Sagrada Familia - serra distretto 71
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Sagrada Familia - serra distretto 71
di Luca Nannipieri La chiesa della Sagrada Familia a Barcellona ha una storia tra le più straordinarie che si possano raccontare. E’ una chiesa di una bellezza stupefacente, sicuramente una delle più belle di Spagna e di tutta Europa, ma se guardiamo soltanto la sua bellezza, capiremmo ben poco della grande sfida che questa chiesa, dall’atto della nascita, ha voluto dare al nostro tempo. La Sagrada Familia racchiude infatti una vicenda che va assolutamente conosciuta: la vicenda è quella di Antoni Gaudí, la cui vita può essere un punto di riferimento massimo, inaudito, profondamente cristiano, per le nostre vite e le nostre azioni. Antoni Gaudí (1852-1926) non è stato infatti solo uno dei maggiori architetti tra Ottocento e Novecento, ma una fervida personalità cristiana, la cui fede ha animato non solo il suo talento artistico ma anche le sue azioni quotidiane. Il suo processo di beatificazione è iniziato nel 1998. In nessun altro luogo si concentra così visibilmente la fede cristiana di Gaudí e il suo testimoniare in vita, con azioni e progetti, il messaggio cristiano, quanto nella Sagrada Familia. Conoscere la storia della Sagrada Familia è conoscere la profonda dedizione a Cristo che Gaudí ci ha lasciato. Sebbene la Sagrada sia una chiesa enorme, spaziosissima, alta più di 170 metri (la basilica di San Pietro a Roma arriva a 136), non è stata voluta da un pontefice, da re o da un potente. Non è stata voluta da granduchi, principi o ragguardevoli mecenati. Chi la volle, all’inizio, nel 1866 fu una semplice associazione di devoti a San Giuseppe. Misero pian piano i soldi in colletta e nel 1881 comprarono un terreno. Chi coordinava tutto era un libraio: Josep Maria Bocabella. Decisero una semplice regola morale: la chiesa sarebbe stata costruita solo grazie alle offerte, alle donazioni, alle elemosine che riceveva. Doveva essere la chiesa del dono e della volontà. E così fu. Dopo un primo architetto che nel 1882 progettò la cripta, arrivò un giovane di 31 anni che avrebbe, con quella chiesa, cambiato il volto dell’arte e della volontà umana: Antoni Gaudí. Mentre la progettava e la disegnava, gli piaceva parlare al plurale: la mia chiesa, la nostra chiesa. La nostra cattedrale. Non c’era ancora, ma lui ne parlava come se ci fosse. «Per realizzarla dobbiamo contribuire tutti, perché deve essere la chiesa di un popolo, di un popolo intero». Era convinto di questo: chiunque doveva contribuire alla realizzazione della Sagrada Familia. E chiunque poteva farlo perché ciascuno è nelle condizioni, se vuole, di dare qualcosa. Per essere la cattedrale del popolo, deve essere fatta dal popolo, deve essere sentita, condivisa, costruita pietra su pietra con il favore della gente che le vive attorno, che le vive nelle strade vicine, nei quartieri circostanti. Lì sta la differenza. Un palazzo privato o un castello o una villa li fai per il padrone. Una cattedrale invece non la fai per un padrone, e non la fa un solo architetto: la fanno migliaia e migliaia di persone, generazioni e generazioni di persone. Anni dopo anni, decenni dopo decenni. Gaudí certo la stava ideando, ma per tirarla su, non bastava lui, non bastavano le sue mani, né il suo talento d’architetto. Lui era solo il modellatore, ma per realizzarla servivano tutti. Non doveva essere un’opera personale, un’opera sua. Doveva essere una maestosa opera corale. Il grande tributo di un popolo alla sua terra, alle sue origini, al destino cristiano in cui credeva, al futuro delle generazioni che verranno. Il via vai di manovali, carpentieri, muratori, forgiatori, stuccatori, che si alternavano nel salire e scendere dalle prime impalcature, che sorreggevano i primi muri che erano stati fatti, era un via via che si sarebbe ripetuto nei decenni, nei secoli, perché una grande cattedrale non viene costruita in pochi anni. Come nel Medioevo, come a Milano o Parigi o Firenze, la cattedrale è sempre stata così, un avvenimento popolare, tante mani, tante braccia, un fare di tanti, diluito nei decenni, nei decenni che si facevano secoli, nei secoli che spesso si sono fatti millenni. «Gente insignificante ha dato rilevanti contributi per grandi cose; prima di tutto con la buona volontà; poi mettendo in gioco le proprie buone volontà», diceva Gaudí. La chiesa è l’unica cosa capace e degna di rappresentare il sentire di un popolo. Lo ripeteva sempre con convinzione, e lo aveva studiato anche bene: per costruire il duomo di Milano, ad esempio, non servirono solo il vescovo e il potente duca Gian Galeazzo Visconti, ma servirono soprattutto le piccole offerte del popolo di quella città, la prostituta, il verduraio, il mercante d’armi, il ricottaio, chi offriva una moneta, chi il formaggio, chi un gruzzolo di denari. Chi lo faceva per affari, chi per interesse, chi per discolparsi dai peccati, chi per prestigio sociale, chi perché ci credeva davvero che dovessero esistere luoghi così, luoghi simbolo che uniscono le persone. Così per la cattedrale di San Vito a Praga, per quella di Notre-Dame di Rouen, per quella di Nostra Signora di Strasburgo iniziata appena dopo l’anno mille e finita quasi cinquecento anni dopo, e per le molte altre che punteggiano da secoli le terre d’Europa. Ci volevano generazioni e ciascuno contribuiva a suo modo. Così sarebbe stato anche per la Sagrada Familia. Non era come per Palazzo Güell o Casa Batlló o Casa Vicens, tutti edifici che Gaudí aveva fatto a Barcellona per il piacere di un ricco industriale o mercante. Nella Sagrada Familia l’imperativo era chiaro: la chiesa doveva essere costruita con gli omaggi di chi voleva contribuire. La grande sfida è che non è avvenuta nel Medioevo, ma nel nostro tempo, in cui si dice che ognuno pensa a se stesso. Gaudí vi lavorò senza sosta, dal 1883 al momento della morte: nei primi tempi alternò altri lavori, nell’ultimo decennio invece si dedicò solo alla cattedrale, dormiva nel cantiere, lavorava e viveva nel cantiere e, se usciva, lo faceva per reperire fondi ed elemosine. Il progetto che aveva in mente, che sbozzava e risbozzava in schizzi e modelli, doveva essere grandioso: mai visto niente di simile in terra spagnola. La chiesa principale di Barcellona, dedicata a Santa Croce e Sant’Eulalia, era massiccia e slanciata in pieno stile gotico, ma cattedrali simili e migliori erano state costruite a Parigi o a Reims o a Chartres o a Beauvais; la chiesa di Santa Maria del Mar, sempre a Barcellona, era alta e purissima nelle sue arcate e nelle sue navate che sembrano innalzarsi all’infinito: ma non bastava. Lui desiderava altro. La Sagrada Familia doveva essere qualcosa che non aveva confronti. Grande quanto? Grande. «Nei templi greci e nel loro recinto sacro potevano entrare solo i sacerdoti. Nei templi di Roma aveva accesso solo l’augure. La chiesa cristiana invece deve essere grande perché è aperta a tutti, persino ai malvagi». Il cantiere della Sagrada Familia era sempre aperto. Oltre a scultori, tagliapietre, forgiatori e i suoi architetti di fiducia, il cantiere era frequentato da molti studenti della scuola di architettura. Andavano lì, si recavano tra quegli assi di metallo, di legno, tra quei prototipi, quegli schizzi, quelle funi, quel cemento, stavano con Gaudí nel suo studio, tra stampi di gesso, riproduzioni in scala, rotoli di carta, libri, regoli graduati, tiralinee, compassi, squadre, mole per affilare gli arnesi, zeppe, morse. Gaudí li voleva attorno a sé. A sera e a mattina girava per strada, attorno al cantiere della Sagrada Familia, per convincere le persone affinché donassero una moneta o facessero un elemosina. Negli ultimi tempi, non si distanziava più dal cantiere, dormiva e mangiava nel suo laboratorio affinché la costruzione della chiesa fosse per lui l’impegno totale e totalizzante della sua vita cristiana. Quando morì, investito da un tram, nel 1926, aveva costruito appena la facciata della Natività. Una delle tre facciate. E soltanto quattro torri delle diciotto che aveva ideato. Ma il progetto complessivo era stupefacente. Al suo funerale parteciparono centomila persone. Eccola, la grande sfida al nostro tempo. Aveva aggregato attorno al mistero della bellezza di quella cattedrale, attorno ad un luogo cristiano, migliaia e migliaia di individui. E difatti, la Sagrada Familia poteva rimanere incompiuta dopo la sua morte. E’ accaduto a molte altre sfide lanciate dagli uomini. Anzi, forse a quasi tutte. Oppure poteva finire come le chiese dell’antichità senza facciata, ferme ormai da secoli al loro stadio di irrealizzate. Invece è andata diversamente: la vera opera di Gaudí è nata proprio in quel momento, nel momento in cui lui è scomparso. Dopo che se ne è andato, è iniziato il vero lavoro, la vera grande sfida che lui aveva acceso e che ora infine si concretizzava, si metteva in marcia: costruire non la cattedrale, ma il popolo che vuole la cattedrale, che realizza la cattedrale. Nei mesi, negli anni, addirittura nei secoli. Infatti i lavori non si bloccarono. Anzi proseguirono, in un lungo passa-bandiera di architetti, capomastri, capocantieri, gessisti, tagliatori di pietre, pittori, ceramisti, architetti, geometri, urbanisti, e un altrettanto lungo passa-bandiera di disegni, schizzi, prove, modelli, intuizioni, errori, correzioni, che si è protratto per tutto il Novecento. E a questo ancora si aggiungevano le elemosine di tutti i giorni, in un lungo elenco fatto di monetine, centesimi, peseta, donazioni, lasciti testamentari. La Sagrada Familia non si fermò neppure durante la durissima guerra civile del 1939, durante la dittatura di Franco che è arrivata fino al 1975. Venivano da Barcellona a vedere la cattedrale, poi da tutta la Spagna, poi da tutto il mondo. Giovanni Paolo II nel 1982, Benedetto XVI nel 2010. A tal punto conosciuta che ora nessuna persona venuta in città non si reca a vederla. Oggi ha 2 milioni di visitatori l’anno. La sua forza e la sua bellezza sono il suo essere in costruzione, il suo non fermarsi. Tuttora non è ancora compiuta. E non si è fermata e non si sta fermando perché lo ha richiesto, lo richiede, lo vuole, lo incita il popolo, la gente, le persone, prima una piccola associazione di devoti, poi le persone del luogo, prima migliaia di turisti, poi migliaia e migliaia, poi decine e decine di migliaia, poi milioni di turisti ogni anno. La fine è prevista tra qualche decennio. Ma non importa quando sarà compiuta. E’ la chiesa del dono, esempio massimo di quanto possa la volontà degli uomini quando si uniscono, partecipano e donano. Biografia: Luca Nannipieri è nato a Pisa nel 1979. Laureato all’Università di Bologna. Scrive di cultura, politiche culturali e arte sul quotidiano Il Giornale, oltre che su Libero ed Europa. Suoi articoli sulla cultura sono usciti anche sul Corriere della Sera (edizioni Bologna e Firenze), Il Resto del Carlino, La Nazione, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Voce di Romagna, Artribune, Chicago Blog. E’ membro del Comitato Scientifico della Fondazione Magna Carta, diretta dal Ministro per le Riforme Costituzionali del Governo Letta on. Gaetano Quagliariello. I suoi ultimi libri sono: Libertà di cultura. Meno Stato e più comunità per arte e ricerca (Rubbettino, 2013) La cattedrale d’Europa. La Sagrada Familia (San Paolo, 2012) La bellezza inutile. I monumenti sconosciuti e il futuro della società (Jaca Book, 2011) Salvatore Settis e la bellezza ingabbiata dallo Stato (Ets, 2011) La memoria è il futuro dei libri (Ets, 2011), con Carla Guiducci Bonanni, Sottosegretario ai Beni culturali del Governo Dini. E’ direttore e fondatore del Centro Studi Umanistici dell’Abbazia di San Savino, un centro di ricerca per lo studio del patrimonio storico-artistico in stato di degrado e delle comunità che si sviluppano attorno. Collabora con la Fondazione Bruno Leoni come esperto di beni culturali. Riferimenti: www.lucanannipieri.com [email protected] [email protected]
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