Le pitture rupestri delle grotte di Lascaux
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Le pitture rupestri delle grotte di Lascaux
Corso di Scienze Applicate ai Beni Culturali AA 2013-2014 1 Docente Dr. Peana Massimiliano Le pitture rupestri delle grotte di Lascaux Manunta Anna; matricola n°30047839; e-mail: [email protected] RIASSUNTO La grotta di Lascaux, definita la “Cappella Sistina della preistoria”, fu scoperta nel 1940 in Dordogna, Francia, ed è unanimemente considerata il più alto esempio di pittografia preistorica giunto fino ai nostri giorni. Risale al Paleolitico superiore e venne realizzata in un arco di tempo stimato tra il 17.000 e il 16.000 a.C.. Il riconoscimento delle sue pitture fu effettuato dall’abate Henri Breuil, primo studioso a entrare nella cavità e a cominciare lo studio delle pitture, continuato poi dall’abate Andrè Glory, suo allievo. Quest’ultimo si occupò del rilievo delle circa 900 figure presenti sulle pareti e sulle volte, procedendo parallelamente allo scavo sistematico dei depositi archeologici all’interno della grotta. Di facile accesso e aperta al pubblico dal 1948 dovette essere chiusa già nel 1963 per le alterazioni ambientali causate dall’altissimo numero di visitatori. Essa rientra nella categoria delle grotte santuario e ha restituito numerose tracce dell’attività degli artisti che realizzarono le pitture. La tecnica di esecuzione è quella della pittura stesa direttamente sulla roccia senza preparazione a intonaco. La roccia calcarea e l’ambiente umido riuscivano a far penetrare in profondità i pigmenti colorati che si basavano su quattro colori fondamentali, rosso, giallo, nero e bianco con diverse tonalità. Tutti i pigmenti usati a Lascaux, tranne quelli contenenti carbone di legna, erano costituiti da minerali ridotti in polvere. Era però raro l'uso, come pigmento, di un solo minerale; di solito i minerali venivano mescolati. Attraverso l’analisi accurate siamo al corrente della grande importanza dei pigmenti a base di ossidi di ferro, intensi e duraturi nel tempo. Tre studi differenti effettuati sui pigmenti, hanno dato informazioni importantissime sui luoghi d’estrazione dei minerali, con l’aiuto, per esempio, di dati governativi di rilevamenti geologici effettuati precedentemente sul luogo. E’ stato possibile anche conoscere il livello tecnologico di chi ha realizzato queste grandiose opere grazie all’utilizzo della microscopia elettronica a scansione, la diffrazione a raggi X, utilizzata soprattutto per la caratterizzazione dei pigmenti e la petrografia ottica. Lascaux è certamente unica per più di un motivo, per la sua straordinaria ricchezza sia come quantità che come qualità delle opere d’arte (596 figure animali, 1 figura umana e 410 segni), per l’omogeneità stilistica di tutto il complesso, per le sue pitture bicrome e per il senso del movimento e dinamismo impresso alle figure. Rappresenta l’aspetto più evoluto dello stile III, secondo la classificazione stilistica dello studioso André Leroi-Gourhan, tipico dell’area franco cantabrica. INTRODUZIONE ascaux è in Dordogna, poco a sud del piccolo paese di Montignac, sulla sinistra della Vézère, una ventina di km a monte di Les Eyzies. La scoperta della celebre grotta si verificò casualmente agli inizi del settembre 1940 da parte di un gruppo di quattro giovani tra i 15 e i 17 anni. Il maggiore, Marcel Ravidat, si recò nel bosco di Lascaux con due amici alla ricerca del sotterraneo di cui le aveva parlato la madre. Nonostante avessero stretto l’impegno di tenere il segreto, nei giorni successivi la notizia si diffuse in un batter d’occhio, gli stessi scopritori portarono a visitare la grotta decine di giovani di Montignac. Fin dal maggio 1940 l’abate Breuil, temendo di essere arrestato dai tedeschi, si era trasferito da Parigi presso alcuni amici ad una trentina di km ad est di Montignac e lì, il 17 settembre, apprese per telefono la notizia della scoperta. Maurice Thaon entrò nella grotta e fece i primi rilievi per conto di Breuil, che arrivò nei giorni seguenti. Fu subito raggiunto da Denis Peyrony ed entrambi giudicarono le pitture di Lascaux di età gravettiana. Breuil preparò subito un rapporto per l’Academie des Inscriptions, che riuscì fortunosamente a far recapitare. In questo periodo cominciarono ad affluire giornalisti, curiosi e una gran numero di persone visitò la grotta. Il 29 ottobre in occasione della visita del conte Bégouën, l’accesso alla grotta fu ampliato, scavando un’ampia trincea e tagliando il bosco tutt’intorno. L’abate Breuil continuò a studiare la grotta fino agli inizi del 1941. Fin dai primi giorni sul suolo della grotta furono raccolti reperti 2 Le pitture rupestri di Lascaux archeologici come industria litica, pezzetti di ocra, lucerne di pietra grezza, zagaglie d’osso. Molte pitture erano a portata dei visitatori, che potevano toccarle con le mani. Per porre un freno alla massa dei visitatori si installò una porta e venne costruito un capanno di protezione. Il 27 dicembre Lascaux fu classificata tra i Monumenti Storici, il che permetteva l’intervento dell’autorità pubblica su una proprietà privata. Già nel 1955 si cominciò ad osservare come l’afflusso dei visitatori, a causa dell’emissione di anidride carbonica, provocava una condensa e che l’acqua di condensazione scioglieva il colore delle pitture. Si provvide quindi ad installare un impianto di climatizzazione che manteneva la temperatura a 14° e rinnovava continuamente l’aria all’interno della grotta. I visitatori erano arrivati a toccare le mille unità giornaliere. Eliminato il fenomeno della condensa, nel 1960 il conservatore della grotta, Max Sarradet, osservò per la prima volta delle macchie verdi sulle pitture e nello stesso anno l’abate Glory denunciò il pericolo del degrado delle pitture. Una commissione scientifica appurò che sulle superfici istoriate stavano moltiplicandosi numerose specie di alghe, funghi, muffe e muschi. Nel 1963 il ministro della Cultura André Malraux ordinò la chiusura della grotta. Eliminati i micro-organismi, la grotta è tenuta sotto costante monitoraggio e possono accedervi soltanto studiosi e personalità della cultura dietro autorizzazione. 1. Descrizione degli ambienti e il contesto archeologico Il vero esploratore di Lascaux fu l’abate Andrè Glory che lavorò in molte grotte della Dordogna e del Lot e divenuto discepolo di Breuil fu il suo prezioso collaboratore degli ultimi anni di vita. Molti dei problemi di conservazione di Lascaux derivano dal fatto che si tratta di una grotta piuttosto piccola e allo stesso tempo ricca di opere d’arte parietale. L’ingresso attuale coincide con quello di età preistorica, che rimase poi ostruito per il crollo del soffitto e l’accumularsi dei detriti. La morfologia interna della grotta porta a distinguere più ambienti (Fig. 1). Figura 1. Pianta della grotta di Lascaux A venticinque metri dall’ingresso inizia la cosiddetta sala dei tori (Fig. 2), detta anche rotonda, dove si sviluppa una sequenza di figure animali per circa venticinque metri su entrambi i lati dell’apertura che immette nel diverticolo assiale. Sulla destra della rotonda si va in un secondo corridoio che conduce all’abside alla cui estremità si apre un pozzo e continua nella navata terminando con la sala dei felini. Il fregio della rotonda è dominato dalle quattro gigantesche figure di tori mentre al livello del loro ventre e delle loro zampe si muove una folla di animali più piccoli. I tori sono disegnati a linea di contorno nera molto spessa con qualche campitura parziale per le zampe e il muso e punteggiature sempre nere per il muso. I cervi si caratterizzano per il Manunta Anna 3 grande sviluppo delle ramificazioni delle corna (Fig. 3). Il diverticolo assiale è riccamente istoriato con figure dipinte sia su entrambe le pareti che sul soffitto. La grande galleria e l’abside sono ricchi di figure incise di cavalli, cervi, bisonti, tori, stambecchi, che formano veri e propri palinsesti indecifrabili. In fondo al pozzo si trovano le pitture più singolari di tutta la grotta perché è stata rappresentata la cosiddetta “caccia tragica”(Fig. 4) dove è stato riprodotto un bisonte ferito da una zagaglia dal quale sembrano fuori uscire le interiora, in atto di caricare un uomo con la testa di uccello. Quello del pozzo è uno dei rarissimi casi di scena vera e propria di tutta l’arte parietale paleolitica. Figura 2. Parte del fregio della rotonda con due dei quattro tori che caratterizzano la sala. Figura 3-4. il cervo con le sue particolari corna ramificate e la scena del pozzo. Nei primi anni ’60 ci si accorse che il calore e l’umidità portati dai visitatori avevano causato la comparsa di muffe e il deterioramento dei colori. Fu quindi individuato a circa 200 metri dall’originale un sito compatibile per realizzare Lascaux II, una fedelissima riproduzione della sala dei tori e della galleria dipinta, aperta dal 1983. Il precipitare dei tragici avvenimenti connessi alla seconda guerra mondiale impose una pausa forzata alla ricerca scientifica di Lascaux che contribuì anche a distogliere per un certo periodo l’attenzione della grotta facendo venir meno il flusso dei visitatori, un rischio costante per l’integrità delle opere d’arte parietale. A Lascaux è mancata un’indagine scientifica completa ed esaustiva del suolo e del deposito formatosi all’interno della caverna; però, grazie agli sforzi dell’abate Glory, molti dati scientifici sono stati recuperati. Numerose stratigrafie osservate e studiate in diversi punti della caverna, all’entrata, nella Sala dei Tori, verso il fondo del Diverticolo Assiale, nella Grande Galleria e nella Navata, nell’Abside e nel Pozzo, hanno permesso di ricostruire la storia del riempimento della caverna e della sua frequentazione da parte degli uomini del Paleolitico Superiore. La parte inferiore del riempimento è costituita da argille di decalcificazione, dello spessore da 2 a 4 m; sono poi intervenuti fenomeni di ruscellamento ed un primo crollo del soffitto dell’entrata della caverna, con deposizione di strati di pietrisco. Al tetto di questi strati si imposta la frequentazione da parte degli uomini paleolitici, con formazione di un sottile livello archeologico, dello spessore da 2 a 15 cm, contenente un gran numero di materiali culturali. Lo strato archeologico attesta solo una frequentazione e prosegue dall’entrata fino a tutti gli 4 Le pitture rupestri di Lascaux ambienti interni. La grotta non fu mai abitata, ma solo frequentata per eseguire le opere d’arte parietale e i riti che dovevano essere in relazione con queste opere. Dopo la fase connessa all’uso della grotta come santuario, il livello archeologico è rimasto sigillato da strati di ciottolame e argilla, e infine si è verificato un nuovo crollo del soffitto dell’entrata, che ha portato all’ostruzione quasi completa dell’entrata. Con il miglioramento climatico della fine dei tempi glaciali e dell’inizio dell’Olocene si è formato un pavimento stalagmitico. Questo mantello di calcite è stato ritrovato in quasi tutta la grotta, ma non nell’Abside, e di conseguenza neppure nel Pozzo, e nel Gabinetto dei Felini, poiché la sua formazione è dovuta al passaggio dell’acqua, che non ha potuto raggiungere le parti che si trovavano a una quota più alta. Le analisi polliniche effettuate su campionature di sedimento prelevate dall’abate Glory hanno mostrato che il livello archeologico si è formato in un periodo di clima temperato, che è stato denominato interstadiale di Lascaux e che le datazioni radiocarboniche collocano intorno a 17/16000 anni BP (Before Present). I resti di fauna non sono molto numerosi, 133 in tutto. L’88,7 % appartengono a un’unica specie, la renna, l’animale che non è praticamente raffigurato nella grotta, salvo un caso dubbio; seguono in ordine di frequenza capriolo, cinghiale, cervo e cavallo. Sulla pertinenza culturale dell’industria litica e su osso, Denys Peyrony, Breuil e Glory espressero l’opinione che si trattasse di Perigordiano, vale a dire Gravettiano, pur mancando elementi specifici e caratteristici in questo senso. Questa attribuzione era viziata alla base dalla convinzione che l’età delle pitture fosse nell’ambito del ciclo aurignaco-perigordiano di Breuil. Tutti gli specialisti concordano nell’attribuire il complesso degli strumenti di selce e di osso di Lascaux al Maddaleniano antico, e più precisamente al Maddaleniano II. Un carbone proveniente dalla Grande Galleria e due carboni raccolti nel pozzo sono stati sottoposti a datazione radiocarbonica con il seguente risultato: reperto datazione C-406 15516 ± 900 BP Sa-102 16000 ± 500 BP GrN-1632 17190 ± 140 BP La data più recente è stata ottenuta da un carbone raccolto da Breuil e Blanc nel pozzo sottoposto per l’analisi al dott. Libby. Si tratta delle prime datazioni radiocarboniche effettuate dal laboratorio di Chicago e l’errore standard è molto elevato. 2 Colori e tecniche I colori utilizzati erano pigmenti naturali. L’ocra designa un vasto numero di pigmenti, aventi tonalità variabili dal bruno-rosso al giallo (Fig. 5), costituiti da materiale terroso, formate da ossidi di ferro anidri e idrati, tra questi composti fanno parte l’ematite (Fe2O3) (Fig. 6) e la magnetite (Fe3O4) tra gli ossidi anidri, e la goethite (FeO(OH)) (Fig.7) e la limonite (2Fe2O3.3H2O) (Fig.8) tra gli ossidi idrati. Biossido di manganese (MnO2)(Fig.9) o carbone di legna per il nero. L’ossido del manganese è un solido inodore di colore dal grigio al nero che si trova in natura nella pirolusite, il principale minerale da cui si estrae il manganese. Il bianco invece veniva ottenuto dal gesso (CaSO4. 2(H2O) (Fig.10), dalle crete e dalle argille. Figure 5-6. Il “cavallo cinese” realizzato con varie tonalità di ocre e il minerale ematite (Fe2O3). Manunta Anna 5 Figure 7-8. La goethite (FeO(OH)) e la limonite (2Fe2O3∙3H2O). Figure 9-10. Biossido di manganese (MnO2)utilizzato per ottenere il nero e il gesso, minerale molto tenero, composto da solfato di calcio biidrato (CaSO 4. 2(H2O). Giallo e bruno sono meno frequenti rispetto al rosso e al nero, mentre i colori blu e verde non sono mai attestati nell’arte paleolitica. Durante la preistoria, l’ocra è stata utilizzata sia in attività quotidiane che in ambito rituale; veniva considerato un simbolo legato al colore del sangue quindi stava a rappresentare la vita e la morte L’uso del carbone di legna finemente triturato per il nero è meno frequente di quello dell’ossido di manganese. I colori potevano comprendere, oltre al pigmento, anche un legante più o meno liquido come l’acqua che ricca di calcare, agiva da legante precipitando calcite sulle pareti e i cristalli di questo minerale imprigionavano gli ossidi di ferro e manganese garantendone una buona conservazione nel corso dei millenni. Oppure secondo alcuni, il tuorlo d’uovo, che aveva il compito di diluire e amalgamare il colore polverizzato e di dargli consistenza e fluidità, e un “carico”, un minerale sminuzzato che aveva la funzione di favorire una maggiore aderenza del colore al supporto, permettendo nello stesso tempo di economizzare il pigmento. La maggior parte delle pitture dell’arte parietale sono monocrome, a sola linea di contorno nera o rossa o a tinta piatta uniforme rossa o nera. Le figure bicrome, a colore rosso e nero, sono meno frequenti. La bicromia di Lascaux è in realtà una sorta di policromia, poiché il colore del supporto, il bianco della calcite che ricopre le pareti, interagisce con i due colori utilizzati, il nero per le linee di contorno, il giallo o il rosso per il pelame, mentre il ventre non era colorato, ma appare di un colore bianco latteo, che è quello del supporto. Il colore delle pitture poteva essere dato in diverso modo, a volte con un pennello (e il suo uso ha lasciato tracce ben visibili all’osservazione anche macroscopica) e in altri casi il tracciato rosso o nero delle figure era realizzato per mezzo delle dita e così pure le punteggiature rosse o nere all’interno delle figure. Si faceva scorrere lungo la parete l’estremità del pollice carica di colore oppure nel caso delle punteggiature si appoggiava alla parete il polpastrello. A riprova dell’uso di questa tecnica vi è il fatto che a volte sono chiaramente riconoscibili le impronte digitali. Alcuni dipinti poi sono posizionati così in alto sulle pareti o sul soffitto da essere irraggiungibili senza l’utilizzo di un escamotage. Leroi -Gourhan a tal proposito sostiene l’utilizzo di bastoni per dipingere il soffitto mentre l’archeologo francese Andrè Glory sostiene venissero utilizzate delle 6 Le pitture rupestri di Lascaux rudimentali impalcature di cui egli stesso avrebbe ritrovato i resti; soluzione effettivamente supponibile dalla serie di fori e sporgenze rinvenute sulle pareti del sito. Le figure a campitura piena sono state eseguite con la tecnica della “soffiatura”, ancor oggi utilizzata dagli Aborigeni australiani. L’ocra rossa o gialla veniva masticata e poi soffiata o sputata sulla parete, in modo da ottenere per progressiva giustapposizione un riempimento della figura a tinta piatta uniforme. È probabile che per ottenere delle figure con contorni precisi si facesse uso di una mascherina. La “soffiatura” del colore poteva essere attuata anche attraverso l’uso di un tubicino di osso riempito di colore ridotto in polvere. 3 Analisi dei pigmenti Gli studi sui colori e la loro composizione sono iniziati quasi contemporaneamente con la scoperta dell’arte parietale; sono infatti del 1902 gli studi di Henri Moissan, premio Nobel per la chimica, sui pigmenti di Font-de-Gaume, e ancora lui nel 1903 realizzò gli studi su quelli di La Mouthe, non rinvenendo in nessuno dei casi materiali organici come leganti ma solo tracce di manganese e calcite a fare da “carica”. Stessi risultati ottenuti sempre nel 1902 dagli studi di Courty dai pigmenti di Laugerie- Haute e dall’abate Breuil e da Cartailhac nel 1908 dalle pitture di Niaux. Lorblanchet condusse uno studio su due siti del Quercy, Cougnac e Marcenac, dove le analisi rivelarono a volte tracce di carbone, a volte di ossido di manganese, a volte tracce di bario. Gerard Onoratini analizzò invece i vari tipi di pigmenti minerali utilizzati in Provenza, cercando di determinarne la provenienza. Questi e molti altri studi hanno dimostrato come siano stati utilizzati molti tipi diversi di pigmenti, quasi siano stati realizzati con materiali diversi, dalle varie tonalità e densità, proprio per ottenere un determinato e ricercato tipo di colore. I pigmenti utilizzati dai pittori del Maddaleniano a Lascaux sono stati oggetto di tre studi connessi fra loro. Il primo è opera dell'École Pratique des Hautes Etudes di Parigi, di un suo studente, Claude Couraud e Annette Laming-Emperaire, che hanno analizzato le materie prime adoperate per produrre pigmenti in polvere e hanno stabilito le località, in quella regione della Francia, dove si trovano questi minerali. Avevano a disposizione un totale di 158 frammenti che l'abate Glory aveva rinvenuto in varie parti della grotta. A giudicare dai frammenti, i colori più apprezzati nel Maddaleniano erano i neri (105 frammenti), i gialli (26), i rossi (24) e i bianchi (3). I neri, per esempio, coprivano una gamma che andava dal nero scurissimo al grigio oliva, i gialli andavano dal giallo chiaro al giallo rossastro e brunastro e i rossi dal rosso brunastro a quello giallastro fino al rosso chiaro e a quello molto pallido. La raccolta dell'abate Glory comprendeva rudimentali mortai e pestelli di pietra, macchiati di pigmenti, che si presume fossero adoperati dai pittori per preparare i colori. La raccolta comprende anche numerose pietre, dotate di una concavità naturale, che contenevano ancora piccole quantità di pigmenti in polvere. Laming-Emperaire e Couraud, attraverso dati governativi di un rilevamento geologico dei depositi di ossido di manganese, ossido di ferro e caolino, riuscirono a stabilire le fonti minerali nei pressi della grotta. Secondo questi rilevamenti la fonte più vicina di manganese era a quaranta chilometri a nord-ovest, quella di argilla, dell’ocra rossa e gialla a venti chilometri a est. Un successivo lavoro sul campo compiuto dai due studiosi portò al ritrovamento di fonti più vicine a Lascaux che non figurano sulle mappe ufficiali: una fonte di ossido di manganese a cinque chilometri di distanza e una di ocra a solo mezzo chilometro. Nel secondo studio, proposto da Aimé Bocquet e diretto da E. Bouchez, un gruppo di studiosi ha svolto un'analisi tecnica dei pigmenti polverizzati e dei metodi impiegati nel Maddaleniano per prepararli. Analizzò 10 campioni dei pigmenti in polvere recuperati dall'abate Glory e un solo campione di un pigmento nero prelevato dalla superficie di un mortaio. Per ogni campione furono stabiliti sia gli elementi chimici presenti sia i minerali specifici da cui quegli elementi provenivano. Il lavoro del gruppo di Grenoble ha portato alla luce numerosi elementi nuovi, fra questi spicca il fatto che gli artisti del Maddaleniano non solo mescolavano i pigmenti per ottenere i colori e altre proprietà da essi ricercate, ma trattavano anche i pigmenti in modo inatteso. Un componente di un pigmento, per esempio, era il fosfato di calcio, una sostanza che si ottiene riscaldando ossa animali a una temperatura di circa 400 gradi centigradi. Il fosfato di calcio veniva poi mescolato con calcite e riscaldato nuovamente, fino a circa 1000 gradi centigradi, in modo da trasformare la miscela in fosfato tetracalcico (4CaO·P205). Un pigmento bianco che a prima vista sembra rossastro a causa di una contaminazione superficiale con ocra Manunta Anna 7 rossa dimostrò di non essere caolino puro bensì una miscela di argilla (10 per cento), quarzo in polvere (20 per cento) e calcite in polvere (70 per cento). Analogamente, mentre l'ossido di manganese era la sostanza primaria dei pigmenti scuri, il pigmento nero prelevato dal mortaio ha dimostrato di essere un misto di carbone di legna (65 per cento), argilla ricca di ferro (25 per cento) e quantità minori di altri minerali, fra cui quarzo in polvere. L'argilla era stata aggiunta, in proporzioni variabili dal 20 al 40 per cento, anche all'ocra rossa e a quella gialla. Nel terzo studio, Pamela B. Vandiver, del Massachusetts Institute of Technology che lavorava sotto la direzione di William D. Kingery, si è servita della microscopia elettronica a scansione SEM per studiare dei frammenti di pigmenti di parecchie pitture di Lascaux, sfruttando anche l'analisi mediante raggi X a dispersione di energia, la diffrazione ai raggi X e la petrografia ottica per valutare la tecnologia sviluppata dagli artisti di Lascaux. Queste tecniche hanno rivelato che la microstruttura dei pigmenti rossi differisce da quella dei pigmenti neri. I cristalli di ematite di un pigmento di ocra rossa, per esempio, sono caratteristicamente piatti, mentre quelli di pirolusite di un pigmento nero di ossido di manganese sono fibrosi o aghiformi. CONCLUSIONI Lo studio dei pigmenti ha rivelato diverse informazioni. Innanzitutto che i pittori del paleolitico avevano a disposizione molti tipi diversi di pigmenti, realizzati con materiali diversi. E’ stato possibile, inoltre, stabilire la località di provenienza dei minerali, in che modo e quali colori venivano utilizzati attraverso tecniche di spettroscopia elementare, con analisi a raggi X a dispersione di energia, con la petrografia ottica e la microscopia elettronica. Riconoscere i materiali coloranti delle pitture è di fondamentale importanza perché attraverso questi è possibile capire il livello tecnologico delle culture che hanno prodotto queste opere. Conoscendo i pigmenti si è anche in grado di datarli, preservarli dagli attacchi degli agenti atmosferici e restaurarli se in condizioni di degrado. RIFERIMENTI [1] D. Cocchi Genick, Verona, Preistoria, Quiedit (nuova ed. 2006), pp. 115-119 [2] C. Renfrew P. Bahn, Archeologia teorie, metodi e pratiche, Zanichelli 2009. pp. 347-351 [3] R. C. De Marinis arte paleolitica, Dispensa del corso di preistoria – Università degli studi di Milano – A.A. 2006-2007 [4] Arlette Leroi-Gourhan, l’archeologia della grotta di Lascaux, 1979 [5] Capire L’archeologia, Giunti, Milano 2007. pp. 74-79
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