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RASSEGNA STAMPA
VENERDÌ 23 NOVEMBRE 2012
UN AFORISMA AL GIORNO:
“Lascia stare, non drammatizzare
Ma strapazzami di coccole!”
(Topo Gigio )
 «Anche così si reagisce alla crisi» .......................................................................... 2
 Budget Ue, la trattativa è in salita ......................................................................... 4
 Le Borse credono all'intesa su Atene Sprint di Milano, spread in calo a 334 ... 5
 Grecia: «Zero tasse ai pensionati che vengono da noi» ........................................ 6
 Tango bond. Buenos Aires rischia un nuovo default ............................................ 7
 Consob e banche al lavoro sulla Mifid.................................................................... 8
 Summit in Bpm sul conto misterioso ..................................................................... 9
 L’Italia affila le armi nella partita sul budget Ue ................................................. 10
 Le promesse di Delors e la cura dimagrante in salsa greca ................................ 11
 Contratti, spinta per convincere la Cgil ................................................................. 12
 Aumenti in busta paga Lo sconto del fisco non accontenta tutti ........................ 13
 Stabilità, la protesta delle Regioni ......................................................................... 14
 Deaglio: l’Italia è incagliata. Ma ci sono segnali di ripresa ................................. 15
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Rassegna Stampa del giorno 23 Novembre 2012
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
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 Antitrust contro le assicurazioni faro sulle polizze Rc per i bus......................... 16
 Chiuse 5000 imprese sane “Poca fiducia nel futuro” ........................................... 17
 Pressing su Google: paghi le tasse in Italia ........................................................... 18
 Buenos Aires spegne il lusso le griffe in fuga dalla città ..................................... 19
*il Sole 24ORE* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE 2012
di: Nicoletta Picchio
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LA POSIZIONE DEGLI INDUSTRIALI
«Anche così si reagisce alla crisi»
Dolcetta (Confindustria): saremo più competitivi, ora il tavolo della rappresentanza
MENO AUTOMATISMI
«C’è la volontà di eliminare l'indicizzazione degli aumenti per tenere conto degli andamenti
di settore»
IL GOVERNO
«Ha fatto la sua parte. Sulla decontribuzione dei premi manca una visione di lungo periodo»
LA RAPPRESENTANZA
«Organizzerò quanto prima un incontro per definire le regole per la rappresentanza»
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ROMA
«Abbiamo un gap di produttività di circa 20 punti rispetto alla Germania. Dobbiamo recuperarne almeno una
parte in tempi brevi. Questo accordo ci aiuterà senz'altro a raggiungere l'obiettivo. Si tratta di un testo concreto
che definisce con chiarezza la direzione da seguire per il futuro: sono azioni come queste che ci consentono di
reagire alla crisi».
Stefano Dolcetta, vice presidente di Confindustria per le relazioni sindacali, ha seguito tutte le tappe della
trattativa. Ed è soddisfatto del risultato: nel documento si stabiliscono regole e principi che possono consentire
alle aziende di avere maggiore flessibilità nelle retribuzioni e nell'organizzazione del lavoro, aumentando
produttività e competitività. A vantaggio anche dei lavoratori: «più produzione, più occupazione, più
ricchezza», sintetizza Dolcetta. Che ritiene una «sorpresa» il no della Cgil, fiducioso che si possa comunque
trovare un'intesa. E annuncia di voler organizzare «quanto prima» un incontro sul tema della rappresentanza.
Quali sono i punti più importanti dell'intesa, che potranno essere utilizzati dalle parti sociali?
Ci sono quattro indicazioni precise, presenti già nella prima stesura del documento e che Confindustria
considera centrali. Mi riferisco alla volontà di eliminare ogni forma di indicizzazione automatica degli aumenti
retributivi fissati dai ccnl. L'accordo, infatti, richiama la necessità di tener conto anche degli andamenti
economici di settore. C'è poi la possibilità di trasferire al secondo livello parte degli aumenti riconosciuti dai
contratti collettivi nazionali. In questo modo ci sarà più salario legato ai risultati aziendali e, quindi, per effetto
della detassazione, maggiori benefici per i lavoratori. Inoltre si prevede un preciso impegno per definire,
quanto prima, le regole per la misura della rappresentanza sindacale che è la condizione per avere accordi
collettivi rispettati ed esigibili. Infine, la comune volontà di modificare, attraverso accordi con il sindacato più
rappresentativo, le norme che regolano l'organizzazione del lavoro, gli orari e l'introduzione di nuove
tecnologie.
Si punta a diffondere la contrattazione aziendale?
Intanto ci saranno più risorse per chi fa già uso della contrattazione in azienda. Penso, infatti, che i contratti
nazionali coglieranno l'opportunità di demandare quote degli aumenti nazionali al secondo livello. Quanto
invece alla maggiore diffusione di questa forma di contrattazione, dipenderà anche dalla scelta che il governo
farà sulla detassazione. Se la renderà strutturale sarà più efficace perché consentirà alle imprese di
programmare con certezza gli investimenti.
Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi rinnovi dei contratti nazionali?
Con l'accordo del 28 giugno 2011 la contrattazione nazionale ha recepito, in larga parte, l'invito a lasciare più
spazio a quella aziendale. Non penso che tutti i ccnl recepiranno le linee guida da subito, però confido che
l'obiettivo che abbiamo condiviso anche in questa circostanza sia perseguito con coerenza e con
determinazione.
Il governo ha fatto la sua parte? Le risorse sono sufficienti?
Il governo ha fatto la sua parte mettendo le risorse per detassare il salario di produttività nel disegno di legge
di stabilità. Allo stesso tempo, però, ha affermato con chiarezza che non intende concedere nulla in termini di
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decontribuzione dei premi di risultato. È un tassello importante in questo quadro, che deve essere completato.
Manca però una visione di lungo periodo, perché le misure del beneficio fiscale per i dipendenti non sono
fissate con certezza e strutturalità. E questo rende difficile per l' industria programmare investimenti a lungo
termine.
Cosa pensa del no della Cgil? Sarà un problema?
Non è facile capire questa scelta. La Cgil è stata parte attiva di tutto il negoziato e, quindi, per me, è stata una
sorpresa la decisione finale. Il fatto che un sindacato importante decida di non firmare un accordo come questo
genera sempre qualche problema. Tuttavia, sono fiducioso che si possa trovare anche con la Cgil un'intesa
sulla rappresentanza e sulla contrattazione collettiva perché questo documento traccia un percorso del tutto
coerente con l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Anzi, è mia intenzione organizzare quanto prima
un incontro per definire le regole per la rappresentanza che sono per noi il presupposto per l'esigibilità dei
contratti.
Per la Cgil non si tutela il potere d'acquisto...
Non è affatto vero. Non c'è nessuna volontà di compromettere i principi concordati il 28 giugno. Semmai il
nostro obiettivo è aumentare il salario dove si produce ricchezza. Più produttività significa anche maggiore
produzione e quindi più occupazione. La sfida non è la tutela del potere di acquisto dei salari fine a se stessa,
ma la salvaguardia della nostra capacità di fare impresa, di dare occupazione e di creare ricchezza.
Quanto questo accordo darà una spinta alla competitività dell'impresa?
La produttività non è l'unica leva per la competitività di un'impresa, ma è un fattore importante. Quindi, in
questo senso, è un accordo di portata rilevante. Dobbiamo, però, lavorare su più fronti, tutti insieme. Il
governo sta dando un contributo importante alla crescita dell'Italia perché sappiamo che la nostra
competitività non dipende soltanto da quanto accade nelle imprese. Intorno alle nostre aziende c'è un Paese
che ha grandi capacità ma anche una straordinaria abilità nel complicarsi la vita. Dobbiamo lavorare per la
semplificazione della Pa, investire nelle infrastrutture, migliorare l'efficienza dei servizi, innovare, impegnarci
per la scuola e la formazione professionale, costruire un welfare più giusto e un sistema fiscale e contributivo
che non penalizzi il lavoro. Insomma, dobbiamo essere più produttivi.
*il Sole 24ORE*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
Dal nostro corrispondente Beda Romano
IL VERTICE SUL BILANCIO 2014-2020
Nuovo compromesso: più fondi ad agricoltura e coesione per favorire Roma e Parigi
Budget Ue, la trattativa è in salita
POSIZIONI IN CAMPO
Berlino vuole ridurre le risorse mentre l'obiettivo prioritario di Parigi è la difesa della
Politica agricola comune
BRUXELLES.
È iniziato in salita ieri il vertice europeo dedicato al futuro bilancio comunitario 2014-2020. Arrivando qui a
Bruxelles, i 27 ne hanno approfittato per ricordare i loro interessi nazionali. Come in altre circostanze nel
recente passato, anche in questo caso il confronto franco-tedesco sta segnando i negoziati. I due paesi hanno
obiettivi diversi e in parte contrastanti. La Germania vuole ridurre il bilancio, la Francia vuole difendere la
politica agricola comune.
Il presidente del consiglio europeo Herman Van Rompuy ha organizzato un vertice atipico. Da un lato, ha
ritardato alla serata l'inizio dell'incontro ufficiale (di solito l'inizio è nel pomeriggio). Dall'altro, ha visto tutti i
capi di Stato e di Governo a tu per tu, per saggiare una ultima volta l'atmosfera, e spiegare ai leader le lineeguida della nuova proposta che ha presentato ufficialmente alla cena, in origine prevista alle 8, ma spostata di
tre ore a causa di un allungamento dei tempi.
Secondo le prime informazioni circolate ieri notte, nella sua ultima proposta Van Rompuy avrebbe aumentato
di otto miliardi di euro la posta di bilancio dedicata all'agricoltura, e di 11 miliardi quella dedicata ai fondi di
coesione. Il denaro è stato recuperato tra le altre cose dai fondi riservati alla competitività. La taglia del bilancio
come tale non cambierebbe. L'obiettivo è di venire incontro alla Francia e all'Italia, che avevano protestato
contro tagli troppo drastici in questi due settori.
«La Germania si impegnerà nelle trattative in modo molto costruttivo, ma difenderà egualmente i suoi
interessi», aveva detto il cancelliere Angela Merkel arrivando a Bruxelles nel pomeriggio. Secondo un
responsabile tedesco, il governo federale è giunto al vertice con tre obiettivi: ridurre le uscite, migliorare la
qualità della spesa, limitare il contributo tedesco. La Commissione ha presentato una proposta di bilancio
comunitario per i prossimi sette anni di 1.091,15 miliardi di euro.
Qualche giorno fa, il pacchetto è stato rivisto al ribasso da Van Rompuy, a 1.010,83 miliardi, «un taglio di 20
miliardi di euro in termini reali» rispetto al bilancio comunitario 2007-2013. Ieri sera circolava voce che la
Germania avrebbe chiesto nuovi tagli per altri 30 miliardi. Francia e Germania sono su posizioni diverse.
Mentre Parigi vuole difendere la generosa politica agricola, la Germania vuole ridurre il bilancio e rivedere le
priorità della spesa.
Le interpretazioni ieri sera erano divergenti. Acuni diplomatici parlavano di perduranti tensioni tra i due paesi.
Altri vedevano un possibile compromesso nel quale la Francia avrebbe appoggiato nuovi tagli al bilancio in
cambio di un sostegno tedesco alla posizione francese sull'agricoltura. «L'Europa è un compromesso – ha detto
il presidente francese François Hollande –. Ciascuno deve venire con le proprie posizioni, difenderle e trovare
la strada migliore».
Secondo una tabella preparata dalle istituzioni europee, gli impegni di bilancio dedicati all'agricoltura sono
scesi dai 389,9 miliardi di euro della Commissione, ai 378,9 miliardi della proposta cipriota di fine ottobre, ai
364,4 miliardi della bozza Van Rompuy di metà novembre. Secondo le informazioni circolate ieri sera, il totale
proposto dal presidente del Consiglio europeo a favore dell'agricoltura salirebbe quindi a 372,4 miliardi di euro.
In un breve discorso ai leader, prima di iniziare la cena, Van Rompuy ha definito il suo bilancio «sobrio».
Basterà per trovare un compromesso? Ieri alcuni leader lasciavano intendere che un esito positivo potrebbe non
essere possibile oggi, seconda giornata del vertice, e che un nuovo summit potrebbe rivelarsi necessario. Intanto
sempre ieri i 27 hanno confermato la nomina del lussemburghese Yves Mersch al comitato esecutivo della
Banca centrale europea, chiudendo una lunga diatriba.
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*il Sole 24ORE* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Andrea Franceschi
Mercati. Il rendimento del decennale greco ai minimi di marzo
Le Borse credono all’intesa su Atene
Sprint di Milano, spread in calo a 334
BUYBACK DEL TESORO
Via XX Settembre ieri ha completato il riacquisto di CcT e CcTeu per complessivi 450 milioni
di euro tramite il fondo di ammortamento
Un accordo sugli aiuti ad Atene ancora non c'è, ma i mercati ci scommettono. La riprova si ha nel rally che ieri
ha messo a segno il decennale greco il cui rendimento ha toccato un minimo di seduta al 15,93%, livello che
non si vedeva dai primi di marzo, quando è stata chiusa la ristrutturazione del debito con i creditori privati. Un
movimento innescato dalla scommessa che l'accordo su Atene preveda anche la proposta fatta mercoledì dal
ministro delle finanze tedesco Schaeuble, di un riacquisto (buyback) di titoli greci per 10 miliardi di euro
finanziati attraverso il fondo salva-Stati. Anche se le firme non ci sono, e le divisioni tra Ue ed Fmi restino
profonde, il mercato è quindi convinto che alla fine una soluzione su Atene verrà trovata.
Oltre al rally dei titoli greci, lo dimostra anche il generale andamento del mercato dei titoli di Stato, che ieri ha
premiato soprattutto i Paesi periferici. Ieri rendimenti e spread di Italia e Spagna sono scesi ancora con il
differenziale di rendimento tra il Bund e il BTp attestatosi, a fine seduta, a 334 punti e il rendimento passato dal
4,847% al 4,777 per cento. Forte calo anche per i tassi sui Bonos, scesi dal 5,736 al 5,636%, con il differenziale
sul Bund a quota 420 punti. Nonostante abbia già raggiunto i suoi obiettivi di rifinanziamento per il 2012, ieri il
Tesoro spagnolo è tornato sul mercato con un'asta da 3,88 miliardi di bond a 3, 5 e 9 anni con tassi in calo e
domanda oltre l'offerta. Parallelamente Madrid ha venduto al fondo pensioni di Stato un titolo da 3,28 miliardi
con scadenza settembre 2017 e cedola al 4,75 per cento. Via XX Settembre da parte sua ieri ha concluso,
tramite il fondo di ammortamento, un buyback di CCt per un valore complessivo di 450 milioni di euro
riacquistandone 200, con scadenza 1 settembre 2015, e 250 di CcTeu con "maturity" 15/04/2018.
È stata una giornata positiva anche per i mercati azionari europei,
ieri senza la "bussola" di Wall Street, chiusa per la festa del Ringraziamento. I listini europei hanno archiviato
la loro quarta seduta consecutiva in positivo con Piazza Affari in rialzo dell'1,03%, Parigi dello 0,60%,
Francoforte dello 0,84%, Madrid dello 0,9 per cento. La palma di miglior Borsa europea, e non stupisce vista la
citata performance dei bond, spetta comunque ad Atene, che ieri ha guadagnato l'1,99 per cento. Oltre alle
speranze sul "dossier Grecia" in vista del vertice europeo di lunedì prossimo, la seduta dei mercati è stata
influenzata positivamente anche dalle indicazioni arrivate dall'indice Pmi manifatturiero cinese che, a
novembre, è salito oltre la soglia dei 50 punti come non accadeva da diversi mesi. Il dato, che indica una fase di
espansione dell'attività, ha alimentato le speranze di un miglioramento della congiuntura nella seconda
economia mondiale.
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*il Sole 24ORE*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Vittorio Da Rold
Atene a caccia di consumatori benestanti
Grecia: «Zero tasse ai pensionati
che vengono da noi»
PARADISI FISCALI
Il Governo cerca di attrarre i ricchi percettori di redditi esteri promettendo esenzione e
puntando sul rilancio dei consumi
Zero tasse sulla pensione frutto di una vita di duro lavoro? Un sogno? Forse non più. Il ministero delle Finanze
greco sta pensando di attrarre gli stranieri benestanti, e tra questi i pensionati europei, che dovessero scegliere
di trasferirsi in Grecia o in una delle sue tremila isole offrendo loro l'esenzione fiscale, sulla base di normative
simili già in vigore in paesi come Svizzera e Regno Unito.
Il ministro Stournaras sta elaborando, secondo fonti riportate dal quotidiano Ekathemirini, una clausola che
fornirà agli stranieri, come i dirigenti d'azienda o pensionati, che scelgano il sole della Grecia per la loro
residenza permanente di essere tassati solo per il reddito guadagnato in quel paese, mentre i loro redditi
provenienti dall'estero (come ad esempio la pensione) saranno esenti. Un bel vantaggio fiscale a cui si somma il
mite clima greco. Atene cioè vuol diventare un "paradiso fiscale" per i pensionati europei.
È un'occasione d'oro anche per il pensionato italiano che volesse migliorare il tenore di vita? In linea di
principio l'esenzione vale anche per un pensionato italiano che dovesse trasferirsi in Grecia (salvo le pensioni
dei dipendenti pubblici) a condizione però che ci sia un trasferimento effettivo, casa in loco, e una permanenza
di almeno sei mesi in un anno, dicono gli esperti fiscali interpellati. Insomma in teoria il pensionato italiano
dovrebbe aspettarsi di ricevere una pensione lorda dall'Italia, una volta trasferito in Grecia. Poi visto che Atene
non tassa i redditi esteri, il gioco è fatto. Naturalmente il nostro Fisco potrebbe contestare la manovra perché
solitamente cerca di colpire queste forme di "risparmio fiscale" che quindi vanno valutate caso per caso.
Intanto Atene va avanti con il progetto di legge certa di attirare frotte di pensionati europei, magari tedeschi
stanchi di pagare tasse e non vedere mai un raggio di sole. Il vantaggio per la Grecia sta nell'attrarre benestanti
consumatori del Nord Europa che dovrebbero rilanciare l'economia locale.
Ovviamente non si può escludere che la Ue possa vedere nella norma fiscale una concorrenza sleale e procedere
per bloccarla, ma intanto Atene va avanti.
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*il Sole 24ORE*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Gianluca Di Donfrancesco
Tango bond. Buenos Aires rischia un nuovo default
Giudice di New York obbliga
l’Argentina al rimborso
L’ULTIMATUM
Dovranno essere restituiti immediatamente 1,3 miliardi di dollari agli investitori rimasti fuori
dalla ristrutturazione
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La batosta attesa è arrivata e mette l'Argentina in pessime acque. La scorsa notte, un giudice di New York ha
stabilito che Buenos Aires deve pagare anche i possessori di bond che non accettarono la ristrutturazione
successiva al default del 2001. Finché non lo avrà fatto, il Governo argentino, inoltre, non potrà continuare a
pagare gli interessi ai proprietari delle obbligazioni ristrutturate. Il Paese si trova così sull'orlo di un nuovo
potenziale default tecnico da 24 miliardi di dollari sul debito emesso nei concambi del 2005 e del 2010.
La decisione del giudice distrettuale di Manhattan, Thomas Griesa, è l'ennesimo capitolo di una saga giudiziaria
che si trascina da una decina di anni. E non sarà l'ultimo. In seguito al default da quasi 95 miliardi di dollari,
l'Argentina offrì ai possessori di obbligazioni divenute insolventi nuovi bond con uno sconto del 70%. Circa il
92% dei risparmiatori accettarono, anche perché a corto di alternative. Chi non si è rassegnato ha fatto causa al
Governo di Buenos Aires.
Il 26 ottobre una corte d'appello statunitense aveva confermato una precedente sentenza di Griesa (82 anni), che
imponeva all'Argentina di trattare i detentori di bond insolventi allo stesso modo di quelli che avevano accettato
la ristrutturazione e di rimborsare circa 1,3 miliardi di dollari a Nml Capital, il ricorrente che avanza le pretese
più consistenti. Il Governo di Buenos Aires aveva immediatamento chiesto di sospendere la decisione in attesa
di una nuova pronuncia da parte della corte d'appello. Ma Griesa ha rigettato l'istanza, scrivendo nella sua
ordinanza che «meno tempo avrà l'Argentina per sottrarsi ai suoi doveri, meno probabilità ci saranno che lo
faccia». Il giudice ha anche citato alcune dichiarazioni del presidente Cristina Kirchner, che aveva assicurato
che «non avrebbe pagato un dollaro ai fondi avvoltoi», come chiama i detentori dei bond insolventi. Di fronte a
«minacce» di questo genere, sostiene Griesa, era necessario prendere contromisure immediate.
Griesa ha anche ordinato all'Argentina di versare i soldi in un deposito di garanzia prima di continuare a
rimborsare i risparmitori "ristrutturati". Non solo. Se l'Argentina decidesse di ignorare l'ordinanza, gli
intermediari finanziari coinvolti nelle operazioni di pagamento (in primo luogo Bank Mellon di New York)
potrebbero essere ritenuti responsabili.
L'Argentina è all'angolo. Quest'anno ha in scadenza 4 miliardi di dollari di rimborsi, compresi 3,4 miliardi in
warrant legati alla crescita economica il 15 dicembre.
Il Governo ha già fatto sapere che farà appello contro la decisione di Griesa, arrivando fino alla Corte Suprema
se necessario. Nei suoi ricorsi sarà affiancata dai risparmiatori e dagli investitori che hanno aderito alla
ristrutturazione e che ora rischiano di perdere i propri soldi. Il caso potrebbe costituire un precedente anche per
altre ristrutturazioni, compresa quella greca.
Nel frattempo, i bond argentini sono diventati i più cari al mondo da assicurare, secondo Bloomberg. I credit
default swap a un anno sono saliti di 224 punti base fino a un picco di 6.506. I warrant denominati in dollari
hanno perso il 14%, quelli in pesos il 7,6%.
*il Sole 24ORE* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Rossella Bocciarelli
Vigilanza. Solo il 10% dei questionari per identificare il profilo di rischio è efficace
Consob e banche al lavoro sulla Mifid
ROMA
Il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ne aveva parlato con molta chiarezza nel corso dell'ultima
audizione in Senato: a cinque anni dalla sua entrata in vigore, l'applicazione della direttiva Mifid, quella che
avrebbe dovuto garantire un mondo nuovo nei rapporti tra intermediari e investitori (mettendo i risparmiatori al
riparo da "tradimenti" del genere Cirio o Parmalat) appare in realtà molto al di sotto delle aspettative, con casi
di elusione, inadempienza e violazione della normativa, puntualmente rilevati dalle ispezioni Consob .
Adesso, mentre è in arrivo a livello europeo la revisione della Mifid, l'Autorità di controllo sui mercati e sulla
trasparenza ha deciso di chiamare a raccolta gli esponenti dell'industria finanziaria e del mondo accademico in
un convegno (che si tiene stamattina a Roma e sarà introdotto dal Commissario anziano, Vittorio Conti) per un
confronto diretto sui modi con i quali banche e gestori affrontano uno dei momenti essenziali del rapporto con il
risparmiatore: la definizione del suo "identikit" in relazione al livello di rischio finanziario che è disposto ad
accettare.
Come si sa, questa identificazione viene svolta dalle banche (che rappresentano l'80% del mercato nazionale dei
servizi d'investimento) e dagli altri intermediari attraverso un questionario mirato, appunto, alla rilevazione del
"profilo" del cliente. Ma, secondo l'analisi sviluppata in un Position paper da due esperte dell'ufficio studi
Consob, Nadia Linciano e Paola Soccorso, in pratica solo il 10% dei questionari possono considerarsi
sufficientemente chiari, efficaci e "validi" perchè usano domande precise e identificano univocamente la
grandezza da misurare (ovvero la "tolleranza al rischio" da parte di chi vuole comprare un prodotto finanziario);
gli altri questionari rilevano indistintamente quelli che in realtà sono una serie di aspetti diversi (attitudine al
rischio, capacità di rischio, tolleranza al rischio e obiettivi d'investimento) e risultano anche carenti sul piano
lessicale quanto a comprensibilità, sostiene la Consob. «I profili di maggiore criticità– sottolineano le due
ricercatrici– riguardano la rilevazione delle esperienze di investimento, spesso affidata all'autovalutazione da
parte del cliente e poco orientata a verificare la conoscenza di nozioni di base quali, ad esempio, la relazione fra
rendimento atteso e rischio e il principio della diversificazione del portafoglio». L'autovalutazione, in effetti,
serve a poco se il risparmiatore tende all'eccesso di fiducia in sè stesso e magari non ha chiaro il fatto che un
alto rendimento corrisponde a un rischio elevato o che bisogna evitare di "mettere tutte le uova in un solo
paniere". Per minimizzare le difficoltà di percezione soggettiva del rischio, sottolinea il paper, è necessario che
la domanda contenuta nel questionario non distorca il contesto reale: occorre cioè rappresentare la situazione in
modo appropriato. Si tratta, insomma, di dare sostanza a un adempimento che altrimenti per lo stesso
intermediario finisce con l'essere soltanto un costoso aggravio burocratico, non un momento di "consulenza
attiva".
A conclusioni non dissimili è arrivata, lo scorso mese di luglio, anche l'Esma l'autorità di controllo dei mercati a
raggio europeo, che ha impartito agli operatori delle nuove guidelines proprio in materia di adeguatezza tra la
tipologia del cliente e il prodotto finanziario proposto.
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*il Sole 24ORE*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
Credito. I fondi non autorizzati dal cda
Summit in Bpm sul conto misterioso
GOVERNANCE E TESORETTI
Ieri si è tenuto un incontro fra i sindacati che gestiscono il conto corrente da 6 milioni a
scopi benefici Verifica sulle destinazioni
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Il tema non sarebbe stato affrontato apertamente ma all'assemblea sindacale dei dipendenti Bpm che si è tenuta
ieri la tensione era palpabile. La notizia che l'Associazione Iniziative e Attività sociali Bipiemme, riconducibile
al mondo dei sindacati e all'Associazione Amici della Bpm, attraverso il conto 33522 abbia movimentato negli
ultimi 10 anni qualcosa come 6 milioni di euro e che di questi solo una parte abbia supportato progetti
filantropici non è stata letta con favore negli uffici dell'istituto. E questo potrebbe aver contribuito ad alimentare
i toni della riunione di ieri. Durante la quale, peraltro, tra le poltrone qualcuno avrebbe fatto notare che
raramente si fa beneficenza segreta. Risulterebbe, infatti, che nessuna delle iniziative promosse tra il 2002 e il
2012 dall'associazione abbia mai avuto eco pubblico. Ma neppure internamente pare che le attività siano mai
state comunicate.
Come riportato ieri da Il Sole 24 Ore, nel 2002 è stata fondata l'associazione Iniziative e Attività sociali
Bipiemme. A quella associazione è stato collegato un conto, il 33522, sul quale nel corso degli anni sono state
depositate le eccedenze di cassa maturate dalla banca, con la finalità di devolvere quei denari su progetti di
interesse sociale. L'iniziativa, gestita da un comitato direttivo composto di cinque persone, è nata a seguito di
un accordo sindacale firmato nel '98 all'interno della banca che stabiliva che le eccedenze di cassa, prima
destinate al patrimonio di garanzia del fondo di previdenza Bipiemme, dovessero invece venir dirottate su un
conto attraverso il quale promuovere attività filantropiche. Quell'iniziale conto è poi stato "trasformato" nel
33522. Un deposito oggi oggetto di un'approfondita indagine interna poiché non è mai stato autorizzato da
alcun organo dell'istituto. Come detto, il conto ha visto transitare nel corso degli ultimi 10 anni oltre 6 milioni
di euro. Ma di quei denari solo una parte è servita per supportare progetti sociali. A quanto si è appreso, infatti,
2,5 milioni sarebbero stati investiti in strumenti finanziari. Non immediatamente liquidabili, e in alcuni casi
assai rischiosi.
A fronte di tutto ciò, la banca ha interrotto qualsiasi automatismo rispetto al deposito dei flussi e avrebbe pure
chiesto la restituzione della somma ancora presente sul conto. Allo stato non risulta che quei denari siano stati
recuperati. Mentre invece è possibile che questa vicenda possa finire nel mirino della Banca d'Italia che proprio
in questi giorni sta svolgendo una nuova ispezione alla Popolare.
L. G.
*CORRIERE DELLA SERA* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
DAL NOSTRO INVIATO Ivo Caizzi
L’Italia affila le armi
nella partita sul budget Ue
Monti: «Non subiremo soluzioni inaccettabili»
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BRUXELLES — Lo scontro sul trilione di euro per finanziare il bilancio Ue 2014-2020 è iniziato con il
«confessionale», che è una liturgia classica nei vertici dei capi di Stato e di governo più difficili. Il presidente
stabile del Consiglio Ue, il belga Herman Van Rompuy, assistito dal presidente della Commissione europea, il
portoghese José Manuel Barroso, dal mattino ha incontrato singolarmente a Bruxelles i 27 leader per verificare
la possibilità di un compromesso su come far sborsare i mille miliardi di euro e, soprattutto, su come poi
restituire i fondi Ue nei sette anni.
Van Rompuy era disponibile a estendere il summit fino a domani o a domenica. Ma la difficoltà di un accordo è
emersa già nella prima «confessione» del premier britannico David Cameron, pronto al veto (decisivo in quanto
è necessaria l'unanimità) se non si scendesse molto al di sotto del trilione. Vari colloqui con altri leader sono
risultati più complicati del previsto, tanto che i lavori ufficiali del Consiglio a 27 sono iniziati alle 23, con tre
ore di ritardo, e sono stati interrotti poco dopo mezzanotte per riprendere oggi a mezzogiorno.
Il premier Mario Monti ha preso atto che l'Italia, nonostante abbia minacciato egualmente il veto, resta
penalizzata nei tre settori principali: la politica agricola, i fondi di coesione e la copertura degli sconti sui
contributi comunitari al Regno Unito e ad altri Stati. Per recuperare si è fatto accompagnare a Bruxelles dai
ministri competenti Mario Catania (Agricoltura) e Fabrizio Barca (Coesione), in aggiunta al fido Enzo
Moavero. Il premier non disdegnerebbe un rinvio a un prossimo vertice, visto che ci sarebbe tempo fino a
marzo 2013 per chiudere sul bilancio. «Non accetteremo soluzioni che consideriamo inaccettabili — ha
dichiarato Monti —. Saremo disposti anche dopo questa sessione a lavorare in modo costruttivo». La proposta
iniziale di Van Rompuy, che taglia fondi all'agricoltura (oltre 25 miliardi) e alla coesione (quasi 30 miliardi),
genererebbe per l'Italia una perdita di diversi miliardi e una sconfitta politica. In più i contribuenti italiani
continuerebbero a pagare una parte ingente dello sconto sui contributi Ue concesso al Regno Unito dal 1984.
«Per noi è assolutamente essenziale che l'Italia ottenga dei risultati migliori, rispetto a quelli prospettati nelle
bozze, a proposito di fondi di coesione, agricoltura e anche per i meccanismi di ripartizione», ha confermato
Monti, che nel negoziato rischia di restare in mezzo ai due principali blocchi contrapposti.
Il Regno Unito fa da battistrada a Olanda, Finlandia, Svezia, e altri Paesi del Nord contributori netti, che
versano per l'Ue più di quanto ricevono e chiedono risparmi oltre i circa 80 miliardi proposti da Van Rompuy
con l'avallo della Germania. In questi Stati l'opinione pubblica si è spesso irritata per eccessi di spese e sprechi
emersi a Bruxelles. Spagna, Portogallo, Grecia, Polonia e altri Paesi dell'Est, che ricevono più fondi di quanto
pagano in contributi, chiedono il trilione pieno per non perdere aiuti. Francia e Italia, che sono grandi
contributori netti, ma difendono i fondi Ue e la linea della solidarietà, restano in posizione intermedia. Il
presidente francese François Hollande auspica un compromesso che salvi gli aiuti agli agricoltori. Sulla linea di
Monti si è schierato il premier belga Elio Di Rupo. Anche il tedesco Martin Schulz, come presidente
dell'Europarlamento (che ha potere di codecisione sul bilancio) ha chiesto meno tagli. Ma i 27 leader ieri hanno
varato la nomina del lussemburghese Yves Mersch nel board della Bce, che è contestata dagli eurodeputati
favorevoli a una candidata donna in un organismo ora composto da soli uomini.
Van Rompuy ha poi corretto la sua proposta iniziale con meno tagli ad agricoltura e coesione, recuperando le
somme da altre voci del bilancio. Monti lo ha apprezzato definendolo «un segnale di attenzione». Ma Merkel ha
detto che «un nuovo summit europeo sul bilancio è possibile all'inizio del 2013» ed espresso «dubbi» sulla
conclusione di un compromesso oggi.
*CORRIERE DELLA SERA*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Federico Fubini
@federicofubini
Le promesse di Delors
e la cura dimagrante in salsa greca
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Rassegna Stampa del giorno 23 Novembre 2012
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In molte aziende del Mezzogiorno ormai i dipendenti rinunciano sottobanco a metà del salario che appare in
busta paga: preferiscono lasciare che l'imprenditore aggiri il contratto nazionale, piuttosto che rischiare il posto.
E sarebbe un gran favore all'Europa e all'euro se solo i leader dei Ventisette potessero spiegare ai cittadini che il
loro incontro di ieri notte a Bruxelles — l'ennesimo ingorgo negoziale — serve ad attenuare patologie del
genere.
Nella ridda di veti e controveti, nella contabilità di chi vince e chi perde, è facile dimenticare perché è nato il
bilancio comunitario così com'è: nell'idea di Jacques Delors, doveva ridurre le distanze fra regioni avanzate e
arretrate, favorire un solo mercato per mezzo miliardo di persone, ancorare storicamente intere aree
geopolitiche all'Unione. Con gli ultimi Paesi del Sud usciti dalle dittature (Grecia, Spagna e Portogallo), poi con
quelli emersi dal socialismo reale, il sistema ha funzionato. Le distanze si sono ridotte nell'(illuminato) interesse
di tutti.
Invece è solo un'ironia della storia se ieri sera il Justus Lipsius di Bruxelles, il palazzo del Consiglio europeo,
ospitava due riunioni in contemporanea. In una sala i leader politici d'Europa si dilaniavano sui residui di un
bilancio comune che vale l'1% del prodotto dell'Unione. In un'altra i dirigenti dei ministeri finanziari facevano
altrettanto sul destino di un Paese che, stando alla contabilità, vale il 3%.
In realtà la Grecia pesa molto più di così. Mario Monti riconosce che con lei i leader europei sono stati troppo
esigenti: impossibile imporre a un intero Paese in soli tre anni una rivoluzione «etica, sociale e giuridica» che
altrove ha richiesto una generazione. Ma l'esperimento fallito di ingegneria sociale condotto su dieci milioni di
greci, con il crollo che ne è seguito, ormai produce in Europa un contagio anche psicologico, oltre che
finanziario e politico. E finisce per danneggiare sia il negoziato sul bilancio comunitario, sia la capacità di
questa Europa di emendare storture visibili come quelle del Mezzogiorno d'Italia.
Il problema non è solo che gli «spread» salgono anche perché i mercati guardano a Atene e temono che l'euro
vada in frantumi. Né è solo che la determinazione di certi leader a trattare un altro Paese in funzione dei propri
sondaggi interni ha raggiunto, nel caso ellenico, nuovi estremi. Un problema forse più serio è che adesso, a
torto o a ragione, i politici e i cittadini in Europa temono che un Paese della Ue possa ridurne un altro nelle
condizioni in cui oggi è la Grecia. Le cause sono certo complesse, ma tutti vedono per la prima volta le distanze
allargarsi drammaticamente invece di ridursi. La promessa di Delors è stata tradita.
Questo spettacolo inocula nell'Unione il veleno della paura e della paralisi. La fiducia nel trattare delle risorse
comunitarie si è erosa. E se Mariano Rajoy rinvia di settimana in settimana l'inevitabile richiesta di sostegno
per la Spagna, è perché davanti agli occhi ha il precedente greco: poco importa che, a vederla razionalmente, le
condizioni per Madrid sarebbero molto più lievi e il successo dell'Irlanda dimostra che gli aiuti europei in realtà
possono anche funzionare.
È qui che quei salari dimezzati nel Mezzogiorno hanno la loro logica in questa vicenda. Dopo un decennio di
perdita di competitività in Italia, in Grecia, Spagna o in Portogallo — e visto che svalutare è impossibile —
diventa fortissima la pressione al ribasso sui costi del lavoro. È il modo automatico che hanno le economie di
mercato a cambio fisso di ritrovare prezzi competitivi dell'export. E i risultati si iniziano a vedere: le vendite
dell'Irlanda all'estero sono salite di oltre il 7% in un anno, mentre crescono anche quelle di Spagna, Portogallo o
Grecia.
Leader europei illuminati come Delors userebbero il negoziato in corso sul bilancio comunitario per favorire
questo ritorno di competitività, limitandone il costo sociale e politico a livelli accettabili. Ma forse, da molti di
quelli riuniti ieri a Bruxelles, sarebbe chiedere troppo.
*CORRIERE DELLA SERA*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Roberto Bagnoli
I PUNTI DELL’INTESA
Contratti, spinta per convincere la Cgil
Napolitano auspica un riavvicinamento. Bersani: il governo continui a discutere
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ROMA — Sull'accordo per la produttività firmato senza la Cgil interviene il presidente della Repubblica che,
da Parigi per una visita di Stato, si «augura che ci sia un riavvicinamento perché è importante che non manchi il
contributo della Cgil». Giorgio Napolitano ha aggiunto che ora «vedremo gli sviluppi, il governo ha tenuto a
chiarire che non si è abbassata nessuna saracinesca».
La sinistra si è divisa in tre anime, con quella di Nichi Vendola a totale favore del segretario Cgil Susanna
Camusso, quella di Matteo Renzi contro spiegando che «non si possono avere sindacati che dicono solo no» e
infine quella dialogante del segretario Pd Pierluigi Bersani secondo cui «la Cgil non ha fatto passi indietro». E,
per recuperarla e ricomporre l'unità sindacale, Bersani suggerisce di risolvere al più presto il problema della
rappresentanza. Un tema questo sentito anche dalla Alleanza delle cooperative che ieri ha lanciato la proposta
di affrontarlo al più presto.
Il filo per recuperare la Cgil potrebbe dunque essere la riforma della «democrazia» sindacale per altro prevista
anche dall'accordo sulla produttività e dal patto interconfederale sui nuovi contratti del 28 giugno dell'anno
scorso.
I toni ieri erano ancora molto accesi, sia sul trionfalismo dell'accordo che sull'isolamento della Cgil. La
Camusso ha evitato di rispondere ai ministri Corrado Passera (Sviluppo) ed Elsa Fornero (Lavoro) che hanno
replicato alle sue critiche e ha preferito far parlare le cifre. Non c'entrano con l'intesa sulla produttività ma con
la politica economica del governo sì. Secondo l'ufficio studi Cgil è in «scadenza un esercito di 230 mila precari,
una bomba sociale che va disinnescata con una proroga immediata dei contratti». Il sindacato di Corso Italia
accusa la spending review del governo Monti di un «effetto perverso» che taglia migliaia di posti di lavoro.
Per la Confindustria del vicepresidente Antonella Mansi «l'intesa va nella giusta direzione» dicendosi
dispiaciuta per il no della Cgil, mentre Alberto Bombassei sottolinea che «l'intesa è al di sotto delle aspettative
perché il fatto che manchi la Cgil non è cosa da poco». Polemica anche la destra. Il senatore Giuliano Cazzola
accusa la Cgil di «irresponsabilità» e spiega che il suo isolamento non dipende così da Sacconi o dal governo
Berlusconi ma dal «suo atteggiamento pregiudiziale» contro ogni cambiamento. Per l'ex ministro dell'Economia
Giulio Tremonti «meglio sarebbe mettere i soldi del Tfr in busta paga che detassare la tredicesima come ha
chiesto la Camusso». E, sul fronte produttività, propone modelli contrattuali diversi per la piccola e grande
impresa.
*CORRIERE DELLA SERA* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Enrico Marro
Aumenti in busta paga
Lo sconto del fisco non accontenta tutti
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ROMA — E adesso che succederà a contratti e salari? Le retribuzioni aumenteranno, sostengono Cisl, Uil e
Ugl. Scenderanno, ribatte la Cgil. Interpretazioni opposte dell'accordo dal titolo «Linee programmatiche per la
crescita della produttività e della competitività», concluso l'altro ieri davanti al premier Mario Monti da tutte le
associazioni imprenditoriali e dai sindacati, tranne la Cgil. Un accordo che riforma la contrattazione. Quelle
seguite finora risalgono agli accordi del 2009, anche questi non sottoscritti dalla Cgil. Cosa che non ha impedito
a questo stesso sindacato di firmare in questi anni tutti i rinnovi contrattuali, tranne quello dei metalmeccanici.
Secondo le regole del 2009, il contratto nazionale di categoria definisce gli aumenti dei minimi di retribuzione
«sulla base dell'Ipca (l'indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l'Italia), depurato dalla
dinamica dei prezzi dei beni energetici importati». Ad essi si aggiunge «il recupero degli eventuali scostamenti»
tra «l'inflazione prevista e quella reale». Il nuovo accordo rende meno automatico questo meccanismo. Si dice
infatti che il contratto nazionale «avendo l'obiettivo mirato di tutelare il potere d'acquisto delle retribuzioni,
deve rendere la dinamica degli effetti economici, definita entro i limiti fissati dai principi vigenti, coerente con
le tendenze generali dell'economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e gli
andamenti specifici del settore». Cioè aumenti pari all'Ipca non sono più garantiti (e neanche i recuperi) se le
condizioni economiche generali e/o settoriali non lo consentono.
Lo stesso contratto nazionale, dice l'accordo firmato con la benedizione di Monti, può (non c'è quindi un
obbligo) «definire che una quota degli aumenti economici derivante dai rinnovi contrattuali» si sposti sul
contratto di secondo livello (aziendale o territoriale) per remunerare «incrementi di produttività e redditività»
così da beneficiare della detassazione al 10% che verrà concessa dal governo, entro limiti da stabilire. Per
esempio: il contratto nazionale, definito un aumento dei minimi di 100 euro lordi, potrebbe stabilire che 30
sono destinabili al secondo livello, dove c'è. In questo caso il lavoratore prenderebbe 70 euro dal contratto
nazionale, tassato secondo l'aliquota marginale Irpef (in genere 23, 27 o 38%) e 30 sul contratto aziendale o
territoriale (ma tassate al 10%) più eventuali altre somme ottenute sempre a livello decentrato (e sempre tassate
al 10%). Per i lavoratori che non fanno la contrattazione integrativa gli aumenti sarebbero sempre di 100 euro,
ma senza tassazione agevolata.
Secondo la Cgil, poiché la gran parte dei lavoratori ha solo il contratto nazionale, visto che bisogna tener conto
della crisi, c'è il rischio di una diminuzione dei salari rispetto a quanto garantito dall'Ipca, che pure secondo la
Cgil è insufficiente a garantire la piena tutela del potere d'acquisto. Inoltre, per chi fa la contrattazione
decentrata ci sarebbe il rischio che lo spostamento di quote di salario dal contratto nazionale diventi sostitutivo
degli aumenti ottenibili col contratto aziendale o territoriale e quindi alla fine, anche qui, il lavoratore ci
rimetterebbe. Per Cisl, Uil e Ugl, invece, l'accordo mette in moto un meccanismo virtuoso che favorirà
l'aumento dei salari. Chi fa solo la contrattazione nazionale, sostiene Giorgio Santini (Cisl), «non ci rimette
nulla rispetto a ora, perché anche adesso nella contrattazione non si può prescindere da eventuali situazioni di
crisi e quindi questo viene solo esplicitato». Inoltre, «gradualmente si diffonderà la contrattazione integrativa,
perché incentivata fiscalmente. Questo significa che chi oggi ha solo il contratto nazionale domani potrà
sommarvi anche quello aziendale o territoriale, con un aumento complessivo della retribuzione netta. Quanto
alle grandi aziende dove la contrattazione di secondo livello si fa, non c'è un rischio di assorbimento degli
aumenti spostati dal contratto nazionale: i nostri delegati sanno valutare bene se il gioco è a somma zero. Ed è
nell'abc di un sindacalista che gli accordi si fanno se ci si guadagna». Solo per effetto della detassazione,
calcola Santini, ogni mille euro lordi di retribuzione annua legata ad accordi di produttività il netto aumenta di
170 euro, passando dalle aliquote Irpef al prelievo fisso del 10%.
*CORRIERE DELLA SERA*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Mario Sensini
Stabilità, la protesta delle Regioni
Via libera della Camera. Correzioni sulla Tobin tax
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Rassegna Stampa del giorno 23 Novembre 2012
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ROMA — Via libera della Camera alla legge di Stabilità, ma il Senato dovrà aspettare almeno fino a lunedì
prima di avviare la discussione. Un incidente di percorso, un errore del governo in una tabella, ha infatti
determinato lo slittamento del voto della Camera sulla legge di bilancio che accompagna quella di Stabilità. E
nel frattempo esplode la protesta dei sindaci e dei governatori, sostenuta dal Pdl, per i tagli.
Secondo i presidenti delle Regioni «sono a rischio i servizi essenziali», come la sanità, il trasporto pubblico
locale, l'assistenza sociale. La legge, così com'è uscita dalla Camera, «non ci consente di assicurare i servizi ai
cittadini e prefigura per tutte le «Regioni un rischio concreto di tenuta dei conti». Anche i sindaci sono
preoccupati per il rigore imposto dal patto di Stabilità e hanno incontrato ieri il ministro dell'Economia, Vittorio
Grilli, che avrebbe annunciato nuove proposte per metà della prossima settimana.
Tra le questioni sollevate dai Comuni anche il "flop" della cedolare secca sugli affitti, che secondo il ministero
delle Finanze sta producendo un gettito inferiore di tre volte alle attese. Nel 2011 sono entrati 672 milioni
invece dei 2,7 miliardi previsti, quest'anno 814, nei primi dieci mesi, rispetto ai 3,8 miliardi attesi per l'intero
2012. Secondo il governo, in ogni caso, il minor gettito finito nelle casse dei comuni è stato compensato dalla
stessa legge di Stabilità. Secondo la nota di variazione del bilancio approvata ieri dal Consiglio dei ministri, la
legge comporta una riduzione delle entrate nel 2013 di 200 milioni di euro, e un loro aumento di1,9 e 2,7
miliardi nel 2014 e nel 2015. Crescono, di parecchio, anche le spese. Tutti gli interventi previsti dalla legge di
Stabilità, la faranno lievitare nel 2013 di 1,1 miliardi, nel 2014 di 2,8 miliardi e nel 2015 di ben 9,8 miliardi di
euro.
Al Senato si profila già qualche modifica, che comporterà un nuovo passaggio a Montecitorio. Dal governo
sono attese correzioni all'impianto della Tobin tax sulle transazioni finanziarie. Il segretario del Pdl, Angelino
Alfano, chiede ritocchi al patto di Stabilità interno per gli enti locali, ed è possibile che governo e maggioranza
riaprano il capitolo dei fondi per detassare il salario legato alla produttività. La Camera ha tagliato 250 milioni
sul 2012, che potrebbero essere ripristinati.
*CORRIERE DELLA SERA*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: Sergio Bocconi
Deaglio: l’Italia è incagliata
Ma ci sono segnali di ripresa
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L'Italia incagliata. Come la nave Concordia al Giglio. È l'immagine forte che Mario Deaglio ha scelto per
descrivere la nostra situazione presentando il diciassettesimo rapporto sull'economia globale e l'Italia, realizzato
in collaborazione dal Centro di ricerca Luigi Einaudi e Ubi banca.
Ultimo dei G7, gravato di debolezze che si aggiungono alle debolezze europee, il nostro Paese nemmeno nel
2017 tornerà ai livelli pre-crisi. Spiega l'economista citando elaborazioni su dati Fmi: «Il Pil italiano sarà pari al
98,7% di quello di dieci anni prima, mentre per tutti gli altri Paesi più sviluppati dovrebbe essere superiore del
5-12%». Nonostante le buie previsioni, qualche spazio di «speranza» si intravede: «Concordo con l'Ocse: il
2013 potrebbe essere l'anno di un timido ritorno alla crescita. Qualche segnale si intravede in singoli settori di
attività, come l'alimentare, dove l'export è in ripresa».
Perché Deaglio parla di «Italia incagliata»? Il rapporto («Sull'asse dell'equilibrio», è il titolo di quest'anno che
«narra» di un'economia con baricentro instabile fra occidente e oriente, fra Paesi sviluppati ed emergenti, fra
euro e dollaro) mette in evidenza non i tradizionali fattori di debolezza del nostro Paese (debito pubblico,
mancanza di infrastrutture, superburocrazia e così via) bensì sottolinea che l'Italia è scesa all'ultimo posto dei
G7 anche perché il contenuto tecnologico della nostra manifattura si riduce (il 64,6% dell'industria è
posizionata sulla fascia bassa) e la specializzazione è sempre più negativa, e i punti di forza del modello
imprenditoriale made in Italy diventano difetti a causa della globalizzazione: le imprese familiari soffrono di
una governance individuale e poco dinamica, e per finanziarsi continuano a rivolgersi alle banche piuttosto che
al mercato e a strumenti moderni. E se l'impresa è così rigida e perde terreno il settore pubblico soffre di una
vera paralisi decisionale: come a Milocca, la cittadina siciliana che in una novella di Luigi Pirandello si schiera
contro la costruzione di una centrale elettrica sospendendo ogni progetto «in vista di nuovi studi e nuove
scoperte». «Si direbbe che tutto il Paese sia stato colpito dalla sindrome di Milocca», dice Deaglio, che avverte
il rischio che la politica si riduca a semplice rivendicazione di istanze. «Un governo guidato da forze politiche
del genere non durerebbe più di una settimana. Poi dovrebbe fare marcia indietro».
Il nuovo esecutivo dovrà proseguire il lavoro avviato da Mario Monti, dice Deaglio (marito di Elsa Fornero,
ministro del Welfare) «perché non ci sono alternative». Il governo Monti «è entrato in carica con un'ipoteca
internazionale e ha centrato gli obiettivi di finanza pubblica. Altri obiettivi hanno un orizzonte temporale più
lungo di quello dell'attuale esecutivo e se le sue politiche verranno proseguite l'effetto si vedrà a iniziare dal
2013 e in tutto il 2014. Se invece con la prossima legislatura si azzera tutto ciò che è stato fatto si riparte da
zero, ma con giudizi molto severi dei mercati». Impossibili da sostenere, dato che qualsiasi scossa sullo spread
fra titoli italiani e tedeschi costa molto caro: «Il passaggio tra quota 200 punti base a 500 significa 30 milioni di
interessi in più al giorno, su un debito pubblico che ci impone di rimborsare un miliardo al giorno, e dunque a
rifinanziarsi almeno per un importo pari». «Se si abbandona la linea Monti, si sarà perciò poi costretti a
riprenderla rapidamente». Infine, «l'accordo sulla produttività è una di «quelle gocce che opportunamente
distribuite possono aiutare a consolidare la mini ripresa che ci potrà essere da metà del prossimo anno,
facendola diventare qualcosa di più solido».
*la Repubblica*
VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: LUCIO CILLIS
L’Autorità apre un’istruttoria su Generali, Ina, Fondiaria e Unipol accusate di disertare le aste
per aumentare i listini
Antitrust contro le assicurazioni
faro sulle polizze Rc per i bus
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ROMA
— L’Antitrust apre un dossier contro quattro compagnie assicuratrici. Nel mirino Generali, Ina Assitalia,
Fondiaria Sai e Unipol, contro cui è stata avviata un’istruttoria per una presunta «intesa restrittiva della
concorrenza» nelle gare per i servizi relativi alle coperture assicurative rc auto del trasporto pubblico locale.
Nel provvedimento, notificato ieri nel corso di alcune ispezioni effettuate dal nucleo speciale Tutela mercati
della guardia di finanza, si parla di «un andamento ripetuto di gare deserte o di mancata partecipazione delle
compagnie assicurative alle procedure ad evidenza pubblica indette dalle aziende del settore».
In pratica le compagnie, secondo le accuse, snobberebbero le aste per l’affidamento dei contratti di
assicurazione dei bus e degli altri mezzi presenti nei parchi aziendali, in modo tale da poter poi procedere a
ben più onerose trattative private con un «consistente incremento dei premi nel corso degli anni». I rinnovi,
quindi avverrebbero solo dopo questa fase di contrattazione che va a pesare sulle casse già semivuote delle
aziende del tpl di mezza Italia, da Torino a Padova, da Bari a Napoli, Salerno e Catania.
In totale, i sospetti si focalizzano su almeno 35 procedure di affidamento andate deserte e altri 10 casi per i
quali l’unica offerta pervenuta proveniva da un’impresa assicuratrice già erogatrice del servizio. Una modalità
di comportamento che avrebbe consentito alle compagnie di evitare la concorrenza e le gare, col vantaggio di
mantenere comunque un rapporto diretto con l’azienda del trasporto pubblico, costretta, a quel punto, a
scendere a patti con il gruppo assicurativo pur di far circolare i propri mezzi. Ma c’è di più: l’Antitrust ipotizza
l’esistenza di un «coordinamento tra le quattro società volto a limitare il confronto concorrenziale tra le stesse»
nella partecipazione alle procedure per l’affidamento dei servizi assicurativi.
Un caso eclatante soprattutto se si leggono i dati relativi agli aumenti dei costi e al peso che soltanto la Rc
auto ha sul totale delle uscite delle aziende di trasporto pubblico locale.
Secondo Asstra, l’associazione che le rappresenta in Italia, il servizio assicurativo nel suo complesso pesa
attualmente sul sistema del tpl, circa 180 milioni di euro all’anno, di cui circa 150 milioni per le sole polizze di
responsabilità civile. Per queste imprese l’assicurazione è ormai la terza maggiore e costosa fornitura dopo
gasolio e costi per gli autobus. Insomma, nonostante i sinistri passivi con autobus coinvolti siano addirittura
diminuiti del 14% nel quinquennio 2006-2010, i premi nello stesso periodo sono aumentati ben oltre il 32%.
*la Repubblica* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: VITTORIA PULEDDA
Allarme della Cerved, crescono anche i fallimenti
Chiuse 5000 imprese sane
“Poca fiducia nel futuro”
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MILANO
— Non solo fallimenti, peraltro in aumento, ma anche aziende sane, chiuse volontariamente dagli
stessi imprenditori, per scarsa fiducia nel futuro: insieme ad altre procedure concorsuali, nei primi
nove mesi dell’anno sono state cancellate 55 mila aziende, circa 200 al giorno, un record nel
decennio.
La fotografia è stata fatta dal Cerved e segnala un aumento di tutte le forme di uscita delle imprese
dal mercato. A partire dai fallimenti, che da gennaio a settembre hanno raggiunto quota 9mila unità, il
2% in più rispetto all’anno scorso, mentre le procedure concorsuali non fallimentari hanno registrato
un aumento del 7,3%, a quota 1.500.
Poi ci sono le liquidazioni, 45.000 aziende. Tra queste si trovano le microimprese, le società senza
un bilancio valido, le scatole vuote e quelle con i conti in disordine. Ma, e forse è proprio questo il
dato più preoccupante, ci sono anche ben 5 mila imprese sane secondo i punteggi del Cerved, i
rating di affidabilità, che hanno scelto volontariamente di uscire. Si tratta per l’esattezza di 5.288
imprese (il 7% in più rispetto ad un anno fa) che secondo i parametri del gruppo di valutazione del
rischio di credito del Cerved avevano tutte le carte in regola per continuare ad operare. «Il forte
aumento del numero di imprenditori che decidono volontariamente di liquidare le proprie società commenta Gianandrea De Bernardis, ad di Cerved group - è un aspetto che fa riflettere, soprattutto
se a chiudere sono imprese in grado di creare ricchezza»: si tratta di scelte dettate «probabilmente
da aspettative pessimistiche sul futuro».
Del resto, a quattro anni dall'avvio della “grande crisi” molte imprese manifatturiere italiane si trovano
oggi davanti a un bivio: rilanciare o perdere tutto. Lo si legge nell'ultimo rapporto di Analisi dei settori
industriali di Prometeia e Intesa, secondo il quale se nel 2012 l'industria italiana registrerà la prevista
flessione di fatturato del 5% a prezzi costanti, oltre il 10% delle aziende “made in Italy” potrebbe
trovarsi in una condizione di grave illiquidità.
*la Repubblica* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
di: FILIPPO SANTELLI
Pressing su Google:
paghi le tasse in Italia
Cinquecento milioni di pubblicità, zero imposte. Alla Camera, appello a Grilli
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ROMA
— La Francia ha dato un ultimatum: due mesi per cambiare regime, o potrebbe arrivare una
supertassa. Il Parlamento inglese ha chiesto di vedere i conti. E ora, ad indagare sulle (poche) tasse
pagate da Google, inizia anche l’Italia. Perché sul giro d’affari nel nostro Paese, più di 500 milioni di
euro di pubblicità venduta, il motore di ricerca non avrebbe versato al fisco neppure un euro: né Ires,
né Irap, né Iva. «Alcune imprese si sottraggono al pagamento delle imposte in misura adeguata alla
loro capacità contributiva», ha denunciato la scorsa settimana la Guardia di finanza. E ieri, in
commissione Finanze alla Camera, la segnalazione è stata rilanciata dal deputato Pd Stefano
Graziano. Per chiedere al ministro Grilli se il governo intenda adottare contromisure.
Vale per Google e i suoi servizi pubblicitari. Ma anche per altri big dell’economia digitale, come
Facebook, Apple e Amazon.
Che in rete non conoscono confini fisici, ma si muovono con agilità anche tra quelli fiscali. «Utilizzano
tecniche collaudate », spiega Carlo Garbino, professore di Diritto tributario alla Bocconi.
«Stabiliscono la propria sede in Paesi con regimi vantaggiosi, come l’Irlanda. O caricano costi
aggiuntivi in quelli dove le tasse sono più alte ». Tutto legale, come ribadisce un portavoce di Google,
sottolineando il «sostanziale contributo dell’azienda all’economia europea». Ma forse non equo in un
periodo di economie generalizzate. «Chi raccoglie entrate in un Paese, lì deve pagare le tasse, è una
questione di giustizia sociale », spiega Graziano. In Italia Google ha da poco aperto una sede, a
Milano, ma dedicata solo a marketing e assistenza. Le pubblicità sono invece fatturate a Dublino,
dove l’aliquota sulle imprese è al 12,5%. E grazie a una triangolazione con Amsterdam e le Bermuda,
battezzata “sandwich olandese”, nel 2011 ha pagato 8 milioni di tasse su 12,5 miliardi di ricavi.
Ora la palla passa al governo che potrebbe ispirarsi alla norma «anti-Ryanair». Ridefinendo
il concetto di «base aerea», il decreto sviluppo in discussione al Senato impone alla compagnia di
versare ai dipendenti italiani pieni contributi, anziché quelli, inferiori, previsti dalle norme irlandesi. Nel
caso di Google però si tratta di tasse sugli introiti: la legge europea garantisce alle aziende la libertà
di scegliere in quale dei 27 Stati membri stabilire la propria sede fiscale. «Per questo l’ideale è una
soluzione comunitaria», conclude Graziano. La scorsa settimana Francois Hollande ha incontrato a
Parigi il numero uno di Google Eric Schmidt, per mediare sulla querelle che oppone la società agli
editori francesi. La loro richiesta è che il motore di ricerca condivida una percentuale dei ricavi che
ottiene indicizzando i loro contenuti. In Inghilterra una commissione parlamentare ha indagato sulle
poche tasse pagate da Google, Amazon e Starbucks. E a Bruxelles la Commissione starebbe
valutando come correggere alcuni paradossi del fisco europeo.
*la Repubblica* VENERDÌ, 23 NOVEMBRE2012
DAL NOSTRO INVIATO OMERO CIAI
A causa della crisi la presidente Kirchner frena le importazioni
E le grandi marche chiudono: non riescono a far arrivare i prodotti
Buenos Aires spegne il lusso
le griffe in fuga dalla città
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Rassegna Stampa del giorno 23 Novembre 2012
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
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BUENOS AIRES – L’avenida Alvear, il luogo più glamour della capitale argentina, sta cambiando volto. Sui
sette isolati della via nel cuore del quartiere di Recoleta, che i porteños paragonano alla Madison Avenue di
Manhattan o alla Place Vendôme di Parigi, stanno chiudendo i negozi delle grandi firme della moda e dello
shopping fashion. Dopo Armani, Escada e Louis Vuitton sarà presto la volta dell’atelier Montblanc, lussuoso
locale quasi di fronte al gioiello barocco dell’avenida: l’hotel Alvear. A far fuggire le firme del lusso
dall’Argentina è la politica protezionistica del governo di Cristina Kirchner che mette forti limiti alle importazioni
ma anche il cosiddetto “cepo cambiario”, imposto un anno fa, che impedisce agli argentini l’acquisto legale di
dollari e alle aziende straniere di portare fuori dal paese i loro guadagni. In pochi mesi griffe internazionali
come Cartier, Versace, Calvin Klein, Ralph Lauren, Yves Saint Laurent e Kenzo hanno chiuso le loro filiali nel
paese e molte altre aziende rischiano di farlo per le difficoltà ad importare i loro prodotti. Questa settimana sui
giornali la polemica è scoppiata quando si è saputo che i locali dell’ex negozio Escada, la casa di moda
tedesca, lungo l’Alvear potrebbero essere rilevati dai Lin, una ricca famiglia cinese proprietaria di una rete di
supermercati. L’idea di ritrovarsi con le zucchine e gli aranci al posto dei profumi e degli oggetti di lusso ha
scatenato la furia dei facoltosi residenti della zona, già impegnati ad impedire quello che considerano un vero
e proprio affronto per il loro viale preferito. Ma in realtà quello a cui stiamo assistendo è un vero e proprio
cambio d’epoca che modificherà lo scenario di Buenos Aires. Le grandi firme del lusso internazionale
sbarcarono nella capitale argentina all’inizio degli anni ‘90, durante quella che si ricorda come la “festa
menemista”, dall’allora presidente Carlos Menem, che insieme al ministro dell’economia Domingo Cavallo,
stabilì il famoso “uno a uno”, ossia (e per decreto) il valore del peso pari a quello del dollaro. Furono gli anni
della grande illusione, con la classe media argentina improvvisamente schizzata ad una capacità d’acquisto
da primo mondo duramente pagata poi con la bancarotta del 2001. All’epoca i turisti argentini in Florida erano
soprannominati “Deme dos” (Me ne dia due) perché grazie ai pesos dollarizzati compravano doppio ogni
prodotto, dai computer alle tv. La seconda fase segui la svalutazione dell’ultimo decennio quando Buenos
Aires diventò la capitale latinoamericana dello shopping economico con frotte di brasiliani e messicani che
venivano qui a rifarsi il guardaroba. Oggi non ci sono più nell’uno e nell’altro. Con l’inflazione che ormai
quest’anno sfiora il 30 percento anche il turismo si è molto ridotto. Buenos Aires è diventata carissima, e non
solo per l’inflazione che toglie il sonno agli argentini. Il blocco nell’acquisto dei dollari ha creato un ampio
mercato parallelo, in nero, nel quale la moneta Usa viene scambiata illegalmente ad un valore almeno un
terzo maggiore rispetto a quello ufficiale e i prezzi tendono ad avvicinarsi al primo piuttosto che al secondo.
Tanto che anche per il turista pagare con le carte di credito, al cambio meno conveniente del dollaro
calmierato, è diventato piuttosto salato.
La politica delle misure antiimportazione è in mano ad un fedelissimo della presidenta Cristina Kirchner, il
ministro per il commercio Guillermo Moreno. Un inflessibile che, è solo un esempio, sta bloccando l’ingresso di
30mila automobili nuove di marche straniere ferme in dogana e anche di migliaia di frigoriferi italiani. Ad alcuni
nostri rappresentanti che sono andati a dialogare nel tentativo di sbloccare l’accesso dei frigoriferi, Moreno ha
detto che lo consentirà solo quando «l’Argentina imparerà a prodursi da sola i pezzi di ricambio ». Quella in
voga da qualche tempo alla Casa Rosada, dopo la nazionalizzazione dell’impresa petrolifera Ypf strappata dal
governo di Cristina agli spagnoli della Repsol, è una riedizione della politica mercantilista e protezionistica
degli anni Quaranta del secolo scorso. Un ritorno alle origini del peronismo. Consente al Paese di non avere
squilibri nella bilancia dei pagamenti (si importa solo per un valore pari a quello che si esporta) ma sta creando
numerosi problemi, qualcuno anche serio. Ci sono difficoltà, ad esempio, per comprare alcuni medicinali,
soprattutto quelli più recenti contro il cancro. Molti ospedali denunciano difficoltà nel reperire prodotti
essenziali. Nei supermercati c’è poco olio d’oliva. Manca il toner per le stampanti. E via scarseggiando, fino
alle proteste dei chirurghi plastici che non trovano gli impianti di silicone per gli interventi al seno (si importano
dall’Europa) o i dentisti a corto di protesi.
La Fiba-Cisl
Vi augura di trascorrere
una fine settimana serena
Arrivederci a
lunedì 26 Novembre
per una nuova
pagina
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