ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea Magistrale in Lingua, Società e Comunicazione Il processo di professionalizzazione del community interpreter. Problemi ed implicazioni della legittimazione di una nuova figura lavorativa. Tesi di Laurea in Mediazione Inglese Relatore Presentata da Prof.ssa Mette Rudvin Verena Guidi Correlatore Prof.ssa Cinzia Giacinta Spinzi Sessione II Anno Accademico 2011-2012 1 2 Indice Introduzione ………………………………………….………………… Pag. 7 Capitolo 1: Community Interpreting ………………...…...…...……... Pag. 9 1.1 L’interpretazione nella storia …………………...………...… …... Pag. 10 1.2 Translation e Interpreting Studies ………………………….……. Pag. 13 1.3 Terminologia e definizioni: community interpreting, conference interpreting, court interpreting ………………………………… Pag. 19 Capitolo 2: Il ruolo dell’interprete ………...……………………...…. Pag. 29 2.1 Community interpreter: dove, come, quando ….…………..…… Pag. 30 2.2 Il rapporto tra linguaggio e cultura ……………………………… Pag. 35 2.3 L’interprete come partecipante attivo ………………………….. Pag. 40 2.4 L’interprete e la percezione di se stesso ………….……………. Pag. 50 Capitolo 3: La formazione del community interpreter ……………... Pag. 55 3.1 L’importanza della formazione …………………………………. Pag. 56 3.1.1 La formazione in Italia: il caso di Forlì e Trieste.….…..… Pag. 64 3.2 L’impatto della tecnologia ………………………………………. Pag. 67 3.3 I rischi dell’impiego di interpreti ad-hoc ……...………………… Pag. 71 Capitolo 4: La questione della professionalizzazione ……………….. Pag. 75 4.1 Teorie sul processo di professionalizzazione…………....……….. Pag. 80 4.2 La valutazione della qualità…………………………………........ Pag. 89 4.3 Le agenzie di interpretazione..…………………………………… Pag. 96 3 Capitolo 5: Community interpreting in giro per il mondo …………. Pag. 102 5.1 Le eccellenze: Australia e Svezia……………...…………………. Pag. 102 5.2 Differenti livelli di sviluppo: Stati Uniti, Canada, Spagna a confronto.....……………………………………………….…………. Pag. 107 5.3 Approfondimento sull’Italia……………………...………………. Pag. 112 Conclusione …………………………………………………………. … Pag. 121 Bibliografia …………………………………………………………….. Pag. 125 Ringraziamenti ………………………………………………………… Pag. 137 4 A man who has no acquaintance with foreign languages knows nothing of his own. Johann Wolfgang von Goethe (Maxims and Reflections1) 1 E-book disponibile in Project Guemberg http://www.gutenberg.org/files/33670/33670-h/33670-h.htm 5 6 INTRODUZIONE Il presente elaborato intende proporre un’analisi della figura del community interpreter, o interprete di comunità, che può essere definito come il professionista che opera nell’ambito dei servizi pubblici e sociali. L’interesse specifico di tale lavoro è osservare il processo, ancora in divenire, attraverso il quale l’interprete si è affermato – in taluni paesi – o si sta affermando – in altri come l’Italia – come lavoratore professionista che rivendica la legittimazione della propria attività e il riconoscimento di rispetto e dignità (tanto dal punto di vista morale quanto da quello di un’equa remunerazione economica) riservato a tutti gli altri professionisti nei più disparati settori. Nella prima parte andremo a fornire uno spaccato dello studio degli Interpreting Studies (IS), indispensabile per poter comprendere appieno l’ambiente e le situazioni in cui il community interpreter si trova ad operare. Si cercherà di spiegare in cosa consista il variegato ambito del community interpreting e di cosa si occupi in particolare, in quali settori lavori e in cosa differisca dagli altri tipi di interpretariato. In seguito verrà proposta un’analisi generale di questo tipo di figura professionale, con una particolare attenzione alle implicazioni etiche e socioculturali intrinsecamente presenti nel suo ruolo ed alle sue funzioni all’interno della dinamica del discorso. Il seguente capitolo affronterà l’ampia e disomogenea tematica della formazione e del training del community interpreter, dove ci troveremo necessariamente a sottolineare tutti gli aspetti negativi della questione e spiegheremo come possano portare, nel peggiore dei casi, ad una cattiva riuscita dell’atto di interpretariato. Oltre a rimarcare la necessità e l’importanza di una preparazione adeguata e di alto livello per ricoprire tale ruolo, si indagherà sui possibili casi di assunzioni adhoc e sulla potenziale pericolosità di tale pratica, spesso molto diffusa, e sull’influenza delle più recenti tecnologie sull’attività dell’interpretazione e sul suo insegnamento. 7 Il capitolo più importante è senza dubbio quello dedicato all’annosa questione della professionalizzazione. La letteratura dedicata all’argomento non è vastissima ma negli ultimi tempi gli esperti del settore, gli studiosi e gli stessi praticanti dimostrano sempre più interesse a riguardo, a dimostrazione della fase di espansione che questa disciplina sta vivendo. Seguendo questi lavori di ricerca come filo conduttore si esamineranno tanto gli aspetti teorici ed etici (il ruolo dell’interprete, i concetti di neutralità e responsabilità) quanto quelli più prettamente pratici (la figura del cliente, delle agenzie, come si ottengono gli incarichi, come funzionano i servizi nelle istituzioni pubbliche). La professionalizzazione è un processo delicato e complesso, poiché all’evoluzione della figura dell’interprete e delle sue mansioni si intrecciano le dinamiche di mercato e il conseguente ed inevitabile risvolto economico – e spesso anche politico – degli incarichi. Senza dubbio la confusione che ancora regna a riguardo e le grandi differenze tra un paese e l’altro non favoriscono la costituzione di criteri e linee guida internazionalmente validi, ma è necessario stabilire un modello quanto più possibile condiviso per far sì che l’attività e la professione dell’interprete ricevano indiscusso riconoscimento internazionale. Nella parte finale una panoramica generale illustrerà la situazione del community interpreting in vari paesi del mondo con differenti storie e tradizioni alle spalle; esamineremo come questa professione sia nata e si sia evoluta nel corso del tempo e come su questo processo abbiano influito fattori politici e sociali come l’immigrazione. Vedremo quali paesi sono i leader in termini di sviluppo e normalizzazione e quali invece sono ancora in fasi più arretrate di questo percorso. In questa parte finale una sezione a parte sarà ovviamente dedicata all’Italia; oltre all’analisi dello stato della professione del nostro paese e dei problemi quotidiani che essa si trova ad affrontare a causa della scarsa chiarezza sui compiti e i limiti dell’interprete, si tratterà di una questione che accomuna molte professioni in cerca di legittimazione, la creazione di un albo di stato. Esistono attualmente varie federazioni ed associazioni che rivendicano di riunire gli interpreti italiani, molto autonome e diverse tra loro per struttura e regolamenti. 8 CAPITOLO 1 COMMUNITY INTERPRETING Prima di intraprendere la dissertazione sul community interpreting, un excursus sulle origini di questa materia si rivela opportuno e necessario per comprendere i temi che andremo ad affrontare di qui a poco. È importante in primis definire cosa siano traduzione ed interpretazione (discipline “sorelle” ma che presentano differenze così marcate da renderle indipendenti l’una dall’altra) e subito dopo focalizzare da dove abbia avuto inizio il community interpreting e che relazione abbia con le altre tipologie di interpretazione, essendo così relativamente recente, e per questo la meno trattata tra le varie categorie che a breve verranno citate. Partendo ab ovo, va specificato come il community interpreting faccia parte della grande famiglia dell’interpreting. Secondo molti autori tra cui Hale (2007:3)2 l’interpretazione a sua volta è sempre stata considerata una branca della traduzione. Come è facilmente immaginabile, traduzione ed interpretazione hanno sempre avuto un ruolo cruciale nella storia dell’umanità, fin da quando si sono registrati i primi contatti tra i popoli. Entrambe sono attività antichissime, ma mentre la prima è sempre stata importante ed apprezzata (pensiamo per esempio al ruolo che la traduzione di testi e manoscritti ha avuto nella diffusione del sapere e della cultura nei secoli passati), la seconda ha avuto un ufficiale riconoscimento di status solo a partire dall’epoca moderna, con la Seconda Guerra Mondiale come spartiacque che segna l’inizio dello sviluppo degli Interpreting Studies. Di seguito verranno illustrati il percorso nella storia dell’interpretazione, il ruolo cruciale che ha sempre avuto per l’uomo e il moderno processo di riconoscimento accademico della materia. 2 Hale S.B. (2007), Community Interpreting, Hampshire: Palgrave MacMillan 9 1.1 L’interpretazione nella storia Non ci si può esimere dal tracciare un rapido excursus storico per inquadrare la figura dell’interprete nel corso dei secoli. È un’attività che esiste da sempre, e sappiamo bene quanto gli interpreti siano stati essenziali tanto nelle interazioni quotidiane della gente quanto nelle conquiste militari, nella diffusione di testi sacri, nell’espansione degli imperi, nell’amministrazione della giustizia (Giambruno 2008:28)3, insomma in tutti quei momenti della storia in cui persone che non condividevano la stessa lingua hanno avuto la necessità di interagire. Le prime testimonianze risalgono all’Antico Egitto, dove geroglifici ed iscrizioni tombali ci riferiscono dell’importante ruolo ricoperto dagli interpreti. Essi erano considerati persone “che parlavano le lingue strane”, visto che nella concezione di questa cultura solo gli Egizi erano considerati esseri umani mentre gli stranieri venivano definiti “miserabili barbari” (Hermann 1956:16)4. Oltre all’aspetto linguistico, come sostiene Hermann, l’interprete si occupava di altre funzioni come quella di guida o negoziatore durante gli scambi commerciali; il suo ruolo era pertanto molto importante all’interno della società. La caratteristica più interessante di questa civiltà è senza dubbio il fatto che fossero gli stessi Egizi a preoccuparsi di imparare le lingue (per esempio, era usanza collaudata mandare i giovani ragazzi nella zona del Delta del Nilo per imparare il greco, come ricorda Hermann) piuttosto che obbligare uno straniero ad imparare la loro lingua, e lo facevano per due diversi motivi: agli inizi del loro dominio era una mossa lungimirante per affermare il loro crescente potere, e successivamente un impulso conservativo affinché la loro lingua e scrittura non andasse incontro ad una desacralizzazione dovuta al contatto con lingue straniere (Hermann 1956:17). In Grecia, come spiega Angelelli (2004:8)5, gli interpreti erano considerati semidivinità capaci di svolgere diversi ruoli, non solo quelli legati agli scambi 3 Giambruno C. (2008), “The role of the interpreter in the governance of sixteenth- and seventeenth-century Spanish colonies in the New World”, in C. Valero Garcés. e A. Martin eds. (2008), Crossing Borders in Community Interpreting, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 28-49 4 Hermann A. (2002), “Interpreting in antiquity”, in F. Pöchhacker e M. Shlesinger eds. (2002), The Interpreting Studies Reader, London and NewYork: Routledge Language Readers: 15-23 5 Angelelli C. (2004), Revisiting the interpreters role : a study of conference, court, and 10 commerciali. In generale i Greci avevano disprezzo per tutti gli stranieri6 e perciò pretendevano che fossero gli altri a dover imparare il greco, quindi in tutte le occasioni di contatto con gli altri popoli, come Siriani, Egizi, Celti, ecc., dovevano ricorrere all’opera di un interprete. L’unica eccezione è rappresentata dal rapporto coi Romani. Questi ultimi erano abituati ad insegnare entrambe le lingue nelle scuole e non avevano questo atteggiamento negativo nei confronti delle altre lingue; al contrario la presenza di interpreti è attestata da varie iscrizioni in tutte le province romane e generalmente godevano di una buona reputazione. Perciò nel caso di contatti tra Greci e Romani la comunicazione era più semplice, dato che i secondi conoscevano il greco. L’interprete invece si rivelava assolutamente necessario in caso di relazioni col Senato Romano, nel quale per motivi di onore era vietato parlare in qualsiasi lingua che non fosse il latino (Hermann 1956:19). Una delle accezioni più importante del ruolo di interprete ai tempi degli imperi classici era quella di interprete militare: una pluralità di fonti e testimonianze storiche (in Hermann 1956) esemplificano chiaramente come il lavoro di questi specialisti fosse prezioso sia in guerra che nelle trattative di pace. Nell’antichità gli interpreti sono stati utilizzati anche come mezzo per diffondere credenze religiose e libri sacri. Per esempio, durante i viaggi verso l’Africa per motivi commerciali, gli Arabi ne approfittarono per islamizzare le popolazioni africane; così facendo l’arabo, la lingua del Corano, acquisiva sempre maggior importanza. Fu necessario interpretare anche la Torah in pubbliche letture per renderla fruibile ai popoli di lingua aramaica, greca e araba. Anche il Cristianesimo non fu da meno e si avvalse di ecclesiastici plurilingue per la sua opera di cristianizzazione dell’Asia (cf. Angelelli 2004). Un esempio straordinario nella storia dei Translation e Interpreting Studies è la Scuola dei Traduttori di Toledo, definita da Rodríguez González “una simbiosi perfettamente riuscita tra le tre grandi culture medievali: musulmana, giudaica e cristiana”7. La Scuola era un gruppo di lavoro creato presso la corte toledana per tradurre e diffondere tutti i più medical interpreters in Canada, Mexico, and the United States, Amsterdam ; Philadelphia : J. Benjamins 6 In greco βάρβαρος = “straniero”, ma anche “balbuziente”. È una voce onomatopeica derivante dal raddoppiamento del suono BAR, ad indicare che ai greci sembrava che tutti quelli che non parlavano greco emettessero dei suoni animaleschi e rozzi. Fonte: http://www.etimo.it/?term=barbaro 7 Fonte: il periodico spagnolo “Encuentros Multidisciplinares” http://www.encuentrosmultidisciplinares.org/Revistan%C2%BA19/Ricardo%20Rodriguez%20Gonz%C3%A1lez.pdf 11 importanti testi della classicità; la tecnica elaborata dal re Alfonso X prevedeva la traduzione scritta di un testo che prima veniva interpretato a voce sul momento; quindi la prima fase di trasmissione orale del testo aveva un grande peso sul risultato finale. L’interpretazione ha giocato un ruolo fondamentale anche in un’altra era destinata a cambiare la storia dell’umanità, l’epoca della conquista e della colonizzazione delle Americhe. Nel suo famoso viaggio del 1492, anche Colombo aveva provveduto a portare con sé due interpreti, che sfortunatamente per lui si rivelarono inutili una volta approdati in America. I colonizzatori spagnoli fin da subito si resero conto che il quadro linguistico era composto da decine e decine di idiomi diversi ed era assolutamente necessario trovare un sistema per comunicare con queste popolazioni. Pertanto alcuni indigeni venivano selezionati – o meglio obbligati – a diventare interpreti; spesso venivano portati in Spagna affinché imparassero la lingua ma anche la cultura dei colonizzatori, visto che il loro ruolo non era solo quello di tramite linguistico ma anche di intermediari, di anello di contatto tra colonizzatori e colonizzati. Il loro ruolo divenne così importante che meno di un secolo dopo l’arrivo di Colombo, nel 1573, fu necessario regolare con una legislazione apposita il loro operato. Vennero redatti dai sovrani spagnoli 15 decreti per disciplinare condizioni di lavoro, paga, compiti e doveri dell’interprete (cf. Giambruno, Angelelli). Nei secoli successivi, per ovviare al problema di comunicazione tra parlanti di diverse lingue, iniziò a diffondersi l’uso del francese come lingua franca, che progressivamente andò a sostituire il latino – tranne in ambito ecclesiastico. Un altro punto di svolta per gli interpreti si rivela essere il XIX secolo: in seguito al crescente potere in campo politico ed economico dei paesi anglofoni – Gran Bretagna e Stati Uniti -, i cui leader non conoscevano il francese, si iniziò a ricorrere ad ufficiali militari plurilingue in veste di interpreti. Gli esperimenti risultavano sempre più riusciti e la figura dell’interprete cominciò così il suo cammino verso la professionalizzazione. Punto chiave di questo cammino fu il processo di Norimberga alla fine della Seconda Guerra Mondiale: gli interpreti interpretavano simultaneamente dall’interno di apposite cabine. L’esito fu così positivo che dal 1947 una risoluzione delle Nazioni Unite stabilì che il 12 simultaneous interpreting diventasse un servizio permanente dell’organizzazione8. Questi avvenimenti storici spiegano appunto perché il conference interpreting abbia iniziato il suo processo di sviluppo e professionalizzazione molto prima rispetto alle altre sotto-categorie dell’interpreting, e allo stesso tempo abbia fatto loro da apripista. Per concludere ricollegandoci alla storia dei nostri giorni, Angelelli (2004:11) sottolinea come sia tornata alla ribalta l’importanza dell’interpretazione dopo avvenimenti drammatici come le guerre nei Balcani ed in Iraq e la strage dell’11/9. La collaborazione degli interpreti si rivela preziosissima nella lotta al terrorismo e la loro formazione viene promossa direttamente dal governo statunitense con sovvenzioni mirate alla creazione di particolari corsi di laurea e di ricerca. La riflessione generale che sorge dopo questa panoramica storico-sociale è che per l’interpretazione lo studio teorico e la ricerca accademica sono sempre stati trascurati e posti in secondo piano rispetto alla necessità di soddisfare i bisogni del mercato, come se l’unica cosa importante fosse accontentare nel minor tempo possibile le richieste del cliente. Questo ha implicato che i corsi nelle università e gli studi degli esperti siano partiti solo dopo essersi conto dell’importanza del ruolo dell’interprete nella società e soprattutto dell’importanza di avere professionisti ben preparati e formati per poter ottenere i migliori risultati possibili. 1. 2 Translation e Interpreting Studies Lo studio della traduzione in quanto materia accademica, come ricordato da Munday (2008:5)9 è iniziato all’incirca negli anni Quaranta del secolo scorso; una definizione universalmente accettata, dopo altre proposte che non avevano trovato un riscontro unanime, è stata coniata solo nel 1972 da Holmes che ha proposto il 8 Testo della risoluzione consultabile a pag. 61 del seguente documento: http://daccess-ddsny.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/038/59/IMG/NR003859.pdf?OpenElement 9 Munday J. (2008), Introducing translation studies, London/New York: Routledge 13 termine Translation Studies (in Venuti 2000)10. Fin da subito, però, si è riscontrato un generale accordo nel ritenere traduzione ed interpretazione due discipline separate, riconoscendo come maggior criterio di differenziazione il fatto che la traduzione si occupa del testo scritto e l’interpretazione del testo orale11 (cfr. Shuttleworth & Cowie 1997 in Manfredi 2008)12. Le implicazioni dell’opposizione tra oralità e scrittura possono essere così esplicitate (Baker 1998:53)13: - I traduttori devono avere familiarità con le regole della lingua scritta ed essere competenti nella lingua di destinazione; gli interpreti devono conoscere bene le caratteristiche della lingua orale e devono saperla parlare fluentemente - I traduttori possono acquisire conoscenze supplementari durante la traduzione mentre gli interpreti devono acquisirle prima - Gli interpreti devono saper prendere decisioni molto più in fretta rispetto ai traduttori Come ci illustra Hale (2007:9) nella figura, proprio la traduzione e il community interpreting si trovano agli opposti di un ipotetico continuum che spiega le principali differenze tra le varie attività. ---T--------SubT--------ST--------SI---------CI---------DI---------(Ch)--- Target audience-oriented--------------------------------Author/speaker-oriented Monologic ----------------------------------------------------------- Dialogic More time to prepare ------------------------------------------ No time to prepare Text availability ----------------------------------------------- No text availability Continuum of different types of transaltion activities T: Translation, SubT: Subtitling, ST: Sight Translation, SI: Simultaneous Interpreting, CI: Long Consecutive Interpreting, DI: Dialogue Interpreting, Ch: Chuchotage. In generale possiamo osservare come l’interpretazione operi in un contesto dialogico, dove cioè troviamo due o più parlanti; ovviamente non ha a disposizione un testo sul quale prepararsi né tempo per prepararsi prima del 10 Holmes, James S. (1972), "The name and nature of Translation Studies", in Venuti, Lawrence ed. (2000/2004), The Translation Studies Reader, New York/London: Routledge, 180-192. 11 In questo elaborato si intende per testo “una produzione linguistica (orale o scritta) fatta con l'intenzione e con l'effetto di comunicare” (Serianni 2007:23). 12 Manfredi M. (2008), Translating text and context: Translation studies and systemic functional linguistics, disponibile a: http://amsacta.unibo.it/2393/1/Manfredi_2008_Monografia.pdf 13 Baker M. ed. (1998), The Routledge Encyclopedia of translation studies, London/New York: Routledge 14 lavoro, visto che gli atti locutori dei parlanti sono spontanei e non precedentemente organizzati. Caratteristiche principali della traduzione, invece, sono quelle di avere a disposizione un testo scritto da esaminare e sul quale prepararsi, solitamente monologico (cioè scritto da un unico autore), per la traduzione del quale verrà tenuto in grande conto il tipo di pubblico per il quale si sta traducendo il suddetto testo. Anche i percorsi di studio accademico di queste due discipline si sono presto divisi – pur mantenendo molti aspetti in comune – dando vita ai Translation Studies (TS) ed agli Interpreting Studies (IS). I TS si occupano dello studio della traduzione intesa sia nel suo aspetto teorico che in quello pratico, poiché, in accordo con l’opinione di Manfredi (2008:27), la pratica senza un background teorico tende a diventare un mero esercizio soggettivo, e allo stesso tempo una teoria della traduzione che non sia strettamente collegata all’aspetto pratico è semplicemente un’astrazione. I primi scritti e i primi riferimenti alla traduzione come materia risalgono a centinaia di anni fa, ne possiamo trovare traccia nei testi di grandi autori classici come Cicerone, Orazio e San Gioacchino (che si interrogavano sulla differenza tra traduzione letterale e traduzione libera) (in Munday 2008). Sebbene ci fosse stato qualche sporadico caso in precedenza, in generale i TS sono emersi negli anni Settanta del secolo scorso, hanno vissuto una fase di grande sviluppo negli anni Ottanta ma sono letteralmente proliferati negli anni Novanta. Prima degli anni Settanta, come nota Munday (2008:8) la traduzione era considerata solo come un elemento nell’apprendimento del linguaggio nei corsi di lingue moderne. Nel corso di cinquant’anni questo campo di studio ha attraversato grandi cambiamenti nella metodologia di studio e di ricerca. L’approccio monolitico viene progressivamente abbandonato, considerando che il linguaggio – che sta alla base di tutti gli studi linguistici e letterari – viene visto non più come “un sistema assoluto ed immutabile appartenente esclusivamente ad una nazione/gruppo” (Rudvin 2006:28)14 ma come un fenomeno dalle molteplici sfaccettature e tutte le 14 Rudvin M. (2006b), “The cultural turn in community interpreting. A brief analysis of epistemological developments in Community Interpreting literature in the light of paradigm changes in the humatities”, «LINGUISTICA ANTVERPIENSIA», 2006, 5/2006, pp. 21 – 41, disponibile a: http://www.lans-tts.be/img/NS5/rudvin.PDF 15 categorie che lo riguardano (traduzione, linguistica, ma anche antropologia e filosofia) devono essere intesi come fattori che interagiscono in un sistema dinamico e in continua mutazione. Progressivamente la traduzione abbandona l’etichetta di “linguistic transcoding” e “literary practice” (Manfredi 2008:28) e, passando attraverso studi fondamentali come quello di Snell-Hornby che propone il cosiddetto “integrated approach”, si avvicina a quella di interdisciplina. Una vera interdisciplina, secondo la definizione di McCarty (in Munday 2008:14) è “un’entità che si colloca negli interstizi tra una disciplina e l’altra, collaborando con esse”; tutte sono incastonate in un sistema gerarchico che fa sì che esistano relazioni primarie e secondarie. La seguente figura di Hatim e Mason spiega graficamente i rapporti tra TS e le altre discipline connesse ad essi (in Manfredi 2008:29): Figura 2: Map of TS and disciplines interfacing with it Attualmente questa disciplina è in gran fermento e non mancano gli studi sulla pratica della traduzione in sé, sul contesto socio-culturale, sull’operato dei traduttori e sulle loro attitudini. Oggigiorno giocano un importante ruolo gli studi che si concentrano sulla proliferazione delle nuove tecnologie che stanno 16 trasformando l’attività della traduzione e di conseguenza hanno un grande impatto sulla sua teorizzazione. Il successo della traduzione come materia accademica è dimostrato dalla grande varietà di corsi universitari, convegni e seminari, oltre che di periodici e riviste specializzate. Viste le notevoli differenze con la traduzione, e prendendo spunto dal cammino accademico di questa disciplina, negli anni seguenti all’inizio dei Translation Studies, assistiamo alla nascita degli Interpreting Studies. La ricerca sull’interpretazione inizia negli anni Sessanta, ma il suo vero sviluppo sotto la denominazione di Interpreting Studies si ha solo negli anni Novanta; vista la sua crescente importanza, era proprio giunto il momento che lo studio dell’interpretazione avesse una sua denominazione scientifica. Pöchhacker e Shlesinger (2002)15 sottolineano come lo scopo degli IS fosse lo stesso proposto inizialmente da Holmes per la traduzione, cioè descrivere il fenomeno dell’interpretazione e stabilire regole e principi generali ed esplicativi. Ma la sfida più grande è apparsa da subito quella di dare una descrizione omogenea ed unificatrice della natura dell’interpretazione e delle sue tante subcategorie (che analizzeremo di qui a breve). Considerando – come si è fatto anche per la traduzione – la natura del linguaggio così complessa ed interattiva e così intrinsecamente legata al contesto politico e socioculturale in cui è immerso, si è presto abbandonato un approccio di tipo monolitico per considerare l’importanza di questioni quali “aspetti culturali, ideologie politiche, power relations, la complessità del ruolo dell’interprete” ecc. (Rudvin 2006:22). Insomma, pare davvero riduttivo provare a considerare l’interpretazione come un mero atto di comunicazione linguistica senza tener conto di tutte le implicazioni e le complessità che tale attività porta con sé. Un esempio di ciò è il celebre Discourse and Interaction Paradigm (DI) proposto da Wadensjö (in Pöchhacker 2007:17)16, che per lo studio dell’interpretazione propone di utilizzare concetti e metodi di settori quali sociolinguistica, psicologia sociale e analisi conversazionale. 15 Pöchhacker F. e Shlesinger M. eds. (2002), “Introduction”, in F. Pöchhacker e M. Shlesinger eds. (2002), The Interpreting Studies Reader, London and NewYork: Routledge Language Readers: 1-13 16 Pöchhacker F. (2007), “Critical linking up”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 11-23 17 Oramai pare anche definitivamente abbandonata l’idea che gli IS siano una branca dei TS, anche se ovviamente non si può negare il legame di parentela tra interpretazione e traduzione. Una giustificazione di ciò è la semplice considerazione che studiano argomenti diversi, e – come ricordano Pöchhacker e Shlesinger (2002) – a parte pochissime eccezioni, nessuno dei principali temi dei TS (la nozione di equivalenza, le strategie di traduzione) sono stati inclusi negli studi di ricerca dell’interpretazione. Come sottolinea anche Roy (ibidem:347)17, considerando la progressiva differenziazione tra traduzione ed interpretazione, sia gli studiosi che i professionisti si sono resi conto che la base teorica per lo studio di questa disciplina non può più fare affidamento sulle teorie della traduzione ma deve costruire la sua propria teoria, anche prendendo in prestito o adattando nozioni dalla sociolinguistica, dai cross-culture studies e altre discipline similari, in linea con il pensiero di Wodak (in Wadensjö, 1998:81)18 che promuove il “multi-method approach” per le scienze sociali, sostenendo che metodi qualitativi e quantitativi di ricerca non si escludono, ma al contrario, si completano a vicenda. Per poter diventare oggetto di studio e ottenere riconoscimento a livello accademico, un’attività deve seguire un percorso che prevede alcune tappe principali, in primis la pubblicazione di manuali e guide e quella di studi e ricerche sul settore. Le prime importanti pubblicazioni si sono avute negli anni Ottanta, ma all’epoca i contatti tra i vari studiosi e le differenti scuole di pensiero erano piuttosto limitati. Una vera svolta si è avuta nei primi anni Novanta; una serie di conferenze (Trieste 1986, Praga 1992, Vienna 1992) ha dato inizio a quello che Gile ha definito il “Rinascimento” della ricerca sull’interpretazione (in Pöchhacker, Shlesinger 2002). Ma la vera pietra miliare di questo percorso è rappresentata da “The first international conference on interpreting in legal, health, and social service settings”, svoltasi in Canada nel 1995, che ha permesso a colleghi di tutto il mondo di incontrarsi per un momento unico di discussione e confronto che ha funzionato da catalizzatore per lo sviluppo di tutto il movimento. 17 Roy C. B. (2002), “The problem with definitions, descriptions, and the role metaphors of interpreters”, ”, in F. Pöchhacker e M. Shlesinger eds. (2002), The Interpreting Studies Reader, London and NewYork: Routledge Language Readers: 345-353 18 Wadensjö, C. (1998a), Interpreting as Interaction, London/New York: Longman 18 Gli scritti e gli interventi presentati in questo meeting sono stati poi raccolti in un volume, “The Critical Link”, che rappresenta la Bibbia per tutti gli studiosi ed appassionati di questa materia. Il Critical Link, un’organizzazione internazionale no-profit volta a favorire il progresso del CI nei settori medico, sociale e legale, dal 1995 ad oggi ha svolto cinque riunioni globali, in seguito alle quali sono stati poi edite altrettante raccolte di saggi. Un altro passaggio nello sviluppo di un’identità coesa è la pubblicazione di periodici, riviste e bollettini; la rivista ufficiale degli IS, chiamata Interpreting19, fu fondata nel 1996 e pubblica due numeri l’anno. Inoltre, un altro indicatore dello stato di salute di una materia sono anche le tesi di dottorato, che per gli IS fin dagli anni Settanta hanno avuto grande importanza e che spesse volte sono sfociate nella pubblicazione in forma di libri. Le dissertazioni di dottorato e i volumi frutto della collaborazione tra più autori rappresentano gli elementi basilari della crescente letteratura sugli IS. Si può dunque affermare con cognizione di causa che il movimento degli IS è in continua attività e questo non può che giovare al processo di professionalizzazione e riconoscimento ufficiale della professione. 1.3 Terminologia e definizioni: community interpreting, conference interpreting, court interpreting Nello sviluppo di qualsiasi attività o disciplina, è indispensabile una fase di discussione e successiva stabilizzazione della terminologia: se si vuole analizzare e studiare qualcosa, è necessario prima darne una definizione quanto più possibile globale ed univoca. È quello che si sta cercando di fare nel campo dell’interpretazione, che secondo Gentile (1997)20 è un settore che ha un disperato bisogno di trovare equilibrio e stabilità in questa fase. Passando appunto ad 19 La rivista è disponibile al seguente link: http://benjamins.com/#catalog/journals/intp/main Gentile A. (1997), “Community interpreting or not? Practices, standards and accreditation”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 109-118 20 19 esaminare la terminologia, bisogna innanzi tutto notare la confusione e la disparità di opinioni nel definire cosa sia il community interpreting. L’interpretazione in generale ha iniziato il suo cammino di materia accademica nel Novecento, seguendo un costante trend di progressiva professionalizzazione e regolamentazione. In linea di massima possiamo affermare che la sua occupazione è trasferire messaggi orali per interlocutori che non parlano una stessa lingua; insieme al processo di traduzione del messaggio entrano poi in gioco tutti i fattori che determinano la nascita di sotto-categorie, come (Gentile 1997): - L’ambiente in cui l’atto linguistico viene eseguito (tribunale, ospedale, conferenza, meeting, ecc.) - La tecnica utilizzata (simultanea, consecutiva, ecc.) - La direzione della traduzione21 - Le dinamiche sociali implicate Vedremo più avanti come queste variabili, considerate singolarmente o anche in combinazione, hanno portato a una pluralità di definizioni e categorizzazioni delle forme di interpretazione. Come ricorda anche Harris (1997:1)22, gli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta hanno visto il boom dell’interpretazione di conferenza, il primo settore ad ottenere uno status universalmente riconosciuto. Allo stesso modo, gli anni Settanta e Ottanta rappresentarono le decadi cruciali rispettivamente per l’interpretazione giuridica e della lingua dei segni. Alla fine della riflessione – pubblicata nel 1997 ma scritta ben due anni prima in occasione della prima conferenza del Critical Link – l’autore si domandava se gli anni Novanta sarebbero stati la decade dell’interpretazione per i servizi sociali; a posteriori possiamo affermare che il suo pronostico è stato rispettato. Grande slancio a proposito è stato dato dalla prima conferenza internazionale sugli interpreti di comunità (della quale abbiamo già parlato più approfonditamente), che ha rappresentato il punto di svolta nello sviluppo del community interpreting. Da lì in poi il termine community 21 La direzione di traduzione si riferisce al fatto che un traduttore/interprete lavori da una lingua straniera verso la propria madrelingua o viceversa. È possibile però che né la lingua di partenza né quella di arrivo siano la madrelingua del traduttore/interprete. (Baker 1998:82) 22 Harris B. (1997), “Foreword: A landmark in the evolution of interpreting”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 1-3 20 interpreting ha raggiunto una certa diffusione in tutto il mondo, anche se il dibattito terminologico non si è certo fermato. Community interpreting è un’etichetta che non trova accordo unanime. Uno dei primi contributi a riguardo fu quello di Harris nel 1983 (in Garzone, Rudvin 2003)23, che propose di considerare la grande famiglia del dialogue interpreting come composta dalle due sottocategorie del “community-oriented interpreting” e del “business-oriented interpreting”. Come fa notare Garzone (ibidem:15), questa classificazione è utile ma troppo semplicistica, in quanto raggruppa insieme sotto la prima etichetta tutte le forme di interpretazione non legate al settore business, senza tener conto del grandissimo range di settori e situazioni in cui il community interpreting risulta necessario. Un’altra categorizzazione è quella proposta da Jiang (2007: 2-3)24, che spinta dalla mancanza di chiarezza concettuale ha stilato una breve lista delle definizioni più utilizzate: per esempio “dialogue intepreting” si riferisce al tipo di comunicazione dialogica ma senza specificare l’ambiente in cui essa si svolge, come d’altronde il termine “liaison intepreting”, che implica come ci sia un contatto tra persone o gruppi che non parlano la stessa lingua. Il termine “ad-hoc interpreting”, invece, si focalizza sull’aspetto di spontaneità dell’atto comunicativo che viene tradotto da una persona non professionista reclutata sul momento. Per fortuna ultimamente viene poco usato, ma certamente il ricorso a figure non qualificate ha causato gravi danni alla professione dell’interprete, pregiudicandone il riconoscimento e creandone a riguardo la cattiva fama di attività non professionale. Pertanto è facile capire quanto la materia sia complessa e difficile da etichettare con limiti precisi. Ma come fa notare Rudvin (in Garzone, Rudvin 2003:128), il tentativo di fornire definizioni universali a riguardo è prettamente inutile; in qualsiasi modo scegliamo di definire l’argomento, la cosa più importante da sottolineare è che le forme di interpretazione sono più facilmente identificabili non in base alle tecniche traduttive ma ai settori di 23 Garzone, G., Rudvin, M.(2003) Domain-specific English and language mediation in professional and institutional settings, Milano, Arcipelago 24 Jiang L. (2007), From ‘Community Interpreting’ to ‘Discourse Interpreting’: establishing some useful parameters, disponibile a: http://www.euroconferences.info/proceedings/2007_Proceedings/2007_Jiang_Lihua.pdf (4/07/2012) 21 applicazione. I motivi della mancanza di chiarezza terminologica sarebbero tre (ibidem:124): - La nascita recente della disciplina - La grande varietà di settori diversi che non aiuta a fare nette distinzioni - La pessima abitudine di scegliere gli interpreti ad-hoc tra persone non qualificate Senza dubbio la mancanza di chiarezza nelle modalità non aiuta nello sviluppo di una terminologia univoca. Ad oggi, comunque, community interpreting risulta il termine più largamente accettato (tranne che in Gran Bretagna, dove, diversamente dagli altri paesi anglofoni si preferisce il termine “public service interpreting” (PSI)), e la definizione che meglio raccoglie e sintetizza tutte le caratteristiche della materia è senza dubbio quella di Pöchhacker: “CI refers to interpreting in institutional settings of a given society in which public service providers and individual clients do not speak the same language” (1999:126)25. Allo stesso modo, per dare una definizione di community interpreter ricorriamo alle parole di Mikkelson (in Hale 2007:29, enfasi originale): “community interpreters provide services for residents of a community, as opposed to diplomats, conference delegates, or professionals travelling abroad to conduct business”. La definizione concentra l’attenzione sui componenti di una comunità che sono concepiti come i destinatati dell’opera di interpretazione; la comunità, secondo Pöchhacker (in Hale 2007:29), è da intendersi come gruppo che comprende sia i componenti tradizionali sia le minoranze razziali e linguistiche. Grande diffusione – non va trascurato – riscuote anche la definizione “liaison interpreting”; mentre community interpreting focalizza l’attenzione sull’ambientazione dell’attività (sarebbe a dire le istituzioni e i servizi pubblici di vario genere), questo termine è il nome dell’atto di interpretazione compiuto da e verso una stessa lingua dalla stessa persona. Nella descrizione che ne danno 25 Pöchhacker F. (1999), “Getting organized: the evolution of community interpreting”, Interpreting 4(1), 125-140 22 Gentile, Ozolins e Vasilakakos (1996)26 le caratteristiche del liaison interpreting sono confrontate e messe in opposizione soprattutto a quelle del conference interpreting; in linea generale, però, possiamo usare questo termine come sinonimo di community interpreting. Molto interessante si dimostra anche l’opinione di Pöchhacker (2007:12), che propone una visione dell’interpreting come un continuum concettuale che presenta due forti distinzioni: la prima tra “inter-national” e “intra-social settings” e l’altra basata sul tipo di interazione (multilaterale o face-to-face). Nella figura viene ben esplicato come i vari tipi di community interpreting siano differenziati ma allo stesso tempo presentino caratteristiche comuni che a tratti li fanno coincidere: Figura 3: Conceptual spectrum of interpreting Una breve parentesi va aperta sulla situazione in Italia: anche nella terminologia i concetti di “lingua” e “cultura” tendono a mescolarsi ed i confini tra le due sfere di attività non sono ben chiari, pertanto sono nati termini ibridi come mediatore linguistico o mediatore linguistico-culturale, che sono usati per riferirsi tanto agli interpreti di comunità quanto ad una figura dalle competenze più ampie, che sappia unire le conoscenze linguistiche ad altre funzioni più prettamente sociali. Sulle sfaccettature collaterali che sono spesso implicate nella figura dell’interprete per i servizi sociali e sulla situazione terminologica in Italia ci soffermeremo più avanti in maniera più dettagliata. Ovviamente questo sdoppiamento di significato non giova alla figura dell’interprete, attorno alla quale si genera sempre più ambiguità che tende a farla confondere con professionisti di altri settori. 26 Gentile A., Ozolins U. and Vasilakakos M. (1996), Liason Interpreting: A Handbook, Melbourne, Melbourne University Press 23 A questo punto una breve riflessione sul concetto di conference interpreting e di court interpreting diventa indispensabile per fare la maggior chiarezza possibile nel discorso generale sull’Interpreting. In questo elaborato seguiremo il filone teorico che li vede ormai come branche autonome e con caratteristiche particolari rispetto agli altri tipi di community interpreting, spiegando i motivi che giustificano questa distinzione. Seguendo il percorso cronologico di Gentile, Ozolins e Vasilakakos (1996:7) possiamo identificare la pace di Versailles come il punto d’inizio del concetto moderno di interpretazione; si parla quindi di ambienti di politica, business, economia, nei quali il conference interpreting si rivelava sempre più indispensabile. Fin dall’inizio, dunque, questa attività guadagnò grande rispetto e prestigio, visto che gli interpreti provenivano da elevate classi sociali ed i loro clienti – politici, diplomatici, imprenditori – erano altrettanto socialmente altolocati. Al contrario si sa bene che il community interpreting è strettamente legato ai concetti di immigrazione e globalizzazione, e spesso succede che sia gli interpreti sia i clienti che si trovano ad aver bisogno di tale servizio appartengano ad una minoranza. A parte la lampante differenza di potere e prestigio, possiamo individuare altre caratteristiche che differenziano le due categorie. Secondo Gentile, Ozolins e Vasilakakos (1996:18) i fattori di distinzione sono: - La vicinanza fisica tra interprete e clienti - Il gap informativo tra i clienti - La differenza di status tra i clienti - La necessità di interpretare da e verso entrambe le lingue - Il lavoro individuale/di gruppo Infatti nell’interpretazione di conferenza l’interprete non ha un contatto ravvicinato col cliente, che può essere un’ampia platea di ascoltatori o un gruppo più ristretto. Spesse volte gli viene preventivamente fornito del materiale informativo su cui prepararsi, pertanto sia lui che gli altri partecipanti sanno già l’argomento che si andrà a trattare. La differenza maggiore è che quasi sempre traduce solo in una direzione e solo in una lingua (quando c’è necessità di più lingue, viene chiamato un interprete per ognuna, pertanto ci si trova a collaborare con dei colleghi e si ha la possibilità di confrontarsi con loro su eventuali 24 problemi o dubbi). Hale riconosce otto principali differenze tra conference e community interpreter: - Registro (solitamente formale / variabile a seconda del contesto e dei partecipanti) - Direzione dell’interpretazione (prevalentemente unidirezionale / bidirezionale) - Prossemica (isolato e lontano dai parlanti / vicino ai parlanti) - Modalità (generalmente simultanea / varie) - Conseguenze di una resa non accurata (medie / gravi) - Livello di accuratezza richiesto (medio / alto) - Partecipanti (stesso status sociale e professionale / diverso status) - Numero di interpreti (due che lavorano in gruppo / uno) La classificazione di Hale (2007:32) si sofferma anche su elementi prettamente linguistici come registro e modalità, ma l’attenzione viene puntata principalmente su un elemento nuovo che non era mai stato considerato in altre precedenti analisi, cioè le conseguenze che ogni intervento di interpretazione inevitabilmente porta con sé. L’autrice sottolinea infatti che nel conference interpreting il risultato più importante è il contenuto e l’accuratezza ha meno rilevanza, mentre – come vedremo anche più approfonditamente in seguito – nel community interpreting l’estrema accuratezza ha un ruolo fondamentale in tutti i dettagli poiché un errore o un’incomprensione potrebbero causare un grave danno; l’esempio classico è l’eventuale errore durante una diagnosi o un colloquio col medico. Dunque per questo motivo l’interprete di conferenza ha meno pressioni su di sé rispetto a quello di comunità, il quale sa che i suoi clienti non possono fare a meno del suo lavoro, che deve dare a forma e contenuto la medesima importanza. Un altro settore che ha acquisito oramai grande importanza e sul quale è necessario soffermarsi è il court interpreting (interpretazione giuridica/di tribunale), una forma di interpretazione sulla cui classificazione non c’è molto accordo, infatti spesso viene considerata inclusa nella definizione di public service interpreting ma esclusa dal concetto di community interpreting. Benché anch’esso si svolga in ambiti istituzionali pubblici (tribunali, questure, uffici di polizia), da molti viene ritenuta sempre più un’attività autonoma, distinta dal community interpreting che viene considerato più vicino ai settori della salute e dei servizi 25 sociali (Pöchhacker 1999:127). Benmaman nota infatti come in alcune paesi l’interpretazione giuridica sia considerata una specializzazione che richiede particolari preparazione e riconoscimento (1997:180)27. E senza dubbio questo distanziamento è giustificato da diverse caratteristiche nello svolgimento dell’atto interpretativo, oltre che dall’aver cominciato prima il processo di professionalizzazione. A questo proposito, la prima grande differenza è rappresentata dal fatto che in seguito allo sviluppo della professione, in genere i vari paesi hanno provveduto prontamente ad adottare degli standard per l’ambito giudiziario, visto che sono necessarie grandi competenze linguistiche ma anche psicologiche e giuridiche per svolgere questa professione. Basti pensare in quali delicati ambiti questa figura si trova ad operare e quali possono essere le conseguenze di una interpretazione errata o non sufficientemente accurata. Non si parla solo dei diritti, della reputazione e della libertà degli individui che necessitano l’assistenza di un interprete, ma anche della più generale preoccupazione che giustizia sia fatta. Pertanto allo stato attuale, nonostante i progressi degli ultimi anni del community interpreting, l’interpretazione giudiziaria gode generalmente di molto più prestigio e di un più ampio riconoscimento a livello professionale (in molti paesi, ma per esempio non in Italia), anche se ovviamente si trova ad affrontare anch’essa una serie di problemi, come per esempio la crescente necessità di interpreti delle LLDs (lingue di minor diffusione). Per quanto riguarda invece aspetti linguistici e tecnici, il community interpreting è sicuramente più vicino al court interpreting che al conference, tenendo in considerazione aspetti come la direzione di interpretazione, il registro, la modalità che possono variare da caso a caso. La grande differenza è pertanto a livello professionale, dato che gli interpreti legali in molti paesi del mondo sono impiegati del sistema giudiziario e sono pertanto soggetti ad un protocollo particolare per quanto riguarda accuratezza, imparzialità e riservatezza (cf. Benmaman 1997); in parecchi casi l’intervento dell’interprete in tribunale è considerato una prova a tutti gli effetti ed errori ed incomprensioni gravi possono portare perfino all’annullamento del processo per vizio di procedura. 27 Benmaman V. (1997), “Legal interpreting by any other name is still legal interpreting”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 179-190 26 Per motivi di spazio, e per non sviare troppo dal tema centrale della dissertazione, sono stati trascurati altre classificazioni dei tipi di interpretazione. Alcuni di essi non sono stati trattati ma meritano comunque, per completezza di informazione, di essere citati: per esempio, per quanto riguarda la categoria dei mezzi di informazione, esistono il telephone interpreting, TV interpreting e media interpreting (cf. Mikkelson 200328; Jiang 2007). Anche il sign language interpreting può essere incluso nella categoria del community interpreting, basandoci sulla definizione di Pöchhacker (2004:11)29: “interpreting is a form of translation in which a first and final rendition in another language is produced on the basis of a one-time presentation of an utterance in a source language”; se considerassimo la classica opposizione traduzione scritta / traduzione orale non sarebbe possibile classificarlo tra le varie tipologie di interpretazione. Essendo per l’appunto basato su un differente sistema semiotico (i segni al posto della voce) si differenzia dal community interpreting in diversi aspetti. Il sign language interpreting è certamente un servizio indispensabile per le istituzioni pubbliche, ma richiede figure altamente preparate che abbiano seguito un percorso formativo ben definito. Non a caso l’organizzazione nazionale degli interpreti per i non udenti, RID30, nacque negli Stati Uniti già nel lontano 1965. Nei primi anni Settanta il RID aveva già stabilito un sistema di valutazione e certificazione dei suoi membri (Pöchhacker 1999:129). Innegabilmente quest’organizzazione è stata la pioniera nel processo di professionalizzazione rispetto agli altri tipi di interpreting ed è servita da monito ed esempio per tutte le altre associazioni di interpreti per non udenti sorte in seguito. In Europa troviamo l’Unione Europea Sordi (EUD)31, un organizzazione non governativa che ha 30 paesi membri – tra cui l’Italia con Ente Nazionale per la protezione e l'assistenza dei Sordi (ENS); fin dalla sua fondazione nel 1985 rappresenta il fulcro di tutte le associazioni di non udenti in Europa e si occupa di innumerevoli iniziative di scopo scientifico, umanitario, religioso, artistico ed educativo. Per quanto riguarda 28 Mikkelson H. (2003), “Telephone Interpreting: Boon or Bane?”, in L.P. González, ed. (2003), Speaking in Tongues: Language across Contexts and Users, Valencia: Universitat de València, disponibile a: http://www.acebo.com/papers/telefone.htm 29 Pöchhacker, F (2004), Introducing Interpreting Studies, London: Routledge 30 RID: Register of Interpreters for the Deaf 31 Fonte: http://www.eud.eu 27 l’ente italiano, è piuttosto stupefacente notare come a fronte di 60mila persone che usano la lingua dei segni, ci siano solo 200 interpreti riconosciuti, un numero veramente esiguo32. Per evitare qualsiasi dubbio o incomprensione, va specificato che in questo elaborato verranno utilizzati senza particolari differenze sia i termini community interpreter / intepreting, sia le varie versioni in lingua italiana come interprete / interpretazione per i servizi sociali, di comunità, ecc. Queste definizioni vengono preferite alle altre esaminate in precedenza perché, benché a volte le distinzioni siano a livello di sfumature del significato, utilizzando community interpreting è già sottointesa l’importanza dell’ambientazione – visto che il presente studio si concentra sulla figura lavorativa che opera in determinati settori pubblici – e ci si distanzia così da altri ambiti (conference e court interpreting) che presentano differenze più marcate. Dopo aver illustrato in maniera generale la materia dell’interpretazione attraverso una panoramica necessaria per spiegarne l’origine e il successivo sviluppo dagli albori ai giorni nostri, nei prossimi capitoli ci addentreremo nelle questioni cruciali che rappresentano il fulcro di questa dissertazione: verranno analizzate tematiche come la formazione dell’interprete, il rapporto con il cliente, le implicazioni del suo ruolo, il tutto con la finalità di spiegare come funziona il processo di professionalizzazione di questa attività e a che punto è arrivato in diversi paesi del mondo. 32 Fonte: http://www.eud.eu/Italy-i-187.html 28 CAPITOLO 2 IL RUOLO DELL’INTERPRETE Dopo un primo capitolo molto teorico e dedicato ad un’analisi approfondita di concetti generali come quello di interpretazione e traduzione, le differenze tra esse e lo sviluppo dei rispettivi campi di studio, e di tutte le sfaccettature del grande mondo che racchiudiamo nell’etichetta “interpreting”, questa seconda sezione dell’elaborato si concentra ora sull’interprete in quanto professionista ed in quanto persona. Si è già accennato brevemente in precedenza a quanto delicata sia questa professione e quanto sia riduttivo definirla meccanicistica, sono tanti i fattori che ne determinano la complessità. Di seguito andremo a spiegare in cosa consiste il ruolo dell’interprete, quali sono le cose che ci si aspetta che faccia o non faccia, come si comporta nei confronti dei clienti. Proprio dal ragionamento sul rapporto coi clienti si sviluppa il dibattito su questioni come advocacy, neutralità, riservatezza, senza dimenticare le regole morali alle quali il professionista deve sottostare per portare a termine correttamente il suo dovere. Infine sarà interessante cambiare prospettiva e vedere cosa pensano gli interpreti stessi del loro ruolo e della loro professione. Il ruolo del community interpreter si differenzia notevolmente da quello del conference interpreter. Quest’ultimo viene definito da Dressler (in Garzone, Rudvin 2003:9) “not a participant in his own right […] but only a co-speaker who has to imitate and transfer the immediate interpretant of the source text into the target text”. Secondo Garzone e Rudvin (ibidem:8), anche se nell’etichetta “conference” sono incluse una grande varietà di situazioni (congressi scientifici, dibattiti politici, eventi, cerimonie, ecc.), i tipi di testo da affrontare condividono tutti un certo numero di costanti. Il testo da tradurre non è spontaneo, anzi potrebbe essere definito semi-preparato, spesso pronunciato da un’unica persona – il che garantisce omogeneità di linguaggio e registro – che si preoccupa di non parlare troppo a lungo e troppo velocemente e di lasciare il tempo di intervenire all’interprete, essendo solitamente abituata alla sua presenza. Non sorgono 29 particolari problemi relazionali in quanto non ci sono in gioco questioni emozionali e i partecipanti non hanno evidenti differenze di status sociale, al contrario sia gli interlocutori che la platea di ascoltatori (nel caso di conferenze o seminari) sono preparati e la conversazione segue regole fisse e piuttosto formali. Pertanto il lavoro dell’interprete non richiede particolari sforzi che non siano di tipo linguistico-semantico e neurolinguistico (visto che vengono a mancare anche gli elementi semiotici nella conversazione). L’intento ovviamente non è quello di sminuire il ruolo dell’interprete di conferenza, ma di sottolinea il differente divello di disomogeneità e difficoltà presente invece nell’interpretazione di comunità. Nei prossimi paragrafi, infatti, verranno analizzate e commentate le peculiarità del ruolo dell’interprete di comunità, dovute sia ai contesti sia agli interlocutori con cui si trova a lavorare. 2.1 Community interpreter: dove, come, quando È sempre importante stabilire con precisione le differenze tra l’interpretazione di conferenza e di comunità perché esse hanno una grande influenza sulle capacità e sulle strategie necessarie per svolgere questa mansione. Visto che nel primo capitolo è stato fatto in maniera piuttosto sbrigativa, in questo sotto-capitolo andiamo ad analizzare e classificare i modi, i luoghi e i tempi della performance del traduttore. Se si prendono in esame in primis i luoghi, già è possibile immaginare la varietà di ambientazioni in cui può essere necessario questo servizio linguistico, considerando anche i numerosi tipi di interpretazione che comprendiamo nella categoria community interpreting. Gli ambiti principali, come già ricordato, sono sanità, servizi sociali e per immigrati; le istituzioni che più frequentemente ricorrono ai community interpreters sono (cf. per esempio Garzone, Rudvin 2003): - Ospedali 30 - Consultori familiari - Servizi educativi per l’infanzia - Scuole - Centri per l’impiego - Centri di prima accoglienza - Comunità alloggio - Uffici di polizia e questura - Uffici immigrazione - Alcuni servizi legali (fasi pre-processuali) È molto importante definire le possibili aree di applicazione dell’interpretazione di comunità, perché sono quelle che, più delle tecniche e delle modalità, differenziano questa modalità dalle altre forme di interpretazione. In generale, in tutti questi settori, quando il service provider (cioè il rappresentante dell’istituzione che fornisce il servizio, che può essere per esempio la sanità, l’istruzione ecc.) e il cliente (la persona che ha bisogno del servizio)33 non parlano la stessa lingua, l’intervento dell’interprete si rivela fondamentale. Quindi questa pratica comprende potenzialmente tantissime situazioni, che spaziano da una discussione su un intervento chirurgico all’iscrizione di un figlio a scuola. Inevitabilmente, come abbiamo già accennato, la direzione di traduzione è da e verso entrambe le lingue, poiché l’interprete è un vero e proprio tramite tra i due soggetti comunicanti; non abbiamo un soggetto che parla ed uno che ascolta, come spesso succede per molti casi di interpretazione di conferenza, ma due soggetti che non condividono la stessa lingua e hanno bisogno di comunicare tra loro. La modalità è sempre quella dell’interpretazione consecutiva, ma per il community interpreter può risultare particolarmente difficile destreggiarsi tra i turni di conversazione. Bisogna infatti considerare che spesse volte i parlanti sono soggetti non abituati a questo tipo di situazione (al contrario degli uomini d’affari o dei diplomatici, per esempio) ed a relazionarsi anche con una terza figura durante le loro conversazioni. Perciò può succedere che i turni siano troppo 33 Per una definizione di service provider e cliente si veda Garzone, Rudvin 2003:126 31 lunghi, che un interlocutore parli sopra all’altro o che parli troppo velocemente, che il registro non sia uniforme; insomma, tutti i possibili problemi di comunicazione risultano amplificati e spetta all’interprete risolvere queste potenziali incomprensioni tra le parti. Inoltre, è ovvio supporre che i discorsi tra service provider e clienti siano tutti spontanei (“fresh talk”) (in Garzone, Rudvin 2003:9) e questa spontaneità rappresenta una variabile incontrollabile per l’interprete, specialmente se tra i tre interlocutori ci sono grandi differenze culturali. Se si trova in difficoltà, l’interprete è solo ad affrontarla, mentre spesso gli interpreti di conferenza lavorano in gruppi o squadre (per esempio in situazioni di plurilinguismo, perché ogni persona si occupa di una sola lingua); a questo proposito Gentile (1997:113) parla di “isolamento professionale”. Pertanto l’interprete deve avere una memoria molto allenata ed una mente molto reattiva per saper reagire nel miglior modo possibile a tutte le situazioni che potrebbe trovarsi a dover affrontare. Secondo Rudvin (in Garzone, Rudvin 2003: 142-143) l’interprete per i pubblici servizi dovrebbe avere delle capacità peculiari: a) Deve essere ben conscio delle questioni interculturali che possono portare a dei problemi nella comunicazione e deve essere pratico delle norme culturali e comunicative sia del cliente che del server provider b) Deve evitare legami con il cliente o un’eccessiva identificazione con l’istituzione c) Deve avere nervi saldi e consapevolezza del suo ruolo professionale, delle responsabilità e dei limiti d) Deve essere in grado di comprendere anche il linguaggio non-verbale (esitazione, imbarazzo, silenzio, tabù, ecc.) e) Deve avere familiarità con la terminologia del sistema legale, sanitario ed amministrativo e conoscere a fondo le differenze tra questi sistemi nella cultura di partenza e di riferimento Le suddette capacità sono le caratteristiche che differenziano l’interprete di comunità e lo rendono speciale; considerando tutte le implicazioni dei contesti e delle situazioni socioculturali in cui si trova ad operare, è naturale pretendere che 32 questo professionista abbia delle abilità che vanno ben al di là della conoscenza linguistica. Se essa fosse una qualità sufficiente, una qualsiasi persona che abbia studiato anche semplicemente ad un livello scolastico una lingua straniera durante il liceo, per esempio, potrebbe potenzialmente svolgere il lavoro di interprete. L’interprete si trova quotidianamente ad affrontare la sfida di soddisfare e rispettare i criteri qui sopra elencati; non è affatto un compito semplice stabilire dove finisce la persona e dove inizia il professionista, stabilire quindi il limite tra un comportamento professionale e il naturale istinto di intervenire per aiutare un cliente in difficoltà. Bisogna anche tener conto di quanto stress emotivo possa causare il rispetto di questi criteri e il continuo bilanciamento tra l’essere un professionista e l’essere una persona con dei sentimenti: per questo, come evidenzia Rudvin (ibidem:144), l’interprete deve continuamente dimostrare di essere un professionista ma anche una persona molto matura per avere a che fare con tali implicazioni morali. In compenso non bisogna dimenticare che il comportamento e le attitudini del service provider possono aiutare molto l’interprete nel svolgere il suo compito. Partendo dal presupposto che tra il cliente e il service provider è sicuramente quest’ultimo quello che può avere più esperienza per quanto riguarda le occasioni in cui l’intervento di un interprete si rende necessario (trattandosi in molti casi di persone esperte e qualificate nel loro lavoro come medici, assistenti sociali, agenti di polizia, ecc.), il suo comportamento nei confronti sia del cliente che dell’interprete può essere molto influente. Per questo motivo molti esperti concordano nell’affermare che è caldamente consigliata una fase di preparazione e formazione anche per i service providers stessi, per abituarli a lavorare a contatto con gli interpreti nelle situazioni dove la presenza di questi ultimi si rende necessaria. Purtroppo questa è una prassi non radicata dovunque al momento, ma è sicuramente una strategia per favorire il lavoro dell’interprete e per diminuire le possibilità di conflitti o incomprensioni durante lo scambio linguistico con il cliente. Oggigiorno però molte associazioni, specialmente statunitensi, si stanno muovendo lungo questa via; è il caso della California Health and Human Services 33 Agency34 che ha stilato un decalogo35 di consigli destinati ai service providers del settore sanitario: 1) Cercare un professionista: mai chiedere al paziente di portare un “interprete” proprio (bambini, familiari, personale non qualificato). 2) Fare un breve meeting con l’interprete, se necessario: è importante per stabilire un protocollo comune di interpretazione, specialmente la prima volta che si lavora insieme. È il momento giusto per chiedere all’interprete delucidazioni sulla cultura del cliente e su eventuali argomenti tabù. 3) Posizionarsi a forma di triangolo, cosicché tutti possano guardarsi negli occhi: 4) Stabilire un contatto visivo col paziente: meglio parlare direttamente al paziente usando la prima persona. 5) Leggere il linguaggio del corpo: bisogna cercare di riconoscere segni di comprensione o confusione da parte del paziente, essendo sempre pronti a ripetere con altre parole il messaggio se non viene capito. 6) Parlare normalmente, non troppo veloce né a voce troppo alta: mai dimenticare che la comunicazione avviene attraverso l’interprete. Se si parla troppo a lungo, l’interprete potrebbe non ricordare ed includere tutto. 7) Essere sensibile nei confronti della cultura del paziente: privacy, spazio personale, gestualità, linguaggio del corpo e tabù possono differire da una cultura all’altra. 8) Evitare il linguaggio gergale e tecnico: bisogna essere pronti a spiegare i concetti, ripeterli o parafrasarli. Alcune idee per l’interprete potrebbero essere facili da comprendere ma difficili da tradurre. 9) Non chiedere o dire niente che non si vuole che il paziente senta: l’interprete è tenuto a interpretare qualsiasi cosa venga detta durante la sessione. 34 35 http://www.chhs.ca.gov Fonte: http://www.youtube.com/watch?v=cX_krmqsWJ0&feature=related (mia traduzione) 34 10) Prevedere abbastanza tempo per la sessione: una conversazione interpretata richiede più tempo e quello che può essere detto in poche parole in una lingua, potrebbe richiedere una spiegazione dettagliata in un’altra lingua. Su internet si possono trovare davvero molti esempi di liste di suggerimenti come questa, soprattutto per i service providers nel settore sanitario ma non solo (per esempio in campo legale36). 2.2 Il rapporto tra linguaggio e cultura Come già accennato in precedenza, non è possibile parlare di interpretazione, e quindi di codificazione e trasmissione di messaggi e concetti, come un mero atto meccanico e senza tenere in conto il legame inscindibile tra linguaggio e cultura. Le parole che meglio esemplificano questa nozione fondamentale sono quelle di Rudvin: Language is no mechanistic affair in which words, sentences and meanings are stably reproduced in fixed entries, but a dynamic, unstable, geographically and socially variable cultural process in which meaning is produced and emerges as a result of on-going negotiations between the interlocutors and between the interlocutors and their social temporal, ideological and cultural context (2006a:57, corsivo mio)37. La cultura, intesa come il bagaglio che ogni individuo porta con sé in tutte le proprie esperienze, entra in gioco ad ogni nostra azione e, a maggior ragione, quando ci troviamo a dover interagire con altre persone. Pertanto l’interprete durante le sessioni di interpretazione si trova a doversi rapportare sia con la 36 Per esempio il decalogo per l’ordine degli avvocati del Wisconsin: http://www.wisbar.org/AM/Template.cfm?Section=InsideTrack&Template=/CustomSource/Inside Track/contentDisplay.cfm&Contentid=87206 37 Rudvin M. (2006a), “Issues of culture and language in the training of language mediators for public services in Bologna: matching market needs and training”, in D. Londei, D.R. Miller e P. Puccini eds. (2006), Insegnare le lingue/culture oggi: il contributo dell’interdisciplinarità, Quaderni del CeSLiC. Occasional Papers, Bologna, Centro di Studi Linguistico-Culturali (CeSLiC), disponibile a: http://amsacta.unibo.it/2055/1/AttiCeSLiC.pdf (ultimo accesso: 2/08/2012) 35 propria cultura sia con quella degli altri interlocutori, nel caso la loro sia diversa (come spesse volte accade nei casi di community interpreting). Ora, esistono moltissime definizioni di cultura; già nel 1952 Kroeber e Kluckhon ne avevano raccolte più di cinquecento (in Garzone, Rudvin 2003:54). Per esempio secondo quanto affermato da Hall (ibidem:55) possiamo suddividere il concetto di cultura in tre strati: explicit culture (che include la realtà tangibile di istituzioni, usanze, comportamenti, ecc.); norms and values (i valori condivisi, cioè che generalmente viene giudicato giusto o sbagliato, buono o cattivo); implicit culture (lo strato più profondo, che comprende le supposizioni basilari, le regole e i tipi di approccio per affrontare i problemi). Quest’ultimo livello è sicuramente il più complesso, perché questi concetti considerati impliciti sono i più difficili da riconoscere, e per un interprete è fondamentale saperli individuare ed affrontare perché la comunicazione riesca bene. Come vedremo anche successivamente, è molto importante fornire anche una preparazione di tipo culturale durante la formazione degli interpreti, affinché acquisiscano consapevolezza sia della cultura degli altri sia della propria, che a volte viene data per scontata. Trompenaars e Hampden-Turner chiamano questa consapevolezza “transcultural awareness” (ibidem:61). Tutto ciò è finalizzato all’evitare che insorgano dei “cultural bumps”, problemi interculturali così definiti da Archer (ibidem:67): “A cultural bump occurs when an individual from one culture finds himself in a different, strange or uncomfortable situation when interacting with persons of different culture, […] when he has expectations of one behaviour and gets something completely different”. L’interpretazione, come anche la traduzione del resto, non può essere ridotta all’applicazione di norme grammaticali volte solo a convertire il messaggio A nella lingua A in un messaggio B nella lingua B che abbia un significato simile o equivalente; se così fosse, nella stragrande maggioranza dei casi basterebbe avere una conoscenza piuttosto basilare di due lingue per potersi definire interpreti o traduttori. In realtà c’è un abisso che separa i semplici bilingue dagli interpreti professionisti; la conoscenza delle lingue è solo uno dei tanti requisiti richiesti affinché un interprete possa essere chiamato professionista. Un’efficace analisi di 36 Mikkelson (1999a: 5-6)38 ha individuato una serie di caratteristiche essenziali per un bravo interprete: - Language skills - Analytical skills - Listening and recall - Interpersonal skills - Ethical behaviour - Speaking skills - Cultural knowledge - Subject knowledge Viene da sé che la competenza linguistica è il prerequisito basilare ed imprescindibile senza il quale sarebbe inutile parlare di interpretazione. In tutte le forme di interpretazione è fondamentale una profonda conoscenza della lingua e delle tecniche traduttive. Però non si deve mai trascurare quanto sia importante analizzare un testo prima di interpretarlo, anche se ovviamente il testo orale è più evanescente rispetto a quello scritto quindi l’analisi dev’essere immediata e deve catturare al primo colpo le caratteristiche principali di esso. Per analizzare bisogna saper ascoltare: il tipo particolare di abilità richiesta all’interprete è chiamato da molti “active listening”. Anche la memoria è un fattore importantissimo, specialmente nel community interpreting dove non ci sono discorsi pre-preparati e la conversazione segue un flusso spontaneo, che non si sa dove possa portare. Seleskovitch (in Mikkelson 1999a:5) afferma infatti che memoria e comprensione sono inseparabili, l’una è una funzione dell’altra. Per quanto riguarda le doti interpersonali, sono anch’esse rilevanti, in quanto l’interprete non può prescindere dal sapersi rapportare con le persone e i clienti, poiché in caso contrario rischierebbe di mettere in pericolo la buona riuscita dell’atto interpretativo. Le questioni etiche, come vedremo anche più avanti, hanno grandissima rilevanza nel comportamento e nelle azioni dell’interprete e anch’esse influiscono molto nell’andamento della sessione interpretativa. Con speaking skills, invece, ci si riferisce alla capacità di parlare con chiarezza ed autorità davanti al pubblico, che sia in grandi eventi come ad un congresso o una 38 Mikkelson H. (1999a), Interpreting is interpreting – or is it?, disponibile a: http://www.acebo.com/papers/INTERP1.HTM (ultimo accesso 25/07/2012) 37 conferenza stampa o anche in contesti più ristretti, come quelli del community interpreting; questa abilità riguarda la scelta del tono, del lessico, della formulazione delle frasi, ecc. Cultural knowledge si riconduce al discorso appena affrontato sull’importanza del saper riconoscere e trattare le differenze culturali e anche per Mikkelson è un requisito assolutamente irrinunciabile per un interprete qualificato. Come ultima caratteristica – non certo in ordine di importanza visto che tutte concorrono e interagiscono nel rendere un interprete competente e capace – si parla di conoscenza del soggetto, che spesso viene trascurata per i community interpreters ma che per loro è importante tanto quanto per i conference interpreters, per i quali è una prassi collaudata poter ricevere del materiale informativo o delle indicazioni prima dell’inizio del loro lavoro per potersi preparare al meglio. Sarebbe importante anche per i community interpreters ricevere, per quanto possibile, qualche informazione aggiuntiva riguardo all’argomento della sessione in generale, per lo meno per potersi preparare un poco a livello lessicale e di contenuto. Mikkelson conclude sottolineando che tutti gli interpreti, senza considerare in che ambiti lavorano e per chi, devono dimostrare di possedere le qualità sopra elencate, anche se può accadere che chi commissiona loro il servizio non dà la stessa importanza ad ognuna di esse. Abbiamo quindi sottolineato come il linguaggio con la sua natura dinamica e la cultura con la sua influenza siano due fattori che interagiscano e si compensano nella pratica dell’interpretazione. Secondo le più recenti teorie il linguaggio è un sistema dinamico in cui tanti fattori come la società, la cultura, la politica, i media hanno un grande impatto e contribuiscono al suo continuo sviluppo. Come afferma Rudvin (2006a:57), il linguaggio e la comunicazione non sono prodotti secondari ed espressioni della cultura, ma sono gli elementi costitutivi di essa. Il rapporto tra queste due entità – linguaggio e cultura – è davvero molto complesso e in continua mutuazione, come lo sono le società e gli individui che ne fanno parte. Pertanto, seguendo questa premessa, appare assurdo voler semplicisticamente ridurre l’interpretazione ad un atto meccanico di traduzione. Per dimostrare che l’interprete tiene conto delle norme linguistiche, culturali e sociali nello stesso tempo Wadensjö propone una tassonomia dei tipi di 38 interpretazione, cioè delle strategie che l’interprete applica a seconda delle occasioni ed a cui ricorre per rendere e riformulare al meglio il testo originale: 1) Close rendition: l’interprete tende a riprodurre fedelmente quanto detto mantenendo sia il contenuto che lo stile 2) Expanded rendition: l’interprete riporta informazioni in maniera più esplicita di quanto non fosse nel testo originale. Il contenuto viene perciò espanso con l’intento di garantire maggiore chiarezza 3) Reduced rendition: il contrario della modalità precedente, infatti l’interprete fornisce informazioni in maniera meno esplicita, probabilmente per evitare possibili complicazioni o ambiguità 4) Substitued rendition: è una combinazione delle precedenti due strategie 5) Summarised rendition: l’interprete fonde due o più frasi, anche di interlocutori diverse, in un’unica resa. È una strategia molto utile quando i turni di parola sono particolarmente lunghi ed è opportuno selezionare le parti più rilevanti 6) Two-part / multi-part rendition: due o più testi pronunciati dai parlanti vengono resi dall’interprete con una sola resa, spesso perché mentre egli parla viene interrotto da altri interventi dei partecipanti 7) Non-rendition: l’interprete prende l’iniziativa e offre una resa che non corrisponde a nessun testo pronunciato dagli interlocutori 8) Zero-rendition: uno o più interventi dei partecipanti non vengono tradotti, si parla pertanto di mancata resa. Come succede per le summarised renditions, l’interprete sceglie cosa tradurre in base al significato e alla rilevanza (in Garzone, Rudvin 2003: 117-118) Le strategie possono anche essere usate in contemporanea, visto che i confini tra l’una e l’altra non sono assoluti, e ci dimostrano (specialmente le ultime due) come la parte meccanica dell’interpretazione è ben poca cosa rispetto all’importanza del giudizio e della capacità del professionista, che deve tener conto di molteplici fattori per assicurare la miglior resa possibile della conversazione. Siamo molto lontani dalla traduzione meccanica di un messaggio da una lingua ad un’altra, la realtà in cui l’interprete si trova ad operare è piena di sfaccettature ed è importantissimo tenerle tutte in conto, a volte facendo subentrare anche un giudizio personale che operi delle scelte volte ad ottenere il 39 massimo risultato, scelte che possono essere anche drastiche come la decisione di ignorare o condensare l’intervento di un interlocutore. 2.3 L’interprete come partecipante attivo Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la condizione del community interpreting è davvero singolare e queste sue caratteristiche peculiari sono appunto alla base del presente elaborato. Ormai pare chiaro che l’interprete è molto più di una “macchina” per tradurre; andiamo ora a vedere come e dove si posiziona nel discorso conversazionale tra service provider e cliente. Molte volte si è fatto ricorso all’utilizzo di metafore per tentare di descrivere tramite un concetto astratto il vero ruolo dell’interprete. La prima, quella appena citata di “macchina”, è già stata sfatata grazie alla disquisizione del sotto-capitolo precedente, ma ci sono voluti molti anni di studio e dibattiti per arrivare a questo risultato. Tra i molti ricercatori che si sono occupati di metafore sul ruolo dell’interprete, Roy (in Pöchhacker, Shlesinger 2002) ha dato un grande contributo partendo dal concetto classico di canale o ponte che rende possibile la comunicazione tra due persone. Roy parla di un doppio messaggio delle metafore: da una parte il loro uso trasmette la difficoltà dei compiti che l’interprete si trova ad affrontare contemporaneamente, dall’altra sottolineano la flessibilità di questo ruolo. In linea con le opinioni più moderne che stanno progressivamente abbandonando questa idea dell’interprete come canale di comunicazione tra lingue, Roy propone quattro descrizioni per esemplificare di cosa si occupano e come si comportano gli interpreti in concreto, le quali spaziano da un estremo coinvolgimento personale all'assenza di coinvolgimento personale dell'interprete (proposte inizialmente per gli interpreti della lingua dei segni ma che si sono rivelate calzanti anche per gli altri tipi di interpreti di comunità) (2007: 349-351): a) Gli interpreti come aiutanti: un’abitudine molto radicata è sempre stata quella di ricorrere a familiari o amici nelle vesti di interpreti; perciò, fino agli anni Sessanta, non c’era distinzione tra aiutante ed interprete. Spesso poteva anche 40 accadere che l’aiutante si assumesse ruoli che andavano oltre quello dell’interpretazione linguistica, convogliando così all’esterno l’impressione fasulla che il loro “cliente” non fosse in grado di sbrigarsela da sé. b) Gli interpreti come canali: è la metafora che si avvicina di più al concetto di “macchina”, che a sua volta si distanzia da quello di aiutante rivendicando per sé un’accezione più professionale. Secondo questa concezione, gli interpreti devono mantenersi imparziali e non essere coinvolti, col rischio però di essere percepiti come freddi e insensibili dai clienti. Per questo essi stessi cominciarono a cercare una definizione del loro ruolo meno radicale. c) Gli interpreti come facilitatori della comunicazione: questa descrizione si appoggia ad una visione molto basica dell’interprete come mezzo per facilitare il trasferimento di un messaggio da un mittente a un destinatario, indipendentemente dalla modalità di comunicazione (orale o lingua dei segni che sia), in altre parole un esperto che rende la comunicazione più semplice. d) Gli interpreti come specialisti bilingue e biculturali: a partire dagli anni Settanta iniziò ad essere accettata l’importanza del fattore culturale oltre a quello linguistico; si iniziò a parlare di “sensibilità culturale”. A partire dagli anni Ottanta, quindi, il ruolo dell’interprete-aiutante fu riconosciuto come inappropriato, poiché troppo invasivo e svantaggioso per i clienti stessi (soprattutto per il linguaggio dei segni, come sottolinea Roy), che perdevano controllo sulle loro vite e le loro responsabilità. Dall’altro lato, non è opportuno nemmeno negare al livello estremo qualsiasi forma di coinvolgimento personale del professionista. Il conflitto tra questi due poli è forse intrinseco nel ruolo dell’interprete. In conclusione Roy concorda sul fatto che l’interprete sia un membro attivo della conversazione, un atto che è da considerarsi un evento interculturale e interpersonale piuttosto che meccanico e tecnico. Un’altra classificazione volta a descrivere il ruolo del community interpreter è quella proposta dal National Council on Interpreting in Health Care (NCIHC)39 attraverso il saggio di Beltran Avery (2001)40, secondo la quale alla base della 39 www.ncihc.org Beltran Avery M.-P. (2001), The role of the health care interpreter: an evolving dialogue, prodotto dal NCIHC e disponibile a: http://www.a2hc.org/articles/The%20role_of_health_care_interpreter.pdf (ultimo accesso 12/08/2012) 40 41 discussione sul ruolo vi è la dicotomia tra interprete neutrale (colui che ha la sola funzione di trasmettere il messaggio) e attivo (che ha a che fare con molte più responsabilità). In questa analisi i possibili ruoli e modi di comportarsi dell’interprete vengono collocati in una sorta di continuum che va dalla concezione di interprete come canale a quella di interprete come elemento inserito nella propria comunità linguistica e culturale, passando per due tappe intermedie. Quando si parla di interprete come canale, egli ha il ruolo chiave di trasmettere il messaggio restando il più “invisibile” possibile. Questo tipo di approccio limita la responsabilità del professionista solo agli aspetti linguistici della comunicazione, senza il compito di dover aggiungere eventuali spiegazioni culturali o di dover mediare tra provider e cliente. D’altra parte, però, richiede che il provider sia assolutamente competente nel condurre la comunicazione in presenza dell’interprete, visto che su di lui ricade la responsabilità della comprensione di ciò che viene detto. Purtroppo è risaputo che è ancora difficile trovare dei provider preparati e che sanno destreggiarsi tra il loro lavoro e la presenza di un terzo interlocutore, anche se è ormai ampiamente riconosciuto che corsi di formazione e preparazione sarebbero davvero utilissimi, specialmente nei casi riguardanti il sistema sanitario. Sarebbe già un enorme passo avanti stabilire come norma l’incontro tra provider ed interprete per briefing41 e de-briefing42, ma anche qui siamo ancora molto lontani dalla trasformazione in usanza collaudata. Pertanto, nella maggioranza dei casi, l’intervento dell’interprete è indispensabile per evitare incomprensioni o colmare le differenze. La prima tappa intermedia del continuum teorizzato da Beltran Avery è la concettualizzazione dell’interprete come manager degli incontri con mediazione interculturale e interlinguistica. In essa la funzione primaria è sempre quella di facilitare il processo di comunicazione, ma tenendo presente che ciò richiede molto più di una conversione linguistica, specialmente quando provider e cliente non condividono lo stesso background culturale. L’interprete è quindi una 41 L’incontro che precede la sessione di interpretazione in cui provider e interprete si spiegano vicendevolmente i propri modus operandi, i loro ruoli, le regole ed i limiti da non sorpassare. Nel briefing si può anche parlare del tema della sessione ed eventualmente prepararsi su argomenti specifici come lessico, elementi culturali particolari, ecc. 42 L’incontro che avviene alla fine della sessione tra provider ed interprete per discutere e confrontarsi sull’andamento della stessa e su eventuali problemi o incomprensioni verificatisi. 42 presenza legittima e potenzialmente attiva e si deve assumere la responsabilità di usare il potere di informazione per lo scopo finale, cioè quello di offrire a provider e cliente la migliore interazione possibile. La seconda tappa del continuum, quella del cosiddetto “intervento progressivo” , considera il ruolo dell’interprete flessibile, spaziando da condotte non intrusive, alla condotta di mediatore culturale, spingendosi fino a quella di “advocate”43, cioè di guida e consulente per il cliente. Il modello ammette che l’interprete debba stare in secondo piano durante la comunicazione ma anche che abbia il permesso di intervenire se è in corso un fraintendimento. L’interprete dovrà scegliere la condotta più adeguata a seconda della situazione; nel caso decida di intervenire di sua iniziativa, deve mettere al corrente tutti i partecipanti di cosa ha intenzione di fare e di tutto quello che dice in aggiunta. Infine la concettualizzazione dell’interprete come elemento inserito nella propria comunità linguistica e culturale richiede che il professionista sia una persona che fa parte della comunità; spesso è il caso di comunità piccole e molto coese con forti legami di fiducia e credibilità, o di culture non occidentali. Per queste comunità il linguaggio è più di uno strumento di comunicazione, è parte della vita e definisce il loro essere, perciò l’interprete deve godere di grande credibilità perché è visto come intermediario tra il sistema o l’istituzione e la comunità. In generale, ovviamente, il tipo di ruolo da assumere varia in base all’istituzione e alla comunità in questione, come anche in base alle caratteristiche del provider, del cliente e dell’interprete stesso, l’importante è che la comunicazione non perda mai di vista l’obiettivo finale. Tuttavia a Beltran Avery preme sottolineare che, anche dopo un’analisi così accurata, rimangono sempre dubbi e divergenze, specialmente su due questioni: i limiti delle funzioni considerate accettabili a seconda del ruolo, e la natura del rapporto dell’interprete con il provider e con il cliente. Ovviamente i confini tra una concettualizzazione e l’altra – così come succede anche per la classificazione di Roy esaminata in precedenza – non sono 43 “Advocate” è un termine che possiede diverse sfumature di significato. In alcuni paesi, come in Scozia, corrisponde all’italiano “avvocato”, mentre in altri si traduce in maniera più generale come rappresentante legale o patrocinante. Infatti il termine advocacy nell’ambito del community interpreting viene definito “defending, pleading for or actively supporting the client” (Roberts 1997:13). In contesto sanitario italiano l’advocacy viene definita come l'insieme di azioni con cui un soggetto si fa promotore e sostiene attivamente la causa di un altro (http://www.ccmnetwork.it/screening/advocacy_intro) 43 assoluti e indiscutibili, deve entrare in gioco anche il buon senso e l’esperienza del professionista. Dopo anni di studio ed analisi dei dati, molti esperti concordano sull’inadeguatezza di un’interprete passivo, isolato, che si preoccupa solo dell’aspetto linguistico. Secondo la letteratura più moderna l’interprete è un elemento attivo, è il terzo partecipante della comunicazione e pertanto si deve preoccupare anche della buona riuscita della stessa. I suoi comportamenti – linguistici e non – hanno grande rilevanza per l’andamento della conversazione, nel bene e nel male. Per esempio, per Wadensjö (1995:112)44 l’interpretazione è da intendersi come azione sociale, o meglio inter-azione sociale, in cui l’interprete è l’unico ad avere la possibilità di intendere tutto, e questo implica anche la responsabilità di osservare e coordinare l’interazione stessa. Pertanto l’interprete riveste una duplice funzione: da una parte “relaying or translating” e dall’altra “coordinating or mediating”; esse sono presenti in contemporanea e una non esclude l’altra (ibidem:113). Inoltre l’interprete, come del resto gli altri partecipanti, ha un ruolo importante sia come parlante che come ascoltatore; anche l’ascoltare è una parte fondamentale dell’interazione, sebbene a volte venga trascurata rispetto al preponderante ruolo del parlare. Secondo Wadensjö ci sono diversi modi in cui svolgere l’attività di parlante, detti “production formats” (ibidem:121), con i quali l’interprete mostra diversi aspetti di sé e del suo modo di operare: animator (quando l’interprete si occupa solo di “dare vita” alle parole dell’interlocutore senza assumersi la minima responsabilità); author (quando l’interprete, riportando le parole dell’interlocutore, si assume la responsabilità solo per la composizione del messaggio e non per il contenuto); principal (quando l’interprete si comporta sia da animator che da author assumendosi la completa responsabilità). Allo stesso modo, Wadensjö individua tre modalità di essere ascoltatore, dette “reception formats”: reporter (quando l’interprete ascolta per poter ripetere 44 Wadensjö C. (1995), Dialogue Interpreting and the Distribution of Responsibility, Journal of Linguistics 14, disponibile a: http://download1.hermes.asb.dk/archive/download/H14_07.pdf (ultimo accesso 22/09/2012) 44 parola per parola quello che viene detto); recapitulator (quando l’interprete ascolta per poter esprimere ciò che è stato detto riassumendolo e riformulandolo); responder (quando l’interprete ascolta con la finalità di poter offrire un contributo autonomo). La scelta da parte dell’interprete di quale comportamento assumere come ascoltatore è una delle maggiori risorse per dimostrare la particolarità del proprio ruolo, “excluded from the exchange but included in the exchanging” (1998b:13)45. Queste due classificazioni sulle modalità di essere ascoltatore e parlante sono molto importanti, nonché strettamente correlate tra di loro, poiché dalla modalità in cui l’interprete si pone come ascoltatore dipende anche quella in cui si pone come parlante. Infatti scegliendo quale attitudine assumere, l’individuo trasmette anche le proprie opinioni e atteggiamenti nei confronti delle responsabilità nella conversazione. Inoltre, sia il modo di porsi come ascoltatore che quello di porsi come parlante influiscono sull’andamento dell’atto comunicativo e sull’esito finale dello stesso. Con le sue ricerche Wadensjö ha dimostrato che gli interpreti sono partecipanti attivi che influenzano il corso e la direzione dell’interazione. Ovviamente la presenza dell’interprete rende speciale l’interazione e cambia le aspettative di provider e cliente, rispetto agli incontri non mediati. Dalla scoperta dell’interazione tra interprete e interlocutori nasce la celeberrima immagine del pas de trois coniata da Wadensjö, che porta in primo piano l’intima interdipendenza tra i partecipanti e i loro rispettivi obiettivi comunicativi: “Comparing people taking part in a conversation with dancers, coordinating their turns on the floor, the interpreter-mediated encounter can be seen as a special kind of dance for two with an additional third person; a communicative pas de trois” (ibidem:12). In effetti la metafora della danza è davvero esemplificativa per spiegare la coordinazione e l’accordo che ci deve essere tra ballerini, come tra partecipanti ad un atto comunicativo, per raggiungere l’obiettivo comune. Wadensjö dà molta importanza anche al fatto che ogni partecipante porta nell’interazione il proprio essere, la propria identità sociale, determinata da tanti fattori come età, sesso, etnia, religione: 45 Wadensjö C. (1998b), The social organisation of remembering in interpreter-mediated encounters, disponibile a: http://criticallink.org/wpcontent/uploads/2011/09/CL2_Wadensj%C3%B6.pdf 45 What comes out of interaction will depend on how interlocutors appear to each other in interaction, as actors with culturally and socially predefined identities (social roles, or activity roles) and how they relate to themselves and to each individual of the audience as actors whose interlocutor roles, or participation statuses, are defined on a utterance-to-utterance basis in the ongoing flow of discourse (1998a:116, corsivo originale). L’interprete quindi è visto come un attore impegnato a risolvere problemi linguistici ma anche di reciproca comprensione. La conclusione di Wadensjö è che l’avanzamento della conversazione è determinato sia dall’attività coordinata tra i partecipanti che dalla responsabilità diretta dell’interprete, inteso come supervisore e come l’unico elemento in grado di indirizzare ed eventualmente correggere il processo comunicativo. Sulla stessa lunghezza d’onda di Wadensjö troviamo anche Roy (2000)46, secondo la quale l’interpretazione è un atto di comunicazione sia linguistica che sociale e l’interprete ricopre un ruolo assolutamente attivo in questo processo. È un evento influenzato sia da fattori linguistici che sociali, come lo status dei partecipanti e il livello di obliquità; grande importanza viene data anche all’atto di ascoltare, poiché è il modo in cui si crea la risposta seguente (ibidem:5). Roy si è occupata delle modalità in cui l’interprete gestisce il processo conversazionale (“discourse process47”) tra persone che non parlano la stessa lingua, soffermandosi in particolare sui turni conversazionali che esemplificano concretamente come gli interlocutori parlano e si passano la parola. Gli interlocutori si scambiano i turni di parola con l’interprete, invece che tra di loro come accadrebbe in un incontro non mediato, quindi anch’egli partecipa del processo di creazione dei turni prendendo la parola ed eventualmente risolvendo problemi come silenzio, pause, turni che si sovrappongono ecc. Infatti il meccanismo del turn-taking non è lineare come di solito ci si immagina, ma al contrario essi non seguono una rotazione secondo la quale si parla a turni uno alla volta. Pertanto l’analisi dei turni conversazionali ha dimostrato che è necessaria la partecipazione dell’interprete nell’organizzare e gestire l’intercambio dei turni 46 Roy, C., (2000), Interpreting as a discourse process, New York; Oxford: Oxford University Press 47 L’autrice specifica che il termine “analisi del discorso” è stato generato da diverse branche della linguistica, e si riferisce all’analisi del linguaggio oltre l’unità grammaticale della frase (2000:3). 46 e che l’incontro mediato è da considerarsi come un atto linguistico e sociale regolato essenzialmente dai ruoli sociali e dagli obiettivi durante l’atto comunicativo (ibidem:4). Lo scambio di messaggi e l’avanzamento della conversazione richiedono che nessuno dei partecipanti rimanga passivo. Ovviamente ognuno porta il suo personale contributo alla conversazione, le proprie aspettative e le proprie idee, magari utilizzando strutture linguistiche diverse e seguendo differenti automatismi inconsci; qui entra in gioco l’interprete il cui compito è quello di appianare le differenze ed intervenire dove ci sono incomprensioni. L’interprete può intervenire negoziando il possesso del turno, provocando una risposta ad un interlocutore, spiegando cosa un partecipante intende dire, o segnalando quando uno non capisce l’altro; è difatti l’unico partecipante che può mantenere, modificare o riparare le differenze di uso e struttura (ibidem:6). Roy intende farci capire che possiamo comprendere molto meglio in cosa consista il compito di interpretare se lo guardiamo da una prospettiva che tiene conto dell’interattività dei partecipanti, piuttosto che da una che si sofferma solo sull’interprete e il messaggio interpretato (ibidem:31). Le opere di Wadensjö e Roy sono le maggiori rappresentanti di quella corrente di studio che ha ormai abbandonato l’approccio monolitico all’interpretazione come atto meccanico di trasmissione di significato e che ha cambiato la visione comune sull’effettivo ruolo dell’interprete, preferendo un approccio più interattivo e multidisciplinare che tiene conto dell’interazione verbale e sociale. L’interprete, dunque, è un partecipante attivo che condivide con gli altri la responsabilità del successo o del fallimento dell’atto comunicativo. Come afferma Hale (2007:105) è impossibile supporre che l’interprete interpreti parola per parola, come un robot, senza un giudizio professionale e restando completamente invisibile, anche se bisogna tener conto della severità dell’autrice nel suo approccio, che non ammette cambiamenti ed alterazioni. Sempre riguardo al ruolo Turner afferma che l’interprete è “a weaver-together of narratives and a connector of people […], in a triadic communicative event where participants constantly align and re-align themselves in complex kaleidoscopic ways to 47 achieve their collective communicative goals” (2007:181)48. L’autore sottolinea che l’interprete funge dunque anche da coordinatore e negoziatore di significato in stretta collaborazione con gli altri partecipanti e che il dialogo avrà una buona riuscita solo con un atteggiamento interattivo e partecipatorio da parte di tutti gli interlocutori. Anche Angelelli riconosce il ruolo attivo dell’interprete e si oppone all’idea di invisibilità di quest’ultimo, proprio perché ciò presuppone mancanza di interazione tra l’interprete e i parlanti e anche tra i parlanti stessi. Al contrario gli interpreti dovrebbero rivendicare la loro presenza e renderla ben chiara, per evitare fraintendimenti e per sottolineare anche il potere che il loro ruolo dà loro. Angelelli apporta anche un'altra considerazione (2004:29): l’atto comunicativo per quanto riguarda il public service interpreting spesse volte avviene all’interno di un’istituzione (che è il riflesso della società in cui è inclusa), quindi non in un “vuoto sociale”. Quindi a livello di interazione anche le istituzioni e la società hanno la loro influenza, insieme agli altri fattori sociali49 già menzionati in precedenza. L’autrice ha esemplificato questo concetto con uno schema visivamente molto efficace (ibidem:30): 48 Turner G.H. (2007), “Professionalisation of interpreting with the community”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 181-192 49 SES = socioeconomic status 48 I cerchi concentrici rappresentano la società in cui troviamo l’istituzione (ospedale, ufficio di polizia, scuola, ecc.) che a sua volta è il luogo dove si svolge l’interazione. L’atto comunicativo è dunque fortemente influenzato sia dall’interazione tra i tre partecipanti che collaborano tra loro (come rappresentato dalle frecce bidirezionali che mettono in collegamento i tre fumetti) sia dall’ambiente in cui questo atto si svolge. Il rettangolo in alto rappresenta appunto i fattori sociali legati all’identità dei parlanti che loro stessi inevitabilmente portano nell’evento comunicativo. Anche Niska (in Garzone, Viezzi 2002:138)50 ha contribuito al dibattito sulla definizione del ruolo dell’interprete con una teorizzazione che presenta sempre limiti non invalicabili tra un attitudine e l’altra, ma che sottolinea come il professionista sia libero di scegliere tra l’una e l’altra a seconda delle necessità, senza stigmatizzare negativamente l’approccio più minimale, quello del “just interpreting”. Niska esemplifica questo concetto attraverso uno schema a piramide: L’autore ricorre alla forma piramidale per mettere in evidenza come la base di partenza è sempre l’interpretazione nel senso più letterale del tempo, ma nello stesso tempo come l’interprete a seconda della situazione debba spingersi più in là e spostarsi verso un ruolo meno neutrale e più visibile. Man mano che si sale, il livello di partecipazione e interazione nell’atto comunicativo aumenta. 50 Niska H. (2002), “Community interpreting training: past, present and future”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 133-144 49 2.4 L’interprete e la percezione di se stesso Nel precedente sotto-capitolo abbiamo analizzato il ruolo dell’interprete soffermandoci sulle opere di tre autrici che hanno contribuito, insieme ad altri che per mancanza di spazio non è stato possibile citare, allo sviluppo di una nuova concezione dell’interprete, come elemento attivo e determinante nell’evento comunicativo. È altrettanto interessante, però, scoprire cosa gli interpreti pensano di loro stessi e del loro ruolo, per poter osservare la questione da entrambe le prospettive. La premessa di questo discorso è che l’opinione che gli interpreti hanno del proprio mestiere è una tematica che non è stata molto affrontata in questi anni di ricerca sugli Interpreting Studies. Ciò è davvero riprovevole, considerando il fatto che se si vogliono cercare degli spunti per migliorare la fase formativa e la fase di professionalizzazione di questa disciplina, i pareri dei diretti interessati, di coloro che hanno concreta esperienza della pratica interpretativa, sarebbero una base di partenza preziosa. Per richiedere agli interpreti un feedback diretto sulla loro professione solitamente si ricorre a questionari o sondaggi, preparati da esperti del settore o da interpreti di professione, da cui poi vengono estrapolati i dati che vengono analizzati per determinare le tendenze. Di seguito andremo a analizzare nel dettaglio due celebri esempi, entrambi inseriti nelle raccolte del Critical Link. L’associazione si dimostra sempre piuttosto attiva in questo tipo di iniziative visto che le permettono di ricavarne dati ed opinioni che arricchiscono lo studio dei suoi temi centrali, come la definizione del ruolo dell’interprete e le sue caratteristiche. Tra il 1996 e il 1997 Pöchhacker ha svolto un’interessante indagine a riguardo, durante la quale ha consegnato a centinaia di soggetti (sia interpreti che providers nel settore sanitario) una lista di nove domande sulle presunte competenze dell’interprete alle quali bisognava rispondere sì/no (2000: 49-65)51. La premessa di questo sondaggio è che in mancanza di standard universalmente accettati, la definizione del compito dell’interprete in un paese come l’Austria – dove il livello di istituzionalizzazione e professionalizzazione del mestiere è alquanto 51 Pöchhacker, F. (2000), “The community interpreter’s task: self-perception and provider views”, in R. Roberts, S. Carr, D. Abraham and A. Dufour eds. (2000), The Critical Link 2: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 49-65 50 limitato – può spaziare da quella di convertitore linguistico a quelle di mediatore cultuale o difensore. Il rischio maggiore è quello del “role overload”, cioè del caricare l’interprete di compiti che non ricadono assolutamente nella sua sfera di azione, come spesso accade soprattutto nel settore della sanità. Per dirla con le parole di Anderson (ibidem: 51) “not only it is seldom entirely clear what he is to do, he is also frequently expected to do more than is objectively possible”. Per quanto concerne i service providers, i loro risultati mostrano che essi si aspettano che l’interprete esegua certi compiti come adattare le loro frasi ai bisogni comunicativi del cliente e condensare le frasi troppo contorte dei clienti. Lo stesso vale per le funzioni di coordinazione del discorso, come porre domande dirette al cliente per chiarire i punti oscuri e segnalare ad entrambe le parti situazioni di potenziale fraintendimento. Pöchhacker specifica che è molto difficile stabilire se le aspettative dei service provider siano troppo elevate e sfocino nel “role overload”, in mancanza di normative o standard a riguardo. Invertendo la prospettiva, e tenendo comunque presente che numericamente gli interpreti coinvolti nel progetto sono molti meno dei service providers, la categoria ha generalmente accettato la responsabilità di facilitare la comprensione per il cliente (semplificando e spiegando i termini tecnici), di aumentare la comprensione della cultura straniera da parte dei providers e di assicurare il flusso dell’interazione. È interessante notare come gli interpreti siano molto più disposti ad agire da mediatori culturali (esemplificando riferimenti e significati legati alla cultura straniera) di quanto i service providers si aspetterebbero. La conclusione a cui è giunto Pöchhacker è che i service providers vedono l’interpretazione come un’attività con molte sfaccettature e che va ben al di là della mera traduzione, mentre gli interpreti, d’altro canto, hanno dimostrato di condividere una visione piuttosto ampia del loro ruolo. Chesher, Slatyer, Doubine, Jaric e Lazzari hanno condotto, tra il 1998 e il 1999, un sondaggio su scala mondiale, attraverso varie associazioni di interpreti, in cui si chiedevano agli operatori dettagli sul loro lavoro, sulle lingue conosciute, sulle esperienze e sulla formazione, e di esprimere il loro giudizio sul proprio ruolo, sulle condizioni lavorative e sullo status; inoltre veniva chiesto di identificare capacità e qualità necessarie per il community interpreting e i principi guida del 51 loro lavoro (2003:273)52. Il sondaggio, composto principalmente da domande aperte, ottenne 92 risposte valide da sette paesi; sebbene non condotto su larghissima scala, mette in luce comunque degli interessanti spunti di riflessione. La prima parte evidenzia che poco meno della metà degli interpreti lavora solo occasionalmente in ambiti di comunità, il 21% a tempo pieno, la stragrande maggioranza per servizi pubblici e governativi. L’importanza del settore pubblico si riscontra anche nel dato che evidenziava come l’83% degli interpreti vieni ingaggiato tramite agenzie governative. Per quanto concerne la modalità, il 24% usa preferibilmente quella consecutiva, il 10% quella simultanea e il 37% entrambe, indicando così un certo grado di flessibilità. Un dato veramente scioccante riguarda l’aspetto economico: solo il 72% afferma di venire sempre pagato, il 17% di solito, il 4% a volte (tra questi dobbiamo però includere l’attività di volontariato, per esempio nelle chiese). Non a caso il 24% dei rispondenti pensa che le condizioni lavorative del community interpreting (o community-based interpreting, come viene chiamato in questo studio) sono meno favorevoli rispetto a quelle di altre professioni e molto più della metà pensa che sia un lavoro mal pagato, in cui il basso salario si riflette poi in un basso status. Passando alle qualifiche, solo il 54% dei rispondenti pensa che per il lavoratori del community-based interpreting le competenze professionali siano un requisito fondamentale. Per fortuna l’86% considera la formazione e/o la qualifica come un prerequisito essenziale. Gli elementi più importanti durante la preparazione e la formazione sono la predisposizione alle lingue (20%), lo sviluppo delle capacità (19%), la conoscenza dell’etica (15%) e le capacità interpersonali (11%). Per mantenere allenata la competenza linguistica, l’84% segue e legge gli organi di informazione in due lingue. Nella seconda parte, riguardante le opinioni e le percezioni dei rispondenti, risultati interessanti vengono dalla domanda su quali siano le qualità più importanti per il successo di un evento mediato, i cui risultati sono meglio esemplificati dalla tabella qui sotto (ibidem:284): 52 Chesher T., Slatyer H., Doubine V., Jaric L. e Lazzari R. (2003), “Community-based interpreting: the interpreters’ perspective”, in Brunette L., Bastin G.L., Hemlin I. e Clarke H. eds. (2003), The Critical Link 3: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 273-291 52 Per quanto riguarda il ruolo, l’84% degli interpreti afferma di spiegare al cliente in cosa consista il suo lavoro, cosa faccia o non faccia, mentre il 20% si presente semplicemente come l’interprete e il 7% non dà spiegazioni. Solo il 13% spiega come gestirà l’incontro mediato. Tra i principi guida più importanti, il 52% indica la riservatezza, il 40% l’imparzialità, il 39% l’accuratezza e il 33% la condotta professionale; solo il 13% ha parlato specificatamente di “etica”. Parlando di percezione del proprio status, meno della metà dei rispondenti pensa che il community interpreting sia collocato allo stesso livello delle altre forme di interpreting mentre il 32% non lo pensa. Il 37% del totale pensa che i loro clienti non pongano il community interpreting sullo stesso piano degli altri tipi, ma il 32% pensa che lo facciano. In conclusione (ibidem:289), possiamo notare un buon livello di consenso sull’importanza del fattore etico, che pare fungere da linea guida nel casi di advocacy e di richiesta di consigli e/o pareri. Si riscontra un generale accordo anche sulla necessità di una maggiore educazione sia per gli interpreti che per i clienti che poi usufruiscono del servizio. Dai dati esaminati possiamo dedurre come gli interpreti riconoscano la necessità di formazione e qualifiche tanto quanto di un continuo sviluppo professionale. Il tema su cui si sono evidenziati più contrasti e per il quale è stato impossibile analizzare i dati è stato la definizione di cosa sia il community interpreting, se fosse una forma di interpretazione indipendente o se dovesse essere considerato una sub-categoria. In questo secondo capitolo abbiamo un po’ spaziato tra tematiche differenti, passando dalla cultura all’analisi conversazionale, ma sono stati tutti aspetti utili a tentare di definire – sarebbe troppo presuntuoso dire di averne dato una 53 definizione esauriente in così poco spazio – in cosa consista il ruolo dell’interprete nell’ambito del community interpreting. È stato dunque molto interessante analizzare tutti le sfaccettature di questo profilo professionale, sia da una prospettiva esterna che da quella esterna, come si è fatto nell’ultimo sottocapitolo. 54 CAPITOLO 3 LA FORMAZIONE E L’EDUCAZIONE DEL COMMUNITY INTERPRETER In questo capitolo verrà affrontato il tema della formazione, o training, del community interpreting, soffermandoci in particolare sulla fase pre-professionale, ovvero quella che prepara (o meglio, dovrebbe preparare) lo studente a diventare un interprete competente e capace. In realtà il processo di apprendimento e di perfezionamento è in continuo divenire durante la carriera di un professionista, ma come è logico suppore la fase formativa ha un’importanza preponderante. Quindi si tratterà il tema della formazione in concreto, ma anche le idee e i suggerimenti che gli stessi interpreti e gli esperti del settore propongono per innovare e migliorare sempre più il processo educativo dei futuri interpreti. Infatti questo processo si rivela complicato e pieno di sfaccettature, tanto quanto lo stesso ruolo dell’interprete, come abbiamo avuto modo di scoprire nel capitolo precedente. La complessità del ruolo, appunto, si riflette nella difficoltà di organizzare corsi e scuole che formino lo studente sotto tutti i punti di vista, non solo quello delle competenze linguistiche, ma anche nella mancanza di fondi e di interesse. A questo proposito, sarà possibile scoprire che gli interpreti stessi, adeguandosi alle più moderne correnti di pensiero, generalmente danno grandissima importanza alle questioni legate all’etica professionale, ma questo argomento in realtà non viene affrontato come dovrebbe durante la fase educativa. Dopo una parentesi volta ad illustrare la situazione del training per gli interpreti di comunità in Italia, nel finale ci concentreremo anche sul concetto di tecnologia applicato alle fasi di educazione dell’interprete. Oggigiorno il peso specifico degli strumenti tecnologici è in continuo aumento; la tecnologia ha cambiato radicalmente tanti aspetti delle relazioni umane, tra cui il modo di comunicare, e ciò si ripercuote anche sul processo di apprendimento dei futuri interpreti, che devono imparare 55 anche come comunicare con i clienti. Oltre alle capacità linguistiche, sono oggi necessarie anche quelle informatiche e tecnologiche per far sì che l’interpretazione sia una disciplina al passo coi tempi. Dopo questa sintetica introduzione esplicativa, passiamo all’esame della tematica della formazione e training dell’interprete di comunità, prendendo come presupposto inamovibile che la fase di preparazione e il sistema educativo volti alla formazioni di professionisti competenti sono anch’essi una tappa fondamentale per il processo di professionalizzazione. Questo è il motivo per cui, seguendo un filo logico e cronologico, ci soffermiamo prima sullo stadio educativo e poi sullo stadio professionale, che sarà appunto il vero fulcro di questa dissertazione ma che, per essere compreso nella sua totalità, richiede prima l’analisi di temi propedeutici come l’analisi del ruolo e della formazione. 3.1 L’importanza della formazione Alla base di una buona riuscita di un evento mediato c’è inevitabilmente la bravura e la capacità di chi lo interpreta. Altri fattori possono contribuire – come una buona predisposizione dei partecipanti all’incontro, un atteggiamento positivo e disteso nei confronti dell’interprete, il rispetto delle regole della comunicazione mediata – ma senza dubbio la responsabilità maggiore spetta all’interprete. A sua volta, alla base della sua bravura e della sua capacità ci deve essere un solido background ed una buona formazione. La formazione (o training) è appunto la parola chiave di questo ragionamento: tema spinoso sul quale da anni gli esperti dibattono, spesso non possiamo parlarne in termini positivi data la confusione e la mancanza di normative su questo aspetto così problematico del community interpreting. Di seguito cercheremo di analizzare, per quanto possibile, i dilemmi di questo argomento e di proporre, almeno in via teorica, delle soluzioni che potrebbero migliorare la situazione. Seguendo il ragionamento di Hale (2007: 163-169), le questioni principali riguardanti la formazione possono essere divise in quattro gruppi: 56 a) Mancanza di consapevolezza della necessità del training Sicuramente il punto di partenza del complesso discorso che stiamo affrontando è che questo evidente bisogno di formazione per la professione dell’interprete deriva dal mancato riconoscimento della sua importanza e della sua necessità per un corretto svolgimento dell’attività. Come abbiamo già accennato, è molto diffusa l’opinione comune secondo la quale tra un interprete e un bilingue non passi poi una così grande differenza, perciò è facile intuire quanto sia arduo far riconoscere la reale importanza di una fase di educazione pre-professionale per chi si accinge a svolgere questo mestiere. Secondo quanto riportato da Hale (ibidem:164) spesso sono anche gli stessi studenti a non accorgersi della reale complessità di questo compito fino a che non vengono a diretto contatto con i corsi per specialisti. L’interpretazione non è fatta solo di competenze linguistiche, come già ampiamente sottolineato, ma di molte altre capacità che non sono innate (come invece potrebbe esserlo il bilinguismo) e che necessitano di tempo ed esercizio per essere apprese: la conoscenza interculturale, le nozioni di psicologia e antropologia, i concetti di linguistica ed analisi del discorso, ecc. La conseguenza più grave di questa mancanza di riconoscimento è senza dubbio l’uso di (pseudo)interpreti reclutati ad-hoc, tema sul quale ci soffermeremo più diffusamente nel prossimo sotto-capitolo. Portando questa analisi su un piano più avanzato (e rimanendo comunque su un piano generico, visto che in alcuni paesi, seppur pochi, la situazione è decisamente migliore) dobbiamo constatare che è vero che di questi corsi di formazione non si riconosce come si dovrebbe l’importanza, ma lo è anche che essi non sono poi così diffusi e/o di livello qualitativo sufficiente a causa di un altro concetto chiave, cioè la mancanza di supporto finanziario. Il fatto poi che i servizi pubblici non possono e non riescono a pagare adeguatamente un professionista di certo non sprona e non favorisce l’investimento nei programmi di training. Come sottolinea anche Rudvin (2006a:64) i finanziamenti pubblici per il settore sociale sono in continuo calo e, tra le molte urgenze dei servizi sociali, l’interpretazione di comunità ha una priorità davvero bassa. Purtroppo bisogna ammettere che tutto questo sistema è un circolo vizioso: se non ci sono investimenti, non ci sono corsi di qualità, e viceversa. Se non ci sono corsi 57 di qualità che garantiscano uno sbocco su un mercato lavorativo allettante e capace di accogliere dei professionisti e di assumerli e pagarli come tali, gli studenti non saranno invogliati a frequentare corsi lunghi e costosi. Tutto ciò ovviamente va a influire sul livello della didattica, che a sua volta influisce sulla ricerca. E se non ci sono esperti che fanno ricerca, non c’è evoluzione e normalizzazione per l’attività. Ci troviamo di fronte ad una serie di eventi e circostanze concatenate, che sono l’una la concausa dell’altra, ma se si vuole dare una svolta alla professione per consentirne lo sviluppo e la successiva piena professionalizzazione, il primo anello da rompere in questa catena è quello del riconoscimento della necessità del training per gli interpreti. Se venisse ufficialmente ed universalmente riconosciuta la necessità di una fase educativa nella carriera degli interpreti, sicuramente l’offerta formativa si evolverebbe in quantità e qualità (se non altro, in termini puramente commerciali, come risposta ad una richiesta di mercato), il che a sua volta innalzerebbe il livello qualitativo dell’attività, della didattica e della ricerca. Per ricollegarci alla metafora di prima, il cambiamento di uno solo di questi fattori servirebbe all’inversione del circolo vizioso, cambiando il trend in positivo; bisogna pur trovare il punto da dove iniziare, e la questione della formazione sembra appunto quello adatto. b) Mancanza di una fase di formazione pre-professionale obbligatoria per i praticanti Un altro fattore che di certo non aiuta lo sviluppo dei corsi educativi per interpreti è che il training pre-professionale non è un requisito obbligatorio. La relazione coi due elementi appena citati, cioè il disconoscimento della necessità del training e la mancanza di fondi economici, appare immediatamente ovvia e molto stretta. Sempre secondo Hale (2007: 166-167) ci sono parecchie ragioni che giustificano la necessità di rendere obbligatoria per gli interpreti di comunità l’educazione preprofessionale: - Per offrire un servizio di qualità ed evitare potenziali conseguenze negative derivanti da una traduzione incompetente o errata - Per assicurare il diritto basilare ad un equo accesso ai servizi anche per coloro che non parlano la lingua del paese ospitante 58 - Per risolvere i molti problemi derivanti dalla diffusa pratica delle assunzioni ad hoc - Per sfruttare la funzione sociale e favorire il miglioramento dello status professionale, per come viene percepito sia dagli interpreti stessi sia dagli altri professionisti con i quali si trovano ad operare Pertanto bisogna anche ammettere che molte delle manchevolezze degli interpreti non possono essere inputate direttamente a loro, ma ad un sistema che ha reso possibile praticare la professione senza nessun training formale obbligatorio o test per promuovere le eccellenze di competenze tecniche (ibidem:166). c) Carenza di programmi di formazione di livello adeguato e d) Carenza di qualità e di efficacia nel training La mancanza di uniformità nel sistema si riflette in concreto anche nel settore dei corsi di formazione. Nella maggior parte dei paesi non essendoci nessuna forma di obbligatorietà, scopo e durata dei corsi sono molto variabili. I tipi di insegnamento per il community interpreting spaziano dai corsi (di durata varabile), alle singole materie universitarie da scegliere facoltativamente all’interno di un corso di laurea, ai veri e propri corsi di laurea di vario grado. Purtroppo a livello universitario molte volte il community interpreting viene inteso come materia di approccio allo studio del conference interpreting. Bisogna poi tenere in conto che i corsi sono organizzati non solo da enti accademici ma anche da varie associazioni, da organizzazioni non governative, da federazioni di interpreti praticanti e altri istituti, e non sempre è facile riconoscerne la validità, la serietà e l’ufficialità, soprattutto a fronte di un investimento economico tutt’altro che irrisorio. In generale, afferma Hale (ibidem:168) i corsi sono di breve durata, superficiali e informali; rappresentano quindi una misura “tappabuchi”, visto che ci vorrebbero provvedimenti più duraturi nel tempo e dettagliati per rispondere ai bisogni educativi degli interpreti. A proposito Niska (2002:139) suggerisce che l’organizzazione dei corsi deve essere una materia piuttosto flessibile, per venire incontro alle necessità che si possono presentare in caso di intensi flussi migratori, per esempio. In caso di immediato bisogno, sei settimane potrebbero essere già troppe per mettere in piedi un corso in una lingua “nuova”, per la quale non si è mai fornito il servizio di 59 interpretazione. Ma specialmente noi italiani dovremmo sapere che il caso paventato da Niska non è poi così utopistico, visto che in caso di guerre o emergenze umanitarie, specialmente nel paesi del Sud del mondo, possono avviarsi incontrollabili migrazioni di popolazioni che parlano lingue veramente poco diffuse. Secondo l’autore, più in generale i corsi per interpreti di comunità devono essere caratterizzati da flessibilità e innovazione, e non è sempre detto che l’istituzione che meglio può garantire questi requisiti sia l’università. Nei casi dei corsi accademici, comunque, i dipartimenti di lingue dovrebbero stabilire un intenso rapporto di cooperazione con le altre facoltà (come giurisprudenza, psicologia, ecc.) per garantire un corso completo e multidisciplinare, che tenga conto delle necessità del mercato lavorativo, di quelle degli studenti e delle risorse disponibili. Anche Roy (2000:125) concorda sulla necessità di una preparazione interdisciplinare, partendo dal presupposto che il significato di un messaggio non è un concetto monolitico e bisogna pertanto allenare gli studenti a riformulare e ristrutturare i messaggi tenendo sempre conto anche delle implicazioni non linguistiche contenute in essi e analizzando i modelli comunicativi. È ora di evolversi dalla visione che l’interpretazione di comunità sia una competenza aggiuntiva ai programmi di studio delle lingue straniere, di traduzione o di interpretazione di conferenza. Niska sostiene anche (2002:144) che i corsi per community interpreting dovrebbero tener conto anche della forte componente emozionale del lavoro, preparando gli interpreti ad affrontare situazioni di gran stress emotivo (per esempio nel caso si lavori con bambini malati, rifugiati politici, malati terminali, ecc.) ed a gestirle come se fossero un’altra delle componenti del loro mestiere. Altrettanto interessante, sempre seguendo il ragionamento di Hale (2007:169), è affrontare il problema dalla prospettiva opposta, ovvero quella di chi deve organizzare questi corsi. Le difficoltà principali con cui gli enti organizzatori devono confrontarsi sono tre: assumere insegnanti adeguatamente qualificati (ma finché la materia non assume contorni più definiti, è difficile trovare personale con un rilevante bagaglio accademico e di ricerca); attrarre studenti con adeguate competenze bilingue e biculturali (spesso succede che i soggetti potenzialmente più dotati non siano attratti da un’attività con stipendi bassi, limitate opportunità professionali e sfavorevoli condizioni di lavoro); stabilire i contenuti più rilevanti 60 e le metodologie di insegnamento più proficue in base a limiti temporali ed economici. Secondo un sondaggio dell’Unione Europea (in Niska 2002:137) le agenzie di servizi di interpretazione ritengono che gli aspiranti interpreti dovrebbero dimostrare di possedere una serie di qualità, riportante schematicamente nella figura seguente: Come possiamo vedere, due entrate su cinque sono correlate alle competenze strettamente linguistiche, mentre le altre tre sono di tipo socio-psicologico, ad ennesima dimostrazione di quante implicazioni contenga il ruolo del community interpreter e di quanto sia importante, per affrontarlo al meglio, avere una solida preparazione sia teorica che pratica. “Formazione” è un concetto abbastanza generico nel quale sono inclusi sia la formazione ed educazione degli studenti che saranno poi futuri interpreti, che dei loro insegnanti, che, nel caso più estremo, dei loro clienti (§ 2.1). Ovviamente quando si pensa alla fase educativa, viene spontaneo pensare agli studenti, ma non bisogna tralasciare il fatto che questi hanno bisogno anche di una serie di altri fattori che li aiutino nel diventare buoni professionisti, ovvero bravi insegnanti e futuri co-partecipanti degli eventi comunicativi preparati e a loro agio con la presenza dell’interprete. Corsellis si è occupata approfonditamente della formazione dei dipendenti pubblici che si trovano a collaborare con gli interpreti (1997)53; la sua analisi parte 53 Corsellis A. (1997), “Training needs of public personnel working with interpreters”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 77-89 61 dalla constatazione che il presente e il futuro sono fatti di relazioni tra gruppi diversi, che non condividono lingua e cultura, dentro uno stesso paese, mentre fino al secolo scorso la storia era fatta di relazioni tra paesi (ibidem:88). Questo sta a significare che gli eventi mediati diventeranno sempre più una consuetudine, non un’eccezione relegata solo ad alcuni ambiti come l’accoglienza degli immigrati, e tanto gli interpreti stessi quanto tutte le persone che si trovano a lavorare con loro devono essere preparati a questo fatto. Anche i dipendenti dei servizi pubblici, perciò, devono prendersi la loro parte di responsabilità, ma per farlo hanno bisogno anch’essi di conoscere la materia e di sapere come interagire al meglio con gli interpreti, e ciò potrebbe avvenire, per esempio, progettando dei corsi di formazione specifici per questa categoria. Secondo Corsellis (ibidem:78) i requisiti principali per i dipendenti pubblici sono i seguenti quattro: - Apprendimento del processo comunicativo che ha luogo durante la comunicazione in una lingua condivisa: il personale deve sapere come utilizzare al meglio sintassi, vocabolario e registro e adattarli al tipo di situazione per contribuire al successo di un evento mediato - Apprendimento e messa in pratica del processo comunicativo richiesto per lavorare con, e attraverso, gli interpreti: attraverso l’interprete il personale deve non solo fornire una codifica chiara del messaggio ma anche chiedere e dare informazioni, negoziare le decisioni, ecc. - Apprendimento e messa in pratica delle modalità di adattamento dei servizi alle necessità e alle attitudini degli individui che possiedono un diverso background linguistico e culturale: il personale deve imparare a riconoscere queste differenze culturali e linguistiche, a rispettarle ed a relazionarvici in maniera corretta - Apprendimento e pratica nell’organizzazione e nella pianificazione necessari per supportare l’erogazione del servizio attraverso lingue e culture differenti: il servizio di interpretazione deve essere considerato come parte integrante della struttura. Questo tipo di formazione si rivela assolutamente necessaria in quanto contribuisce alla qualità e all’efficacia del servizio di interpretazione; purtroppo spesso volte viene sottovalutato il fatto che un’interpretazione incompleta o inaccurata non solo danneggia il cliente (che già parte da una posizione di 62 svantaggio per il fatto di non conoscere la lingua) ma anche i dipendenti pubblici, la cui professionalità può essere compromessa. A questo proposito Corsellis afferma (ibidem:79): “not to provide public personnel with the necessary training and facilities to do their jobs is unfair to them as well as to the clients, and is bad management”. Spesso succede che questi corsi di formazione per i co-partecipanti dell’evento mediato vengano tralasciati specialmente per mancanza di fondi economici; se si potesse però calcolare il costo delle traduzioni insoddisfacenti e degli errori e incomprensioni da esse causate, si capirebbe che sarebbe molto più alto del costo preventivato per evitarli sin dall’inizio attraverso una formazione preventiva efficace. Corsellis individua un percorso che consentirebbe di preparare i dipendenti pubblici ad affrontare gli eventi mediati; gli insegnamenti da fornire loro sono schematizzati in tappe (ibidem:82-83): ricercare informazioni sui clienti e sulle loro esigenze andare incontro alle differenti necessità riguardo al servizio adattare il servizio per fornire informazioni accessibili scambiare informazioni e negoziare le decisioni erogare il servizio e monitorarne l’attuazione garantire la qualità del servizio La chiave di volta di tutto questo processo è riuscire a far capire ai servizi ed alle istituzioni pubblici che sono loro a dover fornire questo tipo di formazione per i loro dipendenti poiché questo va nel loro interesse e a loro vantaggio; con un percorso educativo si possono evitare conseguenze e costi molto più gravi, pensiamo per esempio a quelli derivanti da un errore o un’incomprensione durante una trattativa medica riguardo una diagnosi o un intervento chirurgico di seria entità. Il fine principale è evitare la cosiddetta “unholy trinity” (ibidem:86): personale con capacità inadeguate al quale viene fornita una preparazione insufficiente e un salario basso e non equo. Un miglioramento generale della situazione, del livello della qualità e dei salari fungerebbe sicuramente da incentivo e da sprono per il personale dei servizi pubblici, che così si sentirebbe più capace, più utile e più attivo. Tutto questo, sottolinea Corsellis, deve essere visto non come un sogno utopico ma come la risposta concreta a una realtà crescente. 63 Purtroppo la constatazione che sorge da queste riflessioni è che sono tutte accomunate da uno stesso punto, che impedisce l’attuazione anche dei progetti sulla carta più promettenti: il fattore economico, o meglio la mancanza di fondi e finanziamenti per sostentare quelle iniziative che andrebbero a migliorare di molto la situazione del community interpreting. Ma dall’altro lato è vero anche che finché non ci si sforza di apportare miglioramenti che non richiedano l’intervento del denaro, sarà sempre più difficile rendere il community interpreting un ambito interessante per gli investimenti, pubblici o privati che siano. 3.1.1 La formazione in Italia: il caso di Forlì e Trieste In Italia la situazione riguardante la formazione degli interpreti di comunità è alquanto vaga e discordante, come lo è, d’altronde, lo stesso ruolo dell’interprete e il suo impiego nei servizi pubblici. Navigando in internet o attraverso associazioni private si possono trovare tanti corsi, da svolgere anche a distanza o online, dei quali però è difficile stabilire l’effettivo valore o la validità. A livello accademico si registra la tendenza alla creazione di corsi di laurea in mediazione linguistica, nonché all’adattamento a queste tendenze da parte di preesistenti corsi in lingue e letterature. Come ricorda Rudvin (2006a:62) si trovano corsi di mediazione linguistica anche in facoltà non di Lingue, ma naturalmente essi tendono a focalizzarsi sulle materie non linguistiche (diritto, economia, relazioni internazionali, ecc.) ma si concentrano meno sulle competenze e sulle tecniche linguistiche specifiche degli interpreti. In altre parole, è davvero difficile trovare un corso bilanciato dove le materie linguistiche e non abbiano il giusto peso e la giusta considerazione. Luatti e Insero (in Garzone 2009:112) 54 osservano che si è ormai creata una “confusione terminologica, […] dando luogo in alcuni casi a una coincidenza di denominazione a fronte di una divergenza di funzioni”. Ciò è dovuto senza dubbio alla mancanza di uno standard nazionale e anche alla confusione tutta italiana che c’è intorno al ruolo dell’interprete di comunità, a cui 54 Garzone G. (2009), “L’interprete e il mediatore: aspetti deontologici”, in D.R. Miller e A. Pano eds. (2009), La geografia della mediazione linguistico-culturale, Bologna, d.u. press: 97-116; disponibile a: http://amsacta.cib.unibo.it/2626/3/Volume_121109.pdf (ultimo accesso 12/07/2012). 64 viene spesso sovrapposto o sostituito quello di mediatore culturale e linguistico. Anche volenti, non possiamo dilungarci troppo sulla definizione di mediatore perché non è per nulla chiara e spesso assume contorni diversi a seconda dell’ambito in cui è impiegata; tenteremo di fornirne una spiegazione più chiara in 5.3. Sempre sull’argomento, Garzone spiega (ibidem:13) che spesso l’interpretazione di comunità viene considerata inclusa nella macro-categoria della “mediazione linguistica e culturale, espressione utilizzata a comprendere sotto un’unica etichetta numerose attività professionali diverse, dalla traduzione all’interpretazione di trattativa […], dall’interpretazione in ambito giudiziario a quella in campo sociale”. Le uniche due scuole statali di livello universitario che offrano una reale preparazione per gli interpreti sono le Scuole Superiori di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Trieste e Forlì. In entrambe le scuole troviamo un corso di laurea triennale più generico, Comunicazione Interlinguistica Applicata a Trieste e Mediazione Linguistica Interculturale a Forlì. Nella prima, che ha come scopo “la gestione di informazioni scritte e orali di tipo culturale e tecnicoaziendale, in tre lingue straniere55”, le attività formative sono molto variegate e comprendono attività linguistiche, traduzione, interpretazione di trattativa e insegnamenti sociolinguistici, economici, giuridici, geografici ed informatici. Nella seconda, “finalizzata a fornire adeguata conoscenza dei metodi, dei contenuti culturali e scientifici e delle competenze proprie dell'ambito delle lingue straniere, della mediazione linguistica, dell'interpretazione di trattativa e della traduzione, secondo la normativa nazionale e comunitaria”56, le attività formative sono molto concentrate sulle conoscenze, competenze, capacità ed abilità linguistico-comunicative e sulla loro applicazione a livello sia orale che scritto, ma anche sulle conoscenze e competenze storico-culturali ed economicogiuridiche, letterarie, interculturali e socio-antropologiche. Entrambe le facoltà danno ampio risalto all’interpretazione di trattativa. Per quanto riguarda Trieste, nel corso di laurea magistrale, che per l’appunto si chiama Traduzione Specialistica e Interpretazione di Conferenza, scompare 55 Fonte: http://www.sslmit.units.it/CD2 Fonte: http://corsi.unibo.it/Laurea/MediazioneLinguisticaInterculturale/Pagine/Presentazione.aspx 56 65 l’attività sul community interpreting. Forlì invece offre due lauree magistrali, una in Traduzione Specializzata e l’altra in Interpretazione, che prevede “la formazione di una figura professionale (interprete) con elevate competenze traduttive per la comunicazione translinguistica orale, che vengono sviluppate inglobando settori operativi della sfera politico-istituzionale, economico-giuridica, tecnologico-scientifica, interculturale57”; basta però esaminare il piano didattico per rendersi conto che l’attenzione principale è rivolta all’interpretazione di conferenza. La caratteristica comune di tutti questi corsi, però, è l’accesso a numero limitato: senza dubbia questa è una misura necessaria a mantenere il livello degli studenti e la qualità dell’insegnamento molto elevati, ma dall’altro canto bisogna anche tener presente che non vengono ammessi più studenti o non vengono offerti più corsi fondamentalmente per mancanza di fondi economici. La conclusione lampante che nessuna di queste due facoltà triennali si dedica specificatamente all’interpretazione di comunità e per i servizi pubblici. Inoltre entrambe sono molto concentrate sugli aspetti puramente linguistici e tecnici dell’interpretazione, come è giusto che sia, mentre sono un po’ trascurati gli aspetti extra-linguistici dei quali finora abbiamo sottolineato la fondamentale importanza. Il nocciolo della questione è che solo le Scuole Superiori di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori possono offrire le competenze e le risorse per insegnare interpretazione ad alto livello, anche se ancora non sono presenti insegnamenti o corsi specificatamente dedicati al settore dell’interpretazione di comunità; nonostante le pecche che ancora dimostrano, sarebbero comunque il punto di partenza più indicato per un progetto ad ampio respiro che abbia come finalità l’istituzione dell’obbligatorietà del training per i futuri interpreti di comunità professionisti. Potrebbero cioè essere identificate come gli enti accademici in carico di selezionare, formare ed infine accreditare gli studenti che vogliono diventare interpreti. 57 Fonte: http://www.ssit.unibo.it/SSLMiT/Didattica/LaureeMagistrali/2012/PaginaCorso20128060.htm?tab =Presentazione&subtabPresentazione=Obiettivi 66 3.2 L’impatto della tecnologia Negli ultimi anni la tecnologia è entrata di prepotenza nelle vite di tutti e la sua presenza e la sua rilevanza sono sempre più in crescendo. Ormai la nostra generazione “2.0” non può più fare a meno di tante accortezze e tanti strumenti che sono entrati inevitabilmente anche in ambito lavorativo. Senza dubbio i primi esempi che ci vengono in mente sono i computer e la rete internet, dei quali è davvero difficile fare a meno oggigiorno, se non si vuole restare tagliati fuori da questo mondo che corre all’impazzata. La rivoluzione tecnologica ha colpito anche il mondo della traduzione e dell’interpretazione, specialmente del loro apprendimento e insegnamento. Mikkelson (1999:4)58 ha stilato una lista di pro e contro sull’utilizzo delle più recenti tecnologie da parte di interpreti e traduttori davvero molto interessante; questi sono i pro: o Eliminano la parte più noiosa del lavoro, permettendo agli interpreti di essere più creativi o Aumentano la produttività traduttiva o Grazie all’aumento di produttività, si possono tradurre molte più cose di quanto fatto fino ad oggi o Permettono ad interpreti e traduttori di raggiungere e servire clienti in tutto il mondo, invece che essere confinati solo nel mercato locale o Aumentano la disponibilità di servizi di traduzione ed interpretazione nelle lingue meno diffuse (LLDs)59, accrescendo le opportunità di lavoro per interpreti e traduttori di queste lingue o Creano figure lavorative che prima non esistevano (esperti di software localization60, doppiatori, sottotitolisti, ecc.) E questi sono i contro: 58 Mikkelson H. (1999b), Plus ça change ...The Impact of Globalization and Technology on Translator/Interpreter Education, disponibile a: http://www.acebo.com/papers/pluschng.htm (ultimo accesso: 24/09/2012) 59 Languages of lesser diffusion 60 Consiste nell’adattamento di un prodotto software ai requisiti linguistici, culturali e tecnici del mercato di riferimento 67 o Eliminano l’aspetto umano del contatto faccia a faccia e la conoscenza del mercato e delle imprese locali o Aumentano la competizione da parte di provider più economici dei paesi del terzo mondo o Le scadenze sono sempre più ristrette e le aspettative per un risultato pressoché istantaneo più elevate o Le aspettative degli stessi interpreti e traduttori sono più alte, perciò si diventa subito impazienti per piccoli problemi come la connessione internet lenta o una lunga attesa per il download di un file o Gli interpreti, e specialmente i traduttori sono così dipendenti dai computer che quando essi si bloccano o va via la corrente, non possono semplicemente tornare a carta e penna Questo elenco riflette una certa vena ironica dell’autrice ma permette di cogliere immediatamente un aspetto molto interessante della tecnologia: il suo ingresso nel mondo del lavoro per gli interpreti è stato senza dubbio un vantaggio, in termini di velocità, produttività e disponibilità di materiale, dizionari online, banche date, forum e blog per esperti, ecc.; ma è vero anche che in un certo senso questi “aiutini” sembrano aver semplificato completamente il lavoro, trasformandolo in un attività meccanica e pertanto iper-veloce. Setton (2007:53)61 ritiene che l’ingresso delle nuove tecnologie abbia aperto le porte alla possibilità che il lavoro dell’interprete diventi “dehumanised, instrumentalised and detached from reality”. Inoltre l’ubiquità della tecnologia, specialmente nel campo della comunicazione, ha riportato in auge la promessa che la traduzione automatica è un’innovazione vicinissima. A questo proposito, Mikkelson si dimostra contraria dichiarando (1999b:4) che la traduzione meccanica migliorerà sempre più ma non potrà mai arrivare a lavorare autonomamente, visto che ci vorrà sempre un controllo umano che vada a correggere quei bizzarri errori che i computer fanno. Come spiega anche Setton (2007:61) la traduzione meccanica fu accolta inizialmente con grande entusiasmo, ma altrettanto disappunto accolse la constatazione che anche le più sofisticate 61 Setton R. (2007), “Staying relevant: interpreting in the information age”, in F. Pöchhacker, A. Lykke Jacobsen and I. M. Mees eds. (2007), Interpreting Studies and beyond, Frederiksberg : Samfundslitteratur press: 53-71 68 tecnologie non possono simulare e ricreare il processo integrativo secondo il quale lavora il cervello umano. Setton prosegue categorizzando la comunicazione in “intentional human” e “stimuls-driven human”, spiegando come la comunicazione umana sia inferenziale e necessiti di contesto per assumere pieno significato (ibidem:68). Il cervello umano opera tramite inferenze che permettono di cogliere il significato esplicito delle frasi e questo è un sistema che una macchina non sarà mai in grado di replicare, non essendo in grado di capire ed interpretare i tantissimi aspetti non verbali della comunicazione che sappiamo essere fondamentali per una perfetta comprensione del messaggio. Il processo inferenziale è automatico ed inconscio, perciò non ci accorgiamo di come funzioni. La conclusione a cui arriva l’autore è che l’impatto delle tecnologie nel mondo dell’interpretazione è innegabile e inarrestabile poiché parte integrante della società, ma vi si può reagire (ibidem:71) o con l’adattamento (abituandosi ad essere sempre più alienati dalla realtà o riciclandosi in un’altra professione) o con l’unificazione (accettando il compromesso e diversificandosi nelle nuove forme di interpretazione di cui le nuove società e le nuove lingue emergenti hanno bisogno). Un’altra modalità che si sta diffondendo negli ultimi anni è l’interpretazione da remoto (via telefono o video), in cui l’interprete si basa ovviamente solo sull’aspetto linguistico e verbale della comunicazione per tradurre il messaggio. Secondo Setton (ibidem:61), gli studi più recenti confermano che il remote interpreting è stressante, alienante e demotivante, e ciò non giova certo all’aspetto qualitativo. Le moderne tecnologie potrebbero intervenire trovando un sistema per mostrare all’interprete anche il luogo dove avviene l’incontro mediato, per permettergli di cogliere anche le informazioni non verbali. Ma anche se la qualità del suono e delle immagini sono di altissimo livello, essere non possono certo sostituire la presenza fisica ad un incontro. L’interpretazione da remoto rappresenta una buona scelta, secondo Niska (2002:142), per risolvere velocemente casi non troppo complessi o per trovare facilmente un interprete di lingue a scarsa diffusione. L’uso delle tecnologie risponde anche alla nascita di nuove esigenze: in un mondo globalizzato che è sempre più veloce ed esigente, e che si sta aprendo anche a 69 nuove regioni e mercati emergenti grazie ai recenti cambi geo-culturali e politici, interpreti e traduttori sentono su di sé pressione e responsabilità crescenti. Per rispondere tempestivamente a questi bisogni, spesso si rivolgono alle nuove tecnologie, anche a discapito della fedeltà al testo originale e della completezza traduttiva. Le tecnologie hanno quindi invaso anche il campo della didattica; pensiamo per esempio al caso delle università online, una modalità di insegnamento che è davvero esplosa a partire dalla fine degli anni Novanta. Anche il traning per l’interpretazione ha subito degli sviluppi tecnologici, anche se, per forza di cose, l’impatto è stato minore rispetto a quello sulla traduzione. Affrontando il tema dell’istruzione universitaria, Mikkelson (1999b:6) sottolinea come essi influiscano non solo nella strutturazione delle facoltà, ma anche nell’aggiornamento continuo di campus e laboratori. I curricola proposti dalle varie università devono sapersi adattare alle richieste di mercato e alla realtà dei budget limitati, preparando gli studenti anche per le più moderne modalità di interpretazione (videoconferenze, doppiaggio…) e per i nuovi ambienti di lavoro. Per approfondire in concreto questa analisi, è molto interessante esaminare il caso di un vero progetto svoltosi all’Università di Hull per integrare i software multimediali nell’insegnamento del community interpreting, presentato da Sandrelli (2002)62. Questo progetto, finanziato peraltro dall’Unione Europea, prende come presupposto base il fatto che l’uso del computer non debba sostituire la consueta interazione studente-professore, ma piuttosto essere complementare ad essa, per aiutare gli alunni nell’esercizio personale che fanno a casa, per il quale spesso non hanno materiale di studio adatto. L’uso di un software per l’apprendimento si rivela molto utile in quanto gli studenti possono imparare a controllare come utilizzano la lingua, a sapersi auto-valutare, a gestire l’ansia e lo stress che sono invece invitabili nelle performance in classe davanti all’insegnante ed ai propri compagni ed a controllarsi autonomamente nell’apprendimento (ibidem:191). Questo software sperimentale ha mostrato dunque qualche difetto ma anche molti margini di miglioramento; una volta stabilito il funzionamento base, sarà possibile aggiungere nuove lingue da apprendere, ricavarne una applicazione web che gli studenti potrebbero utilizzare online da casa o evolverlo 62 Sandrelli A. (2002), “Computers in the training of interpreters: curriculum design issues”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Perspective on interpreting, Bologna, Clueb: 189-203 70 di modo che possa essere usato da due studenti in contemporanea, per simulare situazioni reali e sviluppare le doti di teamwork tra colleghi. Inoltre potrebbe essere utilizzato come contributo alla ricerca accademica, trasformando gli esercizi degli studenti in materiale sperimentale. Questo tentativo pioneristico ha dunque dimostrato che i computer e le tecnologie possono avere un ruolo molto utile nell’insegnamento dell’interpretazione, anche se ancora necessitano di modifiche e ulteriori sviluppi. L’importante è non dimenticare che questo “courseware”, cioè questo materiale educativo aggiuntivo, dev’essere un valore aggiunto ai tradizionali metodi educativi, perché, come dicevamo in precedenza, ci sono automatismi della mente umana che una macchina non riuscirà mai a riprodurre né a insegnare. 3.3 I rischi dell’impiego di interpreti ad hoc Nel corso dell’elaborato è capitato di citare qualche volta casi in cui l’evento mediato fosse affidato non a professionisti ma a persone “casuali”. Con il termine “ad hoc” si intende appunto qualsiasi persona chiamata ad interpretare, ma non allenata né preparata per farlo. L’interprete ad hoc può essere un paziente o un amico del cliente, un membro bilingue dello staff del servizio pubblico che ha richiesto l’attività di interpretazione, un volontario (spesso accede negli ospedali) o anche una persona totalmente estranea all’evento mediato ma che viene contattata in quando conoscitrice della lingua. Pöchhacker ha coniato un termine che rende davvero bene l’idea dell’ultimo caso citato (Garzone, Rudvin 2003:140): “ the hospital cleaner syndrome”, cioè la tendenza, purtroppo molto diffusa ovunque, a ricorrere a persone totalmente estranee alla professione di interprete, che vanno dal personale delle pulizie, all’uomo che ha il negozio di kebab in fondo alla strada, all’amico di amici. Purtroppo questa tendenza è giustificata dal fatto che in molti paesi, tra cui l’Italia, gli interpreti non sono quasi mai membri permanenti di uno staff ma vengono contattati in base alle esigenze. Specialmente per le lingue a minor diffusione può succedere che conoscere la lingua sia un criterio sufficiente per essere “assunto” come interprete. La consapevolezza della necessità dei servizi linguistici è al minimo ed ha una 71 priorità bassissima, principalmente a causa del costo. Un sondaggio svolto nella civilissima Svizzera da Bischoff e Hudelson nel 1999 ha scoperto che nel settore della sanità solo il 17% dei servizi aveva accesso a interpreti professionisti, e l’assistenza linguistica era basata per lo più su parenti (79%), staff bilingue (75%) e staff non medico (43%)63. Per fortuna ad oggi la situazione, almeno in Svizzera, è piuttosto migliorata, ma i dati rilevati non smettono di essere significativi. La comunicazione mediata è piena di insidie perfino per gli interpreti professionisti, figuriamoci per una persona totalmente estranea alla materia. In base a quanto dichiarato da Rudvin (2006a:61) una scarsa qualità dell’interpretazione, dovuta all’uso di interpreti ad hoc per tagliare i costi, ha un impatto estremamente negativo sia sull’evento mediato che sull’interprete stesso, che si sento frustato e caricato di grandi aspettative che non è in grado di sopportare; per quanto egli abbia accettato il ruolo magari per fare un favore o rendersi utile, al contrario realizza che la sua presenza e il suo intervento non solo non sono utili ma rischiano di fare danni. L’interprete ad hoc, magari guidato dalla volontà di fare la cosa giusta per aiutare un amico, un parente o un conoscente, basa le sue deduzioni su intuizioni morali (Angelelli, Agger-Gupta, Green e Okahara 2007:169)64, che però sono fortemente legate alla propria cultura di appartenenza e che quindi gli fanno avere una visione monolitica della realtà, mentre i professionisti sono allenati a tenere sempre in considerazione le diverse culture e le eventuali caratteristiche discordanti. Inoltre bisogna notare che gli interpreti ad hoc, anche se almeno teoricamente potrebbero rivelarsi in grado di gestire la parte linguistica della comunicazione, non sanno assolutamente affrontare le questioni non linguistiche, che possono essere l’accuratezza, la riservatezza, la completezza, l’imparzialità; men che meno sapranno reagire correttamente nel caso in cui vengano richiesti compiti non necessariamente legati all’aspetto linguistico (compilare moduli, dare consigli, 63 Bischoff A. e Hudelson P. (2010), Access to Healthcare Interpreter Services: Where Are We and Where Do We Need to Go?, International Journal of Environmental Research and Public Health 2010, 7(7), disponibile a: http://www.mdpi.com/1660-4601/7/7/2838/htm (ultimo accesso 3/09/2012) 64 Angelelli C. V., Agger-Gupta N., Green C.E. e Okahara L. (2007), “The California standards for healthcare interpreters: ethical principles, protocols and guidance on roles and intervention”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 167-177 72 svolgere doveri amministrativi, ecc.), per i quali anche un professionista potrebbe trovarsi in difficoltà. L’interprete ad hoc, dunque, corre il rischio di sentirsi ancor più stressato e caricato di incombenze e ciò andrà ad aumentare il pericolo di una cattiva comunicazione. A livello di comunicazione, oltre allo stress l’interprete ad hoc potrebbe trovarsi ad affrontare altre situazioni, come l’uso di linguaggi specifici (termini troppo tecnici o al contrario troppo gergali), problemi di memoria, la gestione dei conflitti tra gli interlocutori, il comando dei turni di parola, ecc. Sono tutti aspetti molto complessi da gestire per chi non ha studiato né si è allenato a riguardo. Il rischio di incomprensioni e di errori nella resa è sempre molto alto, e può essere davvero pericoloso, specialmente nei casi di eventi mediati in ambito medico, dove si parla anche di questioni di vita o di morte. Questi errori poi possono avere conseguenze, oltre che sui clienti (che sono la parte più debole, visto che sono quelli che di solito necessitano il servizio di interpretazione nei casi di community interpreting), anche sugli stessi service providers, la cui reputazione o professionalità può essere compromessa a causa del ricorso ad un interprete ad hoc. Prendiamo per esempio il caso più palese, quello di una diagnosi sbagliata in campo medico: non solo il paziente può rischiare dei danni o, nei casi più estremi, la vita, ma lo stesso medico rischia sanzioni o provvedimenti disciplinari a causa della sua diagnosi errata. Risulta molto interessante, però, riportare anche un parere dissonante da tutte le considerazioni fatte fin qui e piuttosto insolito, quello di Meyer (2007: 10-11)65. L’autore non ha una visione poi così negativa della pratica dell’interpretazione ad hoc, che è considerata una misura intelligente per contrastare la mancanza di professionisti disponibili nei servici pubblici, sottolineando come i parenti o i membri dello staff delle istituzioni si prestino volentieri e gratuitamente a svolgere questo ruolo per obbedire ad una sorte di “dovere morale e sociale”. L’importante, sempre secondo Meyer, è che ciò non avvenga in casi di emergenza e che le parti siano sempre consapevoli che non si sta facendo ricorso ad un professionista, sostenendo che non è sempre vero che tutti gli interpreti ad hoc traducono male e 65 Baylav A., Cesaroni F., Eversley J., Greenhalgh t., Harmsen H., Kliche O., Meuuwesen L., Meyer B. e Schouten B. (2007), Ad-hoc interpreting in health care, disponibile a: http://www.tricc-eu.net/download/BICOM_Booklet.pdf (ultimo accesso 5/09/2012) 73 non sono professionali. Pertanto la pratica del reclutamento di interpreti ad hoc non necessita di essere abolita, visto il ruolo importante che ricopre. Queste affermazioni paiono comunque un po’ azzardate ma offrono senza dubbio terreno per una discussione ed un confronto. Tuttavia Meyer afferma anche che le istituzioni pubbliche dovrebbero sviluppare delle politiche riguardanti i diritti linguistici di tutti i cittadini e degli immigrati, che per esempio prevedano corsi di formazione per il personale (specialmente quello bilingue, più utile alla causa) e il dovere di affrontare la questione delle differenze linguistiche come un problema della massima serietà. Ovviamente, come già ricordato in precedenza, per risolvere i problemi riguardanti il ruolo degli interpreti di comunità è necessario un intervento di tipo istituzionale che stabilisca norme e regolamenti. Finché non saranno disponibili servizi di interpretazione o interpreti assunti in pianta stabile, al momento della necessità si continuerà a ricorrere a queste soluzioni-tampone. A questo proposito anche Pöchhacker (1999:135) pensa che sia praticamente impossibile che l’interpretazione ad hoc, almeno nelle situazioni meno formali, scompaia del tutto prima o poi, anche se così facendo il confine tra interpretazione amatoriale e professionistica, sempre così sfocato, sarà sempre più difficile da stabilire. 74 CAPITOLO 4 LA QUESTIONE DELLA PROFESSIONALIZZAZIONE Nei precedenti tre capitoli abbiamo affrontato – con la massima completezza che l’elaborato permetteva di ottenere – tutte le controversie che ruotano attorno al ruolo dell’interprete, alle sue competenze e ai suoi doveri, e spesso abbiamo riscontrato come la causa di conflitti e confusione fosse la mancanza di standard e regolamenti ben delineati e validi per tutti. Secondo Pöchhacker (1999:135), la pluralità e la variabilità delle forze che cercano di dare forma al community interpreting in un contesto nazionale ed istituzionale bloccano la strada agli sforzi per stabilire uno standard uniforme di professionalizzazione per gli interpreti. L’eterogeneità tipica di questa disciplina ancora una volta non favorisce gli intenti di standardizzazione. Ovviamente tutte le questioni preliminari che abbiamo già analizzato si ripercuotono sul concetto di interprete in quanto professione, infatti il processo di professionalizzazione è ancora in pieno svolgimento ed ha raggiunto livelli di maturità diversi a seconda dei paesi. La necessità di raggiungere una completa professionalizzazione del mestiere è indubbia, tuttavia è un processo non facile e non lineare che si compone di più fasi: possiamo citare la normalizzazione, la standardizzazione, la redazione di “codes of ethics”66, l’obbligatorietà della fase formativa… Pöchhacker (1999:128) riassume il tutto in una domanda: “what standards, then, how much training, and what level of pay will make community interpreters professional?”. Senza dubbio la risposta non può essere imposta dall’altro ma deve sorgere dalla riflessioni interattive di interpreti, clienti, service providers, studiosi e ricercatori; l’opinione di tutti è utile e necessaria affinché il processo di professionalizzazione prenda la strada dell’uniformità e della condivisione. 66 Termine che in italiano può essere reso come “codici deontologici” o “codici di condotta”. Nell’elaborato il lemma originale inglese e le rese in italiano sono usati indistintamente. 75 Pur considerando che il community interpreting è una materia relativamente recente, non molto è stato scritto sulla professionalizzazione di questo tipo di interpretazione. Basti pensare che il primo volume della celebre serie dei Critical Link che si dedica esaustivamente a questa tematica è del 2007. Il dibattito è nato nel corso degli anni Novanta e tra le prime ad essersene occupate in vari scritti troviamo Wadensjö e Mikkelson; in seguito altri autori hanno affrontato il tema ma non si può certo dire che esso sia uno dei più gettonati all’interno degli Interpreting Studies. Ovviamente la poca letteratura a riguardo e il messaggio di basso interesse che questa scarsezza trasmette non hanno certo aiutato il processo di professionalizzazione; come già abbiamo avuto occasione di constatare, per le materie con basi accademiche la ricerca e lo studio sono assolutamente fondamentali per lo sviluppo. Per fortuna negli ultimi anni il tema è stato affrontato con più frequenza e possiamo trovare interessanti opinioni a riguardo. La chiave di volta che ha determinato, appunto, questo aumento di interesse può essere riconosciuta nel fatto che, per dirla con Harris 67, la possibilità di poter comunicare con “i poteri” (intendendo tribunali, polizia e gli altri componenti del sistema-governo) sia progressivamente diventato un diritto piuttosto che una concessione. Lo sviluppo relativamente recente del community interpreting è da attribuirsi a due fenomeni, strettamente connessi tra di loro, che ne hanno dato il via: la globalizzazione e l’immigrazione. Negli ultimi decenni il mondo ha vissuto, e sta tuttora vivendo, dei cambiamenti davvero radicali e drastici che ne hanno cambiato gli equilibri e le dinamiche sociali e migratorie. Con i mezzi di trasporto odierni in ventiquattro ore si arriva ad ogni capo del mondo, con i mezzi di comunicazione si può essere in contatto in tempo reale con persone in ogni dove, qualunque tipo di informazione è facilmente accessibile. In una sola frase la globalizzazione può essere definita come “la crescente interconnessione di persone e luoghi risultante dagli avanzamenti nelle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e dei trasporti, dalla sempre minore importanza delle barriere e delle frontiere nelle relazioni economiche internazionali, e dalla 67 Harris B. (2000), “Foreword: Community Interpreting – Stage two”, in R. Roberts, S. Carr, D. Abraham and A. Dufour eds. (2000), The Critical Link 2: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 2-5 76 mondializzazione degli stili, degli schemi e dei modelli economici e legali che portano alla convergenza politica, cultural ed economica tra paesi”68. Va da sé che la globalizzazione è una delle cause scatenanti dei crescenti flussi migratori: di solito si tendono sempre a ricordare gli effetti positivi della globalizzazione (in particolare sui flussi di investimento, di beni e servizi) ma si tende anche a dimenticare come questo fenomeno abbia acuito il divario tra il Nord e il Sud del mondo, anche in quei paesi – per esempio i BRICS69 – che sono in una fase di fortissimo sviluppo ma al contempo vivono terribili contraddizioni e conflitti (tra una minoranza ricchissima e il resto della popolazione ancora in stato di povertà) al loro interno. Possiamo stabilire che i moderni flussi di immigrazione sono costituiti in gran parte da persone che fuggono dai paesi del Sud del mondo (spesso a causa di guerre o persecuzioni religiose e/o politiche) e riescono a raggiungere più facilmente di un tempo i paesi del Nord del mondo, a causa del fatto che la globalizzazione ha favorito l’allentamento delle leggi protezioniste ed anti-migratorie, basti pensare agli accordi di Schengen stipulati dalla maggioranza dei paesi europei70. L’effetto primario dei flussi migratori odierni è l’arrivo nei paesi ospitanti di grandi quantità di persone che nella quasi totalità dei casi non conoscono la lingua e che pertanto necessitano dell’intervento di un interprete ogni volta che si trovano a doversi rapportare con le istituzioni; l’Italia è un esempio più che calzante di questo tipo di avvenimento. Toledano Buendía così sintetizza il tutto: “the global movement of populations and the resulting increase in the number of multicultural societies has set in motion a process of community interpreter professionalization that is being reflected in the emergence of educational programmes, interpreters’ associations and accreditation systems” (2010:11)71. Pertanto il crescente bisogno di servizi di interpretazione di comunità è una delle 68 Fonte: Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna http://www2.dse.unibo.it/ardeni/ES/Globalizzazione.htm 69 Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica 70 La legislazione dell’Unione Europea stabilisce la libera circolazione delle persone in base all’accordo di Schengen nel 1985 e alla successiva convenzione di Schengen nel 1990, che abolirono i controlli alle frontiere fra i paesi partecipanti. http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asyl um_immigration/index_it.htm 71 Toledano Buendía, C. (2010), Community interpreting: breaking with the ‘norm’ through normalisation, The Journal of Specialized Translation, http://www.jostrans.org/issue14/art_toledano.pdf (ultimo accesso: 11/02/2012) 77 concause che spinge lo sviluppo del processo di professionalizzazione, che a sua volta fa emergere la necessità urgente di una standardizzazione per la professione che stabilisca l’obbligatorietà di una fase formativa e la creazione di un sistema di accreditamento. La questione della formazione dell’interprete è stata presa in esame nel capitolo precedente, studiando i motivi per cui è realmente necessaria e quali sono i rischi che la sua assenza può causare. Tutto il movimento del community interpreting deve affermare con forza e in comune accordo che la preparazione scolastica ed educativa deve assolutamente essere obbligatoria per gli studenti che intendono diventare interpreti; così come si diventa ingegneri solo studiando ingegneria, anche gli interpreti devono poter diventare professionisti solo dopo aver studiato interpretazione. Come afferma Toledano Buendía (2010:2) è importante stabilire regole e norme per il community interpreting, affinché si possano garantire indipendenza professionale e qualità della traduzione, e le università possono giocare un ruolo molto importante nella fase di redazione delle norme, sia fornendo in concreto la parte educativa sia aiutando a sviluppare la consapevolezza di questa necessità. Cordero (1994)72 ritiene che il ruolo delle università è ancora così controverso perché molto spesso la necessità e l’efficacia dei corsi viene ancora contestata. Finché sul mercato si troveranno così tanti interpreti che non hanno avuto una preparazione specifica, o sono preparati in altre discipline (come diritto o psicologia) e hanno solo nozioni linguistiche aggiuntive, non potrà emergere chiaramente l’importanza fondamentale della preparazione pre-professionale. Tutti i fattori extra-linguistici, dei quali abbiamo avuto modo di parlare diverse volte nel corso dell’elaborato, sono ciò che distingue i corsi di interpretazione e traduzione dai normali corsi di lingua (ibidem:173). La competenza linguistica può essere frutto di anni di studio, o anche un elemento naturale, come nel caso dei bilingui; al contrario gli altri fattori (saper analizzare e gestire il contesto, le differenze culturali, l’andamento del discorso, ecc.) non sono mai innati, vanno appresi ed interiorizzati, e devono entrare a far parte del bagaglio professionale 72 Cordero A (1994). “The Role of the University in the Professionalization of the Translator”, in D. Hammond ed. (1994), Professional Issues for Translators and Interpreters, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 171-179 78 degli interpreti. Secondo Cordero (ibidem:173) i fattori extra-linguistici dovrebbero essere parte integrante dei corsi universitari in interpretazione e traduzione e dovrebbero presentare due componenti: l’insegnamento di una reale conoscenza generale dei contesti sociali, economici e culturali delle due lingue e l’insegnamento di una conoscenza fattiva di altra discipline oltre a quelle umanistiche. Uno dei criteri che definiscono una vera professione è ciò che Cordero chiama “a body of specialized knowledge”, vale a dire la conoscenza specializzata che appartiene solo agli esperti in materia e che serve da fondamento scientifico ed accademico (ibidem:176); è il fattore che maggiormente distingue una professione e normalmente la si apprende in istituzioni accademiche (ibidem:177). A chi contesta la troppa teoricità dei corsi universitari, Cordero risponde con la proposta di inserire un tirocinio obbligatorio, possibilmente nell’ultimo semestre, per permettere agli studenti di familiarizzare fin da subito con il mondo del lavoro e con i futuri clienti. Nel capitolo precedente abbiamo discusso anche dei problemi economici che ruotano intorno alla questione della formazione, ma secondo quanto teorizzato da Cordero (ibidem:178), se la traduzione e l’interpretazione fosse considerate professioni a pieno diritto, godrebbero di maggiore stima e troverebbero più facilmente i finanziamenti, necessari per esempio per organizzare i corsi di formazione, che la società riserva così volentieri alle altre professioni di fatto. L’elemento negativo che non va trascurato è che, sfortunatamente, finché non ci sarà chiarezza legislativa ed omogeneità tra i vari corsi disponibili (a seconda di quale ente li organizza, della durata, dei programmi, ecc.), l’università in quanto ente formativo pubblico non riuscirà a dare il suo contributo in maniera esaustiva nel percorso di professionalizzazione dell’attività di interpretazione. 79 4.1 Teorie sul processo di professionalizzazione Prima di inoltrarci nell’analisi, è doveroso spiegare cosa si intenda per professionalizzazione e professionalità. Tra le tante definizioni disponibili, quella di Mackintosh (2007:45)73 è davvero chiara ed esaustiva: It involoves a social process whereby people come together to engage in an activity as a means of livelihood, inculcating a shared set of attitudes, values and behaviours with a strong ethical base and involving the creation of an association through which they can claim a professional identity. Its practitioners share a clearly identificable and evolving body of knowledge, carried forward by ongoing reflection and research and a common teaching paradigm. Molto interessante si dimostra anche la definizione di Corsellis, Cambridge, Glegg e Robson (2007:140)74, secondo i quali una professione è un gruppo di persone che condividono un’esperienza comune e professano un codice di valori con la finalità di proteggere i propri clienti, il corpus delle conoscenze in materia ed i colloghi, e va ben oltre gli interessi personali dei suoi membri. Per quanto riguarda l’ambito dell’interpretazione, Wadensjö (2007:2)75 stabilisce un dualismo tra dilettantismo (inteso come forme di interpretazione non pagate e non professionali) e professionismo, un po’ come succede nello sport. Inoltre sottolinea che il processo di professionalizzazione della disciplina “implies a range of individual and collective efforts, including struggles to achieve a certain social status, suggestions to define standards of best practice, to control access to professional knowledge – theoretical models and practical skills – and to control education and work opportunities”. Webster, nel definire la professione dell’interprete, sottolinea come essa richieda una preparazione lunga ed intensa 73 Mackintosh J. (2007), “Conference Interpreting as a profession and how it got that way”, in F. Pöchhacker, A. Lykke Jacobsen and I. M. Mees eds. (2007), Interpreting Studies and beyond, Frederiksberg : Samfundslitteratur press: 41-52 74 Corsellis A., Cambridge J., Glegg N. e Robson S. (2007), “Establishment, maintenance and development of a national register”, in in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 139-150 75 Wadensjö C. (2007), “Foreword. Interpreting professions, professionalization and professionalism”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 2-8 80 che includa capacità e metodi istruttivi come anche una preparazione sulle nozioni scientifiche, storiche o intellettuali (in Cordero 1994:176). Inoltre secondo la classica definizione di Parson (in Wadensjö 2007:2) un professionista deve dimostrare tre caratteristiche: avere neutralità emotiva (che gli permetta di trattare equamente tutti i clienti), fornire i suoi servizi per il bene collettivo e limitatamente al suo compito e guadagnarsi la professionalità attraverso l’esercizio personale. Tutte le tre opinioni aiutano a chiarire cosa si intenda in questo elaborato quando si parla di processo di professionalizzazione, poiché sottolineano come lo sforzo debba venire dalla collaborazione sia degli interpreti stessi che della società, che li deve accettare e riconoscere come professionisti. L’intervento di Wadensjö come di consueto si dimostra particolarmente interessante poiché in grado di evidenziare le finalità di questo processo, che sono poi in punti che andremo a toccare nel corso della dissertazione: il riconoscimento dello status sociale, la normalizzazione, il regolamento dell’accesso alla professione e dell’aspetto educativo e lavorativo. Inoltre bisogna sottolineare come ci siano molte società, secondo quanto afferma Toledano Buendía (2010:17), dove ancora non vengono riconosciuti né l’esistenza né la necessità di un gruppo apposito di professionisti dotati di competenze specifiche per fronteggiare le diversità ed i problemi linguistici che con le recenti ondate di immigrazione e la diffusione oramai mondiale di fenomeni di multilinguismo non hanno fatto altro che acuirsi. Ozolins (2000:22)76 ha teorizzato un continuum per indicare i tipi di ricettività dei vari paesi al bisogno di servizi di interpretazione: 76 Ozolins U. (2000), “Communication Needs and Interpreting in Multilingual Sectors: the International Spectrum of Response”, in R. Roberts, S. Carr, D. Abraham and A. Dufour eds. (2000), The Critical Link 2: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 21-33 81 La maggior parte dei paesi può essere inclusa in questa gamma, “[going] from those countries that deny the existence of the issue, through countries that rely on ad-hoc services, to generic language services, to fully comprehensive responses of training, service provision and accreditation” (2000:22). Ozolins spiega poi in maniera più esplicita il suo schema (2000: 22-24). I paesi in cui non sono forniti servizi per la comunicazione sono generalmente quelli con un alto numero di lavorati immigrati non integrati e che rimangono per brevi periodi, o quelli dove gli autoctoni e i nuovi arrivati non hanno un buon rapporto (per esempio Brasile o Giappone). Nei paesi con servizi ad hoc (Belgio, Austria e, ci permettiamo di aggiungere, Italia) non c’è riconoscimento della necessità di formazione o di un sistema di accreditamento, semplicemente si fa fronte ad una necessità immediata sfruttando le risorse disponibili. Molti paesi (Regno Unito, Olanda, Francia) hanno invece raggiunto la fase dei “generic language services” dove sia le istituzioni pubbliche che private che le cosiddette “charities”77 cercano di soddisfare i bisogni del settore pubblico. L’approccio legalistico è opzionale ed entra in vigore nei paesi che riconoscono il diritto costituzionalmente garantito ai servizi linguistici solo in ambito legale. Alla fine di questo continuum troviamo la situazione ideale che prevede la completezza dei servizi linguistici, che possiamo riscontrare in paesi dalla lunga tradizione in fatto di community interpreting, come la Svezia e l’Australia. Le caratteristiche principali che definiscono questo ultimo stadio sono: - Servizi linguistici organizzati: la maggior parte sono controllati da enti governativi ma presto il livello di privatizzazione andrà aumentando - Formazione: la formazione viene fortemente promossa, anche se molti corsi non sono ancora sufficientemente lunghi e il livello di professionalità può crescere ancora - Certificazione: è necessario un ente, solitamente governativo, che certifica, registra ed accredita gli interpreti professionisti. È davvero molto interessante notare come in questa descrizione della situazione ideale che Ozolins chiama “comprehensiveness” si ode l’eco delle parole di 77 Le charities sono associazioni benefiche o umanitarie che operano senza scopo di lucro, specialmente nei settori dell’assistenza, della ricerca medica, dei diritti umani, dell’educazione e della cultura. Fonte: http://www.wordreference.com/enit/Charities 82 Wadensjö citate pocanzi che elencavano gli sforzi necessari per completare il processo di professionalizzazione del community interpreting. Bisogna comunque sottolineare che al momento i paesi che possono dire di trovarsi all’estremo del continuum teorizzato da Ozolins si contano sulle dita di una mano, ma altri come il Regno Unito e altri paesi scandinavi hanno intrapreso il cammino giusto per arrivarci. Secondo quanto afferma Toledano Buendía (2010:17), il reclutamento ad hoc è ancora diffuso in molti paesi in cui ancora mancano “a set of specific and generally accepted interpreting norms that can be used to regulate the community interpreter process and their products”. Rielaborando il concetto di norma dai Translation Studies, l’autrice evidenzia l’importanza di stabilire delle norme anche nell’interpretazione che funzionino da linee guida per garantire indipendenza professionale e qualità del servizio, e anche per poter stabilire quando un testo è accettabile non solo come traduzione, ma come corretta traduzione nel sistema ricevente del testo di partenza (2010:14). Pertanto la regolarizzazione normativa su più livelli – linguistico, sociale, politico, ideologico – sarebbe estremamente utile non solo ai fini dell’atto interpretativo in sé ma favorirebbe lo sviluppo di una struttura regolatrice per il community interpreting e il conseguente consolidamento dell’indipendenza di tale disciplina. Come abbiamo già affermato in precedenza, la normalizzazione e il riconoscimento dell’indipendenza sono due passi fondamentali nel percorso verso la piena professionalizzazione. Infatti, come aggiunge Ozolins (2000:32) l’incapacità di stabilire standard professionali ben chiari implica che nell’ambito di lavoro continueranno a trovare spazio persone non qualificate, ed a sua volta, ricollegandoci alla metafora del circolo vizioso citata nel capitolo 3, la presenza di questo tipo di lavoratori non incentiva le istituzioni ad insistere su questi standard professionali ed a destinare fondi per il training degli interpreti. Secondo quanto abbiamo già avuto modo di dimostrare, il community interpreting, al contrario di altre forme di interpretazione, non ha ancora raggiunto lo status di professione. Questo livello è già stato raggiunto per esempio dal conference interpreting, i cui interpreti hanno associazioni internazionali (la più famosa è l’AIIC, International Association of Conference Interpreters) e sono solitamente ben formati e ben remunerati. Dall’altro lato, il 83 community interpreting è caratterizzato “by a lack of standards for training and practice, disorganisation and disunity among practitioners, a lack of recognition of the profession among the clients and the public and poor working conditions” (1996:1)78. Le opinioni di tutti questi esperti nel settore così concordi tra loro sembrano inserirsi in una stessa spirale progressiva in cui tutti i problemi si influenzano negativamente l’un l’altro; in realtà dobbiamo tener conto che in tutto in mondo, sebbene con metodi e velocità molto diversi da nazione a nazione, si è oramai innescato il processo di professionalizzazione. Anche se ancora moltissimo rimane da fare, bisogna saper individuare i modi in cui favorire questo processo. Per esempio Tseng (in Mikkelson 1996:2) ha studiato a lungo la letteratura a riguardo., arrivando a catalogarla in due scuole di pensiero: trait theory (secondo cui un’occupazione diventa una professione “by attaining certain characteristics, including adherence to a code of ethics, a body of theoretical knowledge, licensure or registration and loyalty to colleagues”) e theory of control (secondo cui più controllo i praticanti di un’occupazione sono in grado di esercitare sul loro lavoro e sul mercato in cui operano, più è professionalizzata l’occupazione). In seguito ha poi proposto una sua teoria, composta di quattro fasi, per spiegare il processo di professionalizzazione: 1) Disordine del mercato lavorativo: in questa prima fase la ricerca di un interprete è guidata più dal prezzo che dalla qualità del servizio. Gli interpreti potrebbero sentirsi sfiduciati e non incentivati ad ottenere una formazione specifica, viste le prospettive lavorative. Tuttavia anche per Tseng il traning ha un effetto positivo perché se gli interpreti vengono istruiti per diventare professionisti, automaticamente capiranno che lo status quo delle cose è insoddisfacente, che l’occupazione necessita di essere organizzata e che bisogna proteggere i clienti dalla negligenza professionale 2) Consolidamento della professione e sviluppo di consenso riguardo alle aspirazioni dei praticanti: in questa fase gli enti formativi ricoprono un ruolo sempre più importante, in quanto devono soddisfare una crescent richiesta di 78 Mikkelson H. (1996), The professionalization of http://www.acebo.com/papers/profslzn.htm (last access 11/02/2012) community interpreting, 84 servizi di qualità e devono supportare la progressiva affermazione di associazioni professionali. 3) Formulazione di standard etici e controllo degli accessi alla professione: questi due passaggi permettono agli interpreti di richiedere pubblico riconoscimento e fiducia e, allo stesso tempo, di esercitare un controllo interno. 4) Campagne promozionali: attraverso forme di propaganda gli interpreti intendono ottenere il controllo del mercato lavorativo e in seguito provare ad influenza le autorità politiche e legali per conquistare il riconoscimento legislativo e l’abilitazione per la professione. A questo punto il community interpreting sarà diventato una vera professione che gode di protezione ed autonomia. Il modello di Tseng si rivela davvero molto interessante perché unisce in una sequenza logica vari elementi come la necessità di una fase educativa, del riconoscimento della qualità e della creazione di associazioni di categoria. Tuttavia l’autore sottolinea come questa non sia un’evoluzione lineare e pacifica ma sia un processo conflittuale, sostanzialmente una lotta per il potere (1996:5) che aumenta di intensità da stadio a stadio. La professionalizzazione è un processo circolare, dove ogni fase fornisce un feedback ed un rafforzamento alla precedente (ibidem); alcuni ostacoli potrebbero però essere “the lack of a systematic body of knowledge exclusive to the profession”, “the little serious research on interpreting” e “the public misconception about interpreting” (ibidem:6). Secondo Tseng, per superare questi ostacoli bisognerebbe creare un’associazione professionale forte che rappresenti la maggior parte dei praticanti, ma soprattutto “interpreters worldwide must join hands with researchers and scholars to develop the body of knowledge on interpretation, and in the process to settle the confusion over the professional title” (ibidem:7). Un altro contributo molto interessante e pieno di spunti di riflessione sul tema della professionalizzazione è quello di Corsellis (2002)79, la quale si è occupata del concetto di multilinguismo sempre più diffuso, specialmente nei paesi 79 Corsellis A. (2002), “Creating a professional context for public service interpreters” in Valero Garcés C., Mancho Barés G. eds. (2002), Traducción e Interpretación el los Servicios Públicos: Nuevas Necesidades para Nuevas Realidades/ Community Interpreting and Translating: New Needs for New Realities, University of Alcalà, Servicio de Públicaciones de la Universidad:29-34 85 occidentali, e dell’urgente bisogno di creare le infrastrutture sociali necessarie per favorire l’integrazione delle persone che non parlano (almeno non ad un livello sufficientemente elevato per garantire piena comprensione) la lingua dominante. Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, in situazioni di poca professionalità spesso può succedere che il ruolo dell’interprete non sia ben definito e che pertanto gli vengano richiesti compiti e conoscenze che non sono di sua competenza; questa pratica va ovviamente a pregiudicare la qualità e la buona riuscita dell’evento mediato. Corsellis pertanto propone delle soluzioni pratiche per fornire un adeguato contesto professionale agli interpreti per i servizi pubblici, per consentire loro di lavorare e rendere al massimo livello. Secondo la sua teoria (2002: 30-32) ci sono cinque gruppi di soggetti interessati: I servizi pubblici I professionisti del linguaggio Gli accademici I cittadini, l’amministrazione dello stato e gli organi governativi Coloro che non hanno un’adeguata padronanza della lingua del paese in questione Il primo gruppo deve essere convinto che investimenti anche a breve termine nella formazione, seppur costosi, porteranno risparmi economici nel tempo. Il secondo, che comprende gli interpreti, deve essere convinto che lo status è qualcosa di guadagnato e non di dovuto, e l’unico modo per farlo è costituire associazioni professionali che collaborino su scala nazionale. Il terzo invece dovrebbe imparare ad allentare un po’ i consueti rigidi standard linguistici ed intellettuali perché la maggior parte delle volte si troveranno ad agire in situazioni informali e nonstandard. I cittadini, i burocrati ed i politici hanno invece la responsabilità economica ed attuativa dei progetti linguistici. L’ultimo gruppo, quello dei diretti interessati che non conoscono la lingua, è sicuramente il più penalizzato dalla mancanza di servizi interpretativi adeguati e spesso si trova risucchiato in una spirale verso il basso a causa della mancata conoscenza della lingua. Partendo dal presupposto che a tutti dev’essere garantito un equo accesso ai servizi pubblici senza discriminazioni di sorta, e che il punto di partenza è uguale per tutte le categorie (ossia una mancanza di finanziamento economico ed 86 un’avversione al cambiamento), questi cinque gruppi devono imparare a collaborare e condividere un processo di cambiamento che abbia come scopo finale “the ownership of a common agenda, or set of objectives, based upon mutual understanding of each other and implement on an basis of mutual trust and support” (ibidem:31). Il processo di cambiamento passa attraverso i seguenti stadi: Ignoranza del problema Negazione della sua esistenza Riconoscimento della sua esistenza Rimpianto per un passato che non c’è più Apprendimento sperimentale Sviluppo sistematico La chiave per il buon funzionamento di questa teoria è la collaborazione; infatti come afferma Corsellis (ibidem:32) “working in collaboration to create a practical outcome results in information exchange, mutual understanding and the gradual development of mutual trust”. Corsellis (ibidem:33) spiega anche che esistono due tipi di approccio alla questione: top down (in cui gli enti governativi prendono le decisioni e le rendono effettive “dall’alto”) e bottom upwards (in cui le questioni sono istituzionalizzate su scala nazionale solo dopo che è stata formata una notevole quantità di opinione e attività locale sul tema). Ma il passaggio fondamentale è quello che, ad un certo punto, si riconosca il bisogno di istituire strutture nazionale per organizzare l’attività di interpretazione per i servizi pubblici e per controllarne e gestirne funzionamento e qualità. I cinque gruppi sopra citati devono superare le divergenze e le diffidenze tra loro e collaborare tra loro su un piano multi-disciplinare per poter gradualmente migliorare la situazione dei servizi linguistici nelle istituzioni pubbliche ed offrire un servizio che risponda alle moderne necessità del mondo globalizzato di oggi, che si trova ad affrontare un sempre crescente spostamento di persone tra paesi. Per concludere il sotto-capitolo in maniera originale e simpatica, riportiamo alcune suggerimenti di Synder (2007, mia traduzione)80, che ha stilato in seguito ai suoi studi su Translation & Interpreting Studies ed alla sua esperienza sul 80 Synder N. (2007), “The Paradox of Professionalism”, in F. Pöchhacker, A. Lykke Jacobsen and I. M. Mees eds. (2007), Interpreting Studies and beyond, Frederiksberg : Samfundslitteratur press: 13-21 87 campo, per migliorare il proprio livello di professionalità e fare buona impressione sui clienti: 1- Conosci te stesso: assicurati di sapere cosa ti viene chiesto di fare e di essere in grado di farlo 2- Conosci quello che stai facendo: specifica bene i termini del contratto (riguardo a consegna, materiali, ecc.) e stabilisci con chiarezza le norme lavorative e gli standard 3- Sii onesto: sii sincero sulle tue capacità e suggerisci un altro collega più competente se ti rendi conto di non essere in grado di svolgere un lavoro che non ricade proprio nella tua area di competenza 4- Sii accurato e ordinato 5- Usa una linea telefonica separata per le questioni professionali se lavori da casa: se sei un freelance, è un modo per far riconoscere la tua professionalità 6- Vestiti come un professionista: non è una convenzione sociale ma un modo di presentarsi come professionista 7- Sii amichevole ma non andare troppo sul personale 8- Rispetta le scadenze: rispetta sempre gli impegni presi 9- Il cliente ha sempre ragione: un principio generale del mercato del lavoro che vale, con le dovute cautele, anche per gli interpreti 10- Sii paziente: non essere arrogante o indisponente anche quando il cliente sembra uno stupido 11- Sii umile, tollerante delle differenze e comprensivo: il tuo modo di fare non è per forza l’unico valido esistente, ascolta il cliente ed adeguati alle sue richieste Questi suggerimenti di Synder offrono sicuramente uno spunto di riflessione per gli interpreti, per darsi una sorta di autovalutazione e per capire che per raggiungere alti standard professionali ci vogliono grandi sforzi e tante piccole accortezze. Come abbiamo visto nel corso di questo sotto-capitolo, negli ultimi quindici anni circa gli accademici e gli esperti del settore si sono concentrati sempre più sul tema della professionalizzazione dell’interprete di comunità e hanno tentato di proporre delle soluzioni pratiche, che sulla carta sembrano funzionare 88 perfettamente ma che in realtà sono più complesse di quanto appaiano e richiedono senza dubbio un grande sforzo da tutti i partecipanti coinvolti in questo tipo di situazioni. Senza dubbio l’autocoscienza degli interpreti pare mossa da queste riflessioni, ed ormai necessità come quelle del training o dell’organizzazione associativa sono generalmente riconosciute ed accettate; d’altro canto i governi e le istituzioni (in alcuni paesi più che in altri) sembrano più indietro in questo percorso di professionalizzazione, ma a parte il cambiamento mentale e culturale che il riconoscimento della necessità di servizi interpretativi negli enti pubblici comporta, dobbiamo tener conto dell’enorme ostacolo rappresentato dalla scarsezza di fondi economici da dedicare alle attività sociali in generale. 4.2 La valutazione della qualità Nel discorso sulla professionalizzazione non poteva di certo mancare un approfondimento sul livello della professionalità degli interpreti, ovvero, detta in parole semplicistiche, quanto bene gli interpreti sanno fare il proprio lavoro, cioè tradurre e rappresentare al meglio ciò che è stato detto da una lingua A verso una lingua B. Pöchhacker (2002:97)81 sostiene che il ruolo dell’interprete contenga in sé una dualità: l’interpretazione può essere concepita come un servizio che rende possibile la comunicazione e/o come attività di produzione di un testo. Pertanto gli standard di qualità di questa doppia funzione posso essere rappresentati in un modello grafico che parte da un nucleo fondamentalmente lessico-semantico fino ad arrivare alle nozioni socio-pragmatiche: 81 Pöchhacker F. (2002), “Researching interpreting qualities”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 95-106 89 Il primo criterio che viene alla mente quando si parla di qualità di interpretazione è senza dubbio l’accuratezza del testo tradotto rispetto a quello originale, il che vale a dire quanto è stato reso bene il messaggio originale. Poi salendo di livello troviamo l’adeguatezza, ovvero quanto il testo tradotto sia conforme alle norme linguistico-culturali della cultura di arrivo mantenendo però sempre inalterato il messaggio originale. Al livello successivo troviamo l’equivalenza, ovvero se e quanto il testo tradotto abbia raggiunto l’effetto voluto dal parlante nella lingua di destinazione. Nel cerchio più esterno troviamo il passaggio finale, quello che riassume tutti gli step intermedi, cioè il successo della comunicazione. Come ricordano, tra gli altri, Pöchhacker (2002), Lee (2009)82 e Garzone (2002)83, i principi intuitivi sulla cui importanza c’è un generale accordo sono fedeltà al testo originale, accuratezza, chiarezza, comprensibilità, doti comunicative, doti interpersonali, ecc. ovviamente il livello di importanza di queste componenti può variare a seconda della situazione comunicativa ma anche del giudizio soggettivo e personale di chi è chiamato ad esprimersi sulla qualità dell’evento mediato. Il problema è che ancora manca un modello che indichi i parametri per giudicare il livello di qualità dell’interpretazione e gli standard da seguire. Nello studio di Kalina84 (2002: 122-123) vengono riportati alcuni delle più interessanti ricerche in materia. Per esempio Gile nel 1988 ha elaborato il suo “capacity management 82 Lee J (2009), “Toward more reliable assessment of interpreting performance”, in S. Hale, U. Ozolins e L. Stern eds. (2009), The Critical Link 5: Quality in Interpreting: a Shared Responsibility. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company:171-185 83 Garzone G. (2002), “Quality and norms in interpretation”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 107-119 84 Kalina S. (2002), “Quality in interpreting and its prerequisites: a framework for comprehensive view”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 121-130 90 model” in cui egli spiega come secondo lui la qualità dell'interpretazione viene messa a rischio quando uno dei tre principali Sforzi (maiuscola originale) (“listening, memory, production”) richiede troppa elaborazione da parte dell'interprete e ciò va a danneggiare gli altri due Sforzi. In seguito Pöchhacker ha proposto di considerare il target text (cioè il testo prodotto dall'interprete per l'interlocutore che non conosce la lingua) come un prodotto da considerarsi autonomamente rispetto al source text (il testo originale pronunciato dal parlante), mantenendo come scopo principale quello di trasmettere il senso nella maniera più comprensibile possibile. Viezzi ha invece studiato la materia con un approccio didattico, concentrandosi sui quattro scopi della comunicazione che secondo lui sono fondamentali: equivalence, accuracy, appropriateness e usability; nel suo modello la qualità dell'evento mediato è determinata dal grado di raggiungimento di questi obiettivi. Ovviamente, vista la varietà di studi ed opinioni a riguardo, non è facile stabilire cosa gli interpreti dovrebbero fare e come nell’evento mediato. Kalina evidenzia l’importanza della fase di preparazione pre-evento, sia da parte dei service providers, sia da parte dei partecipanti all’evento che da parte dell’interprete stesso, che spesse volte non sa cosa aspettarsi e pretendere dagli altri attori dell’evento. L’autrice (2002:125) ha riassunto in uno schema dei parametri per misurare la qualità del prodotto, tenendo in conto che sono interdipendenti e soggetti a continui cambi situazionali e contestuali: Semantic contest Consistency logic, coherence completeness accurateness unambiguity clarity reliability Linguistic performance Grammatical correctness adherence to TL norms comprehensibility stylistic adequacy terminological adequacy discretion lack of disturbance Presentation voice quality articulation public speaking discipline simultaneity technical mastery conduct 91 Questo modello, secondo Kalina, rispecchia il tentativo di trovare il giusto equilibro durante ogni fase dell’atto comunicativo tenendo conto di tutti i vari segmenti che lo compongono, divisi qui in tre settori (ibidem). Altri requisiti non inclusi in questa tabella riguardano le doti personali dell’interprete, come fattori mentali e fisici (per esempio la capacità di gestire lo stress), abilità linguistiche ed oratorie, la capacità di lavorare in gruppo, la competenza nel destreggiarsi nel passaggio continuo tra due lingue. Secondo Garzone (2002:108) il modello che meglio spiega quali elementi bisogna considerare nella valutazione della qualità è quello di Shlesinger del 1997, che distingue tre livelli di analisi: intertextual (“a comparison of the source text and the target text, based on similarities and differences”), intratextual (“evaluation of the acoustic, linguistic and logical aspects of interpreted text as a product in its own right) e instrumental (“the target’s text comprehensibility and usefulness as a customer service”). Garzone prosegue spiegando che il pro di questa schematizzazione è che evita termini ambigui e non chiaramente definiti come “equivalenza”, ma dall’altra parte ha una visione della qualità segmentata in singoli elementi valutabili a parte. Senza dubbio il modello di Shlesinger è un tipo di approccio molto organizzato e ben strutturato, ma l’eccessiva schematizzazione delle parti testuali tende a trascurare che il discorso è un testo fluido e spontaneo, difficile da scomporre in queste sottocategorie. Il fine ultimo di tutti gli studi sui metodi di valutazione, sempre secondo Garzone (ibidem:110), dovrebbe essere quello riassunto in questa affermazione: “to formulate a principle which is located at a sufficiently high level of generalisation to explain the rationale underlying the interpreter’s behaviour and choices, thus providing a basis for understanding the intrinsic quality of a given performance, as well as the user’s quality expectations” Le parole di Garzone spiegano davvero efficacemente qual è il nodo della questione; bisogna trovare un principio, un modello in grado di rispecchiare la complessità e la molteplicità degli elementi che determinano il livello di qualità, ma questi elementi devono essere valutati nella loro interazione ed influenza reciproca, non a comparti stagni. Ci vorrebbe un sistema in grado di determinare se e quale livello di qualità la somma degli svariati elementi citati pocanzi riesce a 92 raggiungere. È sicuramente più facile a dirsi che a farsi ma le tante ricerche ed i dibattiti che stanno nascendo sul tema aiuteranno ad arrivare a questo risultato. L’unica contraddizione di questo meccanismo è pensare che l’uomo arrivi a creare un sistema che sia in grado di valutare ma senza nessuna influenza soggettiva; in realtà sia che si stabilisca una tabella con dei valori da assegnare o un modello con delle fasi da seguire, anche involontariamente la prospettiva personale di chi giudica trasparirà e influenzerà. Sempre su questo argomento, Messina (2002:105)85 sottolinea che probabilmente il problema maggiore del tentativo di stabilire un modello di valutazione della qualità è che “quality standards aim at checking and assuring the quality of the process through which a product is made, and not of the product itself, thereby reducing any activity to a repeatable step-by-step process” (corsivo mio). Infatti è davvero difficile pensare di poter esaminare un dialogo come se fosse fatto di fasi consecutive e concatenate scomponibili in singole parti e analizzabili a sé. Tuttavia rimane sempre molto interessante la proposta di trovare degli standard e dei parametri unanimi attraverso i quali poter giudicare il prodotto dell'evento mediato. Su questa linea Messina aggiunge: “quality standards, even in this “creative” field, can arguably help assure quality in terms of qualification requirements, and general guidelines to be followed before the final product is “delivered” to its user” (ibidem). Un altro concetto che si è sviluppato fin dagli albori della ricerca sulla valutazione della qualità è quello della prospettiva da cui la si valuta, con una distinzione tra quella degli interpreti stessi in contrasto con quella degli utenti del servizio (Pöchhacker 2001:411)86. Gile (ibidem) già nel 1991 aveva elaborato un suo modello chiamato “communication configuration” che prevedeva non solo l’interprete (sender) e gli utenti (receiver) ma anche il cliente, nella posizione di colui che commissiona e paga il servizio. Pöchhacker in seguito ha redatto un altro modello che vuole riassumere le varie posizioni e prospettive sul concetto di qualità, senza dimenticare i giudizi e le attitudini soggettive (ibidem:412): 85 Messina A. (2002), “Quality research and quality standards in interpreting: the state of the art”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Perspective on interpreting, Bologna, Clueb: 103-109 86 Pöchhacker F. (2001), “Quality assessment in conference and community interpreting”, in Meta: Translators' Journal, vol. 46, n° 2: 410-425, http://www.erudit.org/revue/meta/2001/v46/n2/003847ar.pdf (ultimo accesso 14/08/2012) 93 Il nucleo dell’evento mediato (rappresentato dal quadrato) sono ovviamente l’interprete, l’interlocutore parlante (ST-P) e quello che ascolta (TT-R). È molto importante stabilire la differenziazione tra “text producer” and “text receiver” perché, come evidenziato da un sondaggio di Kopczynski (in Pöchhacker 2002:100) questi due interlocutori hanno aspettative e preferenze divergenti riguardo al ruolo dell’interprete: il primo tollera maggiormente un atteggiamento interventista dell’interprete, mentre il secondo preferisce che rimanga invisibile ad una traduzione molto letterale delle parole del parlante. In ambito dell’interpretazione di comunità, poi, i termini “text producer” e “text receiver” sono spesso sostituiti da “service providers” e “non-majority-language-speaking clients”. Inoltre in questo schema i ruoli del cliente e dei colleghi (intesi anche come membri del team di lavoro o altri interpreti veri e propri) sono un po’ quelli di due osservatori esterni che dalla loro posizione possono valutare meglio la qualità della comunicazione. Garzone (2002:107) fa notare come la ricerca sul tema della qualità nel corso degli anni si sia spostata progressivamente da un piano puramente linguistico ad uno molto più ampio di tipo sociolinguistico e pragmatico. Il problema di fondo è che “quality is the sum of several different, heterogeneous aspects, some of which involve different subjects – interpreters, clients, users, speakers – each with a different view and perception of quality”. Come evidenzia Pöchhacker (in Messina 2002:107) “we should not simply evaluate quality but quality under the circumstances”; dobbiamo tener conto che è praticamente impossibile stabilire parametri di giudizio totalmente oggettivi, e che è importante considerare sempre le circostanze della situazione comunicativa. Infatti lo stesso autore nella sua trattazione (in Pöchhacker 2002) riassume vari metodi di studio e ricerca sul tema, 94 che vanno dal sondaggio, agli esperimenti, all’osservazione di autentici corpora testuali fino allo studio di un singolo caso. Sicuramente quello del sondaggio è il più utilizzato e quello che permette di indagare più precisamente su un singolo aspetto della questione e anche da più punti di vista, considerando che durante un’indagine solitamente vengono redatti questionari specifici per interpreti, clienti e utenti. Ovviamente, come sottolinea Garzone (ibidem) la difficoltà è data dall’evanescenza dell’oggetto di studio, e anche se si trascrive un evento mediato, è facile intuire come molti elementi vadano perduti e siano impossibili da convogliare nella traduzione per iscritto, come il tono della voce, i gesti, le esitazioni, i silenzi, e tutti gli elementi prosodici. Il futuro della ricerca (Messina 2002:107) nel campo della valutazione della qualità potrebbe essere quello di tenere in massimo conto i bisogni specifici degli utenti (come una sorta di “customer satisfaction”), per esempio attraverso l'azione di organizzazioni normalizzatrici che stabiliscano le caratteristiche qualitative del “prodotto”. Per esempio il tentativo italiano è stato la creazione del UNI 10574 standard (ibidem:105), che ha lo scopo di assicurare una qualità perlomeno esteriore del servizio, il che significa che può stabilire gli elementi basici richiesti come parte del contratto tra “cliente” e “venditore”, ma non si addentra nella valutazione dell'interpretazione in sé. Inoltre un altro aspetto negativo riguardante la ricerca sulla tematica della qualità e della sua valutazione, secondo Messina (2002:104) è che, nonostante ormai se ne riconosca ampiamente la necessità, l'interpretazione è un servizio che spesso viene visto solo come un fattore di spesa; questa opinione popolare è purtroppo supportata dal fatto che il settore linguistico ha ben poco peso politico e lo status della professione è ancora piuttosto basso. L'autore suggerisce che il giudizio di valore degli utenti sul servizio di interpretazione potrebbe essere incrementato appunto stabilendo degli standard che misurino il valore e la qualità di esso; oggigiorno infatti sono davvero pochi i settori del terziario in cui i potenziali clienti non hanno la possibilità di valutare il “value for money” del servizio che acquistano. 95 4.3 Le agenzie di interpretazione Questo breve sotto-capitolo mira a fornire una spiegazione sulle effettive modalità di lavoro degli interpreti di comunità e sul loro mercato del lavoro, cercando di proporre un discorso generico che si possa adattare a vari paesi, anche con situazioni linguistiche differenti. Partendo dal presupposto che è realmente difficile trovare un sondaggio o uno studio che si occupi dettagliatamente di tutti i paesi del mondo, seguendo i trend mondiali possiamo affermare che solo una minoranza degli interpreti di comunità lavora come staff fisso di un ente o di un’associazione, mentre alcuni lavorano su base volontaria (ma il più delle volte sono considerati interpreti ad hoc e non professionisti, visto che non è possibile certificare la loro effettiva competenza). Questi ultimi due casi si ricollegano ai discorsi affrontati in precedenza riguardanti il fatto che la necessità di servizi linguistici regolari e ben organizzati è ormai un dato acquisito, ma che nella stragrande maggioranza dei casi non ci sono fondi per garantirli, né tantomeno per potersi permettere dei professionisti assunti in pianta stabile all’interno degli staff delle istituzioni pubbliche. Per esempio, in Italia sono ancora pochi i casi in cui nel settore sanitario troviamo uno staff permanente di interpreti, per lo più nelle città con grandi percentuali di immigrati, come Milano, Rimini e Palermo (Garzone, Rudvin 2003:140). Un aspetto molto interessante è che un numero sempre crescente di interpreti, secondo quanto riportato da Ozolins87, lavora come freelance in diverse istituzioni, e solitamente ottiene il lavoro attraverso le agenzie. Lo stesso Ozolins, dopo aver notato che nella letteratura sul community interpreting ben poco spazio è stato concesso al ruolo delle agenzie di interpretazione (sia quelle private che quelle controllate da enti governativi che quelle no profit), propone uno studio (ibidem:121-129) molto interessante sul rapporto di queste agenzie con gli stessi interpreti, con gli “acquirenti”, e sul loro ruolo di intermediari tra questi due soggetti. Secondo l’autore (ibidem:123), infatti, l’estrema discontinuità 87 Ozolins U. (2007), “The interpreter’s third client: interpreters, professionalism and interpretin agencies”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 121-131 96 dell’aumento della professionalizzazione nell’interpretazione di comunità è dovuta anche al fatto che interpreti, clienti, legislatori e tutte le parti coinvolte in questa situazione non hanno una visione comune e condivisa dei rispettivi ruoli e una conoscenza sufficiente della qualità e degli scopi dei servizi di interpretazione per la comunità. La relazione tra interpreti e agenzie può essere osservata dal punto di vista di entrambe le parti. Dal punto di vista degli interpreti, ci sono innegabili vantaggi nell’appartenenza ad una o più agenzie, per esempio la facilità di reperire nuovi clienti (anche se ciò può comportare un abbassamento delle tariffe rispetto a quelle dei freelance, ma è un abbassamento controbilanciato dal fatto che l’interprete non deve più svolgere il lavoro di ricerca dei clienti) e la conseguente possibilità di fidelizzazioni. I lati negativi sono la disparità tra agenzie per quanto riguarda le pratiche lavorative e gli standard (ibidem:125) e soprattutto la mancanza, nella stragrande maggioranza dei casi, di indicazioni o regolamenti di tipo etico, che potrebbero mettere in difficoltà l’interprete nei confronti del cliente e della sua stessa professionalità. Invece per quanto riguarda le agenzie, il loro punto debole e quello forte sono rappresentati dalla stessa questione, ovvero avere a che fare con molti interpreti con differente livello di professionalità: può essere un vantaggio, perché permette di avere una vasta gamma di professionisti ai quali affidare un lavoro a seconda delle caratteristiche della situazione, ma dall’altro canto rappresenta un rischio costante poiché quasi mai le agenzie hanno l’occasione di vedere all’opera i loro “dipendenti” e si ritrovano a fidarsi delle loro competenze sulla fiducia, non potendo verificare il loro grado di professionalità. Questo comporta anche una grande variabilità di qualità, livello di professionismo e capacità di fare business (ibidem:123). La conclusione che sorge spontanea dopo questa prima parte dello studio è che se la previsione secondo la quale il coinvolgimento delle agenzie andrà in crescendo è corretta, l’interpretazione si sta professionalizzando ed “industrializzando”, e diventa sempre più un vero business. In un certo senso, si perde quella patina di “assistenzialismo” e quell’apparenza più “umana” che hanno sempre contraddistinto il community interpreting dal court interpreting o dal business intepreting. 97 Per quanto riguarda il rapporto tra clienti (ibidem: 127-128) – che qui sono definiti acquirenti, in quanto compratori di un servizio – ed agenzie, esso subisce le false aspettative e la poca chiarezza che ruotano intorno ai doveri ed alle prerogative degli interpreti ed i problemi maggiori sono dati dal fatto che i clienti spesse volte non sanno come relazionarsi né con le agenzie (per quanto riguarda, per esempio, prezzo e durata del servizio) né con gli interpreti, sia prima che durante che dopo l’evento mediato. Ozolins (ibidem:127) sottolinea come le agenzie abbiano messo in atto una sorta di tentativo di educare il mercato e si siano poste come patrocinanti della causa della professionalizzazione. È indubbio che, visto il ruolo che ormai ricoprono, esse possono fare molto per questo processo, nel senso che in generale ci si aspetta che anche loro forniscano dei limiti e degli standard professionali per regolare il servizio di interpretazione linguistica; molte agenzie lo fanno, anche se non è detto che sia un loro compito, ma in questo c’è anche un tornaconto. Infatti Ozolins (ibidem:128) si domanda se le agenzie si siano concentrate così approfonditamente sulle questioni professionali per il bene comune e per far rendere conto ai loro clienti il beneficio di standard qualitativi ben delineati, o se le agenzie mettano in piedi queste iniziative professionali solo dopo aver acquisito la leadership nel mercato con l’intento, appunto, di mantenerla. Sicuramente quest’ultima riflessione è strettamente collegata col discorso della progressiva “industrializzazione” della professione accennato in precedenza. Ozolins riporta anche la crescente tendenza da parte di molti paesi, per quanto concerne appunto il processo di professionalizzazione del community interpreting, ad accreditare le agenzie piuttosto che i singoli interpreti (ibidem:129), cosicché tocca alle agenzie regolare l’accesso per i candidati e verificarne le competenze, meccanismo che permette di ottenere in automatico un servizio di comprovata qualità ogni qual volta ci si rivolga ad un’agenzia specializzata. Infine, le agenzie si trovano a svolgere il delicato ruolo di anello di congiunzione tra clienti ed interpreti ed a dover mediare, specialmente in caso di problemi, tra le due parti. Infatti possono verificarsi commenti negativi e lamentele sia sugli interpreti, che da parte degli interpreti stessi, ma questo è un argomento davvero delicato in quanto le modalità di approccio a questo tipo di problemi variano molto da agenzia ad agenzia ed è impossibile stabilire un quadro generale. 98 La conclusione principale che Ozolins (ibidem:124) stila dal suo studio, comunque, è che oramai le agenzie devono essere considerate a tutti gli effetti il “terzo cliente” degli eventi intermediati, in quanto l’interprete traduce per almeno due clienti (quelli effettivamente coinvolti nell’atto comunicativo), ma a sua volta l’agenzia per cui lavora è il suo cliente primario, la fonte di reddito e di nuovi appalti. L’incapacità di relazionarsi con l’agenzia in quanto terzo cliente può essere indicatore di una mancanza di professionalità nell’interprete. Sulla questione agenzie si rivela particolarmente interessante anche riportare l’opinione di un diretto interessato, il traduttore Greg Twiss88, uno degli autori del famoso sito web ProZ.com89. Tra gli aspetti positivi del ricorso alle agenzie da parte dell’interprete, Twiss elenca i seguenti (mia traduzione): 1) Una volta che si è stabilito un rapporto con alcune agenzie, l’interprete riscontrerà che esse continueranno a cercarlo ed a fornire un costante quantitativo di lavoro, cosa che permetterà di lavorare a pieno regime 2) Dato che le agenzie forniscono il lavoro, non ci sarà più bisogno di ricercare clienti. È vero che la ricerca delle agenzie inizialmente costerà uno sforzo, ma sarà sicuramente minore rispetto al dover continuamente cercarsi nuovi clienti 3) Le agenzie permettono di ampliare le possibilità lavorative, procurando lavoro in diversi ambiti, cosa che contribuirà allo sviluppo dell’esperienza personale 4) Per quanto riguarda la responsabilità dell’attività di interpretazione, l’interprete in quanto lavoratore è sicuramente più tutelato, metaforicamente parlando non sarà più il primo soggetto in linea di tiro nel caso di lamentele o proteste da parte del cliente L’autore cita però anche alcuni lati negativi, che riguardano generalmente l’aspetto di precarietà di questo lavoro, come per esempio: 1) Le agenzie pagano meno di un cliente diretto, ma bisogna considerare che l’interprete ci guadagna anche dal non dover usare tempo ed energie nel 88 Twiss G. (2005), “Working for agencies”, disponibile al link: http://www.proz.com/translationarticles/articles/65/ (ultimo accesso: 12/08/2012) 89 ProZ.com è un sito famoso in tutto il mondo che riunisce professionisti del linguaggio come traduttori, interpreti, agenzie di traduzione ed interpretazione ed i loro clienti. http://www.proz.com 99 ricercarsi clienti. Inoltre nel caso in cui le agenzie forniscano una costante quantità di lavoro, anche questa va a supplire il mancato introito 2) Alcune agenzie tendono a “rinnovare” lo staff molto di frequente. 3) L’interprete potrebbe ritrovarsi con una lista di clienti che si assottiglia sempre più, il che lo rende completamente dipendente dalle agenzie, ed è davvero difficile uscire da questa situazione. C’è da dire, comunque, che l’interprete vende servizi, non un prodotto, perciò per fare il suo lavoro con serietà e professionalità non può pretendere di lavorare per troppi clienti allo stesso tempo. L’intervento di Twiss appare ricco di spunti di riflessione e rivela anche l’altro lato della medaglia, ovvero le opinioni di un diretto interessato sul tema delle agenzie. Senza dubbio sta ad ogni individuo scegliere la sua modalità di lavoro preferita, ma in una fase in cui gli enti pubblici ricorrono ad uno staff specifico per i servizi linguistici di comunità molto meno di quanto dovrebbero/necessiterebbero, rivolgersi ad un’agenzia può rappresentare un buon metodo per trovare lavoro e crearsi un buon giro di clienti. In questo capitolo abbiamo dunque discusso la questione della professionalizzazione prendendo in visione una pluralità di opinioni che ci hanno aiutato a tracciare un quadro quanto più chiaro possibile della situazione. Nella seconda parte ci siamo conseguentemente occupati del tema della valutazione della qualità, elemento indispensabile per poter giudicare il livello di professionalità di un interprete professionista. Entrambe le tematiche hanno alle spalle una storia di studio e ricerca accademici piuttosto recenti ma abbiamo potuto notare che negli ultimi anni la necessità di fare chiarezza sul problema dei servizi linguistici nei settori pubblici si è fatta sempre più impellente, individuando come motivazioni primarie di ciò due fattori, la globalizzazione e l’immigrazione, strettamente legati tra loro. Non è facile mantenere un equilibrio tra le necessità degli interpreti e quelle dei clienti, e ciò si è visto ancora una volta nel tema della professionalizzazione, che tocca entrambe le parti da molto vicino. Nel capitolo conclusivo a seguire, invece, presenteremo una breve panoramica della situazione del community interpreting nel mondo, occupandoci di diversi paesi che, per dirla con Ozolins, sono situabili in diversi punti del suo continuum. Ci soffermeremo in particolare sull’Italia, che in quanto a servizi linguistici vive 100 una situazione davvero particolare, ed alquanto arretrata rispetto agli alti standard di paesi più evoluti. 101 CAPITOLO 5 COMMUNITY INTERPRETING IN GIRO PER IL MONDO L’ultimo capitolo della dissertazione mira a fornire una descrizione in concreto della situazione del community interpreting in vari paesi del mondo, con alle spalle vicende culturali e politiche molto differenti, che hanno influenzato lo sviluppo di questo tipo di interpretazione. Ricollegandoci alla teorizzazione di Ozolins sulle modalità di ricettività dei vari paesi al bisogno di servizi di interpretazione, analizzata nel capitolo precedente, vedremo come i vari paesi presi in esame si collocheranno su diversi punti del continuum. Infine, un’analisi a parte sarà dedicata all’Italia, alle peculiarità della sua situazione (anche dal punto di vista terminologico, come accennato nel primo capitolo) ed ai tanti problemi ancora da risolvere. Questo ultimo capitolo si rivela alquanto interessante in quanto permetterà di esaminare come e quanto i vari paesi applicano i differenti concetti che abbiamo esaminato lungo tutta la dissertazione e come si relazionano concretamente con la materia del community interpreting. 5.1 Le eccellenze: Australia e Svezia Questo excursus storico-geografico inizia da Australia e Svezia poiché ci pare più appropriato partire da situazioni positive e che possono essere di buon esempio per tutti i paesi che si sono incamminati sulla via della professionalizzazione del community interpreting. L’Australia è una terra che ha alle spalle una lunga storia di migrazioni e interconnessioni linguistiche e culturali, cominciate nel 1770 con l’arrivo degli Inglesi e la conseguente colonizzazione, che portò la lingua inglese in una terra abitata solo dagli Indigeni – che parlavano oltre 700 lingue diverse – e fino a quel momento pressoché sconosciuta. Come accadde anche in America con lo 102 spagnolo, l’inglese finì per rimpiazzare le lingue indigene, portando molte di esse alla scomparsa. La società australiana diventò ancor più etnicamente composita quando, alla fine della seconda guerra mondiale, firmò un trattato internazionale che permetteva l’ingresso a migliaia di immigrati europei (Chesher 1997:279)90. Come sottolinea Pöchhacker (1999:131), il cambiamento della linea politica del governo degli anni Settanta verso il multilinguismo e il multiculturalismo, associato al crescente potere politico delle lobby di immigrati, portò a innovazioni e sviluppi nel settore dei servizi linguistici. Solo a partire dagli anni Ottanta la politica linguistica nazionale ricominciò a dare il giusto peso anche alla componente indigena (Chesher 1997:280). In realtà questo processo di riconoscimento del multilinguismo non è stato affatto lineare ed è stato preceduto da una lunga fase in cui le lingue che non fossero l’inglese erano screditate e mal tollerate. Martin (in Chesher ibidem:281) sottolinea “the tardy and reluctant response on the part of Australian institutions to change in the ethnic composition of population”, che portò a definire i migranti non anglofoni un problema. Dopo decenni di reclutamento ad hoc, a partire dagli anni Settanta, appunto, una serie di iniziative a livello statale cominciarono a cambiare la situazione del community interpreting. Non fu un processo facile perché, come evidenzia Hearn (ibidem), inizialmente ci furono dei problemi di accettazione del ruolo degli interpreti, che spesso difettavano di un’adeguata preparazione nei settori in cui ci si aspettava il loro intervento. La risposta iniziale al bisogno di interpreti, secondo Ozolins (ibidem:282), fu la cooptazione di membri dello staff di servizi pubblici conoscitori di una o più lingue nell’attività di interpretazione, alcuni dei quali si ritrovarono nella professione senza un training formale preparatorio. Molti di essi erano parlanti delle minoranze etniche che conoscevano l’inglese e già fungevano da interpreti ad hoc per le loro comunità. A partire dagli anni Settanta, pertanto, con la progressiva consapevolezza dell’ingiustizia della situazione di disagio e svantaggio degli immigrati, il governo si impegnò concretamente nella costituzione di servizi di traduzione e comunicazione per la comunità, riconoscendo nella loro integrazione anche un 90 Chesher T. (1997), “Rhetoric and reality: two decades of community interpreting and translating in Australia”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 277-289 103 vantaggio economico e sociale. Nel 1973 il Dipartimento dell’Immigrazione fondò il TIS (Telephone Interpreter Service) e nel 1977 il NAATI (National Accreditation Authority for Translators and Interpreters) (Pöchhacker 1999:132). Il NAATI, secondo quanto afferma Bell (1997:93)91, ha il compito di stabilire e monitorare gli standard per andare incontro ai bisogni di tutti gli interpreti e traduttori australiani, e di sviluppare il sistema attraverso il quali i praticanti possono essere accreditati ai vari livelli, oltre al compito più generico di promuovere la professione e il suo riconoscimento. Pöchhacker (1999:132) nota che il sistema di accreditamento della NAATI è stato sviluppato in assenza di un’associazione professionale (dato che l’AUSIT, l’istituto australiano degli interpreti e dei traduttori, è stato fondato solo nel 1987), a riprova del fatto che l’impostazione degli standard per l’interpretazione è di natura istituzionale piuttosto che professionale. L’accreditamento NAATI è l’unica credenziale ufficialmente accettata per la professione di interprete e traduttore in Australia; i tipi di certificazione sono: advanced translator, professional translator, paraprofessional translator, professional interpreter, paraprofessional interpreter92. Gli interpreti di comunità in Australia, secondo quanto riporta Chesher (1997:285), sostengono la necessità di un maggior impegno a livello governativo per fornire a mantenere un adeguato livello di qualità, attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro, dei percorsi di carriera e dei compensi, l’accesso a corsi di formazione e di verifica, per escludere dalla professione elementi incompetenti o eticamente scorretti e per favorire il riconoscimento e il consolidamento della professione. Sebbene ci siano delle variazioni a livello regionale della qualità dei servizi interpretativi ed una mancanza di interpreti qualificati per alcuni gruppi linguistici, in generale possiamo affermare che nonostante le inevitabili difficoltà il modella australiano può essere sicuramente d’esempio nella storia del 91 Bell S.J. (1997), “The challenges of setting and monitoring the standards of community interpreting: an Australian perspective”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 93-108 92 Fonte: NAATI Accreditation by Testing - Information Booklet, disponibile a: http://www.naati.com.au/PDF/Booklets/Accreditation_by_Testing_booklet.pdf 104 community interpreting; gli australiani, secondo Chesher (ibidem:289) possono andarne fieri ma devono continuare ad impegnarsi per essere i primi al mondo. Infatti, come aggiunge Bell (1997:105), le autorità in materia mirano ad un futuro in cui il sistema di certificazione degli standard australiani verrà riconosciuto ed adottato come sistema australasiatico. Passiamo ora ad esaminare il secondo caso di eccellenza, ovvero la Svezia, che possiede un sistema di autorizzazione e certificazione degli interpreti unico al mondo, basato su una trentennale esperienza nel campo del community interpreting. Infatti, fin dagli anni Sessanta la Svezia si è trovata ad affrontare le questioni legate all’interpretazione di comunità, come conseguenza dell’enorme afflusso di lavoratori immigrati dal Sud Europa e dalla Turchia (Niska 2007:301)93. Già a partire dagli anni Settanta (ibidem), l’interpretazione di comunità si avvia sul cammino della professionalizzazione con l’istituzione di corsi di formazione professionali per interpreti e con la pubblicazione di un codice deontologico (“Good interpreting practice”, incentrato su riservatezza, neutralità, imparzialità ed accuratezza; in Norström 2010:7)94 da parte di un’agenzia governativa. Come spiega Idh (2007:135-137)95, qualsiasi persona che vive in Svezia ma non conosce lo svedese ha il diritto per legge (secondo quanto sancito da Code of Judicial Procedure, Administrative Procedure Act e Administrative Court Procedures Act, in Norström 2010:4) ad essere assistito da un interprete in caso di contatti o rapporti con le autorità svedesi, un esempio di grande civiltà ed apertura mentale. Per essere accreditati, gli interpreti devono superare un test preparato da esperti del linguaggio che mira ad assicurare che essi abbiano le competenze e le capacità per fornire un servizio di alta qualità. L’aspetto particolare di questo 93 Niska H. (2007), “From helpers to professionals: training of community interpreters in Sweden”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 297-310 94 Norström E. (2010), Cultural diversity, multilingualism and ethnic minorities in Sweden: community interpreting in Sweden and its significance to guaranteeing legal and medical security, Sens Public (2010). http://www.senspublic.org/IMG/pdf/SensPublic_Eva_Norstrom_Cultural_diversity_Multilinguism_and_Ethnic_mi norities_in_Sweden.pdf (ultimo accesso 23/07/2012) 95 Idh L. (2007), “The Swedish system of authorizing interpreters”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 2-8 105 esame è che non sono richieste qualifiche di tipo formale né vengono forniti corsi didattici preparatori, è quindi piuttosto aperto, al punto che l’autrice lo definisce “test vocazionale”. La Svezia, secondo quanto afferma Pöchhacker (1999:132), è stata la nazione pioniera nel provvedere alla creazione di corsi di formazione per interpreti di comunità, anche sotto forma di corsi brevi nelle centri educativi per adulti o nelle associazioni di volontariato. Inoltre, secondo quanto riportano Amato e Mead (2002:299)96 la formazione degli interpreti di comunità è sempre stata totalmente finanziata dal governo fin dal suo inizio nel 1968; nel corso degli anni è anche sembrato che i fondi sarebbero stati ridimensionati, ma le proteste delle autorità pubbliche, degli interpreti e degli immigrati hanno scongiurato i tagli. Parlando di cifre concrete, Niska (2007:298) indica che in Svezia ci sono più di cinquemila interpreti di comunità (su una popolazione di circa nove milioni e mezzo di persone, dei quali il 18,6% è nato all’estero o è nato in Svezia da genitori stranieri)97, che lavorano in più di cento lingue, fornendo ogni giorno tremila ora di servizi di interpretazione, per di più nel settore medico e del welfare sociale, per un costo annuo di 45 milioni di euro, principalmente finanziati da fondi pubblici. La legislazione svedese è particolarmente all’avanguardia; secondo quanto spiega Niska (ibidem: 297-299), già trent’anni fa il Parlamento svedese ratificò una politica migratoria volta all’eguaglianza, alla libertà di scelta e alla cooperazione, che diede il via ai servizi di interpretazione per gli immigrati. Nel 1997 definì i concetti base della politica di integrazione svedese, all’insegna di pluralismo, equità e tolleranza; nel 1999 regolamentò per legge la difesa delle cinque minoranze svedesi riconosciute98, volta a fornire supporto ed a mantenere vive le loro tradizioni e le loro lingua in quanto parti integranti della cultura svedese. Inoltre la Svezia è così legislativamente avanzata in tema di politiche linguistiche che ha firmato insieme a Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia il “Nordic 96 Amato A. e Mead P. (2002), “Interpreting in the 21st century: what lies ahead”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 295-302 97 Fonte: Statistics Sweden http://www.scb.se/Pages/Product____25799.aspx (ultimo accesso 1/10/2012) 98 Le cinque minoranze sono: Sami (popolo indigeno), Swedish Finns, Tornedalers, Roma, Jews (Niska 2007:299) 106 Language Convention” che garantisce ai cittadini di questi cinque paesi la possibilità di utilizzare la propria lingua madre, grazie a servizi di interpretazione appositi, in caso si dovessero trovare a trattare con le autorità di uno degli altri paesi nordici (ibidem:298). Oggigiorno il servizio di community interpreting è in larga misura un’attività ben organizzata e riconosciuta come parte del servizio pubblico, e fornisce un grande numero di interpreti preparati e professionali, anche se, come abbiamo avuto modo di verificare, il professionismo non si raggiunge certo in un battibaleno ma è frutto di anni di intenso lavoro e impegno da parte di tutti i soggetti coinvolti. 5.2 Differenti livelli di sviluppo: Stati Uniti, Canada, Spagna a confronto Gli Stati Uniti rappresentano un caso abbastanza particolare per la loro vastità di territorio e popolazione e anche per la loro forma di governo federale. Vantano una popolazione di oltre 314 milioni di abitanti99 e un crogiolo di razze ed etnie (il cosiddetto “melting pot”) irripetibile al mondo, sparsi in 50 stati con legislazioni differenti. Pertanto Mikkelson (1996:7) sottolinea come il court interpreting sia ormai emerso come professione riconosciuta, mentre il community interpreting rimane più indietro. La situazione è molto variegata e non ci sono regolamenti né standard validi a livello nazionali ed uguali per tutto; va comunque sottolineato che le politiche sociali e linguistiche sono anche competenza dei singoli stati federali perciò questa diversità o mancanza di omogeneità non deve stupire più di tanto. Mikkelson (ibidem:8) fa notare anche che la professione dell’interprete di comunità risente anche delle tensioni razziali e sociali e di una certa attitudine anti-immigrati, perciò il prestigio e la conseguente remunerazione sono ancora piuttosto bassi. D’altro canto, se non ci sono standard per le prestazioni degli interpreti redatte dalle autorità statali, spesse volte questo ruolo viene supplito da associazioni di professionisti, come nel caso del Massachussetts Medical Interpreters Association 99 Fonte: United States Census Bureau http://www.census.gov/main/www/popclock.html (ultimo accesso 2/10/2012) 107 e il California Healthcare Interpreters Association, che molto hanno contribuito nel processo di professionalizzazione (Pöchhacker 1999:132). Come sottolinea Fortier (1997:165)100gli Stati Uniti hanno sempre avuto il problema della creazione di un servizio di interpretazione in ambito sociale utile e ben funzionante per gli utenti non anglofoni, e solo negli ultimi anni le comunità, gli interpreti e i service providers sono stati in grado di sviluppare un confronto efficace con le parti governative per sottoporre alla loro attenzione l'importanza di trovare un rimedio a questa situazione. Il risultato è stato che le politiche governative offrono molte possibilità ai servizi pubblici di provvedere all'offerta di servizi di interpretazione bilingue. L'autrice prosegue spiegando come gli Stati Uniti abbiano messo in atto tre tipi di meccanismi governativi per promuovere la disponibilità di servizi interpretativi, con particolare attenzione al settore sanitario, attraverso leggi sui diritti civili, legislazioni federali e statali e la disposizione di programmi finanziati a livello federale. Tutte le modalità hanno riscontrato degli ostacoli (ibidem:173), come il deficit di informazioni (cioè la mancanza di riconoscimento dei diritti dei parlanti non anglofoni e di informazioni facilmente accessibili su potenziali soluzioni, tecniche e modalità di formazione per gli interpreti, ecc.), le barriere economiche (poche risorse finanziarie, niente rimborsi per gli interpreti) e ed anche attitudinali (concezione degli interpreti come un fardello costoso piuttosto che , bassa priorità di importanza dei servizi interpretativi, ecc.) ma alla fine hanno ottenuto dei risultati meritevoli grazie ad alcuni elementi chiave, come organizzazione e cooperazione tra le parti coinvolte, informazione e documentazione sul problema e la comprensione e l'uso corretto delle risorse e degli strumenti legali (come la conoscenza dei diritti civili e la partecipazione attiva dell'Office for Civil Rights). Una situazione simile si è verificata anche in Canada, paese che ha vissuto una grande evoluzione del community interpreting a partire dagli anni Novanta. Secondo Pöchhacker (1999:134), infatti, il community interpreting è stato ampiamente caratterizzato da una fornitura del servizio a livello locale e da iniziativa a livello provinciale piuttosto che da una politica nazionale 100 Fortier Puebla J. (1997), “Interpreting for health in the United States”, in in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 165-177 108 onnicomprensiva. Il Canadian Language Industry101 (2007:8) sottolinea come la legislazione dichiari che tutti i cittadini devono avere accesso ai servizi pubblici, indipendentemente dall'origine etnica o la razza, e devono essere aiutati a affrontare gli ostacoli a riguardo, ma non garantisce il diritto ad un interprete né che i service providers abbiano le competenze e i requisiti per supplire a questa mancanza. Lo studio commissionato da questo istituto ha riscontrato che, a fronte di una popolazione di più di 30 milioni di abitanti, un milione di persone necessitano servizi di interpretazione, specialmente membri delle comunità immigrate, persone non udenti, minoranze riconosciute e comunità aborigene – come esemplifica anche lo studio di Pennet e Sammons102 sul community interpreting nella regione del Nunavut, dove l'Inuktitut è la prima lingua per il 78% della popolazione. In questi anni, comunque, il riconoscimento della necessità di comunicazione per tutti i cittadini ha fatto grandi passi in avanti in Canada, anche grazie ad una legislazione all'insegna del multiculturalismo; tuttavia molto lavoro resta ancora da fare, specialmente per quanto concerne le condizioni lavorative e la remunerazione, ancora molto variabili da ente ad ente, e l'aspetto della certificazione dei professionisti, in quanto gli interpreti in possesso di certificazione sono senza dubbio molti meno di quelli che il mercato lavorativo richiede (ibidem:43). Come afferma Carr, spesse volte accade che amici bilingue, membri della famiglia o dello staff siano chiamati a fungere da interpreti ad hoc, ma recentemente nella multiculturale società canadese cresce la consapevolezza del ruolo vitale degli interpreti nel facilitare la comunicazione tra clienti e service providers (1997:271)103, specialmente nel settore della sanità che è quello a cui gli immigrati si rivolgono con più frequenza e quello nel quale l'interpretazione ad hoc rischia seriamente di fare gravi danni in caso di errori o incomprensioni. 101 “Community interpreting in Canada” (2007), studio commissionato dal Canadian Language Industry, disponibile a: http://www.imiaweb.org/uploads/pages/471.pdf (ultimo accesso: 3/10/2012) 102 Penney C. e Sammons S. (1997), “Training the community interpreter: the Nunavut Artic College experience”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 65-76 103 Carr S. E. (1997), “A three-tiered health care interpreter system”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 271-276 109 Per quanto concerne l'Europa, che a partire dalla caduta dell'URSS e dallo scioglimento della Jugoslavia in avanti ha vissuto un nuovo periodo di intense migrazioni, molti paesi sono piuttosto indietro nel processo di professionalizzazione del community interpreting, mentre sono pochi quelli che possono vantare un servizio efficiente e ben organizzato, come le già citate Olanda e Francia. Secondo Pöchhacker (1999:134) alcuni paesi come Germania, Austria e Spagna stanno giusto iniziando a rendersi conto del bisogno di assicurare un equo accesso non solo a servizi di tipo legale ma anche medico e sociale. La Spagna in particolare, secondo quanto spiega Valero Garcés (2003:179)104, fino al 1986, anno di ingresso nell'Unione Europea, era praticamente non toccata dai movimenti migratori, quindi dalla fine degli anni Ottanta in poi ha vissuto un cambio radicale. Valero Garcés (2003:179-182) illustra come gli enti che si occupano di mettere in contatto diretto gli immigrati con la società spagnola siano, oltre alle agenzie governative, le organizzazioni non governative ed i sindacati, che spesso allestiscono anche corsi di lingua e cultura spagnola per fornire agli immigrati una padronanza della lingua anche a livello scritto che sicuramente li aiuterà nel processo di integrazione. Tuttavia, anche se molti immigrati stanno apprendendo la lingua, la necessità dei servizi interpretativi permane, e viene soddisfatta principalmente in due modi: attraverso i mediatori linguistici105 (considerati veri e proprio professionisti, ma per i quali non ci sono né programmi di formazione predefiniti, né uniformità nei requisiti e nel livello di istruzione necessario per accedere alla professione, né forme di controllo per la qualità del lavoro o per l'appropriatezza dei soggetti per il suddetto mestiere) o attraverso volontari delle ONG o delle associazioni caritatevoli, dai membri della famiglia, vicini o persone scelte occasionalmente, in che significa che ritorniamo al noto concetto dell'interpretazione ad hoc. Il lavoro di queste persone non è riconosciuto né pagato, ed è principalmente su base volontaria, ma è continuamente alimentato da fattori come il bisogno immediato di assistere i parlanti non ispanofoni, la constante domanda e la collegata 104 Valero Garcés (2003), “Responding to communication needs: current issues and challenges in community interpreting and translating in Spain”, in Brunette L., Bastin G.L., Hemlin I. e Clarke H. eds. (2003), The Critical Link 3: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 177-192 105 Della questione terminologica, che accomuna Spagna e Italia, ci occuperemo più approfonditamente nel capitolo 5.3 110 scarsezza di interpreti professionali e, ultimo ma non meno importante, la mancanza di risorse economiche. L'autrice conclude (ibidem:182) sottolineando come la mancanza di riconoscimento da parte delle istituzioni governative per il lavoro degli interpreti di comunità e il disinteresse nel discutere la rilevanza del loro ruolo nella formazione di una nuova società pluralistica influenzano in maniera negativa la situazione del community interpreting in Spagna. Infatti anche Ortega Herráez, Abril Martí e Martin (2009:150)106 affermano che il community interpreting in quanto professione non esiste in Spagna; nonostante il fatto che questo paese riceva più immigrati di ogni altro nell’Unione Europea e sia una delle maggiori destinazioni turistiche al mondo, il bisogno di mediazione linguistica non è riconosciuto ad un livello sufficiente da garantire un equo accesso ai servizi pubblici anche ai non ispanofoni. Inoltre (ibidem:151) possiamo notare come la figura dell’interprete sia largamente ignorata e marginalizzata dalle istituzioni, vista anche la mancanza di un sistema di certificazione, mentre d’altro canto le università spagnole mostrano un crescente interesse nel campo del community interpreting e offrono diversi corsi, che però non sono coordinati e non vanno oltre una preparazione basilare, il che comunque è comprensibile vista la scarsità di prospettive lavorative dopo gli studi. Dato che la formazione e la certificazione, come già abbiamo dimostrato nel corso della dissertazione, sono elementi fondamentali nel processo di professionalizzazione, possiamo dunque affermare che la Spagna si trova ancora in una fase pre-professionale, dove gran parte del bisogno è supplito da interpreti reclutati ad hoc, specialmente nel settore medico e sociale (mentre quello del court interpreting è in fase di miglioramento per quanto riguarda la qualità e la fornitura del servizio, cf. ibidem:162) e dove il percorso di sviluppo per i professionisti e le istituzioni è ancora piuttosto tortuoso. 106 Ortega Herráez J.M., Abril Martí M.I. e Martin A. (2007), “Community interpreting in Spain: a comparative study of interpreters’ self perception of role in different settings”, in S. Hale, U. Ozolins e L. Stern eds. (2009), The Critical Link 5: Quality in Interpreting: a Shared Responsibility. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company:150-167 111 5.3 Approfondimento sull’Italia La parte finale del sotto-capitolo precedente ha introdotto la riflessione sull’argomento del community interpreting in Europa, citando come esempio la Spagna e la sua situazione ancora alquanto problematica. In generale in Europa troviamo realtà molto lontane tra loro, che spaziano dall’eccellenza della Svezia, al buonissimo livello di sviluppo di Regno Unito, Francia, Olanda e gli altri paesi scandinavi, ai restanti paesi nei quali il cammino della professionalizzazione del community interpreting è ancora agli albori. In una fase iniziale e ancora piuttosto confusionaria si trova anche l’Italia, che, come anticipato, per alcuni versi può essere paragonata alla situazione spagnola precedentemente descritta. Come abbiamo brevemente accennato nel primo capitolo, confusione e disomogeneità regnano già a partire dalla terminologia di settore. Spesso in Italia, più che di community interpreting si parla di mediazione linguistica, che come sottolinea Pöchhacker (2008:19)107, è un iperonimo che comprende traduzione ed interpretazione professionali. La diffusione di questo termine, sempre secondo l’autore, è stata favorita anche dalla recente riforma universitaria italiana che ha creato la classe di laurea triennale in Scienze della Mediazione Linguistica. “Mediazione linguistica” è un termine che comprende molto più dell’attività di interpretazione e spesso può sfociare anche nella definizione di “mediazione culturale”. Riguardo appunto al mediatore culturale, Rudvin (2006:60) spiega che è una figura dalla quale ci si aspetta che faciliti l’integrazione degli immigrati in Italia, la loro interazione con le istituzioni italiane, che incoraggi l’interazione con la comunità in senso ampio, che prevenga i possibili conflitti e fornisca assistenza agli immigrati, funzionando da ponte. Tuttavia non c’è una distinzione netta tra interpretazione di comunità, mediazione linguistica e mediazione culturale. Come spiega Maffei (2009)108 la figura 107 Pöchhacker F. (2008), “Interpreting as mediation”, in C. Valero Garcés. e A. Martin eds. (2008), Crossing Borders in Community Interpreting, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 9-26 108 Maffei F. (2009), “La mediaizone linguistico-culturale e aspetti di sicurezza”, in D.R. Miller e A. Pano eds. (2009), La geografia della mediazione linguistico-culturale, Bologna, d.u. press: 117-130; disponibile a: http://amsacta.cib.unibo.it/2626/3/Volume_121109.pdf (ultimo accesso 12/07/2012). 112 dell’interprete e quella del mediatore sono parallele e non è facile stabilire dei confini precisi; in ambito giudiziario generalmente si tende a pensare che l’opera di interpretazione sia ristretta all’attività linguistica mentre quella di mediazione richiede un’importante capacità comunicativa di costruzione di relazioni. Anche Rudvin (in Rudvin, Tomassini 2008:247)109 conferma che tendenzialmente il termine “mediazione linguistica” comprenda una gamma di attività più ampia rispetto a quanto si intende coi termini traduzione/interpretazione. Tuttavia nel corso della dissertazione è stato ampiamente dimostrato come anche la stessa attività di interpretazione vada molto oltre la sfera della comunicazione linguistica e richieda conoscenze approfondite in altri campi come la linguistica, la prosodia, la prossemica, ecc., pertanto si ritiene che sia ormai giunto il momento di superare queste false credenze così diffuse nell’opinione pubblica e di fare chiarezza, anche dal punto di vista del profilo giuridico, tra le due professioni ed, eventualmente, se si dimostrassero così simili e combacianti, di unificarle. Anche Maffei (2009:129) si dichiara a favore dell’accorpamento delle funzioni in una stessa persona denominata mediatore linguistico-culturale. Dal punto di vista legislativo, il mediatore culturale è una figura professionale ancora indefinita ma rimane comunque l’unica riconosciuta a norma di legge, secondo quanto sancito nella legge Turco-Napolitano del 1998, che nell’articolo 42 recita (in Garzone 2009:111): “Lo Stato, le regioni, le province e i comuni […] favoriscono la realizzazione di convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel registro di cui al comma 2 per l’impiego all’interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a 2 anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi.” Al contrario, per quanto riguarda l’interprete di comunità, non abbiamo nessuna legge nazionale che regoli la sua professione. Ciò però non ha impedito lo sviluppo di leggi e decreti a livello regionale e locale per sopperire alla mancanza 109 Rudvin M. e Tomassini E. (2008), “Migration, ideology and the interpreter-mediator”, in C. Valero Garcés. e A. Martin eds. (2008), Crossing Borders in Community Interpreting, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 245-266 113 di qualsiasi logica di programmazione a livello nazionale e per venire incontro alle necessità della società e del mercato lavorativo. A livello nazionale le figure di interprete di comunità, mediatore linguistico e mediatore culturale sono purtroppo accomunate da mancanza di standard e certificazione nazionali in termini di definizione delle mansioni e del ruolo professionale (Rudvin 2008:248). L’unica eccezione, a quanto riporta Maffei (2009:129), è rappresentata dalla figura dell’interprete nel settore giuridico, che è regolata dall’articolo 143 del Codice di Procedura Penale, il quale afferma che “l'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa” e che “l'autorità procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana”110. Maffei propone anche che, in attesa di un progetto nazionale sulla mediazione culturale, la figura del mediatore culturale, estremamente utile ed utilizzata in ambito giuridico e penale, possa esercitare secondo questa stessa normativa. In questo elaborato si concorda pienamente con Pöchhacker (2008:21) quando afferma che mediazione ed interpretazione sono due concetti indissolubilmente intrecciati, e si può teorizzare un concetto di “mediazione interculturale” solo se si limita la nozione di interpretazione alla sola sfera del linguaggio; ma dal momento che si suppone che gli interpreti abbiano il compito di mediare tra culture proprio come tra lingue, la distinzione si frantuma e qualsiasi confine tra le definizioni diventa sfocato. Infatti, come sostiene Garzone (2009:113): in questo quadro c’è il rischio che nel definire il ruolo dell’interprete in ambito sociale e del mediatore non si tenga adeguatamente conto del fondamentale e imprescindibile lavoro di assistenza linguistica, e si dia per scontato che i servizi di mediazione per loro natura includano la consulenza esplicativa su aspetti culturali, le indicazioni operative sui comportamenti, le funzioni di sostegno e solidarietà, il supporto finalizzato alla correzione delle asimmetrie di conoscenza e di potere. 110 Articolo 143 del Codice di Procedura Penale disponibile a: http://www.brocardi.it/codice-diprocedura-penale/libro-secondo/titolo-iv/art143.html (ultimo accesso: 1/10/2012) 114 Nel concetto di mediazione culturale sembra quasi che la lingua passi in secondo piano, quando invece la lingua “non è solo strumento imprescindibile di espressione e comunicazione dei valori della sfera culturale, etnica e religiosa ma ha anche un’influenza determinante sui modelli di pensiero e sulle categorie culturali stesse” (ibidem:111). La conclusione di questa riflessione è dunque la constatazione che in Italia quasi sempre si usano questi termini indistintamente o con poca consapevolezza delle reali (seppur lievi) differenze di significato, cosa che contribuisce ad aumentare confusione ed ambiguità. È molto importante sottolineare che la nomenclatura riflette pur sempre ideologie e correnti politiche locali e nazionali, e che ruolo, terminologia e ideologia sono concetti intrinsecamente legati (Rudvin 2008:249). Infatti questa situazione di ambiguità può essere ascritta a due fattori: in primis l’assenza di un approccio omogeneo a livello nazionale per quello che concerne i servizi linguistici nelle pubbliche istituzioni (tra le quali ben poche possono vantare qualificazioni o corsi per i mediatori culturali, e meno ancora per i mediatori linguistici) (ibidem:247). Il secondo fattore è rappresentato dalla considerazione che la multifunzionalità che si richiede all’interprete o al mediatore si è sviluppata viste le necessità della particolare situazione italiana. Come afferma Pöchhacker (2008:20), considerando le vaste differenza culturali e la probabilità di fraintendimenti inter-etnici, il ruolo include molto più del rendere possibile la comunicazione interlinguistica, anche se l’interpretazione può essere annoverata in cima alla lista delle competenze necessarie. Ciò è dovuto al fatto che l’Italia, da paese di emigrazione, si è rapidamente trasformata in meta di immigrazione, e questo è stato un processo piuttosto repentino favorito dalla conformazione geografica del territorio e dallo sviluppo economico che l’ha resa uno dei paesi più benestanti all’interno dell’Unione Europea. L’Istat ha calcolato al 1/01/2012 una popolazione straniera residente in Italia di 4570317 persone111, tra le quali le comunità più ampie sono rappresentate da rumeni, albanesi e marocchini. I dati relativi alla presenza straniera in Italia sono riassunti nella seguente figura112: 111 112 Fonte: ISTAT http://demo.istat.it/strasa2011/index.html Fonte: http://www.tuttitalia.it/statistiche/cittadini-stranieri-2011/ 115 Rudvin (2002:125)113 sottolinea come l’Italia ha avuto e tuttora ha grandi problemi, a livello culturale, politico e di mentalità, a gestire questo improvviso ed abbondante flusso di immigrazione. L’Italia si è ritrovata impreparata a livello di strutture ricettive e di politiche per l’immigrazione, e, come precisa Rudvin, ha sempre considerato l’immigrazione un fenomeno passeggero (2008:248) e non ha sviluppato quel processo di autoanalisi e discussione sui pro e i contro dell’assimilazione di queste persone – al contrario di quanto hanno fatto i paesi scandinavi e il Regno Unito, per esempio –, processo che permetterebbe alla popolazione di scendere a patti per la creazione di una nuova società multiculturale (2002:125). In molti casi la politica italiana, invece che allinearsi con le più moderne teorie che vedono la migrazione come un fenomeno perfettamente naturale, intrinseco alla natura e alla società umane (2008:248), pare alimentare fenomeni di chiusura e opposizione alle comunità di immigrati presenti nel paese anche da molti anni, come nel caso del tristemente famoso partito nordista della Lega. 113 Rudvin M. (2002), “Cross-cultural aspects in community interpreting in Italy”, in Valero Garcés C., Mancho Barés G. eds. (2002), Traducción e Interpretación el los Servicios Públicos: Nuevas Necesidades para Nuevas Realidades/ Community Interpreting and Translating: New Needs for New Realities, University of Alcalà, Servicio de Públicaciones de la Universidad: 125130 116 Pertanto possiamo affermare che la situazione del community interpreting in Italia sia alquanto confusa ed ambigua, non solo sul piano strettamente terminologico m anche a livello di riconoscimento dell’attività e della sua importanza. Il fatto che poi venga continuamente confusa e sovrapposta con le attività di mediazione non favorisce di certo il processo di sviluppo e di professionalizzazione. Se consideriamo il continuum di Ozolins, l’Italia si colloca senza dubbio ancora in una fase inziale dove la stragrande maggioranza delle necessità è soddisfatta mediante reclutamento ad hoc, al pari della Spagna (che con l’Italia condivide anche il dibattito sulle differenze/somiglianze tra interpretazione e mediazione). Secondo Putignano (2002:215)114 presenta infatti le tipiche caratteristiche di una professione da poco sviluppata: mancanza di formazione e pratica, disorganizzazione, disunità tra praticanti, cattive condizioni lavorative, mancanza di riconoscimento della professione tra i clienti e tra le istituzioni pubbliche. L’attività di interpretazione di comunità si fonda dunque in gran parte sull’opera di interpreti ad hoc, che, come di consueto, spaziano dai volontari, ai membri degli staff degli enti pubblici, a parenti, amici e conoscenti, con le conseguenze del caso di questa pratica, che abbiamo più volte enumerato. Ovviamente anche in ambito italiano si è innescato il consueto circolo vizioso che ha portato ad una scarsa considerazione della professione, scarso prestigio, scarsa remunerazione, tutti elementi che senza dubbio non attirano i finanziamenti e le politiche necessari per elevare il livello dell’attività. Non a caso, in Italia mancano i fondi, ma anche la volontà politica di migliorare la situazione dei servizi di interpretazione per la comunità. Purtroppo gli esempi di interpreti di comunità professionali, ben pagati e ben preparati citati da Putignano nel suo studio (2002) rappresentano una rara eccezione nel nostro paese; molto cinicamente si può notare che nell’esempio principe esaminato dall’autrice (l’ISMETT di Palermo) il perfetto funzionamento del servizio di interpretazione è dovuto alla partnership (e ai finanziamenti) dell’Univeristy of Pittsburgh Medical Center, uno dei dieci centri di ricerca più importanti degli Stati Uniti (ibidem: 216-217). Inoltre questa negativa situazione è complicata dal fatto che si riscontra una generale mancanza 114 Putignano S. (2002), “Community interpretin in Italy: a selection of initiatives”, in Valero Garcés C., Mancho Barés G. eds. (2002), Traducción e Interpretación el los Servicios Públicos: Nuevas Necesidades para Nuevas Realidades/ Community Interpreting and Translating: New Needs for New Realities, University of Alcalà, Servicio de Públicaciones de la Universidad: 215220 117 di riconoscimento dell’importanza e della difficoltà della comunicazione interculturale che affligge i service providers (Rudvin 2002:126). La stessa autrice propone come soluzione quella di promuovere ed incoraggiare la comunicazione interculturale e la comprensione delle altre culture con un approccio basato sul dialogo tra service providers, interpreti e clienti (ibidem:130), in un processo di sensibilizzazione delle coscienze. Per quanto concerne il tema della formazione e della certificazione, come già abbiamo avuto modo di accennare in vari passaggi, in Italia non c’è uniformità di istruzione universitaria per il community interpreting: sono disponibili una vasta gamma di corsi sotto varie nomenclature che spesso nascondono lo stesso argomento. Inoltre non ci sono requisiti o standard fissi a livello nazionale che stabiliscano, per esempio, quanti anni di studio, a quale livello e sotto quale classe di laurea siano necessari per diventare un interprete di comunità professionale. Questa situazione di scarsa chiarezza a livello accademico riguarda anche le figure del mediatore culturale e del mediatore linguistico, risultando così molto spesso in una sovrapposizione e in un mix delle tre figure. In molti casi, mancando un sistema organizzativo a livello statale ben definito, per sopperire alle necessità sono stati autorità locali o enti non governativi a farsi carico dell’organizzazione di corsi di formazione per gli interpreti di comunità, che possono risultare forse troppo brevi o poco approfonditi, ma, come sottolinea Rudvin (2002:125) rappresentano un risultato eccellente viste le magre risorse disponibili. D’altro canto però è necessaria una presa di coscienza forte da parte delle istituzioni e della politica, poiché l’importanza del community interpreting è oramai innegabile e la necessità di standard e regolamenti condivisi si fa sempre più impellente; per usare le parole di Garzone (2009:113), “non è pensabile che l’erogazione di servizi linguistici non debba situarsi entro precisi limiti professionali”, se il fine è quello di voler garantire costantemente un servizio efficace e ben funzionante. Abbiamo visto che in alcuni paesi in cui le istituzioni non ricoprivano la funzione di stabilire norme e standard, questo ruolo poteva essere svolto anche da associazioni di categoria. Ebbene, in ambito italiano anche il tema delle associazioni è alquanto spinoso. Non esiste un’associazione unica che raccolga gli 118 interpreti italiani, magari sotto l’egida dello Stato, ma una pluralità di associazioni che rivendicano prestigio e importanza. Ricordiamo per esempio l’AITI (Associazione Italiana Traduttori e Interpreti), l’ANITI (Associazione Nazionale Italiana Traduttori e Interpreti), l’AIIC Italia (riservata però agli interpreti di conferenza). Ognuna delle associazioni ha il proprio statuto, il proprio regolamento e i propri criteri di ammissione dei nuovi soci, in assenza di uno standard di riferimento statale ed istituzionale. Inoltre in Italia non esiste nemmeno un albo dei traduttori e degli interpreti, per l’istituzione del quale, comunque, sono pervenute nel corso degli anni tante proposte di legge che fino ad ora non hanno avuto grande fortuna, e pare non ne avranno di migliore in futuro visto che le ultime tendenze politiche sono a favore dell’abolizione anche degli albi già esistenti. L’ultima proposta di legge115, presentata dall’On. Napoli, è datata 2008, insieme alla quale si è costituito anche il Comitato ALTRINIT (che ha come scopo l’istituzione dell’ordine professionale dei traduttori e degli interpreti), e mira a “valorizzare adeguatamente e a meglio definire le diverse competenze comprese nelle professioni di questo settore e a garantire a questa categoria di professionisti altamente qualificati un'adeguata tutela sul piano giuridico, professionale ed economico”, suddividendo la categoria dell’interpretazione nei seguenti profili professionali: interprete di conferenza, interprete di trattativa, interprete di tribunale. A quanto risulta, la proposta si trova, dopo quattro anni, ancora in fase di iter ed assegnata alla VII Commissione Cultura, e non è mai stata dibattuta116. In conclusione, in questa analisi del sistema-Italia che ha toccato terminologia, ideologie, formazione, standard e status della professione, abbiamo avuto modo di riscontrare che nel nostro paese il cammino della professionalizzazione è appena iniziato e sembra anche procedere piuttosto lentamente, se non ci saranno cambiamenti a livello statale e legislativo che garantiscano un’efficace organizzazione della professione e tutelino i relativi praticanti. I segnali e gli esempi positivi non mancano, ma molto ancora deve essere fatto per rendere 115 Fonte: Camera dei Deputati http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=16PDL00082 50 116 Fonte: Camera dei Deputati http://nuovo.camera.it/126?tab=1&leg=16&idDocumento=801&sede=&tipo 119 l’interpretazione di comunità una professione riconosciuta e giuridicamente delimitata. In questo senso, l’Italia potrebbe prendere ad esempio gli altri paesi europei che hanno già vissuto una situazione simile ed hanno pertanto una maggiore esperienza nel settore, per prendere come ispirazione i modelli ed i sistemi che hanno dimostrato di funzionare bene ed allo stesso tempo esaminare gli errori da loro già commessi con l’intento di non ripeterli. 120 CONCLUSIONE L’elaborato appena presentato mirava a fornire un quadro quanto più omnicomprensivo e dettagliato della variegata tematica del community interpreting. Partendo da una prima parte che forniva una base prettamente teorica ed accademica, necessaria come preambolo per gli argomenti che si sarebbero affrontati in seguito, abbiamo presentato la figura dell’interprete di comunità cercando di seguire una sorta di filo logico, presentando i fattori in una concatenazione che culmina nell’analisi della questione principale che questo scritto si è dato come obiettivo, ovvero la professionalizzazione della suddetta figura. In primis si è parlato del ruolo dell’interprete, analizzandone le caratteristiche, l’ambiente lavorativo, il rapporto con il contesto culturale e con i suoi interlocutori e presentando i principali studi accademici che si sono occupati dell’analisi della funzione dell’interprete e delle sue possibili attitudini all’interno dell’atto comunicativo. In seguito si è cercato di affrontare con la massima chiarezza possibile un tema davvero delicato e che presenta diverse caratteristiche a seconda della nazione presa in esame, quello della formazione del community interpreting. Purtroppo è emerso il dato della scarsa consapevolezza, sia da parte delle istituzioni che dell’opinione pubblica in generale, dell’importanza dei servizi di interpretazione e ancor più dell’importanza della preparazione e della formazione per avere dei professionisti adatti per svolgere al meglio tale ruolo. Dopo un breve excursus sui corsi di formazione disponibili in Italia, e sull’impatto della tecnologia nell’ambito del community interpreting in generale, abbiamo esaminato in concreto il tema del rischiosità del ricorso ad interpreti ad hoc, che purtroppo viene ancora troppo sottostimata e della cui pericolosità non ci si è ancora resi totalmente conto. Nel quarto capitolo si è finalmente affrontata di petto la questione centrale di tutta la trattazione, ovvero il processo di professionalizzazione del community interpreting. Pare appropriato e doveroso, comunque, sottolineare che anche i temi affrontati degli altri capitoli – specialmente quello del ruolo e quello della formazione – sono concause che concorrono a determinare la riuscita o il fallimento del suddetto processo, 121 influenzandone le tappe dello sviluppo e la rapidità con cui esse vengono raggiunte. Ad uno studio quanto più approfondito sulle principali teorie riguardanti il processo di professionalizzazione è seguito un esame del temachiave della valutazione della qualità, anche qui appoggiandoci agli studi dei più importanti esperti del settore, senza trascurare un paragrafo più pratico dedicato alle agenzie per i servizi di interpretazione ed al loro funzionamento. Infine, una panoramica su vari paesi che presentano differenti livelli di sviluppo del community interpreting, tenendo come bussola di riferimento il continuum teorizzato da Ozolins, ha permesso di constatare la variegata situazione della materia in giro per il mondo e il ritardo, purtroppo, del nostro paese rispetto alla maggioranza delle altre nazioni occidentali, che ci pone in una fase preprofessionale dell’attività davvero poco lusinghiera. Per quanto riguarda l’Italia in particolare, nel corso della dissertazione si è potuta dimostrare la mancanza di un quadro normativo e legislativo ben definito sia nell’ambito della formazione (cosa che poi ricade anche sulle questioni della certificazione e degli standard, vista la disomogeneità della situazione) sia nell’ambito della definizione della figura professionale vera e propria. A ciò si aggiunga anche l’assenza di un albo professionale e di un ente che accrediti il livello di preparazione minima di un interprete che ambisce a diventare un professionista, e si arriva facilmente a capire il perché della situazione confusionaria e ambigua che regna in Italia. Per fortuna si è avuto modo di riscontrare che in molti altri paesi la situazione è decisamente più definita e meno equivoca ma bisogna anche ammettere che perfino nei paesi più sviluppati in termini di community interpreting la situazione non raggiunge la perfezione totale e ci sono comunque degli aspetti che potrebbero essere migliorati, poiché in molti casi le soluzioni di alta qualità dei problemi più frequenti, parlando in generale (ma l’esempio più immediato potrebbe essere l’assunzione di uno staff specializzato in pianta stabile per risolvere la piaga del reclutamento ad hoc), sono quelle che richiedono un grande sforzo economico alle spalle che di questi tempi pochi paesi possono permettersi. La conclusione principale che può essere ricavata da questo studio è che oggigiorno l’opinione pubblica mondiale non può più permettersi di negare 122 l’importanza e la necessità di garantire un equo accesso ai servizi pubblici e sociali a tutti i cittadini, senza fare distinzioni linguistiche. L’unico modo per bypassare l’ostacolo della differenza linguistica tra cittadino-cliente e l’istituzione-service provider è affidarsi all’operato di un interprete professionale, qualificato e preparato che assicuri una perfetta riuscita dell’evento mediato per tutte le parti coinvolte. Senza dubbio la creazione o lo sviluppo di questo servizio richiedono un grande sforzo normalizzativo, legislativo ed economico da parte dei governi unito ad miglioramento delle condizioni lavorative e remunerative dell’interpretazione, per rendere la professione appetibile e degna dei requisiti di preparazione che verranno stabiliti. Con l’introduzione di criteri di formazione obbligatoria e requisiti di accreditamento fissi, gli interpreti diventerebbero professionisti qualificati e di ciò gioverebbero sia le tariffe che lo status sociale della professione. Queste innovazioni andrebbero anche a contrastare l’effetto negativo delle tante false credenze che ruotano attorno al concetto di community interpreting e sono purtroppo molto diffuse nell’opinione generale della gente, come quella riportata da Viaggio (in Amato, Mead 2002:297) che vede l’interpretazione di conferenza più difficile a livello cognitivo e neuro-psicologico dell’interpretazione di comunità (falsità peraltro smascherata dai più recenti approcci multidisciplinari a questa forma di interpretazione). Nel ventunesimo secolo, un periodo storico così caratterizzato ed influenzato dai due grandi fattori della globalizzazione e dell’immigrazione che rappresentano ormai processi irreversibili, una nazione civile che aspira a definirsi tale deve assolutamente saper garantire a tutti i cittadini, stranieri e non, l’uguaglianza dei diritti, che si rispecchiano anche nella libera fruizione dei servizi medici, sociali, scolastici, ecc. Se gli enti pubblici nei prossimi anni non saranno in grado di riconoscere ed esercitare il loro ruolo di accreditamento e normalizzazione (ruolo che in questi anni, peraltro, spesso è stato svolto da altri organi, come gli enti locali o le organizzazioni non governative in molti paesi), secondo Niska (in Amato, Mead 2002:296) è possibile teorizzare una privatizzazione dell’interpretazione per i servizi pubblici con la conseguente trasformazione in un mercato commerciale, con tutti i pro e i contro del caso. Infine, pare doveroso sottolineare che la totale assenza del tema dell’interpretazione nella lingua dei segni nella trattazione è dovuta alla mancanza 123 di un adeguato spazio di approfondimento da dedicare al soggetto durante la disquisizione, sebbene esso faccia parte a tutti gli effetti della famiglia del community interpreting. Tuttavia esso presenta delle caratteristiche così peculiari ed un livello di sviluppo professionale in generale molto più elevato rispetto all’interpretazione di comunità che potrebbe essere quasi considerato una sottofamiglia e meriterebbe un elaborato altrettanto lungo per esaminarlo nel dettaglio. 124 BIBLIOGRAFIA Amato A. e Mead P. (2002), “Interpreting in the 21st century: what lies ahead”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 295-302 Angelelli C. 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