Prova - Moto.it

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Numero 48
16 Settembre 2014
97 Pagine
Periodico elettronico di informazione motociclistica
Citroen C4 Cactus
Seat Leon ST 4Drive
SicuraMente
La nuova Citroen C4 Cactus è
un’auto che fa di necessità virtù :
adotta soluzioni tecniche semplici
ma intelligenti
La nuova Seat Leon ST 4Drive,
grazie alla trazione integrale,
diventa ancora più stabile e sicura
Il programma sulla sicurezza stradale, condotto da Nico Cereghini e
Marco Della Noce
Intelligenza acuta
Più veloce e sicura
con il 4x4
“Siamo noi a fare
la differenza”
| prova su strada |
BMW X4
da Pag. 2 a Pag. 17
MAXI SFIDA
Subaru WRX STi
contro
Yamaha MT-09
Street Rally
All’Interno
NEWS: Honda HR-V Prototype | BMW Serie 2 cabrio | Mercedes AMG GT | Peugeot 208 HYbrid Air 2L concept
Land Rover Discovery Sport | M. Clarke I motori V6 | CAMPIONI: A. Zanardi “tutto può trasformarsi in un’opportunità”
PROVA SU STRADA
BMW X4
Tutto il bello
dell’Elica...
Dall’alto
Grande personalità e piacere di guida da berlina
per la BMW X4, pensata per distinguersi senza
arrivare all’eccentricità della sorella
maggiore X6. Promosso il nuovo 20d,
ma occhio ai prezzi: basta un attimo
per farli impennare
di Emiliano Perucca Orfei
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Prova
Periodico elettronico di informazione motociclistica
che non ricorda solamente quella della sorella
maggiore X6 ma anche quella della Serie 3 GT.
Media
Linea da coupé ma il bagagliaio
non soffre (troppo)
Un insieme di forme che, comunque, non rende
poco personale la X4 e non fa perdere nemmeno troppo alla voce bagagliaio: il vano, infatti,
mantiene una capienza di 500 litri (50 in meno
rispetto ad X3) estendibili sino a 1.400 (-200)
abbattendo progressivamente gli schienali posteriori. Tra gli elementi curiosi legati al bagagliaio, la cui soglia è posizionata a 78 cm da terra, v’è
la presenza di un lungo portellone a movimento
servoassistito la cui altezza d’apertura può essere regolata in funzione dell’altezza del garage.
Internamente la plancia si può dire sostanzialmente la stessa della X3: strumentazione analogica con ampio display digitale tra tachimetro e
contagiri, sistema multimediale ConnectedDrive
(è senza dubbio ancora il migliore in circolazione) con lcd al centro della plancia appena sopra
le bocchette dell’aria e comando dell’idrive posizionato nel tunnel centrale lato passeggero. A
cambiare sono invece le sedute: il piano d’appoggio è fissato 2 cm più in basso e per chi siede
dietro sono riservate due posti “sportivi” più un
terzo, come al solito d’emergenza. Tre gli allestimenti disponibili: lo standard, il più elegante
X-Line ed il più sportivo M Sport. Quest’ultime
due proposte si distinguono per allestimento ma
soprattutto per connotazione estetica visto che
la prima mira ad essere più elegante e la seconda decisamente più sportiva. Tra gli elementi di
serie si fanno notare i fari bixeno (600 euro ad
orientamento automatico, 1.800 con tecnologia
di illuminazione a led) ed il navigatore satellitare
sull’allestimento xLine (1.640 sulle altre).
D
opo aver creato una nuova
categoria di vetture con la
X6, incrocio tra il classico
universo delle SUV con quello
delle Coupé, BMW ci riprova
nel segmento D lanciando la
nuova X4. La ricetta è sostanzialmente la stessa,
solo che al posto di utilizzare come base di partenza la X5 a Monaco hanno scelto la X3. Ecco
perché la nuova BMW X4 è solo 1 cm più lunga
della SAV dalla quale deriva (467 cm totali) ed
è più bassa di 3,7 (162) toccando quota 188 per
quanto riguarda la larghezza. Passo 281 cm e linea da coupé nella parte superiore, la X4 vanta
molti degli stilemi introdotti con le ultime Serie
3 e Serie 4 - tra cui i fari raccordati ad un doppio
rene che mostra il fianco - ma anche una coda
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Prova
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Motorizzazioni e prezzi
Nonostante l’aspetto da SUV, X4
è un’auto che si lascia guidare
molto bene, senza apparire mai
goffa o impacciata
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Per quanto riguarda le motorizzazioni in Italia la
gamma benzina offre i quattro cilindri TwinPower Turbo 20i da 184 CV e 28i da 245 CV, ma
anche il poderoso sei cilindri 35i da 306 CV. La
più gettonata famiglia dei diesel invece mette sul
piatto il nuovissimo 20d, riprogettato da cima a
fondo per dare vita ad una nuova famiglia di motori modulari (come vuole il trend del momento),
che ora ha 190 CV. Per i più esigenti il listino mette a disposizione comunque i sei cilindri 30d da
258 CV e 35d da 313 CV. Tutte le versioni sono
dotate di trazione integrale xDrive e del collaudato cambio automatico ZF ad otto marce, anche
se sulla 20d si può avere il più classico manuale
a sei rapporti. I prezzi partono dai 49.200 euro
della xDrive 20d per crescere fino ai 62.000 euro
della sei cilindri xDrive 35d.
Le nostre impressioni di guida
Abbiamo scelto di conoscere la nuova X4 nella
versione xDrive 20d, prima di tutto perché sarà
quella più richiesta nel nostro Paese, ma anche
per vedere di che pasta è fatto il nuovo turbo
diesel di Monaco. Avviato il motore non si avvertono grandi novità acustiche”: il quattro cilindri
bavarese suona sostanzialmente come in passato, rivelando senza troppe timidezze la sua
natura a gasolio al minimo e quando si affonda
il piede sul pedale del gas. Niente di sconvolgente, sia chiaro, anche perché quando si viaggia in
maniera turistica il sound del 2.0 litri scompare
completamente per merito dell’ottima insonorizzazione, che lascia penetrare all’interno
dell’abitacolo solo qualche eccessivo fruscio
aerodinamico prodotto dagli specchietti (sopra i
100-120 km/h). Anche in termini dinamici il 20d
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rimane fedele alle ottime prestazioni del suo predecessore: X4 deve fare i conti con un peso che
supera senza troppi complimenti i 1.800 kg, ma
il quattro cilindri tedesco, grazie i suoi 400 Nm
erogati a soli 1.750 giri/min, garantisce tutto lo
spunto che serve per dare agilità, condito perfino con un pizzico di divertimento. L’erogazione è
molto lineare, ma anche davvero corposa grazie
alla coppia più che abbondante. È un motore che
si gode al massimo tra i 2 e i 3.000 giri e infatti
è pressoché inutile tirarlo oltre i 3.500 giri/min,
visto che a questo punto ha già espresso tutto il
suo potenziale. Il cambio a otto marce della ZF si
dimostra ancora una volta uno degli automatici
meglio riusciti del panorama attuale. Nonostante
sia un classico convertitore di coppia offre cambi
marcia velocissimi, specialmente selezionando
le modalità di guida più sportive, mentre quando
si viaggia tranquilli è dolce e non produce strattoni né fastidiosi “effetti trascinamento”.
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Prova
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Come guidare una BMW,
solo un po’ più alta
Nonostante l’aspetto da SUV, X4 è un’auto che
si lascia guidare molto bene, senza apparire mai
goffa o impacciata. Una sensazione rafforzata
dal fatto che si sta seduti due centimetri più in
basso rispetto a X3 e che si è costretti ad assumere una posizione di guida molto simile a quella
di una berlina. Anche lo sterzo però ci mette del
suo. Davvero consistente, restituisce un feeling
difficile da trovare su “auto a ruote alte”, mentrev. Guidare X4 risulta piacevole, nonostante
l’altezza da terra non indifferente, anche per la
presenza del BMW Performance Control, un differenziale elettronico in grado di frenare la ruota
posteriore interna alla curva, che elimina quasi
del tutto i poco graditi fenomeni di sottosterzo.
La sensazione è quella di avere sostanzialmente un asse posteriore sterzante, che offre molta
più confidenza e che, in definitiva, restituisce
un buon piacere di guida. Come su tutte le SUV
Coupé (X6 in testa) siamo curiosi di scoprire
quanto spazio abbia rubato dietro il tetto esotico
e inclinato. Su X4 però rimaniamo positivamente sorpresi perché tutto sommato anche i due
passeggeri posteriori, indipendentemente dalla
taglia, stanno comodi (molto meno il terzo, che
deve fare i conti con un tunnel centrale abbastanza invasivo).
Consumi: promosso il 20d
Nel corso della nostra prova il nuovo 20d supera anche la prova consumi. Nonostante un peso
non indifferente e un’altezza da terra che di sicuro non aiuta l’efficienza, questa motorizzazione
garantisce ad X4 un valore di consumo medio di
7,5 – 8,0 litri/100 km, abbondantemente superiore quindi alla soglia psicologica dei 10 km/l.
Il merito è senza dubbio dell’automatico a otto
marce, che quando non si scelgono modalità di
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Prova
guida sportive, fa di tutto per innestare appena
possibile i rapporti superiori (l’ottava entra molto prima dei 100 km/h), con logiche di gestione
che abbiamo trovato davvero efficaci e molto intelligenti.
In conclusione
X4 si dimostra un’auto matura e con una forte
personalità, pensata per distinguersi senza arrivare all’eccentricità della sorella maggiore X6.
La motorizzazione da scegliere è senza dubbio la
nuova 20d abbinata all’automatico a otto marce,
un’accoppiata che garantisce tutto lo spunto che
serve, con consumi contenuti in realazione alla
categoria di vettura. Scegliere i sei cilindri benzina o diesel del resto porta i prezzi a lievitare,
proiettando pericolosamente la X4 nel terreno di
azione della temibile Porsche Macan.
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PROVA SU STRADA
Citroen C4 Cactus
Intelligenza
acuta
La nuova Citroen C4 Cactus è un’auto che fa
di necessità virtù: adotta soluzioni tecniche
semplici ma intelligenti, che fanno scendere il
peso ma anche i consumi ed i prezzi. Simpatico
e divertente il design, peccato per qualche
plastica troppo dura
di Matteo Valenti
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euro (anche perché in alcuni casi c’è la possibilità di avere il 4x4, a differenza della Cactus).
Dal vivo: com’è fuori
Media
C
itroen lancia una nuova sfida: costruire un’auto molto
accessibile dal punto di vista
dei costi ma che allo stesso
tempo sappia essere anche
originale, fuori dagli schemi e dotata di tutte le più moderne tecnologie.
E come se non bastasse poco assetata di carburante, comoda e pure spaziosa. È così che il
Double Chevron ha tirato fuori dal cilindro la nuovissima Citroen C4 Cactus, un’auto che (per una
volta) rimane fedele al curioso concept a cui si è
ispirata, presentato meno di un anno fa al Salone
di Francoforte (molto lontana invece dal prototipo C-Cactus del 2007, di cui mantiene soltanto
il nome). Non ha la trazione integrale, nemmeno
a richiesta, ma ha tutte le carte in regola per essere considerata come una crossover compatta.
E infatti in Citroen ci scommettono: le principali
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La C4 Cactus ha il pregio di essere rimasta molto fedele al concept da cui ha preso ispirazione.
Rimangono quindi le forme morbide ed originali
anticipate dal prototipo, così come i curiosi Airbump, protezioni in materiale plastico (poliuterano termoplastico) con una serie di cuscinetti
pieni d’aria che proteggono parti di carrozzeria
dagli urti quotidiani. Una soluzione semplice ma
allo stesso tempo intelligente, che ha influito anche sul design della vettura, conferendole un’aria
tutto sommato simpatica ed avventurosa. Merito senza dubbio anche dei grandi cerchi in lega
da 17 pollici (sulle versioni di accesso alla gamma sono da 16), dei vistosi passaruota e di una
discreta altezza da terra, tutte caratteristiche
che rendono la Cactus assimilabile alla famiglia
delle crossover compatte pur non disponendo
di trazione integrale. Molto divertente il frontale,
grazie a forme arrotondate, mai taglienti o aggressive tanto che sono stati direttamente i vertici Citroen a confessarci che volevano ottenere
“un design opposto a quello – molto più affilato
- della Nissan Juke”. Simaptica la disposizione
dei gruppi ottici: in alto si fanno notare i led per
illuminazione diurna che danno un tocco di sofisticatezza, più in basso invece e in una zona ben
distinta si trova il gruppo abbaglianti/anabbaglianti (con classiche luci alogene).
Airbump: sono davvero utili
Gli accoppiamenti di carrozzeria sono ben realizzati e anche quando le superfici in acciaio incontrano quelle in materiale plastico non si notano
assemblaggi anomali o imperfetti. Gli Airbump
laterali sono davvero morbidi e offrono reale protezione agli sportelli in caso di piccoli urti (contro
Guarda la video prova
concorrenti saranno Nissan Juke, Peugeot 2008
e Renault Captur e perché no anche la Ford EcoSport.
Budget sotto controllo
Prima del design - è risaputo - ad attirare i clienti
in concessionaria è senza dubbio il prezzo (vedi
il fenomeno Dacia Duster). Ed è qui che la C4
Cactus sfodera orgogliosamente una cifra d’attacco pari a 14.950 euro, una soglia di partenza
davvero interessante se consideriamo che per
avere una Peugeot 2008 servono lameno 15.400
euro, che per una Renault Captur si parte da
16.450 euro, mentre per una Nissan Juke ci vogliono addirittura da 16.650. In ogni caso, anche
scegliendo la versione top di gamma Shine, con il
più costoso motore diesel e il cambio automatico
Cactus non supera i 21.750, mentre alcune delle
sue concorrenti si spingono anche oltre i 25.000
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Prova
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L’abitacolo della C4 Cactus
vuole essere un inno
all’originalità, con soluzioni
da un lato fuori dagli schemi
dall’altro capaci di far
risparmiare un bel po’ di peso
la portiera di un’altra auto o dal classico carrello
della spesa che scivola contro l’auto) grazie a cuscinetti d’aria davvero morbidi. Meno pregevoli
al tatto appaiono invece le superfici plastiche posteriori e anteriori, che ricoprono vaste porzioni
di carrozzeria, ma che appaiono molto più rigide.
Dal vivo: com’è dentro
Anche l’abitacolo della C4 Cactus vuole essere
un inno all’originalità, con soluzioni da un lato
fuori dagli schemi dall’altro capaci di far risparmiare un bel po’ di peso a tutto vantaggio del
contenimento di consumi ed emissioni. Al centro
della plancia spicca un bel display touch in stile
tablet da 7 pollici attraverso cui si controllano
tutte le finzioni della vettura, dal climatizzatore al
navigatore. Questo ha permesso di liberare quasi completamente la plancia ed il tunnel da qualsiasi tipo di tasto, con un bell’effetto scenico,
anche se a volte può creare qualche grattacapo.
Mentre si utilizza il navigatore per esempio non
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sono a disposizione i tasti per regolare il clima,
quindi anche per variare la velocità della ventola
o per abbassare di un solo grado la temperatura
è necessario entrare in una nuova schermata.
Un’operazione banale che però rischia di distrarre eccessivamente, anche perché il software non
risponde ai comandi del touch in maniera istantanea.
Piacevole il Sofà anteriore,
ma niente contagiri
Anche la strumentazione lato guida è completamente digitale, chiara sempre ben leggibile e con
un design accattivante. Peccato solo che non offra, nemmeno a richiesta, il contagiri ma soltanto
l’indicatore di cambiata per la marcia ideale (anche in scalata) che secondo i tecnici Citroen – “lo
confermano indagini di mercato” ci dicono – è
più che sufficiente per i clienti Cactus. Davvero
originali poi i sedili anteriori Sofà con appoggiagomito integrato nello schienale che creano una
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Prove
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permesso di risparmiare qualche altro chilo di
peso. Gli interni appagano molto lo sguardo grazie ad un design davvero piacevole e soluzioni
simpatiche (una su tutte la cinghia in pelle per
chiudere gli sportelli). I due display di seri danno
un tocco di tecnologia, mentre le plastiche appaiono, specialmente in alcune zone, troppo dure e
non troppo piacevoli al tatto.
Ideale in città. Bagagliaio ok
Con una lunghezza di poco più di 4 metri ed una
larghezza di circa 1,7 metri (415 e 172 cm per
l’esattezza) C4 Cactus è a tutti gli effetti un’auto
compatta, quindi ideale anche per l’uso quotidiano in città. Nonostante l’aspetto da crossover
l’altezza si ferma a quota 1,5 metri (149 cm),
un po’ più in basso quindi rispetto ai 155 cm di
Peugeot 2008 e ai 156 di Nissan Juke e Renault
Captur. Abbondante invece il passo, che tocca
quota 259 cm grazie a sbalzi piuttosto limitati
sia davanti che dietro e che riesce a regalare un
sorta di unico divanetto, molto intimo e piacevole. Peccato sia disponibile solo con le versioni
con cambio automatico ETG perché altrimenti
in mezzo ai due sedili trova spazio per forza di
cose la leva del cambio manuale. La scelta di stivare l’airbag lato passeggero nel tetto (Airbag in
Roof) ha permesso di risparmiare un bel pò di
spazio nella plancia dove è stato ricavato un pratico vano, abbastanza profondo, chiamato Top
Box con apertura dall’alto. Grazie a questa soluzione intelligente risulta davvero abbondante lo
spazio per chi viaggia davanti, soprattutto per le
gambe, tanto che si avverte un senso di grande
ariosità. L’unico effetto collaterale è che l’airbag
nel tetto ha costretto ad avere un controsoffitto
abbastanza spesso, che, una volta regolato il sedile, finisce per trovarsi molto vicino alla testa,
soprattutto del guidatore.
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discreto spazio per le gambe ai passeggeri posteriori. Il bagagliaio offre 348 litri di capacità, un
valore decisamente in linea con la concorrenza
(350 Captur e 2008, 354 per la Juke restyling)
e che permette senza problemi di sistemare due
valige più altre borse, offrendo spazio di carico
sufficiente a quattro passeggeri. Abbattendo i
sedili si possono arrivare ad avere 1.170 litri, anche se avendo scelto per uno schienale abbattibile in un pezzo unico e non con un classico frazionamento 40/60 non si ottiene una superficie
di carico piana, con i sedili abbattuti che rubano
un po’ di spazio utile. Un po’ troppo alta la soglia
di carico.
- 200 kg rispetto alla C4,
ttimizzando la Piattaforma 1
Gli sforzi dei tecnici per risparmiare peso un po’
ovunque sono stati ripagati dal momento che la
Cactus arriva a pesare 200 kg in meno rispetto alla C4 da cui deriva, fermando l’ago della
Tante innovazioni per dimagrire
Salendo dietro troviamo altre due innovazioni
curiose: la prima sono i vetri con apertura a compasso, mentre la seconda è rappresentata dal
divanetto posteriore realizzato in un pezzo unico. Soluzioni che hanno permesso di risparmiare
un bel po’ di peso senza compromettere troppo
il confort, considerata la frequenza con cui si
abbassano i vetri dietro o si abbattono gli schienali posteriori. Chiude il cerchio il tetto in vetro
panoramico (600 euro), che racchiude un’altra
innovazione: uno speciale trattamento lo ha trasformato in una superficie trasparente ad alta
protezione termica, in grado di filtrare il 99,9%
dei raggi UV. Questo significa che la luce penetra
nell’abitacolo ma il caldo o il freddo restano fuori senza bisogno di installare tendine oscuranti
o parasole: l’ennesimo accorgimento che ha
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bilancia ad un minimo di 965 kg (1.2 VTi 75 CV),
un ottimo risultato che ha permesso di installare
motori di piccola cilindrata senza compromettere troppo le prestazioni e favorendo il contenimento dei consumi. Un traguardo ancora più
sorprendente perché ottenuto ottimizzando
peraltro un pianale esistente e con qualche anno
già sulle spalle (la Piattaforma 1 di PSA, utilizzata
per esempio da Citroen C3, Peugeot 208 ecc.).
Versione base: è ricchissima,
ma non ha il clima.
Abbiamo visto come la Cactus sia un’auto che
punta molto sul prezzo ma la domanda resta
sempre la stessa: cosa mi porto a casa pagando 14.950 euro? La versione base Live in questo
caso offre un equipaggiamento già piuttosto
completo, con una sola piccola nota stonata. Di
serie c’è più dell’indispensabile come lo schermo
touch centrale da 7 pollici, le luci diurne a led, i
comandi al volante, i vetri elettrici anteriori, la
radio con due casse. C’è perfino il limitatore di
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Prove
velocità con cruise control, l’Hill Assist e i comandi al volante, ma con una grave mancanza: il
climatizzatore sulla versione base non c’è, nemmeno quello manuale, che si paga a parte ben
900 euro. Un’auto dalla forte personalità stilistica come la Cactus non può fare a meno di giocare con le personalizzazioni. Si possono scegliere
10 tinte esterne per la carrozzeria, da combinare
con quattro differenti colori di Airbump (quelli
neri sono senza sovraprezzo, gli altri richiedono
l’aggiunta di 200 euro) e diverse tinte per cover
degli specchietti e barre sul tetto. Inoltre si possono scegliere 7 diverse armonie nell’abitacolo
(giocando con colori e materiali), che permettono di creare pregevoli combinazioni di colore tra
interno ed esterno.
Motorizzazioni: diesel e
benzina per tutti i gusti
Grazie ad un peso molto contenuto, nonostante
le dimensioni, gli ingegneri Peugeot hanno avuto la possibilità di attingere a motori di piccola
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cubatura, poco assetati di carburante. La gamma a benzina si basa sul tre cilindri 1.2 disponibile nelle versioni aspirate VTi da 75 CV adatta
anche a neopatentati (4,6 l/100 km, 107 g/CO2),
82 CV, anche con cambio automatico ETG5, (4,3
– 4,6 l/100 km, 98 -107 g/km CO2) e nella decisamente più brillante variante turbo e-THP da
110 CV, già Euro 6 (4,6 – 4,7 l/100 km, 107 g/
km CO2). Disponibili anche i collaudati diesel 1.6
nella versione e-HDi da 92 CV, offerto soltanto in
abbinamento al cambio automatico ETG6 (3,5 –
3,6 l/100 km, 92 – 94 g/km CO2), e nella variante BlueHDi da 100 CV già immatricolata Euro 6
(3,4 l/100 km, 87 -89 g/km CO2).
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Prove
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1.2 e-THP 110 CV: le nostre
impressioni di guida
Iniziamo a conoscere la Cactus partendo dalla versione a benzina che monta il nuovo tre
cilindri turbo 1.2 e-THP da 110 CV, un motore
che abbiamo già avuto modo di apprezzare su
Peugeot 308 SW. La prima cosa che ci colpisce
sono senza dubbi i sedili anteriori (lato guida si
dispone anche della regolazione in altezza, ma
non di quella lombare), davvero ampi e soffici
ma non eccessivamente morbidi: in una parola
davvero comodissimi, anche per i lunghi viaggi.
L’abitabilità è davvero ottima davanti, specialmente per il passeggero che può sfruttare tutti i
vantaggi dell’Airbag in Roof che lascia tantissimo
spazio per le gambe. Dietro la faccenda cambia:
in due si sta abbastanza comodi, anche se i più
alti potrebbero arrivare a sfiorare con la testa il
padiglione, specialmente se dotato di tetto panoramico. Buono invece lo spazio per le ginocchia, mentre il terzo passeggero centrale, un po’
più sacrificato, può trovare un pavimento quasi
piatto (c’è in realtà un piccolo tunnel centrale,
ma è appena accennato). Purtroppo il volante
è regolabile soltanto in altezza e non in profondità, una soluzione che al giorno d’oggi si fatica
a trovare anche su auto di categoria inferiore
come le citycar. Diamo vita al piccolo 1.2 turbo
benzina che ci mette davvero pochissimo a far
conoscere la sua vera natura. Il sound, inutile dirlo, è quello “da frullino” tipico del tre cilindri anche se il rumore non penetra mai eccessivamente all’interno dell’abitacolo, complice una buona
insonorizzazione. L’e-THP da 110 CV si dimostra
vivace fin dai primi giri, complice una buona
coppia di 205 Nm disponibile già a 1.500 giri, e
in grado di spingere la Cactus in maniera frizzante, anche quando bisogna effettuare qualche
sorpasso. È un motore molto rotondo, con un
erogazione lineare nonostante la presenza della
sovralimentazione ma vispo sia in accelerazione
che in ripresa, che si sposa molto bene con il manuale a cinque rapporti, dagli innesti forse un po’
lunghi ma davvero precisi e capaci di trasmettere un senso di buona qualità. Lo sterzo è davvero
leggero e morbido alle basse andature, ideale
per muoversi agilmente in città, ma non cade
nel difetto di risultare poco consistente nemmeno in autostrada, a velocità di codice. Buona la
frenata, con mordente a sufficienza anche per le
situazioni difficili, mentre le sospensioni, appaiono un po’ troppo rigide su sconnessioni e dossi,
complici anche i grandi cerchi in lega da 17 con
pneumatici 205/50. Sacrificando lievemente il
confort, soprattutto di chi sta dietro, gli uomini
Citroen sono riusciti però a dare grande stabilità
ad un’auto piuttosto alta da terra, che anche in
curva o nei cambi di direzione più bruschi riesce
a non scomporsi e a rimanere ben piantata per
terra, sempre sicura nelle mani del guidatore.
Nel complesso si ha sempre l’idea di guidare
un’auto molto facile ed immediata, ma anche
davvero maneggevole, grazie al peso contenuto
che trasmette sicurezza e disinvoltura alla guida.
1.6 e-HDi ETG6: le nostre
impressioni di guida
La prima cosa che attira l’attenzione sulla versione diesel automatica è l’assenza della leva del
cambio, sostituita da tre semplici tasti di grandi
dimensioni (solo D, N e R) collocati nella zona
inferiore della console. Questo ha permesso di
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Prove
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dare vita all’originale divano anteriore Sofà, piacevole alla vista anche se difficilmente sfruttabile
in condizioni reali nella zona centrale. Il motore lo
conosciamo bene: è il collaudato 1.6 e-HDi da 92
CV, poco rumoroso (anche se rispetto al benzina
si fa sentire molto di più nell’abitacolo) e soprattutto davvero pronto in basso grazie a 230 Nm
di coppia erogati già a 1.750 giri/min. Tirando le
somme è un unità che regala una spinta ancora
più vigorosa rispetto al turbo benzina, a patto di
accettare qualche decibel in più all’interno. Questa vivacità in ripresa ed accelerazione è in parte
vanificata però dal cambio automatico ETG a sei
marce, specialmente quando si chiede tutto alla
vettura. Questo robotizzato infatti è un elemento un po’ controverso. Da un lato ha il vantaggio
di essere piuttosto semplice a livello costruttivo,
quindi mette sul piatto la promessa di essere
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molto più affidabile nel tempo dei più moderni
automatici (doppia frizione, convertitori di coppia ecc.), ma dall’altro risulta davvero troppo
lento e poco confortevole nelle fasi di cambiata,
con qualche strattone eccessivo. Le cose migliorano nettamente quando si viaggia senza fretta
perché in questi frangenti l’ETG6 mostra il suo
volto migliore, ovvero quello di un cambio “da
passeggio”. Procedendo con un filo di gas gli innesti delle marce diventano molto più dolci (ma
comunque non più veloci) e quasi impercettibili,
divenendo addirittura confortevole.
Consumi: si fanno i 20 km
con 1 litro senza problemi
Il grosso lavoro di alleggerimento viene ripagato
a pieni voti non solo dalla grande maneggevolezza ma anche in termini di consumi, che risultano
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Prova
Periodico elettronico di informazione motociclistica
davvero bassissimi. Su un percorso misto, fatto
di strade extra-ubrane, traffico cittadino e autostrade, con il turbo benzina 1.2 e-THP da 110 CV,
senza esagerare con il gas, abbiamo strappato
una media inferiore ai 5,0 l/100 km, un risultato
grandioso, superiore ai 20 km/l, che ci ha davvero sorpreso, soprattutto su un’auto alta da
terra dove l’aerodinamica non aiuta più di tanto
(Cx 0,32). Ancora meglio con il diesel 1,6 e-HDi
da 92. Nonostante la presenza di un cambio automatico come l’ETG, che di certo non favorisce
i consumi, siamo riusciti a strappare un ottimo
4,7 l/100 km. Un risultato davvero convincente,
che non può far altro che scendere ulteriormente con l’efficientissimo 1.6 Blue-HDi con cambio
manuale.
Conclusioni
Visto il divario di prezzo (tra il benzina e il diesel
a parità di allestimento ballano almeno 1.800
euro), consigliamo a occhi chiusi di scegliere il
1.2 e-THP turbo benzina da 110 CV. Un motore
davvero ben riuscito, che manda in pensione la
sonnolenza degli aspirati, regalando al tempo
stesso consumi da record e molta più silenziosità
rispetto al diesel. Cactus in definitiva si dimostra
un’auto davvero intelligente, che fa di necessità
virtù. Scelte controcorrente come i vetri posteriori con apertura a compasso, o il divanetto realizzato in un pezzo unico hanno permesso da un
lato di contenere i costi, dall’altro di contenere
davvero molto il peso, a tutto vantaggio dei consumi e della maneggevolezza. Il tutto è condito
con un’auto davvero simpatica e originale, con
cui è possibile a farsi notare grazie ad un design
fuori dagli schemi, soluzioni innovative come gli
Airbump e possibilità di personalizzazione cromatiche divertenti.
36
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PROVA SU STRADA
Seat Leon ST 4Drive
Più veloce e
sicura con il 4x4
La nuova Seat Leon ST 4Drive, grazie alla trazione
integrale, diventa ancora più stabile e sicura.
Il bagagliaio non perde capacità, ma si può
scegliere un solo allestimento
di Emiliano Perucca Orfei
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utile che possono passare a 1.470 abbassando
progressivamente gli schienali posteriori. Un
vano pensato per essere davvero pratico, non
solo per via dell’altezza della soglia d’accesso
(65 cm) o per la larghezza della bocca di carico ma anche per via della presenza di sistemi di
trattenuta degli oggetti, tra gli anelli nel pavimento ed i ganci sulle sponde.
Media
Motorizzazioni: 1.6 e 2.0 TDI
Due le motorizzazioni disponibili in Italia per la
nuova declinazione “integrale” della Leon, entrambe a gasolio: la prima, il 1.6 TDI da 105 CV e
250 Nm di coppia massima, consuma 4,5 litri di
gasolio ogni 100 km ed emette 119 g/km di CO2.
187 km/h la velocità massima, 12 secondi netti
lo 0-100 km/h. Il 2.0 TDI, invece, rappresenta il
top di gamma con una potenza massima di 150
CV, una coppia di 320 Nm e valori prestazionali nell’ordine dei 8,7 secondi per lo 0-100 km/h
I
l Gruppo Volkswagen vanta una forte
tradizione nell’ambito delle vetture
a quattro ruote motrici ed era quindi scontato che anche per la Seat
Leon ST 4Drive (in listino a partire da
24.980 euro) sarebbe prima o poi arrivato il giorno del debutto. Una vettura che si
può considerare tendenzialmente di nicchia nel
nostro Paese, soprattutto lontano dalle regioni
più a nord, ma che offre risposte ad una clientela
alla ricerca di sintesi tra sicurezza, performance,
spazio, look piacevole e prezzo. Rispetto alla normale ST la 4Drive non varia di una virgola sotto il
profilo estetico: lunga 454 cm, larga 182 ed alta
145 (passo 262) la nuova SW a trazione integrale
mantiene la stessa altezza da terra delle versioni
a trazione anteriore, lo stesso tetto spiovente,
la fiancata segnata da profonde nervature ed il
40
e 211 km/h di velocità massima. 4,8 l/100 km
il consumo di carburante, 124 g/km il valore di
emissione di CO2. Per quanto riguarda il sistema
di trazione integrale, come dicevamo all’inizio, il
Gruppo Volkswagen vanta una grande tradizione
in termini di 4x4 ed anche per la Leon 4Drive è
stato scelto lo schema Haldex con frizione multidisco a comando idraulico e controllo elettronico.
Dal vivo: com’è fuori
La nuova Leon è un’auto dal look forse meno
personale rispetto alle generazioni che l’hanno
preceduta ma allo stesso tempo decisamente
più razionale ed in grado di strizzare l’occhio
ad un bacino d’utenza decisamente più ampio. Come la berlina anche la ST conserva un
profilo della fiancata molto filante, grazie ad
una coda ben integrata allo stile originale della vettura, ed allo stesso tempo mantiene forte
profilo led anteriore che identifica inequivocabilmente anche lo sguardo delle Leon a tre e cinque
porte. Anche dentro le novità rispetto alle Leon
ST standard sono inesistenti. Fatta eccezione
per la leva del cambio, dove appare il logo 4Drive, tutto il resto è sostanzialmente identico alle
altre Leon: la plancia è sempre quella avvolgente e “driver oriented” che troviamo anche sulla
berlina, con uno schermo da 5” touch attraverso
la quale si “guida” la multimedialità di bordo. Per
chi volesse qualcosa in più, la Style (unico allestimento disponibile) offre come optional anche
un più sofisticato sistema touch da 5,8” con sensore di prossimità che al proprio interno integra
anche il navigatore satellitare. Anche la capacità
del bagagliaio rimane identica a quella delle versioni 2WD: l’arrivo del differenziale posteriore,
dunque, non ha tolto nulla ai 587 litri di carico
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Su strada: le nostre impressioni
di guida
La quinta generazione del sistema Haldex dimostra di essere molto a punto sotto il profilo
della qualità di guida. La presenza della trazione integrale, in condizioni di perfetta aderenza,
è assolutamente impercettibile: non si sente
ma soprattutto non modifica in alcun modo le
qualità di guida della Leon. Sembra di guidare
la normale versione a trazione anteriore. La presenza della trazione integrale, invece, viene fuori quando si guida su fondi a scarsa aderenza o
quando si dà affondo ai 320 Nm di coppia disponibile in uscita dalle curve più strette: al posto di
risconoscibilità nottura (e diurna) grazie ad uno
sviluppo dei led particolarmente azzeccato e
caratteristico di questo modello. Inutile cercare
differenze tra la ST 2WD e quella a quattro ruote
motrici: non ce ne sono.
Dal vivo: com’è dentro
Il livello qualitativo è sostanzialmente lo stesso
della cugina Volkswagen Golf VII. A cambiare è
lo stile della plancia, più squadrato quello della
Leon, mentre per quanto concerne posizione di
guida, possibilità di regolazione, funzionalità e
comandi non v’è alcuna differenza tra la compatta spagnola e quella di Wolfsburg. In Seat,
insomma, fanno davvero sul serio e la scelta di
limitare l’allestimento della 4Drive alla Style, vista la tipologia di prodotto, risulta azzeccata: c’è
42
tagliare inevitabilmente potenza il sistema 4WD
sposta la coppia dall’asse anteriore a quello posteriore assicurando non solo performance ma
anche grande sicurezza. Il passaggio di coppia
dall’asse anteriore a quello posteriore avviene in
modo molto rapido ma allo stesso tempo dolce
e soprattutto senza alcun tipo di ripercussione
sulla dinamica della vettura che rimane sempre
un po’ sottosterzante. Un’auto molto sicura,
che ha dimostrato di avere una performance
davvero buona se abbinata al 2.0 TDI e discreta
con il 1.6 TDI: il più generoso dei due motori in
listino, dopo l’aggiornamento con il sistema di
iniezione common rail, dimostra di essere molto
davvero tutto quello che serve e se si vuole qualcosa in più si può ampliare il pacchetto tecnologico con un sistema multimediale più sofisticato
e comprensivo di un navigatore molto completo.
Lo spazio a bordo è molto ampio per chi siede
davanti, buono per i passeggeri posteirori ed un
po’ limitato per il quinto passeggero: una condizione che comunque si ritrova anche nelle varianti a tre e cinque porte visto e considerato che
il tunnel di passaggio dell’albero di trasmissione
è presente in tutte le carrozzerie indipendentemente dalla tipologia di motore. Niente male il
bagagliaio: l’apertura è ampia e la soglia d’accesso relativamente bassa. Si carica di tutto e di più
ed anche se si carica “poco” è possibile ancorare
gli oggetti attraverso specifici attacchi sul pavimento e sulle sponde del bagagliaio.
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Prove
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sfruttabile a tutti i regimi, discretamente silenzioso e perfettamente intonato al cambio a doppia
frizione DSG che si può avere come alternativa
al manuale. Basso il consumo, visto che abbiamo registrato medie prossime ai 6,2 l/100 km.
Il 1.6 TDI si conferma un buon motore: il consumo è leggermente inferiore, circa 5,9 l/100 km,
ma per ottenerlo occorre non forzare col gas ed
accontentarsi della prestazione: in soldoni se si
pensa alla Leon ST 4Drive come compagna d’avventura per weekend in montagna, magari a pieno carico, i 105 CV del motore 1.6 TDI potrebbero
non essere in linea con le aspettative.
In conclusione
La nuova Leon ST 4Drive conferma tutti i valori delle ST e delle Leon standard aggiungendo
alcuni “più” alla voce sicurezza e performance
grazie ad una trazione integrale molto a punto ed
un allestimento interessante. Rimane una certa
titubanza del pubblico nei confronti del marchio
Seat anche se la cosa sta pian piano passando:
sono sempre di più i clienti in Italia a testimonzianza del fatto che le ultime scelte fatte sotto il
profilo estetico stanno portando ottimi frutti.
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Attualità
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Mercedes-AMG e MV Agusta
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
anticipiamo i dettagli dell’accordo bbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbb
bbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbb
di Ippolito Fassati | Pubblichiamo in anteprima le novità dell’accordo
che, salvo improvvisi cambiamenti, dovrebbe legare la Mercedes-AMG
alla MV Agusta, attraverso una forte partnership che include l’acquisizione di una quota di minoranza del capitale dell’azienda motociclistica,
che resterebbe quindi italiana
S
ebbene fino ad oggi tutte le voci relative all’acquisizione di MV Agusta da
parte di Mercedes-Benz siano state
ufficialmente smentite, le informazioni in nostro possesso ci danno modo di fornire
importanti aggiornamenti sulla soluzione di questo prestigioso matrimonio. Che il gigante tedesco sia attratto dal mondo delle due ruote non è
un mistero. Certa è la partnership del 2010 con
la Ducati che, secondo molti, avrebbe dovuto
portare all’acquisizione dell’azienda di Borgo
Panigale. Invece sappiamo tutti com’è andata a
finire: Audi ha bruciato sul tempo la storica rivale
e ha fatto propria la Ducati. Mercedes-Benz non
è però rimasta con le mani in mano e, anzi, ha
iniziato a collaborare con la MV Agusta. Ricordiamo il video di lancio nel 2013 della brutale Classe
A 45 AMG, affiancata guarda caso proprio da una
MV Agusta F3 800. Allora le due aziende negarono ogni sorta di accordo, ma la nuova coppia
italo-tedesca destò comunque scalpore. Da quel
giorno si sono lette le più disparate ipotesi sugli
scenari futuri che legherebbero la Casa di Stoccarda alle moto.
Mercedes-Benz - MV Agusta:
matrimonio entro l’anno
Ciò che invece possiamo oggi anticipare grazie
alle nostre fonti, salvo cambi di rotta dell’ultim’ora, è che entro l’anno dovrebbe essere effettivamente annunciata la partnership tra AMG e MV
Agusta, ivi inclusa l’acquisizione di una quota di
48
minoranza, ma comunque importante (intorno al
15-20%) della casa varesina, senza alcun piano
già definito di takeover da parte dei tedeschi. MV
Agusta resterebbe quindi un’azienda italiana.
L’operazione, un po’ come Audi che ha acquisito
Ducati attraverso la Lamborghini, dovrebbe riguardare il marchio sportivo di Mercedes-Benz,
la Mercedes-AMG, che condivide con MV Agusta
un gran numero di valori: sportivo, di eccellenza
tecnologica e di forte immagine prestazionale.
L’obiettivo della partnership è di stabilire una
relazione duratura tra le due aziende basata su
molti asset: marketing, commerciale, finanziario,
oltre che naturalmente tecnologico e di design.
Mercedes-AMG gode infatti di autonomia assoluta rispetto a Mercedes-Benz su questi aspetti
e lo slogan “Driving performances” la dice lunga sulla stretta relazione che avrebbero le due
aziende visti i loro prodotti e la loro storia fatta di
vittorie. Il brand motociclistico italiano godrebbe
da subito di una serie di opportunità in termini di
liquidità, comunicazione, marketing, reti vendita e know-how tecnologico, che consentirebbe
di accelerare il coraggioso e valido processo di
ristrutturazione avviato da Giovanni Castiglioni
solo pochi anni fa. MV Agusta, dopo aver chiuso il 2013 con un incremento del fatturato pari
al 20%, nel primo trimestre 2014 ha registrato
un’ulteriore crescita del 22% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Questo risultato positivo è merito soprattutto dei nuovi
modelli Rivale 800 e Brutale 800 Dragster, che
bbbbbbbbbbbbbbb
stanno riscuotendo un successo fin superiore
alle aspettative.
Quali sono le aspettative
Mercedes-AMG, attraverso il matrimonio con
MV avrebbe modo di avvicinarsi ulteriormente
ad un pubblico più giovane e dinamico, a cui si
rivolgono diversi modelli della rinnovata gamma (su tutti la Classe A AMG, la CLA AMG e la
GLA AMG), oggi più “accessibili” ma sempre
emozionanti, grazie al nuovo incredibile quattro
cilindri due litri turbo da 360 cavalli. In secondo
luogo la Mercedes-Benz colmerebbe il gap con
le rivali storiche del segmento premium; infatti
sia BMW che Audi hanno oggi la loro divisione
moto (con BMW Motorrad e Ducati). Senza dimenticarci che AMG e MV Agusta sono marchi
universalmente riconosciuti nell’olimpo sportivo
per l’impegno e le vittorie raccolte sulle piste di
tutto il mondo e dunque, anche da un punto di
vista di competizioni, l’accordo, oltre che grande
prestigio, potrebbe portare interessanti sviluppi
(basti dire che Christian “Toto” Wolff, 42 anni,
siede nel Board di AMG ma è anche responsabile di tutte le attività sportive, inclusi F1 e DTM,
di M-B, oltre che azionista della Williams…). Non
trovano invece alcuna conferma le voci di un
coinvolgimento del fondo Investindustrial e della
famiglia Bonomi, proprietari di Aston Martin, di
cui Mercedes-Benz deteniene il 5% del capitale.
Più volte associati a questa partnership per via
della precedente esperienza in Ducati, i Bonomi
non rientrerebbero in alcun modo nell’operazione. Ora i tempi paiono maturi per l’accordo tra le
due Case. La data ideale sarebbe indubbiamente
l’Eicma, il più importante Salone internazionale dedicato alle moto, quale migliore occasione
quindi per annunciare il nobile matrimonio.
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Iniziativa sicurezza
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aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
“SicuraMente”,
prima puntata
“Siamo noi a fare
la differenza”
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bbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbb
bbbbbbbbbbbbbbb
Al tema della sicurezza stradale
Automoto.it e Moto.it dedicano il
programma “SicuraMente”,
condotto da Nico Cereghini e
Marco Della Noce. Ospiti in studio:
Federica Deledda (Polizia
Stradale), Michele Crisci
(Volvo Car Italia)
e il Prof. Luigi Rainero Fassati
(medico chirurgo e scrittore)
A
lla sicurezza stradale non si dedicano mai abbastanza energie. Automoto.it e Moto.it hanno realizzato
“Sicuramente”, un inedito format di
cinque puntate dedicato ai temi culturali, sociali,
tecnologici e normativi legati alla sicurezza sulle nostre strada proprio per aggiungere qualche
elemento utile in più.
In questa prima puntata si parla degli obiettivi primari della sicurezza sulle nostre strade,
dell’importanza dell’evoluzione tecnica delle
auto come delle moto per quanto riguarda gli
attuali sistemi di sicurezza attiva, passiva e di
come l’industria dell’auto sta sviluppando soluzioni in grado di prevenire le collisioni con altri
veicoli e gli investimenti di pedoni.
50
Ma tutto comincia dal rispetto delle regole e degli
altri utenti della strada, la tecnologia ci aiuta ma
la responsabilità individuale, le nostre scelte, è
al primo posto. Gli ospiti in studio intervistati da
Nico Cereghini sono Federica Deledda, Dirigente
della sezione della Polizia Stradale di Cremona,
Michele Crisci, Amministratore Delegato di Volvo Car Italia, e il professor Luigi Rainero Fassati,
medico chirurgo e scrittore. Tutti specialisti nel
proprio ambito.
A condurre il programma assieme a Nico c’è
Marco Della Noce, conosciuto come comico ma
da molti anni impegnato proprio sul fronte dell’educazione alla sicurezza stradale. I contributi
video di questa puntata mostrano i rischi che si
corrono da automobilisti, motociclisti e pedoni.
Immagini a volte forti, ma utile a comprendere la
vitale importanza di un argomento da molti sottovalutato. Nella prossima puntata di giovedì 18
settembre, affronteremo il tema dell’eccessiva
velocità, che ancora oggi causa moltissimi, troppi, incidenti, mentre giovedì 25 settembre metteremo sul tavolo la questione dell’alcool e delle
distrazioni alla guida, due vere e proprie piaghe
sociali, capaci di creare gravi incidenti a volte anche fatali.
Il 2 ottobre verrà pubblicata una puntata sull’importanza della frenata e del controllo del veicolo,
mentre il 9 ottobre chiuderemo con il tema delle
infrastrutture, fondamentale da affrontare in un
Paese come l’Italia dove spesso le condizioni delle strade lasciano fin troppo a desiderare.
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Prototipo per modo di dire
Media
Per la verità il prototipo rivela forme già pressoché definitive, anche perché il modello è già
stato presentato in Cina con il nome di XR-V ed
in Giappone con il nome Vezel. Negli Stati Uniti
e, in futuro, in Europa, quest’auto invece prenderà il nome HR-V, sigla a noi familiare perché
già adottata dal curioso crossover Honda degli
anni 2000. A Parigi viene dunque mostrata una
versione che anticipa le specifiche europee del
modello, che comunque non sembra differire poi
molto dalla versione asiatica. Basata sul pianale
della futura Honda Jazz di nuova generazione,
l’HR-V è a tutti gli effetti un crossover compatto,
che vuole però stabilire nuovi punti di riferimento
nella categoria in termini di abitabilità. Per ottenere più spazio gli ingegneri giapponesi hanno studiato soluzioni davvero all’avanguardia,
installando per esempio il serbatoio del carburante sotto ai sedili anteriori. Gli interni disporranno poi del sistema Honda Magic Seats che
permette di realizzare facilmente diverse configurazione dei sedili in modo da sfruttareal meglio lo spazio disponibile.
E i motori?
Al momento non sono stati ancora rivelati dettagli in merito alle motorizzazioni disponibili in Europa, ma non è difficile immaginare che sotto al
cofano della HR-V di serie finirà il nuovissimo 1.6
i-DTEC turbo diesel, già approdato sulla nuova
Civic e sulla CR-V, che potrebbe essere affiancato probabilmente da un 1.5 i-VTEC a benzina. La
HR-V potrebbe arrivare sui nostri mercati già entro la fine dell’anno o, al più tardi, nei primi mesi
del 2015.
Honda HR-V Prototype
anticipa il crossover
compatto per l’Europa
Al Salone dell’Auto di Parigi sarà presente l’inedita Honda HR-V
prototype, un concept dalle forme prossoché definitive che anticipa
l’imminente arrivo di un crossover compatto per l’Europa
L
a Casa della Grande H scopre le sue
carte per il Salone dell’Auto di Parigi,
in programma dal prossimo 2 ottobre,
annunciando che sarà presente alla
kermesse francese con l’inedita Honda HR-V
prototype, un concept che anticipa le sembianze di un futuro crossover compatto destinato ai
mercati europei.
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S
arà tra le protagoniste dello stand della Casa biancoblu al prossimo Salone
dell’Automobile di Parigi la BMW Serie
2 cabrio, di cui il costruttore tedesco
ha rilasciato le prime immagini ed informazioni
ufficiali. Derivata ovviamente dalla versione a
tetto rigido, la BMW Serie 2 cabrio presenta una
capotte in tela e, rispetto alla Serie 1 cabrio, si
promette di riservare ai bagagli il 9% di spazio in
più nella configurazione a tetto chiuso ed il 7%
in più con il top ripiegato. Il tetto (che può essere reclinato sino ad una velocità di 30 km/h), di
tipo multi-strato, necessita di 20 secondi di tempo per aprirsi o chiudersi ed è disponibile in tre
diverse tonalità: nero, antracite con effetto marrone e marrone con effetto argento e rispetto
a quello della Serie 1 cabrio dovrebbe essere in
grado di garantire un maggior isolamento acustico: promessi 5 dB in meno all’anteriore e 7 dB
in meno al posteriore. A muovere la BMW Serie
2 cabrio è, nella versione al top, ovvero la M235i,
un sei cilindri in linea da 3.0 litri TwinPower Turbo
in grado di sviluppare fino a 326 CV di potenza
massima e 450 Nm di coppia, valori questi che
sono in grado di accelerare da 0 a 100 km/h la
scoperta dell’Elica Biancoblu in 5.2 secondi di
tempo (5 secondi netti per la versione dotata di
cambio automatico ad otto rapporti). La 220i è
mossa invece da un 4 cilindri da 2.0 litri da 184
CV e 270 Nm, mentre la 228i è alimentata dallo
stesso motore declinato però nella variante da
245 CV e 350 Nm e può essere ordinata in via opzionale con la trazione integrale xDrive. La 220d
è invece mossa da un’unità a gasolio quadricilindrica da 2.0 litri in grado di sviluppare 190 CV di
potenza e 400 Nm di coppia.
L’arrivo sul mercato della BMW Serie 2 cabrio è
previsto per la seconda metà di febbraio 2015 ad
un prezzo sul mercato italiano ancora da comunicarsi.
BMW
Serie 2 cabrio
Tra le protagoniste dello stand BMW al Salone di Parigi vi sarà
anche la BMW Serie 2 cabrio. Ecco le immagini e i dati ufficiali
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Media
ne connota il frontale, insieme a gruppi ottici di
grandi dimensioni dotati di tecnologia LED, mentre le fiancate mettono in mostra le feritoie poste
alle spalle dei passaruota anteriori (ospitanti cerchi da 19”, proposti anche nella misura da 20 sulla variante S) e due marcate nervature, che sconfinano verso una sezione posteriore dominata da
gruppi ottici minimalistici (da 18 singoli LED) e da
due terminali di scarico posti ai lati.
Dentro: eleganza e sportività
Aperta la portiera è possibile notare un ambiente molto elegante che mette in luce un volante a
fondo piatto, quattro bocchette d’aerazione circolari e un sistema di infotainment con schermo
da 7 o 8,4”, oltre ai sedili sportivi in misto pelle
e tessuto e a dei particolari in metallo e in fibra
di carbonio, insieme a un pannello di comando
montato sul tetto che ospita i pulsanti per attivare il riscaldamento dei sedili e il sollevamento
dell’ala posteriore.
Due versioni
La versione entry level della Mercedes AMG GT
ospita al di sotto del cofano un V8 da 4.0 litri
twin-turbo da 462 CV e 600 Nm di coppia, che
in abbinamento ad un cambio a sette marce a
doppia frizione permette alla sportiva di Stoccarda di scattare verso i 100 km/h con partenza da
fermo in 4.0 secondi con partenza da fermo e di
raggiungere una velocità massima di 304 km/h.
La variante S della AMG GT propone invece una
variante potenziata del V8 twin-turbo da 4.0 litri,
ovvero quella da 510 CV di potenza e 650 Nm
di coppia massima, che permette di coprire lo
0-100 km/h in 3.8 secondi di tempo e di far fermare la lancetta del tachimetro su una velocità
massima di 310 km/h.
Leggera e performante
Onde massimizzare le performance, ridurre i
consumi e le emissioni inquinanti, la Mercedes
AMG GT è stata realizzata facendo ricorso ad un
Mercedes AMG GT
tutte le foto e le
informazioni ufficiali
La Casa di Stoccarda si prepara a far cadere i veli dalla Mercedes AMG
GT, la supersportiva che prenderà il posto della SLS. La presentazione
in diretta
S
ono caduti definitivamente i veli dalla
Mercedes AMG GT, la nuova supercar
della Casa di Stoccarda che si prefigge l’importante compito di andare a
prendere in listino il posto attualmente occupato dalla forrtunata SLS AMG. Una sportiva che
si prefigge il compito importante di mettere nel
56
mirino le più blasonate rivali e di strizzare l’occhio sia alle performance che alla fruizione quotidiana. Dovendone prendere il posto, la AMG GT
riprende proporzioni e forme della SLS AMG, lasciando però a quest’ultima le iconiche portiere
ad “ala di gabbiano” per fare posto a degli accessi a bordo più tradizionali. Una grande calandra
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ampio mix di materiali, tra cui alluminio, acciaio
e magnesio, permettendo così alla bilancia di far
segnare un valore di 1.540 kg. La nuova sportiva
di Stoccarda vanta inoltre un differenziale posteriore a bloccaggio meccanico, mentre la variante
S è dotata di differenziale posteriore autobloccante elettronico, oltre che di un sistema di sospensioni sportivo di tipo Ride Control AMG, con
ammortizzatori a regolazione elettronica settabili su tre diverse modalità: Comfort, Sport e Sport
Plus. Entrambe le versioni sono dotate di un sistema di ammortizzamento del rollio allo scopo
58
di incrementare la precisione direzionale, inoltre
gli acquirenti della AMG GT S possono anche ordinare un pacchetto opzionale denominato AMG
Dynamic Plus che aggiunge supporti dinamici di
motore e trasmissione.
A frenare la Mercedes AMG GT sono dei dischi
autoventilanti forati da 360 mm di diametro,
mentre la AMG GT S adotta un impianto maggiorato da 390 millimetri.
Opzionale l’impianto carbo-ceramico con dischi
da 402 millimetri all’anteriore e da 360 mm al
posteriore.
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frenata è in grado di far muovere la vettura ad
emissioni zero durante le ripartenze. Il costruttore francese ha comunicato che sul prototipo
sono previste differenti modalità di guida. Selezionando “Air” per muoversi si sfrutta, solamente l’energia generata dal sistema Hybrid Air,
mentre scegliendo “Petrol” si decide di utilizzare
eslclusivamente il motore a benzina tradizionale. Impostando la modalità “Combined” invece
i due sistemi di propulsione collaborano in un
sistema ibrido, richiedendo l’intervento del motore termico solo quando necessario. Oltre che
in frenata il sistema Hybrid Air è in grado di ricaricarsi, rimandando in pressione l’aria compressa
contenuta nei serbatoi, anche viaggiando a bassa
velocità e sfruttando parte dell’energia prodotta
dal motore termico a tre cilindri. Il costruttore ha
precisato che, indipendentemente dal metodo di
ricarica utilizzato, il sistema è in grado di ricaricarsi in dieci secondi.
Questi enormi sforzi in Ricerca&Sviluppo sono
portati avanti con una certa determinazione da
Peugeot, con l’obiettivo di riusicire a realizzare
entro il 2020 un’auto con consumi inferiori a 2
l/100 km, come richiesto dal Governo francese.
Il primo modello di serie a montare la tecnologia
ibrida Hybrid Air dovrebbe essere la 2008, ma
solo nel 2016.
Peugeot 208 HYbrid Air 2L concept
apre la strada all’auto da 2 l/100km
La Casa del Leone presenta la Peugeot 208 HYbrid Air 2L concept,
prototipo spinto da motore tre cilindri PureTech e tecnologia Hybrid Air.
Un’auto laboratorio dove si studia la possibilità di raggiungere la
percorrenza di 2 litri per 100 km
L
a Casa del Leone ha annunciato che al
prossimo Salone di Parigi, in programma dal prossimo 2 ottobre, sarà presentata l’inedita Peugeot 208 HYbrid
Air 2L concept, prototipo che rappresenta un
ulteriore evoluzione della 208 Hybrid FE concept mostrata a Ginevra lo scorso marzo. Rispetto alla 208 tre porte da cui deriva (980 kg),
60
questo prototipo pesa 100 kg in meno, un risultato ottenuto grazie all’uso massiccio di alluminio
e compositi in fibra di carbonio. Mentre la versione tradizionale è spinta solo da un motore 1.2
PureTech a benzina da 82 CV il concept abbina
questa unità tricilindrica alla tecnologia ibrida
ad aria Hybrid Air sviluppata dal Gruppo PSA,
che grazie all’energia idraulica accumulata in
61
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della mascherina frontale, mentre un parabrezza
stratificato si propone di promettere un maggior
isolamento acustico. Come sempre ben curato,
ma privo di eccessivi fronzoli, l’ambiente interno,
che permette di osservare un volante a tre razze
con comandi integrati ed una serie di elementi
metallici vanno a caratterizzare la plancia, mentre la strumentazione analogica (dotata comunque di Head-Up Display) si va a contrapporre ad
un sistema di infotainment dotato di display da
8 pollici. Il divano posteriore è caratterizzato da
una ripartizione 60/40, mentre in via opzionale è
possibile optare per una terza fila di sedili (configurazione 5+2) in grado di scomparire al di sotto
del pavimento. Le dotazioni comprendono, tra
le altre cose, rivestimenti in pelle, climatizzatore bi-zona e un impianto audio a 10 altoparlanti, inoltre, per tutte e tre le file di sedili, possono
essere richieste fino a quattro prese a 12 Volt e
sei USB, per la carica simultanea di più dispositivi elettronici. Sotto il profilo tecnico la nuova
Discovery Sport lancia un nuovo assale posteriore multilink che si propone di offrire un ampio
e flessibile spazio in cabina, dietro la seconda
fila di sedili. Le sospensioni sono a corsa lunga,
mentre gli angoli di attacco/dosso/uscita sono
rispettivamente di 25, 31 e 21 gradi, strizzando
così l’occhio all’offroad grazie anche al ricorso a
tecnologie quali il Terrain Response, permettendo inoltre una profondità di guado di 600 mm.
Dal punto di vista della sicurezza la nuova Land
Rover Discovery Sport mette in campo un airbag
a protezione dei pedoni e la frenata autonoma di
emergenza. Al lancio la Discovery Sport disporrà
di una gamma di propulsori a quattro cilindri turbocompressi, diesel e benzina. Sia il benzina Si4
da 2.0 litri in alluminio, che il turbodiesel da 2.2
litri, sono dotati del sistema Stop/start, di iniezione diretta ad alta pressione, di componenti
interni a basso coefficiente di attrito e di carica
rigenerativa intelligente. Più avanti, nel 2015, la
gamma verrà completata da un turbodiesel ED4
Land Rover Discovery Sport
prezzi, foto e video
Il costruttore britannico ha fatto cadere i veli dalla nuova Land Rover
Discovery Sport, che arriverà nelle concessionarie a partire dal
prossimo anno
I
l costruttore britannico ha fatto cadere
i veli dalla nuova Land Rover Discovery
Sport, che presenta un linguaggio stilistico
fortemente caratterizzato dagli elementi
che connotano le più recenti vetture della Casa
inglese e. Arriverà sul mercato a partire dal prossimo anno, ma ci attendiamo di vederla dal vivo
62
in occasione del prossimo Salone dell’Automobile di Parigi. Tanti gli elementi caratteristici,
dai fari fendinebbia a LED (che fanno il paio alle
luci diurne sempre caratterizzate dal ricorso a
questa tecnologia) ad una calandra rivisitata
passando per la protezione sottoscocca posta
all’interno dell’estrattore posteriore e al di sotto
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News
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ad alta efficienza con emissioni di CO2 di 119 g/
km. Saranno disponibili una trasmissione automatica a 9 rapporti ed una manuale a 6 rapporti,
e una trazione 4x2 che affianca la 4x4. Land Rover ha inoltre confermato che il modello è dotato
di una scocca leggera che utilizza acciai altoresistenziali, acciaio al boro ad elevata resistenza
e leghe d’alluminio, materiale quest’ultimo che
caratterizza cofano, tetto, parafanghi anteriori e
portellone al fine di contenere le masse. La Land
Rover Discovery Sport arriverà, come precisato in apertura, all’inizio del prossimo anno, sarà
prodotta negli stabilimenti di Halewood, Liverpool e verrà commercializzata a un prezzo che
partirà da 35.600 euro.
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Confronto
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da quando ero ragazzo, non ho potuto dire di no.
Questa era una delle poche vetture che a quel
tempo avrei voluto avere. Ho trascorso ore davanti alla PlayStation giocando ai vari giochi di
rally e non solo guidando questo modello. Quindi, mentre stavo mettendo a posto il sedile e stavo per iniziare il test mi sono più volte chiesto se
le mie aspettative verranno deluse o se questa
macchina è davvero ciò che io penso che sia. Appartiene ad una categoria tutta sua oramai anche perché la sua unica vera rivale è stata ritirata
dal mercato. Infatti la Mitsubishi ha deciso di non
produrre più la Lancer Evo che a mio avviso creava insieme alla Subaru WRX STI un segmento
tutto loro. La Subaru WRX STi ha oggi un passo
allungato rispetto alla sue versione precedente
di ben 25 cm e quindi all’interno ora si sta seduti comodi in quattro. Rimane comunque l’unica
berlina con quattro porte che mantiene un look
così aggressivo! Una volta iniziato il test, non c’è
voluto molto per capire il punto forte di questa
macchina: la stabilità che dà in tutte le condizioni
possibili. Infatti, in autostrada, città, montagna,
pista o sterrato che sia, la Subaru WRX STi rimane incollata all’asfalto e trasmette una sicurezza
enorme. Sembra di stare dentro ad un un videogioco per quelli che sanno impostare la curva
con questa bestiola. Bisogna stare comunque
attenti e non rilassarsi troppo o sottovalutarla
perché ogni vettura potente e con una trazione integrale bisogna saperla prevedere. Quindi,
quando si cerca il limite vero, bisogna saper anticipare le reazioni perché se la macchina parte
diventa molto difficile correggetela anche per
quelli esperti come me. Il motore boxer da 2.5
litri eroga 300 CV di potenza ed una coppia massima di 407 Nm a 4.000 rpm. I 300 CV magari
non sembrano tanti visto che sul mercato odierno si trovano diverse super car molto più potenti,
ma vi assicuro che di più non serve per questa
Yamaha MT-09 Street Rally
contro Subaru WRX STi
la sfida in pista!
Entrambe giapponesi, entrambe capaci di entusiasmare. Subaru WRX
STi e Yamaha MT-09, le abbiamo portate sul tracciato di Franciacorta e
messe una contro l’altra. Al volante e in sella due grandi campioni: Miloš
Pavlovic’ e Andrea Occhini
U
ltima erede di una stirpe che ha
dominato i rally la prima, massima
espressione del divertimento su due
ruote la seconda. Entrambe giapponesi, entrambe capaci di entusiasmare su strada
come in pista. Le abbiamo portate sul tracciato di Franciacorta e messe una contro l’altra.
Al volante e in sella due grandi campioni: Miloš
Pavlović e Andrea Occhini.
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Subaru WRX STi (44.500 euro):
Ci sono automobili che nel bene e nel male diventano delle icone di un’epoca e segnano in modo
indelebile una categoria di conduttori, di uno stile
di guida e forse anche dello stile di vita. Subaru
WRX STi è sicuramente una di queste vetture,
sin dalla sua nascita, avvenuta oramai 20 anni
fa. Quando mi è stata data l’opportunità di provare quella che è stata l’auto dei miei sogni sin
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Confronto
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Yamaha MT-09 Street Rally
(8.590 euro)
Un po’ matta questa versione della MT lo è per
davvero. A metà strada tra una potente naked
e una funambolica supermotard, la Street Rally
si presenta ai nostri occhi con un look sfacciato,
quasi sgarbato. Anche per questo ci piace un
sacco vederla spazzolare la pista di Franciacorta
in compagnia di quel mostro sacro che è da sempre la Subarona WRX. Alettone bianco e ignorante per l’auto, portanumero e paramani - sempre
bianco, manco a dirlo – per la rivale a due ruote.
Entrambe giapponesi, entrambe capaci di osare nell’estetica un po’ Manga e nelle prestazioni
da Rally. Una parola che non cade a casaccio:
fa parte del DNA della Subaru e del nome della
Yamaha, che in questo modo differenzia questa
versione dalla pacifica MT-09. La Street Rally
ha anche il becco sotto al faro, verniciatura e
grafiche più aggressive. Il telaio è quello leggero e scattante della MT-09; di questa ritroviamo
anche l’eccezionale motore tre cilindri 850 con
ben 115 cavalli a 10.000 giri e un peso inferiore ai
180 chili che promette spettacolo su strada e in
tipologia di vettura. Il motore boxer, proprio per
la sua concezione, offre un baricentro basso e
quindi un’ottima distribuzione dei pesi. Il cambio
manuale (grazie Subaru!) a 6 rapporti corti offre
la possibilità di “mantenere sempre a tiro” questa macchina in percorsi misti, quelli per cui è
nata. Quindi è perfetta per quello che è stata costruita. Si possono scegliere tre modalità di guida: “Intelligent”, “Sport” e “Sport Sharp”. Nelle
varie impostazioni variano la durezza e la direzionalità dello sterzo, la durezza del pedale dell’acceleratore e, la più importante, la distribuzione
della coppia. Inutile dire che la mia preferita è la
“Sport Sharp”, modalità in cui si sfrutta tutta la
potenza di cui questa macchina dispone. Anche
il differenziale è regolabile. Per dire la verità, la
macchina ne monta 3 ma quello centrale di tipo
DCCD è regolabile e può essere impostato da un
59% sul posteriore e 41% sull’anteriore fino ad
68
pista. Abbiamo scelto quest’ultima per una sfida
alla Subaru che ci ha regalato tante sorprese. La
WRX STI ha svettato – di poco a dire il vero – grazie all’eccezionale tenuta di strada sul brecciolino e all’incredibile aderenza sia in frenata che in
percorrenza di curva. La nostra Yamaha le ha
però mostrato il suo lato B a ogni uscita di curva:
il peso piuma e la prontezza esagerata del motore ai bassi e ai medi regimi la rendono imprendibile in piena accelerazione e fanno della Street
Rally un piccolo missile terra-terra. Facile da gestire anche nella guida al limite (sempre e solo in
pista!), la Street consente correzioni al limite e
dà una grandissima fiducia anche dove l’aderenza non è perfetta. Dove invece lo è, anche l’auto
fatica a tenere il suo passo. Street Rally, il suo
nome ci sta a pennello e spiega la natura della
MT-09. Una moto stradale che si lascia guidare
come una supermotard, come la Subaru si lascia
guidare come un’auto da Rally. Così diverse, eppure così simili nell’anima e nel modo di entusiasmare il pilota: Yamaha e Subaru per un giorno
hanno avvicinato davvero il modo di vivere due
passioni così diverse solo in apparenza.
arrivare al 50 – 50. La parte finale del mio test
è stata svolta sul circuito rally cross di Franciacorta, il “parco giochi” ideale per un giocatolo di
questo genere per noi che amiamo le corse. Accelerazioni brusche, frenate in curva, tanti cambi
di direzione e di superficie, salti... Sono rimasto
stupefatto dalla qualità e dalla sincerità del comportamento di questa vettura ed ho avuto un’ulteriore dimostrazione di ciò quando ho potuto
portarla sino al suo vero limite. Mi sono davvero
divertito tanto! L’unica nota negativa a mio avviso è il consumo. In pista si può paragonare ad
una vera macchina da corsa ma il problema è che
fuori dal circuito i consumi non si riducono abbastanza. Gli ingegneri Subaru dovrebbero pensare a vari modi per far sì che quando si va piano
i consumi si riducano un pochino, diciamo di un
ulteriore 20%. Ma in fine mi chiedo, chi compra
quest’auto, pensa davvero ai consumi?
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Confronto
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secondo noi erano adatte al tipo di test che volevamo svolgere sulla pista rally cross di Franciacorta. Sfruttate al massimo non hanno mai subito una variazione di tenuta ed hanno mantenuto
per l’intera giornata il livello di grip ottimale di cui
avevo bisogno.
Messe sotto stress estremo in cui non solo venivano spinte sull’asfalto ma anche sullo sterrato e
facendo diversi salti, non hanno mai accennato
un benché minimo segno di cedimento. Davvero
ottime!
Dunlop SportSmart2
Dunlop SPT MAXX RT XL MFS
e SportSmart2
come si comportano in pista
Insieme alla Subaru WRX STi e alla Yamaha MT-09 Street Rally
abbiamo messo alla prova in pista le Dunlop SPT MAXX RT XL MFS
e Dunlop SportSmart2. Ecco cosa è emerso
D
unlop SPT MAXX
RT XL MFS
Non tutti ci fanno caso, ma gli unici
punti di contatto tra la macchina
e l’asfalto sono le gomme. Quindi, che piaccia
o no, sono una componente fondamentale a cui
bisogna prestare particolare attenzione affinché
la vettura si comporti bene. E’ imperativo quindi che siano adatte per il tipo di vettura e per le
70
condizioni in cui si guida. Io infatti presto tanta
attenzione ai pneumatici e sono abituato a pensare a loro come ai miei “migliori amici”. Se li
surriscaldo o non li tratto con il dovuto rispetto
rischio di far sì che dopo poche curve le pressioni vadano alle stelle e che quindi la guidabilità
cambi in maniera estremamente negativa. Per
il test abbiamo montato le Dunlop SPT MAXX
RT XL MFS (nella misura 245/40 ZR 18) che
La nostra Yamaha MT-09 Street Rally con ABS
montava pneumatici Dunlop SportSmart2 nelle
misure di serie 120/70ZR17 W58 all’anteriore e
180/55ZR17 W73 al posteriore, naturalmente
con tecnologia tubeless.
La sigla scelta per queste gomme a struttura
radiale è sinonimo di elevato contenuto tecnologico e le sue caratteristiche si traducono in elevata maneggevolezza, aderenza ottimizzata su
asciutto e su bagnato, elevata durata e stabilità
alle alte velocità, senza dimenticare un buon livello di comfort.
La tecnologia alla base di SportSmart2 è stata
sviluppata dal Dipartimento di Ricerca e Sviluppo europeo Dunlop e rappresenta l’evoluzione di
prodotti pistaioli come il D212 GP Pro. Rispetto
alle versioni precedenti di pari impiego, le prestazioni sul bagnato sono migliorate grazie al nuovo
disegno del battistrada, sviluppato utilizzando
l’analisi a elementi finiti, che massimizzano l’evacuazione dell’acqua. Il pneumatico anteriore
presenta un disegno a “V rovesciata” al centro
del battistrada che permette un miglior drenaggio.
L’aderenza sul bagnato è migliorata anche grazie alla nuova mescola sulla spalla del pneumatico posteriore, composta per il 100% da silice
ad elevata dispersione. Anche la performance
sull’asciutto è stata ottimizzata per un ampio
range di temperature di esercizio, raggiunto
grazie all’uso di polimeri liquidi e resine messe a
punto nell’ambito del programma Racing di Dunlop. La nuova forma del pneumatico anteriore
migliora la distribuzione della pressione dell’impronta a terra, per una maggiore stabilità in frenata su asciutto.
E’ stata assicurata una riduzione dello shimmy,
nonché un tempo di risposta alla sterzata del
23% più veloce. Da ciò risulta una torsione ridotta che richiede dunque un minore sforzo di
sterzata. SportSmart2 offre anche un maggiore
comfort grazie alle diverse costruzioni del pneumatico anteriore e posteriore.
L’anteriore è caratterizzato da una nuova forma e da una diminuzione dei componenti grazie
all’applicazione della tecnologia Steel Joint Less
Belt (JLB), capace di prestazioni costanti fino ai
300 orari mentre per quello posteriore è stata
utilizzata la tecnologia Joint Less Tread (JLT).
La massa non sospesa è stata ridotta grazie a un
minor peso sia del pneumatico anteriore (- 7%)
che del posteriore (fino all’8% in meno) rispetto
al predecessore SportSmart. Inoltre la tecnologia Steel JLB, unita alla presenza di una tela
mobile che sostituisce due breaker, aumenta le
prestazioni del pneumatico ad alte velocità in
quanto contribuisce a ridurne il surriscaldamento. La mescola centrale più dura permette elevati
chilometraggi e migliora la stabilità di guida a velocità elevata.
L’usura uniforme del battistrada preserva le
prestazioni di maneggevolezza, permette una
maggiore durata del pneumatico e riduce le vibrazioni.
La tecnologia Multi-Tread permette infatti un
maggior chilometraggio grazie a una mescola
più dura studiata per la sezione centrale del battistrada, mentre per la spalla viene utilizzata una
mescola composta al 100% da silice, in modo
tale da migliorare l’aderenza in curva in condizioni di asciutto e bagnato. Si abbinano molto
bene con la MT-09 perché anche sullo sterrato
hanno un buon grip e l’anteriore offre una piacevole sensazione di sicurezza in impostazione di
curva.
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Attualità
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Multa con semaforo rosso
valida anche se il giallo dura solo
tre secondi. Ma spesso non bastano
di Matteo Valenti | Una sentenza della Cassazione ha appena stabilito
che una multa per semaforo rosso è valida anche se il giallo è durato
soltanto tre secondi. Ma questo brevissimo lasso di tempo, quasi
impercettibile, è davvero sufficiente per fermarsi in sicurezza?
Q
uante volte abbiamo pensato di appigliarci ad un semaforo giallo troppo corto per contestare una multa
rilevata durante un passaggio con il
rosso? Il sospetto di molti automobilisti e motociclisti infatti risiede nel fatto che le
amministrazioni comunali, specialmente quando
installano telecamere per il rilevamento di infrazioni semaforiche, tarino troppo spesso il giallo
in modo che duri solo brevissimi istanti (come ci
mostra un nostro lettore nel video che ha inviato
alla nostra Redazione). Con un giallo che dura
solo pochi istanti diventa realmente difficile fermarsi in sicurezza quando si è in movimento (inchiodare può diventare ancora più pericoloso!) e
si rischia quindi di non fare in tempo a frenare,
andando ad occupare l’incrocio e incappando in
una inevitabile multa non appena scatterà il rosso.
tre secondi quindi la multa per chi è passato con
il rosso è da considerarsi valida e non è possibile
fare ricorso. E non importa se chi sta guidando
non è riuscito a fermarsi in tempo con un giallo,
magari ritenuto troppo breve: se la durata della
luce gialla è di almeno tre secondi per la Legge
è tutto regolare, quindi se si viene beccati a passare con il rosso non resta altro che pagare la
sanzione. L’intervento della Corte di Cassazione
è stato richiesto dal Comune di Montevecchia, in
provincia di Lecco, dove una donna era riuscita a
farsi togliere una multa dal giudice di pace grazie
al fatto che il rosso era scattato soltanto dopo
quattro secondi di giallo. La Cassazione però ha
dato ragione al Comune lecchese e non ha accettato l’argomentazione della donna, che dovrà
quindi pagare.
A fare chiarezza quindi ci ha pensato una volta
per tutte la Corte di Cassazione, che ha appena
emesso una nuova sentenza (n. 18470, eccola
in pdf) con cui stabilisce che la luce gialla di un
semaforo, indipendentemente dall’incrocio preso in considerazione, deve durare almeno tre
secondi. Se il giallo rimane esposto per almeno
dei luoghi» e siccome il Codice non indica la durata minima del giallo la Corte si appella ad una
risoluzione del Ministero dei Trasporti «che regola il tempo minimo di durata [della luce gialla]
che non può mai essere inferiore a tre secondi».
Secondo lo studio condotto dal CNR e fatto proprio dal Ministero con cui concordano i giudici di
Il CdS non impone un limite di durata al giallo, ma ci si appella ad
Se il giallo dura almeno tre secon- una consulenza del CNR
di, la multa per semaforo rosso è Questo perché secondo la Suprema Corte «l’automobilista deve adeguare la velocità allo stato
valida
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Cassazione 3 secondi corrispondono al tempo di
arresto necessario per un veicolo che procede a
50 km/h, «con la conseguenza – termina la sentenza - che una durata superiore deve senz’altro
ritenersi congrua».
Ma 3 secondi di giallo sono sufficienti nella realtà?
Ma 3 secondi sono davvero sufficienti per il giallo prima che scatti l’inevitabile rosso? I giudici
hanno concordato con il parere del Ministero
e del CNR, che però, a nostro avviso, presenta
una pesante lacuna. Si considerano tre secondi
più che sufficienti ad arrestarsi in sicurezza, ma
indipendentemente dal tipo di strada percorsa.
Spesso infatti ci troviamo in situazioni in cui la
velocità media del flusso di traffico è ben superiore ai 50 km/h, benché sia stato imposto tale
limite. Questo avviene perché vengono imposti
limiti non realistici (un esempio perfetto è via dei
Missaglia a Milano, con tre corsie per senso di
marcia, spartitraffico centrale e limite a 50!) che
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poi automobilisti, motociclisti e persino mezzi
pubblici pesanti come gli autobus non riescono,
di fatto, a rispettare.
Dove ci sono limite irrealistici è impossibile!
Dove sono in vigore limiti di velocità irrealistici
quindi – e le nostre strade sono disseminate di
situazioni di questo tipo – diventa praticamente
impossibile fermarsi ad un semaforo che mostra
un giallo soltanto per tre secondi. Un parere legislativo di questo tipo quindi si scontra con una
realtà dei fatti che non lo rende credibile e soprattutto accettabile.
E i pedoni come fanno?
Inoltre non si tiene conto che un semaforo giallo per auto e moto corrisponde (nella
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stragrande maggioranza dei casi) ad una luce
gialla per i pedoni. Ma una persona che si muove
a piedi, ad una velocità di circa 1 m/s, come potrà
mai attraversare un incrocio di 9 metri (larghezza
media di un nuovo incrocio) in poco più di quattro
secondi (nel caso in cui inizi ad attraversare con il
verde e poi scatti subito dopo il giallo)?
Dovrà correre e questo non è ammissibile, soprattutto se pensiamo a persone anziane o con
problemi di mobilità!
Ci sembra quindi che ancora una volta la Legge
abbia risolto la questione in maniera troppo sbrigativa, aprendo la strada ad una consuetudine –
quella di un giallo di soli 3 secondi – che non tiene
conto delle reali condizioni delle nostre strade e
che rende fin troppo facile il rischio di incappare in una multa per semaforo rosso... Per la gioia
delle casse comunali!
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Tecnica
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I motori V6
tutto cominciò con
la splendida Lancia Aurelia
la scena ancora per numerosi anni, per quanto
riguarda la produzione di serie. I costruttori inglesi e americani hanno cominciato a costruire
i V6 assai prima di quelli giapponesi, che hanno
iniziato ad adottare questa architettura solo nel
corso degli anni Ottanta.
di Massimo Clarke | A dimostrare la validità dell’architettura sei cilindri
a V è stata la Lancia. Vediamo come e perché ha avuto tanto successo
V6: più compatto di
un sei cilindri in linea
P
er lungo tempo sono stati davvero
pochi i costruttori che, al di sopra di
una certa cilindrata, non hanno avuto
in produzione almeno un V6. Oggi la
necessità di contenere i consumi (e le emissioni
di CO2) ha reso vantaggiosa l’adozione di motori
con un ridotto numero di cilindri, leggeri e compatti e comunque in grado di fornire prestazioni
elevate grazie al sempre più largo impiego della
sovralimentazione. Questo ha portato a impiegare dei brillanti quadricilindrici turbo anche in
una ampia parte del campo nel quale fino a pochi anni fa i sei cilindri regnavano indisturbati.
Di motori con quest’ultimo frazionamento ce ne
sono di meno, insomma, ma continuano a dominare la scena nelle cilindrate comprese tra 2,5 e
3,8 cm3. La loro architettura è quasi sempre a
V. Le poche eccezioni nelle quali i sei cilindri in
linea sono comunque rimarchevoli, dato che vedono in gioco costruttori come BMW e Volvo. In
una categoria a sé stante rientrano poi i motori
boxer.
Sei cilindri a V: il primo sulla
Lancia Aurelia
Tra i motori a sei cilindri, dunque, sono quelli a V
ad essere di gran lunga più diffusi. A questo proposito è interessante osservare che, per quanto
riguarda la disposizione e il numero dei cilindri,
mentre quasi tutte le altre soluzioni erano già
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state debitamente studiate e adottate nella pratica, per vedere il primo motore di questo tipo prodotto in gran serie è stato necessario attendere
il 1950, anno nel quale ha fatto la sua comparsa
la Lancia Aurelia. In precedenza la Lancia, azienda davvero benemerita per la validità delle sue
realizzazioni e per gli schemi tecnici innovativi
con i quali esse erano realizzate, aveva prodotto
una serie di raffinati motori a V stretto, creando
in pratica una classe a sé stante e indicando una
strada che molti anni dopo è stata imboccata
dalla Volkswagen per i suoi VR6 e VR5. Dal 1922
al 1949 la casa torinese aveva costruito V4 e dei
V8, con angoli tra le due linee di cilindri, alloggiate nella stessa fusione, compresi tra 17° e 24°
(per quanto riguarda i V4 ha poi proseguito con
le famose Appia e Fulvia). Nel motore della Aurelia, progettato dall’ing. Francesco De Virgilio, la
V tra le due bancate di cilindri non era “stretta”
ma aveva un angolo di 60°. Con questa vettura la
Lancia ha indicato una soluzione costruttiva che
successivamente è stata adottata da un numero
via via crescente di altri costruttori. Fino ad allora i motori a sei cilindri, tanto di serie quanto
da competizione, avevano impiegato una architettura in linea. La soluzione proposta dalla casa
torinese era razionale e aveva notevoli punti di
forza. Non tutti però hanno saputo apprezzare in
tempi brevi i vantaggi che essa offriva. I sei cilindri in linea hanno infatti continuato a dominare
I motori a sei cilindri in linea sono sempre stati
apprezzati per la loro eccellente equilibratura,
superiore non solo a quella dei quadricilindrici
con eguale architettura, ma anche a quella dei
V8. Sono però molto lunghi, il loro albero a gomiti
poggia su sette supporti (indispensabili, a meno
che le prestazioni non siano modeste) e il peso
tende ad essere considerevole. L’idea della Lancia era quella di realizzare un motore con questo
frazionamento dotato di una maggiore compattezza. Disponendo i cilindri a V sicuramente l’ingombro longitudinale risulta nettamente inferiore; inoltre l’albero può essere più corto e rigido e
poggiare su quattro supporti di banco soltanto.
Per l’Aurelia è stata scelta la soluzione più “rigorosa”, che nel caso di un frazionamento su sei
cilindri prevede due bancate inclinate tra loro di
60°. In questo modo si ottiene l’equidistanza tra
le fasi utili, ovvero tra gli “scoppi” del motore, e
le forze d’inerzia risultano equilibrate (ma non le
coppie); l’albero a gomiti deve però essere dotato di sei perni di manovella, ovvero uno per ogni
biella. Risultati analoghi si possono ottenere con
una V di 120°, che può anche permettere l’impiego di un albero più rigido e semplice, con tre soli
perni di manovella (su ognuno dei quali lavorano affiancate due bielle). Il motore però risulta
Lo stato dell’arte nel campo dei motori a sei cilindri a V (in questo caso di 60°) è ben mostrato da questa
recente realizzazione della Ford, con distribuzione bialbero e quattro valvole per cilindro
77
Nel V6 realizzato per la Renault, la Peugeot e la Volvo negli anni Settanta l’angolo
tra le due bancate era di 90° e la distribuzione monoalbero, con comando a catena
nettamente più largo, e ciò rende l’architettura in
questione non molto appetibile, per un normale
impiego automobilistico (e infatti non la usa nessuno). Giova però ricordare che il campionato
mondiale di Formula Uno del 1961 è stato conquistato dalla Ferrari utilizzando, in quasi tutte
le gare, un motore nel quale la V era appunto di
120°.
V6 con angolo a 90°
Molti V6 moderni adottano un angolo tra le bancate dei cilindri di 90°, che consente di impiegare per i basamenti le stesse linee sulle quali si
lavorano i V8 (e permette di ottenere un minore
ingombro in altezza rispetto ai motori con V di
60°). In questo caso sono possibili due diverse
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Tecnica
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“
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Il campionato mondiale di Formula Uno del 1961 è stato
conquistato dalla Ferrari utilizzando, in quasi tutte le
gare, un motore nel quale la V era appunto di 120°
soluzioni, per quanto riguarda l’albero a gomiti.
Una prevede tre soli perni di manovella, disposti a 120° uno dall’altro, su ciascuno dei quali
sono montate affiancate due bielle (che “servono” due cilindri, ognuno dei quali appartiene
a una bancata diversa). In questo caso l’albero
è particolarmente rigido e di semplice fabbricazione, ma non si può ottenere l’equidistanza tra
le fasi utili. Gli “scoppi” sono infatti distanziati di
150°…90°…150°…90°… Le forze d’inerzia sono
equilibrate, ma una coppia non è bilanciabile.
L’altra soluzione prevede un albero con tre manovelle, ognuna delle quali è dotata di due perni
“sfalsati”, in quanto separati uno dall’altro di 30°,
cosa che consente di ottenere una distanza angolare uniforme tra le fasi utili (con gli scoppi che
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Tecnica
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aveva la geometria più semplice, con tre soli perni di manovella. Si rinunciava quindi alla regolarità ciclica e, anche se erano altri tempi, non si
può dire che la cosa sia piaciuta proprio a tutti
gli utenti. Nel corso degli anni Sessanta alcuni
costruttori europei hanno essi pure imboccato la
strada del V6. Basta ricordare la Ford, con una
V di 60°, e la Fiat Dino, frutto di un accordo con
la Ferrari, con una V di 65° (quest’ultimo motore
si è poi evoluto in quello che ha equipaggiato la
famosa Stratos).
I sei cilindri a V spopolano a
partire dagli anni Settanta
La Renault ha aperto la strada dei motori Turbo in Formula Uno
con questo sei cilindri a V di 90°, per anni grande protagonista della scena agonistica
si susseguono ogni 120°). A parità di diametro
dei perni l’albero ha una rigidezza minore. Pure
in questo caso le forze d’inerzia sono equilibrate,
ma non le coppie. Le vibrazioni sono piuttosto
contenute, ma negli ultimi anni alcuni costruttori
hanno comunque ritenuto opportuno dotare di
un albero ausiliario di equilibratura i loro motori
realizzati con questo schema. La raffinata Aurelia è stata per diverso tempo una delle migliori
vetture della sua categoria. Dati gli ottimi risultati ottenuti, nel 1957 la Lancia ha adottato un
motore avente una architettura analoga anche
per la sua nuova ammiraglia, ossia la Flaminia.
Nella prima metà degli anni Cinquanta la casa torinese ha realizzato pure alcune formidabili vetture da corsa, per le gare della categoria Sport,
che si sono imposte in competizioni durissime
e di straordinario prestigio come la Mille Miglia,
la Targa Florio e la Carrera Panamericana e che
erano munite di motori a sei cilindri a V di 60°
(dotati in questo caso di distribuzione bialbero).
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Ferrari segue l’esempio di Lancia
Dopo il ritiro della casa torinese dalla attività
agonistica è stata la Ferrari a realizzare motori
da competizione di questo tipo, iniziando ben
presto la serie dei suoi Dino, nei quali l’angolo
tra le due bancate di cilindri era di 65° (l’apertura
leggermente maggiore pare agevolasse la realizzazione di condotti di aspirazione dall’andamento vantaggioso e il piazzamento dei carburatori)
. Nel 1958 il titolo iridato è stato conquistato da
Mike Hawthorn alla guida di una splendida monoposto azionata da uno di questi V6. In seguito
la casa di Maranello ha impiegato motori di tipo
analogo, ma con una cilindrata di 1500 cm3, per
le sue monoposto di Formula Uno che hanno
gareggiato nei primi anni Sessanta; di tali unità
motrici sono state realizzate due versioni, con
angolo tra le bancate rispettivamente di 65° e di
120°. Tornando alle vetture di serie, nel 1962 la
Buick ha messo in produzione un sei cilindri di
3,2 litri nel quale la V era di 90°; l’albero a gomiti
Nel decennio successivo vanno segnalati il motore francese PRV (destinato a Peugeot, Renault
e Volvo), con V di 90°, e l’Alfa Romeo, con V di
60°, destinato ad avere una lunga e fortunata
carriera. Nel 1977 il V6 di 90° della Buick è stato
dotato di un albero con perni di manovella sfalsati, per ottenere l’equidistanza tra le fasi utili. Nello stesso periodo ha fatto la sua comparsa sulle
piste il 1500 turbo della Renault, con sei cilindri
a V di 90°.
Per buona parte degli anni Ottanta i mondiali di
Formula Uno sono stati appannaggio dei motori sovralimentati mediante turbocompressore,
per i quali uno schema a sei cilindri a V è stato
adottato da Ferrari, Porsche-TAG e Honda (negli ultimi due casi con un angolo tra le bancate di
80°). Per i V6 di serie, gli anni Novanta sono stati
davvero un periodo d’oro.
In aggiunta a quelli dei principali costruttori giapponesi, da poco comparsi, sono entrati in scena
anche i motori realizzati dalla Audi e dalla Mercedes (a V di 90°) e quello della Opel (con un
inedito angolo di 54°). Oggi nel panorama automobilistico mondiale spiccano eccellenti V6, con
angolo tanto di 60° (sono i più numerosi) quanto
di 90°, anche se la loro popolarità appare leggermente in declino. Non si deve però dimenticare
che le monoposto di Formula Uno a partire dal
2014 sono dotate di motori turbo con sei cilindri
aV
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Formula 1
Formula 1
come potrebbe essere
la Ferrari del 2015
di Gabriele Pirovano | Molte saranno le novità che caratterizzeranno
la Ferrari da Formula 1 del 2015. Scopriamo realisticamente come
potrebbe essere la prossima Rossa grazie ai disegni di Gabriele
Pirovano
L
a Ferrari del 2015 sarà molto diversa
da quella di oggi. La F14T si è rivelata
sbagliata in alcune aree tecniche ben
precise, la nuova del 2015 sarà diversa
soprattutto in queste zone.
MOTORE: sbagliata la disposizione dei vari elementi che compongono la Power Unit. Turbina
troppo piccola, turbina -compressore - MGU-H
ravvicinati e collocati tutti al posteriore mentre
la Mercedes ha questi elementi molto separati
tra loro, in particolare la MGU-H è posta davanti
al motore. La Ferrari ha spostato quest’anno il
serbatoio dell’olio dietro al motore (l’anno scorso era davanti al motore) all’interno del cambio
mentre la Mercedes e tutte le altre l’hanno mantenuto davanti al motore.
CARICHI: molto lunghi, collocati verticalmente
con andamento molto complicato. L’eccessiva
lunghezza disperde potenza mentre la Mercedes
adotta scarichi molto corti e lineari.
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SOSPENSIONI: Ferrari e Caterham sono le
uniche monoposto con sospensioni anteriori di
schema Pull-rod a tirante. Scelta probabilmente
sbagliata per le attuali F1 (l’anteriore in uscita di
curva non è stabile e soprattutto Raikkonen non
riesce a manternere la vettura lineare con la pista ma sbanda parecchio). L’anno prossimo dovrebbe tornare al sistema Push-rod come quelle
dei team vincenti.
AERODINAMICA: sbagliata soprattutto nella
zona anteriore, il musetto molto corto e basso
non permette il passaggio di aria verso il fondo
scocca.
Anche la Mercedes ha un muso in questo stile
ma grazie ad una loro interpretazione del regolamento che sfrutta la zona dei piloni come parte
del muso ha una altezza dello stesso molto più
elevata che convoglia molta più aria al fondo rispetto a quello della Rossa. Potremmo vedere
un muso stile Mercedes o forse a becco in stile
Williams.
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Ci sono geni della tecnica in F1?
Scalabroni: «Sì, ma ce n’è
soltanto uno»
Formula 1
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
bbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbb
bbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbbb
bbbbbbbbbbbbbbb
di Paolo Ciccarone | Secondo l’ingegner Scalabroni, ex progettista
Ferrari, Williams e McLaren, in Formula 1 esiste un vero e proprio genio
della tecnica, che fa la differenza sulla monoposto schierata in pista.
Ecco di chi si tratta
C
i sono geni in F.1? Secondo l’ingegner Enrique Scalabroni, ex progettista Ferrari, Williams e McLaren, sì.
Ed è solo uno. Adrian Newey.
Newey ha una visione d’insieme
Il perché lo spiega lo stesso ingegner argentino: «Semplicemente perché la F.1 è un progetto
complesso, difficile e con tante aree da tenere
sotto controllo». Uno come Newey ha una visione completa della macchina, sa di sospensioni,
aerodinamica e meccanica, le guida ed è pure
bravo, ha la passione per quello che fa, ma soprattutto ha una visione, una cultura del rischio
che lo porta a sviluppare certi concetti». «Magari non saranno vincenti al primo colpo ma state
sicuri che sa dove arrivare e come arrivarci».
«Questo fa la differenza fra un ingegnere progettista come lui e gli altri. La differenza, infatti,
è che un tecnico procede per sperimentazione,
raccoglie dati, li confronta e cerca di intuire quale
è la strada da seguire, poi verifica i numeri e nel
caso fa delle modifiche. Ma non avrà mai il colpo
di genio alla Newey che intuisce cosa fare e come
mentre gli altri, o partono da concetti espressi e
sviluppati da colleghi oppure si affidano ai numeri e alla simulazioni».
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Il genio fa la differenza
«Quando porti un pezzo in galleria del vento sono
tantissimi parametri da seguire, controllare, numeri da verificare, è davvero tutto molto complicato e non è facile, la F.1 di oggi è davvero una
grande sfida per i tecnici.
Ecco però che se c’è la scintilla del genio, le cose
cambiano».
«Vedo le Red Bull, le ammiro per le soluzioni scelte, per il modo in cui sono costruite, altre macchine come Mercedes ad esempio, sono fatte
bene, hanno soluzioni interessanti ma si capisce
come sia il frutto di un lavoro di gruppo mentre la
prima è il frutto di una visione».
Quindi secondo Scalabroni il genio si distingue
dal tecnico normale per come affronta e risolve
i problemi. Infatti dalla teoria alla pratica cambiano molte cose, bastano piccole differenze per
trovarsi distanti decimi dai primi oppure in prima
fila. In un circuito con otto dieci curve al massimo, prendere due decimi vuol dire accusare in
ogni curva un distacco di pochi millesimi, una
inezia curva per curva che diventa grande a fine
giro ed enorme a fine gara.
La differenza fra il colpo di genio e lo sviluppo
tecnico.
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Campioni
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Alessandro Zanardi. Non ti fermi mai,
quali sono le tue prossime sfide?
«Ho naturalmente intenzione di continuare ed
arrivare ai giochi di Rio De Janeiro del 2016. Nel
frattempo ho mantenuto un ottimo rapporto con
BMW – abbiamo vissuto dei bellissimi momenti insieme nella mia storia più recente, perché
dopo il mio incidente ho accettato la loro offerta
per ricominciare a correre nel WTCC dove siamo
riusciti a tornare a vincere contro tutte le aspettative. C’era molta gente piuttosto scettica sulle
mie possibilità – non solo di vittoria, ma anche di
essere competitivo in un campionato tanto duro
come era il WTCC quando ci siamo impegnati
con BMW» «Nonostante tutte le difficoltà abbiamo lavorato con tenacia, migliorando giorno
dopo giorno e trovando una soluzione che mi ha
consentito di guidare al meglio delle mie capacità, tanto da poter riassaggiare lo champagne sul
podio nel 2005, ad Oschersleben. Abbiamo vinto
diverse altre gare, ma nel frattempo ho scoperto
l’hand-cycling e ho pensato che sarebbe stato
davvero bello poter raccontare ai miei nipoti – se
sarò così fortunato da averne – tutta la mia vita
sportiva, mettendoci magari una partecipazione
alle paralimpiadi. Ma per migliorare il mio livello,
e confrontarmi con gli atleti più forti a livello internazionale dovevo fare una scelta; a fine 2009
ho deciso di abbandonare le corse in auto e concentrarmi di nuovo sul paraciclismo»
Specialità dove Zanardi ha vinto un paio di
medaglie prima di tornare dietro al volante...
«Si, non solo sono riuscito a partecipare ai giochi
di Londra, ma ho vinto due medaglie d’oro – sia
nella cronometro che nella gara su strada – è
stato fantastico, per l’esperienza ma anche per
il tempismo. Come ciclista sono molto giovane
Alessandro Zanardi
«Tutto quello che ci capita può
trasformarsi in un’opportunità»
di Emiliano Perucca Orfei | Il campione paralimpico, due volte vincitore
della CART e pilota della Blancpain GT ci parla delle sue passioni, della
sua filosofia di vita e della magia della pista di Brands Hatch
I
ncredibile Zanardi. Un vincente come
pilota, come atleta e soprattutto come
persona, capace di affrontare qualunque
impresa e qualunque esito con il sorriso
sulle labbra.
Uno di quei rari campioni non consumati dalla
propria motivazione, che trovano invece stimoli
positivi da qualunque situazione, successo o difficoltà che sia.
E’ naturale, quando uno ha passato quello che
ha passato lui e ne è uscito vincitore, in piedi su
86
gambe che forse non saranno le sue, ma che ha
saputo piegare alla sua indomita volontà grazie
anche all’aiuto di quell’altro grande sognatore
che è il dottor Claudio Costa, il medico dei piloti
del Motomondiale. Lo abbiamo incontrato negli Stati Uniti, dove in occasione dei Mondiali di
Handbike di Greenville il pilota di Castelmaggiore
ha visitato gli stabilimenti BMW, parlandoci delle
sue mille iniziative ed attività, con un occhio al
passato e due al futuro. Iniziando naturalmente
dalla Handbike, in cui ci parla dei suoi obiettivi.
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da un punto di vista dell’esperienza – riuscire a
completare la mia curva d’apprendimento così
in fretta per poter dare il meglio delle mie prestazioni esattamente in tempo con la gara più
importante della mia carriera, quella di Londra
ovviamente, è stato fantastico. Qualcosa che abbiamo cercato di pianificare, certo, ma… un po’
di fortuna nella vita, ogni tanto, aiuta. Considero
già il solo fatto di aver scoperto questa disciplina
un dono, perché molte delle cose che ci succedono nella vita sono legate al nostro destino»
Si può trovare un parallelismo con la ritrovata carriera a quattro ruote di Alessandro, che
dopo aver vinto a Londra, proprio sul tracciato
di Brands Hatch, quest’anno vi ha corso una
bellissima gara nella Blancpain GT Series.
«E’ vero – Brands Hatch è un posto quasi magico
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Campioni
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per me. Già nel 1991, quando ci sono stato per la
prima volta come astro nascente della Formula
3. Ero arrivato lì sulla scia di alcune belle prestazioni che mi erano valse l’attenzione dei Team
Manager di Formula 1, ma tutti mi aspettavano
al varco, perché Brands Hatch è considerata
una pista molto difficile, di quelle che mettono
in mostra il vero talento dei piloti. E’ stata la mia
fortuna, perché non mi limitai a conquistare la
pole position, ma rifilai un secondo netto al primo degli inseguitori, Damon Hill, che era in prima fila con me. E’ stato uno dei momenti con
cui mi sono garantito un futuro negli sport motoristici» «Ed è stato a Brands Hatch nel 2007,
quando correvo nel WTCC, che mi si è avvicinato
un amico, rappresentante di uno dei miei sponsor, chiedendomi di andare a New York per fare
un discorso al loro Pasta Party (le tradizionali
mangiate di carboidrati che gli atleti fanno il giorno prima delle gare sulle lunghe distanze) del sabato sera. Risposi che andava bene, ma già che
andavo a New York perché non fare la maratona? Credeva che stessi scherzando, mentre ero
serissimo – la settimana prima avevo letto un
vecchio numero di Autosprint in cui Clay Regazzoni raccontava della sua gara su una hand-cycle
alla Maratona di New York. E’ così che ho scoperto di poter correre lì, ci sono andato e ho finito
per vincere – ecco da dove è partito tutto. L’idea,
di fatto, è nata a Brands Hatch» «Da lì poi ho deciso di tentare la qualificazione per le Olimpiadi
e così come tutto è partito da Brands Hatch, in
un certo senso il destino si è anche compiuto lì
– certo, non ho abbandonato l’attività, sto continuando, ma la partecipazione alle Olimpiadi era
il mio orizzonte, il punto che volevo raggiungere.
Sei mesi prima delle paralimpiadi annunciarono
il luogo in cui si sarebbe corsa la gara di paraciclismo: quando sentii che si trattava del circuito di
Brands Hatch pensai all’ironia della cosa. Il resto
è storia – è stato un momento bellissimo, sono
tornato a Brands per correre su tre invece che
quattro ruote»
Come per chiudere un cerchio, dopo le vittorie nel paraciclismo si è riaperta la porta delle
gare su quattro ruote.
«Nel 2013 mi sono confermato campione del
mondo in Canada, sia nella cronometro che su
strada, e nell’inverno mi è arrivato una telefonata
da BMW, teoricamente per farmi gli auguri, visto
che era il 23 ottobre. Colui che mi aveva telefonato era il capo delle operazioni di Mercedes ai
tempi in cui… li prendevo a calci nel sedere nella
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mia condizione. E forse faccio più cose adesso
di quante non ne facessi prima – non mi è rimasto molto da dimostrare, tranne forse essere il
primo uomo su Marte, magari parlerò con il presidente Obama per proporre la mia candidatura
(ride, ndr) » «Sono felicissimo, faccio di tutto al
top delle mie possibilità e sono brand ambassador di una Casa come BMW, cosa che mi riempie
d’orgoglio perché oltre ad avere un marchio di
grande prestigio la considero un po’ una seconda famiglia. In loro ho trovato la stessa curiosità
che ho avuto io dopo il mio incidente, persone interessate a studiare la mia proposta di tornare a
mettermi in gioco, trovare il modo di correre ed
essere competitivo ai massimi livelli. E non è certo una decisione facile da prendere per una grande casa come BMW, perché certo, un’impresa
Indycar, dove fornivano i loro motori. All’epoca
non ero certo il suo migliore amico, ma evidentemente aveva un certo rispetto per me come
pilota – di fatto chiuse le telefonata dicendomi
“Mi piacerebbe moltissimo averti fra i miei piloti”, a cui ho risposto “Perché non me l’hai chiesto
allora? Avete quella bellissima Z4, perché non
me la fai provare?” E’ rimasto stupito del fatto
che avrei accettato una loro offerta, e un mese
dopo mi sono trovato coinvolto nel progetto del
Blancpain GT Sprint Championship» «La settimana scorsa ero in Slovacchia con la mia Z4,
con cui però sono rimasto coinvolto in un brutto
incidente alla prima curva – una vera sfortuna,
perché ero convinto di poter fare anche meglio
di quanto non avevo fatto a Brands Hatch dove
ho conquistato un quinto posto. Penso che avrei
potuto vincere, perché sapevo che la BMW era
la macchina da battere in Slovacchia grazie alla
capacità di risparmiare le gomme. Lì il consumo degli pneumatici è un problema, e in gara
si è visto: BMW ha fatto doppietta, ma con due
macchine che in griglia partivano dietro di me.
Un peccato, è stato un errore mio, sono cose che
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del genere aumenta la tua visibilità in maniera
positiva, ma il rovescio della medaglia è che se
avessi avuto un incidente, se mi fossi fatto male
sarebbe stato un disastro. Tutti i responsabili
BMW si sono seduti con me attorno ad un tavolo
e alla fine hanno deciso di darmi fiducia – credo
che in un qualche modo la tecnologia BMW si
sia in qualche modo fusa con la curiosità italiana, permettendoci di trovare una soluzione per
farmi tornare ad essere più o meno il pilota che
ero prima. Non sono mai stato il pilota migliore
del mondo, ma sono sempre abbastanza bravo
da vincere gare con il materiale giusto – situazione che siamo riusciti a replicare, perché ci siamo
goduti i nostri successi e spero che ne collezioneremo altri. O perlomeno, questo è il nostro
obiettivo»
capitano in gara, ma avrò l’occasione di rifarmi
già fra due settimane a Portimao»
E’ un periodo molto impegnativo per Zanardi,
fra gare, competizioni e tante altre avventure.
Come fai a trovare il tempo per tutto, fra allenamenti, impegni familiari e quant’altro?
«Beh, non posso certo lamentarmi, sono una
persona molto fortunata – credo che ogni cosa
che ti capita nella vita, almeno finché hai ancora
la tua vita, può trasformarsi in un’opportunità.
Non mi piace neanche parlare di quello che mi
è capitato perché normalmente ricevo talmente
tanti complimenti per quello che ho fatto ovunque vada che credo sia più di quanto mi meriti.
Per farla breve, credo che tutto quello che ci capita sia un’opportunità, perché tutte le attività in
cui sono coinvolto ora sono direttamente legate
alla mia condizione. Ho una vita meravigliosa, in
cui ho successo perché amo quello che faccio e
il mio unico merito è stato probabilmente quello di mantenere la mia curiosità – non mi sono
concentrato su ciò che avevo perso, ma su quello
che mi rimaneva, su quello che potevo fare nella
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vita, vedendola in piedi poco dopo. E’ impossibile
non provare qualcosa di enorme davanti a cose
come queste: quel padre è un esempio molto più
forte di quello che può essere Alex Zanardi, ma
d’altro canto il personaggio Alex Zanardi ha una
tale esposizione mediatica – sono dappertutto,
come il prezzemolo – che posso raggiungere
molte più persone. Quindi, se qualcuno nella sua
vita mi vede al volante della mia Z4 o a correre
sulla mia hand-bike e in quel gesto vede qualcosa di più di quello che sto fisicamente facendo,
traendone ispirazione non posso che esserne orgoglioso, e ringraziare Dio per avermi dato – sia
pure indirettamente – un potere tanto grande.
Ma io sono solo Alex Zanardi, un fortunato bastardo che ha la possibilità di fare tutto quello
che vuole e di essere pagato per farlo!»
Dove si trova l’ispirazione per continuare a
competere e a vincere come fa Zanardi?
«Capisco la domanda, perché quello che vedete di me sono le mie gare, le imprese sportive.
Ma per me non è che l’ultimo passo, l’orizzonte
La curiosità sorge quasi spontanea: come è
stato accolto Zanardi dalle comunità del paraciclismo e dell’automobilismo dopo l’incidente?
«E’ difficile dare una valutazione obiettiva, perché dopo quello che mi è capitato sono stato
soggetto ad una tale esposizione mediatica che
vengo riconosciuto e stimato più della media, e
forse più di quanto mi meriti. Però nella maggior
parte delle gare, soprattutto nel paraciclismo
dove i tifosi sono più vicini, vedo che c’è sostegno e incitazione verso tutti gli atleti. Certo, forse
ho portato un po’ di visibilità in più a certi sport –
sto cercando di rispondere alla domanda senza
autoincensarmi, ma è difficile – perché soprattutto in Italia la gente mi riconosce quasi ovunque vada e mi chiede un autografo o mi racconta,
lacrime agli occhi, quanto la mia storia lo abbia
ispirato» «Però possiamo trovare ispirazione
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di obiettivi che mi sono preposto. Mi diverto in
tutto il percorso che mi porta alla gara, non solo
nella gara. Certo, una volta che arrivo alla gara
è il risultato a diventare importante ma se non
mi fossi goduto ogni singolo giorno delle mie avventure, dei miei sacrifici, della mia preparazione, non sarebbe stata la stessa cosa. Non sono
salito sulla hand-bike per vincere due medaglie
d’oro, ho vinto due medaglie d’oro perché mi
piaceva andare sulla mia hand-bike! E’ la stessa
cosa quando corro in macchina – certo, correre
è bello, e vincere, battere tutti i tuoi avversari, ti
dà una sensazione fantastica ma per esempio,
il primo test di quest’anno a Vallelunga, dopo
quattro anni di assenza dalle gare… quando
stavo lì, seduto nell’abitacolo, in una bella giornata, con l’erba verde, il cielo azzurro e 500 cavalli
sotto il sedere con cui giocare a mio piacimento… beh, ero felice come un maiale nel fango! Era
bellissimo, quando è questo l’approccio il successo non è che la logica conseguenza di quello
che si fa. Non è questione di determinazione, impegno o cose del genere: lo fai perché ami farlo, e
non solo in Alex Zanardi, ma in tante persone
attorno a noi, in una madre che si alza la mattina anche se è malata per andare a lavorare per
mantenere la sua famiglia. Nel mio percorso di
riabilitazione ho incontrato persone meravigliose: un giorno, a Imola, vidi un uomo che teneva in
braccio una bambina – non capivo perché fosse
lì finché non ho visto che la bimba non aveva le
gambe. Stava piangendo, ma quando mi sono
avvicinato l’ho visto girarsi e guardarmi con un
sorriso che contrastava con le lacrime. Gli chiesi se stava bene, lui mi rispose che era il giorno
più felice della sua vita. Sua figlia era nata senza
gambe, e i dottori gli avevano detto che avrebbero dovuto aspettare fino ai quattro anni per
darle le prime protesi – il giorno era arrivato. Il
dottore gli aveva chiesto “E le scarpe?”. Lui aveva dovuto correre fuori per comprare un paio di
scarpe per sua figlia per la prima volta nella sua
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risvegliato gradualmente perché potessi scoprire da lei come erano andate le cose prima di
rendermene conto in prima persona. Poi ho scoperto i dettagli – che il mio cuore si era fermato
sette volte, che mi avevano dovuto trasfondere
una quantità incredibile di sangue dopo aver
resistito oltre 15 minuti con meno di un litro in
corpo. Una cosa incredibile, la scienza non contemplava la possibilità di sopravvivenza per una
persona nelle mie condizioni, men che meno
un recupero delle funzionalità degli organi interni e del cervello come è stata la mia. Insomma, dopo quel momento avevo una vaga idea di
cosa mi era capitato, ed ero così felice di essere
vivo, quindi mettermi al lavoro per riorganizzare
le cose della mia vita non è stato un progetto,
un’attività necessaria quanto un vero e proprio
dono che avevo ricevuto – poter continuare la
mia vita, non dover ripartire. Ecco perché non
mi sono fermato, perché mi sono concentrato su
quello che potevo fare, sono stato così determinato per arrivare dove potevo: avevo visto altra
gente tornare ad avere una certa qualità di vita,
ed essendo una persona molto ottimista ho pensato dentro di me di poter fare di più»
se hai sufficiente talento prima o poi il tuo giorno
arriverà. Credo che la parola che definisce tutto
questo sia “passione”»
Non molti però riescono a trovare la forza per
maturare l’approccio di Zanardi alla sua nuova
condizione
«Beh, ognuno di noi è unico, diverso da tutti
gli altri. Reagiamo ognuno a modo suo, e il più
delle volte non sappiamo nemmeno come reagiremmo se ci trovassimo nelle condizioni con
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cui qualcun altro è costretto a misurarsi. Se io
avessi visto quello che mi è capitato succedere
a qualcun altro avrei sicuramente fatto parte
della schiera di chi dice “Wow, guarda quel tipo
– io non ce l’avrei mai fatta a fare quello che ha
fatto lui” ma… è successo a me, e sicuramente
non avevo pianificato né il mio incidente né la
mia reazione successiva. Quello che posso dirvi è che uscito dal coma, nel mio letto d’ospedale, mia moglie mi ha detto cosa mi era successo – era una cosa voluta, i medici mi hanno
E sicuramente ci è riuscito, viste le prestazioni
dimostrate tanto al volante che in sella. Che
differenza c’è, a proposito, in termini atletici
nei due sport?
«Fisicamente è molto diverso: chiaramente
competere nel paraciclismo è più impegnativo.
Ci sono tanti tipi di discipline raccolte sotto l’egida delle Paralimpiadi, in certune il livello non è
elevatissimo e lo si vede dal fatto che sfortunatamente a volte arriva alle un ex campione dello
sport tradizionale e batte i record con un margine incredibile, il che fa chiedere se ci si trova
davanti ad un mostro o se, più semplicemente, il
livello della competizione non fosse esattamente
irresistibile. Nel paraciclismo credo che invece
il livello sia piuttosto alto, soprattutto nella mia
categoria anche se la partenza non è affollatissima, soprattutto perché è molto costoso per le
squadre schierare i propri atleti quindi i team
portano solo quelli che hanno una reale possibilità di fare bene. Ma siamo piuttosto veloci – le
nostre velocità medie arrivano a 45 km/h su distanze di 20 km, sono numeri interessanti anche
per i ciclisti, figuratevi per uno che spinge la sua
bici con le braccia! E molto impegnativo, bisogna allenarsi molto, con metodo e grande regolarità. Fortunatamente ho un ottimo allenatore,
che ha 16 anni meno di me – ironico, di solito è
il contrario – e lavoriamo molto bene insieme»
«Psicologicamente, invece, è quasi facile rispetto agli sport motoristici – si tratta di una forma
di competizione in cui non si possono commettere errori. Non è un match di tennis, in cui uno
può sbagliare un colpo, mandare la palla in rete,
imprecare, magari rompere la racchetta per poi
riprendere, ritrovare la concentrazione e magari vincere comunque l’incontro. Negli sport
motoristici quando sbagli e finisci nella ghiaia è
finita, arrivederci – nel migliore dei casi bisogna
aspettare due settimane per avere una seconda
opportunità, ma quella è comunque sprecata
per sempre. Psicologicamente è uno sport durissimo, ma anche fisicamente è diventato più impegnativo che in passato – quello che faccio ora,
nel Blancpain GT Series è molto duro per via del
caldo: l’aria raggiunge i 50°, ci sono parti dell’abitacolo dove la temperatura arriva a 65° - l’altro giorno sono sceso dalla macchina e la suola
in gomma delle mie scarpe si era sciolta, anche
se ovviamente non me ne sono accorto mentre
guidavo (ride, ndr). Per cui si, è molto stancante soprattutto per una persona come me, senza gambe: gli arti sono le zone del corpo in cui
il sangue si rinfresca maggiormente durante la
circolazione. Non avendo le gambe sono un po’
come un motore a cui manca una parte del radiatore, ma certo, fisicamente non fatico come
faccio quando sono impegnato in una gara di
hand-bike, magari quando sono il favorito e gli
avversari si alleano contro di me come succederà qui a Greenville. Vediamo se ce la farò a finire
un’altra volta con il sorriso sulle labbra!»
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Emiliano Perucca Orfei
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