Matteo Alviti
«N
essun altro paese in Europa ha avuto una riduzione di CO2 così consistente». Eckehart Rotter, portavoce della Lega dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ribatte ai critici.
«Solo per quel che riguarda il traffico automobilistico, dal 1999 sono state risparmiate 15 milioni di tonnellate di emissioni di CO2», ha detto. In termini percentuali ciò corrisponde a - 9%, come confermano le stime del governo.
In realtà la riduzione sarebbe frutto di
un ben poco lodevole fenomeno: il «turismo del pieno». Visto che dal 1999 il prezzo del carburante in Germania è appesantito dall’introduzione della tassa sull’ambiente, per risparmiare, molti automobilisti e autotrasportatori tedeschi
fanno il pieno negli stati vicini - Austria,
Lussemburgo, Polonia, Repubblica Ceca
e Svizzera -, dove il costo della benzina è
più contenuto, tra i 15 e i 25 centesimi al
litro in meno. L’effetto è duplice: da una
parte le valutazioni sulle emissioni tedesche sono calcolate al ribasso; dall’altra,
di conseguenza, la Germania scarica sui
vicini parte della sua quota emissioni, essendo il sistema di calcolo delle emissioni imputabili al traffico su gomma fondato anche sul consumo di carburante.
Il ministro degli interni bavarese Gün-
ther Beckstein è ben cosciente del problema: «La riduzione di CO2 in Germania sta solo sulla carta», ha detto. Beckstein, oltre che per l’ambiente, è preoccupato per «l’enorme evasione» che il rifornimento all’estero indirettamente comporta. Più di 2 miliardi di euro di ammanco all’anno, stima il governo federale. Secondo
l’Automobilclub
austriaco
Öamtc, citato dal settimanale Der Spiegel, solo in Austria circa il 30% del carburante finirebbe nei serbatoi tedeschi. Ma
è molto difficile fare una stima precisa
del volume totale di carburante acquistato sul mercato estero.
Hartmut Kuhfeld, matematico dell’Istituto tedesco per la ricerca economica
(Diw) esperto nel settore del traffico,
qualche numero è in grado di darlo. Basandosi sui dati del ministero dei trasporti sul traffico verso gli stati vicini,
Kuhfeld stima il volume di carburante «illecitamente importato» in 1,5 miliardi di
litri di benzina e 2,4 miliardi di litri di diesel solo per il 2005. Considerati i 31 miliardi di litri di carburante venduti in Germania nello stesso anno, i «turisti del pieno» farebbero risparmiare al paese un
buon 11% di carburante, che alleggerisce il calcolo delle emissioni. Il 9% di riduzioni di CO2 valutato, dunque, sarebbe in realtà inesistente. Considerate le
stime del Diw, lo stesso governo avrebbe
rivisto la percentuale al 2%. Non di più.
Anche la riduzione nel consumo di carburante dovuta allo sviluppo tecnologico dei motori, valutata in un - 25% dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, in realtà sarebbe ampiamente «rimangiata» dall’aumento dei cavalli e del peso delle vetture
per sicurezza e confort. E nel bilancio
non aiutano certo le nuove immatricolazioni di fuoristrada, salite del 16,5% nel
2006.
Gli «ambientalisti di Bruxelles» avevano particolarmente bersagliato la Vda
per l’alto livello medio di emissioni dei
modelli prodotti. Ma la cancelliera Angela Merkel aveva scelto di schierarsi in loro difesa, per una riduzione più morbida
delle emissioni e, dunque, contro il lavoro del commissario all’ambiente Stavros
Dimas. Lo scorso febbraio Dimas è riuscito infatti a far partire sotto il fuoco delle critiche la proposta che, qualora divenisse legge, obbligherà l’industria automobilistica a ridurre le emissioni per i
nuovi modelli a 120 grammi di CO2 per
chilometro entro il 2012. Al «turismo del
pieno» potrebbe poi mettere un freno la
proposta del commissario Ue per la tassazione, l’ungherese Laszlo Kovacs, che
vorrebbe stabilire un’aliquota minima
unitaria di 35,9 centesimi per litro di diesel entro il 2012. Oggi in Germania si pagano 47 centesimi per litro contro i 22
centesimi dell’est Europa.
LA7
ITALIAUNO
6.00 TG5 - Prima Pagina
7.55 Traffico - Meteo 5 - Borsa e
Monete
8.00 TG5 - Mattina
8.45 Secondo Voi, conduce Paolo
Del Debbio.
8.55 Maurizio Costanzo Show (R),
conduce Maurizio Costanzo.
9.40 TG5 Borsa Flash (all’interno)
10.20 Uno, Due, Tre... Stalla! (R)
10.50 Squadra Med - Il coraggio
delle donne “Una bambina in
pericolo”con Patricia Richardson,Tamera Mowry,Rosa Blasi.
11.50 Grande Fratello (R)
12.25 Vivere
13.00 TG5 - Meteo 5
13.40 Beautiful
14.10 Centovetrine
14.45 Uomini e Donne, conduce
Maria De Filippi.
16.10 Buon Pomeriggio, conduce
Maurizio Costanzo.
17.00 TG5 Minuti
17.05 Uno, Due, Tre... Stalla!
17.40 Tempesta d’amore, con
Henriette Richter-Rohl,Lorenzo
Patanè,Jan Van Weyde,Judith
Hildebrandt,Christof Arnold.
18.15 Grande Fratello
I «turisti del pieno» di benzina
19
foto
notizia
6.00 TG4 - Rassegna Stampa
6.20 Secondo Voi
6.25 Peste e corna e gocce di
storia
6.30 Kojak“Destinazione Giamaica”
con Telly Savalas.
7.10 Casa Mediashopping
7.25 Casa Mediashopping Il meglio della settimana
7.40 Charlie’s Angels “Angeli di vita”
8.40 Vivere Meglio, conduce Fabrizio
Trecca.
9.40 Saint Tropez “Cambiamento
forzato”con Tonya Kinzinger.
10.40 Febbre d’amore
11.28 Vie d’Italia notizie sul traffico
11.30 TG4
11.40 Forum, conduce Rita Dalla
Chiesa.
13.30 TG4 - Meteo
14.00 Forum, conduce Rita Dalla
Chiesa.
15.11 Sai xche? Clip
15.25 La storia di una monaca
(Drammatico,1959) con Audrey
Hepburn,Peter Finch,Edith.
Regia di Fred Zinnermann.
17.50 TGCom - Vie d’Italia notizie sul
traffico (nell’intervallom)
18.55 TG4
terraterra
CLASSICO
RaiRadio1 (21.09) fra le
realtà più interessanti della
giovane scena rock
britannica, i Kaiser Chiefs
sono protagonisti del
concerto registrato al
Columbia Club il 3
febbraio. Lo showpresentato da Gerardo
Panno - si concentra in
particolare sulle canzoni
del loro recente album
«Yours truly, Angry mob»
8.05 Rai Educational - La Storia
siamo noi “Dal PCI al Partito
Democratico”
9.05 Verba volant
9.15 Cominciamo bene - prima,
conduce Pino Strabioli.
9.50 Cominciamo bene, conducono
Fabrizio Frizzi con Elsa Di Gati.
11.00 Cominciamo bene - Animali e
animali e..., conduce Licia Colò.
12.00 TG3 - Rai Sport Notizie Meteo 3
12.25 TG3 Cifre in chiaro
12.45 Le storie
13.10 Quantum Leap - In viaggio nel
tempo “Non c’è due senza tre”
14.00 TG Regione - Regione Meteo
14.20 TG3 - Meteo 3
14.50 TGR Leonardo
15.00 TGR Neapolis
15.10 Trebisonda Presenta la TV dei
ragazzi
16.15 TG3 GT Ragazzi
16.25 Soupe Opera, cartoni animati.
16.35 Melevisione
17.00 Cose dell’altro Geo
17.40 Geo & Geo
18.15 Meteo 3 (all’interno)
19.00 TG3
19.30 TG Regione - Regione Meteo
0.20 Applausi
0.50 TG1 - Notte - TG Teatro
MAGICO
15.25
6.05 Tg2 Costume e Società
6.15 Focus
6.20 Caro amore, caro… scene da
un matrimonio
6.40 Tg2 Medicina 33 (R)
6.55 Quasi le sette
7.00 Random con “Cuccioli”“Lilo e
Stitch”“Monster Allergy”“L’Albero
Azzurro”“Pingu”
8.40 Anteprima Melbourne
9.00 Nuoto: Campionati Mondiali
(in diretta da Melbourne,
Australia).
10.00 TG2 - Meteo 2 - Cinematinée Medicina 33 - Nonsolosoldi
11.00 Nuoto: Campionati Mondiali
(in diretta da Melbourne,
Australia).
13.00 TG2 - Giorno
13.30 TG2 Costume e Società
13.50 TG2 Sì, Viaggiare
14.00 L’Italia sul 2, conducono Roberta Lanfranchi e Milo Infante.
15.50 Ricomincio da qui, conduce
Alda D’Eusanio.
17.20 Streghe “Oh mie Dee! seconda parte”- Meteo 2
18.05 TG2 Flash L.I.S. - TG Sport
18.30 TG2
19.00 Andata e ritorno
notte23.20 TV7, settimanale del TG1.
BELLO
foto
notizia
6.10 La nuova famiglia Addams “Un
matrimonio da salvare” con
Glenn Taranto,Ellie Harvie.
6.30 TG1 - CCISS Viaggiare
informati
6.45 Unomattina, conducono
Eleonora Daniele e Luca Giurato.
10.45 TG Parlamento
10.50 Appuntamento al cinema
11.00 Occhio alla spesa
11.25 Che tempo fa - TG1
12.00 La prova del cuoco, conduce
Antonella Clerici.Con la partecipazione di Beppe Bigazzi e
Anna Moroni.
13.30 TG1
14.00 TG1 Economia
14.10 Festa italiana Storie, conduce
Caterina Balivo
14.45 All’interno: Incantesimo 9,
con Giorgia Bongianni,Alessio Di
Clemente,Massimo Bulla,Paola
Pitagora,Corinne Clery.
15.50 Festa italiana, conduce
Caterina Balivo.
16.15 La vita in diretta, conduce
Michele Cucuzza.
16.50 TG Parlamento - Previsioni
sulla viabilità (all’interno)
17.00 TG1 - Che tempo fa (all’int.)
L’eredità, conduce Carlo Conti.
TG1
Affari tuoi
I raccomandati, conduce Carlo
Conti.Un programma di Carlo
Conti,Leopoldo Siano,Emanuele
Giovannini,Ivana Sabatini,Alessandra Bisegna,Zap Mangusta.
Regia di Stefano Vicario.
23.15 TG1
COSÌ COSÌ
film di oggi
LA STORIA DI UNA MONACA DI
FRED ZINNEMAN
USA 1959 (179’) RETE4
Audrey Hepburn era all’apice della notorietà - era reduce da «Vacanze romane» e «Sabrina» - quando decise
di mortificarsi per questo film. Niente trucchi né abiti firmati ma solo lunghi sguardi tormentati e molta classe. Un ruolo fortunato che le fruttò anche una nomination per l’oscar.
23.20
pomeriggio
LETALE
INSOSTENIBILE
FAHRENHEIT
ATTUALITA’ RADIO3
Si parla di mafia e in particolare della «grammatica di Provenzano», in uno spaccato antropologico e culturale proposto nel
contenitore radiofonico. Ad approfondire il tema: Michele Prestipino, magistrano palermitano, autore de «Il codice di Provenzano» e lo scrittore Vincenzo Consolo. Nello spazio del libro del giorno, Francesco Pacifico presenterà «Faith»,raccolte
di racconti di Amanda Davis.
15.00
sera
CULT
6.43
6.50
7.00
7.25
7.55
8.20
8.30
9.00
10.00
10.05
11.10
12.15
12.25
13.00
13.40
14.05
14.30
15.00
15.55
16.50
17.20
17.35
18.00
18.30
19.00
3 Minuti con Media Shopping
Luna, principessa argentata
I Puffi
Bratz
Hamtaro piccoli criceti, grandi
avventure
Lo Show dell’Orso Yogy
L’ape Maia “La pulce affamata”
Chips “Il rapimento”
3 Minuti con Media Shopping
Supercar “L’ancora di
salvezza”con David Hasselhoff.
Hazzard “La grande rapina di
Boss”con John Schneider,Tom
Wopat,Catherine Bach.
Secondo Voi
Studio Aperto - Meteo
Studio Sport
Detective Conan
Dragon Ball Z
I Simpson “A proposito di Margie”
Smallville “Messaggi assassini”
Settimo cielo “Lo voglio”
Keroro
Spongebob
Mermaid Melody principesse
sirene “Febbre d’amore”
Zack e Cody a Grand Hotel
Studio Aperto - Meteo
3 Minuti con Media Shopping
6.00 TG La7/Meteo/oroscopo/
traffico/informazione
7.00 Omnibus, programma d’informazione e approfondimento.
9.15 Punto Tg
9.20 2’ un libro, invito alla lettura e
proposte editoriali,in compagnia
di Alain Elkann.
9.30 I custodi delle foreste
10.05 I tesori dell’Umanità,
documentario.
10.25 Jake & Jason detectives
“Il prezzo di una vita”
11.30 Il tocco di un angelo “Dentro la
luce”con Roma Downey,Della
Reese,John Dye.
12.30 TG La7
13.00 Le inchieste di Padre Dowling
“Il detective interpellato”
14.00 Il gladiatore che sfidò l’impero
(Avventura,1965) con Rock
Stevens,Massimo Serato,Livio
Lorenzon.Regia di Domenico
Paolella.
16.00 Atlantide - Storie di uomini e
di mondi“Spartaco”
18.00 Star Trek Enterprise “Cow-boy
dello spazio”con Scott Bakula.
19.00 The agency “Dossier Al-Qaida”
20.00 TG La7
19.05 Candid Camera
19.10 La vita secondo Jim “La festa
delle mamme”“Il fidanzato della
mamma”con James Belushi.
20.10 O.C. “Pugni e baci”
21.00 Grey’s anatomy “Ricominciare”
“Tenere piccole bugie” con
Patrick Dempsey,Ellen Pompeo.
22.55 Nip/Tuck “Conor McNamara,
2026” con Dylan Walsh.
20.30 Otto e mezzo
21.30 Le invasioni barbariche, tra gli
ospiti: il Ministro Barbara Pollastrini,il Presidente di Banca
Mediolanum Ennio Doris,il duo
Francesco e Roby Facchinetti,
oltre allo scrittore Carlo Lucarelli
e il Sottosegretario alla Giustizia
Luigi Manconi.
0.00 Markette - Doppio Brodo
0.00 Huff “Cane bastonato”
0.55 Studio Sport
1.20 3 Minuti con Media Shopping
1.00 TG La7
1.25 25ª ora - Il cinema espanso
2.50 Otto e mezzo (R)
SKYTV
SKY SPORT1
14.00 Sport Time (dir.) - 14.30 Futbol Mundial
- 15.00 100% Roma: Milan - Roma 2006/07
(rep./sin.) - 16.00 100% Juventus: Juventus Pescara 2006/07 (rep./sin.) - 16.30 Permette
Signora... - 17.00 100% Milan: Roma - Milan
2006/07 (rep./sin.) - 18.00 100% Inter: Parma
- Inter 2006/07 (rep./sin.) - 19.00 100% Primavera - 19.30 Sport Time (dir.) - 20.00 Serie
B prepartita (dir.) - 21.00 Calcio, Serie B
anticipo 32a g.: Genoa - Albinoleffe (dir.) 22.45 Serie B prepartita (dir.) - 23.00 Mondo
Gol Weekend (rep.) - 0.00 Sport Time (dir.).
SKY SPORT2
12.30 MotorSport - 13.00 Wrestling WWE
24/7 Preview (rep.) - 13.55 Rugby, EDF - Energy Cup: Cardiff Blues - Ospreys (rep.) - 15.45
Volley, Serie A1: Una partita (rep.) - 17.45 Basket, NBA: Chicago Bulls - Detroit Pistons (rep.)
- 19.30 Zona Wrestling - 19.45 Wrestling, Raw
Domestic - 21.30 WWE ECW - 22.30 Poker
Dome (rep.) - 23.15 NBA Action - 23.45
Basket, NBA: Chicago Bulls - Detroit Pistons
(rep.) - 1.30 Wrestling WWE 24/7 Preview
(rep.) - 2.30 Basket, NBA: Dallas Mavericks New York Knicks (dir.).
CULT
9.00 Monsoon Wedding di Mira Nair - 10.30
Finché morte non vi separi di Larry Peerce 12.30 Nuovi corti - 13.00 Film School ep. 9 e
10 - 14.00 Fanny ed Elvis di Kay Mellor - 16.00
Fred - 17.00 Grock re dei clown - 18.00
Mademoiselle di Philippe Lioret - 19.30 XL America - 20.00 La scala - Un dossier leggero 21.00 Tutto sul riporto - 22.00 Il migliore
amico dell’uomo - 23.00 I racconti del cuscino
di Peter Greenaway - 1.15 Tutto sul riporto - 2.00
Il migliore amico dell’uomo - 3.00 I racconti
del cuscino di Peter Greenaway.
SKY CINEMA MANIA
12.30 Il mio nuovo strano fidanzato di Teresa
Pelegri, Dominic Harari - 14.00 Almodóvar Mania
- 14.20 Extra: Borat for President - 14.35 La
fortuna di Cookie di Robert Altman - 16.35
Hollywood Flash - 16.50 Angel-A di Luc Besson 18.25 Sky Cine News - 19.00 Masked and
Anonymous di Larry Charles - 20.45 Sottocinque - Sosta forzata - 21.00 Legami! di Pedro
Almodóvar - 22.50 Almodóvar Mania - 23.20
Matador di Pedro Almodóvar - 1.00 Gianni
Canova: Il Cinemaniaco - A History of Violence
- 1.10 Hollywood Flash.
RADIO
MTV
7.00 Wake up
9.00 Pure morning
11.00 Into the music
13.00 Date my mom
14.00 My super
sweet 16
14.30 School in
action
15.00 TRL,in diretta
con Alessandro da Piazza
del Duomo.
16.00 Flash News
16.05 Mtv 10 of the
best
17.00 Flash News
17.03 Into the music
18.00 Flash News
18.05 Mtv Our Noise
SKY CINEMA 1
14.00 Stay - Nel labirinto della mente di Marc
Forster - 15.45 Identikit: Nocolas Cage - 16.15
After the Sunset di Brett Ratner - 17.45 Il Dizionario - 18.05 Il cinema nel pallone - 18.45
Herbie - Il supermaggiolino di Angela Robinson 20.20 Extra: Borat for President - 20.35 Extralarge: Casanova - 21.00 Una teenager alla
Casa Bianca di Forest Whitaker - 22.55 11 settembre - Tragedia annunciata - 3a parte di David L. Cunningham - 0.55 Sky Cine News - 1.25
Bastardo dentro di Patrick Alessandrin - 2.50
Extra: Borat for President.
SKY CINEMA 3
10.15 In dieci sotto un tetto di Steven Robman - 11.50 Quando l’amore brucia l’anima di James Mangold - 14.05 Hollywood
Flash - 14.20 Romeo + Giulietta di Baz
Luhrmann - 16.20 Seven Swords di Tsui Hark
- 18.55 The Clan di Christian De Sica - 20.35
Extralarge: Elizabethtown - 21.00 Paradiso
perduto di Alfonso Cuarón - 23.00 Sky Cine
News - 23.35 Il mistero dei Templari di Jon
Turteltaub - 1.50 Good Night, and Good
Luck di George Clooney - 3.25 Fade to Black
di Patrick Paulson, Michael John Warren.
19.00 Flash News
19.03 Next
19.30 Parental
Control
20.00 Flash News
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21.00 Cheyenne
21.30 Dancelife
22.00 Hogan knows
best
22.30 Flash News
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23.00 Making the
movies
23.30 Celebrity
Deathmatch
0.00 The
Boondocks
0.30 Punk’d
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Radioeuropa - 23.17
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Uomini e camion.
RADIODUE
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comuni “A cena dagli
altri” - 12.30 GR2 12.49 GR Sport - 13.00
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Radio2 - Gli spostati 15.30 GR2 - 16.30
Condor - 17.00 610 (sei
uno zero) - 17.30 GR2 18.00 Caterpillar 19.30 GR2 - 19.52 GR
Sport - 20.00 Alle 8 della sera - 20.30 GR2 20.35 Dispenser 21.00 Il Cammello di
Radio2 - Decanter 21.30 GR2 - 22.50 Viva
Radio2 (R) - 0.00 La
Mezzanotte di Radio2 2.00 Radio2 Remix.
RADIOTRE
12.00 I Concerti del
mattino - 13.00 La Barcaccia - 13.45 GR3 14.00 Il Terzo Anello.
Musica - 14.30 Il Terzo
Anello. Manager - 15.00
Fahrenheit - 16.00 Storyville: Art Tatum 16.45 GR3 - 18.00 Il
Terzo Anello. Damasco 18.45 GR3 - 19.00 Hollywood Party - 19.50
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Cartellone: Sinfonica de
la Juventud Venezolana
Simon Bolivar, in diretta
dal Teatro Romolo Valli di
Reggio Emilia - 22.30 La
Stanza della Musica 23.30 Il Terzo Anello.
Fuochi - 0.00 La fabbrica di polli - 0.10 Il Terzo
Anello. Battiti.
il manifesto
20
venerdì 30 marzo 2007
storie
In un articolo del 1858 Engels valutava i problemi del paese centroasiatico
La trappola
dell’Afghanistan,
150 anni fa
Forze irregolari
afghane si riposano
a un passo di
montagna (stampa
del 1890).
In basso, un ritratto
di Friedrich Engels
Allora come oggi le vaste terre fra l’Hindukush e il mare,
fra la Persia e l’India, non erano terre pacifiche,
e tantomeno erano fatte per stare sotto l’occupazione
straniera. Così le vedeva il grande politico ed economista
Friedrich Engels
A
fghanistan: vasto paese dell'Asia, a
nord-ovest dell'India. In una direzione si estende tra la Persia e le Indie,
nell'altra tra l'Hindukush e l'Oceano Indiano. In passato comprendeva le province persiane del Khorasan e del Kohistan,
oltre che le regioni di Herat, Belucistan, Kashmir, Sind e una considerevole porzione del
Punjab. All'interno dei suoi attuali confini
probabilmente non vi sono più di 4 milioni
di abitanti. La superficie dell'Afghanistan è
molto irregolare – elevati altipiani, grandi
montagne, profonde vallate e gole. Come tutti i paesi tropicali montagnosi, presenta ogni
varietà di clima. Nell'Hindukush la neve copre le alte cime per tutto l'anno, mentre nelle
vallate il termometro arriva fino a 130˚F
(54˚C, ndt)... Sebbene la differenza tra temperature estive e invernali, e tra temperature
diurne e notturne, sia alquanto pronunciata,
il paese è generalmente salubre. Le principali malattie che si contraggono sono febbri, catarro e oftalmia. Occasionalmente si diffondono devastanti epidemie di vaiolo.
Il suolo manifesta una fertilità esuberante.
Le palme da dattero crescono rigogliosamente nelle oasi dei deserti sabbiosi; la canna da
zucchero e il cotone nelle calde vallate; le
frutta e gli ortaggi europei prosperano lussureggianti sulle terrazze dei fianchi montani fino a un'altitudine di 6.000 o 7.000 piedi. Le
montagne sono coperte di splendide foreste
abitate da orsi, lupi e volpi, mentre il leone, il
leopardo e la tigre si trovano nelle regioni più
adatte alle loro caratteristiche. Né mancano
gli animali utili per l'uomo. Si alleva una bella varietà di pecora di razza persiana, o con
la coda lunga. I cavalli sono di buone dimensioni e razza. Come bestie da soma si usano
il cammello e l'asino, e si trovano capre, cani
e gatti in notevole quantità.
Oltre all'Hindukush, che costituisce una
prosecuzione dell'Himalaya, nella parte sudoccidentale si erge la catena dei Monti Sulaiman e, tra l'Afghanistan e Balkh, quella del
Paropamiso (...). I fiumi scarseggiano: i più
importanti sono l’Helmand e il Kabul, i quali
nascono entrambi dall'Hindukush. Il Kabul
scorre verso oriente e si immette nell'Indo
nelle vicinanze di Attock; l'Helmand scorre
verso occidente e, dopo aver attraversato il distretto di Sistan, sfocia nel lago di Zirrah. (...)
Le città principali dell'Afghanistan sono:
Kabul, la capitale, Ghazni, Peshawar e Qandahar. Kabul è una bella città, situata a 340˚
di latitudine N e 60˚ 43˚ di longitudine E, sull'omonimo fiume. Gli edifici sono costruiti in
legno, sono puliti e spaziosi, e la città, essendo circondata da bei parchi, ha un aspetto
molto gradevole. Nei suoi dintorni sorgono
Se avessimo letto Engels...
Consigli attualissimi per politici e militari
occidentali ansiosi di intervenire a Kabul
Non è affatto una bizzarria pubblicare questo testo di Friedrich Engels
sull’Afghanistan, scritto nell’estate del 1857 per la New American Cyclopœdia.
Sono convinto che sull’Afghanistan domini ancora una clamorosa ignoranza della
sua storia e della sua geografia. Vale ricordare che dopo la disastrosa invasione
sovietica nel paese, un prestigioso generale dell’Urss ebbe a dire: «Se avessimo
letto Engels, mai e poi mai ci saremmo imbarcati in questa avventura».
Consigliamo questa lettura di Engels a tutti quelli che vogliono intervenire in
Afghanistan in missione di pace, dicono loro, anche se di fatto sono in guerra.
Oserei dire che in Afghanistan dai tempi di Engels a oggi assai poco è cambiato:
l’unico cambiamento rilevante è la diffusione della coltura del papavero da oppio,
di cui oggi l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale, mentre i maggiori
importatori siamo noi occidentali, in primis gli Stati uniti. Mi permetto di
raccomandare questa lettura, inoltre, agli attuali responsabili del governo italiano.
(Valentino Parlato)
diversi villaggi, nel mezzo di
un'ampia pianura attorniata
da basse colline. Il monumento principale è la tomba
dell'imperatore Babur. Peshawar è una grande città,
con una popolazione stimata intorno ai 100.000 abitanti. Ghazni, centro di antica fama, un tempo capitale del
gran sultano Mahmud, ha subito un notevole declino ed
è attualmente un povero villaggio. Nelle sue vicinanze è
sepolto Mahmud. La fondazione di Qandahar è relativamente recente e
risale al 1754. La città sorge sulle rovine di un
antico insediamento e per qualche anno fu
capitale; nel 1774 la sede del governo fu trasferita a Kabul. (...) Nei pressi si trova la tomba dello Shah Ahmed, fondatore della città,
un luogo talmente sacro che neanche il re
può ordinare la cattura di un criminale che si
sia rifugiato tra le sue mura.
Rilevanza politica
La posizione geografica dell'Afghanistan e la
particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell'ambito degli affari dell'Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata. La forma di governo è la monarchia, ma l'autorità di cui il sovrano gode sui suoi turbolenti e focosi sudditi è di tipo personale e molto indefinito. Il regno è diviso in province, ciascuna controllata da un rappresentante del sovrano, il quale
raccoglie le tasse e le invia alla capitale. Gli af-
ghani sono coraggiosi, intrepidi e indipendenti; si occupano esclusivamente di pastorizia e agricoltura, rifuggendo il commercio e gli
scambi che sdegnosamente
lasciano agli indù e ad altri
abitanti delle città. Per loro
la guerra è un'impresa eccitante e una distrazione dalla
monotonia delle abituali attività. Gli afghani sono divisi
in clan, sui quali i vari capi
esercitano una sorta di supremazia feudale. Soltanto un
odio irriducibile per l'autorità e l'amore per
l'indipendenza individuale impediscono loro di diventare una nazione potente; ma questa stessa irregolarità e incertezza nell'azione
li rende dei pericolosi vicini, capaci di essere
sballottati dai venti più mutevoli o istigati da
politici intriganti che eccitano astutamente
le loro passioni.
Le due tribù principali sono i durrani e i
ghilzai, sempre in lotta l'una con l'altra (entrambe di etnia pashtun). I durrani sono i
più potenti e, in virtù di tale supremazia, il loro amir o khan si è proclamato re dell'Afghanistan. Il suo reddito è di circa 10 milioni di
dollari. Gode di autorità suprema solo all'interno della sua tribù. I contingenti militari sono forniti principalmente dai durrani; il resto
dell'esercito è composto da membri degli altri clan o da soldati di ventura che si uniscono alle truppe sperando nella paga o nel bottino. Nelle città la giustizia è amministrata
dai cadì, ma gli afghani raramente ricorrono
Per ordini diretti: [email protected]
alla legge. Le sanzioni decretate dai khan si
estendono fino al diritto di vita e di morte. La
vendetta di sangue è un dovere familiare; tuttavia, si dice che gli afghani siano un popolo
liberale e generoso quando non vengono provocati, e che i diritti di ospitalità siano a tal
punto sacri che se un nemico mortale riesce,
anche con uno stratagemma, a mangiare pane e sale del suo ospite, egli diventa inviolabile, e può perfino pretendere la protezione di
quest'ultimo contro ogni altro pericolo. Di religione sono maomettani sunniti, ma non intolleranti, e le alleanze tra sciiti e sunniti non
sono affatto infrequenti.
L'Afghanistan è stato soggetto alternativamente al dominio dei moghul e dei persiani.
Prima che gli inglesi si insediassero sulle coste indiane tutte le invasioni straniere che
spazzarono le pianure dell'Indostan provenivano immancabilmente dall'Afghanistan. Seguirono quella via il sultano Mahmud il Grande, Gengis Khan, Tamerlano e Nadir Shah.
Nel 1747, dopo la morte di Nadir, Ahmed
Shah, che aveva appreso l'arte della guerra al
comando di quell'avventuriero, decise di liberarsi dal giogo persiano. Sotto il regno di Ahmed l'Afghanistan raggiunse l'apice della
grandezza e della prosperità in tempi moderni. Ahmed apparteneva alla famiglia dei suddosi, e la sua prima azione fu quella di impadronirsi del bottino che il suo defunto capo
aveva raccolto in India. Nel 1748 riuscì a cacciare il governatore moghul da Kabul e Peshawar e, dopo aver attraversato l'Indo, conquistò il Punjab. Il suo regno si estendeva dal
Khorasan a Delhi, ed egli incrociò le armi anche con i potenti marathi. Tutte queste grandi imprese non gli impedirono tuttavia di coltivare alcune arti parifiche ed egli fu anche
apprezzato poeta e storico. Morì nel 1772 e lasciò la corona al figlio Timur, che però non si
dimostrò all'altezza del gravoso compito.
Dissensi fra le tribù
Abbandonò la città di Qandahar, che era stata fondata dal padre ed era diventata in pochi anni una città ricca e popolosa, e trasferì
la sede del governo a Kabul. Durante il suo regno ripresero vigore i dissensi tra le tribù, in
passato repressi dalla mano ferma di Ahmed
Shah. Timur morì nel 1793 e gli successe Siman. Questo principe accarezzava l'idea di
consolidare il potere maomettano in India e
il suo progetto, che avrebbe potuto mettere
in serio pericolo i possedimenti britannici, fu
considerato così rilevante che Sir John Malcolm raggiunse la frontiera con il compito di
tenere gli afghani sotto controllo nel caso in
cui avessero effettuato qualche movimento;
al tempo stesso vennero avviate trattative
con la Persia in modo da stringere gli afghani
tra due fuochi.
Queste precauzioni non furono comun-
que necessarie; Siman Shah era più che occupato dalle cospirazioni e dai disordini in patria, e isuoi grandi progetti furono stroncati
sul nascere. Il fratello del re, Mohammed, si
gettò su Herat con l'intenzione di costituire
un principato indipendente, ma, fallendo nel
suo tentativo, fuggì in Persia.
Siman Shah era salito al trono con l'aiuto
della famiglia dei Barakzay, il cui capo era
Sheir Afras Khan. La nomina di un visir impopolare da parte di Siman accese l'odio dei
suoi vecchi sostenitori, i quali ordirono una
congiura che fu scoperta e portò alla condanna a morte di Sheir Afras. I cospiratori richiamarono allora Mohammed, Siman fu fatto
prigioniero e accecato. In opposizione a
Mohammed, che era sostenuto dai durrani, i
ghilzai avanzarono la candidatura di Sujah
Shah, che fu re per qualche tempo ma fu infine sconfitto, principalmente a causa del tradimento dei suoi stessi fautori, e costretto a
cercare rifugio presso i sikh.
Nel 1809 Napoleone aveva inviato in Persia il generale Gardanne, nella speranza di indurre lo scià a invadere l'India; il governo indiano da parte sua aveva inviato un rappresentante alla corte di Sujah Shah per creare
un fronte di opposizione contro la Persia. Fu
in quest'epoca che Ranjit Singh acquistò potere e fama. Era un capotribù sikh e, grazie al
suo genio, guadagnò al suo paese l'indipendenza dagli afghani e fondò un regno nel
Punjab, assumendo il titolo di maharaja e
conquistandosi il rispetto del governo angloindiano. L'usurpatore Mohammed, tuttavia,
non era destinato a godere a lungo della sua
vittoria. Il vizir Futteh Khan, che, spinto dall'ambizione o da interessi contingenti, aveva
oscillato continuamente tra Mohammed e
Sujah Shah, fu catturato da Kamran, figlio
del re, accecato e quindi crudelmente assassinato. La potente famiglia del vizir ucciso giurò di vendicare la sua morte.
Di nuovo fu avanzata la candidatura del
fantoccio Sujah Shah e decretato l'esilio di
Mohammed. Ma poiché Sujah Shah si rese
responsabile di un'offesa, fu immediatamente deposto e al suo posto fu incoronato un
fratello. Mohammed fuggì a Herat, di cui
mantenne il possesso, e alla sua morte nel
1829 il figlio Kamran gli successe al governo
di quel distretto. La famiglia dei Barakzay,
conquistato il potere supremo, divise il territorio tra i propri membri i quali, secondo
l'abitudine nazionale, continuarono a litigare tra di loro riunendosi soltanto di fronte a
un nemico comune. Uno dei fratelli, Mohammed Khan, ricevette la città di Peshawar, per
la quale pagava un tributo a Ranjit Singh; un
altro ebbe Ghazni e un terzo Qandahar, mentre a Kabul dominava Dost Muhammad, il
più potente della famiglia.
(1-continua)
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