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Corriere della Sera Martedì 4 Ottobre 2016
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Risponde Sergio Romano
DAL TRONO ALLA POLVERE
LA TRISTE PARABOLA DI NIXON
di Paolo Di Stefano
La mutata geografia
dell’editoria italiana
LETTERE
AL CORRIERE
COSTITUZIONE
La sovranità popolare
Caro Romano, la nostra
Costituzione, all’art. 1, ci
ricorda che «La sovranità
appartiene al popolo» e al 139
ci intima: «La forma
repubblicana non può essere
oggetto di revisione
costituzionale». Se i padri
costituenti — per ragioni
storiche ormai superate —
hanno relegato il Paese in una
situazione alquanto ambigua,
viene da chiedersi: se la
sovranità popolare risulta così
bloccata, prima di riformare la
Costituzione non dovremmo
risolverne le contraddizioni?
Alessandro Piana, Monza
Credo che lei abbia ragione.
Fra i due principi – sovranità
popolare e divieto di modificare la forma dello Stato — vi è
una potenziale contraddizione.
Ma la questione è astratta. Quale potrebbe essere oggi una
plausibile alternativa alla Repubblica?
ASTENSIONISMO
Legittimo, ma da evitare
Le lettere firmate con
nome, cognome e
città, vanno inviate a
«Lettere al Corriere»
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Le proposte
di oggi
su Corriere
digital
edition
«Narcoguerra»
quarta puntata
Pur senza negare la legittimità
costituzionale dell’astensione
referendaria è importante
comprendere che il referendum
del 4 dicembre è formalmente e
sostanzialmente carico di
conseguenze. Anche se non c’è
quorum, tutti concordano che
si tratta di modifiche profonde
alla Costituzione: un
cambiamento necessario per i
sostenitori del «sì» e un
peggioramento notevole
secondo i sostenitori del «no».
Come non auspicare,
comunque, che a decidere in
merito ci sia la maggioranza
più ampia possibile degli
elettori?
Matteo M. Martinoli, Milano
La serie di
Guido Olimpio
su personaggi
e storie del
conflitto tra
clan messicani
BICAMERALISMO / 1
Renzi e il ping pong
Rassegna
stampa alle
7.15 e due
notiziari alle 13
e alle 19.30
Mi pare che Matteo Renzi non
adoperi un paragone
 Il piccolo fratello
La Bussola
di oggi
Le cose da
tenere d’occhio
nella giornata
che inizia
segnalate alle
6.30 dalle
nostre firme
Rassegna e
notiziari
Abbiamo letto la sua opinione su John
Fitzgerald Kennedy, quale sarebbe invece il suo
giudizio sulla presidenza di Richard Nixon?
Un amico californiano una volta mi disse che
se Richard Nixon non si fosse rovinato con il
Watergate, sarebbe stato considerato da tutti i
cittadini statunitensi il miglior presidente
degli Stati Uniti del ‘900.
Davide Chicco
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Caro Chicco ,
icordiamo Nixon, in effetti, per due vicende: lo stabilimento dei rapporti con
la Cina comunista e lo scandalo del Watergate. La prima fu dovuta in buona
parte alle intuizioni di due grandi realisti della
politica internazionale: Henry Kissinger, allora
presidente del Consiglio per la sicurezza nazionale, e Zhou Enlai, ministro degli Esteri della
Repubblica popolare. Entrambi avevano capito
che un mondo ingessato dal dissidio sovieticoamericano negava a Washington e a Pechino
una buona parte della libertà di manovra di cui
avrebbero potuto godere.
La prima mossa, dopo molti sondaggi, fu dei
cinesi. Invitarono gli americani a un torneo di
ping-pong e offrirono al mondo lo strabiliante
spettacolo di due grandi potenze che ricorrevano, per lanciarsi segnali di pace, al più lieve e
innocuo dei duelli. Al segnale cinese gli Stati
Uniti risposero annunciando la revoca dell’embargo, decretato più di venti anni prima, sulla
vendita alla Cina di prodotti strategici. Qualche
mese dopo Nixon annunciò alla nazione e al
mondo che era stato invitato a visitare la Cina e
aveva accettato l’invito. Il 21 febbraio del 1972,
quando scese dall’aereo all’aeroporto di Pechino, rimase a lungo solo, di fronte alle telecame-
R
appropriato quando ,
parlando del rimbalzo delle
leggi tra Camera e Senato,
parla di ping pong. In quel
gioco la pallina viaggia a gran
velocità e in pochi secondi si
conosce l’esito dello scambio.
Tra Camera e Senato i tempi
per l’approvazione delle leggi
più dibattute sono parecchi
anni, con tendenza all’infinito.
Gilberto Salmoni, Genova
BICAMERALISMO / 2
Motivi davvero superati?
Tutti sembrano essere
d’accordo sull’utilità del
superamento del
re. Non voleva che la presenza di un collaboratore al suo fianco lo privasse di una parte del
suo storico trionfo.
Dall’altare della gloria alla polvere della disfatta il percorso fu relativamente breve. All’inizio dell’anno seguente due reporter del
Washington Post, il quotidiano liberal della capitale americana, cominciarono a raccontare
sul loro giornale una storia di microfoni collocati negli uffici del Comitato nazionale del partito democratico durante le fasi più cruciali della campagna elettorale per il rinnovo del mandato presidenziale. Altri articoli, nei giorni successivi, ampliarono le dimensioni dello
scandalo puntando il dito su alcuni intimi collaboratori del presidente. I microfoni servivano
evidentemente a individuare gli argomenti e le
accuse di cui il partito democratico si sarebbe
servito per battere Nixon. I colpevoli fecero
quadrato e smentirono ogni accusa sino al giorno in cui gli americani appresero che Nixon
aveva l’abitudine di registrare per futura memoria tutte le conversazioni che avevano luogo
nello Studio ovale. Quando la Corte Suprema
costrinse la Casa Bianca a consegnare i nastri
delle conversazioni, fu chiaro che Nixon conosceva e approvava le malefatte dei suoi amici.
Per evitare l’«impeachment» (l’incriminazione
deliberata dal Congresso) si dimise il 9 agosto
del 1974. Paradossalmente le stesse cimici che
dovevano servirgli a violare le conversazioni dei
suoi avversari dettero un colpo mortale alla sua
carriera.
Oggi, caro Chicco, la storia non ha dimenticato lo scandalo del Watergate, ma riconosce a
Nixon il merito di avere reso il mondo multipolare e di avere allontanato il rischio di uno scontro armato fra le maggiori potenze.
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bicameralismo perfetto. Ma
siamo sicuri che le ragioni che
indussero i padri costituenti a
istituirlo non valgano più?
Mauro Chiostri
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TRASPORTI PUBBLICI
Conducenti di Roma
L’Atac, l’azienda romana dei
trasporti, ha scoperto che
l’80% di chi si era dato
inidoneo a lavorare come
conducente, è risultato in
perfetta forma ed è ritornato a
lavorare sulle strade. La
ragione del miracolo? Con i
certificati medici falsi, si
rischia, con la nuova legge,
non solo il licenziamento, ma
anche il carcere!
Mariella Mercalli, Milano
ANNIVERSARIO
Lavori sulla Mi-To
In questi giorni si compiono
16 anni dall’inizio dei lavori
di ammodernamento
dell’autostrada Milano-Torino
(125 km di pianura), che sono
ancora in corso, con disagi
talvolta gravi. Nel frattempo il
concessionario ha aumentato
i pedaggi di quasi il 50%.
Vincenzo D’Ascanio
U
n grande studioso come Carlo
Dionisotti vide nella declinazione tra
geografia e storia i fattori
determinanti della letteratura italiana. Una
simile prospettiva potrebbe valere per
l’editoria, se non fosse che geografia e storia
dell’editoria libraria italiana hanno da
tempo divorziato. Anche così si spiega lo
«scippo» del Salone torinese. E così si
spiega anche la perorazione, pubblicata
sulla Stampa, del direttore editoriale
Einaudi, Ernesto Franco, a difesa del libro e
della lettura al di là dei Saloni, in cui tra le
righe affermava: «Gli editori, ed Einaudi
con essi, alla fine andranno a Milano perché
nessuno ha le risorse per finanziarsi il lusso
di doppi stand e doppie spese…». Ma a
quanto risulta ci sono medi e piccoli editori
(un’ottantina) che invece hanno fatto scelte
diverse (vedi e/o e Sellerio). D’altra parte
sarebbe stato imbarazzante che l’Einaudi,
facendo parte dell’orbita Mondadori, dopo
aver avuto la forza di astenersi in una prima
fase, decidesse di rintanarsi nella «sua»
Torino, cioè nel suo pur glorioso passato.
Piaccia o no, Torino è il passato per lo
Struzzo, così come lo è per la Bollati
Boringhieri, acquisita dal gruppo MauriSpagnol (Gems), così come lo è per la Utet,
entrata nella sfera De Agostini. Le case
editrici sono, tradizionalmente, anche i
luoghi in cui sorgono e da cui vengono
alimentate: sradicate da lì, diventano un po’
tutte uguali. Cosa sarebbe Sellerio se non
fosse diretta e gestita a Palermo?
Il fatto è che gli editori nati torinesi sono
diventati milanesi a tutti gli effetti, non solo
come proprietà ma anche come sguardo
culturale. Torino, in passato, era soprattutto
un’espressione politico-culturale:
significava guardare al mercato dalla
periferia, con un’aria di aristocratico
distacco e con i vantaggi del caso. La notizia
nuova è che la milanesissima Bompiani da
qualche giorno è fiorentina, acquistata da
Giunti. La cifra sborsata, dicono gli esperti,
è considerevole e bisognerà vedere quali
equilibri si stabiliranno tra la nuova
narrativa di Giunti (diretta da Antonio
Franchini) e la Bompiani (diretta da
Beatrice Masini), che dispone di un
imponente catalogo storico da sfruttare al
meglio. Non c’è niente che valga tanto, per
un vecchio editore (che non sia un editore
vecchio), come la forza attuale della sua
storia. Sì, perché fino a prova contraria gli
editori devono saper fare i libri con un
carattere proprio, mica i Saloni.
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INTERVENTI E REPLICHE
Perché nel nostro Paese è un ostacolo essere giovani
Esiste in Italia una categoria discriminata all’insaputa di tutti: si
tratta dei cosiddetti «giovani». È, questa, una discriminazione
endemica e profondissima, molto simile al pregiudizio sulle donne
o a quello sugli extracomunitari. Che cos’è un giovane? In Italia
l’età è un criterio di giudizio primario. Categorizza le persone e
marchia le nostre relazioni. Che cosa distingue un giovane da un
non-giovane e quando si smette di essere giovani in Italia? Non
saprei rispondere. Talvolta lo stesso Corriere della Sera enfatizza la
«giovane età» come un’eccezionalità. Lo fa, per esempio, il 15
settembre, quando, dando notizia al lettore dell’«insediamento di
un nuovo team alla guida del Museo Villa Croce», viene a più
riprese evidenziata la giovane età delle protagoniste: 36, 31 e 30
anni. Mi chiedo dunque, e sinceramente, quale sia in Italia, il
confine tra il giovane e il non-giovane, e quali siano le
caratteristiche di un giovane. La mancanza di esperienza, si
potrebbe dire. Ma è l’esperienza un parametro che cresce con il
proseguire degli anni? Forse, talvolta. Senz’altro, però non si tratta
di un parametro unico. Per quel che mi riguarda, per esempio, ho
31 anni, lavoro nell’editoria libraria da 8 anni, da 2 anni sono
direttore editoriale de «il Saggiatore» e ho scritto alcuni libri. Sono,
inconfutabilmente, un uomo e un professionista. Buono o cattivo
non spetta a me giudicarlo. Ma senz’altro dubito di chi mi definisca
un «giovane scrittore» o un «giovane direttore». Siamo inoltre certi
che una persona con 30 anni di esperienza farebbe questo lavoro
ottenendo migliori risultati? E che una persona con un solo anno
d’esperienza lo farebbe ottenendone peggiori? Risponderei senza
dubbio alcuno: no. In Italia, invece, essere giovani è sempre un
ostacolo. Daniele Del Giudice dovette sottolineare, all’uscita del
suo esordio, Lo stadio di Wimbledon, che non voleva essere
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definito un «giovane scrittore» ma semplicemente «uno
scrittore». E che dunque la sua opera doveva essere valutata con i
medesimi metri di giudizio – e quindi quelli della testualità – con
cui era stata valutata la Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino,
che esordiva a 61 anni. Sono passati 35 anni, ma non è cambiato
nulla: l’Italia è una forma pericolosa. Essere «giovani» è dunque un
valore? Certamente no. Semplicemente credo che un medico
trentenne o quarantenne, o un artigiano della stessa età, o un
manager, o un parrucchiere debbano essere valutati, come è
ovvio, solo ed esclusivamente per i loro risultati. Essere identificati
senza l’aggettivo «giovane». Ed essere infine considerati per
quello che sono: professionisti, oltreché persone. Che cosa fare?
Io, nel frattempo, ringrazio la genetica per avermi fatto brizzolato.
Andrea Gentile, direttore editoriale il Saggiatore
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