1.686.312 - Venerando
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quotidiano comunista Anno XXXVI n. 244 euro 1,10 Mercoledì 18 Ottobre 2006 con Le Monde Diplomatique euro 1,00 in più | SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158 I muri americani Un’altra Iwo Jima 1.686.312 € La triplice barriera al confine sud, le leggi antiterrorismo di Bush e le elezioni del 7 novembre Nel suo nuovo film, «Flags of Our Fathers», Clint Eastwood riscrive la storia della celebre battaglia Dalla seconda volta di Locarno al chiostro di Santa Chiara a Foggia A PAGINA 2 3 La città sotterranea Sottoscrizione a quota: 14 Foto Andrea Sabbadini Guglielmo Ragozzino Q ualcuna delle duecento persone che contano in Italia (o anche delle mille che credono di contare) è mai scesa nella metropolitana di Roma? S’intende, non per un tragitto finto, per un’inaugurazione, con la vettura pulita e le hostess sorridenti, ma in una prima mattina vera, una qualsiasi; o anche tra le otto e le nove, evitando così l’alzataccia. Sarebbe un’esperienza senz’altro utile, per capire il mondo che si muove, i giovani e gli anziani, il commercio, la scuola, i sistemi di famiglia, i segni complessivi del progresso, del ritardo, del ristagno e anche un bel po’ di globalizzazione. Un’esperienza che comunque i nostri vip non faranno. Ai funerali si va con le auto di servizio. Alle otto, alle nove del mattino nella metro di Roma molti e molte vorrebbero leggere, se non altro il giornale. Si tratta per lo più di un giornale gratuito fatto per loro che si chiama appunto Metro. Molte donne leggono libri, quelle poche che sono riuscite a sedersi. Se ci riescono, la loro giornata andrà meglio. Molti uomini le guardano, pieni di curiosità. Lo spazio è così ridotto che non c’è problema per reggersi in piedi, sempre che non ci siano brusche frenate o brusche accelerazioni. Non è l’inferno, ma certo è molto scomodo, sporco, degradante. Perché mai la parte più viva della città debba essere tanto penalizzata, non è dato capire. A volte sembra poi che l’unica manutenzione sia fatta dai graffitari che amano lasciare memoria di sé rendendo oscuri i vetri e illeggibili i nomi delle stazioni nei cartelli sulle pareti. Sulla linea arancio, contrassegnata dalla A - come dice con una punta di orgoglio la società comunale che svolge il servizio - salgono in media quattrocentocinquanta mila utenti al giorno. Sulla linea blu, indicata con la B sono trecento mila. E poi l’alfabeto, il più corto tra quelli in uso in qualsiasi capitale, è già finito. La metropolitana romana, così miserabile, così degradata è uno strumento essenziale per vivere e spostarsi in una città infestata dalle auto e dalle moto che provocano un inquinamento crescente, anche se i duecento vip e i loro adepti fingono di non conoscerlo o lo curano con palliativi domenicali. I tempi per allungare l’alfabeto, per avere una terza linea metropolitana, si dilatano continuamente; e i problemi di mobilità di abitanti e ospiti della città crescono, come anche i sacrifici e i tempi di percorrenza. Intanto il Comune, anche attraverso la società della metropolitana costruisce parcheggi sotterranei, e facendolo, non solo spreca la capacità tecnica e finanziaria disponibile che non è eccelsa, ma dà in prima persona un chiaro segnale in una direzione opposta: più auto, più traffico individuale in città. Sarebbe un errore farne un caso solo romano. In Italia, in centri grandi e piccoli l’auto e la sua sorellina a due ruote stanno definitivamente espropriando le persone dalle loro vite. Strade come confini, ponti, cavalcavia, tunnel, autostrade a otto corsie, sono la nuova geografia, molto invadente. Le nuove rotaie servono solo per far correre i treni ad alta velocità, inutili, come sanno tutti, per ridurre il traffico delle automobili, quello vero, che consiste in spostamenti brevi, di cinquanta chilometri o poco più. O per girare come anime perse in città, alla ricerca di un parcheggio, in attesa che il Comune, che la società della metropolitana gliene crei uno. Intercettazioni PAGINA l6 Modifiche al decreto, anzi no La doppia gaffe del governo Finanziaria PAGINA l7 Università in sciopero contro la «manovra killer» Libano A PAGINA l10 Reportage dalla terra minata dalle cluster bomb inesplose Afghanistan Scontro fra due treni sulla linea A della metropolitana di Roma. Muore una donna di 30 anni. I feriti sono 235, di cui 6 gravi. Nessun attentato, uno dei convogli sarebbe passato con il rosso dopo l’ok della sala controllo. E nella città paralizzata scoppiano subito le polemiche. C’è chi dice «meno feste e più servizi». Veltroni: «Inaccettabili strumentalizzazioni PAGINE 4 E 5 politiche» A PAGINA l11 Torsello, proposto uno scambio Primi passi del ritiro britannico Corea del Nord A PAGINA l11 «Le sanzioni atto di guerra» Gli Usa: no a un nuovo test Lo svelamento di Romano Prodi Giuliana Sgrena Sarà l’aria spagnola, l’abbraccio con Zapatero e l’intesa con Madrid sulle questioni dell’immigrazione che ha fatto fare al presidente del Consiglio Romano Prodi un passo in più. Intervistato dalla Reuters ha detto di essere d’accordo con il ministro britannico Straw sulla questione del velo integrale (niqab) portato da alcune donne musulmane. «Non potete coprire il vostro viso… è senso comune, è importante per la nostra società. L’importante non è come siete vestite ma se siete nascoste o no». E poi ha aggiunto per essere più chiaro: «Gli immigranti sono parte del nostro futuro». L’affermazione, come è già successo in Gran Bretagna, susciterà reazioni non solo tra i musulmani ma anche tra i politici di casa nostra. La destra, soprattutto la Lega, appoggerà la prima parte del discorso ma non la seconda, il centro-sinistra sarà d’accordo sulla seconda ma sulla prima si scontrerà con i sostenitori del relativismo culturale che riconoscono nelle tradizioni più oscurantiste l’identità dell’altro da salvaguardare. Con una forma sottile di razzismo si ritiene che i diritti universali siano riservati all’occidente. L’altra faccia della medaglia di chi vuole esportare la democrazia con la guerra. E se la richiesta di non portare il velo integrale può apparire una insensibilità verso i musulmani basta pensare che non si tratta di imposizioni religiose ma di tradizione: le nostre nonne non portavano forse il fazzoletto in testa? E chi della sinistra oserebbe resuscitare la pena di morte in nome della tradizione? E poi se ci si sente tanto in colpa per privare i musulmani del controllo sulle «loro» donne attraverso il velo una via d’uscita può essere l’accelerazione dei termini per l’acquisizione della cittadinanza italiana. Altrimenti saremo superati dai turchi in Germania, dove un appello dei progressisti della comunità islamica invita le musulmane a togliersi il velo come segno di emancipazione. In Marocco e in Tunisia il velo è già proibito nelle scuole e nei luoghi pubblici. Ma il re marocchino Mohammed VI è andato oltre togliendo le immagini di donne velate dai libri di testo, così come gli accenni al Corano che imporrebbe l’uso del velo. Mentre l’Europa resterà indietro con buona pace di Tareq Ramadan che non a caso ritiene che il futuro dell’islam sia in Europa. 2 il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 DIRETTORI mariuccia ciotta gabriele polo il manifesto coop editrice a r.l. REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00186 roma, via tomacelli 146 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB www.ilmanifesto.it TELEFONO 06 68719.1 TELEFONI INTERNI SEGRETERIA 576, 579 | LETTERE 578 | AMMINISTRAZIONE 690 | ARCHIVIO 310 | POLITICA 475 | MONDO 520 | CULTURE 540 | TALPALIBRI 545 | VISIONI 550 | SOCIETÀ 588 | ECONOMIA 587 l’opinione Somalia, l’irresistibile avanzata delle Corti Hamdi Dahir Warsame, Shugri Said Mohamed e Maurizio Calò L a cronaca somala di fine di settembre ha registrato la conquista, senza colpo ferire, di Kismayo da parte delle Corti islamiche, che l'hanno così sottratta all'influenza di Barre Hirrale, ministro della difesa del governo provvisorio di Baidoa e presidente dell'Alleanza del Basso Juba. All'indomani della presa di Kismayo si erano diffuse notizie di manifestazioni ostili agli islamisti, con bandiere della Somalia bruciate e la morte di un tredicenne. Ma fonti locali hanno spiegato che i tafferugli erano nati da una tassa sul qat con cui si era inteso limitare l'uso della droga più diffusa del Corno d'Africa e che i «ribelli», molti donne e ragazzi, non erano altri che coloro che si mantengono col suo commercio. La precisazione si coniuga con recenti notizie secondo cui l'Unione delle Corti islamiche ha completato l'organizzazione delle istituzioni giudiziarie nelle zone sotto la sua influenza istituendo, tra l'altro, un tribunale per la restituzione agli aventi diritto dei beni abusivamente occupati da terzi durante la guerra civile. La notizia ha avuto un forte impatto, soprattutto tra i somali della diaspora, quelli cioè che si sono trasferiti all'estero per la guerra civile lasciando ogni bene. A Kismayo sono state nominate le autorità della regione del Basso Juba, tra cui il governatore ed il capo della polizia, il sindaco della città e i direttori del porto e dell'aeroporto. Appare evidente che gli islamici stanno consolidando il potere in tutte le zone controllate, restaurando le istituzioni locali onde ripristinare la legalità. Il consenso popolare per le Corti sta inducendo esponenti di rilievo delle istituzioni di Baidoa a passare dall'altra parte, come ha fatto Yusuf Mire Serar, vicepresidente dell'Alleanza del Basso Juba e membro del parlamento provvisorio, che ha consegnato Kismayo senza spargimento di sangue. Tale evoluzione si presta ad alcune riflessioni. Gli islamici sono sempre stati vicini alla popolazione, prestando assistenza e istruzione soprattutto ai più poveri. Si è trattato di un'opera sostenuta dai paesi del Golfo e mantenuta malgrado la presenza dei signori della guerra, sotto i quali anzi ha potuto svilupparsi sino a ricevere l'investitura popolare che ha permesso la presa di Mogadiscio lo scorso 5 giugno. Gli islamici sono oggi visti come gli unici capaci di restaurare la normalità sotto istituzioni autorevoli. Anche la sharia, la terribile legge islamica che prevede il taglio della mano al ladro, è sopportata quale unico baluardo contro gli abusi, dalle rapine agli stupri che, da soli, più che una sentita religiosità, giustificano l'adozione del jilbab, una sorta di burqa. Un simile rispetto mai hanno suscitato le istituzioni provvisorie varate a Nairobi nel 2004 per volontà internazionale. Governo e parlamento transitori sono visti come creature dei signori della guerra. Il rissoso clima interno, fomentato da ancestrali odi tra clan, ha determinato anche errori vistosi. Temendo l'aggressione delle Corti, il governo provvisorio ha chiesto l'intervento dell'Etiopia le cui truppe, sostenute dagli Stati uniti, hanno fatto ingresso a Baidoa promuovendo gli islamici a difensori dell'integrità del paese. Al dilagante successo delle Corti non è di ostacolo l'esclusione dalla vita politica delle donne. Si tratta della violazione di una tradizione antica di partecipazione alle decisioni più importanti, in famiglia come nello stato, e conferma quanto devastanti siano i guasti prodotti dai warlord nelle consuetudini del paese, tali da rendere preferibile la rinuncia a progrediti costumi rispetto al più corrotto disordine. Il crescente consenso per le Corti però preoccupa la comunità internazionale, soprattutto i paesi vicini. Il Kenya ha allertato l'esercito. L'Etiopia ha inviato truppe a Baidoa e minaccia uno scontro diretto con le Corti. Le Nazioni unite hanno inviato nell’area François Fall, responsabile per il Corno d'Africa, per aumentare le probabilità di successo all'incontro tra le Corti e il governo previsto a Khartoum il 30 ottobre. Le Corti islamiche, dal canto loro, sono abili nell'accreditarsi sagge e rassicuranti. Hanno, infatti, invitato il presidente di transizione Yusuf a Mogadiscio e hanno dichiarato di non voler occupare Baidoa. Collaborano col Somaliland mirando alla riunificazione generale. Se si esclude una guerra interna, che la comunità internazionale non auspica, le Corti riusciranno a conquistare la simpatia dell'intera popolazione. A questo punto appare sempre più incredibile che gli Stati uniti, consapevoli dell'importanza della Somalia nell'area del Golfo e dopo lo sterile sostegno ai signori della guerra, si lascino sfuggire l'opportunità di aprire un dialogo, per quanto sotterraneo, con le forze più moderate degli islamici. via pindemonte, 2 20129 milano MILANO TELEFONO 02 77396.1 AMMINISTRAZIONE 210 | REDAZIONE 240 | FAX 02/7739.6261 FIRENZE via maragliano, 31a TELEFONO REDAZIONE 055 363263 FAX 055 354634 NAPOLI vico s. pietro a majella, 6 TELEFONO REDAZIONE 081 4420782 [email protected] iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di roma n.13812 CAPOREDATTORI paolo andruccioli marco boccitto micaela bongi astrit dakli ECONOMIA antonio sciotto SOCIETÀ angelo mastrandrea ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA STAMPA annuo euro 200 semestrale euro 103 i versamenti c/c n.00708016 intestato a “il manifesto” via tomacelli 146, 00186 roma copie arretrate tel. 06/39745482 [email protected] litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma litosud Srl 20060 Pessano Con Bornago (MI), via aldo moro 4 sts catania DIREZIONE GENERALE 00186 roma via tomacelli 146 | tel. 06 68896911 | fax 06 68308332 | E-MAIL [email protected] | SEDE MILANO: 20135, via anfossi 36 | tel. 02 54000001 | fax 0255196055 CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl | SEDE LEGALE, TARIFFE DELLE INSERZIONI PUBBLICITÀ COMMERCIALE MONDO roberto zanini CULTURA benedetto vecchi VISIONI arianna di genova CONSIGLIERI guglielmo di zenzo| francesco mandarini|lorenzo roffinella|maria giovanna zanali. CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE PRESIDENTE valentino parlato AMM.DEL. emanuele bevilacqua DIR. AMM. guglielmo di zenzo DIR. TECNICO claudio albertini DIR. RESPONSABILE sandro medici euro 368 a modulo (mm 50x26), EDIZIONE LOCALE euro 152 a modulo CINEMA EDIZIONE LOCALE euro 105 a modulo, PUBBLICITÀ FINANZIARIA, REDAZIONALE, ASTE, APPALTI euro 307 a modulo LEGALE euro 380 a modulo EDIZIONE LOCALE euro 185 a modulo FINESTRA DI PRIMA PAGINA euro 3.780 formato mm 72 x 89, formato pagina intera mm 325 x 460 POSIZIONE DI RIGORE più 20%, formato DOPPIA PAGINA: mm 670x460. DIFFUSIONE, CONTABILITÀ. RIVENDITE, ABBONAMENTI: reds, rete europea distribuzione e servizi, viale bastioni michelangelo 5/a 00192, roma | tel. 06 39745482 | fax 06 39762130 certificato n. 5505 del 16-12-2005 tiratura prevista 92.900 Locarno. Una nuova trasferta elvetica per «salvare il mostro». Incontrando Ramonet sottoscrizione La seconda volta del Kursaal «Siamo tutti del manifesto» Gianni Beretta N ella sua seconda trasferta all’estero, nella Svizzera italiana, il «mostro» aveva almeno tre cose in comune con l’iniziativa promossa dall’Associazione di aiuto medico al Centro America (Amca) che il 9 ottobre scorso ha portato a Locarno Ignacio Ramonet, per parlare di America Latina che «rialza la testa». Con l’Amca ha in comune il fatto che il suo storico fondatore, l’oncologo nonché deputato socialista Franco Cavalli, sia stato fra i pionieri (una quindicina di anni fa) della diffusione del manifesto in Ticino (al prezzo di ritirare a proprie spese, per i primi sei mesi sperimentali, le copie invendute in edicola). Con Ignacio Ramonet condivide invece da tempo la sinergia editoriale della versione italiana di Le Monde Diplomatique, di cui è direttore. Mentre con (e come) l’America latina il manifesto patisce «quell’impagabile debito estero» che è poi il fondamento primordiale della nostra crisi. Dopo un’introduzione di Cavalli per aggiornare sui progetti di cooperazione sanitaria dell’Amca sia nell’istmo centroamericano che a Cuba, abbiamo doviziosamente informato dei guai del manifesto, cifre alla mano, i quasi trecento presenti al teatro Kursaal; includendo i risultati incoraggianti della sottoscrizione e quanto ci proponiamo per mettere in ordine i conti; ricordando Le buone azioni per salvare il mostro L'AQUILA, 19 ottobre ore 17.00, C/o la Comunità Montana Amiternina Zona A via Arcivescovado, 21 (p.zza Prefettura), incontro con il manifesto: «Declino industriale delle telecomunicazioni a L'Aquila e riflessioni su privatizzazioni e settori strategici legati alle telecomunicazioni e all'aerospazio». Partecipano: Laura Spezia, segreteria naz. Fiom, Francesco Piccioni, redazione il manifesto. Coordina: Alfonso De Amicis, segreteria FP Cgil provinciale LOCARNO, 21 ottobre ore 19.30 maccheronata di solidarietà con il mostro (a 10 franchi) c/o la Cantina Canetti di Locarno, in collaborazione con le sezioni locali del Partito socialista e del Partito del Lavoro; per il manifesto sarà presente Gianni Beretta. La serata proseguirà con il concerto del gruppo Insubres «Cantiamo l'Uguaglianza» (duecento anni di canti socialisti, anarchici, pacifisti). MILANO - 21 ottobre Leoncavallo SPA, Giornata del raccolto ore 15.00-18.00 «Stop precarietà ora!» Assemblea rete regionale contro la precarietà in preparazione alla manifestazione di Roma del 4 novembre; ore 22.00 «Fare società, oltre la tenaglia di mafia e legislazione proibizionista». Partecipano: Daniele Farina, deputato; Cecco Bellosi, Coordinatore Comunità Il Gabbiano (Como); Lorenzo Frigerio, Libera; Irma Dioli, assessore Provincia di Milano. Coordina: Angelo Mastrandrea, giornalista de il manifesto. Ore 23.30. Fratelli di Soledad e al Baretto Vito War, ore 1.00 Big Youth from Jamaica (sound system show). Ore 2.30 GoldenBass. La serata è a sostegno della campagna a favore de il manifesto comunque che la medicina risolutiva per sradicare la nostra malattia sarebbe quella di «comprarci» tutti i giorni. Non era il momento di approfondire il dilemma di «come farci piacere di più» per conquistarci tale fedeltà. Ma il prossimo 21 ottobre, la maccheronata di solidarietà convocata presso la cantina Canetti di Locarno (in collaborazione con le sezioni locali del Partito socialista e del Partito del lavoro) sarà dedicata esclusivamente al «mostro». E allora si potrà parlare di tutto, accompagnati dalle note del gruppo Insubres nel concerto «cantiamo l’uguaglianza» (duecento anni di canti socialisti, anarchici, pacifisti). Al Kursaal il responsabile per l’informazione della Radio svizzera di lingua italiana, Roberto Antonini, ha dunque incalzato Ramonet (che arrivava da L’Avana dove è appena uscito un suo libro-intervista a Fidel Castro) portandolo a dibattere dalle ultime elezioni messicane («forse il subcomandante Marcos avrà sbagliato a osteggiare Lopez Obrador, ma i voti degli zapatisti non avrebbero comunque impedito il broglio del vincitore Calderon»), a quelle in corso in Brasile («non mi sento di criticare Lula che aveva anticipato già a Porto Alegre che nel suo primo mandato avrebbe soprattutto cercato di stabilizzare i dati macro-economici, per poi, nel secondo, dedicarsi al sociale»). Per Ramonet, che è anche tra i promotori della rete Attac e del forum di Porto Alegre, «il miracolo» dei governi di sinistra latinoamericani costituiscono un vero mal di testa per George Bush junior, «particolarmente occupato a risolvere i pasticci che ha procurato in altre aree del mondo». Ignacio ha comunque incentrato moltissimo le sue riflessioni sull’«omologazione del mondo dell’informazione» e dei suoi «due pesi e due misure». Non fu notizia particolare per nessuno per esempio che «Menem privatizzasse di tutto, portando l’Argentina nel baratro»; mentre «ci si stropiccia le vesti per un’unica nazionalizzazione (degli idrocarburi) di Morales in Bolivia»; oppure del putiferio montato su Chavez che incontra Ahmadi-nejad, dimenticandosi del fatto che prima si fosse riunito con re Juan Carlos, Blair e Berlusconi; o ancora del grande scandalo sollevato dai media per la crisi politica «arancione» in Ucraina, mentre la recente ennesima frode elettorale consumata in Messico non ha scomposto pressoché alcuno. Per finire con la prima condanna per «terrorismo di stato» inflitta nel 1986 dalla Corte internazionale dell’Aia nei confronti degli Usa (per la posa di mine nei porti nicaraguensi a opera della Cia), che non viene mai evocata in tempi di lotta planetaria contro il terrorismo islamico. Insomma una bella chiacchierata che ha toccato pure le tensioni di questi giorni in estremo oriente. All’uscita non è mancata la generosità dei partecipanti: per i progetti sanitari dell’Amca e per il manifesto, per il quale, con la vendita di tutti gli speciali per i 35 anni e l’Atlante che avevamo con noi, sono stati raccolti poco meno di 900 euro. Manifestazione antirazzista a Roma Foto Antonio Priston In tanti nel piccolo gioiello del chiostro di Santa Chiara In giro tra Foggia e Cerignola Francesco Piccioni C’ è sempre qualcosa di più nel Mezzogiorno. Un di più di soggettività in compagni che vivono in situazioni politicamente difficili, dove masse importanti di popolazione povera vivono tra disincanto, clientelismo taccagno, rassegnazione. L’impegno necessario a mettere in piedi un’iniziativa, farla riuscire, tenere insieme gruppi diversi (le divisioni interne alla sinistra sono presenti e vive dappertutto), rasenta lo stoicismo. A Foggia lo si percepisce già scendendo dal treno e girando per le strade intorno alla stazione. Michele ci prende e ci porta in giro, indicando col dito, ricordando, ricostruendo storie. Nel chiostro di Santa Chiara, un piccolo gioiello, ci aspettano davvero in tanti. Hanno fatto una «raccolta preventiva», militante, che ha messo insieme ben 2.300 euro. Un’enormità, tenuto conto che questa è già la seconda iniziativa per «salvare il mostro», e nella prima ne avevano raccolti 4.000. Una città generosa, indubbiamente. Una città balzata ai dubbi onori delle cronache del lavoro per lo scoop di Fabrizio Gatti su l’Espresso, tra caporalato, lavoro nero e immigrati schiavizzati (all’improvviso capisci a cosa serve il pullman polacco, quello che fa spola tra qui e Varsavia, visto sul piazzale della stazione). La città dove sabato 21 i sindacati confederali saranno in piazza per una manifestazione nazionale contro la piaga del lavoro nero e della relativa evasione fiscale, contributiva e chi più ne ha più ne metta. Le domande corrono tra pubblico e «intratteni- Per sottoscrivere: ! on line con carta di credito, collegandosi al sito www.ilmanifesto.it ! telefonicamente con carta di credito,chiamando il numero (06) 68719.888 ! versamento sul conto corrente postale 708016 intestato a il manifesto coop. edit. arl - Via Tomacelli, 146 - 00186 Roma causale: Emergenza Manifesto ! bonifico bancario sul conto corrente: Banca Popolare Etica - Ag. Roma intestato: Emergenza Manifesto - ABI 05018 - CAB 03200 - CIN K - C/C 000000535353 IBAN: IT40 K050 1803 2000 0000 0535 353 - BIC CCRTIT 2184D Abbonamenti con bonifico bancario: inviare copia del bonifico completo di nome e tipo di abbonamento al fax 06.39762130 ! Telefono Emergenza Manifesto 06 - 68719.888 orari dal lunedì al venerdì dalle ore 10:30 alle 18:30 tori». Somigliano a tutte le altre, e anche noi ne poniamo: «cos’è che vi spinge a comprarci? cos’è che vi fa dire ’stavolta non vi compro più’?». Spiegare la crisi è facile, indicare un progetto o un programma per uscirne, un po’ meno. Ci si interroga sulla legge per l’editoria e i tanti «furbetti» che prosciugano il flusso dei finanziamenti, ma anche sulla testatina «quotidiano comunista» («allontana un certo pubblico oppure lo mantiene vicino?»). Veniamo comunque promossi. Siamo «indispensabili» perché solo noi «diciamo cose di cui gli altri non parlano»; e perché solo noi «non nascondiamo le magagne e i cedimenti anche della sinistra». La fama di rompiscatole, insomma, ci aiuta a vivere. Rispetto ad altre iniziative stupisce il fatto che si sia riusciti a raccogliere così tanti soldi promettendo soltanto un po’ di dibattito e «tarallucci e vino», che abbondano su un tavolo laterale. Poi Natalia Bonanise dà uno spettacolare saggio di danza del ventre e una compagnia di «artisti in libertà» – tra cui Nicola Priolo, allievo di Matteo Salvatore – fa arrivare altra gente, giovani soprattutto, attirati dalla musica popolare che si sente fin dal corso. Li accoglie l’ologramma del «Che», proiettato sull’unica parete liscia del chiostro. La mattina di domenica Mimmo, storico attivista ambientalista, ci fa strada verso Cerignola, paese di Giuseppe Di Vittorio, il leader dei braccianti che divenne un segretario della Cgil di statura quasi mitica. La campagna è meno coltivata di quanto si potrebbe, a conferma di una «passività» imprenditoriale più tentata dagli «aiuti» (i finanziamenti europei o nazionali) che dalla produzione. «E pensare che qui cresce il meglio di tante cose...». La chiacchierata avviene nella villa comunale, con una presenza inattesa anche per gli organizzatori (giovani comunisti, Arci, Ass. Radici, Coop Pietra di scarto). C’è spazio per interrogarsi anche sulle ragioni ideali (ci sono ancora? e quanto?), sul senso della parola «comunista», su Marx e il movimento no global, sul percorso storico di questo giornale. Alla fine smettiamo solo perché la villa chiude all’una e i vigili urbani ci fanno cortesemente capire che è ora di andarsene. Con 500 euro in più. Sabino, il motore dell’iniziativa, ci trascina infine al «Gorizia», che a dispetto del nome propone solo piatti tipici della zona. Antipasti e «assaggini» di primi piatti raggiungono ben presto il risultato di sbarrare la strada ai «secondi». C’è sempre qualcosa di più nel Mezzogiorno. Venti artisti - Sergio Anderloni, Davide Antolini, Maurizio Azzolini, Andrea Cardone, Sergio Cristini, Lynette Darlington, Marco Danielon, Amaranta De Francisci, Francesco Ferrara, Bertilla Ferro, Gianfranco Gentile, Giuliana Magalini, Giovanni Meloni, Mauro Nicolini, Maurizio Paccagnella, Renzo Pastrello, Guido Pigozzi, Silvano Taggetto, Gek Tessaro, Tinto - hanno venduto le loro opere alla festa provinciale della festa dell’Unità di Verona e devoluto al manifesto 3.500 euro Lavoratrici e lavoratori di Finsiel e TeleSistemiFerroviari 650 euro Bellotto Emiliano 200 euro Beltrani Paolo 50 euro Benassi Annita 50 euro Benedetti Irene 100 euro Benedetti Roberta 10 euro Benuzzi Valerio 50 euro Benvenuti Marcella 300 euro Berardi Mario 30 euro Bergamaschini Bruno 100 euro Bernacchia Sandra 400 euro Bernardi Fabio 10 euro Bernasconi Armando 50 euro Bersotti M. e Chimenti D. 25 euro Bertaccini Guido 20 euro Bertero 40 euro Bertoci Stefano 50 euro Bertolina Annamaria 100 euro Bertolini Davide 20 euro Bertolotti Stefano 10 euro Bertolucci Stefano 150 euro Bertozzi Chiara 100 euro Besenghi Alba 200 euro Bettini Maurizio 115 euro Bevicini Cecilia 25 euro Bianchi Giorgio 75 euro Bianchi Maria Adele 100 euro Bianchi Patrizia 30 euro Bianco Antonio 50 euro Biasia Alma 300 euro Biasin C. e Gotti Stefano 20 euro Biasioli Umberta 50 euro Bica Fausto e Miriam 50 euro Bigazzi Viola 15 euro Bigi Laura 100 euro Bigini Ivano 50 euro Biliotti 50 euro Billet Nadia e Tania 25 euro Binda Mario 40 euro Biondi e Tonielli 300 euro Biondi Marco 30 euro Birra Felice e Claudia 100 euro Bisi Marco 50 euro Bizzotto Flavio 160 euro Blasi Antonio 20 euro Bletzo Francesco 50 euro Bo Maria Elena 100 euro Boasso Domenico 50 euro Bodei Diego 50 euro Bodica Luigi 25 euro Boeri Mauro 150 euro Boldini Milena 100 euro Boldini Valeria 30 euro Bologna Vincenza 25 euro Bolognese Walter 50 euro Bombardieri Ornella 30 euro Bonacini Daniele 50 euro Bonanni Denise 50 euro Bonapace William 50 euro Bonci Ilaria 50 euro Boncompagni M., Rocchi P. 50 euro Bondioli Massimo 50 euro Boner Lina 100 euro Bonera Michele 10 euro Bonetti Anita 200 euro Bonezzi Anna Grazia 100 euro Bonfoco Aurora 150 euro Boni Bruno 40 euro Boni Giampaolo 100 euro Boni Tiziana e Wan V. 50 euro Bonini Fabio 100 euro Bonini Patrizia 10 euro Bonini Valentino 20 euro Bonsante Mosetti 70 euro Bonsi Renato 100 euro Bonsignori Angelo 50 euro Boothman Derek 500 euro Borasi Domenico 50 euro Bordi Eliana 20 euro Bordin Cristiano 50 euro Borghi M. Luisa 50 euro Borghi Mauro 20 euro Borrello Enrico 100 euro Borrello Franco e moglie 30 euro Bortoletti Daniele 70 euro Bortolotti Arrigo 50 euro Boscherini Brunetto 50 euro Boselli Marco 50 euro Bosio Giovanni e Piero 30 euro Botter Giorgio 100 euro Botticella Stefano 40 euro Bovini Casciola Mirco 100 euro Bovo Antonio 50 euro Bovo Nadia 100 euro Bozzo Michelle 50 euro Bracci Gabriele 100 euro Bragato Mara 20 euro Braghiroli Rino 50 euro il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 la pagina 3 Usa verso le elezioni Il 7 novembre si rinnova gran parte del parlamento Il muro del sogno di Tijuana dell marina. In fondo, come dicono i generali, «non c’è terreno migliore di questo per preparare un’unità alla guerra in Afghanistan». Dal 1997, sono stati spesi in tecnologia 430 milioni di dollari per sorvegliare questo lato della frontiera. Dal lato americano quindi non è solo un muro, ma un motore economico; crea occupazione sicura a salari alti, quando in America i nuovi posti di lavoro sono quasi tutti precari e mal pagati: un ragazzo che si arruola nella Border Patron prende 60.000 dollari lordi l’anno (48.000 euro) con gli straordinari. Con dieci anni di anzianità si possono fare 100.000 dollari. C’è una lunga fila di aspiranti doganieri tra gli smobilitati dall’Iraq. E ci sono non solo gli agenti, ma gli addetti alle apparecchiature, i controllori, i produttori di nuovi software, i meccanici, i piloti. Dal lato messicano la «guerra ai clandestini» ha fatto strage. Nella sezione che corre lungo l’autostrada che porta all’aeroporto internazionale di Tijuana, il muro metallico è adornato da una se- L’infinita barriera in triplice linea costruita dagli Stati uniti al confine sud non ferma gli immigrati, di cui il paese ha comunque bisogno, ma è un fondale scenografico per la demagogia razzista dei politici. E serve come sito per testare armi e tecnologie militari Marco d’Eramo Tijuana A prima vista (ma solo a prima vista) ti delude. Te lo aspettavi più imponente, più terrificante, il muro che qui, appena a sud di San Diego, separa gli Stati uniti dal Messico, prototipo della muraglia di milleduecento chilometri (sui 3.500 km di confine tra i due paesi) che la Camera dei rappresentanti statunitense ha approvato (ma che il Senato deve ancora ratificare). Alto tra i due e i quattro metri, è fatto di lamiera metallica sagomata, ricoperta di uno strato antiruggine; quella lamiera che nella seconda guerra mondiale veniva stesa su terreni paludosi o di terra molle per permettere agli aerei di decollare e atterrare. La città di Tijuana, circa un milione e mezzo di abitanti, ci si appoggia contro, su per le colline, giù nei cañon, con le baracche, le catapecchie, le case dai muri maestri fatti di pneumatici impilati, ma anche le palazzine di uffici e studi dentistici. Qualche locanda ci prospera accanto, anche con nomi spiritosi, come La Pasadita (con riferimento al passaggio della frontiera). Era questo il muro che i coyotes (cioè i polleros, i passatori), facevano superare in tunnel sotterranei. Era questo metallo trasandato che, secondo i politici americani, doveva rendere impermeabile questo punto di contatto immediato tra Primo e Terzo mondo. Uno degli artisti più famosi di Tijuana, Marco Ramirez «Erre» (ha costruito un cavallo di Troia ligneo da mettere a cavallo del muro per far infiltrare nella cittadella Usa gli «invasori» chicanos), mi porta su e giù lungo questo muro, fino all’Oceano Pacifico, dove la barriera di metallo (che qui diventa una palizzata di acciaio) s’inoltra a dividere le acque: «Separare l’acqua sembra più innaturale, più perverso che separare la terra», mi fa notare. Ma dietro il muro trasandato, ecco il bastione tecnologico, separato da una terra di nessuno di cinquanta metri, pattugliata dai fuoristrada della polizia di frontiera, la Border Patrol. Questa seconda barriera non è un muro in senso proprio, ma una serie di piloni di cemento grigio chiaro, ben più alti (6-7 metri), posti a una distanza di pochi centimetri l’uno dall’altro, che permette di passare a gatti, topi e cani, ma non agli umani. La barriera è sormontata da un’elettrificata rete inclinata larga un metro. I piloni sono infissi in profondità sotto terra per impedire i tunnel. Ma quel che più conta sono le torri di vedetta, sottili guglie di acciaio alte una ventina di metri, dotate di potenti lampade che illuminano a giorno la notte, telecamere mobili e un terrazzino circolare ringhierato per la manutenzione o la ronda. E una terza barriera è in costru- 3 zione. Ho conosciuto Marcos Ramirez a San Diego, a casa di Mike Davis, autore del fondamentale libro su Los Angeles Città di quarzo (ed. manifestolibri), che ha scritto un interessante saggio su «La Grande Muraglia del Capitale» in cui descrive bene il dispendiosissimo e in gran parte vano tentativo americano di chiudere la porta della frontiera sud. La militarizzazione de la linea (così la chiamano i messicani) divenne visibile a tutti nel 1992 con l’Operation Hold the Line nel settore di El Paso (Texas), e soprattutto, nel 1994, con l’Operation Gatekeeper («Operazione guardiano») con cui – dopo la «guerra alla droga», e prima della «guerra al terrorismo» – fu dichiarata «guerra ai clandestini». Con l’appoggio del Pentagono, la guerra ai clandestini è sempre più tecnologica e massiccia. I posti di controllo sono ormai dotati di radar e telecamere ai raggi infrarossi. La regione di San Diego-Tijuana è un laboratorio per il ministero di Giustizia che qui ha il suo Border Research and TehnoloGeorge Bush ha firmato ieri la nuova legge gy Center, un laboratorio di ri«antiterrorismo» che copre le prigioni segrete cerca che studia e sperimenta della Cia e in sostanza autorizza la tortura incessantemente per miglioradei sospetti. La legge è il frutto di una lunga re i rivelatori di clandestini, retrattativa fra i partiti che ha consentito ti di sensori sismici, magnetici, l’approvazione del Congresso, dopo che le tutti collegati via satellite ai misure precedenti erano state bocciate dalla centri di controllo. Il PentagoCorte suprema. «Quella di firmare una legge no fornisce alla Border Patrol in grado di salvare vite umane, è elicotteri d’attacco Super Coun'occasione rara per un presidente. Io ho bra e Black Hawk, aerei Awacs avuto il privilegio questa mattina», ha detto di sorveglianza radar, persino Bush al momento della firma, attorniato da droni (aerei a guida automatiagenti dell'intelligence e vertici militari. ca di sorveglianza) e, quando necessario, reparti d’élite, i Rangers dell’esercito e i Seals Stati uniti Bush firma la nuova legge «antiterrorismo» rie infinita di croci che portano i nomi dei messicani periti nel tentativo di oltrepassare il muro o attraversare il deserto. Così i morti lungo la frontiera sono passati da 61 nel 1995 a 261 nel 1998, a 373 nel 2004, a oltre 500 nel 2005. Nel frattempo i manager delle maquilladoras e i professionisti transfrontalieri, grazie a documenti elettronici, attraversano il confine in corsie preferenziali «Sentri» – Secure Electronic Network for Travelers Rapid Inspeciton. Ma quanto è efficace questo muro, e quanto lo sarà se (ma è improbabile) il Senato approverà l’estensione di 1.200 km? Secondo dati del ministero della Sicurezza, meno dell’1% degli allarmi provocati dai sensori ha portato ad arresti. I sensori sono attivati per lo più da vacche o da treni, creando una gigantesca perdita di tempo. Altrettanto inefficaci si sono dimostrati i sistemi radar usati per individuare i tunnel sotto il muro. Il più lungo tunnel conosciuto, 720 metri, è stato scoperto a Tijuana alla fine di gennaio: per una soffiata, non dalla tecnologia. Ma la migliore prova dell’inefficacia dei muri, delle cacce all’uomo nel deserto dell’Arizona, delle ronde volontarie di americani xenofobi, sta nelle nude cifre dell’immigrazione clandestina: secondo le stime più accurate il numero di clandestini negli Usa è più che triplicato, dai 3,5 milioni prima dell’Operation Gatekeeper agli 11,5 milioni di oggi. Ma allora perché? Secondo Mike Davis, il muro non è altro che uno scenario teatrale della politica. L’economia americana non può vivere senza immigrati – e lo sanno tutti, legislatori compresi – ma la demagogia richiede «fermezza e decisione nell’impedire che i clandestini vengano a deturpare le nostre città». Sarà un fondale teatrale, ma produce devastazioni non solo per le vite umane che cancella, ma anche per le cicatrici che lascia nelle menti. Perché, muro o non muro, il nord del Messico e la California meridionale costituiscono un’unità. Marcos Ramirez vive a Tijuana, ma ogni mattina porta i figli al liceo a San Diego e due volte la settimana va a Los Angeles a insegnare nel dipartimento d’arte dell’Università di California. Molti studenti americani che frequentano l’università a San Diego prendono casa a Tijuana perché gli affitti sono molto più bassi. Cinquantamila messicani traversano la frontiera ogni mattina. La battuta è che per gli americani il Messico è come sposarsi, è facile entrarvi (si passa senza passaporto), ma è difficile uscirne (file anche di due ore e controlli accurati). Ma forse il dettaglio più disperante – a ricordare che essere vittima non vuol sempre dire essere innocente – me lo fornisce Marco Ramirez quando mi parla del razzismo del messicani («non è perché gli americani sono razzisti verso di noi che noi ne siamo vaccinati») e mi racconta quel che devono sopportare i clandestini dei paesi centroamericani, Nicaragua, Salvador, Guatemala, che prima di arrivare al muro di San Diego o al deserto dell’Arizona devono riuscire a superare il confine sud del Messico: «E lì ci sono i campi minati, altro che muri. Per loro quella è la vera frontiera pericolosa, questa è una passeggiata all’acqua di rose». Un’auto della Border Patrol sorveglia il «muro» di lamiera del confine col Messico, fra San Luis in Arizona e San Luis nello stato di Sonora, nel maggio scorso Foto Ap Muraglie moderne Le inutili difese del privilegio bianco Fu quando costruì il muro di Berlino che l’Unione sovietica rivelò al mondo la fragilità del socialismo realizzato e preannunciò la propria sconfitta: che è sistema è mai quello che per trattenere i propri cittadini deve rinchiuderli con un muro? Così quello della Germania est fu il primo e finora unico regime nella storia abbattuto da una (biblica) domanda di visti turistici. Per questo gioimmo in molti quando nel 1989 il muro fu abbattuto: non rimpiangemmo il breznevismo. Ma mai avremmo immaginato che meno di vent’anni dopo i muri, materiali e immateriali, sarebbero proliferati nel mondo. C’è il muro che gli israeliani erigono in Palestina, squarciando le città in due. C’è il muro che la fondamentalista Arabia saudita vuole costruire al confine con l’Iraq per impedire l’ingresso ai fondamentalisti di al Qaeda. C’è il muro che gli americani hanno progettato di costruire tutto attorno a Baghdad per combattere il terrorismo. C’è la barriera che l’India sta costruendo al confine col Bangladesh per respingere gli immigrati: «Fa spavento pensare a orde di gente così povera da rischiare la pelle per raggiungere quella terra promessa che sono gli infami slums di Calcutta» (Mike Davis). Il mondo sembra preso da un’improvvisa passione per muri, bastioni, recinti, staccionate elettrificate, cavalli di Frisia, fili a lame di rasoio, proprio mentre i cantori delle magnifiche sorti e progressive intonano inni alla mobilità e alla comunicazione, alla potenziale ubiquità di ognuno di noi. Ma le barriere, una materiale e due immateriali, che fanno più impressione sono quelle erette per difendere tre roccaforti del capitale. C’è la Howard Line a proteggere l’isola-continente Australia dagli immigrati che vorrebbero sbarcare e che vengono respinti, affondati, imprigionati. C’è poi la Fortezza Europa con la sua capillare sorveglianza dei mari, i suoi centri di detenzione, gli avamposti nei paesi dell’Africa e del Maghreb. C’è infine il muro fisico di 1200 km che gli Stati uniti vogliono costruire lungo la frontiera messicana e di cui esistono vasti spezzoni tra San Diego e Tijuana e tra El Paso e Ciudad Juárez. Simili al Vallum Adrianum, al Limes Porolissensis che il tardo impero romano eresse nella futile illusione di difendersi dalle «orde barbariche», queste tre barriere difensive si sono rafforzate proprio mentre progredivano i trattati che liberalizzavano il commercio internazionale. La «guerra ai clandestini» è stata ufficialmente dichiarata e si è intensificata di pari passo con la messa in atto del Wto a livello mondiale, e del Nafta a livello nordamericano.Da 15 anni a questa parte, più vengono eliminati gli ostacoli alla libera circolazione delle merci e del capitale e più si creano barriere per imbrigliare la circolazione degli umani. Non è un caso. È la libertà delle merci a creare le condizioni di questi esodi umani. I capitali che vagano per il pianeta alla ricerca dei posti in cui la forza lavoro è più a buon mercato (notare il doppio senso della parola buono) sono il vento che sospinge di qua e di là le masse umane in balia di esso. Il capitale li scaccia dalle loro terre dove non possono più vivere, e li chiama nelle proprie signorie dove non vuole più pagare a tariffe sindacali i suoi indigeni. In fondo lo ha sempre fatto: nell’800 la globalizzazione fece sì che il grano americano e sudamericano, assai più a buon mercato, mandasse in rovina i coltivatori europei che producevano su terreni montagnosi o poco fertili, e che quindi, come i nostri meridionali, emigrarono nella terra che li aveva forzati all’esodo. Ma nell’800 non si costruivano i muri, perché il capitale poteva ancora bearsi nell’illusione di controllare i flussi e le loro conseguenze. Una miopia pagata con le sommosse dei ghetti neri nell’America degli anni ’60 e con la rivolta delle banlieues francesi, solo per citare due esempi. Il capitale ha bisogno di immigrati e clandestini, ma li vuole tenere fuori. Una volta le contraddizioni erano in seno al popolo. Ora sembrano aver traslocato di campo. (M. d’E.) Circolazioni Più libertà di movimento per i capitali significa più barriere per gli umani 4 il manifesto & politica mercoledì 18 ottobre 2006 società Le reazioni «Soldi e verità» Migliore (Prc) Investire in sicurezza La Cgil «No giudizi affrettati» Bonelli (Verdi) Roma penalizzata «Esprimiamo il nostro cordoglio per il tragico incidente e la nostra vicinanza ai familiari delle vittime ed ai feriti. Cresce l'esigenza per un intervento serio sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e la necessità di investimenti maggiori nei trasporti per la tutela di tutti i pendolari che ogni giorno sono sottoposti a disagi. Ora sarà necessario fare chiarezza sull'incidente ed accertare le responsabilità di quanto accaduto». Così Gennaro Migliore, presidente del gruppo di Rifondazione comunista alla Camera. La Cgil di Roma e del Lazio, oltre a esprimere cordoglio ai familiari della vittima, auspica che «le inchieste in corso facciano presto luce sull'accaduto ed individuino le vere cause del gravissimo incidente, al fine di garantire la sicurezza dei cittadini e dei lavoratori. In questo difficile momento per la città di Roma e per i suoi cittadini, invitano tutti ad evitare conclusioni affrettate, che possono essere di pregiudizio alla ricerca delle effettive cause dell'incidente». «È necessaria una forte iniziativa per il trasporto pubblico di Roma a partire da questa finanziaria, perchè nei confronti della capitale c'è una pesante discriminazione. Roma è penalizzata rispetto ad altre città, basti pensare che riceve dal fondo nazionale per i trasporti solo 79 euro procapite mentre Milano ne riceve 270. Una situazione che non è sostenibile e che va modificata. Bisogna intervenire subito». Così il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli. Senza festa Il treno era stato autorizzato a partire con il rosso «permissivo» dalla centrale operativa La doppia rete metropolitana Giallo sulle cause dello scontro Roberto Silvestri L a tragedia cruenta della linea A ha quasi interrotto ieri la Festa del cinema. Un minuto di silenzio prima delle proiezioni. Sospeso, ovviamente, ogni festeggiamento rumoroso di troppo... Certo. Ma senza una rete metropolitana e di servizi pubblici all’aria aperta efficienti e funzionanti come a Londra e New York, a Tokyo e Mosca, non si può fare un grande festival del cinema che sia la festa di una grande città. Che la faccia muovere e spostare, socializzare sia di giorno che di notte, e offra «cibo di classe» per consumatori, attivi, critici e curiosi e a loro volta nuovi produttori di immaginario. Certo, la Metropolitana è un mezzo, come la cultura, per lo sviluppo, mai viceversa, si potrebbe dire parafrasando Sankara, profeta inascoltato di un «partito democratico internazionalista» a venire. Perché senza moltiplicare le occasioni di comunicazione, senza utilizzare energia e creatività «dal basso», non c’è alcuna crescita né dei bisogni individuali né dei desideri collettivi. E un servizio pubblico - come un festival - deperisce, non si bea, di privatizzazione. Chi sa e vede cosa succede nel mondo (e come funziona bene il «servizio pubblico», o i locali privatissimi della movida a Lisbona o Praga, a Capetown o Berlino) magari poi esigerà gli stessi servizi e i piacevolissimi «altri luoghi», a Roma, in provincia e nel Lazio. E che nessun sindaco si permetta di «spegnere un’emozione» alle 2 di notte, in nome della santità del lavoro, ammutolendo i locali notturni. Questa è la forza imprenditoriale della cultura. Ecco perché nel bilancio dello stato italiano la voce Cultura è a meno dell’1% sul totale della spesa, un record negativo, tra i tanti che contraddistinguono, tra le democrazie occidentali, quella da cui scappano più ricercatori, innovatori, cineasti e documentaristi davvero interessanti. Negli Usa è almeno al 4% (roba da citarla in sede Wto per concorrenza sleale). L’anno prossimo, poi, meglio smettere con suggestione da Br tipo «entrare in clandestinità»: i biglietti per entrare al cinema della Festa se si mettono in vendita prima agli sponsor e poi alla fondazione Musica per Roma, come è successo quest’anno, finiscono tutti prima che la festa cominci, e allora «no biglietto no party». Che poi ci siano troppe sale vuote e sia un rompicapo scoprire dove si proiettano i film, è un difetto che la seconda edizione potrà superare facilmente, magari mettendo un indice analitico con sede e ora di proiezione alla fine del cataloghino portatile. Detto questo che nessuno dica che la Regione, il Comune di Roma e la Provincia dovevano spendere meglio i suoi soldi. La Festa del Cinema non ha alcuna responsabilità, né diretta né indiretta, nel dramma della metropolitana di ieri (tranne per come gli armadi della security trattano zingari e autoriduttori). Sono sempre irrisorie, ripetiamo, indegne di un paese promosso nel consiglio di sicurezza Onu, le spese per la cultura sostenute annualmente anche dagli enti locali (e autolesioniste nel post-industriale, quando la competizione sul «mercato immateriale» richiede aggiornamenti e competenze). E nel caso di Roma i 7 milioni di euro spesi (anche per invitare Kidman e Scorsese e codazzi vari, aereo e grande albergo compresi: il sistema sensorio dei grandi media è Moloch incontentabile) - mentre i 2,5 della camera di commercio hanno riempito grandi alberghi, vuoti, dicono le statistiche in questa settimana, il resto è degli Sponsor - sono nulla e non intaccano le spese di tipo strutturale (che hanno voci di bilancio a parte). Dunque la critica al Veltroni festivo, per non essere qualunquista, aprioristica e strumentale, esige, a sinistra, l’abbandono di ogni nostalgia quaresimale. Massenzio, però, va radicalizzato e riletto con gli occhi del XXI secolo per non diventare un boomerang. ni secondi se per qualche motivo il macchinista tarda a compire l’operazione. E sempre a bordo del treno esistono meccanismi di frenata automatici in grado di garantire la sicurezza anche nel caso il macchinista dovesse sentirsi male. La situazione di semaforo rosso «permissivo» è proprio quella incontrata da Tomei poco prima che il suo treno si schiantasse contro quello fermo nella stazione di piazza Vittorio. «Nella maggior parte delle metropolitane, anche all’estero, ha spiegato ieri il direttore di esercizio della Met. Ro, Gennaro Maranzano - in galleria c’è quasi sempre il segnale di rosso permissivo». Una misura spiegata con l’esigenza di prevenire il panico tra i passeggeri, che non amano restare fermi nelle gallerie. Tutto normale, dunque, e soprattutto senza alcun pericolo né per i viaggiatori né per il personale. Superata la stazione Manzoni, chiusa per lavori, Tomei ha quindi incontrato un primo segnale di rosso permissivo a 480 metri dalla stazione di piazza Vittorio e un secondo rosso permissivo a 120 metri dalla stessa stazione. Ma se Tomei procedeva «a vista» e a una velocità di 15 chilometri orari, perché non si è accorto del treno fermo lungo la banchina? La risposta a questa domanda potrebbe essere anche la risposta al perché della tragedia. Carlo Lania Roma La verità sulla tragedia potrebbe essere nascosta in 120 metri di binari. Per ora è solo un’ipotesi, ma di sicuro uno dei punti su cui gli inquirenti che indagano sull’incidente avvenuto ieri mattina nella metropolitana di Roma dovranno fare chiarezza, riguarda proprio cosa potrebbe essere accaduto lungo quei 120 metri che separano l’ultimo semaforo posto a fianco della linea dall’ingresso in stazione. Un lasso di spazio e di tempo durante il quale Angelo Tomei, il macchinista che si trovava alla guida del convoglio che poi ha tamponato il treno fermo alla stazione di piazza Vittorio, avrebbe interloquito con la centrale operativa chiedendo e ricevendo istruzioni. La registrazione di quella conversazione è stata sequestrata ieri dalla polizia, ma da quanto si è appreso Tomei avrebbe segnalato «un notevole intasamento» del traffico, chiedendo se doveva fermarsi oppure no. La risposta lo avrebbe autorizzato a proseguire il viaggio «a vista», procedendo a una velocità moderata. Una ricostruzione in quanche modo confermata anche dal presidente di Met.Ro, la società che gestisce la metropolitana di Roma, Stefano Bianchi, che ieri sera ha spiegato come il convoglio guidato da Tomei abbia incontrato nel suo viaggio un semaforo indicante «rosso permissivo», una segnalazione che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non obbliga il macchinista a fermarsi bensì a procedere con un’andatura non superiore ai 15 chilometri orari. Inferiore, però, a quella indicata sempre ieri dal ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi quando, nell’audizione tenuta in parlamento, ha parlato di una velocità del convoglio «attorno ai 25-30 chilometri orari». Una parola definitiva arriverà dall’analisi delle scatole nere e dei computer della sala operativa, insieme alle testimonianze raccolte ieri dal pm Elisabetta Ceniccola a cui sono state affidate le indagini. Di certo fin dal primo minuto la dinamica dell’incidente è risultata quantomeno strana non solo a chi indaga, ma anche ai primi soccorritori giunti in stazione. «Qualcosa di palesemente anomalo è accaduto, ma è ancora presto per poter trarre conclusioni sulle cause. Aspettiamo l’esito delle perizie e delle indagini della magistratura», spiegava ieri il Questore Marcello Fulvi. Una ad una le possibili cause dell’incidente sono sfumate con il passare delle ore. Dalla prima ipotesi di un attentato, fortunatamente subito accantonata, a possibili anomalie di servizio. Anche la possibilità di un’interruzione elettrica, segnalata da molti passeggeri, è stata in seguito smentita sia dalla società Met.Ro che dai vigili del fuoco. Esclusa, infine, anche l’ipotesi di un errore umano, almeno da parte del macchinista. Per quanto in passato non siano mancate segnalazioni sulle carenze della due linee che compongono la metropolitana capitolina e sull’usura di parte dei mezzi utilizzati, almeno sulla carta i sistemi di sicurezza adottati lungo il tratto coinvolto nell’incidente risulterebbero più che adeguati. «E’ veramente difficile che un treno possa scontrarsi lungo la linea», spiegavano ieri alcuni macchinisti. Una parte della sicurezza è affidata alle segnalazioni luminose, cinque in tutto, che interagiscono con il convogli al loro passaggio. Oltre a due tipi di rosso (rosso «imperativo» che impone la fermata e rosso «permissivo» che consente di marciare a un massimo di 15 km/h) ci sono due gialli (fisso: marcia regolare a un massimo di 50 km/h fino al segnale successivo e lampeggiante, che consente di viggiare a una velocità di 65 km/h) e un solo verde che indica il via libera con una velocità massima di 80 km/h. Ogni volta che il convoglio passa accanto a un semaforo il macchinista vede ripetuta la stessa segnalazione su un display posto nella cabina di guida. A quel punto adegua la velocità in base al segnale ricevuto, cosa che avviene automaticamente dopo alcu- Sistemi di sicurezza Il macchinista procedeva a una velocità ridotta prima dell’impatto. Escluso l’errore umano. Il questore: «E’ successo qualcosa di palesemente anomalo» Tra le lamiere della metropolitana dopo l’incidente. Sotto, scampati all’incidente seduti su sedie messe a disposizione dai negozi della piazza. Foto Ap Metro A: treni nuovi, linea vecchia Mezzo milione di persone ogni giorno salgono sui 19 km della prima metropolitana. Ma, nel disastrato sistema dei trasporti su ferro della capitale, il peggio è sul trenino Roma-Pantano Eleonora Martini Roma E pensare che – dicono i macchinisti – dei trentotto chilometri di rotaie che corrono nel ventre di Roma, più quelle che collegano en plein air la capitale con Pantano, Viterbo e Ostia Lido, la linea arancione «non è nemmeno il peggio che ti possa capitare». Il peggio è senza dubbio la linea Roma-Pantano, sulla quale corrono «pezzi di ferro vecchio e ogni giorno si fa fatica a trovare le 19 vetture che occorrono per effettuare le 257 corse richieste». Almeno sui 19 chilometri della linea A, che per la prima volta nella sua storia ha subito un incidente così grave, viaggiano 33 treni nuovi di zecca, «gli spagnoli Caf», sponsorizzati da Met.Ro. come «il meglio in fatto di tec- nologia e di comfort». E’ pur vero che, si stima, più di 500 mila persone viaggino ogni giorno sulla tratta più antica di Roma – quella che collega la periferia nord-ovest di Boccea all’estremo sud-est di Anagnina – grazie alle 560 corse giornaliere tra le 27 stazioni effettuate a rotazione da 155 macchinisti. Ma proprio in questi giorni il Comune di Roma – proprietario e gestore della metropolitana sotterranea, mentre le «ferrovie concesse», quelle suburbane, sono gestite dalla regione Lazio – ha incentivato il numero di corse di 50 al giorno. «Col risultato che i macchinisti – dice Roberto Troia, responsabile di Met.Ro per il Sult (Sindacato unitario lavoratori trasporti) – sono stressati perché hanno limiti troppo stretti e sono portati a sbagliare». Condizioni di la- voro pesanti, ma che probabilmente saranno sgravate dagli 80 macchinisti appena assunti (30 nelle sotterranee). «Il problema più grosso però è l’ambiente in cui si è costretti a lavorare nella metro A – aggiunge Troia – l’aria che si respira, il percorso difficile in galleria, i turni massacranti con la vista che si abbassa a forza di lavorare al buio, il rapporto impossibile con i Dct, i capostazioni». E in effetti sono anni che si parla di inadeguatezza del sistema di ventilazione della linea, mentre nel 2001 il direttore della Protezione civile, Guido Bertolaso, denunciò, con una lettera all’allora ministro dei trasporti Pietro Lunardi e al sindaco di Roma Veltroni, «i disagi e i pericoli per i passeggeri, i noti disservizi della metropolitana e l’inadeguatezza delle stazioni ai flussi dei passeggeri». In più, nell’ultimo anno, sono state decine le corse soppresse per guasti delle vetture in tutto il sistema Met.Ro. Basti pensare che i 31 treni dismessi dalla linea A, inaugurata nel 1980, corrono oggi tutti sulla B e «viaggiano dal 1989, senza mai essere stati sottoposti a manutenzione straordinaria» come ha detto ieri a Repubblica lo stesso presidente di Met.Ro, Stefano Bianchi. Una metropolitana, quella di Roma, che non può nemmeno lontanamente competere con i 200 km delle 16 linee del metrò parigino, o con i 408 della Tube londinese, o con le 6 linee che scorrono per 86,6 chilometri nelle viscere di Barcellona, o perfino con le moderne tre linee dell'Attikò Metrò che sfida per 72 km le antichità di Atene. Però qualcosa si sta muovendo: in attesa che si concludano i lavori di realizzazione della B1, che proseguirà per 4 km verso nord-est, previsti per il 2010, e per la linea C, i cui lavori sono appena cominciati nell’agosto scorso, la Met.Ro ha stanziato 94 milioni di euro per un piano triennale di ammodernamento delle infrastrutture (tra cui la stazione Vittorio Emanuele) e per la revisione dei treni. «Spero che bastino – ironizza Troia – almeno per i pezzi di ricambio ormai introvabili». mercoledì 18 ottobre 2006 il manifesto & politica 5 società Le istituzioni «Brava Roma» Veltroni «Come via Ventotene» Delanoe «Solidarietà, Walter» Bianchi «Soccorsi efficienti» «Quella di via Ventotene (l’esplosione di un palazzo nel 2001 per una fuga di gas causò otto morti, ndr) e quella di oggi sono le giornate più tristi per Roma». Lo ha detto il sindaco Walter Veltroni ieri sera lasciando l'ospedale San Giovanni, dove ha incontrato i feriti. Per Veltroni «la città ha dato una dimostrazione, attraverso i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri, i vigili urbani, la protezione civile e il 118, di poter affrontare anche momenti drammatici». Il sindaco di Parigi Bertrand Delanoe ha inviato al sindaco Veltroni un messaggio subito dopo l’incidente: «Apprendo - si legge nel messaggio - con tristezza del lutto che ha colpito la città di Roma a causa del terribile incidente della metropolitana, che ha inoltre fatto numerosi feriti. In queste difficili circostanze desidero ribadirti la mia simpatia personale e la solidarietà della città di Parigi. Ti sono grato di voler trasmettere alle famiglie delle vittime le mie sincere condoglianze». I soccorsi sono stati «rapidi ed efficienti». Lo ha detto il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi nel corso dell'informativa alla Camera, esprimendo il «plauso del governo» per l'operato di vigili del fuoco, forze dell'ordine, personale sanitario e della protezione civile. La rapidità e la professionalità dei soccorsi, ha aggiunto il ministro, «hanno evitato che nei momenti successivi all'incidente si verificassero altre gravi conseguenze che spesso possono determinarsi quando ci sono situazioni di panico». La testimonianza Roma Un treno in arrivo ne tampona un altro fermo a piazza Vittorio: un morto e 235 feriti Tra le stelle di piazza Vittorio Botto mortale sulla metro A Roberta Carlini Roma Quando Charlie Chaplin scende dalla scaletta dell'aereo, noi crolliamo improvvisamente tutti a terra. Metropolitana di Roma Linea A direzione Battistini, una mattina di un giorno qualsiasi, la metro che va piano rallenta è quasi ferma e poi riparte: il tran tran dei lavori interminabili, l'altoparlante da un pezzo ha smesso anche di annunciarlo, che «Manzoni» è chiusa per lavori. Piazza Vittorio, siamo fermi almeno da cinque minuti. Ma la carrozza è nuova, pulita, ha la tv e non puzza anche se c'è molta gente - è appena salito un gruppo di adolescenti altissimi, che lingua sarà, danese, olandese, certo fanno casino come i romani… Il monitor ci informa che le stelle tornano a Roma, si vedono quelle dei '50 in bianco e nero all'atterraggio (Ciampino, c'è scritto, né Fiumicino né Malpensa) e poi quelle di oggi a colori, tutte già a terra. Sean Connery non c'è ancora, lo spot era precotto e le star di Roma 2006 già sul video sono pochissime, rispetto a quelle antiche. Che ripartono: di nuovo anni '50, di nuovo oggi, di nuovo il pay-off: le stelle tornano a Roma. Qualcosa non va, non ci muoviamo, una signora legge in piedi Pirandello e i ragazzi fanno ancora più casino, sarà pure la città delle stelle ma quando riparte un ottimista seduto prepara la cartella, forse deve scendere a Termini. Uffa Veltroni, pensa anche a noi stelle sotterranee del quotidiano, ma pensa che banalità che sto pensando… bum. La frase resta monca in testa, siamo tutti per terra al buio ci diamo le mani ci alziamo senza parlare imbocchiamo le porte tutti a passo svelto senza correre, dal fondo della banchina esce del fumo, su per la scala mobile ferma, una massa straniata verso l'uscita, pochi gridano o affrettano il passo. Ai varchi, qualcuno sta male, qualcuno si accascia; una ragazza in divisa ci prega di non fermarci, chi ce la fa esca da solo, dice, è l'unica indicazione che arriva ma va bene, camminiamo. Alla luce, chi sta bene già apre il telefonino: sto bene, c'è stato un incidente, no non è un attentato, almeno non credo, ci ha tamponati un treno, un guasto elettrico, madonna che botto, arrivo più tardi, scusi da che parte per Termini? Poi dal sottosuolo sbucano gli altri, i meno fortunati, sono feriti leggeri e spaventati, il sangue macchia le camicie pulite, aspettiamo qui forse viene l'ambulanza, i negozi cinesi fitti fitti sono pieni di vestiti ma una sedia neanche a pagarla. Chissà là sotto che c'è. Chissà che ha visto quella ragazza che trema. Pensiamo a Londra, a Madrid e abbiamo facce da scampati. E' stato solo un tamponamento. E' stato solo un incidente, il più grave nella storia della piccola metro di Roma. Il video delle stelle è spento. Cinzia Gubbini Roma «U n botto enorme, tanto fumo, la gente che è caduta per terra. E io che sono riuscita a tirarmi fuori non so come, avrò scavalcato dieci persone». Poi quel pensiero fulmineo, che ha attraversato la mente di chi, ieri mattina alle 9,35, si trovava a bordo dei due convogli che si sono scontrati a Roma nella centralissima fermata della metropolitana di piazza Vittorio Emanuele: un attentato. «Ho sentito qualcuno che lo gridava - racconta ancora Annarita, 26 anni, studentessa - e anche io ci ho pensato perché vedevo tanto fumo. Ma in quei momenti, in ogni caso, pensi solo a scappare». Non era un attentato, ma «solo» un incidente. Un tamponamento per la precisione: il treno in arrivo alla stazione Vittorio Emanuele - linea A, quella arancione - non si è fermato e ha investito un altro treno, fermo sulla banchina da qualche minuto con le porte chiuse. La cabina del macchinista ha sfondato l’ultimo vagone del convoglio in attesa di ripartire. Poteva andare peggio, molto peggio. Dalle lamiere delle due locomotive che si sono accartocciate una sull’altra è stato estratto un corpo senza vita. La vittima è una ragazza di trent’anni, Alessandra Lisi, laureata in Scienze statistiche e ricercatrice presso il «Centro per i disturbi congeniti». Abitava a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, e tutte le mattine prendeva la metro. Praticamente (e miracolosamente) illeso, invece, il macchinista della locomotiva che ha tamponato il treno. E’ Angelo Tomei, 32 anni, da cinque assunto alla Met.ro. Ricoverato al Policlinico Casilino, è un «codice verde». Solo lesioni leggere, dunque. I medici hanno riferito che è sotto choc e che per ora non riesce a ricordare nulla. Nel pomeriggio è stato sentito dal magistrato che conduce le indagini, Elisabetta Ceniccola. Alla Procura di Roma è stato aperto un fascicolo per disastro e omicidio colposi. Ma è ancora contro ignoti. I primi feriti sono emersi dalle scale delle entrate sotterranee della metro come fantasmi: «Abbiamo visto gente uscire coperta di sangue, chi zoppicava, chi urlava, chi piangeva. Una scena terribile», racconta uno dei farmacisti della Farmacia Longo, storico negozio delle logge di Piazza Vittorio. Sono loro tra i primi a scendere le scale per cercare di portare aiuto, a offrire ghiaccio per tamponare le contusioni, a provare un primissimo coordinamento dei soccorsi. Così, all’istante, sul marciapiede. Intanto arrivano le autoambulanze del 118, la protezione civile, i vigili del fuoco. Piazza Vittorio si riempie, la popolazione multietnica del quartiere si affolla lungo le Al momento dell’incidente la banchina di piazza Vittorio è colma, ricordano i testimoni. Il cartello che annuncia l’arrivo dei treni segna un minuto di attesa per il treno seguente. Ma il convoglio che verrà tamponato resta fermo. All’improvviso si sente la botta, un rumore fortissimo. Un uomo che si trovava nel primo vagone del treno che ha tamponato racconta di aver visto tutto: «Ero lì, praticamente dietro al macchinista. Vedevo questo treno fermo davanti a noi e il nostro convoglio che continuava a camminare. Istintivamente mi sono tirato indietro, solo per questo ho evitato di finire sotto alle lamiere». Un altro passeggero ricorda invece di aver sentito una frenata e poi il treno ripartire a strappo: «Avevamo appena passato la stazione Manzoni (in ristrutturazione da un anno, ndr) ,lì il treno va sempre pianissimo e poi accelera di nuovo». Augusto Caratelli, presidente del Comitato per la difesa dell’Esquilino (il quartiere di piazza Vittorio) dice che chi aveva preso le corse precedenti ha parlato di un improvviso calo dell’elettricità, delle luci che all’improvviso si sono spente per qualche minuto. Per tutto il pomeriggio, su internet, con telefonate arrivate ai giornali, si sono rincorse testimonianze di una mattinata iniziata male sulla linea A, con strani rumori, improvvise frenate. Suggestione, o forse il segno di qualcosa che davvero non andava. Lo scontro, poi il fuggi fuggi verso l’uscita, i feriti soccorsi anche con gli autobus. Il macchinista si salva, non ce la fa una ragazza di Frosinone. Grave una donna giapponese transenne, viene allestito anche un piccolo ospedale da campo. I vigili si infilano lungo le scale e risalgono con persone immobilizzate sulle lettighe, i vestiti sporchi di sangue. Chi riesce a camminare da solo viene caricato anche sugli autobus. E si moltiplicano le voci sui morti. Almeno due, forse tre. Tutti pensano al macchinista. Poi si parla di una donna nigeriana, che invece risulta essere solo ferita. Qualcuno chiede notizie di quella donna incinta, che si trovava sul secondo convoglio. C’erano anche bambini. E i turisti, spaesati e in difficoltà con l’italiano. La metropolitana, a quell’ora, è piena di gente, come raccontano i numeri delle persone visitate negli ospedali romani: 235. Centosedici sono state trattate o trasportate dal 118. Alla fine i «codici rossi», cioè i pazienti più preoccupanti, risulteranno essere solo cinque, ma nessuno in pericolo di vita. La più grave è una donna giapponese, ricoverata all’ospedale San Giovanni. Per Roma, comunque, una specie di «prova generale» dell’attentato sempre annunciato e mai - fortunatamente - arrivato. A cominciare dai soccorsi e dal «piano di difesa civile», scattato dopo l’allarme, proprio quello che entrerebbe in funzione in caso di attentati. 28 le ambulanze convogliate su piazza Vittorio, 6 automediche, 350 persone impegnate sul posto. «E’ andato tutto alla grande. Le esercitazioni antiterrorismo del 2005 hanno dato i loro frutti», ha detto il prefetto Achille Serra. Ma la «prova generale» ha coinvolto anche i media di tutto il mondo, che hanno puntato i riflettori sulla capitale italiana. E la politica italiana: sul posto si sono precipitati, oltre al sindaco Walter Veltroni e ai rappresentanti delle istituzioni capitoline, il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi e il deputato di An Gianni Alemanno, mentre nel pomeriggio il ministro della Sanità Livia Turco ha fatto visita ai feriti e il premier Romano Prodi si è recato all’obitorio per rendere omaggio alla salma di Alessandra Lisi. Incalcolabili i messaggi di solidarietà alla famiglia Lisi e a tutti i feriti: dal presidente della Camera Fausto Bertinotti al presidente della Cei Camillo Ruini, dai sindaci di Milano e Bologna a quello di Parigi Bertrand Delanoe. Due minuti di silenzio nell’aula del Senato. La squadra della Roma ha chiesto di poter giocare, stasera ad Atene, con il lutto al braccio. Nessuna bomba, per fortuna, Roma è salva. Ma la psicosi attentato ha portato, per una volta, la giusta attenzione per le vittime degli incidenti sulle linee di trasporto italiane. 6 il manifesto & politica mercoledì 18 ottobre 2006 società Prodi: «Il velo non nasconda il volto» Milano Scuola «araba», Fioroni dà l’ok Via libera del ministro Fioroni alla scuola «araba» di via Ventura, chiusa giovedì scorso dal prefetto di Milano. Ieri il direttore scolastico regionale ha ricevuto dal consolato egiziano l'elenco dei libri di testo e dall'associazione Insieme quello degli insegnanti. «Compiuti questi ultimi adempimenti, il ministero sarà in grado di rilasciare l'autorizzazione», ha detto Fioroni. A questo punto, la palla torna al Comune di Milano, a cui tocca dichiarare «a norma» i locali della scuola bilingue. Piccole carenze nel piano antincendi, «scoperte» dai vigili del fuoco dopo ben nove sopralluoghi erano state la scusa per bloccare la scuola. I lavori per mettere i locali a norma sono stati fatti in 48 ore. Il nulla osta, puramente tecnico, di Palazzo Marino dovrebbe quindi essere scontato. A meno che la giunta Moratti ricorra a qualche altro escamotage per impedire la ripresa delle lezioni. Fin qui, la burocrazia è stata usata per mettere i bastoni tra le ruote alla scuola «araba» e per giocare a scaricabarile tra Comune e ministero. Un gioco «da evitare», ha detto ieri con un po' di ritardo Fioroni. Roma «Se vuoi indossare il velo va bene, ma deve essere possibile vederti. È un fatto di buon senso, credo, è importante per la nostra società. Non si tratta di come ci si veste ma se ci si nasconde o meno». A buttarsi nella mischia del dibattito che da tempo infiamma l’Europa è il presidente del consiglio Romano Prodi. Il premier italiano, in una lunga intervista all'agenzia Reuters, chiarisce che non intende assolutamente impedire alle donne musulmane di rispettare le loro tradizioni, ma ritiene che sia sufficiente applicare delle regole di «buon senso». Da qui l'invito alle donne musulmane che vivono nel nostro paese a «non nascondersi, non coprirsi il volto». Messa in questi termini, ben più moderati dai divieti francesi o dai diktat leghisti, anche alcune associazioni islamiche l’hanno Giovani musulmani «E’ una richiesta comprensibile. Ma una legge sarebbe sbagliata» considerata di buonsenso. Sumaya Abdel, dell’associazione Giovani musulmani d’Italia, sembra tutt’altro che indignata: «Posso capire che in una cultura come quella occidentale l’espressione del viso sia importante e si chieda quindi di evitare non il velo, che copre solo la testa, ma il niqab o il burqua. Credo che sia giusto rispettare questa richiesta che può avere anche avere alla base esigenze di sicurezza. L’imporante è che non ci siano imposizioni per legge, fare una legge sul velo significherebbe limitare le libertà dell’individuo». Nel corso dell'intervista, Prodi ha affrontato anche la questione dei flussi di clandestini che sbarcano sulle coste italiane, chiedendo all'Unione Europea un controllo più rigido del Mediterraneo e ha annunciato che saranno semplificate le procedure di acquisizione della cittadinanza per gli immigrati regolari. «Gli immigrati sono parte del nostro futuro», ha spiegato parlando del progetto del governo di concedere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza in Italia. «Il problema - ha aggiunto - è avere regole chiare, in modo che se si comportano adeguatamente, hanno rispettato la legge e sono buoni cittadini possono diventare a tutti gli effetti italiani». Senato Il governo presenta tre emendamenti a sorpresa al dl. Poi va nel caos. E li ritira Panico da intercettazioni Andrea Fabozzi Roma D oveva essere una delle poche leggi con la strada spianata, persino in senato. Sulla distruzione delle intercettazioni raccolte illecitamente, questione esplosa con lo scandalo degli «spioni», sulla carta la maggioranza può procedere con l’accordo dell’opposizione. Un mese fa il governo aveva varato un decreto di urgenza, prima Prodi ne aveva parlato al telefono con Berlusconi. Ma ieri l’esecutivo è riuscito a complicarsi la vita, proprio al senato. A sentire il sottosegretario alla giustizia Luigi Li Gotti le intenzioni erano buone. «C’erano alcuni emendamenti, in particolare uno del senatore Castelli, che puntavano a recuperare comunque il contenuto delle intercettazioni illegali. Il governo aveva fatto un lavoro su questo, e così...». E così nel dopopranzo Li Gotti ha calato sul tavolo della commissione giustizia, dove stava per concludersi il lavoro sul decreto, tre pesantissimi emendamenti. Contraddicendo ripetute promesse di «non intervento» dell’esecutivo nella discussione del parlamento. E soprattutto trasformando completamente la legge, cancellando l’obbligo di distruzione immediata e rimandando il tutto a dopo una sentenza definitiva di Cassazione (o a un anno dopo l’archiviazione del procedimento). Apriti cielo. Gli emendamenti del governo, che Li Gotti spiega essere pronti da una decina di giorni, riaprono i giochi in commissione. Ma per il calendario stabilito dalla maggioranza la legge di conversione andava discussa subito dall’aula. Nel centrosinistra c’è chi, come il presidente della commissione giustizia Salvi (Ds) o il senatore Manzione (Margherita) apprezza la mossa, avendo apertamente criticato il decreto originario del governo. La distruzione immediata, del resto, non piaceva nemmeno all’Associazione magistrati - i cui vertici guarda caso hanno incontrato Prodi ieri mattina, ma per parlare di tutt’altro (finanziaria e tagli alle retribuzioni della categoria) - e anche il Csm aveva avanzato rilievi del genere. In sostanza distruggendo l’intercettazione illegale (ammesso che sia materialmente possibile Proposta la conservazione anche di quelle abusive. Consensi trasversali. Marini dice no: fuori tempo massimo controllare ogni copia) si distrugge (senza il controllo del giudice) anche la prova del reato collegato a quella intercettazione. Nel corso della discussione nelle commissioni giustizia e affari costituzionali erano stati sollevati dubbi di incostituzionalità (anche dai senatori del centrodestra Centaro e Nitto Palma) perché l’articolo 111 prevede che la prova si formi nel dibattimento. Con la prova distrutta è un po’ difficile. Le proposte di modifica però, come quella dell’ex guardasigilli Castelli, introducevano complicati meccanismi per tenere in vita il testo della intercettazione illegale. Con i suoi emendamenti il governo puntava invece a «blindare» quei verbali abusivi introducendo Un centro intercettazioni. Foto Tam tam anche il controllo delle parti. Però sarebbe stato come riscrivere il decreto. «A questo punto meglio rinunciare al decreto e prevedere un disegno di legge che regoli tutta la materia», dichiaravano infatti Giuseppe Di Lello e gli altri senatori di Rifondazione in commissione giustizia, «perplessi» per gli emendamenti del governo. Poco dopo il ministro della giustizia Clemente Mastella chiamava al telefono il sottosegretario Li Gotti e lo autorizzava al dietrofront: «ritiriamo gli emendamenti». Ufficialmente per evitare di allungare i tempi di approvazione del provvedimento. Ma si parla di una brusca telefonata del presidente del senato Marini a Mastella: palazzo Mada- Bruno Perini La magistratura accende più di un faro sul caso Telecom. Non si tratta dell’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche, che segue ormai un proprio percorso, ma di indagini su ipotesi di reati finanziari, denunciate da consumatori e da associazioni di risparmiatori. Sono ben due le procure che dedicano un fascicolo alla vicenda. La Procura di Roma procede per l'ipotesi di reato di insider trading. I pm Stefano Rocco Fava e Gustavo De Marinis, dopo aver ricevuto una prima informativa dalla Consob, in base ad accertamenti compiuti sul titolo Telecom, hanno formalizzato l'ipotesi del reato di insider trading in relazione al fascicolo aperto nei giorni scorsi. Secondo informazioni filtrate ieri la «curiosità» della magistratura romana è strettamente legata al cosidetto piano Rovati e allo scorporo di Tim da Telecom. Nella fase più opaca della vicenda, quando ancora Marco Tronchetti Provera non si era dimesso, negli ambienti finanziari sono circolati molti dossier su Telecom; uno di questi era il piano Rovati, che conteneva valutazioni quantitative su un possibile scorporo e sull’ipotesi di cessione alla Cassa Depositi e Prestiti. E’ possibile che in quei giorni qualcuno abbia pensato bene di utilizzare quelle ed altre informazioni riservate per speculare sul titolo. Si tenga conto del fatto che in quei giorni i titoli del gruppo di Tlc ha subito oscillazioni anomale e secondo gli inquirenti non è escluso che qualcuno ben introdotto nella società ci abbia messo del suo per trarre profitto dall’ondata speculativa. L’inchiesta sulla vicenda Telecom della procura di Roma si è già avvalsa di una prima relazione della Consob dalla quale non risultava «nulla di penalmente rilevante» sull'operazione. Ma erano stati preannunciati sia da parte della Consob che della stessa procura ulteriori accertamenti. In particolare, la procura ha delegato il nucleo di polizia valutaria della guardia di finanza a chiedere agli intermediari se ci siano stati ordini di acquisto o vendita, con conseguenti guadagni. Non è soltanto la procura romana ad essere interessata al caso Telecom. Anche i milanesi ci stanno dando un occhio a seguito di segnalazioni provenienti dai mercati finanziari. E come è noto, dopo le notizie Sismi Abu Omar sarà rilasciato dal carcere egiziano Abu Omar, l'iman rapito a Milano nel febbraio 2003 da un commando della Cia e trasferito in Egitto, verrà rilasciato «tra qualche giorno» dal carcere di Tora (Cairo). Ad annunciare quella che potrebbe rivelarsi una svolta di eccezionale importanza per le indagini in corso in Italia, è stato il suo legale, Montasser al Zayat, che è anche il portavoce del gruppo radicale egiziano Gamaa Al-Islamiyya. Hassan Mustafa Osama Nasr, alias Abu Omar, era stato riarrestato a luglio dopo un periodo di libertà condizionata di tre settimane per motivi non precisati dalle autorità egiziane. L'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha sempre negato di essere stato al corrente dell'intenzione della Cia di rapire lo sceicco egiziano. Le indagini svolte dalla magistratura ha invece accertato la collaborazione data agli agenti americani da esponenti di primo piano dei servizi segreti italiani. Partito democratico ma ha bisogno di chiudere col provvedimento entro il 26 ottobre. Poi l’aula chiude per una settimana, per il ponte di Ognissanti e le elezioni in Molise. «Un episodio anomalo che non mi era mai capitato nella mia vita parlamentare», sorride amaro il presidente Salvi. Poi più serio: «Abbiamo perso un giorno di lavoro». L’aula resta convocata per oggi alle 11,30. La commissione avrà due ore per esaurire gli emendamenti: operazione non facile, è prevedibile uno slittamento. Anche perché la maggioranza avrà di nuovo lo stesso problema. Il senatore Manzione annuncia infatti che ripresenterà, facendoli suoi, i tre emendamenti del governo. Doveva essere una legge facile facile. Telecom, la procura di Roma indaga sull’insider trading Movimenti anomali I magistrati hanno aperto un fascicolo sui movimenti anomali che si sono verificati in Borsa sui titoli Telecom. L’attenzione degli inquirenti sul piano Rovati. Anche la procura di Milano sta raccogliendo notizie su Telecom Se in Italia l’uscita di Prodi non ha suscitato grandi reazioni, in Gran Bretagna la polemica prosegue. Il premier britannico Tony Blair ha espresso il proprio sostegno alle autorità scolastiche del distretto di Kirklees (West Yorkshire) che hanno sospeso un'insegnante islamica che aveva rifiutato di togliersi il velo che le copriva il viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Le autorità scolastiche avevano affermato che l'indumento è «un segno di separazione». Secondo Blair, la questione deve essere regolata dalle autorità scolastiche: «Devono essere in grado di prendere una decisione del genere. Li sostengo per come hanno gestito la vicenda. Posso capire perchè siano arrivati a quella decisione». Aishah Azmi, insegnante di sostegno alla Headfield Church of England Junior School di Dewsbury, ha negato di aver tenuto il velo davanti agli alunni (le autorità della scuola sostengono che proprio questa abitudine non permetteva agli alunni di capire bene la docente), affermando di averlo portato solo in presenza di colleghi maschi. Per il premier, il velo che copre il viso «mette a disagio molte persone esterne alla comunità» islamica, ed è per questo che occorre un dibattito. inchieste su Antonveneta, quando si muovono i magistrati di Milano, gli insider si devono preoccupare. È stato affidato a tre magistrati il fascicolo aperto a Milano sugli scorpori di Telecom. L'indagine, allo stato, è ancora conoscitiva , cioè a carico di ignoti e senza ipotesi di reato. Ma ad occuparsene sono in tre: Francesco Greco, (il magistrato delle grandi inchieste economiche da Parmalat ad Antonveneta), Carlo Nocerino e Laura Pedio. Intanto ieri è tornato a parlare il garante. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni aprirà un «tavolo separato» di confronto con gli operatori telefonici sulla societarizzazione della rete fissa di Telecom Italia, su cui la stessa Authority e l’ex monopolista stanno lavorando. Lo ha annunciato Corrado Calabrò, intervenendo alla «Tavola rotonda con il governo italiano» promossa da «Business international». Calabrò ha premesso che mentre «nel mobile il mercato è perfettamente concorrente e gli operatori operano in condizioni di parità», nel fisso «continua la dominanza dell’incumbent». E «siccome non è possibile spezzettare la rete -ha spiegato Calabrò- abbiamo pensato dal modello inglese della Ofcom che ha garantito parità di condizioni». Il modello di scorporo della rete fissa di Telecom «non deve essere limitato all’ultimo miglio, ma come in Gran Bretagna con l’ultimo miglio vanno scorporate anche le centrali con cui sono erogati i servizi, come quelli a banda larga». Così ha detto l'amministratore delegato di Vodafone Italia, Pietro Guindani, intervenendo alla tavola rotonda organizzata da Business International. Inoltre, ha aggiunto Guindani, «bisogna considerare la separazione della parte commerciale fissa dalla parte commerciale mobile per impedire all’ex monopolista di utilizzare la posizione dominante sul fisso per rafforzarsi sul mobile». Violante: «Ricorda troppo la dc, meglio l’Ulivo» In un intervista rilasciata alla stampa, Luciano Violante non ha rinunciato a lanciare un forte segnale sulla costruzione di un nuovo partito: «Partito democratico è un’espressione tiepida e indista. Ha più significato politico la parola Ulivo che ha dalla sua anche una lunga tradizione». Il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera ha cercato poi di stemperare le polemiche su una possibile scissione interna, auspicata dalla Sinistra Ds. Violante ha concluso infine paventando lo spettro di una frammentazione eccessiva del sistema politico. & Università e ricerca, primo sciopero «politico» il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 politica I sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil fermeranno le università il 17 novembre e gli istituti il 20. La protesta raggiungerà palazzo Chigi, contro la «politica dei tagli» società Francesco Piccioni Roma Tagli alle agenzie del fisco N el suo piccolo è una data storica: ieri i tre sindacati confederali hanno dichiarato il primo sciopero contro la finanziaria. Nei fatti, la critica politica più pesante che potessero esercitare. Protagoniste della svolta le categorie dell’università e della ricerca, che più di altre avevano puntato – anche elettoralmente – sul governo di centrosinistra. Prodi, Nicolai, Mussi sembravano i garanti di un programma incentrato sul «conoscere per crescere». Il 17 novembre si fermeranno per l’intera giornata le università, il 20 gli istituti di ricerca. Si prevedono manifestazioni a Roma, con terminale a palazzo Chigi. La delusione e la frustrazione sono palpabili anche nelle parole usate dai segretari nazionali di categoria di Cgil, Cisl e Uil, ne corso della conferenza stampa di presentazione. Al centro della protesta, nelle parole di Alberto Civica, segretario nazionale Uilpa, la «politica di tagli» che «prosegue l’opera di killeraggio degli enti e istituti pubblici di ricerca». Il quadro è impietoso. Nessun aumento della dotazione per la ricerca (di fatto una diminuzione, tenendo conto dell’inflazione); 94 milioni di euro in più per l’università, ma il «decreto Bersani» di luglio gliene aveva tolti 200 e quindi si va sotto i livelli del 2006. In pratica: non si potranno fare accordi sui contratti di lavoro (clamoroso il caso dell’Ente spaziale, scaduto da 5 anni), tantomeno si potranno regolarizzare i precari (15.000 solo nella ricerca, nelle università non si riesce neppure a fare un censimento attendibile). E dire che la ricerca, per sua natura, dovrebbe essere il luogo meno esposto alle politiche «precarizzatrici». Formare un ricercatore, infatti, prevede almeno tre o quattro anni di lavoro (postlaurea); ma soprattutto una platea di ricercatori instabili destabilizza la stessa possibilità di programmare l’attività degli istituti (chi trova di meglio, infatti, se ne va). Fino al paradosso per cui l’Italia, di fatto, sta finanziando una buona fetta della ricerca statunitense. I 10.000 Gli statali si mobilitano, il 23 maxi assemblea Se la ricerca si mobilita, e la scuola riflette sulla piazza, è in subbuglio anche il pubblico impiego. Ieri è venuta fuori un’altra «curiosità» della finanziaria, abbastanza paradossale. Il governo ha infatti eliminato i fondi stanziati per i contratti integrativi del ministero dell’Economia, e in particolare per i lavoratori delle Agenzie delle entrate. Ovvero, di quelli che dovrebbero combattere (finalmente) contro l’evasione fiscale. Il tutto, denunciano in un comunicato le categorie del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil, è disposto dall’abrogazione del comma n˚165 dell'art. 3 della L.350, comma che praticamente apportava risorse ai fondi di produttività dei lavoratori, ovvero ai contratti integrativi del Ministero dell'Economia e delle Agenzie Fiscali. Insomma, da un lato si annuncia lotta dura all’evasione, dall’altro si mettono i lavoratori nell’impossibilità di migliorare la loro produttività su questo fronte. Il pubblico impiego - Fp Cgil, Fps Cisl e Uilpa - annunciano dunque mobilitazione nei ministeri interessati e soprattutto confermano la grande assemblea dei delegati (5 mila), il 23 ottobre a Roma. Assemblea di docenti e ricercatori alla Statale di Milano. Foto Emblema ricercatori trasferitisi negli Usa, infatti, sono costati allo stato italiano – per la formazione – almeno 250.000 euro a testa. Fatevi due conti... Sotto accusa è tutta la politica in atto dal 1993 (dagli «accordi di luglio»), che privilegia i trasferimenti alle imprese. Una strategia che non ha pagato affatto, visto l’arretramento dell’Italia in tutte le classifiche dell’«innovazione». Si cita un calcolo di Giavazzi, sul Corsera di alcuni giorni fa, che stimava in quasi 25 miliardi di euro – il 2% del Pil – i trasferimenti alle Stefano Raiola Ritorna la tassa di successione, ma diminuisce – da cinque a tre anni – l’esenzione dal bollo per auto e moto ecologiche. Sì all’aliquota unica sulle rendite finanziarie, e apertura a rivedere le aliquote Irpef per favorire le famiglie. Il testo della finanziaria è arrivato ieri alla camera per l’esame tecnico della commissione bilancio e già spuntano le prime importanti modifiche. Con un aggiustamento del Spallata,rinvio a novembre Silvio Berlusconi ancora ci spera. «Dobbiamo fare in modo che cadano, il paese è contro di loro» ha detto ieri ai coordinatori regionali di Forza Italia, sfoderando la solita valanga di sondaggi. E per raggiungere l’agognato obiettivo ha delineato una tattica in due tappe. La prima, ovvero quando la discussione sulla finanziaria sarà alla camera, prevede gazebo, manifesti e magari anche spot televisi. Ma il bello dovrebbe arrivare quando la legge di bilancio sbarcherà al senato, dove come si sa l’Unione non ha più la maggioranza. Per allora il cavaliere sogna una grande manifestazione di piazza. Nella speranza che i suoi alleati lo seguano. imprese previsti anche da questa finanziaria. Magari sparsi nei vari capitoli meno conosciuti (alle voci ministero della difesa, alle infrastrutture, ma anche da industria e ricerca). Il fatto è che l’impresa italiana – quasi sempre «nana» – non solo non fa ricerca in proprio, ma neppure assorbe le risorse umane formate dagli enti pubblici. Di fatto, da quando lo «stato imprenditore» ha cominciato a ritirarsi dalla scena, per la ricerca italiana è cominciata la frana. Ma ormai, spiega- no i sindacalisti, è che «la casa brucia». Non c’è più spazio per aspettare «tempi migliori»: o si interviene ora per invertire la tendenza, oppure la ricerca italiana – anche universitaria – rischia di perdere una o due generazioni. Su un terreno in cui, se ci si ferma, non si può ripartire «a comando». Non mancano le «chicche». Come la trasformazione di alcuni enti (con relativo cda) in istituti con il solo direttore (per risparmiare); o come il taglio del 50% degli adeguamenti automatici per il per- sonale docente, precari compresi. Alcuni enti dovranno chiudere i battenti per crisi finanziaria (tra questi la «vasca navale», dove è stata progettata «Luna rossa»). Ma, soprattutto, «a questa finanziaria manca una mission chiara». Secondo Enrico Panini, segretario generale della Flc-Cgil, infatti, «il cuore della finanziaria dovrebbe essere l’investire in ricerca e università per recuperare il terreno drammaticamente perso rispetto agli altri paesi». E’ un segnale che dovrebbe far riflettere. La Cgil si dichiara a questo punto «molto, molto inquieta». Era stata fin qui individuata come l’unica parte sociale dispposta a difendere l’impianto attuale della legge finanziaria. Ora promette che, se all’incontro «tecnico» di giovedì non ci saranno risposte soddisfacenti, anche il comparto scuola comincerà a mobilitarsi. Scambio di tasse, tra successione e incentivi per le moto Da Visco aperture sulla rimodulazione delle aliquote Irpef; ma anche l’estensione della tassazione sulle rendite finanziarie (al 20%) agli affitti Cdl 7 decreto fiscale collegato alla manovra viene reintrodotta l’imposta per chi eredita immobili o capitali superiori a un milione di euro; stesso trattamento sarà applicato per le successioni. La soglia di esenzione di un milione di euro sarà valida solo per coniuge e figli, ma non per i parenti più lontani. Gli eredi diretti, infatti, pagheranno il 4% sulla parte eccedente il milione, mentre agli altri toccherà un’aliquota che va dal 6 all’8% (a seconda del grado di parentela) su tutto il valore. Confermata la tassa fissa del 20% sulle rendite finanziarie, che – come ha specificato il viceministro dell’economia, Vincenzo Visco – non sarà retroattiva: non riguarderà cioè i redditi maturati nel passato. L’aliquota andrebbe applicata anche sugli affitti ma lo stesso Visco ha ammesso l’esistenza di problemi «tecnici» per l’attuazione del provvedimento. «Bisogna inventare meccanismi per far emergere – ha ammesso Visco – perché mettere semplicemente la tassa potrebbe portare ad una riduzione del gettito». La questione è all’esame di una commissione che avrebbe indicato tra le ipotesi anche quella di poter dedurre dalle tasse il pagamento dell’Ici. La questione dell’evasione fiscale rimane cruciale per la buona riuscita della manovra: secondo fonti del ministero dell’economia oltre 200 miliardi sfuggono alle casse dello stato (tra il 14,8 e il 16,7% del Pil). La metà dell’evasione deriverebbe dal lavoro nero, mentre 93 miliardi sarebbero imputabili a sottodichiarazioni di fatturato. E’ per questo che si rendono necessari controlli e sanzioni che, secondo Visco, «non sono opposti a dialogo e fiducia, ma sono due facce della stessa medaglia. Il fisco deve essere di sostegno al contribuente, ma anche inflessibile se necessario». Marcia indietro invece sull’esenzione dal pagamento del bollo per moto e auto euro 4 prevista dalla finanziaria. La maggioranza ha concordato infatti di presentare un emendamento che riduce tale tipo di agevolazione dirottando le risorse (160 milioni) ad un fondo per il trasporto pubblico. Tuttavia il partito del ministro Pecoraro Scanio, che aveva direttamente promosso la soppressione della norma, ha ritenuto «assolutamente insufficiente» la cifra di 160 milioni di euro e hanno proposto così di dirottare metà dei fondi inizialmente destinati alla ricerca e innovazione militare (4,4 miliardi in tre anni) al trasporto pubblico. Le imprese alzano la «soglia» Sul trasferimento del tfr all’Inps Confindustria fa la faccia dura e alza il prezzo: «devono essere esentate le imprese con meno di 100 dipendenti». Gli autonomi chiedono «tolleranza» sugli studi di settore Roma Le imprese sono davvero ingorde. Sul trasferimento all’Inps del 50% del tfr «inoptato», pesantemente contestato da Confindustria perché sarebbe «mortale per le piccole imprese», il ministro dello sviluppo, Pierluigi Bersani aveva provato a proporre una mediazione: fissiamo una soglia numerica di dipendenti al di sotto della quale l’impresa sarebbe esentata dal versare il tfr al fondo dell’Inps. Nella mattinata di ieri l’ex sindacalista cislino Sergio D’Antoni, ora viceministro proprio di Bersani, si era spinto ancora più in là: la soglia potrebbe essere individuata intorno ai «30-40 dipendenti», e quel «trasferimento deve valere per un anno solo, per dare il segnale che a noi sta a cuore la previdenza integrativa». Niente da fare. Gli stati maggiori di Confindustria, riuniti a Roma per la Consulta dell’associazione, stabilivano che «non bastava». Il niet arrivava da fonte autorevole: la soglia dei 30-40 è «un livello assolutamente inadeguato», addirittura «metterebbe un’altra barriera alla crescita, perché un’azienda con 41 addetti avrebbe tutto l’interesse a scendere a 39» (un argomento «circolare» già proposto ai tempi del referendum sull’art. 18). Pininfarina non ha voluto stabilire quale fosse la «soglia» accettabile, ma altri importanti esponenti dell’industria l’hanno fatto per lui. «100 dipendenti», ha ipotizzato sia Benito Benedini (ex presidente di Assolombarda), sia e soprattutto protesta, che raggiungerà Guidalberto Guidi, presidente de IlSole24ore e da sempre tra i leaders degli industriali italiani. Persino il più «dialogante» tra gli imprenditori, il presidente della Bnl Luigi Abete, ha suggerito che «bisogna trovare il modo per escludere le aziende con meno di 100 addetti». Nessuno di loro ha però spiegato perché le aziende con 101 dipendenti non dovrebbero trovare «conveniente» scendere a 99. Pretendere è naturalmente molto facile, ma c’è da rispettare il vincolo stabilito da Tommaso Padoa Schioppa: alla fine il rendimento previsto da una certa misura va comunque rispettato. Sarebbe perciò allo studio, da parte dei tecnici di via XX settembre, un’alternativa. In pratica una «franchigia», oltre la quale scatterebbe il criterio del numero di dipenden- ti. Per rispettare i saldi attivi attesi, però, sarà necessario compensare i vantaggi conferiti alle piccole e medie imprese (se scatterà la soglia dei «100») con penalizzazioni maggiori a carico delle imprese più grandi. In questo caso l’«inoptato» di queste imprese che finirà nel fondo Inps potrebbe essere superiore al 50%. La partita è dunque assai complessa, anche perché Confindustria non considera affatto la posizione di sindacati come la Cisl che, per bocca di Raffaele Bonanni, ha chiesto che «tutta la questione del tfr venga rimossa, perché è stata fatta scalcando il sindacato». L’obiettivo, in questo caso, è favorire lo scivolamento del tfr – che, ricordiamo, è «salario differito», di proprietà esclusiva del singolo lavoratore – verso i fondi pensione «negoziali» (cogestiti da sindacati e imprese). Altro soggetto in campo sono infine «autonomi, commercianti e artigiani», che hanno fatto fuoco e fiamme contro il «decreto Bersani», ma ora cercano un compromesso onorevole su tfr e contributi previdenziali. In un incontro svoltosi ieri – presenti Padoa Schioppa, Enrico Letta, Vincenzo Visco e Roberto Pinza – hanno ottenuto garanzie su una «ricalibratura robusta» della soglia di esenzione relativamente al tfr, mentre continuano a premere perché ci siano «meno automatismi per gli studi di settore». In pratica «più tolleranza» per le piccole imprese che dovessero dichiarare meno del Fr. Pi. previsto. E del credibile. Pagheranno invece di più i le due ruote più inquinanti: lo stabilisce un emendamento del governo con cui viene fissata una nuova tabella di sovrattasse per motocicli sopra i 50cc di cilindrata. Un emendamento della commissione esteri della Camera cancella invece la possibilità di rifinanziamento automatico delle missioni militari all’estero. «Era una delle richieste fondamentali da parte del Pdci di modifica della finanziaria – ha commentato il responsabile esteri del partito, Iacopo Venier – e continueremo a batterci perché non sia limitato il ruolo del parlamento in questa delicatissima questione». Della pioggia di emendamenti presentati al decreto fiscale quasi cento sino stati dichiarati inammissibili. Tuttavia sono troppi quelli che restano rispetta al poco tempo a disposizione per la discussione, visto che la legge si dovrà votare entro la fine dell’anno. Si profila dunque, secondo fonti di maggioranza e di governo, il ricorso alla fiducia sul decreto fiscale. Dopo le valutazioni di ieri sull’ammissibilità, sono ancora oltre mille gli emendamenti ancora in commissione. A questi vanno aggiunti poi gli eventuali subemendamenti presentati dall’opposizione. 8 il manifesto & capitale mercoledì 18 ottobre 2006 lavoro Alitalia, Cimoli non si dimette Prodi incontra l’ad di Alitalia che domani presenta il suo piano industriale. Cambio ai vertici? «Ai nomi pensiamo dopo», dice il premier. Il Nord sempre in guerra con Rutelli Manuela Cartosio E’ durato un’ora e mezza il faccia faccia tra Romano Prodi e l’amministratore delegato dell’Alitalia Giancarlo Cimoli. Al termine Palazzo Chigi ha diffuso una nota di due righe, inversamente proporzionale al mare di parole consumate in una settima sull’Alitalia alla canna del gas, con annessa querelle Malpensa-Fiumicino. «Nel corso dell’incontro sono stati esaminati la situazione dell’azienda e le opzioni strategiche che si prospettano, anche nel campo delle alleanze». Dunque, il coriaceo Cimoli non si è dimesso. In mattina il sollecito più esplicito perchè si facesse da parte era venuto dal ministro del lavoro Cesare Damiano. Un cambio al vertice della compagnia di bandiera? «Una soluzione possibile». Secondo voci (pilotate?) Cimoli potrebbe essere «promosso» presidente di Alitalia e «affiancato» da un nuovo amministratore delegato, Antonio Basile, da sei mesi al vertice di Aeroporti di Roma. La soluzione eviterebbe di pagare la lauta liquidazione a Cimoli (ma cosa saranno mai 8 milioni di euro per un’azienda che ne perde 211 in sei mesi) è però ri-scatenerebbe l’ira trasversale dei «nordici» contro il «partito di Fiumicino». Sui movimenti al vertice di Alitalia si capirà qualcosa dal consiglio di amministrazione di domani, convocato da Cimoli per presentare il suo piano industriale 2007-2009. Francesco Rutelli, istigatore della rinnova- Areoporto di Fiumicino ta diatriba Malpensa-Fiumicino, ieri era a Milano. Il posto giusto per diffondersi in spiegazioni rassicuranti. Diatriba «vecchia, figlia di un altro mondo, quando non c’erano le compagnie low cost», dice il vicepremier. La logica degli hub è superata, basta guerre di campanile, si torni ai collegamenti point to point. Rutelli comunque ha ripetuto che il vero nemico di Malpensa non è Fiumicino, sono Linate e Orio al Serio e ha ribadito che va cercato a Est un partner per Alitalia. Sulla sorte dell’azienda il ministro dei Beni culturali, con delega al turismo, è stato drastico: il piano che il governo proporrà entro gennaio «sarà l’ultima chiamata» per la Foto Andrea Sabbadini compagnia di bandiera. O si salva o fallisce. Il ministro dei trasporti Alessandro Bianchi schizza tre ipotesi per il futuro di Alitalia: lasciare che le cose si trascinino e portare i libri in tribunale, svenderla a prezzo d’incanto, provare a farla ridiventare un vettore significativo. Essendo ovvio che un ministro dica che il governo punta sulla terza, la sostanza della dichiarazione di Bianchi è la bocciatura dell’alleanza con Air France o con un pesce altrettanto grosso. Con un’Alitalia così debole e in condizioni di «totale subalternità», sarebbe «un’annessione di fatto». Con questi chiari di luna, aggiunge il ministro, evitiamo «nell’immediato» la lite tra Malpensa e Fiumicino. Il problema esiste, «ma non vorrei diventasse il gioco di società preferito». Anche il segretario dei Ds Piero Fassino cerca di sedare la «guerra campanilistica» tra Roma e Milano: «Perché i due scali non siano in conflitto tra loro e funzionino, occorre ci siano rotte, linee aeree e voli». Quindi, il primo problema è far uscire Alitalia da «una crisi drammatica». Poi si discuterà di come coniugare la vocazione nord e centro europea di Malpensa e quella mediterranea di Fiumicino. Per il diessino lombardo Antonio Panzeri, invece, la scelta tra i due hub va fatta ora. Ovviamente a favore di Malpensa. In piazza per salvare la produzione di maioliche I dipendenti delle ceramiche Bisazza in piazza contro la chiusura del sito di Spilimbergo. Sono a rischio 140 posti di lavoro. L’azienda è florida e non è affatto in perdita, ma è tentata dalla «via indiana»: delocalizzare a Est Orsola Casagrande Vicenza Hanno bloccato le statali 11 e 256, cioè le vie più trafficate per e da Vicenza. I 300 lavoratori della Bisazza di Alte (in provincia di Vicenza) hanno aderito compatti alla richiesta di solidarietà dei colleghi dello stabilimento di Spilimbergo che l'azienda ha annunciato la settimana scorsa di voler chiudere. La Bisazza è un marchio storico nei mosaici per bagni. Da anni ormai serve una fetta di mercato alta e ha conquistato prestigio. E' soprattutto un nome riconosciuto a livello internazionale. Nata nel 1956 per volontà di Renato Bisazza ad Alte con la produzione in serie di vetricolor, oggi conta 890 dipendenti, cinque show-room monomarca - a Milano, Berlino, Mosca, New York e Londra - e quattro stabilimenti produttivi. Ha nove filiali in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Russia, Stati Uniti, Australia, Cina e India, e una rete composta da oltre quattromila distributori. E l'azienda va bene. «E' un'azienda sana - conferma Fabrizio Nicoletti della Filcem di Vicenza - che lavora e produce». L'annuncio della chiusura dello stabilimento di Spilimbergo non giunge però come un fulmine a ciel sereno. «Purtroppo - aggiunge Nicoletti - è da un anno che riceviamo segnali poco simpatici dall'azienda». I vertici hanno comunicato ai sindacati la decisione di chiudere sostenendo che le tecnologie in uso a Spilimbergo sono ormai superate e che gli investimenti richiesti per ammodernarle sarebbero troppo consistenti. L'azienda poi sostiene di dover dirottare in misura sempre maggiore risorse verso la costruzione e il mantenimento della sua immagine: puntando a fasce alte di mercato, la Bisazza deve spendere molto per mantenere il suo nome tra l'elite dei marchi. In un settore, quello del mosaico da bagno, non facilissimo. Così i vertici aziendali hanno detto di avere un surplus di produzione e quindi di aver bisogno di rallentare i ritmi di produzione e ridimensionare organici. «Il prodotto che lavora la Bisazza - dice Nicoletti - è un prodotto di per sé povero, parliamo di vetro. Il successo del prodotto sta nella capacità dell'azienda di renderlo un marchio famoso e conosciuto». Nel gruppo Bisazza, oltre allo stabilimento centrale di Alte (trecento dipendenti di cui più della metà impiegati, visto che a Vicenza ci sono la sede amministrativa e quella commerciale), ci sono quello di Spilimbergo (140 dipendenti), uno più piccolo a Bergamo, e poi c'è lo stabilimento aperto in India. Qui lavorano trecento dipendenti. Ed è evidente che l'azienda, delocalizzando, ha anche cominciato a pensare al decentramento di molte attività produttive. Anche se il prodotto, come sottolineano ad Alte, non è qualitativamente come quello «Stop precarietà ora» si organizza Polemica sul «governo amico» Antonio Sciotto La macchina di «Stop precarietà ora» è avviata e il 4 novembre, alle 14,30 in Piazza della Repubblica, potrebbero raccogliersi migliaia e migliaia di persone. Una prova per il movimento, dal sindacato alle associazioni, ai partiti, impegnati nell’organizzazione. Ma non mancano le polemiche: il problema chiave è il rapporto con il governo, non nascondendosi che diversi mesi sono passati dall’assemblea dell’8 luglio al Brancaccio, e in mezzo c’è la finanziaria. Promossa - seppure con alcune riserve - dalla Cgil e (ovviamente) da Rifondazione, partito al governo. Ma Rifondazione comunista e gran parte della Cgil scenderanno anche in piazza, stanno organizzando «opposizione», perlomeno sui punti della piattaforma (abrogazione della legge 30, della riforma Moratti, della Bossi-Fini, chiusura dei cpt). Ieri un annuncio a pagamento sul manifesto, di una parte dei Disobbedienti, ha creato una polemica: scendete in piazza ma in realtà siete al governo, è tutta scena e se sarà così noi non ci saremo. Luca Casarini spiega che «l’8 luglio si incalzava un governo appena formato, mentre oggi delle scelte sono state fatte e sono tutte contro le fasce più deboli e i migranti: a questo punto non si può stare in piazza senza dire chiaramente che la nostra controparte è il governo Prodi, perché sta facendo politiche neoliberiste. Perché non chiudono i cpt? Perché votano il prelievo del Dna per tutti i fermati? Perché tagliano la scuola pubblica? Si può votare la finanziaria in Parlamento e nello stes- Assemblee e incontri in tutta Italia per preparare il 4 novembre. I Disobbedienti minacciano di uscire. La replica: «Piattaforma condivisa, non sarà un corteo di concertazione» so tempo scendere in piazza? Secondo noi no». Casarini è polemico soprattutto con il Prc: «Dopo il governo amico - spiega - adesso si vorrebbe la piazza amica, che faccia da sponda nel paese». Per Maurizio Zipponi, responsabile lavoro Prc, «non è affatto contraddittorio essere parte della maggioranza e lavorare per migliorare le cose anche partendo dalla mobilitazione. Anzi, non si possono spostare i rapporti di forza senza mobilitazione. Facciamo un esempio: grazie alla pressione della sinistra radicale oggi 520 mila immigrati hanno una risposta, sono regolarizzati, mentre Berlusconi li escludeva dai flussi. So bene che non è l’abrogazione della Bossi-Fini, che non è la chiusura dei cpt, ma tutti sappiamo che se hai un risultato buono poi parti da quello per avere ancora di più: ora stiamo lavorando per rimettere al centro il tempo indeterminato, nelle istituzioni e anche nella società civile. Molti di noi che oggi sono al Parlamento hanno storie di attivisti alle spalle. E i sindacalisti, gli ambientalisti, i pacifisti vogliono soprattutto risultati: solo gridare non serve, bisogna proporre». Per la Fiom parla la segretaria nazionale France- sca Re David: «Noi ci crediamo e stiamo facendo il massimo sforzo per esserci, ed essere numerosi. Il problema non è avere posizioni differenti, come in effetti ci sono, sul governo o sulla finanziaria, ma è quello di condividere una piattaforma che resta attualissima. Siamo tutti per l’abrogazione delle leggi 30, Moratti e Bossi-Fini, e non si può bloccare tutto perché la vediamo diversamente sulla finanziaria. Se la pensassimo allo stesso modo su ogni cosa, sarebbe davvero una strana democrazia». Giorgio Cremaschi, della Rete 28 aprile Cgil, spiega che «la coerenza del movimento si misura sulle battaglie concrete, ed è sbagliato fare un processo alle intenzioni. Quella piattaforma è quantomai attuale perché il governo ha dimostrato di non voler cancellare le leggi 30. Moratti e Bossi Fini. Su questi punti è chiaramente una nostra controparte. Bastino pochi esempi: la circolare Damiano sui call center, che istituzionalizza i cocoprò, il decreto proposto da Amato sugli immigrati, o il fatto che non si vogliono chiudere i cpt. E allora che faccio, siccome ci sono idee differenti sulla finanziaria non vado in piazza? Al contrario: la forza di Genova era stare insieme partendo da posizioni diverse». Piero Bernocchi, dei Cobas, spiega che «i Disobbedienti, più che attaccare dovrebbero partecipare: alla manifestazione no Tav e no Ponte loro erano in piazza, e dal palco hanno parlato esponenti del governo. Il 4 novembre invece non parlerà nessuno del governo, mentre dal palco ci sarà chi attacca la finanziaria "ammazza-precari" e la circolare Damiano. Quella manifestazione è tutto tranne che concertativa e questo lo diremo chiaramente». italiano, è chiaro che i risparmi in India sono maggiori. Ieri i lavoratori di Alte hanno manifestato chiassosi per le vie di Vicenza, dimostrando solidarietà ai compagni di Spilimbergo e chiedendo all'azienda di ritornare sui suoi passi. Le organizzazioni sindacali friulane hanno già incontrato le istituzioni, il sindaco, la regione, ma adesso chiedono all'azienda almeno di recedere da una decisione così drastica come la chiusura, optando magari per una ristrutturazione progressiva. In realtà però i margini di manovra sembrano assai limitati. A casa rimarranno 140 lavoratori per i quali difficile è una ricollocazione, come sempre in questi casi. La cosa che fa più rabbia, e l'hanno ripetuto i lavoratori ieri con i loro slogan e i loro cartelli, è che l'azienda va bene. Il prodotto vende, non è in crisi. Ma di fronte alla «necessità di rimanere competitivi» i datori di lavoro, hanno detto ieri i dipendenti, sono disposti a tutto. notizie Usa Prezzi alla produzione in calo a settembre dell’1,3% I dati diffusi ieri dal Dipartimento del lavoro, indicano una diminuzione dei prezzi alla produzione dell’1,3% a settembre. Gli analisti prevedevano un calo dello 0,7%. Ad agosto i prezzi, invece erano aumentati dello 0,1%. Il calo di settembre è quello più significativo dall’aprile del 2003. Il dato risente della diminuzione dei prezzi del settore energetico, con una perdita dell’8,4%, grazie alla diminuzione del prezzo della benzina del 22,2%. Il costo del carburanti è sceso del 18,5%. Infatti l’indice ’corè per il mese di settembre (calcolato al netto dei prodotti energetici e alimentari) ha segnato un aumento dello 0,6%, contro la crescita su base annua del 1,2%. L’aumento più significativo si registra nel settore auto con un +2,8%, incremento maggiore dal 1990. Ieri, la Federal Reserve ha diffuso il dato che riguarda la produzione industriale, che nel mese di settembre ha registrato una perdita dello 0,6%. La diminuzione più mancata da settembre del 2005. Invece su base annua, la produzione industriale è aumentata del 5,6% e il livello di utilizzo degli impianti è incrementata del 2,8%. Tra i vari settori la produzione manifatturiera è calata dello 0,3%, mentre quella mineraria è salita dello 0,7%. La produzione delle utility ha fatto registrare una diminuzione del 4,4%. Roma Urbe all’asta: inizia il presidio dei vigilantes a Montecitorio Questa mattina, davanti al parlamento, si sono riuniti gli oltre 900 lavoratori dell’Ancr-Istituto Vigilanza Urbe, per protestare «contro la precarizzazione e la cessione dell’istituto». Lo sciopero è stato organizzato dal RdB-CUB, sindacato che aderisce alla confederazione unitaria di base. lavoratori hanno iniziato il presidio davanti a Montecitorio, che verrà ripetuto oggi dalle 8 alle 14, mentre il 19 ottobre, si svolgerà lo sciopero e la manifestazione conclusiva davanti al Parlamento. I dipendenti protestano contro la decisione dell’Ancr «di aver messo all’asta lo storico istituto» di vigilanza Urbe, «senza aver mai dichiarato lo stato di crisi dell’azienda». Inoltre i sindacati ricordano che «gli stipendi di settembre sono stati decurtati dell’85%». Nel frattempo, gli onorevoli Burgio e Bonelli, hanno presentato un’interrogazione parlamentare, che verrà discussa davanti alla Commissione lavoro, proprio il giorno della manifestazione conclusiva davanti al Parlamento. Germania Airbus taglia mille posti Via gli interinali Airbus, controllata di Eads, ha annunciato che «non prolungherà alcuni contratti con società di lavoro interinale» in Germania, il che porterà a tagli di mille posti su un totale di 7.300 nel Paese.Tali iniziative, che mirano a una «maggiore flessibilizzazione», coinvolgeranno tutti i sette siti del gruppo in Germania, dove Airbus impiega in totale 22 mila addetti. Pile Sony difettose Ben 8 milioni al ritiro Chissà se la ventilata decisione di Toshiba di chiedere un risarcimento alla Sony per il danno alla propria immagine e al marchio procurato dai richiami a catena delle scorse settimane per la storia ormai famosa delle batterie al litio difettose, produrrà a sua volta una reazione a catena da parte dei colossi dell’informatica. Dopo il sasso Infiammabili lanciato da ToshiUno dopo l’altro ba, in casa Sony i big dell’alta a questo punto tecnologia una certa preocordinano cupazione serpegla restituzione. gia. E a ragione. Ultime Toshiba Non era bastata a e Fujitsu rassicurare i propri partner, evidentemente, la clamorosa decisione annunciata qualche tempo fa dal colosso nipponico che parlava di ritiro globale dal mercato di tutte le batterie incriminate, con successive sostituzioni delle stesse, il cui costo sarebbe stato interamente sostenuto dalla stessa Sony. Una dichiarazione d’intenti, seppur supportata in euro, evi- dentemente non sufficiente. Nei giorni scorsi intanto anche la Sharp, ultima in ordine cronologico, aveva aderito al programma di ritiro di Sony col richiamo di 28mila batterie, tutte vendute in Giappone, mentre la Fujitsu ha annunciato di aver aggiunto altri 51mila richiami di notebook ai precedenti 287 mila. E se a questo, notizie dell’ultima ora, aggiungiamo l’annuncio a Tokio di una ulteriore campagna di richiamo in casa Sony per oltre 60 mila notebook della popolare serie Vaio arriviamo ad un totale di circa 8 milioni di batterie ricaricabili da sostituire in tutto il mondo. Punto e non a capo, visti i continui aggiustamenti ormai quasi giornalieri. E per restare ai numeri in rosso, in particolare quelli che circolavano ieri mattina sulla stampa giapponese, c’è da registrare finora una perdita di circa 130 miliardi di yen (879 milioni di euro) per la società giapponese. Perdita da addebitare principalmente alla questione delle batterie difettose ma anche ai ritardi nella produzione e commercializzazione di Playstation 3). P. Cor. il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 & politica 9 società «Basta con Ruini» Il cardinale Camillo Ruini. Foto Ap Bioetica, difesa della vita e uso dei fondi. Tra i cattolici di base monta la fronda contro il cardinale a capo della Cei. Alla testa il direttore di Nigrizia Mimmo de Cillis* Via Ruini. Niente soldi alle banche armate. Ricordarsi della vita umana anche durante le guerre e non solo quando si parla di embrioni. Circola una lunga lista di cahiers de doléances fra i 2.700 delegato del Convegno ecclesiale in corso a Verona. Una serie di lamentele che giungono da persone, associazioni, movimenti e che fermentano alla base della chiesa italica. Sono pensieri generalmente condivisi, desideri spesso inespressi, per un senso antico di obbedienza alle gerarchie o per clericalismo, ovvero per la sottomissione del laicato alle scelte, insindacabili, di chierici e prelati. «Ma nella chiesa italiana si avverte fortemente, dalla base, l’esigenza di un profondo rinnovamento», nota Carmine Curci, missionario comboniano, direttore del settimanale Nigrizia. Un tipo coraggioso, come i suoi predecessori Alex Zanotelli e Pier Maria Mazzola che le hanno «cantate» ai vertici della Conferenza episcopale, pagando di persona con l’allontanamento dalla direzione della rivista. Questa volta Curci invoca «il coraggio di cambiare», chiedendo a chiare lettere le dimissioni del cardinale Camillo Ruini, da 15 anni inchiodato alla poltrona di presidente dei vescovi italiani. Come segnale di rinnovamento, di una nuova stagione. «Ci si chiede – fra l’altro, nota Curci – se non è tempo che i vescovi italiani chiedano al papa di poter scegliere il loro presidente. È l’unica conferenza episcopale al mondo il cui presidente non è eletto dai vescovi ma dal Vaticano». Secondo padre Carmine «gli stessi vescovi condividono questo desiderio», che darebbe maggiore autonomia alla chiesa italiana. Nel chiedere un «cambio radicale», il missionario nota anche che, nella fase preparatoria del convegno veronese, sono mancate «tutte quelle persone e gruppi scomodi che sono stati allontanati dalla chiesa ufficiale. Eppure questi esclusi sono una grande ricchezza della chiesa italiana, perché a contatto costante con le periferie della società». Altro capitolo che suonerà stonato agli orecchi dei papaveri della Cei è quello sull’impiego dell’ingente flusso di denaro gestito dalla chiesa italiana. La «Campagna banche armate», lanciata dalle riviste Mosaico di Pace, Missione Oggi e Nigrizia, e condivisa da una serie di associazioni, chiede «uno stile di vita nuovo, una comunità nuova, alternativa» anche nella gestione del denaro: che almeno non finisca in istituti bancari che fanno investimenti moralmente discutibili, come finanziare il commercio di armi. A chiedere poi un «discernimento a tutto campo» è Pax Christi che, in un documento elaborato per il convegno di Verona, sottolinea uno dei cronici mali della chiesa italiana: quello di alzare la voce per difendere gli embrioni e di tacere quando si tratta di vittime delle guerre. Il movimento afferma: «Oggi, quando si affrontano i temi della vita e della famiglia, in particolare della bioetica, spuntano due schieramenti contrapposti, che dividono il mondo in bene e male, in buoni e cattivi. Da una parte c’è chi ripropone costantemente i diritti dell’embrione, il superamento della legge 194, il rifiuto dei patti di solidarietà civile, quasi ossessionato dalla sessualità e dalla bioetica. Quasi indifferente al fatto che al mondo ogni sei secondi muore un bambino per fame, ogni minuto muore una donna per parto, mentre si spendono cifre spaventose per sviluppare il sistema della guerra». Pax Christi ricorda che »nessuno può credere a chi si accalora per difendere il diritto alla vita degli embrioni ma non sembra interessato alla vita delle persone nate sempre e ovunque». * Lettera22 notizie Appello Stati uniti Difendiamo i precari a processo per gli «espropri» Via libera a carne e latte da animali clonati Arrivano la carne e il latte clonati sulle tavole degli americani. Dieci anni dopo la creazione della pecora Dolly le autorità sanitarie americane hanno deciso di dare luce verde alla vendita di carne e latticini provenienti dal bestiame clonato. «Il nostro giudizio è che il cibo proveniente da animali clonati offre le stesse garanzie per la salute pubblica del cibo che già consumiamo», ha affermato Stephen Sundlof, capo della medicina veterinaria della Food and drug administration, che da tre anni sta studiando il problema. Secondo il quotidiano Washington Post il via libera ufficiale della Fda, ormai deciso, dovrebbe essere annunciato entro la fine dell'anno. Numerose compagnie americane stanno sviluppando da tempo l’industria degli animali clonati in attesa di invadere in modo massiccio il mercato non appena ricevuta l’autorizzazione. Ma una petizione è già stata presentata alla Fda dal «Centro per la sicurezza alimentare» perché la concessione di licenze per la vendita di carne clonata sia regolata dalle stesse restrizioni che regolano le vendite dei medicinali: ogni diverso prodotto deve ottenere la sua licenza. Islanda Il governo riprende la caccia commerciale alle balene Il governo islandese ha deciso di riprendere la caccia commerciale alla balena, diventando così il secondo paese dopo la Norvegia a praticarla. «Questa ripresa non minaccia le specie in pericolo», afferma in un comunicato il governo islandese, che nel 1990 aveva vietato la caccia alla balena. La decisione è arrivata a quattro mesi dalla risoluzione della Commissione baleniera internazionale che giudicava «non più necessaria d'ora in avanti» la moratoria sulla caccia. Spagna La ’ndrangheta non si arrende: bruciata l’auto all’esponente Ds, molotov contro il presidente della provincia di Crotone Francesco Paolillo Reggio Calabria «Sindaco vattene». Vibo Valentia è tappezzata di manifesti di Forza Italia che invitano il primo cittadino, il diessino Franco Sammarco, a lasciare. Prima degli azzurri, però, sono stati An e la Cdl più in generale a conquistare i muri contro quel primo cittadino accusato dal centrodestra locale di avere gestito «allegramente» i fondi destinati agli alluvionati del tre luglio scorso. Una sciagura che fece cinque morti e piegò un intero territorio. Ad oggi il sindaco Sammarco è sempre al suo posto ma con un’automobile in meno. Ignoti, due notti fa, hanno cosparso di benzina la sua Opel Corsa, parcheggiata sotto casa, e l’hanno data in pasto alle fiamme. L’ultimo affronto della ‘ndrangheta ad amministratori pubblici calabresi si è consumato lo stesso giorno in cui Locri celebrava il primo anniversario dell’uccisione di Franco Fortugno, il vicepresidente del consiglio regionale finito a colpi di pistola in un seggio per le Primarie dell’Unione. In Calabria i fiori per i morti ammazzati non fanno in tempo ad appassire che i clan tornano a gonfiare il petto. Da queste parti il clima è teso. In meno di una settima- Offensiva delle ’ndrine, sindaco di Vibo nel mirino na, contro la criminalità la regione ha accolto il premier Romano Prodi, il suo vice, Francesco Rutelli, vari ministri della Repubblica ed il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. In tre giorni, le ‘ndrine hanno ordinato l’incendio, a colpi di molotov, del portone del presidente della Provincia di Crotone, Sergio Iritale, anch’egli esponente della Quercia, e la distruzione della macchina del sindaco di Vibo. Insomma, la mafia si fa beffa degli impegni della politica. Mostra i muscoli e quella spocchia che per lei è un punto di forza. Roba, però, da non intimidire il primo cittadino vibonese. Franco Sammarco non molla anche se, dice, «siamo arrivati alla barbarie». Si sentiva nel mirino da tempo. E il centrodestra non l’ha aiutato: «Sta conducendo una campagna denigratoria che non solo distorce la realtà, ma trama anche di notte con manifesti insulsi che incitano alla violenza». Un concetto ripreso pure dal governatore della Calabria, Agazio Loiero, che diffida dall’ «innescare campagne di odio». «E’ pericoloso – afferma - Un episodio così potrebbe anche esserne il frutto indesiderato e magari non perseguito». Franco Sammarco è sindaco dall’aprile 2005. Il 65% dei vibonesi lo preferì a Valerio Grillo. In poco più di un anno, tuttavia, il suo governo è stato attraversato da turbolenze inaspettate come, subito dopo le Politiche, la nascita del Partito democratico meridionale, il movimento del presidente della Regione Loiero. Al nuovo soggetto hanno aderito, nell’assemblea cittadina, nove consiglieri (quasi la metà degli eletti) ed un ex assessore, Antonino Diffinà. Da sette mesi, qui, l’Unione ha il suo bel da fare anche col Pdm che, una volta uscito dalla giunta, ha garantito l’appoggio esterno. Insomma, il terreno sul quale il sindaco si trova a lavorare è abbastanza tortuoso. Da una parte sette mesi di tribolazione col proprio schieramento, dall’altra l’inasprirsi dello scontro con l’opposizione. Adesso, gli occhi della ‘ndrangheta puntati addosso. Al gesto criminale è subito seguita una cascata di solidarietà. Dai Ds è arrivato l’abbraccio del segretario nazionale Piero Fassino, del senatore Nuccio Iovene, del presidente del consiglio regionale Peppe Bova, dell’assessore dell’esecutivo Loiero Nicola Adamo e del segretario regionale Carlo Guccione. Vicinanza al sindaco l’ha manifestata pure la Margherita. Fra i dielle, spiccano le parole della parlamentare Maria Grazia laganà, vedova di Franco Fortugno. Da lei l’ennesimo appello: «E’ il momento di reagire». Lesbiche ed entrambe mamme, storica sentenza Madre 1 e madre 2, vale a dire entrambe mamme. Con questa semplice operazione una giudice di Algeciras, nel sud della Spagna, ha corretto la discriminazione contenuta nella legge sulla fecondazione assistita approvata nel marzo scorso dal Parlamento spagnolo. La norma prevede che se una coppia eterosessuale, sposati o conviventi, ricorre alla riproduzione assistita con lo sperma di un donante, il padre diventa tale con il semplice riconoscimento del figlio. Se invece si tratta di una coppia gay, il coniuge deve procedere all'adozione del bambino partorito dalla sua metà per vedersi riconosciuto come genitore. «Per me vuol dire che mi considerano meno madre e le procedure sono lunghe e complesse», si lamenta Antonia, sposata con Maria Angeles. Due settimane fa Maria Angeles ha partorito un bebé e lunedì entrambe sono andate dal giudice di Prima istanza di Algeciras per registrare il neonato nel Libro di Famiglia, ma senza molte speranze: la legge dice che non possono. Ed invece la giudice capisce le loro motivazioni e le annota entrambe come madri. Ora il ministero della salute si dice disposto a cambiare la norma, mentre quello di giustizia dice che bisogna mantenere la legalità. Ma nel governo Zapatero e non solo si è aperta la partita. A. D'Arg. Rete per il reddito sociale i per i diritti Nella nostra democrazia italica uno strano rapporto riguarda i fatti e le parole. Capita così di apprendere che la Finanziaria colpisce i ricchi e redistribuisce ai poveri o, piuttosto, che la precarietà è il male del secolo alla cui cura tutti si devono dedicare con attenzione, generosità e premura. Succede anche che oggi prenda avvio un maxi-processo che vede coinvolti 105, tra attivisti e giovani precari, il cui tema è, nè più nè meno, quello della precarietà e di una redistribuzione equa delle risorse e della ricchezza. Uno strano cortocircuito dunque: ciò che in un processo, dal sapore caricaturale d’altri tempi, diviene «rapina pluriaggravata» (un reato che prevede pene dai 6 ai 20 anni), nell’alveo solido delle istituzioni acquista giustezza e rilevanza morale. Di cosa parla, infatti, questo processo? Parla in primo luogo di una grande giornata di lotta alla precarietà e per un reddito garantito che si è svolta a Roma il 6 novembre del 2004. 40 mila precari hanno portato la loro gioia e le loro parole d’ordine per un nuovo welfare nel centro della città. Collettivi di base di lavoratori atipici, centri sociali, studenti universitari, occupanti di case, sindacati di base. Reddito garantito, questa la formula complessa attorno alla quale far convergere diritti di cittadinanza e nuovo welfare, servizi e accesso alla formazione, diritto alla casa e autogestione. Proprio la questione del reddito garantito e della critica al carovita sono state al centro non solo della manifestazione, ma anche delle azioni di denuncia che si sono svolte durante la giornata presso il centro commerciale Panorama e la libreria Feltrinelli. Lo stesso cortocircuito tra fatti e parole di cui parlavamo sopra ha spinto una stampa assetata di scoop o semplicemente forcaiola e accecata dai risentimenti a sfoderare il vecchio armamentario linguistico degli anni ’70: l’«esproprio proletario» e lo spettro degli anni bui della repubblica, gli anni della violenza politica, gli anni dell’illegalità diffusa. Si potrebbe discutere a lungo dell’uso - sempre elastico con il potere, sempre rigido con i movimenti - che in questo paese si fa del perimetro della legalità. Ma ciò che ci sta più a cuore, in questo momento, è riparlare dei fatti e dei temi della giornata del 6 novembre. In primo luogo sgomberando il campo dall’accusa che viene mossa: le azioni di denuncia del carovita e del copyright che si sono tenute in quella giornata sono state azioni pubbliche e pacifiche. Qualcuno ha mai visto compiere rapine in modo pacifico, senza travisamento del volto, alla presenza di operatori dell’informazione e forze dell’ordine? È evidente che tra i fatti e le parole la distanza è incolmabile e stigmatizzare come rapina la giornata del 6 novembre significa voler rimuovere il nocciolo tematico che quella giornata porta con se: nuove condizioni di giustizia sociale vanno determinate e tutto questo non può essere fatto senza prendere sul serio la richiesta di reddito avanzata dai precari. Quest’opera di rimozione, inoltre, ha un carattere ancora più grave se, al di fuori delle aule di tribunale, la politica di governo non smette di parlare del danno della precarietà e della necessità di costruire nuovi diritti per chi diritti non ne ha. Tutto ciò, infine, è ancora più insopportabile se, in tempo di indulto, 12 attivisti e precari sono ancora costretti (dal 24 giugno) all’obbligo di firma. Riteniamo, dunque, indispensabile ricostruire un discorso pubblico forte attorno alla precarietà e all’esigenza di un reddito garantito, a partire dalla difesa dei 105 precari coinvolti nel processo che prenderà inizio (con l’udienza preliminare) questa mattina presso il Tribunale di Roma a piazzale Clodio. Nella consapevolezza che è necessario, al fianco delle intensificazione delle lotte per una nuova giustizia sociale, la costituzione di un nuovo garantismo che parli di amnistia e depenalizzazione dei reati sociali. 10 il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 internazionale Approvata definitivamente dal senato la missione Unifil. Ma l’Unione si spacca sulla «costituzionalità» dell’intervento militare in Iraq. No di Verdi-Pdci e Prc, sì dell’Ulivo. In finanziaria resta il miliardo di euro per tutte le missioni all’estero da proporogare con decreto annuale e non più semestrale. Si tratta ancora sul comitato di monitoraggio Matteo Bartocci Roma R umorosamente al senato e più silenziosamente nelle varie commissioni che alla camera stanno esaminando la legge finanziaria, il centrosinistra torna a dividersi sul futuro delle missioni militari all’estero. Il senato ha approvato definitivamente la missione Unifil in Libano (272 sì, 15 no e 2 astenuti) ma poco prima del voto la maggioranza si è divisa sull’ordine del giorno presentato da An che legittima di fatto la presenza italiana in Iraq anche se a un passo dal ritiro: contrari Verdi-Pdci e Lega, astenuto il Prc. Astensione allarmata sempre di Rifondazione in commissione difesa a Montecitorio sull’aumento a 1,7 miliardi delle spese per armamenti previste nel bilancio 2007 e unanimità molto guardinga in commissione esteri sul controverso fondo di un miliardo per tutte le missioni militari all’estero. Sono tutti segnali che, pur lontano dai grandi riflettori e segnati da qualche tatticismo, dimostrano il disagio dell’ala pacifista dell’Unione sulle scelte strategiche di fondo della politica estera del governo Prodi. La fedeltà alle strategie atlantiche e statunitensi adottata dall’Ulivo (correntone incluso) mette nell’angolo le sinistre parlamentari e il movimento pacifista che pure hanno puntato sul governo dell’Unione per una politica alternativa al centrodestra. Con il no delle sinistre (l’astensione a palazzo Madama equivale al voto contrario) il senato ha approvato l’ordine del giorno Fini-Storace che esprime apprezzamento per le forze armate im- Unione, sì al Libano «ni» all’Afghanistan pegnate in tutte le missioni, Iraq compreso, nel rispetto dei valori espressi dall’articolo 11 della Costituzione. Una scelta avallata all’epoca da Carlo Azeglio Ciampi e riproposta a mo’ di trappola dalla Cdl nell’ultima discussione alla camera. In quell’occasione Massimo D’Alema aderì a nome del governo senza nemmeno far votare l’aula, al senato almeno è stato concesso di votare e di marcare i doverosi distinguo. Divergenze strategiche registrate anche in commissione difesa a Montecitorio, dove i deputati del Prc (Deiana, Cannavò e Duranti) si sono astenuti sulla parte della finanziaria che por- ta lo stanziamento per il rinnovamento tecnologico della Difesa a 1,7 miliardi di euro. Più soddisfacente invece l’intesa raggiunta in commissione esteri. E’ stato approvato all’unanimità lo stralcio di tutti i commi (ai limiti della costituzionalità) dell’articolo 188 sul «fondo per le missioni all’estero» lasciando solo la sua istituzione pari a 1 miliardo di euro all’anno. Una cifra in linea con gli stanziamenti precedenti (circa 490 milioni ogni sei mesi). «Il fondo per le missioni è una decisione di serietà e di trasparenza - avverte il capogruppo del Prc alla camera Gennaro Migliore - perché con la Cdl le mis- Kalaway, un gruppo di soldati del Battaglione San Marco in marcia nel sud del Libano Foto Ap sioni venivano finanziate pescando in modo creativo dall’8 per mille (Prodi invece ha usato per Unifil il maggiore gettito fiscale, ndr), ed è un accordo soddisfacente perché anche se con un decreto annuale e non più semestrale abbiamo evitato che fosse il governo e non il parlamento ad avere l’ultima parola sulle missioni militari». «Un buon compromesso», conferma Luciano Pettinari della sinistra Ds. Alla fine il relatore in commissione, il Ds Valdo Spini, è soddisfatto: «Aver chiuso all’unanimità è un successo della maggioranza, ora però il governo deve fare chiarezza sui fondi per la cooperazione che anche se sono stati aumentati rischiano di essere cancellati dal debito di 150 milioni che il governo Berlusconi non ha mai versato all’Onu per il fondo globale per la lotta alla malaria, alla fame e alla tubercolosi». L’intesa raggiunta ieri, ovviamente, presenta ombre e non convince del tutto i cosiddetti «dissidenti»: «Il decreto annuale è un motivo in più per votare no alla missione in Afghanistan», avverte Salvatore Cannavò del Prc, che però riconosce favorevolmente l’avvio del fondo ad hoc. Resta infine ancora aperta la questione sul famigerato «monitoraggio» delle missioni, approvato in estate ma ancora mai partito. Nella maggioranza si lavora su due comitati delle commissioni esteri e difesa che lavoreranno in modo congiunto per valutare l’evolversi della situazione e ascoltare Ong e società civile. E’ evidente che il precipitare della guerra in Afghanistan rende questo strumento necessario anche se non ancora sufficiente per l’agognata «exit strategy» da Kabul. «Regole d’ingaggio da occupanti» Stefano Chiarini L’annuncio, alcuni giorni fa, delle regole di ingaggio «rinforzate» dell’Unifil, che secondo un manuale dei servizi spagnoli distribuito al contingente iberico in Libano, potranno procedere in prima persona contro la resistenza libanese a sud del fiume Litani e non più limitarsi a sostenere l’esercito di Beirut, rischia di porre fine alla luna di miele tra le truppe Onu, la popolazione sciita del sud, la resistenza e l’esercito libanese. A poche ore da una prima, dura presa di posizione contro le truppe multinazionali dell’ayatollah Hussein Fadlallah - il più influente esponente religioso sciita, in passato considerato la guida spirituale degli Hezbollah - secondo il quale le forze dell’Unifil II sarebbero state inviate nel sud del Libano solamente per proteggere Israele, ieri è sceso in campo con una conferenza stampa il generale (in pensione) Amin Hoteit, rappresentante non ufficiale dei settori «nazionali» e «patriottici», in gran parte sciiti, ma non solo, maggioritari nelle for- ze armate della repubblica dei cedri. L’autorevole esponente dell’establishment politico-militare libanese - incaricato nel 2000 di verificare il ritiro israeliano e di negoziare con l’Onu la linea di confine tra il Libano e Israele - ha sostenuto che le regole di ingaggio rese note dall’Unifil, al di là della volontà politica dei singoli governi, trasformeranno con il tempo i contingenti multinazionali nel Libano del sud in truppe occupanti e questo «farà di nuovo esplodere la situazione». Nel corso della conferenza stampa è stato inoltre reso noto un memorandum inviato al Segretario generale dell’Onu nel quale si chiede all’Unifil di attenersi alla lettera della risoluzione 1701 sul «cessate il fuoco» e a non proporre progetti - come il controllo delle acque territoriali, della frontiera con la Siria, degli aeroporti, dello spazio aereo - che porrebbero il Libano sotto una sorta di nuovo mandato coloniale internazionale. In particolare - ha sostenuto il generale Hoteit mentre la risoluzione 1701 stabilisce che la missione Unifil ha il compito di sostenere l’esercito libanese e di monitorare il cessate il fuoco, le rego- le di ingaggio invece sembrerebbero autorizzare i contingenti multinazionali ad usare direttamente la forza, nel caso l’esercito libanese non possa o non voglia farlo, per impedire che nel Libano del Sud vengano portate avanti «attività ostili». Secondo Hoteit il riferimento alla necessità di reprimere ogni «atto ostile» lascerebbe troppi margini di discrezionalità e darebbe il via libera allo scioglimento di riunioni, a perquisizioni di uffici e automezzi e, in caso di rifiuto o di resistenza, ad arrestare persone e ad aprire il fuoco. Se ciò dovesse avvenire ha ammonito il generale - potrebbe esplodere non solo il Libano del sud ma tutto il paese. Al generale Hoteit e ad Hussein Fadlallah ha risposto ieri indirettamente il premier italiano Romano Prodi in un’intervista esclusiva al quotidiano progressista «As Safir» - ma senza entrare nel merito delle regole di ingaggio: «Le forze dell'Unifil sono in Libano - ha sostenuto Prodi per mantenere la pace e non certo per intromettersi nei complicati affari politici libanesi». Il premier italiano non ha escluso che «potranno verificarsi degli incidenti isolati» ma, ha ripetuto cercando di convincere i suoi scettici interlocutori, «la missione delle nostre truppe è di pace». Monito all’Unifil del generale Hoteit espressione dei settori «nazionali», in gran parte sciiti, dell’esercito libanese: Non interferite con la resistenza o il Libano esploderà. Prodi ad «As Safir»: E’ missione di pace Nei villaggi del sud, dove l’incubo delle cluster bomb durerà anni Migliaia d’ordigni micidiali Un milione di bombe a grappolo sul Libano, già una ventina di morti, agricoltura danneggiata. E Israele non fornisce all’Onu le mappe delle zone più colpite Michele Giorgio Inviato a Deir Qanun L a sigla di colore rosso su un mattone sistemato a pochi centimetri da una scatoletta nera è inquietante. «CB», cluster bomb, bomba a grappolo. Due parole che sono diventate un incubo per decine di migliaia di libanesi che vivono nel sud del paese e che continueranno ad esserlo per anni. «Avevo sentito durante un programma televisivo che dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi, perché i nostri terreni sono pieni di queste cluster bomb sganciate dagli israeliani sul Libano (durante la guerra della scorsa estate, ndr) ma non mi aspettavo di trovarne una proprio nel mio giardino», racconta Hassan Remlawi, di Deir Qanun, indicando il mattone con la scritta «CB». «Qualche giorno fa, mentre ero seduto davanti casa, ho visto vicino all’albero un oggetto strano. Ho telefonato a mio fratello che mi ha detto di tenermi a distanza di sicurezza, perché probabilmente era una di quelle dannate bombe. Aveva ragione». Da allora Hassam Remlavi e la sua famiglia vivono nel timore che l’ordigno esploda all’improvviso, magari a cau- sa del passaggio di un gatto o di un altro animale. Gli artificieri della «Mag» - un’organizzazione non governativa britannica che si occupa di sminamento in Libano del sud - hanno promesso che arriveranno al più presto. Ma sino a quel momento la famiglia Remlawi vivrà nell’ansia. Gli specialisti della Mag vengono da vari paesi, in gran parte sono ex militari divenuti pacifisti, che hanno deciso di impegnarsi per salvare vite umane in Libano del sud. «È una corsa contro il tempo, perché ogni volta che scopriamo e facciamo brillare uno di questi ordigni sparsi dagli israeliani vuol dire che un essere umano, soprattutto un bambino, ha un pericolo in meno dal quale guardarsi», dice Alain, francese, giunto a Deir Qanun nelle scorse settimane, dopo aver trascorso 12 anni nello sminamento marino per conto di una società privata. Chiuso nella sua tuta da lavoro protettiva, con la visiera del casco abbassata sul volto, Alain passa le giornate assieme ai suoi colleghi alla ricerca delle cluster bomb. «Sappiamo dove sono le concentrazioni maggiori di questi ordigni oppure ci chiamano gli abitanti - spiega -, per il momento ci stiamo impegnando nella bonifica di edifici e giardini pubblici, strade e case, i luoghi più popolati e frequentati. Questo lavoro richiederà anni, ma non ci perdiamo d’animo». Il cauto ottimismo di Alain non basta a placare la paura in decine di villaggi. Nel Libano meridionale infatti potrebbero trovarsi almeno un milione di bombe a grappolo israeliane e sino ad oggi lo Stato ebraico non ha acconsentito a fornire all’Onu informazioni dettagliate sulle incursioni nelle quali sono state utilizzate queste armi insidiose e letali. Dal cessate il fuo- notizie Russia/1 La polizia attacca un corteo per la Politkovskaja Botte e feriti a Nazran, capoluogo della repubblica caucasica di Inguscezia, quando alcune decine di persone hanno tentato di tenere una manifestazione di protesta contro l’uccisione della giornalista Anna Politkovskaja, che aveva dedicato gli ultimi anni del suo lavoro alla denuncia dei misfatti compiuti dagli uomini di Putin in Cecenia e proprio in Inguscezia. La polizia ha attaccato furiosamente i manifestanti, ferendone diversi. Una giovane attivista dell’Associazione per i diritti umani Memorial ha avuto il naso fratturato. Motivo dell’attacco, «nello statuto dell’Associazione non è previsto che organizzi manifestazioni in strada». Russia/2 Immigrato georgiano muore mentre viene deportato Un immigrato «irregolare» georgiano è morto ieri mentre veniva caricato su un aereo per essere deportato, insieme ad altri 160, da Mosca a Tbilisi. L’uomo era detenuto da cinque giorni, nel quadro delle continue retate antigeorgiane in corso in Russia, e aveva inutilmente chiesto l’intervento di un medico. In queste ore la Ue sta decidendo se e come condannare Mosca per le repressioni «etniche» contro i georgiani. Iran L’Unione europea: «Pronti ad appoggiare sanzioni» L’Unione europea appoggerà «sanzioni limitate» contro Tehran. Dopo il rifiuto di sospendere l’attività di arricchimento dell’uranio, i ministri degli esteri dei 25 si sono detti pronti a sostenere sanzioni del Consiglio di sicurezza. Allo stesso tempo, hanno ribadito che la porta dei negoziati resta aperta ed esortato l’Iran a mostrare segnali positivi. «La palla sta nel campo di Teheran e sta a loro agire», ha dichiarato il commissario Ue per la relazioni esterne Benita Ferrero Waldner. Eritrea 1500 soldati invadono la zona cuscinetto Circa 1.500 soldati eritrei, coperti da una dozzina di mezzi blindati, sono penetrati della zona cuscinetto di frontiera con l'Etiopia, larga 25 km. lungo tutti i circa 1.000 di confine tra i due paesi. Lo denuncia oggi in un comunicato l'Onu, i cui soldati sono i soli che possono pattugliare la zona di sicurezza. Per l'Onu, si tratta di una fragrante violazione degli accordi di pace di Algeri del 2.000. La prima reazione di Addis Abeba era stata abbastanza dura, ma poi in serata un messaggio del premier ed uomo forte Meles Zenavi ha stemperato la tensione. «Non risponderemo militarmente - ha detto - a queste provocazioni minori». L'Eritrea, invece, ha avuto una singolare reazione. Innanzitutto ha rivendicato che trattandosi di territorio eritreo può operarvi a piacimento. Poi ha sostenuto che in quell'area è tempo di raccolta, e che i soldati erano andati a dare una mano. *Errata corrige Per una dimenticanza, nella foto del calendario di Gabriele Torsello pubblicata ieri a pagina 10 non è stato indicato il nome dell’autore, che è Salvatore Bello. Ce ne scusiamo con lui e con i lettori Una delle migliaia di bombe a grappolo (cluster bombs) sganciate dall’aviazione israeliana sul Libano Foto Ap co del 14 agosto fino ad oggi gli ordigni hanno causato la morte di 20 persone, fra cui due bambini, e il ferimento di altre 120. Ad oltre 200mila sfollati è stato sconsigliato di rientrare subito nelle proprie abitazioni, perché sono a rischio. «Al momento sono stati identificati 770 siti sui quali sono state sganciate bombe a grappolo, e sono stati eliminati 30mila ordigni», ci dice accogliendoci nel suo ufficio di Tiro Dalia Farran, portavoce dell’Unmacc, l’agenzia dell’Onu che dal 2000 si occupa dello sminamento del Libano del sud. «Abbiamo dovuto interrompere il lavoro ordinario perché siamo in emergenza. Pensate che dal 2000 a oggi 30 libanesi sono stati uccisi delle mine antiuomo e ora in appena due mesi sono morte già 20 persone a causa delle bombe a grappolo - prosegue, sottolineando che oltre al milione di cluster bomb - in Libano del sud restano ancora 400mila mine antiuomo». Le bombe a grappolo non sono proibite dalle leggi di guerra, sebbene la Convenzione di Gi- nevra ne sottolinei i rischi per la popolazione civile. Impiegabili sia dall’artiglieria che dall’aviazione, sono progettate per dividersi in volo. «Un proiettile di artiglieria è in grado di disperdere 88 cluster bomb in un’area di 20 km, un missile sganciato da un aereo ne sparge 644 in 50 km», continua Dalia Farran, mostrandoci una mappa del Libano del sud con una miriade di punti di colore rosso indicanti altrettante località dove sono state individuate le bombe. «Quando un essere umano finisce su uno di questi ordigni nel migliore dei casi perde un arto, altrimenti muore dilaniato». I bambini sono i più esposti al pericolo e proprio per tutelare i più piccoli e più in generale i civili, l’Unmacc ha più volte sollecitato Israele a fornire le mappe militari con l’indicazione delle aree dove sono state sganciate le bombe. «Ma da Tel Aviv non abbiamo ancora ricevuto risposte. Pensate solo di recente Israele ci ha fornito le informazioni su dove si trovano parte delle mine antiuomo. E non è da sottovalutare il fatto che gran parte delle cluster bomb siano state sganciate nelle ultime ore della guerra (della scorsa estate) prima che entrasse in vigore il cessate il fuoco con Hezbollah», conclude Farran. Alcuni sminatori che in passato sono stati impegnati in Kosovo, Sudan, Kuwait, Iraq, Bosnia e Afghanistan, hanno riferito di non aver mai operato in un’area tanto «contaminata» come il Libano del sud. Per questa ragione gran parte delle attività agricole si sono dovute fermare. «Abbiamo già perduto la stagione del tabacco e ora perderemo quella della raccolta delle olive», dice Maher A-Surawi, un contadino di Yanur «ma non possiamo fare diversamente, abbiamo paura e tra quei pochi di noi che si sono avventurati nei campi, alcuni hanno perduto la vita». Un disastro per l’intero Libano del sud che dipende per il 70% dall’agricoltura ma anche per migliaia di manovali palestinesi dei campi profughi che vivono con la raccolta della frutta, uno dei pochi lavori che sono autorizzati a svolgere. Resta in silenzio la comunità internazionale che pure ha condannato con forza Hezbollah per gli oltre mila katiusha sparati contro i centri abitati (dove hanno fatto più di 30 morti civili). Le cluster bomb nei villaggi sudlibanesi invece non generano sdegno. il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 11 internazionale Pio d’Emilia Tokyo La Corea del Nord: colpiremo senza pietà chiunque ci attacchi C Ecuador «Sanzioni atto di guerra» Cambio di scenario: ora è in testa Correa he il Giappone si senta minacciato, o comunque gli faccia gioco far finta di esserlo, non v’è dubbio. E grazie alle provvidenziali «soffiate» di non meglio precisate fonti Usa, i mass media cominciano fin dall’alba a parlare di un nuovo, immediato esperimento nucleare nordcoreano. È una bufala, d’accordo, ma intanto cresce la tensione, e diminuisce l’attenzione dell’opinione pubblica verso i nuovi strappi che il governo si appresta ad infliggere all’oramai lacerata Costituzione. C’è un articolo che vieta espressamente di condurre operazioni militari - ivi comprese semplici ispezioni - senza una previa dichiarazione di stato d’emergenza? Poco male, spiega in Parlamento il ministro degli Esteri Taro Aso, per aggirare il problema e non perdere troppo tempo compiremo le ispezioni (che Cina e Russia raccomandano di condurre a campione e con estrema prudenza) in nome e per conto degli Stati Uniti, cui siamo legato da un trattato di sicurezza. Non ha spiegato, Aso, se le ispezioni - che Pyong Yang avverte, minacciosa, verranno considerate atti di guerra - avverranno con i marinai in divisa militare Usa e se dovranno parlare in inglese. Pyongyang ieri ha anche minacciato di colpire «senza pietà» qualsiasi paese attenti alla propria sovranità, ha riferito l’agenzia di stampa governativa Kcna. Nel frattempo, mercantili e pescherecci nordcoreani sono spariti dall’orizzonte, e così i loro prelibati carichi di granchi, ricci di mare, e molluschi vari di cui i giapponesi vanno ghiotti, specie in questa stagione. Saltano di gioia i produttori locali, subito pronti a sfruttare la situazione dando la stura ai prezzi, si disperano centinaia di piccole aziende familiari che rischiano di fallire, visto che al governo non salta minimamente in testa di prevedere qualche forma di indennizzo. E sempre più preoccupante, con la possibilità che possa esplodere in episodi di violenza, è la situazione in cui vivono gli oltre 700 mila coreani residenti in Giappone, la maggior parte dei quali per ragioni spesso più culturali che politiche sostiene da sempre - anche attraverso sostanziose rimesse di denaro - il regime di Pyong Yang. «Percepiamo un progressivo atteggiamento di ingiustificata intimidazione - ha dichiarato ieri Nam Sung U, numero due dell’associazione Chongryon, che riunisce la maggioranza dei coreani residenti in Giappone - e que- Una parata di regime a Pyongyang. Sotto: un soldato britannico in Afghanistan sto nonostante la nostra condanna nei confronti del test nucleare sia stata totale e immediata». In attesa che arrivi la Rice - pare che il segretario di stato Usa abbia spostato di un giorno la visita per evitare di incontrare nello stesso albergo di Tokyo il miliardario anti Bush George Soros, che da alcuni giorni batte l’Estremo Oriente denunciando la deriva Usa e au- Foto Ap spicando che la Cina riesca a contenere la «crescente minaccia americana alla pace e all’armonia del mondo» - la regione è teatro, oltre che di prove tecniche di collasso (la Cina, prudente nell’applicazione delle sanzioni, ha cominciato ad elevare un muro di filo spinato al confine nordorientale, dove potrebbero riversarsi milioni di profughi nordcoreani), di un intenso via vai diplomatico bilaterale (il premier giapponese Abe ha telefonato persino a Prodi, congratulandosi per l’elezione dell’Italia al Consiglio di Sicurezza) in attesa del vertice a tre previsto giovedì a Seoul tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, fortemente voluto dal Giappone. Appare sempre più chiaro, infatti, che è proprio la Corea del Sud l’anello debole, e decisivo, sul quale si stanno appuntando le pressioni dei due blocchi. Quello «moderato» rappresentato da Cina e Russia, e quello più intransigente, rappresentato da Stati Uniti e Giappone. Da un lato, un’interpretazione «non solo punitiva» delle sanzioni, da implementare con prudenza e mantenendo aperti tutti i canali della diplomazia per riportare Pyong Yang al tavolo della trattativa. Dall’altro si cerca, evidentemente, lo scontro. In mezzo, da tutti i punti di vista, la Corea del Sud, un paese che dopo anni di feroce dittatura militare si è conquistato la democrazia e che aveva cercato e trovato, attraverso la sunshine policy, la dottrina del confronto «illuminato» la via del dialogo con Pyong Yang. Afghanistan meridionale, i sequestratori del fotoreporter italiano chiedono uno scambio Le truppe britanniche negoziano con i capi tribali e si ritirano Gabriele Torsello Ultimatum dei rapitori E' arrivata alle 20:30 locali la telefonata con la quale i rapitori hanno lanciato un ultimatum per la liberazione del fotoreporter Gabriele Torsello rapito il 12 ottobre scorso. I sequestratori, che hanno contattato nuovamente l'ospedale di Emergency a Lashkargah, hanno chiesto che entro la fine del Ramadan, cioè domenica notte, Abdul Rahman venga riportato in patria. La richiesta dei rapitori, che da giorni si ripete con lo stesso schema (telefonata del fotoreporter e successivo colloquio sulla trattativa) è considerata credibile sia dalla Farnesina che dall’intelligence italiana. Entrambe le istituzioni confermano che quello avviato tramite l’ospedale di Emergency è attualmente l’unico canale di trattativa. L’afghano Rahman, convertitosi al cristianesimo, era stato processato e condannato a morte da un tribunale talebano. L’Italia, che nell’ambito della missione Nato si occupa proprio della riorganizzazione della giustizia, decise di portarlo in salvo nel nostro paese a marzo scorso. Secondo il sito di Peacereporter durante la telefonata il responsabile dell'ospedale di Emergency, Rahmatullah Hanefi, avrebbe parlato per pochi istanti direttamente con Gabriele: «Ieri aveva detto di star bene - ha spiegato - oggi è ovviamente preoccupato». L'ultimatum rappresenta un'inversione di tendenza sulle previsioni ottimistiche riguardanti le trattative. Per i rappresentanti del governo italiano che gestiscono la trattativa l'identità politica del gruppo dei rapitori continua a rimanere poco chiara. Nonostante le smentite dell’Afghanistan Islamic press la richiesta di ieri sembra avere l’imprimatur dei principali gruppi talebani. Ma.Fo. Le forze britanniche della Nato in Afghanistan hanno cominciato a ritirarsi dal distretto di Musa Qala, nella provincia meridionale di Helmand, teatro nell’estate di sanguinose battaglie con i ribelli Taliban. Operazioni militari continuano altrove: ad esempio nella vicina provincia di Uruzgan, dove ieri aerei da guerra degli Stati uniti hanno ucciso un gruppo di ribelli tra cui il loro comandante. Il ritiro dei britannici da Musa Qala è senza precedenti. E’ un «ridispiegamento tattico», ha spiegato ieri ai giornalisti il comandante delle truppe Nato in Afghanistan, il generale (britannico) David Richards, secondo cui il termine «ritiro» è improprio: le forze internazionali lasciano Musa Qala, ha spiegato, perché la sicurezza è notevolmente migliorata dopo la tregua negoziata all’inizio di settembre tra le forze internazionali e i capi tribali del distretto. Quello che il generale Richardson chiama «ridispiegamento» può essere visto però come una ritirata (ad esempio dal governo di Kabul, che non ha controllo reale sul territorio in particolare nel sud). E d’altra parte la natura di quella tregua negoziata è sotto scrutinio. L’accordo che ora permette alle truppe Nato di «ridispiegarsi» - in altri termini, permette ai miitari britannici di ridimensionare il loro impegno - è stato negoziato dall’ex comandante delle forze britanniche in Afghanistan, brigadiere Ed Butler, e Tutto il mese in diplò da un alto funzionario del Foreign Office con i capi tribali del distretto. Il ministero della difesa di Londra ha categoricamente smentito che ci sia stata una trattativa con i Taleban. L’accordo però era che le truppe Nato (cioè britanniche) accettavano di ritirarsi se i capi tribali garantivano che i Taleban mettevano fine ai loro attacchi. E così è avvenuto: nelle ultime cinque settimane la zona è stata ampiamente tranquilla. Così le truppe Nato si sono gradualmente ritirate, anche dalla città capoluogo, su richiesta dei capi tribali - che, dicevano, sono ormai in grado di garantire la pace. «Non c’è più bisogno che stiamo là», ha detto ieri il generale Richards ai giornalisti, a Kabul: «Ci riserviamo il diritto di ribilanciare le nostre truppe ridispiegandole la se la situazione militare lo richiederà». In tutto, 120 soldati sono stati ritirati da Musa Qala, riferisce l’agenzia Afp citando dunzionari della Isaf (la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza in Afghanistan, che ormai coincide con la Nato). La sicurezza del distretto ora è affidata a una milizia locale e una forza di polizia reclutata in loco e stipendiata dal governatore della provincia di Helmand. E’ la prima volta che la Nato abbandona un distretto in seguito a un accordo con i capi locali, e ieri a Kabul i portavoce della forza internazionale dicevano che la cosa potrebbe servire da modello. Quando il Pakistan ha negoziato un accordo con i . . . . . Onu Bush e Chavez si bloccano a vicenda capi tribali del Nord Waziristan, territorio semiautonomi sotto la sovranità pakistana, la cosa è stata molto criticata in Afghanistan (e negli Usa) come un «trattare con i Taleban», cioè con il nemico (e Islamabad si è difesa dicendo che, al contrario, l’accordo era con i capi tribali precisamente per isolare i Taleban). Per questo ora i dirigenti britannici si sono preoccupati di chiarire che loro hanno trattato con i capi tribali e non con i ribelli. Ma l’ambiguità è notevole: i comandanti della Nato non avranno negoziato direttamente con i comandanti Taleban, ma alla fine erano proprio loro la parte in causa. L’impegno militare britannico in Afghanistan - e in Iraq - continuano a tenere il governo di Londra sulle spine. Ieri il brigadiere Butler, che ha da poco lasciato il comando del contingente in Afghanistan, ha dichiarato che la decisione di stornare le forze per la guerra in Iraq sarà costata all’occidente «anni di impegno militare in Afghanistan». E’ il secondo alto ufficiale che critica la politica di Blair sull’Iraq in meno di una settimana: il comandante in capo dell’esercito generale Richard Dannat aveva detto la settimana scorsa che la presenza delle truppe del Regno unito in Iraq ormai è un elemento che peggiora la violenza. ALTA FINANZA Gli apprendisti stregoni di Gabriel Kolko FRANCIA Da diritto a elemosina, l'Rmi di Noelle Burgi EUROPA Fa gola l'industria delle armi di Luc Mampaey CAOS E STRATEGIA Le cinque guerre asimmetriche di Marwan Bishara in edicola!* Nel giro di 24 ore in Ecuador, dove domenica si è votato per presidente e deputati, la scena è cambiata. Dopo il 51% dei voti scrutinati con il conteggio manuale il Tribunale supremo elettorale ha «scoperto» che il candidato progressista Rafael Correa ha raggiunto e superato il miliardario bananero e filo-americano Alvaro Noboa: 25.2% contro 25%. Un bel ribaltone se si considera che domenica notte, quando il sistema di conteggio rapido appaltato alla compagnia brasiliana «e-Vote» aveva appurato già il 70% dei voti prima di collassare misteriosamente, il risultato era 26.6% per Noboa e 22.5% per Correa. Correa aveva subito gridato ai brogli scontrandosi con il capo degli osservatori internazionali, l’ex ministro argentino Rafael Bielsa, e il segretario dell’Organizzazione degli stati americani, il cileno José Miguel Insulza, a cui sembrava che domenica fosse tutto filato liscio. Anche il socialdemocratico Leon Roldos si è ritrovato davanti, sia pur di poco (15.9-15.2%) al populista di destra Gilmar Gutierrez, il fatello del deposto presidente Lucio. Lunedì seguaci di Correa avevano inscenato una manifestazione di protesta davanti alla sede di Quito del Tribunale elettorale e ieri, dopo l’annuncio dei nuovi risultati, il Fenocin, il fronte che raggruppa indios, campesinos e neri, ha annunciato una mobilitazione nazionale per chiedere «che vengano riaperte le urne e contati i voti uno a uno» perché è evidente che «la frode c’è stata». In caso contrario chiederà «una nuova elezione». I risultati definitivi sono attesi per oggi. Mentre lunedì i buoni del tesoro ecuadoriani erano schizzati in alto alla notizia della vittoria relativa del bananero «pro-mercato», ieri è accaduto il contrario perché gli investitori si sono precipitati a vendere.Il ballottaggio resta fissato per il 26 novembre. E resta difficile per Correa. Ma arrivarci dopo aver vinto il primo turno è tutta un’altra cosa. STATI UNITI C'è una destra pacifista Jeremy Brecher e Brendan Smith Niente da fare. La situazione non si sblocca al Palazzo di vetro dell’Onu dove da lunedì sono in corso le votazioni per attribuire il seggio latino-americano in Consiglio di sicurezza per il biennio 2007-2009. Dieci votazioni il primo giorno non hanno consentito di superare la impasse fra il ticket Usa-Guatemala da un lato e il Venezuela di Chavez dall’altro. Il Guatemala, ossia gli Stati uniti, ha «sorpreso» attestandosi oltre i 100 voti e sempre davanti al Venezuela, fermo fra i 70-80 voti. C’è stato un momento, lunedì, in cui sembrava potesse esserci il sorpasso quando, alla sesto round, i due paesi hanno chiuso sul 93 pari. Ma l’allarme ha fatto scattare il segretario di stato Rice e l’ambasciatore Bolton che hanno moltiplicato i «contatti» e il «pressing» per richiamare all’ordine i riottosi. Così le distanze si sono ristabilite e sono state confermate ieri. Nelle prime 7 votazioni Guatemala fra 104 e 112 voti, Venezuela fra 76 e 78. Tutto da rifare (con l’Italia, astenuta, sempre alla finestra in attesa degli sviluppi: una posizione «saggia» secondo il ministro D’Alema che ha negato ieri ogni tipo di «pressing» e confermato di «non poter sostenere la candidatura di Chavez per le sue posizioni politiche»). L’ambasciatore venezuelano all’Onu, Arias Calderon ha ribadito che il suo paese «non si ritirerà». Se il Venezuela non vuol ritirarsi, il Guatemala non può. Almeno fino a quando il gruppo dei paesi dell’America latina e Caraibi non avranno trovato un terzo candidato «di consenso» che sia gradito anche agli americani. E allora getteranno a mare il Guatemala a cui, a parte ogni altra considerazione poltico-etica, il fatto di essere «il candidato Usa» non giova. Il ministro degli esteri cileno Alejandro Foxley, democristiano, è attivissimo nell’organizzare incontri fra i latini per cercare il nome buono e dice che «stanno spuntanto nuovi paesi». In realtà sono i soliti: Uruguay, Messico, Perù, Costa Rica, Repubblica dominicana. . . . . 1956 Il pianto di Budapest di Roger Martelli PAKISTAN Il Baluchistan si ribella di Selig S. Harrison PERÙ Lo specchio dell'America latina di Maurice Lemoine CINA Di fronte all'Occidente di François Jullien *Le Monde diplomatique/il manifesto resta in edicola per l’intero mese. È acquistabile sempre e soltanto abbinato a il manifesto: 2 euro nel giorno di uscita, 2,10 euro negli altri giorni, 3,00 euro il sabato quando c’è anche Alias. 12 il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 Da cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che è interessante, cioè grande e importante? Wittgenstein Tra biologia e cultura un incontro rimandato Si chiude con questi interventi il dibattito centrato sulla necessità di superare la tradizionale scissione tra scienze della natura e scienze umane, di nuovo attuale nonostante risalga a Galileo e Machiavelli Ora che il tradizionale campo di indagine della filosofia, ossia la mente, le emozioni e la ragione, viene studiato dalle neuroscienze, torna a riproporsi la domanda sull’utilità di perimetrare i saperi Non si può realmente tematizzare una prospettiva unitaria dell’essere umano senza mettere in conto che le capacità generiche (le disposizioni che dipendono dal funzionamento di un sistema biocognitivo determinato) abbiano incidenza anche sul piano del contenuto degli stati mentali. Pur non determinando direttamente i contenuti delle credenze è legittimo sostenere che la biologia agisca da «vincolo» ai contenuti possibili. Nella prospettiva «epidemiologica» proposta da Dan Sperber nel libro Il contagio delle Idee (Feltrinelli, 1999) studiare la natura della credenza religiosa (così come la natura di ogni altra credenza culturale) significa analizzare i processi che regolano la formazione e la trasmissione (il contagio) di tali credenze in una determinata comunità. Tutte le credenze nascono nella mente individuale di qualcuno: perché una volta trasmesse alcune (piuttosto che altre) «attecchiscono» nella testa di altri individui al punto da diventare patrimonio condiviso da trasmettere alle generazioni future? Perché alcune credenze sono più contagiose di altre? Francesco Ferretti G iugno e luglio 1959: la rivista «Encounter» pubblica in due puntate il resoconto della relazione – che ha per tema la scissione tra la cultura umanista e quella scientifica – tenuta qualche mese prima da Charles Snow all’Università di Cambridge. L’idea di Snow che il muro di incomunicabilità tra «scienziati» e «umanisti» rappresenti un pericolo gravissimo per la società occidentale apre in quegli anni un acceso dibattito. La situazione non è cambiata di molto: la disputa tra le due fazioni in campo continua ad alimentare la riflessione contemporanea sul tema della natura umana, tanto che ha avviato anche su queste pagine un dibattito, inaugurato da un articolo di Mario De Caro (4 ottobre) e proseguito con una risposta di Massimo De Carolis (8 ottobre). Il dibattito è riferibile al contrasto tra due opposte tradizioni teoriche: quella, riconducibile a Galilei, i cui fautori sostengono che lo studio degli umani deve avvenire adottando le stesse metodologie che caratterizzano l’analisi di qualsiasi altra entità naturale; e quella, riferibile a Machiavelli, che sottolinea come il carattere storico-politico dell’animale umano abbia proprietà che le scienze della natura non sono in grado di indagare. Il fatto che il dibattito attuale non si discosti molto da queste due posizioni mostra la difficoltà dar vita a un modello realmente unitario dell’essere umano. Per quale motivo? E, soprattutto, quali strategie alternative mettere in atto per affrontare il problema? Un errore concettuale condiviso Tanto per cominciare, entrambi i modelli teorici soffrono il tentativo di annullare una delle entità in gioco a favore dell’altra. Da questo punto di vista lo stesso errore concettuale è imputabile sia alla sociobiologia, che spiega le pratiche sociali riferendole alle esigenze di replicazione dei geni; sia, per motivi speculari, a chi tenta di dare conto della biologia degli umani cercando di piegarla alle leggi della storia e della cultura: come Clifford Geertz che in Interpretazione di culture (Il Mulino, 1998), sostiene che «il cervello umano è completamente dipendente dalle risorse culturali per il suo stesso funzionamento». Né la proposta di Machiavelli, né quella di Galileo, prese da sole, sono capaci di dar conto di una prospettiva realmente unitaria della natura umana. Ciò di cui si ha bisogno è un paradigma sintetico cui fare riferimento: cosa fare per dar corpo a questa esigenza? Nella dichiarazione di intenti, la strada da percorrere appare scontata: una prospettiva unitaria deve dar con- Installazione di Antony Gormley to del fatto che gli umani sono il prodotto congiunto della biologia e della storia culturale. Sembra una banalità, più che una semplice ipotesi di buon senso: chi potrebbe mai mettere in discussione un’affermazione di questo tipo? Dal punto di vista esplicativo tuttavia la situazione è molto più complicata di quanto la dichiarazione di intenti lasci presupporre. Non è affatto chiaro, in effetti, come «mettere in relazione» i due termini del problema: dare conto di come biologia e cultura possano davvero convergere nell’essere umano è una cosa assai difficile da giustificare. Prendiamo il caso della naturalizzazione della credenza religiosa. In Breaking the Spell. Religion as a Natural Phenomenon (Viking, New York 2006), Daniel Dennett sostiene che i sistemi sociali i cui membri credono in uno o più agenti soprannaturali possono essere adeguatamente compresi in termini evolutivi. Un caso esemplare è quello degli sciamani: le pratiche curative cui essi sottopongo- no gli individui del gruppo sociale funzionano per l’effetto placebo determinato dal contesto religioso e questo rappresenta un vantaggio adattivo per i credenti. Che ricerche del genere possano essere importanti per chiarire alcuni aspetti delle credenze religiose non è controverso; ad essere in discussione – diceva De Caro nel suo articolo – è l’idea che un approccio di questo tipo possa «dare esaustivamente conto della fenomenologia religiosa o perlomeno dei suoi aspetti più rilevanti». Utilizzando gli argomenti di Bernard Williams, egli afferma che non c’è ragione di credere che il mondo umano possa essere compreso soltanto con le modalità delle scienze naturali – ad esempio con lo strumentario della teoria dell’evoluzione. Per il semplice motivo che ciò che «una spiegazione in termini evolutivi può riuscire a fare è soltanto di dare conto della capacità peculiarmente umana di elaborare pratiche culturali: ma essa non può spiegare senso, contenu- to e natura di tali pratiche». De Caro è dunque disposto a riconoscere un nesso di dipendenza tra la biologia degli umani (il fatto che abbiano un cervello di un certo tipo, ad esempio) e una generica capacità di elaborazione delle credenze religiose; ciò che non è disposto a sostenere è che una capacità del genere possa avere ripercussioni sul piano del contenuto delle singole credenze religiose. Certo la biologia non può «esaurire» il contenuto delle pratiche religiose (se questo fosse il caso il Cristianesimo o il Buddismo dovrebbero trasmettersi per via genetica). E tuttavia una prospettiva che non riconosce un ruolo causale della costituzione biologica degli individui sul piano dei contenuti delle credenze è una prospettiva troppo debole per dar conto di una reale unificazione dell’essere umano. La critica al biodeterminismo è giusta, ma il prezzo da pagare non può essere l’idea che il contenuto delle credenze sia del tutto svincolato dalla biologia degli individui. Tra rappresentazioni e pratiche Senza entrare nel merito delle risposte di Sperber a tali domande, il punto da sottolineare è che domande di questo tipo chiamano in causa il contenuto delle credenze – meglio: chiamano in causa la relazione tra il contenuto delle credenze e l’apparato percettivo, concettuale e inferenziale della cognizione umana. Se, almeno sul piano metodologico, una proposta del genere merita di essere presa in considerazione, allora non è possibile sostenere che lo studio della psicologia evoluzionista può dar conto soltanto delle capacità in astratto della mente umana ma non del significato degli specifici stati mentali che essa elabora e produce. Più vicino a una prospettiva di reale unificazione dell’essere umano è Massimo De Carolis che, nella sua replica all’articolo di De Caro, si sofferma sui motivi alla base dell’opposizione tra filosofia scientifica e filosofia come disciplina storica. La sua idea è che in entrambi gli approcci prevalga un atteggiamento centrato sugli aspetti concettuali e simbolici propri alla natura umana. Tale atteggiamento è comune ad entrambe le fazioni in lotta: nella tradizione continentale l’ermeneutica rappresenta il caso esemplare di un modello di filosofia incentrato sul primato accordato ai modelli epistemici, ai simboli e alle ideologie, un modello «in cui le pratiche materiali svolgono un ruolo a dir poco ancillare». Un discorso analogo vale a proposito del tentativo messo in atto dalle scienze cognitive. Riferendosi a Dan Sperber, De Carolis sostiene che il car- dine della sua proposta è l’idea di una realtà «ridotta ad elementi simbolici: rappresentazioni, idee, credenze, quasi mai pratiche materiali di intervento sul mondo reale». Il vizio di fondo di un’impostazione di questo tipo è la prevalenza accordata agli aspetti simbolici a discapito degli aspetti performativi tipici delle pratiche di costruzione del mondo che caratterizzano gli esseri umani. Da questo punto di vista, il modello di Dan Sperber si rivela essere «un’impostazione sorprendentemente antiquata, visto che da decenni la ricerca antropologica insiste sul valore performativo della prassi rituale, sulla sua capacità di costruire la realtà sociale, a prescindere da ciò in cui si crede o non si crede». Ma questo non è, a mio parere, un giudizio condivisibile, perché non credo sia possibile dare una spiegazione della prassi umana che possa davvero prescindere da ciò che gli umani credono o non credono. De Carolis ha ragione a sottolineare che lo studio della natura umana deve rivolgersi agli umani in carne e ossa, non a un qualche loro simulacro idealizzato. E ha ragione anche nel sostenere che le pratiche umane devono essere analizzate tenendo conto del carattere performativo che ne rappresenta un tratto peculiare. Quello che non convince di una simile concezione – che incorre in un errore speculare a quello del primato della ragione sull’agire effettivo – è l’idea che l’agire sul mondo possa essere guadagnato soltanto negando gli aspetti concettuali della natura umana: se le rappresentazioni senza le pratiche effettive sono vuote, le pratiche effettive senza le rappresentazioni sono cieche. Verso una terza via Il problema di una prospettiva sintetica dell’essere umano è capire come riuscire a tenere insieme i processi costruttivi con quelli simbolici. Da questo punto di vista le accuse mosse a Sperber mi sembrano ingenerose: se gli argomenti che De Carolis porta a favore della sua tesi valgono infatti per alcuni rappresentanti della scienza cognitiva (come Noam Chomsky, che considera la comunicazione in riferimento al parlante-ascoltatore idealizzato) gli stessi argomenti non possono valere per chi, come Sperber, è seriamente impegnato nel tentativo di mantenere insieme gli aspetti performativi e quelli rappresentazionali dell’agire umano. Al di là dei meriti specifici che si è disposti a riconoscere alla sua proposta, la «pragmatica cognitiva» cui Sperber fa riferimento incarna a pieno titolo il tentativo di una terza via alla trappola scissionista delle due culture. Una strada che mi sembra valga la pena percorrere se si ha a cuore il problema dell’unificazione della natura umana. Quel che fa la differenza tra cervelli e persone Felice Cimatti Torna ancora, nel dibattito che si domanda se la riflessione filosofica sia intrinsecamente storica o debba considerarsi una impresa contigua alle scienze naturali, il problema del compito della filosofia. Un meteorologo non si chiede quale sia il suo compito, come non se lo chiede il biochimico, e tanto meno lo psicologo sperimentale. Tutti hanno un oggetto di indagine. Il filosofo non sembra averne uno, o almeno, non sembra più averne uno. Soprattutto ora che il suo tradizionalmente fertile campo di indagine – la mente le emozioni e la ragione – viene studiato da scienze molto agguerrite, ossia le neuroscienze. Ora sappiamo – per riprendere l’esempio discusso su queste pagine da Mario De Caro che riferendosi all’ultimo libro di Daniel Dennett ha avviato a questa discussione (il 4 ottobre) – quali aree cerebrali si attivano quando preghiamo, e alcuni ipotizzano anche una spiegazione evolutiva dell’esperienza del sacro, la sua presunta funzione biologica. Quando arrivano le scienze, si sente ripetere sempre più spesso, la filosofia ceda il passo. E quel tempo pare finalmente arrivato. Il caso del sacro è complicato, però. Immaginiamo un esperimento come questo, di fatto già realizzato o realizzabile. Una donna sta pregando, con il capo ripiegato sul petto e gli occhi chiusi, inginocchiata di fronte all’altare del Cristo. Un macchinario molto potente registra in diretta tutta la sua attività cerebrale; su uno schermo possiamo vedere come in un film quello che succede nel cervello della devota, fino al livello dei singoli neuroni. Dopo che ha smesso di pregare le mostriamo il film che registra la sua attività cerebrale durante la preghiera. Il valore di questa registrazione è indubbio, si tratterebbe di uno straordinario risultato scientifico, ora sapremmo un mucchio di cose sul cervello di una persona che prega. Ma lo scienziato sarebbe legittimato a dirle: «questa è la tua esperienza religiosa»? Naturalmente no, perché il valore umano di quell’esperienza – per chi l’ha provata – non sta in quelle immagini, ma nelle eventuali spiegazioni che la donna vorrà darci del suo pregare, oppure nelle sue azioni dopo avere pregato, o anche nel suo ostinato silenzio di fronte a domande così indiscrete. Ciò che è in questione, qui, non è la strana idea secondo cui nella vita degli esseri umani ci sarebbero esperienze ineffabili, di cui dovrebbe occuparsi la filosofia o la poesia. Qui il lavoro del filosofo ha a che fare con i modi in cui lo scienziato descrive il suo stesso esperimento; ha a che fare con i modi del tutto inconsapevoli in cui usiamo il linguaggio. Quando lo scienziato dice, riferendosi al cervello della donna in preghiera, «questa è l’esperienza religiosa», il filosofo dovrebbe ricordargli che c’è una bella differenza fra un cervello e una persona. E non si tratta di una differenza metafisica. Al contrario, è una differenza affatto terra terra. Il filosofo non devo certo dire allo scienziato cosa studiare e tanto meno come lo debba studiare. Però lo può aiutare a non fare confusione. Così l’eventuale funzione evolutiva della religione non mi dice nulla sul valore che per quella donna può avere il pregare (e viceversa). In questo senso non esiste un oggetto che sia specificamente de l filosofo, il quale soprattutto deve evitare il rischio di credersi uno scienziato. O meglio, un oggetto c’è, il campo del linguaggio. Il filosofo non ci dice come stanno le cose, ci ricorda, semmai, che le descriviamo in modo tale da tralasciare altre possibili descrizioni di quelle stesse cose. Detto altrimenti, il filosofo lotta contro le immagini totalitarie, che si pretendono universali e definitive, si occupa della libertà dei nostri pensieri quando si arenano nei soliti sterili luoghi comuni in cui naufragano anche le nostre azioni. Come scrive Wittgenstein, «da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che è interessante, cioè grande e importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano». È la libertà dei pensieri, allora, la preoccupazione del filosofo. mercoledì 18 ottobre 2006 il manifesto 13 cultura Algerini a Parigi, un massacro dimenticato Il 17 ottobre 1961 una pacifica manifestazione di protesta venne repressa nel sangue. Olivier La Cour Grandmaison, presidente dell’associazione «Contre l’oubli», denuncia il revisionismo francese Filippo Del Lucchese P ochi scatti in bianco e nero, strappati all’indifferenza o alla colpevole ostilità della Ville Lumière dal fotografo Elie Kagan. E naturalmente le testimonianze degli algerini, dei manifestanti, di chi è sfuggito alla repressione brutale e assassina. Questo è tutto ciò che rimane, nella memoria, del 17 ottobre 1961. In piena guerra d’Algeria, a pochi mesi dall’indipendenza, il Front de Libération National aveva convocato una manifestazione contro il duro coprifuoco razzista imposto agli algerini residenti in Francia. Mentre intellettuali come Frantz Fanon, di fronte alle tiepide risposte della sinistra, denunciavano la violenza e la tortura come mezzi di ordinaria amministrazione della guerra coloniale, la manifestazione di Parigi diventava l’occasione per la vendetta da parte del governo francese. Se ne incaricarono il prefetto Papon e i suoi gardiens de la paix, responsabili, quella sera di ottobre, di uno degli episodi più infami della storia coloniale di questo paese. Ci sono voluti molti anni e il lavoro eccezionale di storici, intellettuali e artisti, perché quei crimini fossero riconosciuti e ricordati. Tra loro Olivier Le Cour Grandmaison, docente di scienze politiche e di filosofia politica all’Université d’Évry-Val-d’Essonne, autore di Haine(s). Philosophie et politique (Puf, 2002) e di Coloniser. Exterminer. Sur la guerre et l’Etat colonial (Fayard, 2005) nonché presidente dell’associazione «17 octobre 1961: Contre l’oubli». Qual è il significato del 17 ottobre 1961 nel contesto della storia coloniale francese? Le manifestazioni del 17 ottobre 1961 furono la risposta pacifica, organizzata nella capitale, per protestare contro un coprifuoco razzista. Razzista perché imposto ai soli al- gerini, che all’epoca erano ancora francesi di diritto, ma venivano chiamati «francesi musulmani d’Algeria». Uno statuto d’eccezione, perché gli effetti di una tale legislazione discriminatoria gravavano soltanto su di loro. Per impedire queste manifestazioni, il prefetto Maurice Papon mobilitò un enorme dispositivo di polizia. Il bilancio fu terribile: circa trecento algerini furono massacrati dalle forze dell’ordine, quella sera e nei giorni successivi. Sequestrati, fermati o arrestati, i manifestanti vennero spesso affogati nella Senna. Fu, a tutti gli effetti, un crimine contro l’umanità commesso dallo Stato francese, che ancora oggi non è stato ufficialmente riconosciuto dalle più alte cariche istituzionali. Né è stato giuridicamente sanzionato in alcun modo, a causa delle leggi di amnistia votate dopo la fine della guerra di Algeria. Né i sopravvissuti né i parenti delle vittime accertate e di quelle scomparse hanno potuto ottenere la minima riparazione. Né Papon, né coloro che hanno agito sotto il suo comando sono mai stati giudicati per i loro crimini. Questa politica del silenzio e dell’oblio sui crimini di Stato sembra avere anche una controparte più attiva nella recente «offensiva» per rivalutare il ruolo positivo della colonizzazione. Qual è il significato, ad esempio, della legge del 23 febbraio 2005 in questo contesto? Questa legge, che stabilisce una vera e propria menzogna di Stato riconoscendo un ruolo positivo alla colonizzazione, è motivata da diverse ragioni. Soddisfare certi settori dell’opinione pubblica, per esempio, e lavorare alla restaurazione dell’immagine della Francia in un difficile contesto nazionale e internazionale. Incapace di trovare soluzione ai problemi economici e sociali o di offrire delle prospettive che vadano oltre l’esibizione quotidiana delle ambizioni personali di una classe dirigente, l’attuale maggioranza tenta di resuscitare la mitologia coloniale. Pensa così di poter risollevare il prestigio e l’orgoglio del paese e dei suoi cittadini. A ciò si aggiunge, certamente, un desiderio di rivalsa politica sui progressi significativi già compiuti, come ad esempio il riconoscimento della schiavitù come crimine contro l’umanità, con la legge Taubira del 2001. La legge del 23 febbraio non ha equivalenti in nessun altro paese democratico, dove nessuna maggioranza ha mai osato legiferare per imporre all’opinione pubblica e agli insegnanti un’interpretazione ufficiale, partigiana e menzognera del passato. Un’eccezione francese, dunque, sinistra e scandalosa, che viola i diritti, le libertà e i principi che, teoricamente, dovrebbero governare una società democratica. In nessun modo lo Stato dovrebbe farsi garan- Una fotografia di Elie Kagan scattata nei giorni successivi alla brutale repressione del 17 ottobre 1961 a Parigi te di un’interpretazione particolare del passato, qualunque essa sia. Qual è stata la risposta della società francese a questa politica revisionista e, in particolare, a questa legge? Con la mobilitazione di molte associazioni, di storici e intellettuali, è stato ottenuto il ritiro dell’articolo 4 di questa legge, relativo al «carattere positivo della colonizzazione». Ma altri passaggi del testo restano per me inaccettabili, poiché vi è ancora espressa, in forme più blande o con eufemismi, la stessa tesi per cui la colonizzazione sarebbe stata di beneficio per i paesi e i popoli sotto il dominio francese. Per certi versi, la situazione in Francia è paradossale: «dovere della memoria» è ormai difeso da tutti, con la sola eccezione del Fronte Nazionale di Le Pen. Solo qualche settimana prima della legge sul ruolo positivo della colonizzazione, per esempio, era stata decisa la celebrazione del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. A ciò si aggiunge il riconoscimento ufficiale del genocidio armeno, votato all’unanimità dall’Assemblea nazionale con la legge del 29 gennaio 2001, mentre è di pochi giorni fa la legge che rende perseguibile chi osa negarlo. D’altro canto si assiste alla glorificazione dell’«avventura coloniale», come alcuni osano ancora scrivere, aprendo la strada a uno spensierato revisionismo. In questo contesto, un anno fa le banlieues francesi prendevano fuoco, rivelando la patologica incapacità della Francia nell’affrontare il proprio passato. Qual è il rapporto fra queste crisi «postcoloniali» e la storia violenta della decolonizzazione? Non so se si tratti di un’incapacità patologica, ma cronica lo è, senza ombra di dubbio. Cominciamo col ricordare che, per fermare le rivolte del novembre dello scorso anno, su iniziativa del primo ministro, il governo ha fatto ri- corso alla legge del 3 aprile 1955 sullo stato di emergenza, impiegata per la prima volta dalle autorità metropolitane proprio durante la guerra di Algeria. Una legislazione di eccezione, destinata originariamente a ristabilire l’ordine nelle colonie, è stata dunque mobilitata contro dei giovani francesi, marchiati e condannati nella più parte dei casi per la loro supposta origine etnica. Siamo di fronte alla prova, a carico delle più alte autorità dello Stato, della permanenza di una rappresentazione – e delle pratiche che ne derivano – direttamente ereditata dal periodo coloniale. Più in generale, i legami tra il passato coloniale e l’attualità si mostrano attraverso una molteplicità di elementi. Il primo riguarda senz’altro l’Islam, ritenuto da molti una religione di guerra, ostile al progresso della ragione così come alle libertà democratiche. È ciò che ripetono incessantemente i sostenitori dello scontro di civiltà, che sono riusciti a imporre una nuova doxa. Ma questi argomenti, tutt’altro che originali, sono stati forgiati per la prima volta, nel contesto francese, nel periodo della conquista dell’Algeria. Un secondo elemento di continuità fra passato e presente è l’idea per cui alcune categorie di persone, di origine maghrebina in particolare, sarebbero difficilmente «assimilabili», se non del tutto refrattarie all’integrazione, per ragioni culturali e religiose. Qui, di nuovo, riemerge una retorica in cui l’immagine di questo «tipo particolare» di cittadino francese viene costruita secondo gli stereotipi dell’«indigeno» mussulmano. Di lui si diceva, al tempo delle colonie, che non avrebbe potuto veramente accedere alla «civiltà francese». È impossibile, quindi, comprendere ciò che accade oggi in Francia senza tenere presente questo passato coloniale che non tramonta e che, per parafrasare Marx, pesa in modo visibile sulle rappresentazioni dei nostri contemporanei. Quando la scienza diventa narrazione Franco Voltaggio Che la scienza o, meglio, la «impresa scienza» abbia sempre avuto una incidenza cruciale sulla società è, come direbbe uno scienziato, una «verità triviale». Altrettanto triviali sono due verità: la necessità che il pubblico sia informato sui contenuti e sulle finalità della ricerca, e la difficoltà di informarlo, giacché il linguaggio e – almeno all’apparenza – lo stile di pensiero, la forma mentis degli scienziati di campo sono inaccessibili ai «non addetti ai lavori». È, questo, un gruppo in cui vanno compresi non soltanto gli individui di media cultura ma anche quegli stessi studiosi e ricercatori che non svolgono indagini affini a quelli presentate nei papers di altissima specializzazione, quali quelli che compaiono in riviste come «Nature», «Science», «Physical Review», per non citare che alcune tra le più autorevoli e prestigiose. Resta il fatto che il pubblico va informato e che la comunicazione della scienza è importante quanto quella della politica e, per di più, per le stesse ragioni, se non altro perché una società che non riesca a seguire i suoi scienziati ignora gran parte del suo presente e del suo futuro, il che è quanto dire che vive in una democrazia Per spiegare al pubblico le grandi scoperte, il racconto è la forma migliore, argomenta efficacemente Pino Donghi in «Sui generis» condizionata. Il problema però rimane. Come comunicare quel che ha tutta l’aria di essere incomunicabile? A presentare una sua proposta, a nostro parere molto interessante, interviene ora Pino Donghi, autore di un denso libro, volutamente breve (spia di un obiettivo che mira a rendere «più semplici» cose che semplici non sono), Sui generis (Laterza, pp. 96, euro 14). Donghi ha tutti i titoli per parlare della questione: semiologo, docente di comunicazione della scienza nell’Università di Bergamo, ha soprattutto, nella sua attività di segretario della Fondazione Sigma-Tau di Roma, operato la contaminazione di competenze e saperi diversi, applicando coerentemente una sua idea- guida che si può riassumere così: l’unico modo di comunicare la scienza è quella di raccontarla. Come? Invitando uomini e donne di buona volontà – l’invito è nostro, ma scommettiamo che Donghi lo condividerebbe – a non seguire pedissequamente Popper, per il quale quello che conta è il contesto della scoperta, ma, piuttosto, a ripercorrere, sulla scorta della ricostruzione storica, il modo con cui si sia pervenuti a effettuarla. Talora sono gli stessi autori a farlo. Basta citare il caso di Keplero che in Astronomia nova ricorre a uno stratagemma non poco intrigante sotto il profilo letterario, presentando la genesi della conoscenza scientifica in forma di un racconto di viaggi. Altro caso assai noto è la straordinaria narrazione che ci fornisce Darwin del suo lunghissimo viaggio sulla Beagle, dandoci una immagine, non meno suggestiva che esatta, delle sue idee sull’evoluzione delle specie, per non parlare delle Lettere copernicane di Galilei. Sono, tutti questi, esempi di una verità che corre a molteplici livelli: il racconto delle gesta scientifiche è tutto quello che possiamo sapere, da incompetenti, dell’epos degli scienziati; non si tratta, tuttavia, di una verità di poco conto, perché ci fa toccare con mano il modo delle passioni, delle emozioni, delle idee da cui nasce la scienza, affinché l’incompetente possa dire di sé, conoscendolo, de re nostra agitur; rispettando – è questo un livello ulteriore – la necessità di transitare da un genere di illustrazione a un altro, per l’appunto dal paper specialistico al racconto. A volte è il teatro a comunicare la scienza. Si passa dalla drammatizzazione esplicita di una grande teoria scientifica, come l’eliocentrismo di Galilei, compiuta nel Galilei di Brecht, che il pubblico italiano conobbe, più di quarant’anni fa, nella memorabile regia di Strehler, al singolarissimo esperimento di Luca Ronconi che nel suo Infinities, allestito alla Bovisa di Milano nel 2002, mise in scena – facendoli letteralmente «vedere» agli spettatori – paradossi e singolarità della matematica sulla base dei contenuti espressi dal fisico e matematico inglese John Barrow (ma già qualcosa del genere aveva compiuto Musil nei Turbamenti del giovane Törless, collegando magistralmente la scoperta del sesso del giovanissimo protagonista all’apprendimento della teoria dei numeri complessi). Spesso sono i grandi ricercatori che si fanno divulgatori scientifici, scrivendo lavori che rammentano da vicino la detective story. Esemplare un saggio appassionante come Aids. Storia di una pandemia attuale (tradotto in Italia per Laterza nel 1989) di Mirko Grmek, il grande storico della medicina scomparso sei anni fa. Talora gli scienziati non mancano di praticare l’arte dell’invettiva, raccontando per questo tramite scoperte e teorie, come ebbe a fare, qualche tempo prima della morte, Stephen Jay Gould nella polemica con Dennett. A tutti costoro si affiancano i giornalisti scientifici, come Franco Pratico, decano del settore, il compianto Giovanni Maria Pace, e giornalisti passati dal lavoro scientifico alla divulgazione, come il chimico Pietro Greco o il fisico Juri Castelfranchi. Ma c’è ancora una cosa che ci preme sottolineare. Senza parere, a modo suo Donghi ci dice qualcosa che assomiglia a una salutare lezione. È vero che «la scienza è una cosa troppo importante per lasciarla fare allo scienziato di professione» – magari fantasticato con la grinta scimmiesca del Dottor Mabuse – vale a dire privando il pubblico dell’informazione necessaria e non consentendo l’attivazione di una avveduta governance da pare della società. Solo che, se da questa preoccupazione è nato con qualche legittimità il «principio di cautela», indugiarvi più che tanto equivale a slittare sul piano inclinato dell’oscurantismo, malattia infantile di una democrazia a sovranità limitata da equivoci e superstiziosa ignoranza, qual è la nostra. Perché trarre dalla difficoltà della comunicazione il pretesto, tutt’altro che legittimo, di rifiutarla a noi stessi e agli scienziati? In fondo, si tratta di una speranza che Donghi ci fa capire essere quasi una certezza e di un dovere che incombe agli occupanti precari, italiani e non, di questo nostro pianeta. O forse non è così? 14 il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 «La civiltà non si misura solo con il Pil, ma analizzando come stanno i più deboli». Paolo Ferrero, ministro Solidarietà Sociale Dietro l’icona di guerra Clint Eastwood riscrive la storia di Iwo Jima «Flags of Our Fathers» Un film che esplora fantasmi e demoni di un paese che ha perduto idealismi e certezze. Mostrando la banalità della retorica bellica Festival di Torino «Flags of Our Fathers» aprirà la XXIV edizione Ancora non si conosce nei dettagli il programma di «Torinofilmfestival» 24, ma una piccola vendetta rispetto alla molto più finanziata Festa di Roma la manifestazione diretta da Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto già se l’è presa. Clint Eastwood ha preferito inviare il suo ultimo capolavoro, «Flags of Our Fathers», invece che alla ricca kermesse moderata a un festival estremista, di tendenza e dalla parte degli autori radicali. Il 10 novembre dunque prima europea del film di guerra (parte americana, cui seguirà «Letters from Iwo Jima», la stessa battaglia dal punto di vista «jap»). «Flags of Ours Fathers» di Clint Eastwood. In basso, il regista Luca Celada Los Angeles L’ ufficio stampa della Paramount (ma in Europa la distribuzione sarà Warner Bros.) non avrà compito facile a promuovere Flags of Our Fathers come un inno all’eroismo patriottico. Impresa ardua (ma non tanto da scoraggiare gli impavidi uomini-immagine degli studios) anche perché l’argomento dell’ultimo film di Clint Eastwood è precisamente la perversione delle immagini, la loro strumentalizzazione politica. Quella che sta al centro del film è l’innalzamento della bandiera sull’isola di Iwo Jima, teatro della battaglia più sanguinosa sostenuta dalle forze armate americane nel secondo conflitto mondiale. Su questo minuscolo scoglio di pomice in mezzo al Pacifico moririono in meno di quattro settimane quasi 20.000 soldati giapponesi e oltre 6000 fra i marines sbarcati in ondate sulle spiagge di sabbia nera (le riprese sono state effettuate in Islanda) per conquistare una pista di atterraggio «strategicamente vitale» e per poter in seguito bombardare Tokyo. I bombardamenti che seguirono sono stati, con Dredsa, una delle più crudeli pagine della guerra, costati la distruzione di 57 città giapponesi e la morte di 500.000 civili. L’immagine di sei soldati americani che innalzano una bandiera sulla vetta del monte Suribachi, unica altura dell’isola, immortalata da un fotografo dell’Associated press, divenne una delle più celebri dell’iconografia del ventesimo secolo, una rappresentazione «monumentale» dello sforzo bellico con la forza grafica e «plastica» di una nike americana. Disseminato dai media, divenne anche una sorta di bran- ding della vittoria nella «guerra giusta» attraverso le figure dei sei militi ignoti, senza volto in quanto ripresi di schiena. Il film di Clint Eastwood, basato sul libro di James Bradley Ron Powers, invece è l’ultima esplorazione dei fantasmi e demoni che rimuginano nell’anima di un’America orfana di idealismi e certezze. Clint scava dietro l’icona, nella banalità della guerra e della retorica dell’eroe. Intanto scopriamo che quell’alzabandiera improvvisato sulla vetta nacque già come riproduzione: la bandiera issata dai marines sostituiva un primo vessillo ritenuto troppo piccolo e che un ufficiale aveva deciso di conservare come souvenir. La prima bandiera venne ammainata e la se- conda fu alzata da un gruppo di soldati che si trovavano sul luogo per allacciare un collegamento telefonico con il comando. Un fotografo che si trovava lì per caso puntò quasi sovrapensiero il suo obiettivo e la storia fu fatta. L’immagine, capostipite di un filone che arriva fino a quella dei pompieri che innalzano la bandiera sulle macerie di Ground zero, nasce cioè come pseudo-evento ed è subito acquisita dal ministero della guerra che la trasforma nel manifesto di una campagna per la vendita di buoni del tesoro, emessi allo scopo di finanziare lo sforzo bellico nel Pacifico e sollevare il morale dell’opinipone pubblica americana. Un’operazione di pubbliche relazioni «fondativa» cioè dell’era delle guerre-spettacolo condotte principalmente attraverso la gestione della loro immagine. Dopo che la foto viene pubblicata da tutti i giornali, il War Department decide di reclutare i soldati raffigurati per una tournée promozionale per la vendita di war bonds. Nel frattempo tre di loro sono morti e i sopravvissuti vengono prelevati dall’inferno del fronte (l’alzabandiera infatti avvenne non già alla conclusione vittoriosa della battaglia durata un mese, ma solo nella prima settimana) e rispediti negli States dove si ritrovano protagonisti spaesati di uno spettacolo fatto di comizi, tappeti rossi perfino rappresentazioni trionfali negli stadi con l’ausilio di fuochi pirotecnici e una collina di cartapesta su cui piantare una bandiera per il visibilio del pubblico. La storia si dipana in una terra di nessuno, onirica e allucinatoria negli interstizi fra ricordo e realtà, presente e passato. Flags of our Fathers è strutturato come un lungo flashback all’interno del quale se ne innestano molti altri attraverso i ricordi di John Bradley, uno dei soldati ritratti nella foto, ormai vecchio, prossimo alla fine dei suoi giorni. È una struttura anti temporale e labirintica che rammenta quella di Mattatoio numero 5, narrativa con cui spartisce un montaggio complesso, quasi caotico; come nel romanzo di Vonnegut, gli avvenimenti sono un vortice che si allarga da un evento di spaventosa violenza rifratto nei ricordi dei protagonisti. In questo, il film di Eastwood è simile anche a Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg, che qui ha collaborato in veste di produttore (i due film hanno in comune anche Barry Pepper in uno dei ruoli principali). Anche in quel caso la narrrativa veniva messa in moto da un’operazione di «immagine» - la pattuglia del capitano Miller viene spedita a salvare Ryan per evitare che un vedova di guerra potesse perdere tutti e quattro i figli in combattimento. Entrambi i film ruotano atorno ad uno sbarco americano ma al posto di quello iperrealista in Normandia, Eastwood costruisce un teatro stilizzato per i suoi diciotteni mandati alla carneficina in un dedalo senza senso di trincee, cariche e imboscate che disegnano la geografia atroce della guerra. Spielberg era troppo legato a un sentimento di reverenziale omaggio alla generazione dei padri per approfondire le contraddizioni morali della guerra. Le tinte di Clint, invece, sono molto più fosche, più affini allo stile di Sam Fuller, il regista che sosteneva che in guerra «non esistono eroi, ma soltanto sopravvissuti». E, come in un film di Fuller, qui escono fuori l’atrocità e la contraddizione intima della guerra: il sacrificio, l’ubbidienza gli ordini irrazionali, la paura della morte, la difficoltà di uccidere. Ma il discorso è più ampio, si allarga all’ipocrisia complice che avvolge le guerre.. Il film apre con la dichiarazione: «Abbiamo bisogno di sapere che le guerre sono combattute da buoni contro cattivi - ma non è vero», una dichirazione di semplicità «evangelica» a cui l’attuale constesto conferisce tuttavia una forza rivoluzionaria. Questo è il corpo viscerale del film, e sotto la superfice non lineare - che irriterà molti - c’è il feticismo americano per le stelle e strisce, nell’era in cui i comandi militari vengono progettati da scenografi, c’è una meditazione sull’eterna ipocrisia della retorica bellica e sulla forza delle immagini usate per vincere le guerre o - come avvenne col Vietnam - capaci di fermarle, sull’omertà embedded - che può essere squarciata come è avvenuto ad Abu Ghraib - da altre immagini. Su tutto è diffusa una malinconia crepuscolare degli eroi che, dopo l’arbitraria promozione a eroi mediatici, vengono rispediti al dimenticatoio appena hanno esaurito la propria pubblica utilità, ma che devono tuttavia proseguire le loro vite «banali». È il sentimento forse più sincero e struggente del film. Dei tre la figura più tragica è Ira Hayes (interpretato da Adam Beach della tribù Ojibwa di Manitoba, già protagonista di Windtalkers per John Woo). L’indiano Pima dell’Arizona trasformato in eroe - che continuerà però a essere buttato fuori dai bar che «non servono gli indiani» - imbocca la parabola autodistruttiva dell’alcolismo, ridotto, fra le risse e gli arresti, a fare l’elemosina per qualche spicciolo in cambio di una foto coi turisti. Verrà trovato morto in un campo sulla riserva. La sua storia è raccontata da Clint con minimalismo pari alla bellissima ballata che gli aveva dedicato Johnny Cash già nel 1964. Eppure nei dettagli dell’affresco c’è come un problema di definizione, come se i primi piani non fossero del tutto messi a fuoco. Il film trasmette a tratti la sensazione di sfuggire di mano al regista o come se non fosse stato del tutto «digerito» da Clint e dal suo sceneggiatore Paul Haggis (Million Dollar Baby, Crash). Flags è solo la prima parte di un’opera più ampia che verrà completata da Letters from Iwo Jima un film «gemello» che racconterà la battaglia dal punto di vista giapponese, attraverso lo sguardo del generale Tadamichi Kuribayashi (Ken Watanabe), comandante delle forze nipponiche costrette a combattere fino all’ultimo uomo nelle caverne dell’isola, una storia davvero affascinante del tutto sconosciuta all’occhio occidentale (quel film aprirà a breve in Giappone e sarà distribuito in occidente all’inizio dell’anno prossimo). Promette, afferma lo stesso Haggis, di avere la forza umanizzante dello sguardo «altro», come in Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale - ed è come se la sua mancanza pesasse su questo primo film, privato di una sua parte integrante. Coreani allo specchio nel Pusan Film Festival Folla di giovani locali entusiasti e di giapponesi in trasferta, tutti impegnati a vedere film e fotografare i divi più amati Paolo Bertolin Pusan Mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sull'Hanbando (la penisola coreana) per le spinose evoluzioni diplomatiche innescate dagli esperimenti nucleari di Pyongyang, la vita dei coreani del sud prosegue secondo il consueto tran-tran di superlavoro, bagordi antistress, dormite in metrò. Del resto, l'attenzione della fascia giovanile della popolazione sudcoreana più che dalle preoccupazioni per le azzardate manovre dei confratelli al nord in questi giorni è monopolizzata dall'evento cinematografico più atteso dell'anno, il festival di Pusan (PIFF). Bisogna vederli dal vero per crederci, queste e questi sfegatati che scendono qui da tutto il paese per dormire in scalcinati yeogwan, alberghetti da poco che spesso altro non sono che love motel, per accamparsi sulle panche nelle hall dei multiplex localizzati ai piani alti dei centri commerciali attendendo il film di mezzanotte, per guadagnare a furia di bruschi spintoni il fronte delle prime file dei cinema per catturare con telefonini e camere digitali le star locali. Per non dire delle allucinate donne di mezz'età giapponesi che attraversano gli stretti per brandire bouquet di fiori e sbandierare striscioni al cospetto del baldo Cho In-seong, protagonista del bellissimo Dirty Carnival di Yu Ha. In questi bizzarri epifenomeni di sociologia festivaliera si coglie la grande contraddizione del Piff. Se per chi viene da Occidente si tratta di una vetrina dove ricercare il nuovo che si muove nelle ferventi correnti delle nouvelle vague asiatiche, per lo zoccolo duro e folto del pubblico, locale nonché nipponico, sono il cinema coreano e le sue star a costituire il canto di sirena. Film, attori e attrici che da noi non dicono nulla ma che a queste latitudini raccolgono spesso platee oceaniche: sono più di venti i film nazionali che hanno superato quest'anno la soglia del milione di spettatori; il campione di botteghino The Host di Bong Joon-ho ne ha raccolti addirittura oltre tredici, su una popolazione di 48 milioni d'abitanti. Del resto è proprio la fruttuosa interazione che persiste tra cinema e realtà storica e sociale del paese che cementa la passione degli spettatori coreani per la produzione mainstream locale. Un esempio notevole l'ha fornito il film d'apertura del Piff, il mélo strappalacrime Traces of Love (Attraverso l'autunno) firmato da Kim Dae-seung, già assistente di Im Kwon-taek e autore del cult movie Bungee Jumping of their Own, raro caso di pellicola coreana cripto-gay con professore di liceo che s'innamora, ricambiato, di un allievo che sente d'essere la reincarnazione della sua defunta amata. Anche Traces of Love elabora un lutto insormontabile attraverso l'incontro con una possibile reincarnazione dell'amata perduta, ma più che il ben oliato e prevedibile congegno del romanticume a uso e consumo delle fan di Yoo Ji-tae (il cattivissimo di Oldboy), interessa e sorprende la premessa che innesca il dramma: la promessa sposa del protagonista muore nel crollo dell'edificio di un enorme centro commerciale nel centro di Seoul. Si tratta in effetti di uno spunto ispirato a una tragedia che ha colpito nel vivo la città una decina d'anni fa, e che nel film denuncia l'oblio di una società ricca e spasmodicamente consumista, dimentica della fragilità delle sue corrotte fondamenta. Hyun-woo, questo il nome del protagonista, si ritrova infatti solo e osteggiato a indagare sulle colpevoli mancanze d'imprenditori e politici, e colmo dell'assurdo, viene addirit- tura usato come capro espiatorio. Partito per una vacanza consolatoria s'imbatte in una sopravissuta del disastro che aveva condiviso le ultime ore della sua fidanzata sotto le macerie. Le immagini del crollo e le claustrofobiche sequenze d'attesa d'aiuto sotto le macerie sono formidabili, il resto è una cartolina di viaggio attraverso paesaggi autunnali della penisola coreana. Lodevole e necessario comunque l'impegno a non dimenticare, soprattutto a fronte di quanto rivelato da Yoo in conferenza stampa: quando presentò il film a Seoul dichiarò che si sarebbero dovute ricordare le centinaia di morti con un monumento e non ricostruire sul luogo della catastrofe. In un forum aperto su internet pare che la sua dichiarazione sia stata accolta in maniera del tutto negativa: «Con quel che costa la terra a Seoul lasciare tutto quel terreno non edificato è uno spreco inammissibile». Auspicabile quindi che il film di Kim smuova davvero qualcosa contro una simile mentalità imperante. il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 15 visioni Autobiografia della crudeltà Roberto Silvestri Roma D a una stanza, da una strada, da un centro storico, magari dai quartieri spagnoli di Napoli, da una città per quanto bella, da un matrimonio per quanto non combinato, da una professione per quanto non di routine, e perfino da una battigia sulla quale giocare alle biglie o agli sposi (proprio come in un recente Bellocchio), si entra e si esce. Sono gli spazi della vita. I beatnik ce li descrissero con esagerata lucidità, negli anni 50, e con annessa mappa del tesoro, e antidoti farmaceutici, per scansarli se necessario anche in autostop. Certo la nostra energia non è più quella be bop di una volta. Eppure i beat esistono ancora. Ma da certi luoghi, esistenti e più nascosti (Foucault in una conversazione radiofonica del ’66, appena pubblicata da Cronopio, li chiamava «eterotopie», posti altri, paralleli per distinguerli dalle «utopie», spazi che ancora non sono), non è così facile uscire. Però è meraviglioso disperdersi. O trovare dentro di essi una riserva aurea dell’immaginazione. Sono come anticorpi comportamentali che spingono ai confini della realtà. Che ne dite, infatti, di guardare il mondo, sgusciando via dal nostro corpo, con gli occhi di qualcun altro? L’attore lo fa, e a volte socializza il suo segreto. Non rappresenta testi, né canta storie, produce incanti crudeli di questo tipo. Un film estremo visto alla Festa di Roma, è Grido di Pippo Delbono (in sala il 20), un’avventura con lo spettatore sull’orlo dell’abisso. Alla fine, una flotta di barchette di carta è pronta a solcare i mari dell’im- Il «Grido» di Pippo Delbono, molto più di «una pubblicità per se stessi». Il documentario sull’esperienza d’amore tra teatro, rito e anarchia maginario. Viene voglia di partire. Grido ricorda più che gli omonimi film di Antonioni e di Skolimowski, il filmaker sperimentale canadese Michael Snow di «La Region Centrale». Lì dita elettriche percorrevano un territorio misterioso, pietra dopo pietra, e tutte le parti invisibili della tundra artica si mettevano così a vivere. Qui il regista, che sa come far recitare e commuovere le pietre (lo ha appreso in Israele, anche dalle tombe dei palestinesi, in Guerra), si mette davanti a noi con il suo dolore e tutto il resto. Narcisismo? Il contrario. Amore per il pubblico. Davanti agli occhi semichiusi dell’attore e drammaturgo che ricorda alcuni fatti importanti del passato (detour radicali; la scoperta del partner Bobò dove meno te lo aspetti, che non parla ma maneggia le mani come a Bali; la morte di un amante) è il nostro volto che acquista certezza, solidità. Grazie allo sguardo sbarrato che vede le nostre palpebre chiuse. Ecco il doppio gioco del cinema, Eyes wide shut. Inquadrare «l’amore». Per questo alcuni spettatori, nel documentario ripresi durante uno spettacolo, sono così turbati. L’amore, come lo specchio che è il cinema e come la morte, al lavoro 24 fotogrammi al secon- Giuseppe Gagliardi e Peppe Voltarelli sono calabresi e amici da sempre, una complicità di gusti e sguardi che intreccia le loro avventure tra cinema e musica - Voltarelli è il frontman del Parto delle nuvole pesanti. I due li troviamo già insieme in Doichlanda (premiato al Torino film festival, 2003), documentario che parla di musica, di immigrazione, del viaggio italiano verso la Germania dei tanti migranti di Calabria e anche di come negli anni questo movimento è abbia «contaminato» gusti e sapori (cucina compresa, la fortuna dei ristoranti italiani in Germania è nota). Migrante è pure il protagonista del nuovo film di Gagliardi, scoperto da Nanni Moretti che lo invitò (era il 2001) al sacher festival con Peperoni (premiato col Sacher d’argento). La leggenda di Tony Vilar (negli Extra della Festa del cinema) racconta infatti di Antonio Ragusa, pure lui calabrese, partito da Genova nel 1952, approdato in Argentina, a Buenos Aires, dove in pochissimo diviene il nuovo idolo musicale del momento col nome, appunto, di Tony Vilar. É lui che fa impazzire l’America latina modulando Tintarella di luna e Non esiste l’amor, e fa sognare e danzare il mondo al rit- FOTO DI CIBO NEL MONDO do, ci dice che nell’amore il corpo è qui. Ma questi controspazi non sempre sono «piacevoli» come il galeone di Johnny Depp nei Pirati dell’isola dei Caraibi, o il cinematografo. Eterotopie sono anche i club mediterranee, manicomi, cimiteri. Però anche il «letto dei genitori», quando si è piccoli e si scopre che il piacere ha molto a che fare con la punizione (che arriva quando i genitori arrivano). Ancora. La prigione, e anche la «prigione della droga», o un trauma del passato che ti attanaglia e non ti abbandona mai (la morte improvvisa di una persona che hai amato totalmente, per esempio). Sono spazi di reclusione, ma anche di resistenza e di anarchia, per chi li contempla da fuori soprattutto, con i quali gli arti- sti hanno spesso dimestichezza esagerata perché superano l’angusta realtà degli «spazi normali». Vedono ciò che gli altri non vedono. E anche perché, ripeto, non per chi c’è dentro, ma per chi c’è fuori, sono spazi di contestazione che denunciano come illusione l’organizzazione della società presente. Pippo Delbono non ha scritto diretto e interpretato il suo secondo lungometraggio Grido, inteso come film, per raccontarci la sua autobiografia in un momento infrenabile di egocentrismo. Al massimo questo lungo estenuante lavoro di autoconfessione, riprese, montaggio e rifinitura, potrà servire per evitare di rispondere, senza essere maleducato, alla domanda dei critici e dei giornalisti: «scusi, c’è dell’autobiografia nel film?». Festa di Roma Mondanità azzerata Ogni manifestazione che non sia proiezione o conferenza stampa è stata sospesa dalla direzione della Festa in seguito al grave incidente del metro. Aboliti quindi tappeto rosso e eventi mondani. Cancellata la festa finale a Cinecittà con Jovanotti e rimandata a sabato la serata dedicata alla moda. Non si escludono ulteriori variazioni. Già ieri erano state annullate, oltre alle passerelle, la conferenza stampa di Corrado Guzzanti per Fascisti su Marte (rimandata la proiezione a sabato) e la diretta Total Request Live di Mtv a piazza Augusto Imperatore. L’amara eredità del film del clan dei Babluani mo di Quando calienta il sol. Però a un certo punto scompare, e senza ragioni apparenti, anzi nel momento di maggior successo. Anni dopo un cugino lontano (Voltarelli), cresciuto sognando Vilar e pure lui musicista decide di risolvere l’enigma ... Genere dichiarato su schermo e dal regista il mockumentary, gioco di vero e fiction con umorismo e tenerezza che trasformano questo viaggio, anche un po’ di formazione, in un vagare dentro all’immaginario sull’emigrante italiano. Sembrano tutti usciti da un libro di John Fante, dice tra sé il ragazzo Voltarelli (che insieme a Gagliardo scrive pure la sceneggiatura, le musiche sono sue e di Vilar). Eccoci tra le facce da «bravi ragazze», polpette al sugo e negozio da barbiere con memorie di tagli a De Niro laddove il quartiere, siamo in America, se lo sono ormai divorato i cinesi. E le donne brune brune, le camicie sgargianti, gli occhiali a specchio da vecchi film e romanzi di «cosa nostra». In Argentina impastano tango, pranzi, e malinconia. Vilar sta negli States, oggi vende automobili, altro tassello di leggenda. Siamo in un mondo di personaggi in bilico, un po’ immagini letterarie, un po’ storia di questo paese scritta qui e negli «altrove» in cui si sono radicati. Icone e stereotipi ma anche figure vere come le parole di una canzone, come la musica di Vilar. Temur e Gela Babluani, padre e figlio firmano L’héritage (L’eredità). Della Georgia si conosce l’atmosfera soprattutto attraverso i film di Iosseliani, e l’intera cinematografia è diventata famosa in tutta l’Urss per le sue commedie, il suo umorismo. Ma il clan dei Babluani viene dall’ovest, al confine con l’Abkhazia e fa eccezione per la decisa inclinazione verso il dramma, e si può cogliere anche una certa atmosfera da «polar» nei film di Gela, giovane regista scoperto con 13 Tzameti a Venezia dove un ragazzo immigrato si trovava in una situzione insostenibile. Il padre, Temur allievo di Tengiz Abuladze è il regista di La migrazione dei passeri (’80) e Dzma (Fratello, ’81), due film censurati e Il sole degli insonni (’92) dalla lunga gestazione. Un angelico George Babluani (il fratello minore) è l’interprete sia di 13 Tzameti che di questo film del ritorno in patria. I turisti sono personaggi comici di per sè ma qui in maniera un po’ troppo pesante forse sottolineano l’ottusità dei viaggiatori con la loro prosopopea opulenta nei confronti dei paesi di cui non conoscono la storia e che non capiscono. La Georgia, culla della civiltà per via della Colchide e del vello d’oro (ma, avertiva Iosseliani, «i greci hanno cercato di portarci via anche quello»), terra di arti- sti e poeti e della civile Tbilisi è anche un paese di montagne i cui abitanti hanno le loro leggi da sempre. I tre francesi (Sylvie Testud, Stanislas Merhar et Olga Legrand) in viaggio con le loro telecamere troverebbero da riprendere sorprendenti situazioni, se solo fossero un po’ meno primitivi, nonostante la loro spocchia e la mancanza di savoir faire: sotto i loro occhi si svolge un regolamento di conti che da generazioni si trascina senza fine e la loro presenza è la causa di una situazione che precipita, mentre un traduttore osserva e traduce (e talvolta interviene con tatto). Probabilmente l’umorismo amaro della storia è proprio nel raccontare un certo tipo di «osservatore» di ogni paese esso sia, con tutta la sua pesantezza nell’affrontare le situazioni oppure il pubblico in generale che giudica senza conoscere minimamente la storia e le tradizioni di un paese (come i fatti che avvengono oggi che la Georgia è di nuovo in prima pagina). Nel film ci sono momenti di grande poesia, in particolare l’incipit della storia di vendetta in cui nonno e nipote salgono sul pullman e viaggiano verso il loro destino. Ce ne sono anche altri irritanti e sono proprio quelli in cui noi, pubblico occidentale incolto siamo un po’ i protagonisti. (S.S.) sabato con il manifesto a 2,00 € RO EU .00 10 RIPENSARE LA RIVOLUZIONE È IL DESIDERIO CHE CI ATTRAE VERSO I SUOI LIBRI E LE SUE CONFERENZE, DELUSI DAI SOCIALISMI REALI E DALLE POLITICHE DELLE SINISTRE MA NON CONVINTI CHE IL NOSTRO DESTINO SIA UN MONDO IN CUI CONVIVANO REALTÀ ARTIFICIALI DA PAESI DEI BALOCCHI E ORRORI DI TUTTI I TIPI Tsunami Terzani IN QUESTO NUMERO ULTRAVISTA: GENOVA SCONOSCIUTA • FATA MORGANA • ULTRASUONI: IL POP CHE DÀ SCANDALO • L’ERA DEI NIPPOBRASILIANI • JAMES BLOOD ULMER • TALPALIBRI: PALAHNIUK • MANGUEL • WRIGHT • HEYM • MAGISTRETTI IN LIGURIA • CLERICI • NORI • RISSET • DECOUPAGE Sapori disneyani e gusti Slow food Che sapore ha la crostata di uva spina preparata da Biancaneve o il tè del Cappellaio Matto che Alice nel paese delle meraviglie non riuscirà mai ad assaggiare? Nella Reggia di Colorno (Parma) dal 28 ottobre al 7 gennaio si terrà la mostra «Il gusto nell'arte di Walt Disney», curata da due cultori dell'arte e del cibo, il critico cinematografico Marcello Garofalo e lo chef statunitense Ira L. Meyer, rispettivamente curatore e autore di tre volumi dedicati all' argomento. Esposti bozzetti, disegni, artwork originali dei Disney Studios di Burbank. L’incasso della mostra andrà in aiuto ai bambini del Sahrawi e dell'Etiopia. Bobò (a sinistra) e Pippo Delbono (a destra) in «Grido», regia di Pippo Delbono «Tony Vilar», la leggenda del migrante italiano Cristina Piccino Roma calibro 9 ASSALTI FRONTALI MI SA CHE STANOTTE Il sesto disco di Assalti Frontali è un piano sequenza in cui scorrono fatti, sogni, ossessioni e speranze di una banda di strada, frammenti di una biografia collettiva. La musica è frutto del lavoro di Assalti, prodotta artisticamente da Max Casacci e Casasonica. Un ritorno all'Hip-Hop per uno dei rap tra i più poetici e politici. INFO SU CONCERTI, PROSSIME USCITE E MOLTO ALTRO SUL SITO ww.music a.ilmanifesto.it musica.ilmanifesto.it Donne che lavorano il pesce a Dakar fotografate da Walter Mericchi, i mercati della Malesia visti da Alberto Peroli, gli allevatori di yak tibetani ritratti da Paola Vanzo, il caffè di Huehuetenango torrefatto a Torino nel carcere delle Vallette nelle foto di Alberto Peroli. Sono alcune delle opere della mostra di Terra Madre a Atrium (Torino) esposte da oggi al 12 novembre. La mostra è preludio alla kermesse di Terra Madre in programma dal 26 al 30 ottobre all'Oval del Lingotto. Le foto raccontano i presidi Slow Food presenti in 39 paesi del mondo. FERITO RAPPER FABOLOUS Il rapper statunitense Fabolous è stato ferito ieri a una gamba da un colpo di pistola in un parcheggio sotterraneo a Manhattan. I quattro aggressori sono fuggiti a bordo di un auto a grande velocità, attirando l'attenzione di una pattuglia di polizia, che dopo averli fermati ha trovato due armi nell'auto. Il rapper di origine afroamerica e dominicana, è diventato una star nel 2001 con il singolo «Can't deny it». Da quel momento il cantante è diventato uno dei più importanti esponenti della musica rap per la sua sensibilità nel raccontare i problemi razziali con complessi ritmi musicali e testi ironici. Il suo stile è stato paragonato a quello di Murda Mase. INDIPENDENTI DAL MAGHREB Un luogo di diffusione dei film dell'area del Medio Oriente e del Maghreb, realizzati a margine dei circuiti commerciali di produzione e distribuzione cinematografica. È il primo Festival Sinima, organizzato dalla Ong Cives Mundi dal 23 al 27 ottobre fra Soria e Madrid. BUON VIAGGIO ANDREA PARODI È morto ieri il cantante Andrea Parodi. L'ex leader dei Tazenda combatteva da circa un anno con un tumore. Durante questo periodo Parodi non ha smesso di esibirsi collaborando con diversi artisti. Tra i suoi successi «Spunta la luna dal monte» e «Pitzinnos in sa guerra» (nato da una collaborazione con Fabrizio De Andrè). «C'è un momento, tra la notte e il giorno - si legge sul sito web dell'artista - che non è nè notte nè giorno. Quello, è un momento di AbacadA...Dopo la sua AbacadA, Andrea ora canta e canterà sempre ancora per noi, nell'aria, e dovunque. Perchè la vita è bella. Buon viaggio, capitano!». 16 il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 sport Avvio sorprendente del campionato di basket con Benetton ko Scafati e Capo d’Orlando, entusiasmo a canestro Stefano Milani Siamo solo alla seconda giornata ma a leggere la classifica di serie A di pallacanestro c'è già qualcosa che non torna. Non torna che la squadra campione d'Italia in carica, la Benetton Treviso, sia laggiù nei bassifondi a litigare col canestro cercando risposte ai suoi perché. Perché Siskauskas è volato in Grecia? Perché al suo posto sono arrivati Lyday e Frahm che in due, finora, non ne fanno uno buono? Perché Bargnani non strappa il contratto coi Toronto e torna in terra veneta? Due partite altrettante sconfitte, non accadeva da vent'anni per i biancoverdi scudettati. Non era mai accaduto invece che - ed è la seconda cosa che non torna - in testa arrivassero, zitte zitte dal profondo sud, due squadrette di provincia come Scafati e Capo d'Orlando, a godersi il meritato primato alla faccia di formazioni più blasonate, tecnicamente più attrezzate e, soprattutto, con maggiore liquidità nelle casse societarie. I campani hanno impiegato trentasette anni per raggiungere il paradiso, esattamente dal 1969 anno di nascita della Scafati Basket spa, dopo diversi tentativi nel purgatorio della Legadue. Domenica a festeggiare l'evento erano in 3.700, perché di più non potevano entrare al PalaMangano di via della Gloria, troppo stretto per contenere l'entusiasmo di un comune di 45mila anime letteralmente impazzite per il pallone a spicchi. Il presidente gialloblu, Nello Longobardi, padrone dell'omonima ditta di conserve alimentari nonché terzo sponsor ufficiale del club, sprizza gioia da tutti i pori, e le sue dichiarazioni all'indomani del successo contro Reggio Emilia sembrano quelle di un veterano che già la sa lunga. «Il nostro obiettivo resta la salvezza», «Dopo questi primi due successi siamo a dieci vittorie dal nostro traguardo», e tutto il frasario di circostanza. Diplomazia doverosa, con l'aggiunta di un pizzico di superstizione campana, perchè la mezzanotte è dietro l'angolo e da principessa a tornare cenerentola ci vuole davvero un attimo. Specie a vedere il calendario: prima la trasferta a Milano poi in casa con Treviso. Due impegni titanici, come da tradizione delle migliori favole. Stavolta però il lieto fine non sembra così scontato. Dalla Campania alla Sicilia il passo è breve e l'euforia alle stelle. E il piccolo comune messine- Alvin Young della Legea Scafati, 58 punti in due partite se di Capo d'Orlando, 13.000 abitanti, si coccola la sua Orlandina che sabato scorso ha inflitto dodici punti nientemeno che ai vice campioni della Fortitudo Bologna schizzando in alto a sinistra della classifica. Novità assoluta visto che la stagione scorsa, la loro prima nella massima serie, non ci si schiodava dal basso a destra, oscillando dal quattordicesimo al sedicesimo posto della graduatoria. Quest'anno però la squadra sembra avere una marcia in più, frutto di un rinnovamento generale che ha portato nel piccolo comune siciliano ben sette esordienti in serie A. Su tutti lo statunitense Alvin Young (dal 2001 tre campionati a Reggio Emilia) classe '75 che in due partite ha confezionato la bellezza di 58 punti lasciando tutti a bocca aperta e proponendosi di diritto come uno dei migliori realizzatori del torneo. Ma anche qui stare con i piedi per terra è l'imperativo assoluto e guai a farsi illusioni, parola di coach Giovanni Perdichizzi, triestino trapiantato in Sicilia ormai da anni: «Al di là di queste due vittorie, il nostro obbiettivo, quello richiesto dalla società, è la salvezza. Noi andiamo in campo pensando a una partita per volta». E il prossimo pensiero è di quelli da far venire il mal di testa: a Bologna contro la Virtus, per il primo chi l'avrebbe mai detto - vero scontro al vertice. Sognare, a questo punto, non costa nulla. Champions Persport Roma ad Atene, diretta tv Scontro Chelsea-Barca Lotito e l’irriducibile Chinaglia, che spettacolo. Il calcio può attendere R. Sp. Roberto Duiz Sotto shock per il grave infortunio che ha colpito il portiere Petr Cech, il Chelsea oggi affronta il Barcellona in Champions League. Le due squadre si trovano di fronte per la terza stagione di fila nel massimo trofeo continentale:la prima volta prevalsero gli inglesi, l'anno scorso i catalani, sempre al termine di confronti aspri e pieni di polemiche. «Anche stavolta sarà una partita difficile - assicura Eidur Gujohnsen, passato pochi mesi fa proprio dal Chelsea al Barca - si tratta di due squadre solide, organizzate, che possono arrivare in fondo alla competizione. Sono queste le gare che più amo giocare». Etòo e Belletti sono le principali assenze per Rijkaard, mentre Mourinho sarà costretto a schierare il terzo portiere Hilario visto che pure Cudicini è uscito malconcio dall'incontro con il Reading per uno scontro di gioco. Comunque vada a finire il loro doppio confronto, Chelsea e Barcellona non dovrebbero avere problemi a superare il gruppo A, visto che Werder Brema e Levski Sofia, in campo in Germania, dovrebbero limitarsi a lottare tra di loro per il ripescaggio in Coppa Uefa. Situazione più che confortante anche per Bayern Monaco e Sporting nel gruppo B, quello dell'Inter che si misura con lo Spartak Mosca. Bavaresi e portoghesi si affronteranno stasera a Lisbona e un pari potrebbe essere risultato di lusso per entrambe, soprattutto se il segno X dovesse uscire anche a San Siro. Possibilità di dilagare nel gruppo C, invece, per Liverpool e Psv Eindhoven, appaiate in testa con quattro punti: gli inglesi saranno di scena a Bordeaux, mentre gli olandesi giocheranno a Istanbul contro il Galatasaray. Si tratta di una sfida inedita: nei quattro precedenti con squadre inglesi, comunque, il Bordeaux non ha mai vinto. Nel gruppo D, oltre a Olympiakos-Roma (in diretta Raiuno, ore 20.30)con gli uomini di Spalletti che faranno a meno di Mancini, Mexes, Montella e Pizarro, è in programma Valencia-Shakhtar Donetsk, con gli spagnoli a caccia del terzo successo di fila. Q uanti punti di penalizzazione condonerà l'Arbitrato del Coni alla Lazio (così come a Fiorentina, Milan, Juventus, Reggina) lo si saprà solo verso la fine del mese. Che qualche condono ci sarà viene dato per certo, anche se la speranza diffusa è che la clemenza sia moderata, in modo di non dare la conferma ad un sospetto che si va già pericolosamente diffondendo. E cioè che tutto l'affare Calciopoli sia in via di sgonfiamento e che tutto stia tornando più o meno come prima, anche se con protagonisti diversi. I più dietrologicamente maligni dicono che, dietro a tutto, ci sia lo zampino manovriero di Moratti, per ribaltare a suo favore lo strapotere di Juventus e Milan che penalizzavano l'Inter. Chi sostiene questa tesi deve sostenere anche l'imbarazzo di condividerla con Moggi, che è un peso non idifferente. Ma quali che siano le nuove sentenze, Lotito, il presidente che ha salvato la Lazio dal fallimento, tipo stravagante, facile alle citazioni in greco che la D'Amico a Sky scambia per latino, un condono non da poco l'ha già ottenuto, alleggerito dall'ingombro di Chinaglia e i suoi alleati e complici, che gli hanno reso la vita difficile negli ultimi anni, se non proprio impossibile. Minacce a lui e alla sua bella moglie, volgari allusioni a stupri assassini modello Circeo, per costringerlo a cedere la società a un gruppo dalle connotazioni losche, intascando denaro riciclato.E al centro di tutto il traffico illecito proprio lui, Giorgio Chinaglia, Giorgione o Long John, a seconda del grado di confidenza, ex ariete d'area della Lazio campione d'Italia, migrato in Gran Bretagna a vent'anni, rientrato in patria e riemigrato negli Stati Uniti a trenta per giocare nei Cosmos assieme a Pelé. Poi rientrato ancora, dopo il flop di un'operazione che avrebbe dovuto lanciare il calcio stellare in America e non ci riuscì, ancora affamato di Lazio, di cui riuscì a diventare presidente per un paio di stagioni, giusto il tempo di accompagnarla nella retrocessione in serie B. Eppure sempre idolo della curva Nord, quella degli Irriducibili, che non disdegnano di esporre striscioni anti ebrei e pro Auschwitz, autori di slogan razzisti e destinatari privilegiati dei saluti romani di Di Canio, altro eroe della curva nella generazione successiva a quella di Long John, a sua volta grande accusatore di Lotito e che, coerentemente, ora (domenica a Quelli che il Calcio) si è schierato in difesa del suo predecessore e della sua gang. Non è un bello spettacolo, ma tant'é. Il calcio può attendere. Al momento si parla di riciclo di soldi mafiosi transitanti prima attraverso l'Ungheria e poi dirottati verso l'America, di cointeressenze nell'«affare» di alcuni capi degli ultras più fascisti d'Italia. Qualcuno è già in galera. Long John, colpito da mandato d'arresto, per ora se ne sta in America, senza sbarre cui affacciarsi. Gli Irriducibili non demordono. Domenica, dopo tutto il trambusto, hanno esposto all'Olimpico uno striscione che recitava: «Colpevoli di amare la Lazio». Ma quale Lazio, quella di Chinaglia e i trafficanti di cui è testimonial per garantire la complicità degli ultras? Comme d'habitude hanno fischiato l'odiato Lotito (altrimenti che «irriducibili» sarebbero?). Daniela Fini, invece, che per quelli della curva Nord non ha mai nascosto un debole, Lotito l'ha baciato. Un bacio casto, naturalmente, meglio precisare in quest'era di gossip intensivo. Qualche timido applauso per contrastare i fischi degli Irriducibili, colpevoli «solo» di amare la Lazio, c'è stato, come a segnare l'inizio di un'operazione di pulizia nella tifoseria laziale che non sarà indolore. il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 17 televisioni CULT programmi di oggi 16.00 L’INFEDELE EROTISMO GAY LA 7 La centralità assunta nella cultura occidentale dai simboli e dall’erotismo gay. Con Gad Lerner ne parlano stasera Walter Siti, curatore delle opere di Pasolini e autore del romanzo «Troppi paradisi»; il senatore Rocco Buttiglione, il filosofo Romano Madera, la teologa musulmana Patrizia Dal Monte, il direttore del settimanale «Tempi» Luigi Amicone, il direttore di «Rolling Stone» Carlo Antonelli e il culturista Carlo Masi. 21.30 RADIO3SCIENZA UNA SPESA ALLUCINANTE RADIO 3 Smart shop, negozi furbi. Così si chiamano i punti vendita dove è possibile comprare sostanze psicoattive, ma legali. Franco Carlini ne parla con Carmelo Furnari, docente di tossicologia forense e Danilo Ballotta, entrambi membri del comitato scientifico Osservatorio europeo droghe e tossicodipendenze (Emcdda). A seguire la storia del fondatore dell’Istat, Corrado Gini, statistico, demografo e sociologo nell’Italia di Mussolini. 11.30 LEZIONE D’ARTE DI DARIO FO IL DUOMO DI MODENA RAI 3 Il Duomo di Modena, uno dei più fulgidi esempi di stile romanico, è stato dichiarato «patrimonio dell'umanità» dall'Unesco. Cosa distingue questo capolavoro e lo rende unico? La sua storia e ciò che rappresenta. È un libro di pietra, e anche qualcosa di più della «Bibbia dei poveri» come la definivano i romantici dell'800. Con «Il tempio degli uomini liberi – il Duomo di Modena» si chiude stasera il ciclo di sei puntate delle lezioni d’arte di Dario Fo. 23.40 mattino pomeriggio sera IL RITORNO DI DON CAMILLO DI JULIEN DUVIVIER ITALIA 1952 (100’) RETE 4 Peppone e Don Camillo dal romanzo che Guareschi aveva scritto nel `48 diretto dal regista francese di «Pepe le Moko», poi rifugiatosi negli Usa durante la guerra. Duvivier dirigerà anche Il ritorno di Don Camillo, poi sarà la volta di Gallone e Camerini. Fernandel e Gino Cervi danno il volto a due caratteri italiani di poca ideologia e molto buon senso. 21 9 GIUDA DI RAFFAELE MERTES ITALIA 2000 (90’) RETE 4 Giuda, figlio di un ricco mercante ha abbandonato la famiglia per seguire il Messia, credendo che lui sarà il condottiero che libererà il suo popolo dall’oppressore romano. Mertes, già direttore della fotografia realizza questo film per la tv interpretato da Enrico Lo Verso che ha dichiarato di aver sempre sognato di interpretare Gesù o Giuda («sarà per la mia schizofrenia»), Danny Quinn e Mathieu Carrière. 16.20 6 MONELLA DI TINTO BRASS ITALIA 1997 (95’) RETE 4 Anna Ammirati con «quel certo non so che» che sbandiera per tuttoil film è la protagonista del film, colori pastello, atmosfere Robbe Grillet, ma più terragno, un inno alla «gioia di vivere» epicurea. Il suo partner Mario Parodi (26 anni, ex difensore del Genoa, esordiente) e Serena Grandi (nel film la mamma). Trattandosi di Brass il divieto ai minori di 18 anni è di rigore. 23.35 1 TORNANDO A CASA DI HAL ASHBY USA 1978 (127’) STUDIO UNIVERSAL «Coming Home» di gusto marcatamente anni settanta, con una sceneggiatura scritta da Jane Fonda e tre Oscar al suo attivo: è un classico film della guerra del Vietnam, realizzato una decina di anni dopo dall'epoca più calda, storia della guerra vista con gli occhi di una donna che non si arrende. 21 9 RAI2 RAI3 17.10 Che tempo fa (all’interno) 18.50 L’eredità, conduce Carlo Conti. Regia di Maurizio Pagnussat. 20.00 Telegiornale 20.30 Calcio, UEFA Champions League Olympiakos: Pireo Roma (in diretta da Atene) 22.45 Un Mercoledi da Campioni, conduce Marco Civoli. 23.20 TG1 19.10 20.00 20.15 20.30 20.55 21.05 20.30 Un posto al sole 21.00 La Squadra 7, con Massimo Bonetti, Massimo Wertmuller, Toni Sperandeo. 23.05 TG3 - TG Regione 23.20 TG3 Primo Piano 23.40 Lezione d’arte di Dario Fo Ultima puntata “Il tempio degli uomini liberi - Il Duomo di Modena,seconda parte” 18.55 TG4 - Meteo 4 19.35 Sipario del TG4 20.10 Walker Texas Ranger “Un rivale scomodo - seconda parte “con Chuck Norris,Michael Greyeyes. 21.00 Il ritorno di Don Camillo (Commedia,1953) con Fernandel,Gino Cervi,Paolo Stoppa,Leda Gloria.Regia di Julien Duvivier. 1.15 TG Parlamento 1.25 RaiSport Motorama 1.55 Meteo 2 0.40 TG3 - TG3 Night News - Meteo 3 0.50 Rai Educational - La Storia siamo noi l problema della crescita della popolazione urbana è planetario. A dispetto degli studi e delle sperimentazioni, l’ecopolis, anzi l’ecometropolis (che sia il più possibile autosufficiente, a ciclo chiuso e riciclaggio spinto, con fonti rinnovabili e perfino produttrice di alimenti) sembra ancora un miraggio. Oggi le città, le metropoli (oltre un milione di abitanti) e le megalopoli (oltre i dieci milioni), per non dire delle supermegalopoli (agglomerati urbani senza soluzione di continuità) sono assolutamente insostenibili, energivore e idrovore, in percentuali pro capite nettamente più pesanti delle campagne. E naturalmente sono inumane. Fosco il futuro, dato che il 2007 segnerà il sorpasso della città sulla campagna: la popolazione urbana diventerà maggioranza e nel 2050 potrebbe raggiungere i quattro quinti del totale. Un editoriale del quindicinale indiano Down to Earth cala l’enorme sfida nella realtà dell’India. Scrive Sunita Narain, direttrice dell’istituto ambientalista Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi, che l’India urbana è sul punto di esplodere. Fa notare l’incoscienza di politici e cittadini che non vedono, ad esempio, le implicazioni profonde della proliferazione di centri commerciali e di quartieri benestanti difesi da guardie armate, isole di India igienicamente pulita e armata contro il circostante lerciume. L’intensità di capitale legata alla crescita urbana è fatta per separare nettamente i ricchi dai poveri (benché in città an- 22.30 TGCom - Meteo (nell’inter.) 23.20 L’antipatico 23.35 Monella Film Marinella Correggia Gli incubi indiani metropolitani che i più poveri - accettando di vivere in situazioni di assoluto degrado - trovino più facilmente almeno un piatto di riso, cosa non scontata nelle aree rurali in presenza di avverse condizioni climatiche e politiche). I costi elevati dei servizi urbani - approvvigionamento idrico, servizi igienico-fognari, rimozione dei rifiuti, trasporti - richiedono grandi investimenti e attenzioni sociali. In assenza di ciò, c’è una forzata convivenza fra aree confortevoli e ghetti. Secondo l’ambientalista, «il modello cosiddetto ’sostenibile’ della crescita urbana ha funzionato - e solo parzialmente - nel mondo industrializzato grazie alla ricchezza accumulata in precedenza. I paesi ricchi hanno potuto permettersi di temperare gli effetti negativi della crescita urbana attraverso investimenti pubblici e sussidi. Eppure, anch’essi perdono colpi rispetto alla dimensione dei problemi ambientali e sociali, per attenuare i quali devono investire sempre di più». Più in generale come si farà a dare alle moltitudini urbane acqua, case, servizi igienici e relativa depurazione, e perfino i parcheggi per sempre più auto? Dove e come andranno seppellite o incenerite le montagne di rifiuti cittadini? Se per alcuni la soluzione appare relativamente facile - dare in appalto ai privati la creazione e la gestione delle infrastrutture o estendere il partenariato pubblico-privato, è certo che la sfida è molto più grande. L’intensità di capitale e di risorse di questo modello fa sì che nel mondo «in via di sviluppo» molti servizi siano BELLO MAGICO CLASSICO Norma Rangeri CANALE5 6.15 TG4 - Rassegna stampa 6.25 Secondo voi 6.35 Peste e corna e gocce di storia, conduce Roberto Gervaso. 6.40 Media Shopping 6.50 Quincy “Duplice omicidio” 7.50 Charlie’s Angels “Angelo nella notte”con Cheryl Ladd,Jaclyn Smith,Kate Jackson. 8.40 Vivere meglio, conduce Fabrizio Trecca. 9.55 Saint Tropez “Un amore insopportabile”con Benedicte Delmas,Tonya Kinzinger. 10.50 Febbre d’amore, con Peter Bergman,Michelle Stafford. 11.28 Vie d’Italia notizie sul traffico 11.30 TG4 11.40 Forum 13.30 TG4 - Meteo - TG4 14.00 Renegade “La canzone di Val” con Lorenzo Lamas. 15.00 Sai xchè? 16.20 Giuda - Gli amici di Gesù (Storico,2000) con Enrico Lo Verso,Aglaia Szyskowitz,Hannes Jaenicke.Regia di R.Mertes. 17.50 TGCom - Via d’Italia notizie sul traffico (nell’intervallo) terraterra I RETEQUATTRO 6.00 RAI News 24 Morning News 8.05 Rai Educational - La Storia siamo noi, conduce G.Minoli. 9.05 Verba volant: clandestino 9.15 Cominciamo bene - prima, conduce Pino Strabioli. 9.50 Cominciamo bene 12.00 TG3 - Rai Sport Notizie Meteo 3 12.25 TG3 Agritre 12.45 Cominciamo bene - Le storie 13.10 Agenzia Rockford “ Battaglia a Canoga Park”con James Garner. 14.00 TG Regione - Regione Meteo 14.20 TG3 - Meteo 3 14.50 TGR Leonardo 15.00 TGR Neapolis 15.10 Trebisonda presenta: La TV dei ragazzi 16.15 TG3 GT Ragazzi 16.25 Papà castoro, cartoni animati. 16.35 Melevisione 17.00 Cose dell’altro Geo, con Sveva Sagramola. 17.40 Geo & Geo 18.10 Meteo 3 (all’interno) 19.00 TG3 19.30 TG Regione - Regione Meteo 20.00 Rai TG Sport 20.10 Blob 1.00 TG1 - Notte 1.25 TG1 Cinema - Che tempo fa COSÌ COSÌ E’ in corso la campagna promozionale del progetto Gentiloni. Il ministro fa la spola da un programma all’altro per spiegare i contenuti della riforma del mercato televisivo italiano. L’altra sera ne discuteva a Ottoemezzo, poi a tarda ora lo abbiamo visto trasferirsi nel salotto di Porta a Porta, e la sua presenza era annunciata anche a Ballarò. Naturale che se ne parli, siamo pur sempre il paese di Berlusconia, guadagniamo i primi posti per teledipendenza e gli ultimi per la zavorra del duopolio. Meno naturale che a discuterne non vengano mai invitati Paolo Gentiloni quelli che potrebbero raccontare storie interessanti. Per esempio il signor Francesco Di Stefano (che da anni attende di ricevere le frequenze di Rete4 avendone ottenuto la concessione), o uno dei tanti teleutenti stufi di pagare il canone per l’overdose di belle bionde e onnipresenti marzulli, magari un Enzo Biagi, in omaggio alla lunga esperienza, per il merito di aver inventato una novità televisiva (Il Fatto), per l’onore di essere stato bandito dai pubblici teleschermi dal potere politico. Invece ecco Iva Zanicchi chiamata da Vespa in quanto combattente della causa berlusconiana. «Sono molto ignorante in materia - confessa la cantante ma vorrei sapere quante persone verranno licenziate da Rete4». A metterla sulla strada della propaganda di basso conio ci aveva pensato il conduttore medesimo intitolando la serata con un secco "Rai e Mediaset, una rete in meno". Il ministro Gentiloni non ha gradito e alla fine, malvolentieri, quella frase è stata corretta con "Rai e Mediaset, una rete in digitale". Oltretutto, 6.20 L’isola dei famosi, conduce Paolo Brosio. 7.00 Random, con “Little Einstein”“La casa di Topolino”“Monster Allergy”“Eppur si muove”“Clic & Kat”“ Nadja Applefields” “Fimbles”“I Bi-Bi”“Le nuove avventure di Braccio di Ferro” 9.45 Rai Educational Un mondo a colori - magazine “ Nostalgia fatale”, 10.00 TG2 - Meteo 2 11.00 Piazza Grande 13.00 TG2 - Giorno 13.30 TG2 Costume e Società 13.50 TG2 Salute 14.00 L’Italia sul 2, conducono Monica Leofreddi e Milo Infante. 15.00 In diretta dalla Camera dei Deputati, “Question time”, interrogazioni a risposta immediata 16.20 Il pomeriggio di Wild West 17.15 Squadra speciale Cobra 11 “Un felice risveglio - seconda parte” 18.05 TG2 Flash L.I.S. 18.10 Rai TG Sport 18.30 TG2 - Meteo 2 18.50 Wild West notte23.25 Porta a porta, SOPORIFERO Il mite ministro punge il cuore di Vespa 6.10 Strega per amore “Jeannie diventa attrice”con Larry Hagman,Barbara Eden. 6.30 TG 1 - CCISS Viaggiare 6.45 Unomattina 9.35 Linea Verde Meteo Verde (all’interno) 10.45 TG Parlamento 10.50 Appuntamento al cinema 11.00 Occhio alla spesa, un programma ideato e condotto da Alessandro Di Pietro.Regia di Roberta Ricca. 11.25 Che tempo fa 11.30 TG1 12.00 La prova del cuoco 13.30 Telegiornale 14.00 TG1 Economia 14.10 Sottocasa 14.35 Festa Italiana Storie, conduce Caterina Balivo. 15.05 Il Commissario Rex “Il bluff” con Gedeon Burkhard. 15.50 Festa italiana, conduce Caterina Balivo.Un programma di Valter Preci,Daniel Toaff. Regia di Salvatore Perfetto. 16.15 La vita in diretta 16.50 TG Parlamento (all’interno) 17.00 TG1 (all’interno) L’isola dei famosi Warner Show Tom & Jerry TG2 - 20.30 TG2 10 Minuti L’isola dei famosi, conduce Simona Ventura. 0.30 TG2 0.40 Weeds , “Non puoi sfuggire all'orso!” RIVOLTANTE vespri film di oggi ATLANTIDE KATHERINE HEPBURN E MARIA STUART LA7 Le « Storie di uomini e di mondi» presentate oggi da Francesca Mazzalai sono quelle di Katherine Hepburn e di Maria di Scozia. «Ci sono donne e donne, e poi c'è Kate. Ci sono attrici e attrici, e poi c'è la Hepburn»: parola di Frank Capra. Maria Stuart divenne regina di Scozia a 6 giorni, a 17 regina di Francia. Ebbe una vita quasi sempre tumultuosa e dolorosa. Morì sola e senza regni, a 40 anni, sul patibolo. RAI1 LETALE INSOSTENIBILE troppo costosi anche per le classi relativamente privilegiate. In un simile scenario, le città proprio non ce la fanno a estenderli. Tanto più che i poveri in quelle realtà sono almeno il 30-50 per cento dei cittadini, abitanti in slum, quartieri non autorizzati, insediamenti illegali. Almeno il 20-30 per cento non riesce nemmeno a pagare il bus e va a piedi o in bici. Eppure, ricerche condotte in città relativamente ricche e in rapida modernizzazione, come New Delhi, mostrano che il 60 per cento degli abitanti usano al massimo i mezzi pubblici, i quali occupano solo il 7 per cento dello spazio stradale, mentre i mezzi privati occupano il 75 per cento delle strade per trasportare un 20 per cento di privilegiati. Insomma, l’auto non ha sostituito i bus o le biciclette: piuttosto, li ha emarginati, ne ha ristretto gli spazi e l’agibilità. E invece, per combinare la convenienza della mobilità per tutti e gli imperativi della salute, città come Delhi e le altre, in un paese «povero e ricco» come l’India, dovrebbero assolutamente affidarsi al trasporto pubblico, usando le tecnologie più avanzate. Quanto all’acqua e ai servizi igienico-fognari, occorrerebbe puntare su soluzioni di autosufficienza (il Cse da tempo sostiene progetti di raccolta di acqua piovana in città) o quantomeno ridurre la lunghezza delle tubazioni, che è direttamente proporzionale alle perdite. Una città efficiente si approvvigiona nelle vicinanze e si incarica di evacuare e neutralizzare i rifiuti ugualmente vicino. E una città efficiente, pulita, vivibile in India non deve imitare le città del mondo sviluppato ma creare nuovi modelli. 6.00 7.55 7.58 8.00 8.50 9.30 10.45 11.50 12.20 13.00 13.30 13.40 14.10 14.15 14.45 16.15 17.00 17.40 18.15 18.50 come ha fatto presente Bianca Berlinguer, volto del Tg3, non si capiscono tutte queste lacrime per Rete4 e nemmeno un pensierino per la rete Rai destinata a ugual sorte. Particolari di poca importanza visto che il principale scopo di questi talk-show è imbottire l’etere di vecchie polemiche ed eterni protagonismi. Per esempio Vespa che gentilmente ci informa di preferire un editore di riferimento partitico piuttosto che imprenditoriale (e ce ne eravamo accorti), che lancia accorati appelli («non ci ammazzate»), che ripete la tiritera di quella volta che Agnelli gli disse che non voleva entrare nel mercato delle tv, che solo Berlusconi è stato bravo, mentre i Mondadori e i Rizzoli hanno sempre fallito per incapacità. A dargli man forte il capo degli inserzionisti, il berlusconiano Malgara, sempre pronto a ribadire che il monopolista privato deve crescere. E apriti cielo quando Gentiloni scopre l’acqua calda, ovvero che un servizio pubblico si riconosce per la diversità della sua missione, per la qualità dei programmi, per la minor presenza della pubblicità e il minor potere dell’Auditel. Vespa pretende l’annuncio immediato dell’aumento del canone, guardandosi bene dal ricordare che il centrodestra, per l’occasione rappresentato dal presidente della Vigilanza, Landolfi, il canone lo avrebbe voluto diminuire. C’è da capirlo: l'identikit del nuovo servizio pubblico disegnato dal ministro Gentiloni sembrava l’esatto contrario del programma che lo ospitava [email protected] LA7 ITALIAUNO TG5 - Prima Pagina Traffico - Meteo 5 Borsa e Monete TG5 - Mattina Un sorriso come il tuo (Commedia,1997) con Greg Kinnear,Lauren Holly.Regia di Keith Samples. TG5 Borsa Flash - Meteo (all’interno) Un detective in corsia “Una bambina da proteggere” con Scott Baio,Dick Van Dyke. Reality Circus Vivere TG5 - Meteo 5 Secondo voi Beautiful Tutto questo è soap CentoVetrine Uomini e Donne, conduce Maria De Filippi.Regia di Laura Basile. Buon pomeriggio, conduce Maurizio Costanzo. TG5 Minuti (all’interno) Amici Tempesta d’amore Fattore C, conduce Paolo Bonolis. 20.00 TG5 - Meteo 5 20.31 Striscia la Notizia - La voce del turbolenza, conducono Ezio Greggio e Michelle Hunziker. 21.00 Reality Circus - conduce Barbara D’Urso con la partecipazione di Andrea Pellizzari. 0.35 Matrix, conduce Enrico Mentana. 1.20 TG5 - Notte - Meteo 5 1.50 Striscia la Notizia - La voce del turbolenza (R) 7.00 Dora l’esploratrice 7.20 Il mondo di Benjamin 7.35 L’Ape Maia “Il lombrico Max” 8.00 Magica Doremì 8.25 Pixie & Dixie “Batty il pipistrello” 8.35 Doraemon 9.05 Settimo cielo “Chi lo sapeva?” 10.10 3 Minuti con Media Shopping 10.15 L’uomo con la scarpa rossa (Commedia,1985) con Tom Hanks,James Belushi,Charles Durning.Regia di Stran Dragoti. 11.15 TGCom - Meteo (nell’intervallo) 12.15 Secondo voi 12.25 Studio Aperto - Meteo 13.00 Studio Sport 13.40 Naruto “La rivincita di Sakura” 14.05 Dragon Ball Z 14.30 I Simpson 15.00 Paso Adelante - Nuovi episodi “L’occhio indiscreto della telecamera”con Pablo Puyol. 15.55 Zoey 101 “La febbre del teatro” 16.20 Scooby-Doo 16.50 Keroro 17.20 Spongebob 17.35 Georgie “Scuola...che passione!” 18.00 Ned - Scuola di sopravvivenza 6.00 TG La7/Meteo/oroscopo/ traffico/informazione 7.00 Omnibus 9.15 Punto Tg 9.20 2’ un libro, invito alla lettura e proposte editoriali. 9.30 Due South - Due poliziotti a Chicago “Soldi facili”con David Marciano,Paul Gross,Catherine Bruhier. 10.30 Il barone rosso, documentario. 11.30 Matlock “Il talk show”con Andy Griffith,Linda Purl,Kene Holliday. 12.30 TG La7 13.00 Il tocco di un angelo“The one that got away”con Roma Downey. 14.00 Quando torna l’inverno (Commedia,1961) con Jean Gabin,Gabrielle Dorziat,Suzanne Flon,Paul Frankeur.Regia di Henry Verneuil. 16.00 Atlantide – Storie di uomini e di mondi “Katherine Hepburn” “Maria di Scozia” 18.00 J.A.G. - Avvocati in divisa “Fantasma” 19.00 Star Trek - Deep Space Nine “In cerca dei fondatori seconda parte” 18.30 Studio Aperto - Meteo 19.00 3 Minuti con Media Shopping 19.05 Tutto in famiglia “Questione di ciccia”con Damon Wayans. 19.35 La pupa e il secchione 20.10 Mercante in Fiera 21.05 Dr. House - Medical Division “Sotto la pelle ”“Sesso assasino ”con Hugh Laurie,Lisa Edelstein. 22.55 La pupa e il secchione - Hot 20.00 TG La7 20.30 Otto e mezzo 21.30 L’Infedele - Quarta puntata “Siamo tutti omosessuali?” conduce Gad Lerner.Tra gli ospiti presenti in studio questa sera: il Sen.Rocco Buttiglione e Walter Siti. 23.35 Markette, conduce Piero Chiambretti. 23.30 Golden Celebrities On Ice Tributo alle Olimpiadi, (dal Mazdapalace di Milano) 1.05 TG La7 1.30 25ª ora - Il cinema espanso 2.55 Otto e mezzo (R) SKYTV SKY SPORT1 13.03 Mondo Gol (replica) - 14.00 Sport Time (diretta) - 14.30 Futbol Mundial (replica) 15.02 Calcio Roma 2006/07: Roma - Shakhtar Donetsk (replica) - 16.03 Calcio Juventus 2006/07: Juventus - Roma (replica) - 17.02 Calcio Milan 2006/07: Anderlecht - Milan (replica) - 18.02 Calcio Inter 2006/07: Inter Bayern Monaco (replica) - 19.30 Sport Time (diretta) - 20.00 Calcio, Prepartita (diretta) 20.41 Calcio, Uefa Champions League 3ª giornata: Inter - Spartak Mosca (diretta) 22.45 Calcio, Postpartita (diretta). SKY SPORT2 12.30 Kotv, episodio 37 - 13.00 Wrestling Int. Heat, episodio 7 - 13.55 Rugby, Currie Cup: State Cheetahs - Blue Bulls (replica) - 15.43 Volley, Camp. Italiano Serie A1 maschile 7ª g.: Itas Diatec Trentino - Copra Piacenza (replica) 17.45 Basket, Camp. Italiano Serie A maschile 2ª giornata: Benetton Treviso - Angelico Biella (replica) - 19.30 Wrestling Int. Heat, episodio 7 - 20.25 Volley, Camp. Italiano Serie A2 maschile 4ª g.: Mail Service CoriglianoSparkling Milano (replica) - 22.30 Football Americano NFL (replica). CULT 09.00 Il vento ci porterà via (Drammatico, 1999) di Abbas Kiarostami - 11.00 First Ladies: Marocco 11.00 First Ladies: Marocco - 12.00 First Ladies: Arabia Saudita - 13.00 Contacts 13.30 Chicago, il seme dell’impero - 14.00 La casa della gioia (Drammatico) - 16.30 Il festival nel deserto - 18.00 Chicago, il seme dell’impero - 18.30 Questo è il giardino (Drammatico) - 20.30 City Folk - 21.00 Correggi la fortuna - 22.00 City of Men - 23.00 Requiem for a Dream (Drammatico, 2000) con Ellen Burstyn,Jared Leto - 1.00 Correggi la Fortuna. SKY CINEMA MANIA 14.50 C’era una volta in Messico di Robert Rodriguez. - 16.37 Gianni Canova - Il Cinemaniaco: Le avventure acquatiche di Steve Zissou - 16.50 Genesisdi C. Nuridsany, M. Pèrennou. - 18.08 Locandina - Saranno Famosi - 18.20 Speciale - Cinderella Man, il Cinema sul Ring - 18.55 Good Night, and Good Luck di G. Clooney. - 20.25 Extralarge - Sin City - 20.46 Hollywood Flash - 21.02 Le regole dell’attrazione di Roger Avary. - 23.00 Speciale: Le regole dell’attrazione - 23.30 Kinski - Il mio nemico più caro di Werner Herzog. 8.00 The Fighting Temptations di Jonathan Lynn. 10.04 Extralarge - Sin City - 10.25 The Clan di Christian De Sica. - 12.05 Jersey Girl di Kevin Smith. 13.48 Gianni Canova - Il Cinemaniaco: Le avventure acquatiche di Steve Zissou - 14.00 36, Quai des Orfèvres di Olivier Marchal. - 15.54 Inside Romanzo criminale - 16.10 2 single a nozze di David Dobkin. - 18.13 Extra - Oliver Twist - 18.25 Oliver Twist di Roman Polanski. - 20.38 Extralarge The Exorcism of Emily Rose - 21.02 Troy (di Wolfgang Petersen. - 23.45 Speciale: Le regole dell’attrazione - 0.20 Shopgirl di Anand Tucker. SKY CINEMA 3 12.15 Identikit: Julia Roberts - 12.40 Io, lei e i suoi bambini di Brian Levant - 14.15 Rubrica: Una poltrona per due - 14.30 Un giorno per caso di Michael Hoffman - 16.20 Extra: Inside Romanzo Criminale - 16.35 Io Robot di Alex Proyas - 18.30 Hollywood Flash - 18.45 La febbre di Alessandro D'Alatri - 20.45 Extra: The island - 21.00 Quel mostro di suocera di Robert Luketic 22.50 Sub Zero - Paura sulle montagne di Jim Wynorski. - 0.25 Anaconda - Alla ricerca dell'orchidea maledetta di Dwight H. Little. RADIO MTV 7.00 Wake up 9.00 Pure morning 12.00 Into the music 12.30 Very Victoria 13.30 Date my mom 14.00 Next 14.30 Pimp my ride 15.00 TRL 16.00 Flash News 16.05 Mtv 10 of the best 17.00 Flash News 17.03 Mtv playground 18.00 Flash News 18.03 Mtv Our Noise 19.00 Flash News 19.03 The fabulous life of SKY CINEMA 1 20.00 Flash News 20.05 Full metal panic 20.30 Lolle 21.00 So notorius (serie televisiva ispirata alla vita di Aaron Spelling) 22.00 The hills 22.30 Flash News 22.35 Very Victoria 23.30 Avere vent’anni 0.00 Brand:New 1.00 Beavis & Butthead RADIOUNO 14.07 Con parole mie 14.30 GR1 Titoli - 14.50 News generation - 15.00 GR 1 15.04 Ho perso il trend - 15.30 GR1 Titoli - 15.37 Il comunicattivo - 16.00 GR1 Affari 16.09 Baobab - 16.30 GR1 Titoli - 17.00 GR 1 17.30 GR1 Titoli - Affari Borsa - 18.00 GR1 18.30 GR1 Titoli - 18.37 Magazine - 18.49 Medicina e società - 19.00 GR 1 - 19.22 Radio 1 Sport - 19.36 Zapping 20.40 Zona Cesarini 20.45 Radio Uno Sport Champions League: Inter - Spartak Mosca - 21.33 GR1 - 23.00 GR1 - 23.09 Gr Campus. RADIODUE 08.30 GR 2 - 10.00 Il cammello di Radio 2 10.30 GR 2 - 11.30 Fabio e Fiamma - 12.10 Rasputin, l'ultimo stregone - 12.30 GR2 12.49 GR Sport - 13.00 28 minuti - 13.30 GR2 13.42 Viva Radio 2 Popcorner - 15.00 Il Cammello di Radio 2. Gli spostati - 15.30 GR 2 16.30 Condor - 17.00 610 (sei uno zeril) - 17.30 GR 2 - 18.00 Caterpillar 19.30 GR 2 - 19.52 GR Sport - 20.00 Alle 8 di Sera - 20.32 GR2 - 21.00 Il cammello di Radio 2 21.30 GR2 - 23.00 Viva Radio 2- 00.00 La Mezzanotte di Radio2 02.00 Radio due remix. RADIOTRE 12.00 I Concerti del mattino - 13.00 La Barcaccia - 13.45 GR 3 - 14.00 Il Terzo Anello. Musica-La prosa verso la poesia - 15.00 Fahrenheit - 16.00 Storyville - 16.45 GR 3 18.00 Il Terzo Anello. Damasco - 18.45 GR 3 19.00 Hollywood party 20.08 Radio3 Suite 20.00 Bella Ciao: storie da legare - 20.30 Il cartellone: Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai: Sostakovic cent'anni dopo Direttore Gianandrea Noseda 22.45 GR3 - 23.30 Il Terzo anello. Fuochi 00.00 Il Terzo anello. Battiti. 18 l ’ultima il manifesto mercoledì 18 ottobre 2006 Balcani d’America Sul dopoguerra le ombre delle responsabilità della Cia Protestano nella capitale della Federazione croato-musulmana, contro le espulsioni e per la cittadinanza, i familiari degli ex mujaheddin che, grazie agli Usa e all’Arabia saudita, combatterono contro i serbi e i croati nella guerra interetnica del 1992-1995 Sarajevo, «Non calpestate i nostri diritti», protestano i familiari degli ex mujaheddin a rischio espulsione. Foto ap Tommaso Di Francesco Inviato a Sarajevo S e parliamo di facciate, Sarajevo sta faticosamente uscendo dalla guerra. Le case del centro storico sono quasi tutte ridipinte e restaurate, le due Torri della capitale della Federazione croato-bosniaca, ridotte un colabrodo e annerite dalle cannonate e dagli incendi dellaa guerra, svettano ora rilucenti di vetrate nuovissime che riflettono in lontananza le sempre disastrate case della periferia. Ma altre ombre e i fantasmi della guerra restano ben presenti e duri a morire. Non parliamo dei risultati delle recenti elezioni, vinte, si dice, dai «moderati», in realtà sull’orlo del precipizio visto che la parte musulmana chiede la fine della Repubblica serba di Bosnia uscita da Dayton, quella serba è pronta per ritorsione all’indipendenza e l’Hdz, storico rappresentante dei croati, è in frantumi surclassato dai «socialdemocratici croati» che in realtà hanno avuto i voti dei musulmani. Un bel caos istituzionale. Sul quale si affacciano nuovi movimenti come i giovani musulmani, serbi e croati di «Tutto completo» che prima del voto hanno sfilato con la loro «rivoluzione colorata» contro la corruzione imbrattando di vernice il portone della presidenza bosniaca «falsamente tripartita». Insieme ai ritrovamenti dell’ultim’ora di nuove fosse comuni, emergono anche pericolose iniziative che riaprono davvero le non rimarginate ferite di guerra. Parliamo della protesta degli ex mujaheddin e dei loro familiari per evitare l’espulsione. Il ruolo di Izetbegovic Nel 1992-1993 entrarono in Bosnia Erzegovina circa tremila combattenti islamici - altre fonti parlano di seimila per soccorrere l’esercito della Bosnia musulmana del presidente Alja Izetbegovic, grazie al ruolo di intermediazione dell’Arabia saudita che divenne lo sponsor ufficiale di queste partenze, dall’Algeria al Libano, dall’Afghanistan al Pakistan, ma soprattutto grazie al permesso dell’Amministrazione Usa guidata allora da Bill Clinton che autorizzò la Cia a garantire gli «arrivi». I circa tremila mujaheddin così, ipergarantiti dai paesi musulmani e dagli Stati uniti, ricevettero passaporto bosniaco, combatterono e insieme commisero Da Sarajevo a Guantanamo stragi efferate a danno dei civili dell’altra parte - serbi e croati - e terrorizzarono spesso anche la stessa popolazione musulmana di Bosnia abituata a costumi ben diversi da quelli integralisti, tanto da provocare - accadde a Travnik sollevamenti popolari di chi malsopportava le proibizioni contro le donne. Molti di loro erano veterani dell’Afghanistan e, probabilmente, fra loro in un primo tempo c’era lo stesso Osama bin Laden, ma le autorità di Sarajevo lo hanno più volte smentito. Dopo gli accordi di Dayton, duemila di loro sempre con lasciapassare della Cia lasciarono la Bosnia per tornare a casa o in altri fronti di guerra. Un migliaio decise di restare. Ma dopo l’attentato sventato durante la visita del papa a Sarajevo nell’ottobre 1996 e soprattutto dopo l’11 settembre 2001, i mujaheddin fino a quel momento considerati eroi e beniamini della guerra contro i serbi, sono diventati colpevoli di quasi tutti i crimini commessi dall’esercito regolare musulmano e dalle milizie alle dipendenze dirette dell’ex presidente Izetbegovic. «Basta ingiustizie» Ora da molte i rappresentanti e i familiari di circa 600 di loro sono in piazza da molte settimane, spesso davanti alla sede del parlamento di Sarajevo dove sostano da un mese le tende dei contadini bosniaci che accusano il governo di favorire le importazioni agricole europee a danno dei contadini locali. Gli ex combattenti mujaheddin si raccolgono nell’organizzazioni di veterani «Ensarije». Protestano contro la richiesta dell’Unione europea che pone co- me condizione per l’ingresso in Europa della Bosnia la revisione di tutte le cittadinanze concesse al momento della guerra, e soprattutto contro una commissione governativa che ne ha già revocate 150 con espulsione immediata degli interessati e che sta valutando i metodi utilizzati per ottenerle. «Non è vero che abbiamo pagato mille marchi e che abbiamo corrotto qualcuno per averle - sostiene Abu Hamza, portavoce dell’organismo dei veterani - le cittadinanze le abbiamo avute regolarmente dal governo dell’epoca, chiedete a lo- Reingaggio in serbo Per Kabul la Nato pensa a Belgrado e Podgorica Gli Stati uniti, non contenti di avere prima portato i mujaheddin a combattere in Bosnia e ora di trasferirli a Guantanamo come terroristi di Al Qaeda, magari passando per Camp Bondsteel nel protettorato del Kosovo, cercano ora un reingaggio militare dei serbi. Per confermarli nel ruolo storico, da loro sempre rivendicato, di guardiani dell’Occidente contro le «invasioni» da Oriente. E’ tutto confermato, da atti parlamentari e solide fonti giornalistiche. Non basta che nel 2003, di fronte alle difficoltà del «fronte dei volenterosi» di portare truppe nell’avventura della guerra all’Iraq, chiesero a Belgrado di discutere il possibile invio di reparti serbi è agli atti del parlamento della Serbia. Ora il presidente serbo Boris Tadic mentre si confermano insieme, strabicamente, buoni rapporti con la Nato e dure pressioni perché i serbi accettino l’indipendenza del Kosovo - nel suo recente viaggio negli Usa ha avuto modo di ratificare un accordo militare con Washington. Difficile immaginare, se resta la pressione sul «Kosovo indipendente» ogni coinvolgimento serbo in guerre in corso. Anche se il «Financial Times» ha raccontato a settembre che la Nato, che pure solo 7 anni fa ha bombardato la Serbia, ha chiesto anche a Belgrado l’invio di truppe nella guerra afghana. Così la diplomazia Usa aggira l’ostacolo. E il ministro della difesa Donald Rumsfeld è corso a Podgorica da Milo Djukanovic a congratularsii per l’indipendenza dalla Serbia e a proporre l’utilizzo del nuovo esercito del Montenegro (già parte di quello serbo-montegrino) nelle missioni della Nato all’estero. A cominciare dall’Afghanistan dove, anche da Est, cominciano pesanti defezioni. ro. Ora noi ricorreremo alla Corte di Strasburgo dei diritti umani e la nostra causa è difesa negli Stati uniti da un grande studio legale». I legali americani denunciano Abu Hamza non dice tutta la verità, ma l’entrata in scena di avvocati americani è reale. Un gruppo di legali americani ha infatti fatto causa alla Bosnia Erzegovina alla Corte di Strasburgo per la violazione dei diritti di sei algerini consegnati dalle autorità di Sarajevo a Washington e in seguito rinchiusi nel carcere di Guantanamo. I sei, Bensayah Belkacem, Boudella el Haji, Hakmar Boumedienne, Sabir mahfouz Lahmar, Mustafa Ait Idr e Mohammed Nechle, erano arrivati in Bosnia Erzegovina per combattere a fianco dei confratelli musulmani nella guerra interetnica del 1992-1995, grazie alla triangolazione tra Usa-Arabia saudita e Iran che garantì l’arrivo di combattenti e armi il Washington Post parlò di una nave intera di armi arrivata dai porti Usa alla Croazia formalmente alleata dei musulmani. I sei, come altri 600 mujaheddin, sono rimasti in Bosnia dopo aver sposato donne del posto regolarizzando così la loro cittadinanza, gestendo spesso centri islamici, campi di addestramento e indrottinamento. Secondo l’intelligence americana erano legati alla rete di Al Qaeda e per questo sono stati arrestati in Bosnia alla fine del 2001 dopo l’intercettazione di telefonate dove veniva pianificato un attentato all’ambasciata Usa di Sarajevo. Tutti in seguito vennero rilasciati per mancanza di prove, ma le autorità di Sarajevo li hanno lo stesso consegnati nelle mani dell’intelligence Usa che li ha portati subito a Guantanamo con «trasferimento illegale», «senza prove» e in virtù degli «speciali legami» che intercorrono tra Sarajevo e Washington, accusa da Boston il noto avvocato Wilmer Hale. Le autorità musulmane di Sarajevo ponziopilatescamente ora fanno orecchie da mercante su quei «lasciapassare» del ’92-’93: vorrebbe dire mettere in discussione il padre della patria Alja Izetbegovic. Rincarando la dose. In una intervista al quotidiano Nezavisne novine un portavoce del ministero degli interni ha denunciato che nella lista dell’Onu dei terroristi affiliati ad Al Qaeda ci sono almeno tre stranieri con cittadinanza bosniaca: sono tre tunisini, Mahrez ben Mahmud ben Shashi al Amandani, Shafik ben Mohamed al Ajadi e Halil Ben Ahmed, tutti con «residenza a Sarajevo», ma che ora, rassicurava il funzionario, hanno fatto perdere le loro tracce. Se catturati, la loro destinazione è una sola: Guantanamo. «Stop nepravdi» «Basta ingiustizie», gridano gli striscionbi e i cartelli portati dai bambini che in arabo ripetono «non vogliamo consegnarvi i nostri padri», «vogliamo i nostri diritti» gridano i familiari dei mujaheddin e tante donne con il velo, molte coperte completamente dal niqab nero, che ricordano come molti di loro erano in Bosnia anche prima della guerra interetnica. La motosega di Vozuci Ha fatto molto scalpore la polemica sollevata dal coraggioso settimanale Dani che in un servizio sulla protesta dei veterani, faceva parlare in piena campagna elettorale Alja Redzic, candidato dell’Sda (storico partito musulmano di Izetbegovic) per il cantone di Zenica e Doboj. Redzic ha accusato Dani di avere enfatizzato quel che è accaduto nel 1993 a Vozuci, località bosniaca dove le milizie musulmane regolari e i mujaheddin si macchiarono di stragi contro civili e militari serbi prigionieri. «Io c’ero a Vozuci - ha dichiarato il politico che difende la protesta dei veterani - e dico che sono tutte menzogne, non vi permetto di parlare dei miei fratelli come dei criminali». Nel resoconto Dani conclude chiedendosi come deve essere definito, se non crimine, quello che - confermato da testimoni, anche al Tribunale dell’Aja - è accaduto a Vozuci, dove tra le altre atrocità, i soldati serbi prigionieri venivano appesi con corde alle porte di uno stadio di calcio e squartati con motoseghe davanti agli occhi delle scolaresche locali. Sorprende che pochi s’interroghino sull’ennesimo paradosso balcanico. Prima venivano trasportati «legalmente» dalla Cia a Sarajevo per combattere per gli alleati di turno degli Usa come già in Afghanistan, adesso, sempre con voli della Cia, raggiungono «illegalmente» Guantanamo. Chi è il criminale?
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