OPERE IN PROSA Callimaco fu scrittore di straordinaria fecondità: il
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OPERE IN PROSA Callimaco fu scrittore di straordinaria fecondità: il
VITA Callimaco nacque alcuni anni prima del 300 a.c. a Cirene, colonia dorica di Tera. Era di famiglia nobile, anche se forse impoverita: il nonno, che aveva il suo stesso nome, era stato navarco e stratego nella sua città, mentre suo bisavolo sembra sia stato l'Anniceride che riscattò Platone dalla schiavitù. Non dimostrata invece rimane invece la sua discendenza da Batto, il fondatore della colonia sull'altopiano libico: il nome di Battiade con cui Callimaco è noto potrebbe essere solo un nome d'arte, equivalente a "Cireneo". Quel che è certo è che non viaggiò mai e lasciò Cirene solo quando si recò nella metropoli del nuovo Egitto tolemaico, Alessandria. Nei primi tempi del suo soggiorno nella grande città avrebbe insegnato come maestro in una scuola, ma un'altra notizia lo vuole, in gioventù, paggio della corte, come rappresentante della nobiltà di Cirene. Dal sovrano Tolomeo II Filadelfo fu chiamato, non si sa in quale anno, a lavorare nella grande biblioteca annessa al Museo, dove pur senza ricoprire mai l'incarico di direttore, attese alla compilazione dei Pinakes, in 120 libri, un'imponente opera di catalogazione di tutte le opere in lingua greca prodotte fino ad allora e conservate nella Biblioteca. Il suo lavoro di filologo e di erudito si combinò felicemente con la sua attività di poeta, che proprio del patrimonio culturale ereditato, studiato con estrema accuratezza e descritto nei suoi indici catalogici, fece il materiale primo della sua nuova poesia, felice sintesi di tradizione e novità. L'influenza di Callimaco a corte e nella cerchia ristretta dei grammatici e dei letterati che intorno a essa gravitavano si accrebbe quando salì al trono Tolomeo III Evergete, sposo di Berenice erede della signoria di Cirene, città nella quale, dopo lunghe lotte e secessioni, aveva riportato una vittoria definitiva il partito filo-egiziano; nella circostanza Eratostene di Cirene, un concittadino e allievo di Callimaco, assunse, dopo Apollonio Rodio e Zenodoto, la direzione della grande Biblioteca. Per la nuova regina, il poeta principe dell'ellenismo compose un epinicio, la Vittoria di Berenice (244 a.c.?), e la Chioma di Berenice (245), entrambe incorporate nella seconda edizione degli Aitia. La morte di Callimaco si colloca intorno al 240 a.c. OPERE IN PROSA Callimaco fu scrittore di straordinaria fecondità: il lessico bizantino Suda (o Suida) gli attribuisce ottocento titoli tra opere in poesia e in prosa. Di tutta questa vasta produzione rimane ben poco: nulla per quanto riguarda il prosatore, mentre i papiri d'Egitto hanno accresciuto quel che conoscevamo del poeta, cioè i sei Inni e una sessantina di epigrammi tramandati dalla tradizione manoscritta medioevale. Fra le opere in prosa composte da Callimaco furono i Pinakes ("Tavole", o "Registri"), che raccoglievano tutti i nomi degli autori che avevano brillato nelle varie epoche nei diversi generi della letteratura greca, e i titoli dei relativi scritti. Monumentale inventario dunque, di tutti i maggiori scrittori in lingua greca, questi registri, purtroppo perduti, erano divisi in sezioni, una per ogni genere letterario (epica, lirica, tragedia, filosofia): nell'ambito di esse gli autori erano schedati in ordine alfabetico, con brevi notizie biografiche e l'elenco dei titoli delle opere note, segnalati da un incipit per ciascun testo. Callimaco compose anche molte altre opere di erudizione e di antiquaria, tra le quali un registro dei poeti drammatici, una raccolta delle meraviglie di tutta la Terra, paese per paese (il primo testo di paradossografia da noi conosciuto), uno studio sulla nomenclatura locale e varie opere storico-geografiche, come "I fiumi del mondo abitato", o "Le fondazioni di isole e città", che includeva la storia dei mutamenti subiti nel corso del tempo dai diversi toponimi. OPERE POETICHE Inni (Ymnoi) Sono sei in tutto. Mentre i primi quattro inni sono composti in esametri epici e nel consueto dialetto ionico epico, il quinto e il sesto sono composti in dialetto dorico, non però quello parlato a Cirene, ma piuttosto una mescolanza artificiosa di lingua epica e forme doriche. Inno I - A Zeus: Fu composto probabilmente al principio del regno di Tolomeo II Filadelfo, nel decennio 290-280. Seguendo la convenzione iconografica, in primo luogo quella degli "Inni Omerici", il poeta, dopo un esordio in cui accenna alla doppia tradizione della nascita del dio, in Arcadia o a Creta, narra la nascita di Zeus nella Parrasia dalla madre Rea. Seguono il trasferimento a Creta, le fasi della crescita, l'assegnazione al dio della sede dell'Olimpo, la scelta da parte del dio dell'aquila tra gli uccelli e dei re tra gli uomini. Ciò permette al poeta di introdurre le lodi del Filadelfo, re tra i re. Inno II - Ad Apollo: l'epifania del dio apre la serie della predicazione dei poteri di Apollo e delle sue attività. Tra queste si enunciano i vincoli della divinità con i pascoli e soprattutto con le città come dio fondatore, in particolare nei riguardi di Cirene. Segue l'enumerazione degli epiteti del dio e delle città che praticano il suo culto; dopo la menzione delle feste Carnee, il poeta ricorda l'antico mito del rapimento di Cirene e rievoca la vittoria del dio su Pito, il serpente; nell'epilogo infine è introdotto il personaggio dell'Invidia (Fhtònos), che sussurra ad Apollo la propria ostilità per i cantori di pochi versi; è introdotto così il tema metaletterario. Inno III - Ad Artemide: L'inno sviluppa un ricco repertorio tematico, a cominciare dalla rappresentazione arguta della dèa bambina sulle ginocchia di Zeus mentre gli chiede i doni simbolo del suo culto. Seguono versi che narrano i vagabondaggi della dèa: in cerca delle ninfe, nell'officina dei Ciclopi, da Pan in Arcadia, sul Parrasio a caccia delle cerve. La rassegna delle gesta di Artemide continua con i dardi da essa lanciati contro una città abitata da uomini ingiusti e con altri eventi fino all'ingresso nell'Olimpo, accanto al gemello Apollo, e alla descrizione dei cori delle ninfe; chiudono il componimento gli accenni ad altri temi mitici connessi con la dèa. Inno IV - A Delo: Il tema centrale è la maledizione scagliata da Era per impedire a Lèto di partorire i figli concepiti da Zeus, e il conseguente rifiuto da parte di isole e città di offrire accoglienza alla dea partoriente; fra le terre nominate c'è anche l'isola di Cos, riguardo alla quale una profezia di Apollo rivela la futura nascita di un altro dio, Filadelfo, destinato a sconfiggere i Galati. Per consiglio ancora di Apollo, Lèto approda ad Asteria, l'isola vagante, dove finalmente si compie il parto. Segue la celebrazione dell'isola, resa fissa da Apollo e rinominata Delo, sempre immune da guerre e rallegrata da danze; l'inno si chiude con un accenno al mito cretese di Teseo. Inno V - Per i lavacri di Pallade: Una voce narrante simula un contesto rituale fingendo di guidare la processione che conduce ritualmente il Palladio a bagnarsi nelle acque del fiume argivo Inaco; la voce invita ancora gli astanti a non attingere per quel giorno l'acqua del fiume e a non guardare la dea nuda, perché uno sguardo illecito porterebbe come conseguenza la cecità. Alcuni versi riportano a titolo di esempio il mito di Tiresia, figlio della ninfa Cariclo, che senza volere vide la dèa al bagno e perse per sempre la vista; la cecità fu tuttavia compensata dalla dèa con l'arte della profezia donata al giovane figlio della ninfa. Inno VI - A Demetra: Anche in questo inno, mimetico come il secondo e il quinto, il poeta simula un'esecuzione rituale: una voce narrante invita a salutare la dèa senza guardare il sacro canestro. Nell'inno non si narrano però le tradizionali peripezie della divinità alla ricerca della figlia, ma si preferisce mettere al centro del racconto un episodio marginale del mito, come esempio di "ybris" (superbia) punita. La vicenda è quella di Erisittone figlio di Triopa: questi, per avere abbattuto un pioppo di un bosco sacro a Demetra, fu punito con una fame implacabile, che lo portò a divorare tutte le sostanze paterne. Il padre è introdotto ad elencare tutto il bestiame divorato dal figlio, i muli, la mucca, il corsiero e il destriero fino alla gatta di casa, terrore dei topi. Il tono è sapientemente bilanciato tra serio e comico. Ecale (Ekàle) L'opera godette di larga fama nell'antichità come esempio di epillio, un poemetto epico di ridotte dimensioni secondo i gusti della nuova poesia, che non tenta più di far rivivere l'antico epos omerico o ciclico (da qui il famosissimo verso di Callimaco "Odio il poema ciclico") e preferisce invece la brevità, premessa di ricercatezza formale e di rigore stilistico. Del poemetto, che doveva contare in origine circa mille esametri, restano 150 frammenti, oltre all'argomento contenuto nel Papiro Milanese. La vicenda narrata è quella di Teseo, l'eroe ateniese, partito da Atene per affrontare il toro di Maratona. Lungo il percorso, per ripararsi da una tempesta, entra nella casetta di una vecchia, Ecale appunto, che lo ospita e lo intrattiene in una lunga, amabile conversazione. Teseo quindi riparte per la sua impresa, ma quando, dopo aver abbattuto il toro maratonio, torna alla casa di Ecale che vuole ringraziare per l'ospitalità, apprende che la vecchia è morta. Per onorarne la memoria, decide di dare il nome di Ecale a quel demo, e di fondarvi un tempio in onore di "Zeus Ecaleo": l'epillio si conclude quindi con un "aìtion". La vicenda eroica doveva essere narrata in modo essenziale, mentre l'attenzione era focalizzata sulla digressione aperta, al quotidiano, di un ambiente domestico umile, rappresentato con realismo. Composto sul modello dell'ospitalità di Eumeo al falso mendico (Odissea), il poemetto callimacheo diventò a sua volta modello per la poesia successiva, come per l'episodio ovidiano di Filemone e Bauci (vedi le Metamorfosi di Ovidio). Ibis (Ibis) Composto forse in metro elegiaco, il poemetto, di cui non resta nulla, doveva contenere una violenta aggressione del poeta contro un avversario, adombrato sotto la figura dell'immondo uccello (l'ibis appunto). Secondo il lessico Suida tale avversario sarebbe stato Apollonio Rodio, ma la notizia non è verificabile. Aitia L'opera maggiore di Callimaco ("Cause", "Origini"), era composta di quattro libri in metro elegiaco, per un migliaio circa di versi a libro. Il titolo descrive il contenuto, in quanto le diverse elegie rievocano episodi mitologici o leggendari che stanno alle origini di costumi, riti, consuetudini. L'opera, che ebbe una fortuna immensa nell'antichità, ebbe tempi di composizione assai lunghi; gli studiosi ritengono che le edizioni dell'opera siano state due: la prima, probabilmente in due libri, comprendeva elegie indipendenti, ma legate dalla cornice costituita da un sogno, in cui l'autore riprendeva il noto tema esiodeo dell'investitura delle Muse, le quali appunto raccontano a Callimaco l'origine di tante istituzioni e costumi dei Greci. Il tenue filo connettivo che univa le elegie manca invece del tutto nei libri terzo e quarto: è perciò opinione diffusa che in una seconda edizione, composta verso l'anno 245, all'avvento del trono di Tolomeo III e di Berenice di Cirene, Callimaco abbia incorporato nell'opera elegie prima indipendenti, quali l’ "Epinicio per Berenice" e la "Chioma di Berenice" (Berenìkes plòkamos). Nell’ "Epinicio per Berenice" la parte principale dell'epinicio era incentrata sul mito di Eracle, uccisore del leone che devastava Nemea e fondatore dei giochi detti Nemei dal nome della città; la vicenda eroica è tuttavia declassata a favore del soggiorno di Eracle presso Molorco, umile contadino di Nemea. Nella "Chioma di Berenice" quando il ricciolo della regina, da lei offerto in voto per ottenere il ritorno del marito dalla guerra in Siria, scomparve, l'astronomo di corte Conone lo ritrovò in cielo nella costellazione che da allora ha preso il nome appunto di "Chioma di Berenice". La seconda edizione, a parere degli studiosi, fu arricchita inoltre dal prologo ai Telchini, demoni maligni e invidiosi dell'isola di Rodi, nei quali Callimaco adombrò i suoi rivali e avversari in campo poetico. Il contenuto dell'opera appare, come si è detto, decisamente eterogeneo; in particolare si possono ricordare queste sequenze mitiche: nel primo libro, "Le Grazie a Paro", "Il rito di Anafe", "Il rito di Lindo", "Lino e Corebo", "La statua di Artemide a Leucade"; nel secondo libro, "I fondatori delle città siciliane", "Aliarto", "La sepoltura di Peleo", "Busiride e Falaride". Soprattutto grazie all'elenco di argomenti conservati nel Papiro Milanese, è più facile individuare i motivi del terzo libro, dal lungo "Epinicio per Berenice", che conteneva anche il racconto della fondazione dei giochi di Nemea ad opera di Eracle (con l'inserzione del tema umile di Molorco e delle sue trappole per i topi), alla storia di "Aconzio e Cidippe", dal "Rito nuziale in Elide" alle "Tesmoforie attiche", dal "Sepolcro di Simonide" alle "Fonti di Argo", dalla "Statua di Apollo Delio" alla "Chioma di Berenice". Un altro papiro riporta l'ultima parte di un epilogo seguito dalla promessa di passare "al pascolo pedestre delle Muse", che è probabilmente l'indicazione di un passaggio editoriale al libro dei Giambi. Del poema, perduto durante il Medioevo, abbiamo oggi numerosi frammenti arricchiti dalle molte e importanti scoperte papiracee compiute all'inizio del Novecento. Giambi ('Iamboi) Una raccolta composita era anche quella dei Giambi, 13 componimenti in metri vari, di struttura prevalentemente giambica, ispirata genericamente a Ipponatte, anche se lo spirito polemico del poeta arcaico vi appare del tutto assente. Grazie al già ricordato Papiro Milanese siamo in possesso degli argomenti (diegèseis) delle singole composizioni, che evidenziano una grande varietà tematica (che ricorda in qualche modo quella che sarà la "satura" romana di Ennio e Lucilio). Così nel I Giambo è introdotto il redivivo Ipponatte ritornato sulla terra questa volta non per colpire il tradizionale avversario Bupalo, ma per condannare l'invidia, che alligna tra i dotti di Alessandria: a tale scopo racconta la storia della coppa d'oro che il giovane Amphalkes, figlio di Baticle, doveva assegnare al più saggio dei Sette Sapienti e che, consegnata a Talete, fu da questi ceduta a Biante come più meritevole, da Biante a Periandro e così via finchè il settimo, Cleobulo di Lindo, la rimise nelle mani di Talete che la offrì al dio Apollo. Il II Giambo racconta la favola esopica degli animali che, per averne abusato, persero il dono della parola che fu aggiunto a quelli degli uomini. Il III Giambo deplora le condizioni morali del tempo, nel quale la ricchezza vale più della virtù. Nel IV Giambo, in versi ipponattei, è narrata la favola della contesa tra l'alloro e l'ulivo e il tentativo di riconciliazione da parte del rovo. Nel V GIambo, in metro epodico e di difficile lettura, il poeta doveva muovere rimproveri ad un maestro di scuola. Nel VI GIambo, anch'esso in metro epodico, doveva descrivere la famosa statua fidiaca di Zeus nel tempio di Olimpia. Il VII Giambo, ancora in metro epodico, molto lacunoso, doveva contenere un racconto eziologico sul culto di Hermes Perpheraios in Tracia. Il Giambo VIII è interamente perduto: dall'argomento si apprende che doveva contenere la descrizione di una gara e l'aition di essa riferito al mito argonautico. Il tema del IX Giambo è sconosciuto mentre il X, in metro incerto, narrava la leggenda di Mopso e il motivo eziologico del sacrificio di un maiale ad Afrodite in Panfilia. Sconosciuto è l'argomento del Giambo XI, mentre il XII conteneva gli auguri a un amico per la nascita di una figlia. Il Giambo XIII contiene infine la difesa del poeta dall'accusa di praticare la "poluèideia", di coltivare cioè parecchi generi letterari e di esprimersi in più dialetti, "in ionico, in dorico e nel misto". A propria discolpa il poeta adduce l'esempio del poligrafo del V secolo Ione di Chio e ribadisce: <<(Chi ha detto) "tu componi pentametri, tu epica, tu hai ricevuto in sorte dagli Dèi di comporre tragedie"? Nessuno, credo>>. Da quanto possiamo ricostruire sempre sulla base del Papiro Milanese, ai Giambi seguivano altri quattro componimenti (detti Mèle, "Canti lirici"), che per alcuni dovevano far parte anch'essi della raccolta (che dunque comprenderebbe così non più 13 carmi ma 17, lo stesso numero degli epodi di Orazio). Il primo di questi componimenti aveva come tema le vicende dell'isola di Lemno, segnate dalle donne che si fecero assassine degli uomini; il secondo aveva per titolo "La festa notturna" (Pannukìs) e aveva come protagonisti i Dioscuri ed Elena. La terza lirica era dedicata alla "Apoteosi di Arsinoe" e deve essere stata composta dopo la morte, nel 270, della regina che fu seconda moglie del Filadelfo. Il quarto carme, intitolato "Branco", cantava il mito del pastore omonimo, sacerdote e indovino del dio Apollo a Mileto. Epigrammi ('Epigràmmata) L'Antologia Palatina, una raccolta di età bizantina (XI sec.) ci ha conservato 62 epigrammi attribuiti a Callimaco, nei quali sono trattati temi come l'amore, argomenti funerari e dedicatori; i più interessanti sono i componimenti di argomento squisitamente letterario, in cui Callimaco prende posizione nei confronti di poeti del passato o del presente (come Creofilo di Samo, Antimaco di Colofone, Arato di Soli) oppure ribadisce i principi fondamentali della propria poetica, fra cui gli ideali di brevità e "leptòtes" ("leggerezza"). Ci sono giunti infine di Callimaco circa quindici versi appartenuti a un'elegia scritta per una vittoria nei giochi Nemei, e una cinquantina di versi di un'elegia che canta la "Vittoria di Sosibio", uomo già influente sotto l'Evergete, che potrebbe anche essere il futuro carnefice della regina madre Berenice nel 220, durante il regno di Tolomeo Filopatore. IL MONDO DI CALLIMACO Un nuovo universo poetico I poeti di Alessandria dovettero ricostruire il loro mestiere quasi dalle fondamenta in seguito al dilagare del nuovo "medium", la scrittura, che coinvolse autori e destinatari, impegnati ormai a recepire correttamente il testo. L'immenso materiale trattato dal poeta-erudito, che nel nuovo universo libresco rappresenta le tradizioni della stessa Grecia storica, doveva essere riplasmato sulla nuova inedita misura della vita quotidiana nella metropoli internazionale. La sintesi fra tradizione, che guarda al passato rincuorando il dotto, e la vita quotidiana, che guarda al presente e al futuro, riesce a Callimaco quasi sempre felice in virtù soprattutto di una sottile ironia non dissacrante ma più intimamente partecipe. Già come autore degli Inni, testi di tradizione codificata, Callimaco riplasma questa tradizione traendone accenti nuovi, consoni alla temperie alessandrina. Anche i temi cortigiani come quello della "Chioma di Berenice" o della "Epinicio per Berenice" sono trattati con leggerezza, con amabile confidenza, e con esito gradevole. Tipicamente callimacheo è questo ripiegarsi dal tema eroico ai dati marginali, quotidiani, insoliti del patrimonio ereditato dalla tradizione. La poetica della leggerezza Callimaco fu poeta del "leptòn", la "leggerezza", della "steinotère 'odòs" la "strada stretta", e dell' oligostikìe", i "pochi versi", poeta del “vero” documentato con certezza (“Io non canto nulla che non sia attestato”, dice in un frammento). La poesia nuova tende a una brevità raffinata, leggera, una ricercatezza sorvegliata, un lento e faticoso "labor limae", un'originalità capace di conciliare la memoria del passato con la realtà quotidiana, con i temi antieroici della vita comune. Tutte queste preferenze callimachee contrastano radicalmente con le teorizzazioni aristoteliche; Aristotele riteneva infatti che la struttura di qualsiasi opera artistica si fondasse sui principi di unità, continuità, compiutezza ed estensione: ogni parte doveva agire con l'opera intera, mimesi, a sua volta, di un'azione unica in se stessa compiuta e di una certa estensione; modelli di ogni opera poetica erano per il filosofo i due poemi omerici e le migliori opere della tragedia attica. Ben diversi, e anzi polemicamente antitetici appaiono i capisaldi della poetica di Callimaco, enunciati per lo più in negativo, in opposizione alle dottrine degli avversari; spiccano in particolare il richiamo alla "oligostikìe", la predilezione per la poesia di pochi versi contrapposta all'epos convenzionale (quello post-omerico chiamato con disprezzo "ciclico"), la ricerca di novità e originalità, di percorsi non battuti (si veda il Prologo degli Aitia contro i Telchini), e la ricerca della "leptòtes", cioè di una poesia fine, quella della Musa "leptaleèn".
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