L`argomentazione di Carneade-1
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L`argomentazione di Carneade-1
L’ ARGOMENTAZIONE DI CARNEADE NEL DE FATO DI CICERONE 23b‐25 Carlo Natali, “Lexis” 25 (2007) – tra. di Matteo Montagner Divisione del testo Il testo presenta un solo argomento attribuito da Cicerone a Carneade, con illustrazioni e supplementi che possono essere attribuiti a Cicerone stesso. Possiamo distingure tre parti: I. II. III. Da Acutis Carneades… a causas externas et antecedentes §23b. Qui abbiamo il riassunto di Cicerone sull’argomento di discussione di Carneade con la possibilità di alcune idee di Cicerone stesso. Da communi igitur consuetudine… a non omnino sine causa dicimus, §24°. Qui abbiamo un’illustrazione da parte di Cicerone di un punto di vista linguistico. Da de ipsa atomo dici potest…a causa ipsa natura est,§§ 24b‐25. Questa è filosoficamente parlando la parte più importante del testo. Qui abbiamo un’analogia fra i movimenti dell’atomo e i movimenti volontari dell’essere umano. Cicerone dice che in entrambi i casi abbiamo una causa, ma non una causa esterna. Poiché in entrambi i casi il movimento deriva dalla natura della cosa. Le sezioni (II) e (III) del testo sono chiaramente tese a sostenere la (I). La (II) riguarda il linguaggio e la (III) riguarda la realtà. La (II) è quasi certamente di Cicerone; così può essere la (III), ma alcune idee derivano dall’originale argomentazione di Carneade. Problemi di testo Il problema più importante è al §23., docere<n>t. L’edizione dà unicamente docerent, e l’inserimento di <n> è dovuto al traduttore tedesco J.F. von Meyer. Il cambiamento al plurale è volto ad attribuire docerent con gli Epicurei, e con i plurali nella parte finale del §: possent (A,B; possunt V²; possem V¹), concessissent, concederent. Ma forse non è necessario. La forma doceret potrebbe essere riferita a Carneade, e Cicerone vorrebbe attribuirgli la teoria che ci sono alcuni movimenti volontari della mente. Nessuno degli studiosi moderni segue questa linea, con la possibile eccezione di Weische (il quale pensa che qui abbiamo una ripresa della teoria di Platone come un motore autonomo, come si può trovare nel Fedro 245c‐246a), perché in contrasto con l’interpretazione di Carneade come filosofo che procede in maniera dialettica e non prende mai posizione in proprio nomine. Un’altra possibilità potrebbe essere quella di riferire doceret all’Epicuro della prima riga del §23, come fanno Sharples e Sedley. Il risultato della tesi principale di (a), esse posse quendam animi motum 1 voluntarium è attribuita a Epicuro e agli Epicurei soltanto. Penso che questa sia l’opzione migliore, e dirò di più successivamente riguardo a questo punto. Al §25 alcuni autori hanno proposto delle modifiche, ma in realtà il senso è che potremmo essere derisi se parlando come degli scienziati naturalisti affermassimo che qualcosa avviene senza una causa. Argomenti di Carneade Nel De fato Cicerone presenta due argomenti: uno contro Crisippo (§31) e uno contro Epicuro (§23). L’argomento contro Crisippo è: (f = c’è il fato; c = ogni cosa ha luogo da cause antecedenti; s = c’è una stretta connessione di cause; n = tutto accade necessariamente; x = qualcosa è in nostro potere) Se f, allora c; se c, allora s; allora n, allora non‐x. Ma x, allora non‐f. Da dove deriva la premessa x “qualcosa in nostro potere” in questo argomento? Alcuni dicono che Carneade lo prende come evidente, altri pensano che lo derivi dall’esistenza universale di abitudini morali o che egli riprenda una premessa stoica per argomentare contro gli Stoici. Ora la premessa x è molto vicina alla premessa cruciale dell’argomentazione contro Epicuro alle §22‐3, qui Cicerone ci dice che mentre Epicuro pensa che egli possa evitare la necessità del fato per mezzo della teoria della deviazione degli atomi, Carneade in modo più efficace pensava che gli Epicurei avrebbero potuto difendere la loro posizione senza menzionare questa deviazione. Il brano ripete due volte la stessa idea in uno stretto parallelismo. Nella prima parte di ciascuna sezione (I) e (II) si dice che nella dottrina epicurea c’è un’arma migliore da usare per respingere le critiche di Crisippo o dei suoi seguaci. Nelle sezioni seguenti ci si dice qual è l’arma: la teoria di un certo movimento volontario nella mente o della nostra volontà. Nella prima parte del brano c’è un ultimo avanzo della critica precedente alla dottrina del movimento improvviso che manca nella seconda parte del brano. Nell’ultima sezione (2.1) comunque c’è un’importante spiegazione del perché sarebbe stata una migliore mossa invocare la teoria del movimento volontario: le volontà hanno cause, ma non cause esterne ed antecedenti. In quel modo gli Epicurei possono aver evitato la responsabilità di ammettere un movimento non causato. Nella prima sezione il parallellismo alla §31 non è completo. Diventerà più evidente nella terza sezione del nostro brano. Qui non abbiamo un vero e proprio argomento, ma soltanto un riferimento ad una certa dottrina ammessa dagli Epicurei. Cicerone/Carneade non dice mai che Epicuro ammise apertamente che la deviazione improvvisa è un movimento privo di causa, ma attribuisce questa teoria agli Epicurei come una conseguenza implicita della loro posizione. Qui egli fa un paragone tra due movimenti non soggetti alla necessità ammessa dagli Epicurei, deviazione improvvisa e volontà e osserva: primo che gli Epicurei non possono indicare una causa per il movimento improvviso, ma invece che essi possono indicare una causa per le volontà e secondo che la causa delle volontà non è una antecedente esterna. Eliminando il movimento improvviso Epicuro poteva ancora difendere il movimento volontario senza ammettere un movimento privo di causa. La conclusione che egli trae da questi punti è che il principio: 2 (P) “tutto ciò che accade, accade attraverso cause antecenti” evocato da Crisippo alla §21 sembra essere falso. Carneade accetta solo il principio più generale: (P’) “non c’è evento senza una causa” e pensa che le volontà epicuree non infrangano tale regola. Per essere sicuri, (P) implica (P’) e così in un certo senso Crisippo accetta anche (P’), ma non ammette che ci siano eventi senza cause antecedenti. Questo è delucidato nella terza sezione del nostro brano. In (2.1) troviamo una distinzione di cause, cause antecedenti contro un altro tipo di causalità non ancora spiegata. Carneade si accontenta qui di citare teorie attribuite ad altri filosofi e noi non possiamo analizzare la sua argomentazione da un punto di vista logico. Ma ci sono domande storiche da porsi come le seguenti: 1. Da un punto di vista storico dire che per Crisippo tutte le cose accadono attraverso cause esterne ed antecedenti è del tutto corretto? Il punto è ancora in discussione tra gli studiosi, ma vedi (Plut. De fato 11‐474E, un testo che implica una risposta positiva a questa domanda). 2. E’ storicamente corretto dire che gli Epicurei ammettevano un movimento non causato da qualcosa che poteva contare come una causa antecedente nel linguaggio filosofico stoico? Non lo sappiamo di sicuro, ma sembra possibile dire che nel Peri physeos libro XXV Epicuro fa un lungo percorso per mostrare che i movimenti della mente in una persona adulta non sono dipendenti da una struttura atomica sostrata. Quali siano le conseguenze di questa dottrina per la discussione sulla libertà della volontà nella filosofia epicurea non è ancora definito. Alcuni studiosi pensano che implichi la capacità della mente di essere una causa che si muove indipendentemente, altri preferiscono una spiegazione monistica dell’azione umana. 3. Carneade concorda con l’idea che le volontà abbiano una causa che non è esterna o egli la menziona soltanto in modo dialettico per criticare altri aspetti della dottrina di Epicuro? Cercherò di dare alcune risposte più tardi dopo aver discusso le seguenti sezioni del De fato. Nella seconda sezione (§24 prima parte) non c’è bisogno di una lunga analisi. Se non siamo inesatti Cicerone dice che noi usiamo “empty” (vuoto) non per significare fisicamente “void”, ma proprio per significare “senza un contenuto come vino, acqua etc.”. Allo stesso modo noi possiamo anche essere imprecisi quando diciamo “senza causa” significando soltanto: “senza una causa esterna”. Questa parte è stata tralasciata dai critici moderni. Qui abbiamo uno degli exempla che Cicerone usava per integrare le dottrine dei greci. Nessuno, per quanto ne so, ha attribuito questa sezione a Carneade. Non è chiaro quale sia la forza dell’argomento, né se esso sia inteso come critica agli Epicurei; forse è soltanto un argomento di Cicerone in favore alla posizione di Carneade. Passiamo alla terza sezione (§24‐fine 25), qui abbiamo un’interpretazione da parte di Carneade/Cicerone di alcune dottrine epicuree. Il brano si basa su un’analogia tra i movimenti degli atomi e le volontà. L’argomentazione in questo brano è stata spesso riassunta in modo inesatto dai critici. La principale divisione è tra l’opinione secondo la quale la nostra volontà (“our will”) è la causa interna della nostra azione e l’opinione secondo cui la nostra volontà (“our will”) ha una ulteriore causa, la nostra natura (“our nature”). Alcuni asseriscono che secondo Carneade, la nostra volontà “our will” muove la nostra mente e 3 causa le nostre azioni (Pesce) o che essa causa i nostri movimenti volontari (Turnebus, seguito da Brochard, Yon, Amand, Pesce) o perfino che causa i nostri movimenti naturali (Hamelin). Nonvel Pieri, Duhot e Donini, comunque, pensano che la posizione di Carneade è che è la natura la causa della volontà e dei nostri movimenti volontari, facendo la natura e non la volontà la causa interna dell’azione umana. Anche Bobzien dice che la causa dei nostri movimenti secondo Carneade è la nostra natura. Marwede pensa che Cicerone avrebbe dovuto dire che la causa della volontà è la natura della nostra mente e non la natura delle volontà stesse. Abbiamo bisogno di essere aderenti animorum motus al reale uso delle parole del brano per vedere più chiaramente qual è l’argomentazione. Carneade non descrive le azioni umane come qualche cosa che accade fuori di noi, ma parla solamente di movimenti della mente. Sembra che egli prenda l’azione umana come identica ad un evento localizzato nel corpo e, implicitamente considerare i movimenti corporei come gli effetti dell’azione come fanno gli Stoici e non come parte dell’azione stessa. Il brano che stiamo esaminando è molto breve e non possiamo essere sicuri di quel punto. Ma è notevole che Carneade non si riferisca assolutamente a movimenti del corpo per illustrare il punto che le nostre azioni dipendono da noi: descendit in Academia Carneades, veniet in Senatum Cato etc. (§§ 19,28). Ciò che abbiamo qui in conclusione è soltanto un paragone tra i movimenti dell’atomo e i movimenti della mente, con cui le azioni si identificano (animi mostus). All’inizio del brano Cicerone usa i risultati della seconda sezione per costruire l’analogia: non è vero dire che l’atomo si muove senza una causa proprio perché non c’è una causa esterna in movimento. E’ mosso dalla sua stessa natura , e così sono le volontà. L’analogia è: ( A ) Natura dell’atomo: atomo = la natura del movimento volontario: alla volontà Ma riferirsi alla natura non è sufficiente. Dire che le volontà accadono per loro stessa natura o che gli atomi sono portati giù dalla loro stessa natura non equivale ad una spiegazione. La spiegazione della natura della cosa potrebbe essere accettata nella filosofia Aristotelica, ma non qui. Le cause di cui stiamo parlando qui sono cause che si muovono e non cause formali nel significato di Aristotele. Le cause formali Aristoteliche possono essere esplicative di un modo della cosa di muoversi indicando la sua essenza e la sua natura: un uccello vola perché il volo è il suo modo naturale di andare da un posto all’altro. Ma nella filosofia ellenistica noi parliamo per lo più di cause che si muovono e, le cause in movimento non si spiegano nello stesso modo delle cause formali in Aristotele. Da qui la necessità che abbiamo di esplicitare la nozione di natura e vedere cosa contiene, e ciò è necessario per entrambi i lati dell’analogia (A). Nella parte sinistra dell’analogia, nel caso dell’atomo la natura è identica a pondus e gravitas (peso e gravità) due termini quasi equivalenti. L’atomo è portato giù dal proprio peso. L’analogia può essere riformulata: ( A’ ) Peso e gravità : atomo = natura del movimento volontario: volontà Noi abbiamo bisogno di una simile analisi anche nel lato destro dell’analogia. Non possiamo fermarci alla natura del movimento volontario o peggio alla natura della volontà come fanno alcuni commentatori, ma abbiamo bisogno di analizzare la nozione nel caso di un movimento volontario. Carneade dice che la natura del movimento volontario sorge dall’essere in nostro potere e obbedirci ( in nostra potestate nobisque pareat). Questa espressione è stata considerata da Turnebus equivalente all’espressione greca ep’ hemin o, per usare un’espressione più Epicurea, par’hemas, cioè un potere innato (innata potestas Lucrezio). Dirò qualcosa più tardi sulla relazione tra ep’ hemin e par’hemas e l’analogia diventa: 4 ( A’’) Peso e gravità : atomo = (innata potestas) essere in nostro potere e ubbidirci : volontà Ed ora ritorniamo all’argomento della §31; come ho già detto i due argomenti sembrano sollevare lo stesso punto. Alla §31 avevamo: (P’’)= “qualcosa è in nostro potere (est autem aliquid in nostra potestate)” e qui alla §25 abbiamo (P’’’)= “le volontà sono in nostro potere e ci ubbidiscono ( in nostra potestate nobisque parea[n]t)”. In entrambi i brani la stessa premessa porta alla stessa conseguenza. In entrambi i brani c’è il richiamo alla nozione di potere (potestas) ciò non può indicare la capacità meccanica di aggancio in una catena causale per trasmettere il movimento al successivo aggancio, ma la capacità di originare movimento. Come Artistoetele dice nel libro VIII della fisica “un bastoncino muove la pietra ed è mosso dalla mano che a sua volta è mossa dall’uomo; nell’uomo comunque abbiamo raggiunto una persona che muove che non è tale in virtù di essere mosso da qualcun altro”. L’idea generale è che nella nostra mente c’è un potere di originare movimenti che è la causa, ma è differente dalle altre cause. Non è mosso da un’altra causa e a causa di ciò non siamo soggetti al destino. E’ questo un buon argomento? Prima di chiedersi se Carneade accetta come vera questa teoria, discutiamo un altro punto. Questo è un buon argomento? Molti studiosi oggi si opporrebbero a quella posizione e non accetterebbero l’interpretazione di par’hemas come qualcosa che indica il potere di originare azioni scegliendola in un modo o nel modo opposto. Recentemente è stato detto che in tempi ellenistici le due espressioni, eph’ hemin e par’ hemas, hanno significati diversi: il primo indica una possibilità di azione in due sensi per esempio di fare qualcosa o il suo contrario, ma non si riferisce ad un potere interno dell’agente; il secondo ha un significato di causa più pronunciato, ma indica soltanto una capacità di agire unilaterale. Chiarisce chi porta la responsabilità per un evento e niente altro. Se si prende la distinzione in modo così rigido si potrebbe derivare che nel primissimo dibattito ellenico non era presente l’idea che un uomo ha il potere di essere la causa di azioni opposte, né l’idea che il modo in cui operiamo dipende da noi come cause in due sensi. Una tale interpretazione di questa distinzione non sembra essere necessaria e non consistente in alcuni testi Epicurei. Come fece Epicuro nel Peri phuseos XXV, qui Carneade cerca di distinguere diversi livelli di causalità in modo da stabilire una forma di causa che possa produrre risultati opposti. Se in nostra potestate nobisque pareat è il latino di par’ hemas non c’è niente nell’espressione che impedisca di usarla per indicare una capacità bidirezionale di agire e scegliere. Infatti, in Carneade deve avere questo significato dal momento che alla §31 lo adopera per indicare la premessa (est autem aliquid in nostra potestate) da cui deriva che non c’è alcun fato. Se prendiamo in nostra potestate come un’indicazione di causalità unilaterale, la conclusione non igitur fato fiunt , quaecumque fiunt semplicemente non segue. Si potrebbe obiettare che dal momento che lo stesso Crisippo, come si può giudicare dalle §§41‐43, ammise l’opportunità di distinguere generi diversi di cause (in movimento), in sé la distinzione di differenti generi di cause non è sufficiente a rifiutare il determinismo. Ma tutto dipende da quello che è distinzione. E’ 5 necessario distinguere vari generi di cause moventi in modo tale che si possa contrastare un determinismo causale. Carneade non spiega chiaramente che cosa egli intenda essere in questo contesto in nostra potestate. Il genere di causalità da lui indicato assomiglia oggi a ciò che oggi viene chiamato causa agente o causa mentale da alcuni filosofi. Questa sembra essere l’interpretazione più naturale delle parole di Cicerone. Ma una tale dottrina non sembra accettabile al gusto moderno specialmente tra gli studiosi influenzati dal naturalismo scientifico contemporaneo, una tendenza che cerca di rendere la filosofia il più possibile simile alla scienza moderna. Questo è il motivo per cui secondo me oggi molti interpreti, quando studiano argomenti ellenistici sul destino e su cosa dipende da noi, spesso cercano una lettura compatibile dei testi antichi e vanno molto lontano per argomentare in favore di esso nel caso non trovino chiare indicazioni del contrario. Ma il gusto moderno non dovrebbe essere rilevante per il problema storico e non sono sicuro che la causa agente e la causa mentale in tale posizione filosoficamente debole sia che dobbiamo cercare in ogni modo possibile di liberare i nostri antichi autori da tale visione moderna. Se ciò è vero, gli argomenti di Carneade nelle §§31 e 23 diventano più comprensibili. Egli cita in entrambi i casi il fatto che c’è qualcosa in nostra potestate e, quando discute Epicuro, egli qualifica quel “qualcosa” come una “volontà”. Poiché la volontà, per essere in nostra potestate nobisque [parere] implica essere una capacità di scelta motivata e bidirezionale. Il suo rimprovero agli Epicurei sembra essere “voi avete già la nozione di un evento nella mente che dipende da noi. Questo ci dà il potere di fare una cosa e il suo contrario. Così, perché avete anche bisogno della deviazione improvvisa?”. Se ciò è vero, Carneade (1) prende in nostra potestate in modo bidirezionale e rifiuta l’idea che un evento possa accadere senza una causa. Egli sembra anche pensare (2) che ogni proposizione è vera o falsa e che, (3) tanto per parlare, il determinismo logico non esige il determinismo causale, come dimostrano altre sezioni del De fato. Credeva nelle tre tesi? I suoi discepoli erano incerti se alcune delle sue tesi fossero accettate da lui o che tutte fossero “presentate in un dibattito” piuttosto che accettate (Cic. Acad. II 78) e così siamo noi. Sembra un po’ difficile stabilire che un argomento Epicureo sia migliore (melius, §23) di un altro come fa Carneade perché il primo accetta il principio di causalità e il secondo no senza ritenere quel principio vero. E la lode spesso attribuita a Carneade per aver stabilito il determinismo logico non coinvolge il determinismo causale viene in qualche modo sminuito se consideriamo quella tesi soltanto come qualcosa concepita come utile in un dibattito. A causa di ciò preferiamo sospendere il nostro giudizio su questo punto. Università Ca’ Foscari Venezia Carlo Natali 6