i fondi comunitari e lo sviluppo sostenibile

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i fondi comunitari e lo sviluppo sostenibile
“I FONDI COMUNITARI E LO SVILUPPO
SOSTENIBILE”
di
Sonia Paoloni
CONCETTO DI SVILUPPO SOSTENIBILE
Le origini del ragionamento sullo sviluppo sostenibile traggono fondamento dagli
avvenimenti del 1973, quando la crisi petrolifera scosse l’economia mondiale. A seguito della
guerra fra Israele e Paesi arabi, questi ultimi decisero di diminuire le esportazioni di petrolio
verso l’Occidente e di aumentarne il prezzo per fare pressioni sugli Stati Uniti e l’Europa in
favore della causa palestinese.
Diversi Paesi del mondo si trovarono ad affrontare una grave crisi finanziaria; come
conseguenza dell’aumento del costo del petrolio aumentarono i costi dell’energia e quindi
l’inflazione.
La conseguenza della crisi energetica del 1973 fu l’applicazione di politiche di austerità da
parte di vari Paesi nel mondo, che presero misure drastiche per limitare il consumo di
energia.
La crisi petrolifera rappresentò per l’Occidente un’occasione di riflessione sulla possibilità di
uso delle fonti rinnovabili di energia, che vennero per la prima volta prese in considerazione
in alternativa ai combustibili fossili come il petrolio. La crisi, dunque, portò i paesi occidentali
a interrogarsi per la prima volta riguardo ai fondamenti della civiltà industriale e riguardo alla
problematicità del suo rapporto con le risorse limitate del pianeta.
Nel 1972, inoltre, era stato pubblicato ad opera di alcuni studiosi del Massachussets Institute
of Technology il rapporto sui “Limiti dello sviluppo”, commissionato dal “Club di Roma”
(Associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti
dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e Capi di Stato di tutti e cinque i
continenti).
Il rapporto riportava l’esito di una simulazione al computer delle interazioni fra popolazione
mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione alimentare e consumo di risorse,
nell’ipotesi che queste stessero crescendo esponenzialmente con il tempo.
Dalla simulazione veniva messo in evidenza che la crescita produttiva illimitata avrebbe
portato al consumo delle risorse energetiche ed ambientali. Il rapporto sosteneva, inoltre, che
era possibile giungere ad un tipo di sviluppo che non avrebbe portato al totale consumo delle
risorse del pianeta.
Dunque l’idea di un modello di crescita economica che non consumasse tutte le risorse
ambientali e le rendesse disponibili anche per il futuro si fa strada a partire dalla prima metà
degli anni ’70, e infatti proprio nel giugno del 1972 si tenne la Conferenza ONU sull’Ambiente
Umano.
DEFINIZIONI DI SVILUPPO SOSTENIBILE
Lo sviluppo sostenibile può essere definito come un processo finalizzato al raggiungimento
di obiettivi di miglioramento ambientale, economico, sociale ed istituzionale, sia a livello
locale che globale. Tale processo lega in un rapporto di interdipendenza, la tutela e la
valorizzazione delle http://it.wikipedia.org/wiki/Risorse_naturalirisorse naturali, alla dimensione
economica, sociale ed istituzionale, al fine di soddisfare i bisogni delle attuali
http://it.wikipedia.org/wiki/Generazionegenerazioni, evitando di compromettere la capacità delle
future generazioni di soddisfare i propri bisogni. In questo senso la sostenibilità dello
sviluppo è incompatibile in primo luogo con il degrado del patrimonio e delle risorse naturali
(che di fatto sono esauribili) ma anche con la violazione della dignità e della
http://it.wikipedia.org/wiki/Libert%C3%A0libertà umana, con la povertà ed il declino economico,
con il mancato riconoscimento dei diritti e delle pari opportunità.
Di conseguenza lo sviluppo sostenibile deriva dall’interazione tra le seguenti componenti:




sostenibilità economica: intesa come capacità di generare reddito e lavoro per il
sostentamento della popolazione;
sostenibilità sociale: intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano
(sicurezza, http://it.wikipedia.org/wiki/Salute salute, istruzione) equamente distribuite per
classi e genere;
sostenibilità ambientale: intesa come capacità di mantenere la qualità e dell’ambiente e
delle sue risorse naturali;
sostenibilità istituzionale: intesa come la capacità di assicurare condizioni di governabilità,
democrazia, partecipazione, diritto alla giustizia, a tutte le popolazioni.
La definizione oggi ampiamente condivisa di sviluppo sostenibile è quella contenuta nel
rapporto Brundtland, elaborato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull'ambiente e lo
sviluppo, che prende il nome dall'allora premier norvegese Gro Harlem Brundtland, che
presiedeva tale commissione:
“Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un
processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti,
l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i
bisogni futuri oltre che con gli attuali …….. Lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i
bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni
ad un a vita migliore………. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova
era di crescita economica per le nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche
la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale
crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino
l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a
livello delle scelte internazionali.”
Una successiva definizione di sviluppo sostenibile, in cui è inclusa una visione globale, è stata
fornita, nel 1991, dalla World Conservation Union, UN Environment Programme and World
Wide Fund for Nature, che lo identifica come:
“...un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di
supporto, dai quali essa dipende “
Nello stesso anno l'economista Herman Daly definisce lo sviluppo sostenibile come:
“... svilupparsi mantenendosi entro la capacità di carico degli ecosistemi” e quindi secondo le
seguenti condizioni generali, concernenti l'uso delle risorse naturali da parte dell'uomo:

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

il peso dell'impatto antropico sui sistemi naturali non deve superare la capacità di
carico della natura;
il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore alla loro velocità
di rigenerazione;
l'immissione di sostanze inquinanti e di scorie non deve superare la capacità di
assorbimento dell'ambiente;
il prelievo di risorse non rinnovabili deve essere compensato dalla produzione di una
pari quantità di risorse rinnovabili, in grado di sostituirle.
In tale definizione, viene introdotto anche un concetto di "equilibrio" auspicabile tra uomo ed
ecosistema, alla base di un'idea di economia per la quale il consumo di una determinata
risorsa non deve superare la sua produzione nello stesso periodo.
Nel 1994, l'ICLEI (International Council for Local Enviromental Initiatives) ha fornito
un'ulteriore definizione di sviluppo sostenibile:
“Sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una
comunità, senza minacciare l'operabilità dei sistemi naturali, edificato e sociale da cui dipende la
fornitura di tali servizi”.
Ciò significa che le tre dimensioni economiche, sociali ed ambientali sono strettamente
correlate, ed ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle reciproche
interrelazioni. L'ICLEI, infatti, definisce lo sviluppo sostenibile come lo sviluppo che fornisce
elementi ecologici, sociali ed opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità,
senza creare una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste
opportunità dipendono.
Nel 2001, l'UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che:
"la diversità culturale è necessaria per l'umanità quanto la biodiversità per la natura (...) la
diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma
anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale,
emozionale, morale e spirituale". (Art 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale,
UNESCO, 2001).
In questa visione, la diversità culturale diventa il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile.
Per favorire lo sviluppo sostenibile sono in atto molteplici attività ricollegabili sia alle
politiche ambientali dei singoli Stati e delle organizzazioni sovranazionali sia a specifiche
attività collegate ai vari settori dell'ambiente naturale.
In particolare, il nuovo concetto di sviluppo sostenibile proposto dall'UNESCO ha contribuito a
generare approcci multidisciplinari sia nelle iniziative politiche che nella ricerca.
L’ECONOMIA E LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Per parlare di sviluppo sostenibile in relazione all’economia partiamo dalle origini del
pensiero che ha ispirato l’idea di sviluppo sostenibile, a cominciare dal principio di entropia
attraverso i diversi filoni di interpretazione della crisi del nostro tempo vista con le riflessioni
dei personaggi più importanti in questa materia e, per cominciare, cito una massima di Albert
Einstein (da “Come io vedo il mondo”) che sembra profondamente adeguata alla situazione
attuale:
“La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La
creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge
l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere
‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà
più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’
inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza
crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è
merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi
brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo.
Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la
tragedia di non voler lottare per superarla”.
CONCETTO DI ENTROPIA
L’entropia, in http://it.wikipedia.org/wiki/Fisica fisica, a partire dalla termodinamica, poi estesa e
generalizzata ad altri contesti scientifici, è una http://it.wikipedia.org/wiki/Funzione_di_stato
funzione di stato, e viene, a grandi linee, interpretata come una misura del disordine di un
sistema, correlata alla capacità di produzione di lavoro. Questa grandezza viene applicata
anche all’economia, in particolare alla bio-economia, e all' economia aziendale.
In base al secondo principio della termodinamica, l’entropia di un sistema isolato, è una funzione
di stato che misura la progressiva e naturale perdita di energia disponibile per produrre
lavoro, in assenza di apporto esterno positivo, nell'aumentare il suo stato di disordine
termodinamico.
Non tutta l'energia, però, può essere utilizzata, una parte viene,
obbligatoriamente nei sistemi reali, perduta ovvero degradata in forma di calore, e
indisponibile quindi a produrre un lavoro.
Applicando la legge dell'entropia all'http://it.wikipedia.org/wiki/Economia economia, e in
particolare
all'http://it.wikipedia.org/wiki/Economia
economia
della
produzione,
http://it.wikipedia.org/wiki/Nicholas_Georgescu-Roegen possiamo dire che ogni processo economico
inserito in un contesto ecosistemico,
incrementa inesorabilmente ed irreversibilmente
l'entropia del sistema-Terra: tanta più energia si trasforma in uno stato indisponibile,
tanta più sarà sottratta alle generazioni future e tanto più disordine proporzionale sarà
riversato sull' ambiente.
Dietro il concetto di entropia, di energia ed anche di temperatura, si nascondono
rispettivamente tre gravissime minacce per la nostra esistenza sulla Terra: il pericolo
dell’esaurimento delle risorse e la povertà; il rischio dell’inquinamento ambientale e la
malattia; l’emergenza dei cambiamenti climatici.
Così, 'paradossalmente', vengono meno le ragioni tipiche dei sistemi economici attuali, che
puntano ad una massimizzazione del numero di merci prodotte, e ad una velocizzazione del
loro
processo
produttivo.
Una
contabilità
di
tipo
diverso,
secondo
http://it.wikipedia.org/wiki/Nicholas_Georgescu-Roegen Geoegescu Roegen, basata sulla misura in
output dell'entropia, ed un’efficienza energetica pensata in un nuovo paradigma, che vada a
premiare non il processo massimamente redditizio, produttivo o veloce, ma entropicamente
efficiente, è alla base di tutta la teoria bio-economica.
Anche la concezione del tempo, in un meccanismo economico basato sulla legge dell'entropia,
è differente. A tal proposito, ebbe a dire Georgescu Roegen: “un guadagno di tempo si paga in
energia.”
COME RIPENSARE L’ECONOMIA
L’Età dell’Oro (così come fu definita da Eric Hosbswam), è stata il più lungo periodo di crescita
e di emancipazione sociale della storia contemporanea, essa è coincisa con l’affermazione nel
XX secolo della democrazia come forma di Governo e della cultura capitalistica che è, ed è
stata, alla base di tutte le principali dottrine economiche a partire da quelle neo-classiche.
L’economia, a partire da quella neoclassica, che fonda le sue basi dalla teoria della “Mano
invisibile” di Adam Smith, forte del successo del modello di sviluppo capitalistico che per più
di trent’anni ha consentito nei Paesi occidentali, una continua crescita economica associata ad
una crescita dell’eguaglianza sociale, si è affermata come scienza sociale, priva di dubbi e di
contraddizioni tanto da emarginare chi nel suo contesto avanzava dubbi sulla sua scientificità.
L’economia ha svolto un ruolo assolutamente centrale nel fornire esperti e consulenti, idee e
interpretazioni che si traducevano in “pratiche” per lo sviluppo, tali da imporsi come modelli
nei confronti dei Governi e delle Istituzioni internazionali.
La filosofia dominante del mercato che si regola da solo, che trova il suo equilibrio tra
domanda e offerta con il libero scambio, è diventa un’ideologia che ha ispirato e giustificato
tutto il sistema capitalistico nei suoi pregi e difetti.
Un’ideologia che considera l’intervento pubblico nell’economia come una sciagura e che ha
condizionato una concezione della natura umana che, con una forma di “imperialismo”
scientificohttp://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/5055-la-contestazione-dello-sviluppo.html - _ftn2,
ha generalizzato lo schema dell’individuo razionale mosso dai propri interessi materiali e il
suo modello della scelta razionale a tutti i fenomeni sociali, dalla famiglia all’azione collettiva,
dall’altruismo alle scelte politiche.
L’autoregolazione è un’invenzione. Gli effetti compensativi del mercato dei beni reali si
affiancano agli effetti cumulativi dei mercati finanziari internazionali che possono, così come
si sta verificando nel corso
della crisi attuale, esasperare gli eventi trasformando una
situazione di difficoltà in una profonda depressione.
L’influenza della teoria economica neoclassica, ha nel tempo rafforzato le sue posizioni,
dapprima con la crisi della teoria keynesiana degli anni Settanta e poi con il crollo del
comunismo all’inizio degli anni Novanta. Negli anni Settanta i due shock petroliferi fecero
precipitare le economie dei Paesi occidentali nella stagflazione, ossia recessione con
inflazione, che pose fine al lungo periodo di crescita dell’ ”Età dell’Oro”. Poi il crollo del
comunismo, che nei Paesi occidentali era stato funzionale ad un miglioramento del tenore di
vita dei lavoratori, ha messo ancora di più in difficoltà i sostenitori dell’intervento pubblico
nell’economia. A questa economia si è contrapposto, prima timidamente poi con sempre
maggiore forza, una critica che ne attacca, da un lato, le basi teoriche, ma soprattutto
l’assunzione di una veste “ideologica” che contrabbanda per scientifiche posizioni che sono
invece opzioni politiche, una sorta di “pensiero unico” che caratterizzerebbe non solo tutta la
storia dello sviluppo, ma in particolar modo l’epoca attuale.
Gli
aspetti più criticati riguardano il rapporto dell’economia con l’etica, la sua natura
ideologica, e la sua concezione della società di mercato.
IL DOPO SVILUPPO E LA DECRESCITA
“Per Serge Latouche, uno dei più impegnati e attivi esponenti del movimento per la decrescita, lo
sviluppo sostenibile è un ossimoro, ossia una figura retorica cara al linguaggio poetico che consiste
nel giustapporre due parole dal significato contraddittorio; perché, appunto, “sviluppo” e
“sostenibile” sarebbero due termini inconciliabili tra di loro non essendo possibili entrambi. In
questo senso lo “sviluppo sostenibile” è una “impostura”, che tende cioè a dare l’impressione di aver
recepito le preoccupazioni ambientali ma che, in realtà, non fa altro che riproporre la vecchia
crescita senza limiti dell’economia, preoccupandosi semplicemente di fare, al massimo, meno danni
all’ambiente. Di conseguenza, “la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. E’
dunque urgente pensare a una società della «decrescita», se possibile serena e conviviale.”
La principale critica che viene mossa alle teorie di sviluppo attuali, è quella di essere state e di
continuare ad essere nient’altro che sinonimo di crescita economica, sacrificando all’aumento
del PIL ogni altro obiettivo umano o sociale.
L’attuale modello di sviluppo, sulla scia del credo capitalistico, della massimizzazione delle
produzioni e del più consumo più sono felice, non ha tenuto conto delle limitazioni imposte
dalle risorse naturali non sfruttabili e reperibili all’infinito e si sta dirigendo verso un collasso,
in maniera inconsapevole nella consapevolezza.
La “Decrescita Serena”, teorizzata da Latouche, è una risposta all’esigenza di convertire la
società moderna a ripensare il modello di sviluppo, perché l’equilibrio è oramai divenuto
instabile e non potrà reggere ancora per molto tempo.
La grande promessa del progresso senza confini, del dominio sulla natura, di abbondanza
materiale, della felicità per il massimo numero di persone e di illimitata libertà personale, ha
sorretto fino ad ora le speranze delle generazioni a partire dell’era industriale.
Grazie al progresso industriale che ha portato alla sostituzione dell’energia animale e umana
con l’energia meccanica e nucleare e alla sostituzione della mente umana con quella del
calcolatore, si è creduto di essere sulla strada della produzione e dei consumi illimitati.
Ci si è illusi e oggi ancora molti lo sono, che la tecnica e la scienza potessero rendere l’uomo
onnipotente, capace di creare un “secondo mondo” servendosi di quello naturale per
costruirne uno nuovo.
Gli individui hanno avuto una nuova sensazione di libertà, sono diventati padroni delle
proprie esistenze, hanno spezzato le catene feudali, o per lo meno questo era quello che si è
creduto.
Nonostante questa situazione fosse appannaggio solo della classe medio-ricca, ciò ha spinto
gli altri a supporre che alla fine questa nuova libertà sarebbe stata estesa a tutti i membri della
società a patto che il processo di industrializzazione continuasse con lo stesso ritmo o
addirittura con un ritmo maggiore.
L’obiettivo di tutte le società è divenuto così “Produrre”, assoluta libertà e felicità senza
restrizioni fino a diventare il nucleo di una nuova religione, quella del Progresso, perché per
quanto critica e contestabile, la civiltà dei consumi ha rappresentato e ancora rappresenta un
progresso sensazionale del tenore di vita di una gran parte dell’umanità.
L’imponenza di questa grande promessa fa comprendere l’entità del trauma che oggi è
prodotto dalla constatazione del suo fallimento.
E’ innegabile che l’era industriale non sia riuscita ad esaudire la promessa fatta, e un numero
sempre crescente di persone sta oggi rendendosi conto che: soddisfare tutti i desideri
materiali non comporta il vivere bene, ne la felicità ne il massimo del piacere; l’illusione di
essere padroni di noi stessi è svanita, quando si è iniziato a rendersi conto che siamo
diventati ingranaggi della macchina, che i nostri pensieri, i nostri sentimenti e i nostri gusti
sono manipolati dalle industrie, dai governi e dai mass-media; il progresso economico è
limitato ai paesi ricchi e il divario tra i ricchi e i poveri aumenta a livello nazionale e
planetario; il progresso ha avuto conseguenze sull’ambiente tali da poter mettere fine
all’esistenza stessa dell’umanità.
Le ragioni di ciò sono da ricercarsi nel cambiamento di orientamento tra il compromesso
originario dell’economia capitalistica che accompagnava la prosperità economica con l’equità
sociale, ad una crescita caratterizzata esclusivamente da una accumulazione finanziaria priva
di regole e di scopi sociali.
Il premio nobel per la pace del 1952 Albert Schweitzer disse: ”L’uomo è divenuto un
superuomo…..Ma il superuomo col suo sovrumano potere non è pervenuto al livello di una
sovrumana razionalità. Più il suo potere cresce, e più egli diventa un poveruomo…. Le nostre
coscienze non possono non essere scosse dalla constatazione che, più cresciamo e diventiamo
superuomini, e più siamo disumani.”
Fred Roberts, dell’Artificial Studios, ha vinto il Premio Loebner per Elbot la prima macchina in
grado di superare il test di Turing, cioè di sostenere una conversazione in maniera
indistinguibile da quella umana.
Il Progresso fa progressi ma i dati di fatto che abbiamo sott’occhio comprovano con la
massima evidenza che questa modalità di perseguimento della felicità non ha per effetto il
vivere bene.
La nostra società è composta da individui notoriamente infelici, isolati, ansiosi, in preda a stati
depressivi e a impulsi distruttivi, oggi gli individui sono ben lieti di poter ammazzare in
qualche modo, anche autolesionistico il tempo libero che con tanto accanimento cercano di
risparmiare.
“La società in cui viviamo è dedita all’acquisizione di proprietà ed al guadagno, raramente capita
di trovare manifestazioni della modalità esistenziale che privilegia l’essere, e la maggior parte di
noi considera la modalità dell’avere come la più naturale, anzi l’unico stile di vita accettabile.
Per la gente è particolarmente difficile comprendere le caratteristiche di vivere esaltando la
modalità dell’essere e la modalità dell’avere diventa il solo possibile indirizzo di vita.” (Erich
Fromm – Essere o Avere).
Le generazioni dell’era post-industriale sono cresciute sotto l’indottrinamento culturale della
pubblicità diffusa attraverso i media, TV, Radio, giornali, ecc…. atto a creare dipendenza nei
confronti delle merci da vendere per ricavare profitto.
La teoria di Ivan Illich sull’espropriazione della capacità umana di provvedere alla cura della
propria salute facendo diventare la salute una competenza esclusiva di conoscenze in
possesso di un ristretto gruppo di persone, l’elite medica, esprime perfettamente il grado di
corruzione mentale e culturale al quale siamo stati sottoposti.
Gli esperti di marketing studiano la psicologia umana a partire da quella dei bambini per
comprenderne le reazioni e capire come meglio arrivare ad imprimere il loro messaggio
consumistico nella psiche della massa degli individui.
Finché ciascuno aspirerà ad avere di più, non potranno non formarsi classi sociali
differenziate e si alimenterà lo scontro tra classi, che spingerà sempre di più a privilegiare lo
sviluppo dell’avere, e per avere a produrre di più, piuttosto che privilegiare l’idea di avere
poco e apprezzare di avere meno per avere tutti.
La storia fino ad oggi conosciuta ci presenta uno scenario tutt’altro che incoraggiante per
poter sperare in un cambiamento in senso positivo per il futuro dell’umanità.
Oggi le sorti del mondo non sono in mano alle decisioni dei Governi degli Stati nazionali,
nell’era della globalizzazione sono le grandi Corporations, le Multinazionali che decidono cosa
succederà nel futuro e quale sarà il tipo di economia, sviluppo o catastrofe che ci attende.
Nel 1996 i redditi complessivi delle 500 più grandi Corporations ammontavano a 11 trilioni di
dollari, rispetto ad un prodotto lordo mondiale di 52,3 trilioni di dollari (stime FMI); delle 100
più grandi entità economiche del mondo, 51 sono Corporations e 49 Stati Nazionali.
Gli interessi nel campo delle risorse energetiche ad esempio, sono tanti e tali che non sono alla
portata delle scelte dei Governi locali o nazionali, le Menti pensanti della Finanza Mondiale
controllata dalle multinazionali hanno già indirizzato i loro appetiti verso la nuova fonte di
ricchezza del futuro che non sarà più il petrolio ma l’acqua dolce.
Dopo il crollo subitaneo del sistema sovietico e il sostanziale fallimento di tutti i tentativi di
costruzione di vie “nazionali” al socialismo, quello che per quaranta anni poteva apparire –
probabilmente a torto, se si considera la comune matrice “sviluppista” – come un modello
antagonista, veniva meno.
Il modello vincente, di fatto l’unico disponibile nel mercato delle opzioni politiche e delle idee,
rimane purtroppo oggi di nuovo solo il capitalismo nella sua versione più liberista, centrata
sui benefici del libero scambio, sul mercato e sulla sua presunta capacità di regolazione. La
contestazione dello sviluppo-crescita diventa perciò quasi automaticamente contestazione del
capitalismo come modello di ordine (o di disordine, per i suoi critici) sociale ed economico.
Questa volta, tuttavia, la contestazione non avviene su quelle basi marxiste dalle quali, per
150 anni, era stato tradizionalmente mosso l’attacco al capitalismo. Per quanto residui della
galassia marxista-leninista
siano ancora presenti, essi si disperdono in un più ampio
movimento, non marxista, per la “decrescita”: il capitalismo non può essere aggiustato con
qualche riforma e con l’aggiunta di un po’ di “etica”, ma deve essere superato, verso un “doposviluppo” che sarà anche un “dopo-capitalismo”.
LA PROGRAMMAZIONE DEI FONDI EUROPEI 2014-2020
L’UE propone attraverso Europa 2020 una strategia concentrata su alcune priorità,
innervata dall’innovazione e mirata a competitività, sostenibilità e inclusione sociale,
spingendo sulla necessità di integrare l’azione dei Fondi anche all’interno dei
programmi attuativi regionali.
Il percorso tracciato dall’UE per giungere ai singoli programmi regionali assegna,
rispetto al passato, un ruolo più importante al livello nazionale e rende quindi
necessario che le Regioni siano in grado di negoziare in modo consapevole i
contenuti strategici che saranno fissati nel Contratto di partenariato tra lo Stato e
l’UE.
Nel marzo 2010 la Commissione Europea (CE) lancia la strategia EUROPA 2020
“per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”. Con questo documento la CE
propone gli obiettivi e i criteri generali per la programmazione 2014-2020,
affrontando grandi sfide quali l’uscita dalla crisi, la globalizzazione delle relazioni
economiche, il cambiamento climatico, la scarsità delle risorse (acqua, energia,
materie prime), l’evoluzione demografica, i contrasti sociali.
Europa 2020 si incardina su tre priorità, concepite per rafforzarsi a vicenda:
1. crescita intelligente: sviluppare unʹeconomia basata sulla conoscenza e
sullʹinnovazione;
2. crescita sostenibile: promuovere unʹeconomia più efficiente sotto il profilo delle
risorse, più verde e più competitiva;
3. crescita inclusiva: promuovere unʹeconomia con un alto tasso di occupazione che
favorisca la coesione sociale e territoriale.
In linea generale tutte le politiche dell’UE devono contribuire al raggiungimento
degli obiettivi Europa 2020. In un’ottica di programmazione dei Fondi UE
2014-2020, per le Marche - che rientra tra le Regioni più sviluppate, per le quali sono
previste alcune limitazioni di intervento - sono rilevanti essenzialmente la Politica di
Coesione (sostenuta da FESR e FSE), quella di Sviluppo Rurale (sostenuta dal
FEASR), che operano congiuntamente in un’ottica di complementarietà settoriale e
territoriale e, infine, quella della Pesca, con le risorse del FEAMP.
Per quanto riguarda nello specifico la Politica di Coesione, a marzo 2012 la
Commissione Europea ha aggiornato le proposte regolamentari per i Fondi
2014-2020, presentate ufficialmente a ottobre 2011. Il pacchetto comprende i
regolamenti dedicati ai singoli Fondi e un regolamento generale (detto anche
regolamento orizzontale o regolamento ombrello) che definisce alcuni criteri generali
di programmazione.
Successivamente la Commissione ha presentato il Quadro Strategico Comune
(Common Strategic Framework) dei fondi per la coesione, sviluppo rurale e pesca, al
quale si dovranno ispirare i singoli Stati membri. Il QSC è inteso dall’UE come uno
strumento per assicurare una programmazione strategica coerente per tutti i Fondi, un
quadro di riferimento unitario che assicuri il raggiungimento dei target di Europa
2020.
Un aspetto qualificante della proposta dell’UE è la concentrazione delle risorse dei
Fondi rispetto ad alcune priorità fondamentali. Per la categoria di regioni più
sviluppate a cui appartengono le Marche le indicazioni sono:
• FESR (Fondo europeo sviluppo regionale): il 60% delle risorse deve essere
destinato a ricerca, innovazione e competitività delle PMI, il 20% all’ efficienza
energetica ed energie rinnovabili, il 5% allo sviluppo urbano sostenibile; si tratta
quindi di criteri molto stringenti.
• FSE (Fondo sociale europeo): il 20% della spesa dovrà essere riservato
all’inclusione sociale.
• FEASR (Fondo europeo per lo sviluppo rurale): il 5% della spesa deve essere
destinato ai programmi di sviluppo locale in aree rurali basati sul metodo LEADER.
Un punto essenziale del Regolamento Orizzontale, è l’enunciazione di 11 obiettivi
tematici, suddivisi a loro volta in ‘priorità di investimento’, che discendono dalle
tre priorità generali di Europa 2020 (crescita intelligente, sostenibile e inclusiva). Tali
obiettivi sono ripresi dal Quadro Strategico Comune e rappresentano i cardini
fondamentali della strategia UE per i Fondi 2014-2020.
FESR
La proposta di Regolamento del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR)
(COM(2011)614 def del 6.10.2011) stabilisce che almeno l’80% delle risorse FESR
dovrà essere allocato sulle priorità di investimento indicate all’interno dei 3 obiettivi
tematici di seguito riportati, con una allocazione minima per l’obiettivo di almeno il
20% delle risorse.
1) Ricerca, sviluppo tecnologico e innovazione
a) potenziare lʹinfrastruttura per la ricerca e lʹinnovazione (R&I);
b) promuovere gli investimenti delle imprese in R&I, lo sviluppo di prodotti e servizi,
il trasferimento di tecnologie, lʹinnovazione sociale e le applicazioni nei servizi
pubblici, la stimolazione della domanda, le reti, i cluster e lʹinnovazione aperta
attraverso la specializzazione intelligente;
c) sostenere la ricerca tecnologica e applicata;
2) Competitività delle PMI
a) promuovere lʹimprenditorialità (nuove idee, nuove imprese);
b) sviluppare nuovi modelli di attività per le PMI, in particolare per
lʹinternazionalizzazione;
3) Sostenere il passaggio a unʹeconomia a bassa emissione di carbonio
a) promuovere la produzione e la distribuzione di fonti di energia rinnovabili;
b) promuovere lʹefficienza energetica e lʹuso dellʹenergia rinnovabile nelle PMI;
c) sostenere lʹefficienza energetica e lʹuso dellʹenergia rinnovabile nelle infrastrutture
pubbliche e nel settore dellʹedilizia abitativa;
d) sviluppare sistemi di distribuzione intelligenti a bassa tensione;
e) promuovere strategie per basse emissioni di carbonio per le zone urbane;
3a) In base alla proposta di Regolamento FESR a uno o a più priorità di
investimento, che verranno reputate prioritarie e inserite nel programma operativo
regionale, verranno destinate le risorse rimanenti, ovvero al massimo il 20% delle
risorse FESR:
a) migliorare lʹaccesso alle TIC, il loro utilizzo e la loro qualità, diffusione della
banda larga e delle reti ad alta velocità; sviluppare i prodotti, servizi e applicazioni
delle TIC;
b) promuovere lʹadattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione
dei rischi;
c) proteggere lʹambiente e promuovere lʹefficienza delle risorse (investimenti nel
settore dei rifiuti e dell’acqua); proteggere, promuovere e sviluppare il patrimonio
culturale, la biodiversità e lʹambiente urbano (in particolare con la riqualificazione
delle aree industriali dismesse);
d) promuovere il trasporto sostenibile ed eliminare le strozzature nelle principali
infrastrutture di rete, migliorare la mobilità regionale, sviluppare sistemi di trasporto
ecologici e a bassa emissione di carbonio e favorire la mobilità urbana sostenibile;
e) promuovere lʹoccupazione e la mobilità dei lavoratori, lo sviluppo di incubatori di
imprese e il sostegno a investimenti per i lavoratori autonomi e la creazione di
imprese;
f) promuovere lʹinclusione sociale e lottare contro la povertà, investimenti
nellʹinfrastruttura sanitaria e sociale, il sostegno a imprese sociali;
g) investire nellʹistruzione, nella qualificazione professionale e nella formazione
permanente, sviluppando lʹinfrastruttura scolastica e formativa;
FSE
La proposta di Regolamento del Fondo Sociale Europeo (FSE) (COM(2011)607 def
del 6.10.2011) stabilisce che almeno il 20% delle risorse FSE dovrà essere allocato
alle priorità di investimento previste per l’obiettivo tematico “Promozione
dell’inclusione Sociale e lotta alla povertà”, come di seguito indicato.
Promozione dell’inclusione sociale e lotta alla povertà:
a) inclusione attiva;
b) integrazione delle comunità emarginate quali i rom;
c) lotta contro la discriminazione basata sul sesso, lʹorigine razziale o etnica, la
religione o le convinzioni personali, la disabilità, lʹetà o lʹorientamento sessuale;
d) migliore accesso a servizi sostenibili e di qualità, compresi i servizi sociali e cure
sanitarie dʹinteresse generale;
e) promozione dellʹeconomia sociale e delle imprese sociali;
f) strategie di sviluppo locale realizzate dalla collettività.
3b) In base alla proposta di Regolamento FSE complessivamente a uno o più priorità
di investimento, all’interno degli obiettivi tematici di seguito indicati, fino ad un
massimo di 4 verrà destinato almeno l’80% delle risorse.
Inclusione Sociale e lotta alla povertà:
a) inclusione attiva;
b) integrazione delle comunità emarginate quali i rom;
c) lotta contro la discriminazione basata sul sesso, lʹorigine razziale o etnica, la
religione o le convinzioni personali, la disabilità, lʹetà o lʹorientamento sessuale;
d) migliore accesso a servizi, sostenibili e di qualità, compresi i servizi sociali e cure
sanitarie dʹinteresse generale;
e) promozione dellʹeconomia sociale e delle imprese sociali;
f) strategie di sviluppo locale realizzate dalla collettività.
Promozione dellʹoccupazione e sostegno alla mobilità professionale attraverso:
a) accesso allʹoccupazione per le persone alla ricerca di un impiego e le persone
inattive;
b) integrazione sostenibile nel mercato del lavoro dei giovani che non svolgono
attività lavorative, non seguono studi né formazioni;
c) attività autonoma, lo spirito imprenditoriale e la creazione di imprese;
d) uguaglianza tra uomini e donne e la conciliazione tra vita professionale e vita
privata;
e) adattamento dei lavoratori, delle imprese e degli imprenditori ai cambiamenti;
f) invecchiamento attivo e in buona salute;
g) modernizzazione e il rafforzamento delle istituzioni del mercato del lavoro,
comprese azioni volte a migliorare la mobilità professionale transnazionale.
Investimento nellʹistruzione, nelle competenze e nella formazione permanente:
a) riducendo lʹabbandono scolastico precoce e promuovendo lʹuguaglianza di accesso
allʹistruzione prescolare, primaria e secondaria di buona qualità;
b) migliorando la qualità, lʹefficacia e lʹapertura dellʹistruzione superiore e di livello
equivalente al fine di aumentare la partecipazione e i tassi di riuscita;
c) aumentando le possibilità di accesso alla formazione permanente.
Capacità istituzionale:
a) capacità istituzionale amministrazioni pubbliche e dei servizi pubblici;
b) rafforzamento capacità degli stakeholders operanti nei settori dell’occupazione,
istruzione e formazione, politiche sociali;
4) In base alla proposta di Regolamento FSE attraverso le priorità di investimento
previste nell’ambito dei 4 obiettivi tematici di, il FSE contribuisce ai seguenti
obiettivi tematici (FESR):
a) sostenendo il passaggio ad unʹeconomia a bassa emissione di carbonio,
resistente ai cambiamenti climatici, efficiente nellʹutilizzazione delle risorse ed
ecologicamente sostenibile, mediante una riforma dei sistemi dʹistruzione e di
formazione, lʹadattamento delle competenze e delle qualifiche, il perfezionamento
professionale della manodopera e la creazione di nuovi posti di lavoro nei settori
collegati allʹambiente e allʹenergia;
b) migliorando lʹaccessibilità, lʹutilizzazione e la qualità delle tecnologie
dʹinformazione e di comunicazione grazie allo sviluppo della cultura digitale,
allʹinvestimento nellʹinclusione digitale, nelle competenze digitali e nelle relative
competenze imprenditoriali;
c) rafforzando la ricerca, lo sviluppo tecnologico e lʹinnovazione, attraverso lo
sviluppo degli studi post-universitari, la formazione dei ricercatori, la messa in rete
delle attività e i partenariati tra gli istituti dʹinsegnamento superiore, i centri di ricerca
tecnologici e le imprese;
d) migliorando la competitività delle piccole e medie imprese mediante la
promozione della capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori e un
maggiore investimento nel capitale umano.
5) La programmazione 2014-2020 esige dalle Regioni di creare concrete sinergie e
complementarietà tra i fondi strutturali gestiti a livello regionale e i programmi a
gestione diretta della Commissione Europea (es. il programma per la ricerca e
innovazione Horizon 2020). L’obiettivo è quello di ottenere una maggiore efficacia
degli interventi, evitando duplicazioni e dispersione di risorse, anche attraverso un
sostegno specifico per l’accesso degli attori regionali ai fondi diretti. Di seguito
indichiamo i sottotemi/azioni sui quali l’Europa ritiene prioritaria la sinergia e
complementarietà:
a) promozione e sostegno di tecnologie innovative e scoperte radicali ad alto
potenziale frutto di collaborazione interdisciplinare fra scienza e tecnologia;
b) promozione di attività di ricerca e sviluppo mediante il sostegno a progetti pilota,
attività dimostrative, creazione di prototipi e convalida di prodotti in linee pilota con
particolare riferimento alle PMI nei settori della microelettronica, nano-elettronica,
fotonica, materiali avanzati, biotecnologie, nano-tecnologie e sistemi di fabbricazione
avanzata;
c) superamento delle lacune in materia di investimenti nel settore della ricerca e
innovazione nelle PMI mediante specifici strumenti finanziari (debito; equity);
d) stimolare l’innovazione attraverso nuove forme di cooperazione tra imprese e tra
imprese e altri attori di rilievo dell’innovazione, l’integrazione di politiche nazionali e
regionali riguardanti l’innovazione, misure a sostegno della domanda;
e) sostenere la diffusione delle migliori pratiche nei settori della sanità e
dellʹassistenza, e forme integrate di assistenza con lʹampia diffusione delle
innovazioni tecnologiche,organizzative e sociali che consentono di coinvolgere in
particolare gli anziani e i disabili affinché restino attivi e indipendenti;
f) sostegno alla bioeconomia: produzione sostenibile di risorse rinnovabili da suoli e
dai ambienti acquatici e la loro conversione in prodotti alimentari e biologici nonché
bioenergia e relativi beni pubblici;
g) sostegno della ricerca, sviluppo, dimostrazione e immissione in commercio di
tecnologie e servizi efficienti, sicuri e affidabili a basse emissioni di carbonio.
6) Sviluppo territoriale integrato
La nuova programmazione dei Fondi prevede diversi strumenti per favorire la
programmazione e gestione degli interventi quanto più vicina ai territori, nel pieno
rispetto del principio di sviluppo territoriale dal basso (bottom up). In particolare lo
strumento apparentemente più interessante sono gli “Investimenti territoriali
integrati”, di cui all’art. 99 della proposta di regolamento generale dei Fondi, il quale
recita: “Qualora una strategia di sviluppo urbano o unʹaltra strategia o patto
territoriale, quale definita allʹarticolo 12, paragrafo 1, del regolamento … [FSE]”,
richieda un approccio integrato che comporti investimenti nellʹambito di più assi
prioritari di uno o più programmi operativi, lʹazione è eseguita sotto forma di
investimento territoriale integrato (di seguito ʺITIʺ). I programmi operativi interessati
individuano gli ITI previsti e stabiliscono la dotazione finanziaria indicativa di
ciascun asse prioritario destinata a ciascun ITI”.
Attraverso tale modalità sarebbe possibile progettare interventi di sviluppo urbano
sostenibile intervenendo congiuntamente con risorse del FESR e del FSE.
7) Sviluppo urbano sostenibile
Il FESR sostiene, nellʹambito dei programmi operativi, lo sviluppo urbano sostenibile
per mezzo di strategie che prevedono azioni integrate per far fronte alle sfide
economiche, ambientali, climatiche e sociali che si pongono nelle zone urbane.
La strategia urbana può essere perseguita attraverso le singole priorità di investimento
FESR (indicate nei paragrafi precedenti) quali ad esempio il sostegno alla tutela
dellʹambiente in ambito urbano, lʹimpiego efficiente delle risorse in particolare quelle
energetiche, la mitigazione dei cambiamenti climatici sia attraverso la previsione nei
programmi operativi regionali di assi prioritari dedicati allo sviluppo urbano.
La proposta di regolamento FESR stabilisce inoltre che almeno il 5% delle risorse del
FESR assegnate a livello nazionale sono destinate ad azioni integrate per lo sviluppo
urbano sostenibile, che possono essere attuate tramite delega alle città stesse, per
essere gestite per mezzo degli ITI di cui allʹarticolo 99 del regolamento.
8) Forme di sostegno ai progetti e strumenti finanziari innovativi
I Fondi Strutturali sono utilizzati per fornire sostegno sotto forma di sovvenzioni (c.d.
fondo perduto senza rimborso), premi, assistenza rimborsabile e strumenti finanziari
o una combinazione degli stessi.
In particolare i Fondi possono intervenire per sostenere strumenti finanziari
nellʹambito di un programma, anche quando sono organizzati attraverso ‘fondi di
rotazione’, al fine di contribuire al conseguimento degli obiettivi specifici stabiliti
nellʹambito di una priorità.
Gli strumenti finanziari possono essere associati a sovvenzioni, abbuoni di interesse,
abbuoni di commissioni di garanzia. Attraverso i fondi di rotazione è dimostrato che
viene incrementato l’effetto moltiplicatore del sostegno e il numero di progetti
finanziati, grazie al fatto che le risorse a seguito dell’erogazione ai progetti ritornano
al fondo secondo le varie modalità (rimborso su prestiti, remunerazione per l’equity,
ecc.).
PROMOZIONE DELLE ENERIGE RINNOVABILI, L’EFFICIENZA DELLE RISORSE E LA
MOBILITA’ URBANA A BASSA EMISSIONE
Il consumo di energia impatta pesantemente sulla competitività dell’economia, che è
fortemente dipendente dalle importazioni di energia (nel 2010, l’84% del fabbisogno
energetico italiano è stato coperto da importazioni) e di combustibili fossili. Si auspica che
investimenti concreti in questo settore aumentino considerevolmente rispetto al periodo di
programmazione 2007-2013, in particolare quelli destinati all’efficienza energetica, lo
sviluppo di fonti rinnovabili, la diffusione del trasporto pulito.
Tale cambiamento può favorire un riorientamento dell’economia e la creazione di nuova
occupazione. Occorre dare priorità all’aumento dell’efficienza energetica e della capacità di
produzione energetica da fonti rinnovabili (eolica, solare, idroelettrica, biomassa e
geotermica), escludendo interventi sulle infrastrutture di rete (ad eccezione delle aree rurali
remote).
PROGETTO UE – OBIETTIVO: 20/20/20
Dopo undici mesi di lavoro legislativo, il Parlamento europeo ha approvato il 17-12-2008 il
pacchetto clima-energia volto a conseguire gli obiettivi che l'UE si è fissata per il 2020: ridurre
del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare
al 20% il consumo di fonti rinnovabili. Il pacchetto comprende provvedimenti sul sistema di
scambio di quote di emissione e sui limiti alle emissioni delle automobili.
Sistema di scambio delle emissioni di gas a effetto serra (ETS)
Sulla base di un complesso negoziato con il Consiglio, il Parlamento ha adottato una direttiva
volta a perfezionare ed estendere il sistema comunitario di scambio delle quote di emissione
dei gas a effetto serra con l'obiettivo di ridurre le emissioni dei gas serra del 21% nel 2020
rispetto al 2005. A tal fine prevede un sistema di aste, dal 2013, per l'acquisto di quote di
emissione, i cui introiti andranno a finanziare misure di riduzione delle emissioni e di
adattamento al cambiamento climatico. Tuttavia le industrie manifatturiere che sono a forte
rischio di delocalizzazione, a causa dei maggiori costi indotti dal sistema, potranno beneficiare
di quote gratuite fino al 2027. Nel 2010 si procederà a un riesame del regime.
Ripartizione degli sforzi per ridurre le emissioni
Il Parlamento ha adottato una decisione che mira a ridurre del 10% le emissioni di gas serra
prodotte in settori esclusi dal sistema di scambio di quote, come il trasporto stradale e
marittimo o l'agricoltura. Fissa quindi obiettivi nazionali di riduzione (per l'Italia 13%),
prevedendo anche la possibilità per gli Stati membri di ricorrere a parte delle emissioni
consentite per l'anno successivo o di scambiarsi diritti di emissione. Dei crediti sono anche
previsti per progetti realizzati in paesi terzi. In caso di superamento dei limiti sono previste
delle misure correttive.
Cattura e stoccaggio geologico del biossido di carbonio
Il Parlamento ha adottato una direttiva che istituisce un quadro giuridico per lo stoccaggio
geologico ecosostenibile di biossido di carbonio (CO2) con la finalità di contribuire alla lotta
contro il cambiamento climatico. Fino a 300 milioni di euro, attinti dal sistema di scambio di
emissione, finanzieranno 12 progetti dimostrativi, mentre le grandi centrali elettriche
dovranno dotarsi di impianti di stoccaggio sotterraneo.
Accordo sulle energie rinnovabili
Il Parlamento ha approvato una direttiva che stabilisce obiettivi nazionali obbligatori (17%
per l'Italia) per garantire che, nel 2020, una media del 20% del consumo di energia dell'UE
provenga da fonti rinnovabili. Nel calcolo, a certe condizioni, potrà essere inclusa l'energia
prodotta nei paesi terzi. La direttiva fissa poi al 10% la quota di energia "verde" nei trasporti e
i criteri di sostenibilità ambientale per i biocarburanti. Il riesame delle misure nel 2014 non
dovrà intaccare gli obiettivi generali. La direttiva, inoltre, detta norme relative a progetti
comuni tra Stati membri, alle garanzie di origine, alle procedure amministrative,
all'informazione e alla formazione, nonché alle connessioni alla rete elettrica relative
all'energia da fonti rinnovabili.
Riduzione del CO2 da parte delle auto
Il Parlamento ha approvato un regolamento che fissa il livello medio di emissioni di CO2 delle
auto nuove a 130 g CO2/km a partire dal 2012, da ottenere con miglioramenti tecnologici dei
motori. Una riduzione di ulteriori 10 g dovrà essere ricercata attraverso tecnologie di altra
natura e il maggiore ricorso ai biocarburanti. Il compromesso stabilisce anche un obiettivo di
lungo termine per il 2020 che fissa il livello medio delle emissioni per il nuovo parco
macchine a 95 g CO2/km. Sono previste "multe" progressive per ogni grammo di CO2 in
eccesso, ma anche agevolazioni per i costruttori che sfruttano tecnologie innovative e per i
piccoli produttori.
Riduzione dei gas a effetto serra nel ciclo di vita dei combustibili
Il Parlamento ha adottato una direttiva che, per ragioni di tutela della salute e dell'ambiente,
fissa specifiche tecniche per i carburanti. Stabilisce inoltre un obiettivo di riduzione del 6%
delle emissioni di gas serra prodotte durante il ciclo di vita dei combustibili, da conseguire
entro fine 2020 ricorrendo, ad esempio, ai biocarburanti. L'obiettivo potrebbe salire fino al
10% mediante l'uso di veicoli elettrici e l'acquisto dei crediti previsti dal protocollo di Kyoto.
Il tenore di zolfo del gasolio per macchine non stradali, come i trattori, andrà ridotto. La
direttiva, che dovrà essere trasposta nel diritto nazionale entro il 31 dicembre 2010, si applica
a veicoli stradali, macchine mobili non stradali (comprese le navi adibite alla navigazione
interna quando non sono in mare), trattori agricoli e forestali e imbarcazioni da diporto.
RAGGIUNGRE L’OBIETTIVO COMUNITARIO 2020 INERENTE LE ENERGIE RINNOVABILI E
L’EFFICIENZA ENERGETICA:
a) aumentare la quota delle fonti energetiche rinnovabili sui consumi finali di energia
attraverso la produzione di energia elettrica e la valorizzazione delle potenzialità dei
settori della bioeconomia;
b) promuovere l’efficienza energetica e l’utilizzo delle energie rinnovabili negli edifici
pubblici, nelle abitazioni e nelle PMI;
c) sviluppare tecnologie inerenti al settore delle fonti energetiche rinnovabili e delle
tecnologie a bassa emissione di carbonio e relative industrie attraverso regimi di
sostegno mirato per le PMI;
d) nelle zone rurali italiane la priorità potrebbe essere data all’energia sostenibile da
biomasse nella misura in cui associa effetti positivi in termini di gestione forestale e dei
rifiuti
e/o
sottoprodotti,
nel
dovuto
rispetto
delle
condizioni
ambientali
locali/regionali e relativi vincoli. In questo ambito, il deterioramento del suolo, delle
acque e della biodiversità deve essere evitato. L’energia solare, sia per l’elettricità che
per il riscaldamento e il raffreddamento, potrebbe anche costituire un’opportunità per
gli agricoltori, a condizione che siano presi nel dovuto conto gli aspetti relativi alla
competizione per l’utilizzazione del suolo per quanto riguarda i terreni agricoli;
e) in determinate zone costiere, è opportuno incoraggiare nuove forme di produzione di
energia legate al mare.
RIDUZIONE DELLE EMISSIONI E DELL’ASSORBIMENTO DI CARBONIO:
a) rafforzare gli interventi agro-alimentarie progettare nuove e più innovative misure, al
fine di garantire un a maggiore efficacia delle azioni, in relazione alle specifiche
esigenze e condizioni ambientali, a livello locale/regionale (ad esempio, azioni in
materia di cattura del carbonio e l’aumento della materia organica del suolo). Per ciò
che concerne i futuri interventi nel settore forestale, l’accento dovrebbe essere posto
maggiormente sulla ridefinizione delle misure di rimboschimento e sulla gestione
forestale attiva. Occorre assegnare finanziamenti adeguati alla prevenzione degli
incendi boschivi e alle azioni di ripristino;
b) sostenere il concetto di mobilità urbana integrata, sostenibile e accessibile nelle cittàregioni e nelle aree metropolitane. Su base volontaria, alcune città potranno attuare
progetti-pilota che introducano oneri sulla cogestione e agevolino l’uso dei trasporti
pubblici e della bicicletta, e l’andare a piedi.
Al fine di garantire la performance degli investimenti a valere sui Fondi QSC nell’ambito di
questo obiettivo tematico, è necessario soddisfare le pertinenti condizionalità ex ante prima
del 2014. Le seguenti considerazioni generali sono volte a migliorare la governante e la
realizzazione:
a) la maggior parte degli investimenti connessi al clima devono essere effettuati dal
settore privato. Le Regioni italiane devono garantire che i finanziamenti pubblici
integrino e incoraggino gli investimenti privati. Nel settore dell’efficienza energetica, la
possibilità di favorire il risparmio energetico, attraverso meccanismi di mercato
(obblighi di risparmio energetico, società di servizi energetici, contratti di rendimento
energetico, ecc…) deve essere esplorata prima di erogare finanziamenti pubblici o
utilizzarli per sollecitare ulteriori capitali privati;
b) è necessario garantire, sia a livello nazionale che regionale, la complementarità e il
coordinamento con il programma LIFE, possibilmente attraverso progetti integrati nei
settori della promozione dell’emissione ridotta di carbonio.
CONSIDERAZIONI SUL PROGETTO 20/20/20
Secondo Bjorn Lomborg (6 gennaio 1965) ambientalista e accademico danese noto per le posizioni
scettiche sul problema del riscaldamento globale, da lui espresse nel 1998, professore aggiunto alla
Copenaghen Business School, direttore del Copenhagen Consensus Centre e in passato direttore dell’
Enviromental Assessment Institute di Copenaghen, il progetto 20-20-20, nonostante i suoi enormi
costi apporterà solo un minimo contributo alla lotta al cambiamento climatico.
Un aspetto positivo è che, nonostante tutto, i politici restano attenti e impegnati sul fronte del
riscaldamento globale. Sfortunatamente, però, i loro piani non resistono a un'analisi più
approfondita. Le ultime ricerche sembrano dimostrare che il piano 20-20-20 della Ue, che
prevede la riduzione delle emissioni di gas serra del 20 per cento rispetto ai valori rilevati nel
1990 entro il 2020 e il ricorso alle fonti rinnovabili per il 20 per cento del fabbisogno
energetico, costerà miliardi di euro, ma porterà soltanto esigui benefici. La sola Gran Bretagna
dovrà sborsare ogni anno 35 miliardi di euro.
Come dimostra l’analisi comparativa di costi e benefici dell'economista Richard Tol, esperto
del cambiamento climatico, una riduzione a livello regionale avrebbe un effetto relativo
sull'aumento delle emissioni e della temperatura globale. Non si tratta di una bocciatura
dell'approccio al problema, ma l'analisi di Tol dimostra come sia fondamentale unire le forze.
L'Unione europea ha recentemente sostenuto che il costo della realizzazione del progetto sarà
di 39 miliardi di dollari. Si tratta di una stima ottimistica e inverosimile. Facendo una media
tra i più affidabili modelli economici si deduce che il programma, anche presupponendo che
politici abbiano impostato correttamente il percorso per realizzarlo, costerà almeno 100
miliardi di euro all'anno.
Ma il percorso è tutt'altro che corretto. Il carico di burocrazia, complicazioni e restrizioni lo ha
reso ancora più arduo, in particolare per quanto riguarda l'obiettivo di utilizzare per il 20 per
cento energie rinnovabili. Si tratta infatti di aggiungere altri costi rilevanti, dato che l'utilizzo
delle tanto popolari fonti "verdi" presuppone un investimento molto più ingente di quello
necessario per rimpiazzare il petrolio con il gas. Di conseguenza, la stima del costo reale della
politica Ue sul clima sale oltre i 200 miliardi di euro annui.
Nel suo studio, commissionato dal Copenhagen Consensus Centre, ha anche quantificato il
beneficio netto del progetto 20-20-20. Partendo dalla stima convenzionale che attesta in 7
dollari (5,50 euro) il danno economico provocato da una tonnellata di diossido di carbonio,
l'economista olandese ha scoperto che il beneficio complessivo della politica europea sul
clima sarà di 6,8 miliardi di euro. In altre parole, ogni euro speso frutterà un beneficio di
appena tre centesimi. La ricerca mostra che entro la fine di questo secolo l'approccio europeo
porterà a una riduzione dell'innalzamento della temperatura globale di circa 0,05 gradi
centigradi. Un dato quasi troppo piccolo per essere rilevato.
I leader europei non devono abbandonare la lotta al cambiamento climatico, ma invece di
dilapidare un patrimonio in missioni senza senso dovrebbero investire nello sviluppo delle
energie verdi. Ridurre le emissioni di carbonio costa così tanto perché le energie alternative
non sono pronte a sostituire il petrolio e gli altri combustibili fossili. Un maggiore
investimento in ricerca e sviluppo potrebbe davvero togliere il mondo dall'impasse a
proposito del cambiamento climatico. Se si avessero fonti di energia rinnovabile a prezzi
competitivi chiunque le utilizzerebbe, incluso Cina e India, e le emissioni di carbonio
crollerebbero significativamente.
La Commissione europea vuole alzare al 30 per cento rispetto al 1990 l'asticella della
riduzione delle emissioni di carbonio entro il 2020. Secondo i calcoli di Tol in questo modo i
costi raddoppierebbero, superando i 440 miliardi di euro all'anno. Il risultato sarebbe quello
di ridurre la temperatura del pianeta di un ulteriore centesimo di grado entro i prossimi
novant'anni.
Il deficit energetico UE è salito nel 2011 di oltre il 26%, alla soglia dei 100 miliardi di euro.
Sarà praticamente impossibile ridurre le emissioni e razionalizzare l’uso dell’energia secondo
gli obiettivi del protocollo 20-20-20.
Nel marzo 2011 la Commissione Europea ha presentato il suo Piano per l’efficienza energetica
dal quale risulta che, con le misure approvate fino ad ora, si raggiungerà solo la metà
dell’obiettivo del 20% e che pertanto occorre uno sforzo maggiore, in virtù del quale si sta
elaborando una nuova direttiva.
L'Europa, è rimasta la paladina della lotta al riscaldamento climatico e se non fosse stato per
l’Australia e la Nuova Zelanda sarebbe rimasta praticamente da sola.
Nel 2010, ultimo dato ufficiale disponibile, le emissioni di anidride carbonica da parte di tutte
le economie del mondo sono cresciute di un fragoroso 5,9% (512 milioni di tonnellate in più)
dopo la fugace flessione del 2009, associata alla recessione globale.
In Italia le emissioni di gas serra dal 1990 al 2008 hanno avuto un incremento del 4,7%.
Nel frattempo nota positiva è che è passata alla commissione Energia della UE una proposta
del verde Claude Turmes che propone di rendere vincolanti Paese per Paese gli obiettivi 2020-20 in materia di efficienza energetica. Sono previste nuove imposizioni ai costruttori di
condizionatori d’aria e di ventilatori che a partire dal 2013, crescendo di anno in anno,
dovranno rispettare nuovi severi limiti di efficienza energetica.
L’UE non è ancora titolata per sostituirsi in materia di energia ai singoli Stati, ma il suo
orizzonte è questo. L’art. 194 del Trattato di Lisbona sugli indirizzi di politica energetica
europea, raccomanda il buon funzionamento del mercato interno dell’energia, la garanzia
dell’approvvigionamento energetico e la preservazione dell’ambiente attraverso il risparmio
energetico e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili. Considerando che l’UE è fortemente
dipendente dalle forniture estere di energia, questo articolo, indica nella sostanza, il
riconoscimento della natura globale ed integrata della politica energetica europea, dove
accanto al nucleo storico della dimensione interna dei mercati dell’elettricità e del gas,
assumerà sempre più rilievo la sostenibilità ambientale e la dimensione esterna dell’energia.
In coerenza con questo indirizzo la Comunicazione della Commissione europea di Marzo
2011, prevede una tabella di marcia verso un’economia competitiva a basse emissioni di
carbonio con obiettivi ambiziosissimi al 2050: riduzione delle emissioni dell’80-95% rispetto
ai dati del 1990; investimenti per 275 miliardi di euro annui nelle tecnologie energetiche
innovative, con un impegno di risorse nella ricerca energetica pari a 50 miliardi nei prossimi
dieci anni e con ritorni dell’investimento previsti tra i 175 e i 320 miliardi annui. La
comunicazione prevede grandi scenari per una cooperazione energetica davvero globale e fa
capire come possa essere determinante il ruolo dell’UE sul mercato mondiale. L’UE non è però
ancora pienamente titolata per potersi sostituire ai singoli Stati e gli stessi sono liberi di
decidere il proprio approvvigionamento energetico. Dunque l’Europa non può parlare con una
sola voce. La costituzione di uno spazio europeo dell’energia viene a dipendere in larga
misura dalla capacità delle sue istituzioni di individuare azioni che, pur importanti, tuttavia
non sono direttamente collegate alla sicurezza degli approvvigionamenti. Un’azione che l’UE
può sicuramente fare è quella di un pressing presso le organizzazioni internazionali che si
occupano direttamente o indirettamente di energia, per la promozione a livello globale di
standard ambientali e di sicurezza più elevati. In questa prospettiva si colloca anche
l’obiettivo di migliorare l’accesso all’energia sostenibile per i paesi in via di sviluppo.
In questa situazione l’Ets, il mercato europeo delle emissioni, è un mercato praticamente
morto. Infatti le imprese più energivore devono comprare sul mercato i diritti Eua (un Eua=
una tonnellata di CO2), per le emissioni che superano una certa soglia, oppure i diritti Cer, che
sono legati ad investimenti in energie rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo. L’idea fondante
non è quella di tassare le emissioni di CO2 ma quella di incentivare la transizione verso
energie più pulite ed efficienti: chi investe in nuove tecnologie ed emette di meno, si trova con
una eccedenza di Eua da vendere sul mercato. Il punto è che il prezzo del carbonio dovrebbe
essere più elevato affinchè gli incentivi funzionino. Però da tempo il prezzo degli Eua è sceso
da 30 euro a 9 euro, i Cer sono quotati sotto i 5 euro. Tutto questo non è dovuto solo allo stallo
della diplomazia climatica internazionale ma anche all’eccessiva allocazione iniziale di diritti
gratuiti, al furto elettronico ad opera di esperti Hacker di 28 miliardi di euro di certificati, ed
al rallentamento delle emissioni dovuto al rallentamento dell’economia con una conseguente
minore richiesta energetica. Di recente è apparsa una nuova categoria di diritti, gli Euaa, nei
quali l’ultima “a” sta ad indicare aviazione.
Questi diritti sono l’oggetto della disfatta diplomatica del momento, che oppone la UE ad una
trentina di Paesi. Il primo gennaio di questo anno è entrata in vigore la direttiva sulle
emissioni aeree (tutte le compagnie che decollano o atterrano in UE devono partecipare
all’Ets), per incoraggiare l’efficienza energetica anche nell’aviazione civile.
L’India ha comunicato alle proprie aviolinee di non rispettare la legge europea, gli Usa
meditano di fare altrettanto e la Cina sembra intenzionata alla rappresaglia commerciale
bloccando gli ordini per i nuovi veivoli Airbus.
In questo contesto 5 premi Nobel trai quali Kenneth Arrow e William Sharpe hanno inviato
una lettera alla Casa Bianca indirizzata al Presidente Obama nella quale dicono: “La
imploriamo di sostenere l’iniziativa europea per mettere un prezzo alle emissioni di carbonio
dell’aviazione o, quantomeno, smettere di ostacolarla ….. Finchè le emissioni non avranno un
prezzo, il mondo continuerà a dissipare una risorsa scarsa: la capacità del pianeta di assorbire le
emissioni-serra.”
LA SITUAZIONE IN ITALIA
L’Italia fa buone cose ma discontinue. Più che diminuire il consumo energetico si lavora per
combinare misure per incrementare l’efficienza, uso più razionale e tecnologicamente
avanzato dell’energia. Ci sono detrazioni fiscali per rendere più energeticamente razionali gli
edifici e le nostre abitazioni. In due ore, il 16 marzo scorso, il nuovo Fondo Kyoto per
l’ambiente (programma del Ministero dell’Ambiente per la promozione dell’efficienza
energetica), dedicato alle imprese, ai condomini ma anche ai singoli cittadini, è stato preso
d’assalto: 7 mila accessi, oltre 600 domande, 60 milioni richiesti. Una testimonianza che
conferma la grande voglia di economia verde che c’è in Italia.
Nel complesso però nel nostro Paese manca un strategia complessiva. Il novo piano per
l’efficienza energetica non è ancora stato varato, così come manca il più volte promesso piano
energetico nazionale. Eppure, la spinta allo sviluppo industriale, produttivo ed occupazionale,
passa anche e soprattutto dalla riqualificazione edilizia, urbana e delle infrastrutture in chiave
ecologica.
Considerando che le aziende spendono di più sul consumo energetico piuttosto che per
pagare i propri dipendenti, la ripresa economica dovrebbe venire non da una riduzione
dell’occupazione e dei salari, ma da una riduzione dei consumi energetici sia per le imprese
che per le famiglie.
Per superare la crisi, qualsiasi politica economica dovrebbe essere socialmente ed
ambientalmente sostenibile.
La mancanza progettuale del Governo in un Paese come il nostro che di energia a buon
mercato non ne ha avuta mai, e mai, purtroppo, ne avrà, è decisamente irresponsabile.
La Svezia, priva di riserve combustibili fossili, è il primo Paese dell’UE per uso delle energie
rinnovabili (48% del consumo totale) e tra quelli che emettono meno CO2. Le principali fonti
pulite sono l’energia idroelettrica e i biocarburanti. Kristianstad, un centro agricolo svedese,
sta provando a liberarsi completamente dai carburanti fossili affidandosi soprattutto al
biogas, ricco di metano, estratto dagli scarti della lavorazione del maiale, dalla frazione umida
dei rifiuti domestici e da altri residui. Il reattore biogas di Kristianstad a pieno regime
contiene 6 milioni di litri di poltiglia, soprattutto derivante dai residui dei mattatoi. Le eliche
mescolano questa massa organica, facilitano la digestione da parte dei microorganismi, che
produce metano. Con il biogas la città di Kristianstad, produce elettricità e riscaldamento e
alimenta mezzi pubblici e auto. Il biocarburante prodotto equivale a 4 milioni di litri di
benzina all’anno.
Le imprese italiane pagano in media il 30% in più in termini di costi energetici rispetto alle
imprese concorrenti straniere e, forse per questo motivo, gran parte dell’efficienza energetica
che si è fatta fino ad oggi è stata spinta più da necessità contingenti che programmatiche.
L’industria italiana ha sviluppato le auto più efficienti al mondo, di piccola dimensione e poco
inquinanti, non per una vocazione ambientalista, ma perché la benzina da noi è sempre stata
scarsa e molto cara.
Il piano di azione nazionale per l’efficienza energetica del 2007 aggiornato nel 2011,
affiancato al piano di azione nazionale sulle fonti rinnovabili, è un documento ufficiale che
contiene parte di quello che dovrebbe essere una Strategia energetica nazionale. Per il 2016 si
prevede un risparmio complessivo per quasi 11 milioni di tonnellate equivalenti petrolio
(Mtep) su consumi di circa 140 Mtep, con il settore residenziale che presenta le maggiori
potenzialità di risparmio con 5,2 Mtep.
Dall’ Unione Europea arriveranno da qui al 2020 quasi 92 miliardi a disposizione del pubblico
e del privato che proporrà innovazione urbana.
L’obiettivo è incentrato soprattutto sulle Smart Cities, cioè una nuova concezione di vivere la
città. Si passerà in breve tempo da un sistema con un flusso di energia elettrica
monodirezionale – che si muove dal punto in cui viene generata ai punti in cui è consumata –
ad un sistema in cui si realizzerà un flusso di energia elettrica e di informazioni bidirezionale,
gestito in ottica intelligente e capace di abilitare nuove funzionalità nelle fasi di generazione,
trasmissione, distribuzione ed utilizzo. Questo sistema ha un’architettura complessa e
richiede un coordinamento a livello europeo, con la creazione di un mercato unico.
Il primo step di questi incentivi, chiuso nel dicembre scorso, ha premiato proprio l’Italia, ed è
stata Genova, unica città europea ad aver vinto i tre bandi: Transform (progetto di un manuale
per trasformare le città in Smart Cities, creato in collaborazione con Amsterdam, Amburgo,
Lione, Vienna e Copenaghen); Celsius (progetto per “Riscaldamento e raffreddamento”,
coordinato da Goteborg per realizzare una rete energetica; R2 Cities (progetto coordinato
dalla spagnola Fundacion Cartif, per la riqualificazione energetica della diga di Begato).
Bari, terza candidata italiana ufficiale ai bandi europei, punta ad una smart city mediterranea
con Tel Aviv, Atene, Patrasso, Tirana, Nicosia, Beirut, Corfù, Alessandria D’Egitto, Iasi, e
progetta una piattaforma per il governo integrato del sistema mobilità; raccolta differenziata
della frazione organica e trattamento in un impianto di compostaggio per la produzione di
biogas; project financing sugli edifici pubblici per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
L’Aquila avrà un ruolo di avanguardia nelle tecnologie al servizio dei diversamente abili;
nell’integrazione dei percorsi salute-benessere in chiave digitale; nelle soluzioni smart per la
scuola. Bologna ha vinto il premio mobilità sostenibile europeo, Napoli sta preparando un
progetto per l’interazione tra Università, ricerca ed imprenditoria.
Sulle Smart City, l’Italia ha un posto in prima fila.
Il Governo Monti ha presentato il SEN (Strategia Energetica Nazionale), nel quale si indica che
le fonti di energia rinnovabili dovranno soddisfare alla fine del decennio il 20% dei consumi
finali totali, superando il precedente obiettivo del 17% concordato con l’Europa. La
produzione elettrica da rinnovabile dovrà arrivare al 38% superando di poco la produzione
da gas. Per la realizzazione di questi obiettivi, il 72% dei 180 miliardi di euro previsti di
investimento, sono legati agli interventi sull’efficienza energetica e sul rinnovabile. Questo va
nella direzione giusta, in linea con la Direttiva europea sull’efficienza energetica che è
diventata legge. Entro Aprile 2013 tutti gli Stati membri della UE dovranno fissare gli obiettivi
nazionali di risparmio energetico. Sono previsti 50 miliardi di stanziamenti annuali che
saranno coperti da fondi strutturali e da prestiti della banca europea per gli investimenti.
Quello che preoccupa però è la previsione di raddoppiare l’estrazione nazionale di idrocarburi
passando dal 7 al 14%, perché pensando così di ridurre una parte delle importazioni, si andrà
a discapito della diffusione delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. Inoltre si andrà
sicuramente incontro a problemi di sicurezza ambientale e di tenuta sociale. E’ recente la
notizia che il Tar del Lazio ha intimato l’interruzione delle ricerche di gas nell’Adriatico nella
zona del Gargano. Ricordando che le indicazioni dell’Unione Europea son per un’energia
decarbonizzata entro il 2050, il futuro energetico si dovrà centrare essenzialmente sul
risparmio, l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, indirizzando la fase di transizione dal
carbonio utilizzando il gas naturale. Si dovrà diversificare l’approvvigionamento, ci sarà
bisogno di consentire maggiore stoccaggio per consentire alla rete nazionale di metanodotti di
fronteggiare le punte stagionali o eventuali situazioni di tensione con Paesi fornitori. In questo
ambito l’Italia ha parecchie chance di realizzare un Hub del Gas (centro di smistamento) per la
riesportazione verso l’Europa centrale dove, la cancellazione di molti programmi nucleari,
farà crescere nel tempo la richiesta di gas per uso termoelettrico, dando all’Italia un ruolo
rilevante nel panorama energetico europeo e mondiale. Non è più rinviabile una vera politica
energetica europea nella quale l’anello centrale sono le interconnessioni delle reti energetiche
di trasporto e distribuzione in tutto il continente europeo. Basta pensare ai problemi avuti
l’inverno scorso quando durante il periodo di freddo intenso la Russia ha tagliato il 25% della
fornitura di gas. Su questo tema il piano decennale dell’associazione degli operatori europei
dei sistemi di trasporto elettrico, prevede 104 miliardi di euro di investimento nella
realizzazione ed ammodernamento di 52 mila chilometri di rete ad alta tensione, per
consentire di superare i cosiddetti “colli di bottiglia” , gran parte dei quali dovuti alla
produzione di energia da fonti rinnovabili.
Per le infrastrutture energetiche la commissione europea concederà finanziamenti comunitari
fino al 50% dell’infrastruttura che potranno salire all’80% per quei progetti che assicurino un
alto grado di sicurezza, di approvvigionamento a livello di Unione europea e che rafforzino la
solidarietà interna con lo status di interesse comune dell’Unione. Il programma entrerà in
vigore nel 2014 e prevede oltre al potenziamento degli elettrodotti, quello degli impianti di
stoccaggio e di terminali di rigassificazione.
COME VEDE LA SITUAZIONE DELL’ITALIA L’INGEGNER FRANCESCO AMADEI
Responsabile di ENEL Distribuzione?: “l’Italia dal punto di vista dell’approvvigionamento
energetico ha il vantaggio, per esempio rispetto alla Germania, di non dover recuperare il ritorno
dal nucleare, ha il vantaggio di avere un’ottima dislocazione geografica nel Mediterraneo, ha un
irraggiamento solare di oltre millenovecento ore all’anno, specie nel centro sud, che fanno
veramente forza per le rinnovabili. L’Italia ha il vantaggio di aver installato oltre trenta milioni
di contatori elettrici digitali che possono essere la base per le future smart grid, se però aspettiamo
ancora andranno sostituiti perché la tecnologia cambia rapidamente, bisogna accelerare nella
transizione e trasmettere questo valore aggiunto. L’Italia ha una produzione da fonti rinnovabili
che già ora ha portato l’energia elettrica a costo marginale zero nelle ore centrali diurne nel centro
sud. Non è esagerato dire che siamo una vera miniera a cielo aperto ma non utilizzata per tutte le
sue potenzialità. La transizione verso le smart grid è ormai inevitabile, si passerà in breve tempo
dal sistema caratterizzato da un flusso di energia elettrica monodirezionale, ad un sistema di
flusso bidirezionale di energia elettrica e di informazioni gestito in un’ottica intelligente e capace
di abilitare nuove funzionalità nella fase di generazione e trasmissione, distribuzione e utilizzo
dell’energia.”
SITUAZIONE INTERNAZIONALE – CONFERENZA DI RIO+20
Lo scenario internazionale non è propriamente positivo, l’ultimo vertice Onu di Durban non si
è concluso in un disastro, solo perché l’ UE ha manovrato affinchè si evitasse la collisione tra
interessi particolari dei singoli Stati ed interessi universali come la salvaguardia del clima
planetario nel distante futuro. Mentre il Giappone si rifiutava di prolungarne la vita del
protocollo di Kyoto ed il Canada annunciava di volerlo abbandonare subito, è stato soltanto
deciso di rinviare la decisione al 2015.
Gli ultimi sviluppi sul piano della lotta al riscaldamento globale si sono avuti alla conferenza
di Rio+20 del giugno scorso, sulla quale si nutrivano molte aspettative da parte sia della UE
che di tutte le Associazioni civili, sociali ed ambientaliste e che purtroppo non ha prodotto
cambiamenti significativi in senso positivo.
I titoli dei giornali dopo la Conferenza sono stati a gran voce di questo tenore: “RIO+20
UN’OCCASIONE PERSA”.
Importante è secondo me il commento di Jim Leape –Direttore di WWF International:
“Era una conferenza sulla vita, sulle future generazioni, sulle foreste, gli oceani, i fiumi e i laghi
da cui tutti noi dipendiamo per avere cibo, acqua ed energia. Era una conferenza per affrontare la
pressante sfida di costruire un futuro che ci possa sostenere. I leader del pianeta riuniti a Rio,
hanno perso di vista questa urgente motivazione. Ma l'urgenza di agire non e' cambiata. La buona
notizia e' che lo sviluppo sostenibile e' una pianta che ha messo radici; crescera' nonostante la
debole leadership politica qui a Rio. Abbiamo visto dei leader farsi avanti, semplicemente non e'
stato nell'ambito dei negoziati: un'emozionante leadership cresce nelle comunita', nelle citta', nei
governi e nelle imprese che stanno gettando le fondamenta per proteggere l'ambiente, alleviare la
poverta' e portare il pianeta verso un futuro piu' sostenibile. Abbiamo bisogno di azione ovunque,
da individui, villaggi, citta', paesi, piccole e grandi imprese e movimenti e organizzazioni della
societa' civile. Dobbiamo tutti prenderci la responsabilita' che i leader del pianeta hanno fallito a
Rio. Dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi e sperare che siano utili ad aprire lo spazio politico, per
portare a termine un processo multilaterale come Rio+20.”
Il documento finale è un elenco di buoni propositi privo di indicazioni precise: non ci sono
target, non ci sono strumenti operativi, non ci sono fondi. Tutto è affidato al mercato, che in
effetti si sta muovendo molto rapidamente in direzione della green economy. E’ stato
annunciato un accordo di cooperazione da 30 miliardi di dollari tra Cina e Brasile per lo
sviluppo sostenibile.
Eppure anche su questo testo, così blando, si è combattuto fino all'ultimo minuto. Nel testo
per ottenere l'unanimità, si è incluso in maniera sfumata sul riferimento alla necessità di
eliminare il finanziamento di uno dei fattori principali del rischio di cambiamento climatico
devastante (l'uso del petrolio e del carbone).
Nel 2011 oltre 400 miliardi di dollari sono stati stanziati per facilitare l'uso dei combustibili
fossili: spostare queste risorse verso l'incremento delle tecnologie pulite permetterebbe
enormi progressi nel rilancio della green economy e della sicurezza dell'atmosfera.
Nonostante la debolezza del documento finale, alcune porte restano aperte e da Rio arrivano
alcuni segnali positivi. Il primo è l'inserimento della definizione di green economy che per la
prima volta appare in un testo ufficiale. Un rilancio che probabilmente sarà colto da una parte
importante del mondo produttivo. Già oggi infatti si registrano aperture di campo significative
sotto questo profilo. Un cartello di banche di sviluppo ha messo a disposizione 175 miliardi di
dollari in prestiti agevolati per il trasporto green. Oltre 200 imprese hanno presentato un
elenco di impegni volontari per obiettivi ambientali e sociali. Un gruppo di investitori ha
stanziato 50 miliardi di dollari per migliorare l'accesso all'energia, raddoppiare la quota di
rinnovabili e aumentare l'efficienza.
METANO: COMBUSTIBILE DEL FUTURO O BOMBA CLIMATICA?
Credo sia molto interessante un articolo apparso sul National Geographic Italia del dicembre
scorso nel quale si fa riferimento all’utilizzo ed estrazione del metano come combustibile
pulito negli Stati Uniti e che fa comprendere come non sempre l’utilizzo di combustibili,
cosiddetti non inquinanti, possa sicuramente giovare all’ambiente.
Grazie alla conversione di alcune centrali elettriche dal carbone al gas naturale, gli USA hanno
potuto ridurre le proprie emissioni di CO2 da combustibili fossili; ma a quale prezzo e rischio?
Il metano è un potente gas serra: meno diffuso dell’anidride carbonica (che è 200 volte più
presente nell’atmosfera) ma in grado di intrappolare, a pari quantità, almeno 25 volte più
calore. Se invece viene bruciato, il metano entra nell’atmosfera sotto forma di anidride
carbonica, cioè CO2.
Il problema è che crescono anche le emissioni di metano in quanto tale.
Infatti negli ultimi decenni l’Artide si è riscaldata molto più in fretta del resto del Pianeta , e
con la fusione del permafrost, i laghi già esistenti si sono ampliati e se ne sono creati di nuovi.
Dal fondo fangoso dei laghi dell’Alaska, della Groenlandia e della Siberia salgono bolle di
metano in quantità difficili da misurare fino a quando il congelamento autunnale immobilizza
la situazione e rende visibili le bolle di gas naturale costituite principalmente di metano.
L’Università dell’Alaska con la sua equipe sta cercando di misurare la quantità di metano
emessa dai milioni di laghi che oggi occupano quasi un terzo della regione artica.
In alcuni laghi esistono punti caldi nei quali l’emissione di bolle di metano è così intensa che il
ghiaccio non riesce a formarsi. E’ un circolo vizioso, emettendo metano nell’atmosfera, i laghi
amplificano il riscaldamento globale che li ha creati.
Queste emissioni sono ancora più preoccupanti perché sembra provengano da depositi
geologici molti profondi, che fino a poco tempo fa erano sepolti al sicuro sotto lo strato di
permafrost, e che racchiudono quantità di metano centinaia di volte superiori a quelle oggi
contenute nell’atmosfera.
L’evoluzione del riscaldamento globale in questo secolo dipenderà almeno in parte dalla
capacità di equilibrare il lato buono e quello cattivo del metano, da quanto si riuscirà a
catturarne e sfruttare come combustibile e quanto invece si disperderà nell’atmosfera.
Nel frattempo le compagnie petrolifere stanno studiando il modo per sfruttare riserve di
metano ancora più massicce, gli idrati di metano congelati, sepolti sotto ampie aree del fondo
marino e del permafrost nelle zone artiche. Globalmente questi composti potrebbero
contenere più energia di tutti gli altri combustibili fossili messi insieme. Il metano gassoso che
si sprigiona da queste formazioni ha un volume 164 volte maggiore rispetto alla stessa
quantità in forma di metano idrato, normalmente reperibile più in superficie.
I climatologi temono che il riscaldamento globale possa destabilizzare gli strati di idrati di
metano, sulla terraferma o nell’oceano, provocando massicce fuoriuscite di gas che a loro
volta amplificherebbero il riscaldamento. Alcuni scienziati ritengono possibile uno scenario
catastrofico, nel quale le emissioni massicce avverrebbero rapidamente, facendo impennare le
temperature globali nell’arco di una vita umana.
La concentrazione di metano nell’atmosfera è aumentata quasi del 160% rispetto all’epoca
preindustriale, raggiungendo 1,8 parti per milione. Dal 2006 il metano atmosferico ha ripreso
ad aumentare significativamente e secondo molti osservatori non è una coincidenza che in
questo periodo sia aumentata l’estrazione dei sottostrati di metano.
Rispetto al consumo di carbone, la combustione del gas naturale non diffonde nell’aria
biossido di zolfo, mercurio e particolato, non produce ceneri e libera solo la metà dell’anidride
carbonica. Secondo il rapporto sui gas serra dell’EPA, (Agenzia per la Protezione Ambientale
del Governo Americano), tra il 2005 e il 2010 le emissioni di CO2 a livello nazionale sono
diminuite del 7%, pari a 400 milioni di tonnellate, e i dati preliminari indicano un ulteriore
calo nel 2011. Si spera che la pratica dello shale gas (estrazione del gas dagli idrati) si
diffonda anche fuori dagli Stati Uniti, infatti se la Cina sostituisse almeno in parte il consumo
di carbone con il gas naturale (si stima che in Cina le riserve siano potenzialmente enormi),
l’impatto positivo sul clima sarebbe enorme ed immediato.
Intanto però sempre più metano viene liberato nell’atmosfera.
Sempre secondo l’EPA, fino al 2010 l’aumento di questo tipo di emissioni è stato equivalente,
per potenziale di riscaldamento globale, a 40 milioni di tonnellate di CO2, all’anno: vale a dire
che annulla circa un decimo della riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Il principale
responsabile è l’industria del gas naturale. Stando a questi dati, l’estrazione del gas
sembrerebbe comunque vantaggiosa per il clima. Ma alcuni scienziati ritengono che l’EPA
abbia sottostimato le emissioni di metano e, cosa più importante, il potenziale di
riscaldamento globale di ciascuna molecola del gas.
Drew Shindell, un climatologo che lavora per la NASA, ha guidato un team internazionale di
scienziati che ha analizzato sette strategie per la riduzione delle fuoriuscite di metano da
estrazione. Al contrario dell’anidride carbonica, il metano fa male alla salute, perché
contribuisce alla formazione dello smog. Shindell e colleghi calcolano che, tenendo conto
degli effetti sulla salute, il controllo del metano comporta benefici almeno tripli rispetto ai
costi, e in qualche caso anche 20 volte maggiori.
Nonostante ciò però alcune fonti di emissione sono difficili, se non impossibili, da controllare,
come appunto quelle artiche.
L’università dell’Alaska spiega che una parte del metano che sale a galla nei laghi della regione
artica proviene proprio dagli idrati da cui si estrae il gas naturale.
Circa 56 milioni di anni fa, nel Paleocene, una lunga fase di riscaldamento planetario culminò
in un improvviso aumento di 5°C della temperatura media; molti scienziati ipotizzano che la
causa sia stata una destabilizzazione massiccia degli idrati di metano.
Si ritiene che oggi non sia possibile una simile catastrofe, ma il metano dell’Artide potrebbe
contribuire in ampia misura al riscaldamento globale nei secoli a venire. Se solo si riuscisse a
catturare il metano che fuoriesce incontrollato, sarebbe una straordinaria fonte di energia.
I RISCHI DEL FRACKING
Il Fracking (fatturazione idraulica) è il nome dato alla tecnologia utilizzata per l’estrazione del
petrolio o di altri idrocarburi. Attualmente viene utilizzata principalmente per l’estrazione
dello shale gas (gas naturale liquefatto) soprattutto negli Stati Uniti che a partire dal 2003
hanno intensificato l’utilizzo di questa tecnica soprattutto in Nord Dakota, Texas,
Pennsylvania, Ohio, Colorado. Questi sono solo una parte dei circa trenta stati americani nei
quali è in corso la più grande campagna di trivellazione della storia con appunto l’utilizzo del
fracking. Sotto il profilo economico si tratta si un “nuovo Eldorado” che sta rivoluzionando i
rapporti di forza e cambiando la geografia politica mondiale, riducendo all’osso la dipendenza
energetica americana dal petrolio scesa sotto il 20% già nel 2012, con la prospettiva di
arrivare alla completa indipendenza entro il 2030.
I Paesi al mondo che potenzialmente possono essere i più potenti nel raggiungere i giacimenti
di shale gas tramite il fracking, oltre gli Usa, sono la Cina, che oltre a disporre dei più grandi
giacimenti al mondo ha anche una politica di deregulation, l’Argentina, il Sudafrica, l’Australia,
il Canada e la Polonia che insieme ad altri Paesi dell’est europeo sono in ascesa ma frenati dai
costi elevati che la pratica del fracking ancora ha nel vecchio continente. A subire le
conseguenze di questa rivoluzione energetica sarebbero la Russia, grande produttrice ed
esportatrice di gas, i paesi del nord africa e quelli del Medio Oriente.
Ma in che modo il fracking può essere pericoloso? La pericolosità sta nel modo in cui si
realizza. Una volta raggiunto il giacimento di gas, il pozzo, che può estendersi nel sottosuolo
per migliaia di chilometri, da verticale diventa orizzontale, e si dirama in tanti vasi capillari. A
questo punto entra in funzione la forza distruttrice del fracking, l’idrofratturazione della
roccia pompando acqua miscelata a sabbia ed agenti chimici a 16.000 litri al minuto con
l’aiuto di microesplosioni. Si verificano perciò oltre a sconvolgimenti tettonici, immissioni di
agenti chimici nel sottosuolo quali: acrilamide, benzene, benzetilene, metanolo, isopropano,
diesel, acido nitrilotriacetico, parte dei quali classificati come agenti mutageni e cancerogeni,
nocivi per la salute e tossici per gli organismi acquatici. Dal processo di risalita, possono
liberarsi metalli pesanti e radon. A 30 anni di attività, nei pozzi rivestiti di cemento si
verificano infiltrazioni con il rischio di contaminare le falde acquifere. Inoltre quando il fluido
iniettato fuoriesce si possono verificare incidenti come quello dello sversamento in mare dal
Pozzo Macondo, a 1.500 metri di profondità, sotto il Golfo del Messico, iniziato il 20 Aprile
2010 e terminato circa 3 mesi e mezzo dopo, il più grande disastro ambientale della storia
americana.
Oltre ai rischi di contaminazione chimica e di salute sulle persone, il fracking è sotto accusa
anche per la micro sismicità localizzata che innesca e di cui si è parlato anche in occasione del
terremoto in Emilia.
A fine processo estrattivo, inoltre, rimangono sul terreno metalli tossici e scorie radioattive
che dovrebbero essere trattate con le acque reflue, ma ciò non sempre avviene e non sempre è
prescritto nei protocolli di lavorazione.
Il rischio enorme è che i giacimenti di questo tipo di idrocarburi non convenzionali, sono
dispersi in enormi quantità (almeno quattro volte di più di quelle accertate essendo la vita
presente sulla Terra da tempi immemorabili) ad oltre 1.000 e fino a 6.000 metri di profondità,
in piccole fessure dentro formazioni rocciose molto estese e trasversali. Il bacino Marcellus, in
Ohio e Pennsylvania, dove le trivellazioni di shale gas sono iniziate nel 2005, è grande quasi
quanto l’Italia.
Nonostante i rischi sopra descritti, attualmente, il gioco vale la candela perché il prezzo del
petrolio è salito alle stelle e le tecniche di fracking si sono perfezionate riducendo i costi. Negli
Stati Uniti il prezzo del gas è crollato e il gas da fracking è divenuto un bene da esportazione.
Secondo la Energy Information Administration, il fracking potrebbe garantire l’autarchia degli
Stati Uniti per al meno un secolo.
Attualmente a causa della mancanza di rigassificatori sufficienti, molto del gas liquefatto
estratto negli Stati Uniti viene esportato in Giappone che dopo la catastrofe nucleare di
Fukushima ne è diventato un grande importatore.
La situazione degli investimenti in Europa da parte delle grandi compagnie petrolifere
comprese Eni e Sorgenia, per l’estrazione dello shale gas, si concentrano soprattutto in Spagna
ed Ucraina, paesi con leggi più permissive e minore sensibilità ambientale. Francia e Bulgaria
hanno opposto una moratoria, la Gran Bretagna ha sospeso le autorizzazioni ed in molti altri
stati il fracking è difficilmente praticabile. Anche la Germania recentemente ha annunciato
una stretta alle autorizzazioni.
In Italia non è consentito sparare acqua e fluidi nel sottosuolo, siamo un Paese
idreologicamente e sismicamente instabile. Le comunità locali inoltre si oppongono alla
presenza di impianti industriali.
Esistono comunque, fin dai tempi di Enrico Mattei, attività catalogabili come non
convenzionali in Maremma come sull’Appennino Tosco-emiliano, in Polesine dove è in uso il
fenomeno dell’autoconsumo per sfuggire al fisco. In seguito al decreto sviluppo del Ministro
Passera l’attività di trivellazione è in crescita e ci sono una settantina di siti in attesa di partire
che si aggiungeranno alle nove piattaforme esistenti che operano al largo delle coste italiane.
La produzione di shale gas e shale oil però ricordiamo che purtroppo mostra un’impronta
ambientale paragonabile a quella dei combustibili fossili peggiori, perché libera nell’aria
metano in quantità doppie rispetto al gas convenzionale, che non bruciato è un gas serra
molto più potente della CO2.
I ricercatori della Cornell University americana hanno calcolato che in venti anni lo shale gas
risulta più inquinante dal 22 al 43%, rispetto al petrolio lo è tra il 50 e il 250% e rispetto al
carbone dal 20 al 100%. L’altro fattore preoccupante è che per la sua estrazione i consumi di
acqua necessaria sono fino a 1.000 volte superiori che per i giacimenti convenzionali.
LA SITUAZIONE ITALIANA RISPETTO AL FRACKING
L’Italia non considera affatto l’estrazione di gas scisti, lo shale gas, la cui procedura
estrattiva può avere pesanti impatti ambientali che vanno dalla contaminazione delle falde
acquifere all'innesco di terremoti di lieve entità. C’è da crederci?
Una nota dell'ufficio stampa del Ministero dello Sviluppo economico uscita di recente
smentisce alcune agenzie pubblicate precedentemente con dichiarazioni del Ministro che
sembrerebbero a favore del fracking: "In merito ai lanci di agenzia provenienti da Bruxelles che
attribuiscono al ministro Flavio Zanonato la disponibilità a una produzione interna di shale gas,
si precisa che, come stabilito dalla Strategia energetica nazionale e come affermato dal ministro
stesso in Parlamento, il suo sfruttamento non è mai stato preso in considerazione", dice la nota del
dicastero di via Veneto che prosegue spiegando che Zanonato, nel suo ‘interloquire’ con la
stampa aveva affermato invece che era “necessario rilanciare la produzione nazionale di petrolio
e gas tradizionale, avendo comunque il MiSE recentemente ridotto e meglio definito le aree marine
di possibile estrazione".
Il ministro Zanonato, ci diceva la nota di cui sopra, si è limitato finora a valutare che
l’importazione di shale gas dagli Usa e da altri Paesi può essere presa in considerazione solo
come opportunità.
Ma davvero in Italia lo sfruttamento dello shale gas "non è mai stato preso in considerazione"?
Scartabellando sulla richieste di istanze presentate al Ministero dello Sviluppo Economico e
sottoposte al CIRM (Commissione per gli Idrocarburi e le Risorse Minerarie) non
sembrerebbe. Si può infatti notare che rimane aperta un’istanza di permesso di
esplorazione della società Exploenergy di San Donato Milanese, presentata il 14 marzo
2012. Obiettivo della domanda al MiSE è eseguire sondaggi e perforazioni su un'area di 289
kmq compresi tra Brescia, Orzinuovi e Bagnolo. Molte associazioni ambientaliste e
amministrazioni locali hanno il timore ‘aggiuntivo’ che il progetto riguardi attività di
fracking alla ricerca di shale gas.
La possibilità del fracking sembra essere stata esclusa dalla Regione Lombardia che lo
scorso 6 settembre, dopo la comunicazione del parere favorevole del CIRM del 15 febbraio
2013, aveva confermato la richiesta di una Valutazione di impatto ambientale. L'assessore
regionale all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile, Claudia Maria Terzi, aveva
dichiarato che "a seguito di una attenta analisi dell'istanza da parte dei tecnici di Regione
Lombardia sono emerse alcune criticità. Le aree comprese all'interno del perimetro del
permesso di ricerca ricadono in gran parte all'interno delle zone vincolate, quali aree naturali
e protette, siti Sic-Zps, alvei e corsi d'acqua tutelati, complessi archeologici. Inoltre, benché
siano escluse attività di fracking alla ricerca di shale gas, nella zona il rischio sismico è medioelevato". Al momento anche una eventuale perforazione di un pozzo esplorativo non appare
immediata. La comunità del bresciano resta però in allarme.
Al di là della questione shale gas, non c’è dubbio che la grande attenzione riservata da questo
ministro, come del resto dai suoi ex, agli idrocarburi e agli interessi dei grandi gruppi del
settore sia evidente. D’altra parte lo stesso Zanonato ha più volte confermato la sua politica di
continuità rispetto alla Strategia Energetica Nazionale, approvata nel marzo 2013 da un
Governo dimissionario ai suoi ultimi giorni di vita, che prevede il raddoppio della
produzione nazionale di idrocarburi.
Guarda caso, puntuale, dopo il ‘fraintendimento’ del Ministro con la stampa (non certo il
primo) spunta una dichiarazione di Paolo Scaroni, l'amministratore delegato di Eni, su
Radio Rai 1. Si parla di prezzi dell’energia e del gap produttivo-economico dell’Europa
rispetto ad altre aree mondiali. Scaroni ha la sua ricetta: “La cosa più logica che viene in mente
di fare è far sì che anche l'Europa viva la rivoluzione dello shale gas che è all'origine
dell'abbassamento dei costi degli Stati Uniti”. Una spruzzatina di dubbio ce l’ha però anche l'Ad
Eni. “Questo – aggiunge - suscita non poche polemiche, anche giustificate per la verità, dal punto
di vista ambientale, ma alternative non ne vedo perché altrimenti 'abbracceremo' la Russia che è
l'unico fornitore in grado di darci la quantità di gas di cui necessitiamo ai prezzi che ci
permetterebbero di essere competitivi”. I problemi ambientali derivanti dall'estrazione dello
shale gas? Basta accettarli, come hanno fatto negli States, ha detto; “in Europa solo
l'Inghilterra e qualche paese dell'Est ha sposato l'estrazione come un modo naturale per produrre
energia. Sicuramente, dato che l'Europa è molto più popolata degli Stati Uniti, ogni attività
invasiva è peggio sopportata che là".
Questo è l’amministratore delegato della partecipata statale che ci massacra ipocritamente
con le sue pubblicità televisive piene zeppe di energia solare, eolico e futuro pulito. Neanche
una goccia di petrolio.
Tanto per confermare da che parte va l’azienda, e forse il Governo, ricordiamo che Eni ha
firmato un accordo con la società Quicksilver Resources per valutare, esplorare e sviluppare
congiuntamente giacimenti di olio non convenzionale (shale oil) su terraferma negli Stati
Uniti. Eni parteciperà con la quota del 50% in un'area di 21.246 ettari detenuta da Quicksilver
nella Leon Valley, nel Texas occidentale. Per acquisire il 50% dell'area detenuta da
Quicksilver, Eni investirà fino a 52 milioni di dollari, che rappresentano il 100% dei costi di
perforazione, completamento e prospezioni sismiche. Gli investimenti successivi saranno
ripartiti in modo paritario tra Eni e Quicksilver.
Il Ministro Zanonato ora sa da che parte tira l’aria.
L’ALTERNATIVA AL FRACKING
Fonti rinnovabili, efficienza energetica e decarbonizzazione sono le risposte alternative al
fracking, la strada da seguire per ridurre i gas serra e contrastare i cambiamenti climatici. Gli
obiettivi posti dalla UE per il 2050 sono raggiungibili tramite queste misure se però alla base
c’è il presupposto di ridurre i consumi.
La Germania si sta avviando sul percorso della vera rivoluzione energetica, delineando la sua
politica energetica fino al 2050. La Federal Environment Agency tedesca ha evidenziato la
fattibilità tecnica e ambientale per tutto il paese, entro il 2050, di un sistema di produzione
elettrica completamente basato sulle rinnovabili. Quattro regioni nel nord della Germania
producono oggi il 46% dell’energia con l’eolico. La Danimarca ricava dall’eolico il 26%
dell’energia totale. Nel nord della Cina le centrali eoliche in funzione generano una quantità di
energia equivalente a quella di 20 impianti nucleari e in grado di soddisfare le richieste di un
paese delle dimensioni della Polonia. L’energia solare in Europa soddisfa le necessità di 15
milioni di famiglie.
Se questi risultati possono essere ottenuti anche in Paesi come la Germania, che ha una scarsa
solarizzazione, perché si possono ottenere a maggior ragione anche in America ed in Italia?
In Italia dopo aver per il momento depotenziato la politica degli incentivi alle rinnovabili, ci si
sta orientando verso il passato dei combustibili fossili e delle trivellazioni. I risultati già si
vedono: in Europa nell’ultimo anno gli investimenti sulle rinnovabili sono diminuiti dall’11%
a causa della crisi, in Italia del 50%. L’Italia ha bisogno di un piano di efficienza energetica
coniugato ad un a fiscalità coerente con una politica climatica.
Secondo il rapporto stilato da REF-E per WWF Italia, in Italia le fonti di energia rinnovabili
potranno coprire il 90% della domanda di energia, solo se nel 2050 i consumi saranno scesi
del 40% rispetto ai livelli del 2010, con due tappe di -5% nel 2020 e -16% nel 2030. Un ruolo
fondamentale dovrà essere svolto dall’elettricità che sostituirà almeno parzialmente, i
combustibili fossili nei trasporti e nel riscaldamento.
SOCIETA’ A 2.000 WATT – STRATEGIA PER UNO SVILUPPO
SOSTENIBILE
La strategia per uno sviluppo sostenibile 2002 in Svizzera, approvata dal Consiglio federale, si
basa sulla politica del 1997 proseguendola a sviluppandola. La strategia persegue un
approccio globale e mira ad un’integrazione a livello nazionale elvetico dei principi dello
sviluppo sostenibile in tutti i settori della politica. A tal fine la nuova costituzione federale
prevede che si faccia riferimento allo sviluppo sostenibile in tutte le leggi ed in tutti i
programmi, concezioni e progetti.
Gli elementi centrali della Strategia 2002 sono:
a) la ricerca di un rapporto equilibrato fra i tre pilastri dello sviluppo sostenibile
(economia, società, ambiente);
b) la realizzazione di una concezione di ampia portata, ossia una strategia non limitata ad
alcune politiche settoriali;
c) l’impostazione delle misure orientate in funzione dell’azione e dell’efficacia nel senso
di un piano di azione concreto;
d) il coinvolgimento dei Cantoni, dei Comuni, della società civile e del settore privato.
La sfida è anche culturale ed é in fase di sperimentazione da diversi anni in tre città: Zurigo,
Ginevra e Basilea.
Il progetto è stato confortato anche da un referendum popolare.
Attualmente nella confederazione elvetica, ed in occidente in generale, ogni persona consuma
mediamente 6.000 watt di potenza sommando tutte le fonti energetiche.
L’idea della “Società a 2.000 watt” è quella di far scendere i consumi energetici ai livelli degli
anni sessanta, arrivando entro il 2050, a soddisfare il 75% della richiesta da fonti rinnovabili.
Questo progetto è già realtà per il nuovo rifugio del Monte Rosa, a quasi 3.000 metri: 130 posti
letto con acqua calda garantita tutti i giorni grazie ad un’architettura avveniristica, pannelli
fotovoltaici e per un 10% residuo a una centralina termica alimentata con olio di colza, alla
quale si affianca un impianto di recupero dell’aria viziata.
Nel 2008 l’uso procapite di energia primaria in Italia era di 4.000 Watt, negli Stati Uniti era di
11.000 Watt procapite. Date queste cifre la realizzazione della società a 2.000 Watt su scale
planetaria sembra davvero difficile. Il concetto importante è quello che si dovrà passare da
una concezione di efficienza del lavoro ad una concezione di efficienza delle risorse
energetiche utilizzate.
L’ispiratore del Progetto una “Società a 2.000 Watt”, Marco Morosini (Analista ambientale del
Politecnico di Zurigo), dice che “la via eretica della riduzione drastica dei consumi energetici,
infrange il dogma delle società industrializzate che associa benessere e consumi.”
Nell’analisi di Morosini ci sono tre aspetti chiave che dovranno compiersi: “1) la sfida
tecnologica: riorganizzare l’hardware sociale in tecnologie econome di risorse e rispettose della
natura; 2) un progetto istituzionale: norme e istituzioni che garantiscano il rispetto dei diritti
umani e mantengano la dinamica di sviluppo dell’economia entro i limiti della rigenerazione della
biosfera, con la conseguenza che si dovranno rivedere profondamente le scienze economiche e
politiche; 3) idee guida per l’azione e come riferimento esistenziale: dallo stile di vita personale
all’etica professionale, fino alle priorità della collettività. Una trasformazione di questa portata
non sarà percorribile se non in presenza di una chiara e univoca pianificazione pubblica che
sostenga e indirizzi i passi necessari per conseguire una riduzione di due terzi dei consumi
energetici attuali. Sembrerebbe utopia, ma se ci togliamo dagli occhi le incombenze e gli incubi del
presente, capiremmo che non si vede altra alternativa a questa strada.”
Il percorso di riduzione dei consumi previsto dal Progetto prevede uno step nell’anno 2050 a
3500 Watt procapite, a partire dall’anno 2100 la quota procapite di 2.000 Watt dovrà essere
effettiva, con un rapporto di energia fossile a 500 Watt sul totale. Secondo il Progetto
l’innovazione tecnologica renderà possibile questo risultato attraverso l’utilizzo più efficiente
dell’energia, la riduzione di inutili sprechi, standard di costruzione edilizia sostenibili,
tecnologie a membrana e bio in sostituzione dei processi termici, veicoli più leggeri e utilizzo
di calore residuo. Ottimizzazione dell’energia industriale attualmente utilizzata fino al 90%.
Uno dei settori principali nei quali si può attuare la riduzione dei consumi energetici è quello
dell’edilizia, che oggi in Europa per la sola edilizia residenziale assorbe circa il 40%
dell’energia totale prodotta. Le tecnologie attuali consentono già di costruire la casa del
futuro, cioè un’abitazione che consuma quasi zero e che, utilizzando l’energia rinnovabile,
diventa casa attiva, recuperando il calore residuo e utilizzando concetti energetici intelligenti.
Il Progetto prevede la costituzione di “Regioni-Energia”, per la costituzione delle quali, l’UFE
(Ufficio Federale Energia), mette a disposizione gratuitamente di quei Comuni e territori, che
decidono di aderire al progetto, specialisti del settore che consentono di stilare in modo
semplice Bilanci energetici, e Bilanci di emissione di CO2 sia a livello comunale che regionale,
attraverso consulenze professionali a disposizione anche dei privati per approfondire meglio
le conoscenze nel campo energetico.
La combinazione dei programmi “Regioni-Energia”, “Quartieri sostenibili”, “Società a 2000
Watt”, “Smart Cities”, costituiscono una solida base per lo sviluppo sostenibile concreto dei
Comuni svizzeri. L’interazione tra questi programmi permette agli organi decisionali ed agli
esperti del settore di analizzare la situazione sotto il profilo ecologico, sociale ed economico e
di adottare provvedimenti mirati per garantire un futuro sostenibile.
LA CITTA’ A ENERGIA SOLARE
Su uno dei deserti più ricchi di petrolio sulla Terra, sta sorgendo la prima città al mondo ad
emissioni zero. Si chiama Masdar (in arabo “sorgente”) sorge a 17 Km da Abu Dhabi ed è fino
ad ora l’unico nucleo urbano ad inquinamento ed emissioni zero, privo di rifiuti, dotato di
tecnologie per sfruttare l’energia termica solare e la depurazione delle acque.
La sua nascita si deve all’Emiro di Abu Dhabi che nel 2006 ha investito 17 miliardi di euro per
realizzare il suo sogno ecologista.
Alla sua realizzazione hanno partecipato aziende come Rolls-Royce e Mitsubishi, esperti della
Silicon Valley, architetti come Foster & Partners.
La struttura della città rispecchia quella di una città tipica araba con case basse che fanno
ombra sulle strade e costruzioni in grado di far passare la brezza leggera che si crea nel
deserto.
C’è la torre del vento, una struttura che cattura l’aria dall’alto, dov’è più veloce e più fredda, e
la conduce all’interno degli edifici o delle piazze sulle quali queste si affacciano tramite
condotti verticali in grado di espellere l’aria calda.
Le zone che non sono raggiunte dalla brezza, sono raffreddate per mezzo dell’energia solare
che fa funzionare sistemi di condensazione invece che di compressione.
Impianti fotovoltaici ed eolici provvedono al fabbisogno energetico di tutte le strutture della
città. La spazzatura, una volta trattata, viene utilizzata per produrre energia che serve ad
alimentare anche i mezzi di trasporto urbani.
Nel dedalo di stradine urbane circolano piccole vetture totalmente elettriche ed una flotta di
automobili prive di guidatore che collegano una parte della città all’altra. Questo sistema, a
regime, prevede circa 1500 micro metropolitane ad uso semi individuale, che permetteranno
di raggiungere qualsiasi punto della città e saranno collegate con Abu Dhabi e il suo aeroporto.
Nessun veicolo a benzina, anche se Abu Dhabi produce l’8% del petrolio mondiale e la sua
compagnia petrolifera nazionale è tra le dieci più grandi del mondo.
Il progetto che si chiama “Abu Dhabi Economic vision 2030”, mira a sostituire lampo litica
energetica che si basa su un’unica fonte, il petrolio, con un sistema basato su conoscenza,
innovazione ed importazione di tecnologie all’avanguardia in grado di condurre ad una
differenziazione di fonti energetiche. Tra gli obiettivi, uno dei principali è quello di ridurre la
quota petrolifera dell’energia almeno del 40%.
Il progetto prevede una città di sei km quadrati con circa 40000 abitanti. Ad oggi le uniche
strutture costruite sono alcuni bar, una banca, un supermercato ed un’agenzia di viaggi. Gli
unici abitanti sono solo gli studenti del Masdar Institute, un campus che ospita scienziati, fisici
e ingegneri di tutto il mondo, che grazie alla cooperazione del Mit (Massachussets Institute of
Tecnology) di Boston, vuole diventare un’istituzione leader negli studi sull’energia
rinnovabile.
Attualmente il 40% degli studenti proviene dagli Emirati Arabi, ma attratti da lauti stipendi,
molti insegnanti e dottorandi stanno arrivando a Masdar in mezzo al deserto.
Carlo Maragliano, ingegnere romano, che sta svolgendo il suo dottorato proprio qui, dice:
“Siamo nel mezzo del deserto , ma qui possiamo utilizzare macchinario di ultima generazione che
in Italia non possiamo neanche sfiorare.”
L’Emiro sta utilizzando i soldi che guadagna con il petrolio per realizzare un futuro sostenibile
senza petrolio.
Complimenti!!!!
SUFFICIENZA ENERGETICA.
Il concetto di sufficienza energetica è un progetto concettuale che vuole superare quello di
efficienza energetica. L’efficienza è e rimane un punto fondamentale del risparmio energetico,
ma può nascondere trappole concettuali.
Possiamo avere impianti industriali, città, abitazioni, ecc… efficienti, ma che consumano lo
stesso quantitativo di energia di oggi se non si ragiona di cambiare il paradigma dello sviluppo
da sviluppo incondizionato a sviluppo consapevole.
Al Politecnico di Milano c’è un gruppo, l’Erg – Gruppo di ricerca sull’efficienza negli usi finali
dell’energia – impegnato a ragionare proprio sul concetto di sufficienza energetica.
Per spiegare con un esempio da quale concetto base parte questo gruppo di ricerca, si
possono fare alcuni esempi: per la mobilità quotidiana, possiamo usare una macchina di
grossa cilindrata che ha una propria efficienza energetica superiore a quella di una macchina
di piccola cilindrata, ma in totale ed in valore assoluto, la macchina grande consumerà più
energia di quella piccola anche se più efficiente. In termini tecnici, l’efficienza corrisponde al
lavoro utile effettuato da una macchina diviso per l’energia spesa.
L’attenzione viene focalizzata più sulla scelta del “cosa” che del “come”, più sull’opportunità di
fare le stesse cose con dispendi energetici maggiori o minori.
Un altro esempio può essere quello degli elettrodomestici.
Un frigorifero più grande è, a parità di altre condizioni, più efficiente di uno più piccolo, questo
però non significa che consumi di meno. Un piccolo frigorifero può consumare molto meno in
assoluto, di uno più grande ed efficiente.
Al principio di sufficienza energetica si può ricondurre un’esperienza in corso a Trieste.
Un’azienda con sede nell’area Science Park, sta lavorando su collettori solari per l’acqua calda
sia a bassa efficienza che a costi molto contenuti. Il ragionamento è il seguente: nelle
situazioni in cui la superficie esposta al sole non rappresenta un limite, è inutile inseguire
prestazioni elevate dei pannelli, perché l’unico obiettivo che ci interessa è la quantità di
energia che riusciamo a rubare al sole. Per questo motivo si sta lavorando su pannelli costruiti
a partire da ferraglia, che con un modesto sacrificio di efficienza, potrebbero costare molto
meno.
L’idea è che si potrebbero collocare sui tetti tre pannelli meno costosi piuttosto che due molto
efficienti.
Il concetto di sufficienza energetica passa attraverso un cambio culturale del nostro modo di
pensare attuale che è stato condizionato dal consumismo, il quale si sta impadronendo anche
del concetto di efficienza energetica facendoci credere che se acquistiamo prodotti efficienti
risolviamo il problema dell’esaurimento delle risorse naturali disponibili, l’importante è
acquistare e di conseguenza produrre.
Il passaggio ad uno stile di vita energeticamente sufficiente, è perciò complesso e complicato,
introduciamo così il quarto capitolo che parla appunto della società e dello sviluppo
sostenibile.
L’ESEMPIO DELLA DANIMARCA
Dal 1980 al 2008 la Danimarca ha aumentato il PIL del 74% e diminuito le emissioni di
anidride carbonica del 17%. Questo è sicuramente un punto di partenza per capire come è
possibile modificare il sistema energetico dominante basato sui combustibili fossili e sul
nucleare, passando da un modello centralizzato ad una rete formata da migliaia di impianti.
La decisione fondamentale della Danimarca è stata, oltre a non entrare nel club dell’atomo,
bloccare la costruzione delle centrali a carbone che rappresentavano il cuore della
generazione elettrica e passare ad un sistema decentrato basato sull’eolico e sulla
cogenerazione in parte alimentata con biomasse. Dalle 20 grandi centrali degli anni Settanta si
è arrivati agli oltre 4.000 centri di produzione attuali che comprendono 5.300 impianti eolici
(per l’85% piccole strutture composte da un massimo di 3 macchine).
Nelle aree urbane con una popolazione superiore ai 500 abitanti sono stati realizzati centinaia
di mini-impianti collegati a reti di teleriscaldamento di proprietà pubblica: la cogenerazione
copre ormai il 53% della produzione elettrica danese. Sommando la quota di biomasse 7 e
l’eolico si arriva al 27% di energia da fonti rinnovabili.
Lo sviluppo dell’eolico in Danimarca ha una lunga storia che parte dai primi anni del secolo
scorso, o forse da prima. Nel 1891 un geniale inventore Poul La Cour, convertì uno dei tanti
mulini a vento che costellavano il paesaggio danese in un aerogeneratore in grado di
illuminare la scuola del suo paese.
La possibilità di ricavare energia elettrica dal vento si diffuse rapidamente e ben 120 aziende
municipali realizzarono impianti da 20 e 30 kwatt, arrivando a coprire nel 1918 il 3% della
domanda elettrica della Danimarca.
La Cour, chiamato l’Edison danese, aveva come obiettivo quello di migliorare la vita nelle
campagne ed evitare che i giovani dovessero abbandonarle. Uno studente, Johannes Juul,
sviluppò il primo aerogeneratore al mondo in grado di produrre corrente alternata, e nel 1956
venne realizzata una macchina da 200 kwatt che funzionò senza problemi per 11 anni.
Fù dopo la crisi petrolifera del 1973 che l’interesse per l’energia eolica riprese con forza.
Molte delle prime iniziative furono sollecitate da attivisti del movimento antinucleare.
Vennero coinvolte piccole imprese che producevano attrezzi agricoli e con un processo dal
basso, con progressivi miglioramenti, si passò da impianti di 60 kwatt ad aerogeneratori di
taglie più grandi e più affidabili. Il Governo favorì l’autoproduzione da parte dei proprietari
dei mulini, il movimento dilagò e 175.000 famiglie arrivarono a possedere, direttamente o
attraverso la partecipazione a cooperative, quote degli impianti eolici: nel 2000 un quarto
degli aerogeneratori erano di proprietà di singoli o di cooperative. Anche 300 delle 400 reti di
teleriscaldamento appartengono a cooperative.
In alcuni casi il possesso cooperativo ha riguardato anche investimenti più importanti, come
per esempio il parco eolico offshore Middelgrunden, vicino Copenaghen, costituito da 20
aerogeneratori da 2 Mwatt e realizzato grazie al contributo di 7.000 cittadini. In alcune aree,
come nella penisola di Thy, il vento copre l’80% della domanda dei 48.000 abitanti e
garantisce un buon reddito: in giornate particolarmente ventose viene esportato il triplo
dell’elettricità prodotta.
Il sistema si è poi evoluto verso una progressiva liberalizzazione della produzione elettrica.
Molti operatori elettrici hanno tentato di acquisire impianti eolici da singoli e da cooperative.
L’indebolimento del legame tra proprietari degli impianti e territorio ha portato ad una
riduzione del sostegno dell’opinione pubblica e all’apertura di contenziosi che però non hanno
mai messo in discussione la spinta di base a favore delle rinnovabili.
Quando nel 2002, una coalizione di centro destra, ostile alle rinnovabili, povrò a bloccare
l’espansione dell’eolico, dovette cambiare posizione per la pressione dei cittadini e di un
settore imprenditoriale, leader mondiale nella produzione di aerogeneratori, che garantisce
esportazioni per un valore di 5,7 miliardi di euro all’anno.
Nel 2008 il Parlamento ha preso una decisione importante, entro il 2025, il paese dovrà
soddisfare il 30% dei suoi consumi energetici totali con le rinnovabili, il che implica che il
vento dovrà coprire la metà della domanda elettrica.
L’elemento essenziale del successo nella rinnovabili della Danimarca, è stata la capacità di
coinvolgimento dal basso.
LA GREEN ECONOMY
Dopo anni di appelli per lo sviluppo sostenibile caduti nel vuoto, ora a sostenere l’idea di un
mercato più attento all’equilibrio degli ecosistemi non sono più solo i teorici, gli ambientalisti,
ma anche gli economisti.
La green economy è diventata la parola d’ordine dei mercati più dinamici e dei paesi leader. Il
processo di cambiamento sembra avviato ad una velocità molto elevata da sembrare
addirittura sospetta. Si è realmente percepita la portata della rivoluzione produttiva in atto?
Quali sono i confini della rivoluzione verde? E a quali modelli di società corrispondono? Quali
saranno i cambiamenti negli stili di vita?
Per green economy si intende un’economia capace di usare con efficienza l’energia e le
materie prime, di intervenire sugli ecosistemi senza danneggiarli, di guardare ai rifiuti come a
una fase del continuo divenire delle merci e non come a un elemento da espellere con fastidio
dal ciclo produttivo.
L’economia dovrebbe essere per sua natura green, non lo è perché gli effetti
dell’inquinamento sono stati rimossi dalla visuale collettiva, nascosti sotto il tappeto.
Basta il buon senso per capire che i 9 miliardi di esseri umani su cui probabilmente si fermerà
la crescita demografica del pianeta, non potranno sopravvivere mantenendo gli standard di
consumo di un occidentale. Già oggi l’umanità ha il bilancio ambientale in rosso e chiude i
conti in un falso pareggio rubando ai nipoti acqua, humus, foreste.
Per far girare il motore della nostra economia usiamo il 30% in più delle risorse che il pianeta
rinnova ogni anno (la differenza viene presa dalle risorse non rinnovabili).
Nel corso del XX secolo la popolazione umana si è moltiplicata per quattro, il consumo di
energia per 16 e quello di acqua per 9, costringendo alla sete oltre un miliardo di persone e
altri 24 milioni a trasformarsi in profughi climatici; la desertificazione è arrivata a minacciare
un terzo delle terre e solo in Cina ruba ogni anno quasi 4.000 Km quadrati di suolo fertile; la
superficie delle città si è decuplicata.
Nove miliardi di esseri umani con livelli di consumo occidentali avrebbero bisogno di altri 6
pianeta terra per sopravvivere, pena l’estinzione.
Per evitare la catastrofe si può agire su tre fattori, arrestare la crescita demografica è da
escludere perché comporterebbe guerre, epidemie o catastrofi, perciò occorre agire sugli altri
due fattori, consumi e tecnologia, cioè stili di vita e capacità di produrre ricchezza usando
meno risorse.
Alcuni governi hanno già iniziato questo percorso e la cura ha fatto bene sia all’economia che
all’ambiente. I virtuosi però sono ancora pochi, il parametro dell’impronta ecologica, cioè del
segno impresso sugli ecosistemi dalla produzione, mostra la grande disomogeneità delle
diverse economie e il peso ancora limitato delle scelte più oculate e all’avanguardia.
Ma la tecnologia da sola non basta. Secondo lo State of the world 2010, nei prossimi 25 anni,
per produrre energia sufficiente a soppiantare gran parre di quanto fornito dai combustibili
fossili, si dovrebbero costruire 200 metri quadrati di pannelli solari fotovoltaici e 100 metri
quadrati di solare termico al secondo, più 24 turbine eoliche da 3 megawatt all’ora non stop.
Tutto ciò richiederebbe spropositate quantità di energia e materiali.
Queste cifre mostrano i limiti di un approccio puntato esclusivamente sul lato dell’offerta di
energia: occorre rivedere profondamente anche il modo con cui si consuma l’energia.
Occorre rivedere profondamente il modello di sviluppo della crescita infinita del PIL la
riduzione dell’80% delle emissioni di gas serra nei paesi industrializzati nei prossimi 40 anni
no può che passare attraverso la correzione del nostro rapporto con le merci.
John Stuart Mill nel 1848 nei “Principi di economia politica” scriveva: “Se la bellezza che la
terra deve alle cose venisse distrutta dall’aumento illimitato della ricchezza e della popolazione, al
semplice scopo di dare sostentamento ad un popolazione più numerosa, ma non migliore o più
felice, allora io spero sinceramente, per amore della posterità, che i nostri discendenti si
accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi costretti a esso dalla
necessità.”
La green economy è uno strumento che abbiamo a disposizione per dare retta, anche se in
ritardo, a John Stuart Mill.
Per dare respiro e velocità al passaggio alla green economy non basta la buona volontà dei
singoli, che pure è elemento essenziale, c’è bisogno di strumenti fiscali, incentivi e disincentivi,
standard energetici, settori industriali da incoraggiare, infrastrutture da privilegiare. Ci vuole
un cambiamento delle politiche dominanti nel settore energetico, dei trasporti,
dell’agricoltura che chiama in causa un’alleanza composta da molti protagonisti.
LA SITUAZIONE ITALIANA
Il quadro italiano in questa situazione è alquanto deprimente. La stasi della tecnologia italiana
ha coinciso con il declino economico del nostro paese iniziato a partire dai primi anni novanta
ed evidenziato dalla riduzione dell’export. Dal 1990 al 2003 la quota italiana nel commercio
internazionale è scesa del 40% e il calo ha penalizzato soprattutto i beni ad alta tecnologia. Il
calo è proseguito fino al 2009. La spiegazione ditale involuzione sta nel fatto che ormai la
competitività non riguarda solo il costo del lavoro, ma la disponibilità e il supporto
all’innovazione, la capacità di innovazione.
In un contesto in cui si passa da un produzione caratterizzata da un’alta intensità di lavoro a
una ad alta intensità di conoscenza, l’Italia perde colpi.
Nei dati OCSE emerge il quadro di un’Italia più povera, meno efficiente, con un sistema
produttivo in difficoltà e con gravi problemi strutturali e sociali. Siamo all’ultimo posto nella
classifica della produttività lavorativa dei 30 paesi più industrializzati dell’Ocse. In particolare
le spese per l’innovazione in Italia sono significativamente sotto la media Ocse: nel 2007
abbiamo destinato alla ricerca solo l’1,1% del Pil, la metà della media dei Paesi del G7.
Questo arretramento del paese si registra anche con la perdita del primato dell’efficienza
nell’impiego dell’energia. Analizzando l’andamento a partire dal 1990 dell’intensità
energetica, cioè della quantità di energia spesa per generare un’unità di prodotto, si nota un
lungo periodo con valori stazionari seguito da un leggero miglioramento a partire solo dal
2005.
Considerando che negli ultimi 15 anni il resto d’Europa ha ridotto l’intensità energetica,
possiamo dire che l’Italia sta perdendo il primato che aveva in termini di efficienza.
Questo dato ci indica però che in Italia ci sono molti margini di intervento, per esempio c’è un
giacimento di energia nascosto nelle case: eliminando gli sprechi energetici potremmo
ottenere una riduzione annua dei consumi che vale più del gas estratto nel 2008 nel territorio
nazionale (8 miliardi di metri cubi).
Il ritardo dell’Italia ha radici lontane ed è collegato all’occasione persa dopo l’uscita dal
nucleare. La mancanza di visione e di coraggio della nostra classe politica e industriale ha
impedito di sfruttare la possibilità già evidente, di virare verso uno scenario energetico
decisamente alternativo.
La California aveva fatto da apripista negli anni Ottanta con la diffusione delle prime fattorie
del vento e delle centrali solari termodinamiche. Nel campo dell’eolico stava emergendo la
Danimarca con l’avvio di un percorso virtuoso che avrebbe portato il paese scandinavo a
conquistare la leadership mondiale, con esportazioni di aerogeneratori che hanno raggiunto i
5,7 miliardi di euro nel 2008. Nel fotovoltaico, sia il Giappone che la Germania, avendo intuito
le enormi potenzialità del solare integrato negli edifici, si sono garantiti, nei primi anni
novanta, un ruolo di punta grazie ai programmi di incentivazione dei tetti solari. Infine nel
campo del settore termico, paesi come la Grecia, Israele e Austria, stanno creando fiorenti
mercati.
Questo fervore di iniziative fa comprendere come la riflessione post Chernobyl abbia
rappresentato per l’Italia una sconfitta culturale e industriale. Si sarebbe dovuto investire
seriamente sulla ricerca, sul sostegno alle aziende più avanzate, sull’offerta di tecnologie
verdi.
Abbiamo perso un’opportunità strategica, ma abbiamo ancora possibilità da cogliere. L’Italia è
ancora in pista per quanto riguarda il comparto delle energie pulite. Dopo un ventennio di
risultati modesti, la situazione è cambiata intorno al 2006 grazie ad un sistema di incentivi.
Nel 2008 l’Italia si è posizionata al terzo posto nel mondo per potenza installata nel
fotovoltaico, nell’eolico si è arrivati a collegare ed installare una potenza pari ad una centrale
nucleare.
Anche i risultati sul versante dell’efficienza energetica iniziano a concretizzarsi. A partire dal
2005 i distributori di energia e decine di Esco (Energy Service Company, aziende specializzate
in recupero di efficienza), hanno risparmiato oltre cinque milioni di tonnellate equivalenti di
petrolio grazie ad interventi promossi dai “certificati bianchi” (incentivi per il risparmio
energetico). Nel 2009 si è registrata un’accelerazione di questi interventi ottenendo una
disponibilità di energia pari a quella generata da una centrale elettrica di media grandezza. Gli
incentivi per le detrazioni fiscali al 55% hanno consentito negli ultimi tre anni di riqualificare
energeticamente mezzo milione di appartamenti.
Un ruolo importante per questi risultati lo hanno giocato oltre agli incentivi nazionali, le
azioni venute dal basso di alcune Regioni ed enti locali che hanno varato programmi di
incentivazione.
Secondo una ricerca di Legambiente e del Cresme, sono 557 i Comuni in Italia che hanno
introdotto modifiche al regolamento edilizio nella direzione dell’innovazione ambientale, 238
quelli che hanno previsto l’obbligo del fotovoltaico nella nuova edilizia, 253 quelli che hanno
reso obbligatorio l’inserimento del solare termico. Queste misure, previste dalla normativa
nazionale ma non esecutive in mancanza dei decreti attuativi, sono diventate applicabili solo
grazie agli enti locali.
LA GREEN ECONOMY E LA TRANSIZIONE
Anche altri comparti della green economy in Italia si stanno sviluppando con risultati
promettenti. Dal macrocircuito dell’alta economia, che è arrivato a fruttare il 4% del Pil
nazionale, ai raggruppamenti di produttori di cibo biologico e legato al territorio (i 183
produttori a marchio certificato censiti nell’Atlante Qualigeo 2009) la crescita è continua.
Queste reti di produzione di qualità e di difesa del territorio, possono anche dare un
contributo in termini energetici.
Gli ulivi che forniscono il miglior olio del mondo e le viti per le quali l’Italia ha il primato per
l’export di vino, producono enormi quantità di scarti di lavorazione che possono trasformarsi
in biomassa preziosa; gli allevamenti di chianine oltre a dare rinomanza gastronomica alla
Toscana, possono essere fonte di biogas riutilizzabile; l’espansione dei boschi può venire
governata aumentando la stabilità idrogeologica e ricavando materia prima per impianti
capaci di dare al tempo stesso elettricità, calore e fresco.
Sono opportunità importanti perché danno un segno più ampio alla green economy
collegando produzione, stili di vita, qualità del paesaggio, miglioramento della salute,
protezione dai disastri idrogeologici e climatici; cioè contribuendo a ridisegnare i confini della
ricchezza nazionale al di là delle contraddizioni del Pil.
La vera sfida consisterà nella ridefinizione di regole, priorità, obiettivi, in modo da
moltiplicare le esperienze positive. Nell’Unione europea si punta a questo obiettivo spingendo
sul pedale dell’innovazione con direttive sempre più rigorose.
Nei Paesi in via di industrializzazione, all’ideologia sviluppi sta, che ha eliminato le forme di
proprietà collettiva, mettendo in discussione modi di vita compatibili con la natura, si
cominciano a contrapporre sistemi di stimolo più efficaci come i circuiti della micro finanza.
Anche se nella fase di transizione il modello accentrato e quello decentrato sono destinati a
convivere, il sistema di produzione a rete, basato sulla diffusione capillare delle decisioni e del
potere di intervento, sarà la caratteristica centrale della democrazia segnata dalla green
economy per coinvolgere nella grande sfida climatica i nove miliardi di abitanti che
popoleranno la Terra nei prossimi decenni, ottenendo il consenso necessario ad un a
rivoluzione che ha bisogno degli atti quotidiani di tutti, bisogna delegare il potere di scelta e
distribuire i vantaggi.
Dall’energia ai prodotti che finiscono in tavola, dall’informazione agli stili di vita le decisioni
viaggeranno lungo assi orizzontali oltre che su linee verticali, crescendo così il potere politico
decisionale dei singoli.
Questo scenario dei cambiamenti in atto, mostrano il legame tra innovazione energetica,
solidità dei territori, apertura a nuove forme di democrazia. Sommare singole eccellenze non
basta, occorre costruire un sistema basato sulla qualità, sulla ricerca, sull’innovazione e sulla
capacità di ascolto dei bisogni e dei desideri.
La scommessa della green economy è molto ambiziosa e poggia su basi molto solide per la
spinta dei paesi leader. In Germania il fatturato delle rinnovabili supererà quello dell’auto
entro il decennio. Gli Stati Uniti stanno recuperando rapidamente posizioni, la Cina ha
investito in pochi mesi 12 miliardi di dollari nelle rinnovabili.
Per raggiungere gli obiettivi di de carbonizzazione dell’economi a dei paesi industrializzati
occorre sicuramente un maggiore coinvolgimento ed attenzione da parte di chi governa, delle
imprese e del mondo finanziario, ma occorre anche un vasto coinvolgimento delle persone e
della collettività per evitare rischi di derive autoritarie.
Si tratta di evitare che il riscaldamento del pianeta precipiti verso esiti catastrofici, con la
consapevolezza che la rivoluzione energetica in corso rappresenta una straordinaria
opportunità per ricostruire l’antica alleanza tra economia ed ecologia.
Nel 2008 per la prima volta a livello globale, gli investimenti nelle rinnovabili hanno superato
quelli nelle energie convenzionali.
REGIONE MARCHE E FINANAZIAMENTI PER LA GREEN ECONOMY
Il Ministero dell’Ambiente, grazie al Fondo rotativo di Kyoto, concede finanziamenti a tasso
agevolato alle imprese e che realizzano progetti e interventi in ambito green o per la messa in
sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico e sismico e alle imprese che assumono
giovani nell’ambito della green economy.
I beneficiari dell’agevolazione sono:
 imprese, sia in forma individuale, che societaria e loro consorzi
 imprese legate con un contratto di rete
Iniziative ammissibili
Il finanziamento agevolato è concesso per la realizzazione di progetti delle seguenti tipologie:
 protezione del territorio e prevenzione dal rischio sismico
 ricerca, sviluppo e produzione di biocarburanti di seconda e terza generazione
 ricerca, sviluppo, produzione e installazione di tecnologie nel solare-termico, solare a
concentrazione, solare termo-dinamico, solare fotovoltaico, biomasse, biogas e
geotermia
 incremento dell’efficienza negli usi finali dell’energia nei settori civile, industriale e
terziario, compresi gli interventi di social housing
Condizioni per accedere al finanziamento agevolato
I progetti di investimento presentati dalle imprese devono prevedere occupazione aggiuntiva
a tempo indeterminato di almeno 3 giovani con età non superiore a 35 anni.
Nel caso si assumano più di 3 persone almeno un terzo dei posti di lavoro è riservato a giovani
laureti con età non superiore a 28 anni.
Se il progetto è presentato da S.r.l. semplificate, PMI ed ESCO il numero di assunzioni minimo
è pari a una unità.
Soglia minima di investimento
Il progetto di investimento presentato deve essere minimo pari a 1.000.0000 di euro, è ridotto
a 500.000 euro nel caso di progetti presentati da PMI ed ESCO e a 200.000 euro per progetti
presentati da S.r.l. semplificate.
Quota massima di cofinanziamento
La percentuale massima finanziabile dal Fondo è pari al 60% del costo complessivo delle
spese ammissibili. Se i progetti sono presentati da PMI, Esco, S.r.l semplificate la percentuale
massima arriva al 75%.