La lezione di Kahn - Olivetti, storia di un`impresa
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La lezione di Kahn - Olivetti, storia di un`impresa
La lezione di Kahn di Renzo Zorzi, Articolo pubblicato su “GO informazioni” (Giornale Olivetti), Anno II, n. 2, aprile 1974 La Pennsylvania Station, a New York, quando alla sera si spengono gli uffici e il fiume umano che lavora a Manhattan si precipita ai treni per tornare a casa, conosce il suo secondo momento nevralgico della giornata. Affondata nell’ombra che le proietta addosso l’immane grattacielo di Gropius che la sovrasta, i suoi saloni sotterranei sono come presi d’assalto da una turba galoppante che i treni ingoiano in un boccone verso la quiete delle cittadine sepolte nel silenzio notturno della pianura americana. Lo spettacolo di un morto sul pavimento è un fatto troppo insignificante per poter arrestare fosse solo per un attimo quel traffico micidiale e convulso, che non può concedersi distrazioni o aritmie. Così, quando la sera del 19 marzo scorso, un uomo in attesa del treno per Filadelfia si afflosciò d’un tratto sul cemento scuro della banchina e lì rimase fulminato da un infarto, della cosa si accorsero appena i suoi immediati vicini. Ma quell’uomo, un vecchio di settantatre anni, piccolo di statura, minuto, con mezzo volto devastato da un’ampia bruciatura procuratasi a sei anni cadendo su un braciere e che gli dava come un’espressione innocentemente beffarda, con due labbra troppo rosee, rilevate, quasi gonfie, forse in parte ricostruite chirurgicamente, era Louis Kahn, uno dei capifila del movimento architettonico moderno e una delle personalità più folgoranti della scuola americana. Si concludeva quella sera, quasi emblematicamente, una vita che aveva avuto il suo inizio in un villaggio dell’Estonia ed aveva percorso tutta la trafila dell’emigrazione ebraica del primo decennio del secolo dai ghetti dell’Europa orientale alle speranze del nuovo mondo. Kahn si era in realtà rivelato molto tardi, dopo lunghi anni di insegnamento alla facoltà di architettura dell’Università di Filadelfia, dove la sua scuola era diventata un caso quasi mitico, un miraggio che attirava studenti da ogni parte d’America, per il fascino di quelle sue lezioni in cui l’oggetto architettura veniva scomposto e ricomposto nel vivo di una discussione a più voci con il piccolo gruppo di studenti che lo attorniavano e i cui lavori venivano sottoposti al vaglio di un giudizio nel quale si avvertiva il perpetuarsi di un insegnamento maggiore, la continuità di una tradizione che dopo Sullivan e Wright toccava con Kahn il suo terzo momento magico. (…) A costruire davvero cominciò dopo i cinquant’anni, quando gli altri hanno già dato la misura di quello che sono. E quasi subito si creò un nuovo mito Kahn: c’era un distacco troppo evidente rispetto al dilagare dello stile “internazionale”, una severità d’impianto che a qualcuno parve persino accademia, un uso dei materiali (la rivalutazione del mattone, usato anche come rivestimento, per esempio nei grandi archivolti di Dacca) che fece gridare, anche da noi, alla finzione ed al compiacimento formalista, una riscoperta della simmetria, ricuperata dalla tradizione classica, e in particolare italiana, dell’architettura, ma come aperta e rovesciata che costituiva un rifiuto e un radicale misconoscimento delle articolazioni organiche, un ritorno quasi puntiglioso, forse qualche volta ai limiti dello scolasticismo, alle forme perdute dell’antica sapienza costruttiva. Eppure, in alcuni casi, si tratta certamente di grande architettura: i laboratori Richards dell’Università di Pennsylvania, il Bryn Maw College, l’Istituto Salk a San Diego, California, il piano e qualche edificio per la seconda capitale del Pakistan, Dacca, per non citare che gli esempi maggiori, costituiscono momenti quasi eroici di uno sforzo disperato per rimettere l’architettura sui piedi, reinventando l’organismo architettonico attraverso una composizione di forme astratte, l’arco, il cerchio, il quadrato, il cubo, il cilindro (…). La fabbrica di Harrisburg Quando la società Olivetti decise di abbandonare negli Stati Uniti la vecchia fabbrica di Hartford che era stata ereditata con l’acquisto della Underwood, e che era un vero monumento della rivoluzione industriale americana risalente agli ultimi decenni dell’Ottocento, e di costruire una nuova fabbrica nella cittadina di Harrisburg, capitale della Pennsylvania adagiata sulle leggere colline lambite dal corso del Susquehanna, e andammo a trovare Kahn nel suo studio di Filadelfia per proporgliene il progetto, lo trovammo nel piccolo appartamento che era tutto il suo atelier al centro della città, circondato da due o tre allievi e da quel silenzioso, gigantesco assistente, coi capelli ormai bianchi, di cui Kahn stesso ha parlato in qualche suo scritto come di un collaboratore senza incarichi, che non doveva lavorare, ma che con la sua silenziosa presenza lo aiutava a pensare. Nulla degli spazi articolati, pieni di collaboratori e disegnatori, propri degli studi americani. Saputo che volevamo parlargli, si era precipitato dall’India, come dall’India arrivava la sera che morì a New York diretto a casa. Andammo insieme ad Harrisburg a vedere il terreno e ci rincontrammo poi numerose volte, in America e in Italia, durante i lavori di progettazione e di costruzione, e quando collaborammo col regista Hans Namuth ad un film sull’intera sua opera. Fu una fabbrica molto difficile da fare e i momenti di tensione e di scoramento non furono pochi, come sempre avviene per le cose importanti. Che dire di lui in questo momento di mestizia? Anche se gli fu negato di dare la piena misura del suo talento, era certo un maestro. Questo lo si sentiva immediatamente, in modo vorrei dire fisico. Ogni conversazione con lui era una lezione. Dava l’idea della struttura di un edificio semplicemente con le mani, mostrando con l’articolazione delle dita la particolarità di una forma. L’idea di costruire una fabbrica l’aveva riempito di entusiasmo e quella fabbrica, dove la mensa per la colazione degli operai e il grande spazio interno in cui si svolge il lavoro costituiscono i due poli di un’architettura di una geometria matematica, ritmata dai grandi tagli di luce verticale che introducono nella severità del luogo di lavoro verdi lame di paesaggio, è un fatto di civiltà e una rivendicazione di progresso di una forza e di una evidenza tranquillamente palesi. Ogni anni l’Istituto degli Architetti americani assegna una medaglia d’onore ad artisti distintisi nel campo dell’architettura, del design, della grafica per qualità eccezionali e realizzazioni da additare ad esempio. Quest’anno la medaglia è stata assegnata non a una singola personalità per il significato della sua opera, ma alla Società Olivetti, il cui presidente la riceverà il 20 maggio a Washington nel corso di una solenne convention dell’Istituto. La motivazione dice tra l’altro: “La Olivetti si è avvalsa dell’opera di alcuni tra i più grandi e rispettati architetti, designer e grafici per creare opere che sono all’avanguardia del design del XX secolo, raggiungendo una posizione di eccellenza nel coordinare tutte le manifestazioni attraverso le quali si è fatta conoscere nel mondo”. Quel giorno, tra i molti artisti, designer, architetti, grafici, intellettuali, scrittori che hanno contribuito a dare dell’Olivetti questa “immagine di eccellenza”, non potremo non ricordare, ormai per sempre rasserenato, il volto remoto, restituito alla sua integrità, di questo maestro, perennemente pungolato dall’aspirazione ad una irraggiungibile bellezza, la sua ostinata, solitaria e quasi antistorica scommessa per un mondo di forme dove la vocazione umana alla perfezione riscatti in ogni momento cadute ed errori, nel segno di una consapevolezza che basta da sola a definire un destino.
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