Veritatis Splendor - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale
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Veritatis Splendor - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale
Veritatis Splendor La verità nella prospettiva della libertà Appunti di GIUSEPPE ANGELINI La Veritatis splendor è documento del magistero di grande lungimiranza, ma insieme documento segnato da una prevedibile acerbità, che nello stato presente della Chiesa e della teologia morale appare addirittura inevitabile. infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l’influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. (n. 4b) Esso segna una presa di distanza del magistero rispetto alle vie seguite dalla teologia morale cattolica contemporanea, o da una certa teologia (ma è teologia largamente seguita). Prende le proprie distanze però anche dalla tradizione della teologia di scuola (scolastica). In tal modo l’enciclica viene a trovarsi a navigare in un mare aperto, per affrontare il quale paiono come mancare gli strumenti concettuali adeguati. È possibile rilevare uno scarto tra le intenzioni professate, assolutamente apprezzabili, e la dottrina di fatto proposta, molto problematica. La diagnosi sintetica dell’enciclica, nel fondo pertinente, dev’essere chiarita. La teologia morale è nata nel XVI secolo nella forma di casistica, al servizio delle necessità del confessionale. Da tale sua originaria impostazione casistica non si è mai emancipata. Neppure nel corso del Novecento, quando pure gli inconvenienti di quella impostazione sono apparsi a tutti evidenti. Le molte proposte di riflessione fondamentale, talora ispirate alla Scrittura, altre volte alla filosofia contemporanea, sono apparse fino ad oggi precarie e spiccatamente disperse. Subito facile da rilevare è la fisionomia assai singolare del documento. Di solito le encicliche sono atti di magistero che rispondono a questioni precise, proposte dalla vicenda pastorale della Chiesa, eventualmente da errori teologici; non propongono certo la trattazione organica di un capitolo della teologia. Questa enciclica assume invece proprio l’aspetto di una sorta di piccolo trattato di morale fondamentale. Soprattutto occorrerebbe registrare come nei confronti del discorso morale in genere pesi un diffuso pregiudizio; quel discorso appare infatti come discorso sulla legge, o rispettivamente sul dovere; si tratta in ogni caso di un discorso illiberale. Non a caso, oggi sono rimasti i solo i teologi e i preti a fare discorsi morali. All’origine di questa enciclica sta realtà una precisa emergenza; essa intende censurare un indirizzo di pensiero della teologia morale avvertito come pericoloso per la fede: l’indirizzo che propone la tesi della fondazione teleologica delle norme. Per articolare tale censura l’enciclica avverte però la necessità di proporre una trattazione sintetica della figura fondamentale della morale cristiana. L’enciclica dunque, prima di procedere alla censura della concezione teleologica della norme morali, intende rimuovere questa obiezione tacita. Lo fa già con il titolo: esso suggerisce che l’imperativo proposto all’uomo sia il principio della sua libertà, e non di schiavitù, perché esso procede dallo splendore della verità, non dunque da un’imposizione eteronoma. Questa tesi radicale è illustrata mediante la testimonianza biblica; più precisamente, raccogliendo le acquisizioni maggiori del rinnovamento biblico della morale. a questo è dedicato il Primo capitolo. Oggi sembra necessario riflettere sull’insieme dell’insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell’attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, 1 titudini, che ovviamente fissano una via di salvezza valida per tutti; per altro lato si dice invece: Primo capitolo: sulla traccia di Mt 19,16-21 La scelta appare felice. E tuttavia la lettura del testo pare pregiudicata da incongrue preoccupazioni armonistiche rispetto alla dottrina morale recepta. Essa ignora aspetti cruciali del testo: Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l’abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: “Se vuoi...”. (17b) a) Anzitutto il tema dell’insufficienza della legge (mosaica); e quindi la necessità del passaggio dai comandamenti alla sequela. L’osservanza dei comandamenti non è semplicemente un primo grado della giustizia; essa appare piuttosto un fraintendimento della giustizia, quando il soggetto non veda come i comandamenti requisiscano tutta la sua vita, e non fissino invece semplicemente dei limiti da rispettare. Il rifiuto della vocazione del giovane rivela una menzogna nascosta nella sua domanda iniziale, apparentemente bella e generosa: Maestro, che cosa debbo fare di buono per avere la vita eterna? Capitolo secondo Come si diceva, è questo il capitolo più preciso e impegnato dell’enciclica: il confronto con le tesi dei fautori di una concezione proporzionalista della legge, che ne relativizza la perentorietà, impegna a rivedere la concezione fondamentale dell’agire umano e cristiano. Esso è articolato secondo un indice chiaro: - 1. la legge, - 2. la coscienza, - 3. l’atto umano considerato nella tensione tra opzione fondamentale e comportamenti concreti; - 4. la valutazione dell’atto singolo. b) Tale menzogna è già insinuata dalla prima e sorprendente obiezione di Gesù: Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono (19,17). Giustamente l’enciclica spiega: 1. La legge e la libertà Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l’uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso, Colui che solo è degno di essere amato “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente” (Mt 22,37) Il tema della legge è affrontato, prevedibilmente, nella prospettiva della tensione tra legge e libertà. L’obiettivo di fondo è ovviamente quello di negare che la legge comporti una negazione della libertà umana. È riuscita l’argomentazione? A mio giudizio il proposito è frustrato dalla permanenza di una concezione della libertà troppo pregiudicata dalle concezioni correnti (libertà come autonomia). Preciso il rilievo commentando un preciso passo: L’enciclica tuttavia non esplicita questa più preciso significato dell’obiezione di Gesù: per conoscere ciò che è buono occorre cercare Dio, e non una legge suscettibile d’essere insegnata da un maestro, fosse pure Gesù stesso. Si comprehendis, non est Deus, e d’altra parte se di Dio effettivamente si tratta, dovrai rimanere sempre nell’atteggiamento umile di chi invoca per trovarlo, e non nell’atteggiamento di chi vuol sapere. L’uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi di Dio1. Ed è in possesso d’una libertà quanto mai ampia, perché può mangiare «di tutti gli alberi del giardino»2. Ma questa libertà non è illimitata: de1 La spiegazione rimanda ad una concezione della libertà che pregiudizialmente separa conoscenza e agire. L’uomo sarebbe libero in quanto può comprendere i comandamenti di Dio e può quindi accettare consapevolmente di sottoporsi ad essi. Ma tale conoscenza dei comandamenti non comporta ancora il riferimento di essi alla coscienza, alla verità cioè dall’inizio iscritta nelle forme in cui si realizza la presenza a sé dell’uomo. c) Si vis perfectus esse…: non propone una scelta opzionale, ma è il minimo per avere la vita eterna. Su questo punto l’enciclica appare oscillante; per un lato accosta la perfezione alle bea- 2 L’assunzione di un’idea di libertà che dissocia la facoltà di fare dall’interrogativo sull’identità propria dell’uomo induce a 2 ve arrestarsi di fronte all’«albero della conoscenza del bene e del male», essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo3. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell’uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l’uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti4. (n. 35b) Appunto per riferimento a questo disegno Dio ha detto: quando tu ne mangiassi, certamente moriresti, o forse meglio: diventeresti certo della tua morte, la morte diventerebbe per te un destino necessario. L’albero costituisce la figura metaforica del disegno umano di cercare con la bocca, dunque mediante l’esperimento del desiderio, ciò che serve alla vita. L’uomo di pane soltanto non vive (cfr. Dt 8,2); per vivere l’uomo ha bisogno di una parola, di una promessa dunque, e quindi della correlativa fede. La condanna di quell’albero equivale al teorema di tutta la tradizione sapienziale: il principio della sapienza è il timore di Dio, dunque la fede. Gli stessi benefici originari, che rendono possibile il primo cammino dell’uomo, trovano la loro verità nella parola/promessa di cui sono primi significanti. Il comandamento di Dio non è in tal senso espresso mediante una notificazione alla mente, ma mediante l’esperienza sorprendente di accoglienza che quei benefici originari manifestano. L’intimazione perentoria del comandamento corrisponde all’originaria necessità di credere per vivere. Quella intimazione matura soltanto attraverso il tempo disteso; chiede un tempo pieno. Le incongruenze del testo trovano puntuale riscontro nella lettura del testo di Gen 2,16-17 Esso è insistentemente richiamato nel corso di tutta l’enciclica; ed è interpretato quasi che conoscere il bene e il male significasse decidere da sé stessi che cos’è bene e che cos’è male. Questa interpretazione appare, se non impertinente, certo indeterminata. Certo il testo biblico non si riferisce ad una decisione che sarebbe autorizzata dalla pretesa dell’uomo di sapere, riferita dunque a indebite pretese di conoscenza universale. Tanto meno si riferisce ad una pretesa di decidere ad libitum, senza criteri. Si riferisce invece alla pretesa di scoprire la differenza tra bene e male mediante un esperimento di tutto. Nell’enciclica manca dunque l’attenzione a due profili della legge, la cui considerazione appare invece essenziale per capire il rapporto positivo tra legge e libertà; il difetto è comprensibile, perché caratterizza la teologia tutta fino ad oggi corrente; i due profili sono: (a) Conoscere nel testo significa avere esperienza di, non conoscere in accezione intellettuale; tanto meno stabilire arbitrariamente. (b) Inoltre, bene e male secondo, l’esegesi più attendibile, debbono essere intesi non in accezione precisamente morale, piuttosto nell’accezione più indeterminata propria della ricerca sapienziale: bene è ciò che conviene alla vita, male ciò che la pregiudica. (c) Sicché l’espressione sintetica significa pressappoco come provare tutto; s’intende, tutto ciò che il desiderio prospetta come attraente, ripromettendosi di scoprire appunto mediante la prova cosa convenga e che cosa no alla vita umana. il nesso tra legge e coscienza, compresa questa seconda non come conoscenza, ma come presenza a sé mediata dai primi comportamenti spontanei, dunque come coscienza che per sua natura rimanda all’agire. Il nesso tra legge (comandamenti di Dio) e tempo disteso; indispensabile per intendere la dottrina del peccato universale. In questa luce debbono essere intese anche le insuperate difficoltà che l’enciclica incontra a risolvere il conflitto apparente tra questi apprezzamenti solo quantitativi della libertà: ampia ma non illimitata. Autonomia/eteronomia (nn. 36-41) 3 Vedo qui almeno nominalmente ribadito un rapporto alternativo tra legge e libertà. E tuttavia subito dopo si dice… La questione è formulata in maniera pregiudicata. Più precisamente è formulata in questi termini: l’uomo ha una legge che non è lui a darsi, oppure egli si dà da sé stesso la norma del proprio agire? 4 Ciò che è bene per l’uomo non sarebbe scritto nella coscienza dell’uomo fin dall’inizio, ma dovrebbe essere appreso attraverso un’istruzione (verbale?) di Dio. 3 La tesi della conoscibilità razionale della legge, congiuntamente a quella che identifica ragione e coscienza, condurrebbe ad accedere alla tesi di un’auto-nomia morale dell’uomo senza riserve; renderebbe per altro difficile, e anzi impossibile, intendere la possibilità di una rivelazione storica di Dio (cfr. la famosa obiezione di Lessing nei confronti d’ogni religione positiva). (a) Così formulata, l’alternativa appare equivalente all’altra radicale: l’uomo ha o non ha un dovere (debito)? Se si accetta - come sembra inevitabile – il nesso essenziale del idea di dovere e connotazione morale dell’agire, l’affermazione di un’autonomia così intesa appare equivalente alla negazione della morale. (b) D’altra parte, la tesi dell’autonomia appare in qualche modo irrinunciabile alla stessa enciclica. Come essa è intesa? La coscienza dell’uomo, in realtà, non può essere identificata con la ragione; il chiarimento dei rapporti tra coscienza (in accezione precisamente morale, ma prima ancora in accezione genericamente ‘psicologica’, è cioè nell’accezione di presenza a sé del soggetto) e ragione appare obiettivamente imprescindibile per chiarire la questione dell’auto-nomia. Tale chiarimento consentirebbe e rispettivamente imporrebbe la stessa ri-trattazione della figura corrente (razionalistica) di ragione. La conoscenza della legge, o più cautamente la sua notizia, dunque l’evidenza morale, non ha però i tratti dell’evidenza razionale, se con una tale evidenza s’intende quella che potrebbe affermarsi presso la coscienza comunque, a prescindere cioè dalla qualità delle disposizioni libere dell’uomo. - L’enciclica per un lato rappresenta vede come pertinente l’accezione per la quale l’autonomia consiste nel carattere libero (in tal senso autonomo) della soggezione alla legge. L’autonomia così intesa, a rigore, non è auto-nomia, ma autoprassia; l’uomo deciderebbe infatti in maniera autonoma dei propri comportamenti, e non invece della legge (nomos). L’autonomia così intesa non riguarda dunque l’alternativa (aporetica) che sopra è stata formulata. - Per altro lato, l’enciclica afferma il carattere inditum della legge morale, e rispettivamente la possibilità di una sua conoscenza razionale. Sotto entrambi questi due profili sembra possa essere riconosciuta una vera e propria auto-nomia. È da rilevare per altro l’indubbia reticenza del testo a parlare espressamente di autonomia per riferimento a tali determinazioni della legge morale (indita e razionale). La tale reticenza è da intendere come riflesso dalla preoccupazione che così facendo sia autorizzata l’accezione scadente di autonomia, per la quale il singolo uomo sarebbe arbitro della legge, e cioè competente a giudicare mediante la sua ragione in maniera esclusiva e insindacabile che cos’è bene e che cos’è invece male. Offrono preciso riscontro dell’oscurità che regna nel testo a proposito di questo plesso di pensieri alcuni passi, che potrebbero viceversa essere assai più chiaramente formulati a procedere da una chiarificazione come quella di cui qui si denuncia la mancanza. Per esempio: Proibendo all’uomo di mangiare «dell’albero della conoscenza del bene e del male», Dio afferma che l’uomo non possiede originariamente in proprio questa «conoscenza», ma solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza eterna. (41b) Per chiarire il senso e la pertinenza di tale preoccupazione occorrerebbe approfondire il senso della ragione, e rispettivamente la differenza tra ragione e coscienza. Le due nozioni vengono invece qui senz’altro identificate (si veda il n. 43b, che ripropone la dottrina di Tommaso a proposito della legge naturale come legge razionale; si vedano poi anche diffusamente i paragrafi dedicati alla coscienza come giudizio, qualificato come razionale, nn. 59ss). La consistenza oggettivamente pertinente della questione dell’autonomia, e sotto altro profilo quella pertinente dal punto di vista della storia delle idee (ci riferiamo all’interpretazione che della questione dà Kant, che non è certo l’ultima autorità in materia), pare non adeguatamente compresa nella forma dell’alternativa ha o non ha l’uomo un dovere? Quale sia però la consistenza pertinente non si lascia dire facilmente. 4 Conviene procedere per gradi. La tradizione biblica ci offre al riguardo un modello, che illumina la fenomenologia dell’esperienza immediata di tutti. L’istanza dell’autonomia si determina per correlazione antitetica rispetto alla figura, o alle molte figure di eteronomia; come sempre accade, le figure negative appaiono più facili da determinare di quelle positive; insieme è più facile condannare l’eteronomia nelle sue molteplici forme, che apprezzare la figura positiva di autonomia. Pensiamo al modello esodo/legge (alleanza). Precede il beneficio di Dio (passaggio del mare); si tratta di opera che ha da essere ricondotta all’iniziativa originaria e unilaterale di Dio stesso; e tuttavia si tratta anche di cammino dell’uomo; cammino come su ali di aquila. Cammino mediante il quale soltanto il popolo giunge alla prima consapevolezza della propria identità di popolo di Dio. L’identità appare in tal senso dischiusa da una storia; più precisamente, dischiusa da un’iniziativa che precede l’iniziativa umana e per sempre la trascende. a) Prima figura di eteronomia è quella della soggezione dell’uomo ad un imperativo che altri proponga nei suoi confronti, sia esso imperativo concreto (ordine) o generale (legge). Un comportamento eteronomo così inteso appare, oltre che (eventualmente) lesivo della libertà umana, scadente sotto il profilo precisamente morale; a meno che il soggetto conosca e condivida (apprezzi) la ratio dell’ordine concreto e/o della legge, un comportamento materialmente conforme a tali istanze appare di necessità farisaico: i. e., suggerito da apprezzamenti diversi da quelli del legislatore. Quell’identità e rispettivamente il cammino che l’ha propiziata, per altro, non sono compiutamente definiti a monte rispetto all’assenso libero che il popolo offrirà ad essi. Di questo appunto si occupa la legge. Essa prescrive quanto richiesto agli umani dalla fedeltà all’accaduto, all’evento che determina il loro primo accesso alla coscienza. In tanto si può parlare di fedeltà all’accaduto, in quanto si riconosca che esso ha la forma di una promessa. b) La seconda figura è quella dell’agire patologico: i. e., da quell’agire che attende dal referto passivo dell’agire effettivamente posto il criterio per esprimere una valutazione definitiva di bene o di male. L’uomo agirebbe in tal caso soltanto ipoteticamente, riservandosi la possibilità di ritrattare l’azione stessa alla luce delle sue conseguenze. Questa è una seconda figura di eteronomia. Questa qualità deve in genere essere riconosciuta a tutti gli eventi che propiziano la coscienza del soggetto; alla fine, addirittura a tutti gli eventi della vita tout court. Dunque, autonomia morale certo, ma per riferimento ad una identità che al soggetto è fin dall’inizio prospettata da una concreta vicenda, la quale riferisce il soggetto stesso ad una promessa della quale egli può venire a capo soltanto mediante l’agire. L’identità del soggetto conosce un’originaria mediazione pratica. Ma può l’uomo realizzare un apprezzamento del proprio agire a monte rispetto all’agire stesso? E come? Più radicalmente, può l’uomo determinare la propria identità (quella dunque per riferimento alla quale decidere ciò che conviene e rispettivamente non conviene a lui stesso) a monte rispetto alle forme dell’agire stesso? Natura e libertà (nn. 46-53) La natura dell’uomo non deve essere concepita in termini naturalistici; la negazione è esplicita nell’enciclica; si dice infatti la «legge naturale» …viene detta così che non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana (n. 42b). Alle due domande occorre rispondere francamente di no; fonte del dovere è l’agire effettivo; nelle sue forme spontanee esso esprime una promessa di sé, che è la fonte dell’agire dovuto. Il problema centrale della considerazione morale è proprio quello di intendere il nesso tra queste due forme dell’agire. Questa affermazione per altro non trova riscontro, mi pare, in ciò che successivamente si dice per 5 rapporto al corpo. Mi riferisco alla condanna del modello spiritualistico della libertà umana, che condanna il corpo all’irrilevanza morale (n. 48b); la polemica nei confronti dello spiritualismo è del tutto giustificato, certo; pertinente è dunque anche la correlativa raccomandazione di pensare l’unità psicosomatica dell’uomo, e quindi l’affermazione che coscienza, della presenza a sé del soggetto) è un dato di fatto, che deve essere descritta, e quindi anche pensata. Può essere pensata unicamente a procedere da una fenomenologia dell’esperienza immediata. Appunto grazie a tale descrizione fenomenologica appare come il senso anticipatore del corpo non sia riconosciuto indagando il corpo organismo, e cercando in esso un ipotetico significato in ipotesi iscritto nelle sue forme di legalità; riconoscendo invece quale sia il senso anticipatore (o simbolico) che le prime esperienze della vita (generazione, nutrizione, forme tutte dell’accudimento; ma anche attrattiva uomo-donna et similia) hanno di fatto sempre esercitato per rapporto alla genealogia della coscienza. la persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l’espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore» (48c). Il modello biblico originario dei rapporti tra grazia e legge, tra benefici anticipanti di Dio e comandamenti dati all’uomo, molto potrebbe illuminare a tale proposito. Il senso della legge che Dio dà al popolo sul Sinai e la sua autorità dipendono appunto dal precedente beneficio unilaterale e gratuito di Dio. A meno di riconoscere quella grazia originaria e la promessa di cui essa è gravida, sarebbe impossibile intendere adeguatamente il senso della stessa legge. In generale, l’imperativo morale appare strettamente connesso all’esperienza gratuita (meravigliosa, per così dire magica) che obiettivamente sta all’inizio del venire a coscienza di sé da parte del soggetto umano. L’istanza positiva per altro non si vede come sia attualmente pensata; e la stessa formulazione dell’istanza appare insoddisfacente. Il “luogo” – se così si può dire - nel quale l’uomo scopre la norma del proprio agire non è propriamente il suo corpo, sono piuttosto quelle prime e spontanee esperienze pratiche della vita, nelle quali sono scritti i segni anticipatori. Tali esperienze sono infatti gravide di una promessa, e proprio per questo anche di un impegno per la libertà dell’uomo. Analogamente, non è del tutto proprio parlare di «unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico» (50a): le inclinazioni biologiche, alle quali qui si fa qui riferimento, non sono in realtà inclinazioni soltanto biologiche, ma dense di un incoativo significato spirituale; in maniera correlativa, si deve dire che non esistono inclinazioni solo spirituali, che sarebbero solo giustapposte a quelle ‘biologiche’; soltanto mediante le risorse offerte dall’esperienza “corporea” il soggetto perviene alla conoscenza del suo destino spirituale. Pressappoco così come si deve riconoscere che soltanto attraverso il miracolo Gesù può annunciare il regno di Dio. Riconoscere il nesso della norma morale, e quindi dell’imperativo ch’essa impone, con l’esperienza della grazia anticipante - esperienza passiva nel senso di non voluta, ma insieme pratica nel senso di comportare un agire dell’uomo: il primo cammino dell’uomo è quello che egli fa come su ali di aquila) - consentirebbe insieme di riconoscere la forma storico-pratica del manifestarsi della legge eterna. L’eternità della legge, e quindi la sua immutabilità, non può infatti essere intesa quasi significasse che eterna e immutabile è la stessa notizia della legge. Quella notizia, proprio perché mediata dalle forme effettive dell’esperienza, è insieme mediata dalle forme della lingua e della cultura in genere. L’aspetto più che culturale della norma morale non è aspetto noto a latere rispetto alla cultura; è piuttosto aspetto al quale la cultura stessa per sua natura rimanda la libertà del singolo. Il rilievo che muoviamo può essere espresso anche per riferimento alla nota distinzione che i filosofi del Novecento (Husserl, Merleau-Ponty, Marcel) hanno istituito tra Körper e Leib, tra corpo rappresentato (ma anche praticamente trattato) come organismo e corpo conosciuto invece attraverso i concreti vissuti del soggetto connotati sotto il profilo somatico. L’unità del corpo vissuto con la persona (con le forme della 2. Coscienza (nn. 54-64) Pare un inconveniens obiettivo della trattazione proposta dall’enciclica il fatto che non sia registrata 6 l’obiettiva incertezza semantica che affligge oggi il termine coscienza. zione degli atti singoli per riferimento a tale opzione ha un aspetto di pertinenza. Ma tale aspetto non pare però adeguatamente illustrato dal testo. Non si può certo separare tra atti categoriali e opzione fondamentale; in tal senso è giustificata la denuncia del n. 65c. Rimane però da pensare in positivo come possa e debba essere inteso il necessario riferimento dell’atto singolo alla storia morale complessiva del soggetto, e quindi alla sua identità morale, in ordine alla sua pertinente valutazione morale. Per argomentare il nesso reciproco tra opzione fondamentale e atti singoli occorre appunto rendere ragione di tale nesso. Di tale nesso è difficile, e anzi impossibile, rendere ragione a procedere da una concezione oggettivistica della oggettività del norma: qualifico qui come oggettivistica la concezione che pensa la norma al di fuori del riferimento attuale alla coscienza, e dunque all’identità del soggetto. Apparirebbe illuminante anzi tutto mettere a tema la distinzione tra l’accezione precisamente morale di coscienza e l’accezione invece genericamente ‘psicologica’ (= autoconsapevolezza). Questa seconda accezione, divenuta oggi quella prevalente nel linguaggio corrente, non può essere intesa nella prospettiva cristiana, e più in generale nella prospettiva generalmente umana, in senso solo “psicologico” (e cioè come autoconsapevolezza realizzata nelle forme del ‘sentire’, o comunque mediante le forme della strutturazione emotiva dell’Io); neppure può essere intesa in senso intellettualistico (autoconsapevolezza come conoscenza di sé, o rappresentazione riflessa di sé da parte del singolo). La coscienza (la presenza a sé, e quindi l’identità del soggetto) si realizza unicamente mediante le forme dell’agire. Tra me e me sta il mio atto. Ma proprio per questo, la coscienza ‘psicologica’ non può essere separata dalla coscienza morale, dall’evidenza cioè della norma che sola può autorizzare la risoluzione pratica incondizionata del soggetto. Non bastano i cenni in tal senso del n. 71a-b, che pure vanno timidamente in questo senso. 4. Intrinsece malum (nn. 71-83) La denuncia che l’enciclica propone della dissociazione che il teleologismo produce tra intenzione e consistenza materiale dell’azione appare del tutto pertinente; così come la denuncia della operazione tra fini, beni, o valori da un lato, e azione-mezzo dall’altro; quindi ancora tra good e wright. Per argomentare però tale denuncia occorrerebbe mostrare come la figura dell’intrinsece bonum vel malum non sia figura materialmente determinata, ma sia figura intenzionata in forma soltanto simbolica attraverso le risorse offerte dagli atti tipici (le species degli atti). La figura ad esempio dell’uccidere quale species di atto intrinsece malum non può essere materialmente definita, mediante una casistica (pena di morte, guerra, traffico, aborto, eccetera), anche se la casistica appare una delle risorse indispensabili ad determinarne il senso (specie per riferimento alle oggettivazioni ecclesiastiche, e rispettivamente civili, della norma morale). Anche quando il termine coscienza sia inteso in accezione precisamente morale, occorre ulteriormente distinguere tra accezione attuale e accezione abituale, tra coscienza cioè come giudizio e coscienza invece come attitudine al giudizio. Il primo significato era quello tecnico di conscientia nel linguaggio scolastico, che non aveva invece un termine tecnico per la seconda accezione; a tale assenza corrisponde un difetto di riflessione della grande scolastica (almeno di quella tomista, e della sua tradizione successiva) sul tema corrispondente. La seconda accezione è divenuta quella ovvia nel linguaggio ‘moderno’. Il teso dell’enciclica rimane fedele al linguaggio scolastico. Sarebbe stato utile precisarlo; soprattutto, sarebbe stato necessario almeno prospettare il problema posto dalla distinzione e rispettivamente dal rapporto tra coscienza attuale e coscienza abituale. Solo dei precetti negativi è detto che obbligano semper e pro semper: in tal senso è ribadita una concezione materialistica della legge immutabile. Mentre dei precetti positivi infatti si dice 3. Opzione fondamentale (nn. 65-70) obbligano universalmente; essi sono immutabili; uniscono nel medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia, creati per «la a Il tema dell’opzione fondamentale (n. 65 ) ha un aspetto di pertinenza; quindi anche la considera7 stessa vocazione e lo stesso destino divino». Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù. Dei precetti negativi della legge naturale invece si dice che essi sono universalmente validi: obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. n. 52 In realtà, anche il non uccidere, così come inteso da Gesù, non appare affatto come un precetto negativo. La sua comprensione quale determinazione del comandamento dell’amore, necessaria, implica che si riconosca il coefficiente di discrezionalità che il giudizio della coscienza sempre comporta, anche se esso è diversamente rilevante nei diversi casi. Il bene morale è sempre trascendente rispetto agli atti che pure lo perseguono; anche rispetto agli atti tipici ai quali si riferisce la legge, per raccomandarli e rispettivamente proibirli. 8
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