carmina-n6 - LEGA BLOGGER LETTERARI

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carmina-n6 - LEGA BLOGGER LETTERARI
CARMINA N.6
Carmina n.6
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CARMINA N. 6
© 2008 Edizioni Il Foglio
Supplemento di Poesia delle Edizioni Il Foglio
Cadenza annuale
Direttore responsabile Fabrizio Manini
Edizioni Il Foglio
Via U.Boccioni, 28
57025 Piombino (LI)
Partecipazione gratuita e per invito
Per informazioni www.ilfoglioletterario.it - http://www.historicaweb.com
* * * * *
Quelle vie
mi sparsero
e
mi ricomposero
aride presenze rubarono
i miei occhi
li ripresi dal cappello di un mendicante
tra monetine aride di pietà
tra parole tacitate
nel deserto dell'anima
quel gioco di incroci
diventò viale
mappa di te
mi strappai le unghie
sanguinai di sudore
imparai a piangere
per amarti così tanto… oggi
Patrizia Garofalo
Le mura si polverizzarono
il roseto avrebbe rifiorito
dove avevamo camminato
capelli lunghi
dolorosamente crespi… anche oggi
I poeti struprano se stessi
urlano anche quando tacciono
Saranno condannati per empietà o scelleratezza?
Patrizia Garofalo
Carmina n.6
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SOMMARIO
CRITICA LETTERARIA
PAG. 4
RECENSIONI
PAG. 74
ANTOLOGIA POETICA
PAG.116
Carmina n.6
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CRITICA LETTERARIA
Corrispondenze di Baudelaire
Di Alberto Accorsi
L’accostamento inconsueto tra Baudelaire e il filosofo tedesco
G.W.F. Hegel, e la ricerca di eventuali corrispondenze non è che una
delle possibili strategie per tentare un avvicinamento al complesso
mondo del poeta.
Anna Brzyski, in Retracing the Modernist Origins, ha stabilito dei
parallelismi fra il pensiero estetico di Hegel e quello di Baudelaire che,
verosimilmente, avrebbe potuto ispirarsi a quello del grande filosofo
tedesco. Certamente alcuni tratti fondamentali come l’indipendenza
dell’arte dal resto delle attività umane, il ruolo dell’intelligenza nella
creazione dell’opera, impegno che va ben al di là dell’intuizione del
genio postulata dai romantici, la concezione dialettica della bellezza e
dell’arte, appaiono essere comuni.
Baudelaire accenna alla sua visione dialettica in Il pittore della vita
moderna del 1863. Per Baudelaire la natura duale dell’arte è
l’inevitabile conseguenza della dualità della natura umana costituita da
un’anima eterna e da un corpo mortale.
A dire il vero il poeta stesso scrive di non voler dar peso a codesti
“giochi di pensiero astratto” e nel saggio svolge una ricognizione
dell’argomento, in termini “positivi”; la articola attraverso la
descrizione di un artista ideale, il Signor G. L’Artista come
“convalescente” e “fanciullo”, l’ispirazione come “congestione” sono
metafore usate da Baudelaire per descrivere questo ideale signor G;
pagine dense, ricche di stimoli e di esperienze vissute.
D’altro canto ne Il mio cuore messo a nudo leggiamo “Ogni uomo,
in ogni momento, ha in sè due postulazioni simultanee: una verso Dio,
l’altra verso Satana” dove sembra che i giochi di pensiero astratto si
siano in un certo senso incarnati in convinzioni profonde e sincere.
Per Hegel, secondo Maria Pia Rosati, i contrari inespressi dividono
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la coscienza in due e provocano tormento e infelicità.
La coscienza ha una sola possibilità: ridurre i contrari a contradditori.
È necessario che si riesca ad approfondire l’esperienza di quelle che si
vivono come opposizioni reali, oggettive, assumerle al proprio interno
come opposizioni logiche. Se si riescono a vedere i contrari come
termini di una contraddizione essi non restano più tali e si mostrano
connessi (coincidentia oppositorum). Si ha pacificazione, cioè
riconciliazione perfetta e guarigione, solo se si è passati attraverso gli
stati della più completa lacerazione e del dolore infinito.
Ed è, in fondo, proprio questa maturità mostrata da Baudelaire nel
concepire la morte come possibilità concreta che invita l’esistenza a
una sintesi più ricca di senso, che rende non del tutto bizzarro il
tentativo di interpretazione che mi accingo a proporre. Esso si articola
in due parti:
1) la rilettura di alcune poesie di Baudelaire alla luce del noto schema
dialettico della triade; in esso Baudelaire figura come “vittima” dello
schematismo hegeliano, esempio in carne e ossa del travaglio di una
coscienza infelice, lacerata e comunque sempre aspirante a una sintesi
pacificatrice;
2) l’interpetazione della sua lirica più famosa, Corrispondenze, sia
alla luce di questo schema, sia servendoci di un accostamento, credo,
inconsueto, agli interessi culturali di Baudelaire per gli oggetti e la
cultura orientale.
PARTE I
Per sommi capi si tratterà di una:
TESI, incentrata sul perseguimento, da parte del poeta, di un ideale
aristocratico, focalizzata sulla costruzione di un modello, il Dandy, in
cui trasparirà la credenza in una possibile perfezione disincarnata,
un’aspirazione, in termini filosofici a divenire “essenza”, qualcosa di
permanente.
Ma la minaccia costituita da tutto ciò che il poeta considera natura si
rivelerà soverchiante:
nell’ANTITESI la natura, il corpo, la donna saranno vissuti come
nemici, il poeta si renderà conto della propria “inessenzialità”, vittima
di continue cadute nella sensualità, come espressione della caducità
della natura.
Ed infine si avrà una SINTESI in cui proprio nel lavoro artistico, il
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poeta saprà trovare la propria salvezza, una pacificazione possibile che
trova nell’opera terrena della poesia frammenti dell’ideale di bellezza e
di perfezione.
Dunque LA TESI:
Da “Il pittore della vita moderna”:
ecco Il Dandy: l’uomo ricco, ozioso, un pò scettico, che non ha altra
occupazione fuor che quella di correr dietro alla fortuna, l’uomo
cresciuto nel lusso… che non ha altra professione fuor che l’eleganza…
È una specie di culto di se stesso. Questi dandy… sono dei
rappresentanti di ciò che vi ha di meglio nell’orgoglio umano.
Da “Razzi”: ebbrezza religiosa delle grandi città. Panteismo. Io sono
tutti; tutti sono me.
Autoidolatria. Armonia poetica del carattere. Euritmia del carattere
e delle facoltà. Aumentare tutte le facoltà. Conservare tutte le facoltà.
Un culto (magia, stregoneria evocatrice).
Da “Il mio cuore messo a nudo”: il dandy deve aspirare a essere
sublime, tregua. Deve vivere e dormire davanti a uno specchio.
Nella poesia Benedizione:
«Sii benedetto, mio Dio, che concedi la sofferenza come un rimedio
divino alle nostre vergogne e come l’essenza più pura ed efficace per
preparare i forti a sante voluttà.
So che tu tieni un posto al Poeta nelle file beate delle tue Legioni, e
che tu l’inviti all’eterna festa di Troni, Virtù e Dominazioni.
L’ANTITESI, ovvero i conti con la natura in cui la donna ha un
ruolo centrale.
Da il mio cuore messo a nudo: la donna è l’opposto del dandy.
Dunque deve fare orrore. La donna è naturale, cioè abominevole.
“Il gusto del piacere ci lega al presente. Il pensiero della nostra
salvezza ci sospende all’avvenire. Colui che s’attacca al piacere, cioè al
presente, mi dà l’idea d’un uomo che rotoli per una china, e che,
tentando di aggrapparsi agli arbusti, li strappi e li trascini seco nella sua
caduta”.
La parte del piacere in atto: Profumo esotico.
Quando, a occhi chiusi, una calda sera d’autunno, respiro il profumo
del tuo seno ardente, vedo scorrere rive felici che abbagliano i fuochi di
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un sole monotono; una pigra isola in cui la natura esprime alberi
bizzarri e frutti saporosi, uomini dal corpo snello e vigoroso e donne
che meravigliano per la franchezza degli occhi. Guidato dal tuo
profumo verso climi che incantano, vedo un porto pieno d’alberi e di
vele ancora affaticati dall’onda marina, mentre il profumo dei verdi
tamarindi che circola nell’aria e mi gonfia le narici, si mescola nella
mia anima al canto dei marinai.
Nella seconda parte di Corrispondenze:
I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.
Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli oboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti.
Dove il profumo è sentito fin nelle più intime fibre come se, in
effetti, possedesse le proprietà più inebrianti.
Dopo il piacere lo scoramento. Spleen 78.
Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito
che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro
dell’orizzonte, una luce diurna più triste della notte; quando la terra è
trasformata in umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza
sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti
marcescenti; quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce,
imita le sbarre d’un grande carcere, e un popolo muto d’infami ragni
tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle
campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,
simili a spiriti vaganti, senza patria, che si mettono a gemere, ostinati.
E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano
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lentamente nella mia anima, vinta; la Speranza, piange; e l’atroce
Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato, il suo nero vessillo.
In questa opera non c’è speranza, scrive Erich Auerbach. Il poeta ha
dato “un’alta espressione stilistica all’angoscia paralizzante, al panico
per l’inevitabile tragicità della nostra esistenza, al totale annichilimento
cui questa terribile situazione conduce: impresa di una sincerità
estrema, ma anche ostile alla vita. Baudelaire pretese e riuscì a dare
forma poetica alla sua triste miseria; proprio il paralizzante e l’ignobile
genera l’attività poetica”.
È stato scritto da Thomas Stearn Eliot che la tematica principale di
Baudelaire si trova tutta nel problema del peccato originale. In modo
più articolato Erich Auerbach ha messo in rilievo le differenze
importanti tra Baudelaire e la visione cristiana della vita. “La
rappresentazione degradante della sensualità risponde a una tradizione
cristiana sempre esistita. Era inevitabile che Baudelaire finisse in
questo contesto, tanto più che egli era fieramente avverso
all’illuminismo… Che figure e idee cristiano-medievali abbiano
influito su di lui come già sui romantici è senza dubbio esatto ed è
anche vero che Baudelaire ebbe la struttura interiore di un mistico che
nei fenomeni andò in cerca del soprannaturale e trovò una seconda,
soprannaturale sensualità, nemica della natura, artificiale, demoniaca.
Nei confronti della tradizione cristiana però l’atteggiamento interiore
de I Fiori del Male è inconciliabile: né grazia, né redenzione si
affacciano nelle prospettive del poeta. Per quanto concerne il problema
del rapporto con la natura si può dire che mentre la morale sessuale
cristiana presenta l’oggetto della tentazione sessuale come caduco, non
così è per Baudelaire; per lui è molto spesso oggetto di condanna solo
la realtà corrotta.
D’altra parte in Razzi vibrano accenti di sincera religiosità: “Fare il
proprio dovere ogni giorno, e affidarsi per l’indomani a Dio”. Nella
tradizione cristiana Il Cantico delle creature di San Francesco
d’Assisi è certamente un testo esemplare. Al suo centro c’è il rapporto
fra Dio, l’uomo e la natura che Francesco risolve insistendo sulla
bonitas della natura, che dio ha creato per l’uomo:
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
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Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te
mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per
lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi Siignore, per sora Luna e le stelle:
il celu l’ài formate clarite et pretiose et belle…
Qui suggerisce Nicolò Pasero c’è una netta presa di posizione
ideologica contro l’eresia catara che considerava la natura governata
dal demonio. I catari rifiutano il battesimo con l’acqua in quanto
elemento impuro perchè come tutti gli altri di crazione demoniaca.
Francesco non si creerà una sua propria natura umanizzata, si
accetterà creatura tra le creature. Per Francesco la Natura non è un polo
negativo, non è nemica. Partecipa tutta intera alle lodi del Creatore.
Ma nella stessa tradizione cristiana si possono trovare posizioni assai
diverse, molto più tormentate e dialettiche:
Dovrò abbracciare il corpo come un amico .
(di Gregorio di Nazianzo)
“Non conosco il modo con il quale io sia stato congiunto al corpo né
come, allo stesso tempo, possa essere immagine di Dio e impastato di
fango. Infatti, anche quando il corpo gode di una buona salute, tuttavia
mi incalza e mi preme violentemente, provocandomi dolore. Io lo amo
come un amico, ma lo odio come un nemico e un avversario... Come
nemico il corpo è blando, come amico è insidioso. Com’è straordinaria
questa unione e contraddizione!… Che mistero è mai questo?”…
Infine LA SINTESI: la dialettica hegeliana, fondata sul principio di
contraddizione, e non su quello di identità, consiste in tre momenti: 1)
affermazione di un concetto “astratto e limitato” (tesi: Dandy); 2)
negazione di questo e passaggio a un concetto opposto (antitesi-natura);
3) unificazione dei precedenti momenti in una sintesi comprensiva di
entrambi. “L’Haufheben”: il superamento di un momento avviene in
quanto esso è un momento e non è l’intero, e consiste nel vedere che
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questo momento ha la sua limitatezza e chiama l’altro da sé; così
Baudelaire dopo la dura lotta contro “il momento” della natura nemica,
nella poesia La morte degli artisti, arriva a descrivere il lavoro
estenuante del poeta, e sarà proprio ciò a rappresentare la sua tanto
agognata ancora di salvezza.
Un altro esempio di tentativo di espressione di “superamento” si
trova nella lirica Corrispondenze; dunque rileggiamone la prima
parte:
la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi. che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore
Ma anche nel Viaggio che chiude I Fiori del male possiamo
intravedere la tematica della salvezza perseguita attraverso l’opera
dell’uomo: ogni isolotto avvistato dall’uomo di guardia appare un
Eldorado promesso dal Destino; l’immaginazione che architetta la sua
orgia scopre un piatto (recif, scoglio) frangente alla luce del mattino…
ma riuscirà l’operazione di ricreare (superare) la natura? “Le più ricche
città, i paesaggi più grandiosi per noi non contenevano gli arcani
sortilegi di quelli che compone con le nuvole il caso”.
Sforzo immane e inutile dunque? In ogni caso si è creata poesia!
È un vero e proprio inno al lavoro quello che Baudelaire
insistentemente ci propone. Da Razzi: …più si lavora meglio si lavora
e più si vuol lavorare.
Più si produce, più si diventa fecondi. A ogni minuto, siamo
schiacciati dall’idea e dalla sensazione del tempo. E non ci sono che
due mezzi per sfuggire a questo incubo, per dimenticarlo: il piacere e il
lavoro. Il piacere ci logora. Il lavoro ci fortifica. Scegliamo… Per
guarire di tutto, della miseria, della malaria e della malinconia, non
manca assolutamente che l’amore del lavoro.
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D’altra parte il lavoro richiama alla mente l’altra notissima figura
hegeliana della Fenomenologia dello Spirito, quella della signoria e
della servitù. È attraverso il lavoro che il servo si emancipa dalla sua
condizione. Nel lavoro il servo dà forma alle cose, sottraendole allo
stato in cui si trovano per natura; e tenendo a freno l’appetito viene
educandosi a liberarsi dall’immediatezza degli impulsi. Questa
educazione dell’uomo alla spiritualità, attraverso la repressione delle
tendenze naturali, ha una tappa ulteriore nella figura della coscienza
infelice. Si ha uno sdoppiamento della coscienza pensata come
esseziale (il Dio trascendente) e un’altra, quella del credente che si
considera inessenziale.
PARTE II
Il significato profondo di Corrispondenze.
Corrispondenze non è solo l’ennesima, più o meno celebrale,
esposizione della dottrina medievale dell’analogia universale; è
piuttosto la testimonianza del travaglio complessivo del Poeta,
dell’esperienza allucinatoria e della sua faticosa fuoriuscita attraverso il
lavoro, nella fattispecie il lavoro poetico. La salvezza è tuttavia sempre
in questione e può sembrare che sia ancora l’esperienza allucinatoria a
conferire senso ai primi inquietanti versi.
Riprendiamo in esame la prima parte di Corrispondenze dove
Baudelaire accenna alla dottrina dell’analogia universale che del resto è
stata da lui riproposta in varie occasioni.
La dottrina dell’analogia universale
Il Romanticismo ha sorgenti occulte che si spingono fino al
neoplatonismo di Meister Eckhart nel XIII secolo, si avvalgono di
Paracelso, di Jacob Boehme fino a Emanuele Swedenborg (1688-1772).
Egli ha avuto rivelato da Dio stesso, apparsogli nel 1745, il segreto
dell’uomo; per Swedenborg non solo Dio è nello spirito dell’uomo, ma
l’universo intero, visibile e invisibile, si ritrova riprodotto nell’uomo: il
Cielo non è che un grandissimo e divino uomo. Stabilito ciò, diventa
facile spiegare, attraverso le scritture sotto la dettatura di Dio, i simboli,
le corrispondenze fra il divino e l’umano. Con Corrispondenze
abbiamo la prima, più possente e lucida apparizione della poesia
simbolista; sui “misteri dell’analogia” scrive Baudelaire nel suo
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articolo su Victor Hugo; Swedenborg… ci aveva insegnato che il cielo
è un uomo più grande; che tutto, forma, movimento, numero, colore,
profumo, nello spirituale come nel naturale ha un significato, è
reciproco, convergente, corrispondente. E il poeta non è altro che un
traduttore, un decifratore. È stato scritto che dietro ad ogni dottrina c’è
una esperienza. Così Jean Wahl a proposito del sistema di Hegel.
Non sarà il caso, anche per Baudelaire di riprendere in
considerazione questa convinzione?
Cesare Brandi ne “Il sorriso di Buddha” ha scritto pagine
memorabili sulla cultura e sulla sensibilità giapponese: “tutto il modo
di concepire il giardino giapponese è un meraviglioso sotterfugio di
sensibilità, di attenzione portata sulle cose a cui nessuno fa caso, di
calcolo minuzioso come un rischio calcolato… Consiste nel forzare la
natura a prendere certi aspetti come se li assumesse di sua spontanea
volontà… Nel giardino giapponese non c’è un solo ramo che sia
cresciuto come sarebbe piaciuto a lui, ma l’arte è così nascosta, quasi
subdola, che può sembrare…
Niente nei giardini giapponesi è causuale, la naturalezza con cui
piante, pietre rocce sono disposte è il frutto di uno studio sofisticato e
nasconde numerosi richiami simbolici. Ciascuna roccia è messa in
qualche modo in relazione con le altre e il tipo di relazione è espresso
dalla struttura della pietra, dalla sua forma e dal modo in cui è
orientata.
All’epoca di Baudelaire, Parigi fu al centro di una diffusa
“Giappone-mania”. Uno dei luoghi di tendenza al tempo era il
negozio di Madame Desoye operante dal 1862 al 1888; Edmond de
Goncourt annotò a riguardo nel suo “Journal”: figura storica di questi
tempi, questa donna; il suo negozio è stato il luogo, la scuola per così
dire, dove si è elaborato il grande movimento giapponese che oggi si
estende dalla pittura alla moda. All’inizio sono stati alcuni originali,
come mio fratello e io, poi Baudelaire, poi Villot, poi Burty.
Così può essere non del tutto scorretto far notare alcune
corrispondenze tra l’atmosfera creata da taluni aspetti della spiritualità
giapponese e quella che aleggia in alcuni versi di Baudelaire:
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Ne La morte degli artisti
Quante mai volte dovrò scuotere i miei sonagli e baciare la tua fronte
bassa, cupa caricatura? Per colpire il bersaglio mistico, quante frecce
dovrò sprecare, o mia faretra?
Consumeremo la nostra anima in sottili raggiri e demoliremo più
d’una greve armatura prima di poter completare la grande Creatura
della quale un infernale desiderio ci riempie di singhiozzi!
V’è chi non ha mai conosciuto il suo Idolo… E agli scultori
condannati, e segnati da un affronto, che si danno di martello sul petto e
sulla fronte, non resta che una speranza, strano e oscuro Campidoglio:
che la Morte, sospesa come un nuovo sole, faccia sbocciare i fiori del
loro cervello.
E nel Viaggio:
La nostra anima è un tre-alberi che cerca la sua terra, l’Icaria; «Apri
l’occhio» echeggia sul ponte… Dalla coffa una voce ardente e
dissennata «Amore, gloria, felicità» va gridando. Dannazione, uno
scoglio.
Ogni isolotto avvistato dall’uomo di guardia è un Eldorado offerto
dal Destino: ma l’Immaginazione, che subito s’abbandona ai suoi
eccessi, non incontra che uno scoglio alla luce del mattino.
O misero innamorato di paesi di fiaba! Bisognerà incatenarti e
buttarti a mare, marinaio ubriaco, inventore di Americhe, il cui
miraggio fa più amari gli abissi? Così il vagabondo, pesticciando nel
fango, sogna, naso in aria, paradisi luminosi; e l’occhio ammaliato
scopre una Capua dovunque una candela illumini un tugurio.
Ed infine in Corrispondenze:
È un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi. che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa.
Anche la seconda parte di Corrispondenze andrà letta tenendo conto
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della vita del poeta e delle sue intense esperienze:
Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli oboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti
In questa seconda parte, dopo un accenno abbastanza sbrigativo alle
corrispondenze, “echi lunghi” tra profumi, colori, suoni, la lirica si
articola in versi che inneggiano alle magiche proprietà dei profumi. È
in effetti il senso che più direttamente collega l’esterno al mondo
interno quello che più lo attrae. Siamo nell’area olfattiva più grande del
mondo ha scritto Patrick Suskind ne Il Profumo, a proposito di
Parigi.
Di nuovo leggiamo in Tutta intera
…
e un’armonia troppo squisitamente
concertata governa il suo bel corpo
perchè l’analisi impotente
ne annoti i molteplici accordi.
O metamorfosi mistica
di tutti i miei sensi in uno!
Il suo respiro crea la musica
come la voce il profumo!
Tutti noi sappiamo quanto possono essere evocativi i profumi: il
ricordo di un avvenimento, di un’atmosfera, di un luogo o di una
persona resta spesso legato a un particolare odore. L’olfatto è quindi il
senso della memoria. Seguendo una scia odorosa si può viaggiare nel
tempo, rievocando emozioni, sensazioni ed esperienze vissute in
momenti e in luoghi lontani.
E la memoria è, per Baudelaire, fondamentale per la creazione
dell’opera d’arte, in quanto essa, come il poeta stesso ha scritto, ha
anche un potere di trasformazione e libera l’artista dalla prigionia dei
dettagli.
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In Corrispondenze, in definitiva, avremmo, nella prima parte,
un’allusione all’opera poetica come natura rigenerata dal lavoro
umano; nel secondo gruppo di versi ci verrebbe mostrata una delle
sorgenti principali di una certa disposizione poetica, quello che tra i
sensi è il più direttamente evocativo: l’olfatto.
In sostanza, non potremmo considerare questa celeberrima poesia,
come un epitome dell’intero processo creativo?
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FEDERICO GARCIA LORCA
La guerra civile nella lirica dei paesaggi andalusi
Di Fabrizio Manini
Nella sua prima raccolta di versi Libro di poesie (1921) Lorca
intende raccontare la propria gioventù e l’adolescenza utilizzando la
tecnica delle favolette moralistiche che alternano bizzarria e
eccentricità scanzonata, il tutto sotto le influenze del modernismo e di
continui richiami all’opera del simbolista nicaraguense Rubén Darío.
Tuttavia sono presenti anche la tematica andalusa e la musicalità tipiche
di tutta la sua produzione, che si ritrovano in particolare in Canzoni
(1927) e nel Poema del canto profondo (1931) che nell’idioma della
sua terra sta a indicare il flamenco: nelle Canzoni, l’andalusismo del
poeta si manifesta nel legame fra il mito della terra madre e il
sentimento fortissimo della morte, nel Poema risalta la ritmicità di un
canto intriso di cenni a un passato misterioso, strettamente connesso a
tematiche e cadenze della cultura popolare, dalle filastrocche per
bambini alla produzione gitana. Infatti è soprattutto in questo poema
che si intravede il “gitanismo” di Lorca, che apparirà poi in tutta la sua
potenza nel Primo romancero gitano.
In una lirica dal titolo Canti nuovi (1920) Lorca scrive testualmente:
ho sete di risate e di aromi; sete di canti rifulgenti e sereni, colmi di
sogni e di pensieri. È questo un modo di scrivere che va diritto al cuore
delle cose e si placa solo nella letizia dell’eterno. Queste poche righe
stanno a significare che la poesia è comunque presente in tutte le cose,
siano esse belle o brutte; ciò che fa la differenza è la capacità
dell’osservatore di cogliere le emozioni, interpretandole diversamente a
seconda della sensibilità della mente e del cuore. Per il poeta è
importantissimo riuscire a scuotere dal torpore tutte le zone nascoste
dell’anima, la quale deve saper vedere il bagliore dei sentimenti nelle
forme che la circondano. Come si può ben capire l’ispirazione iniziale
di Lorca era di natura prettamente romantica, ma in essa si compenetra
un profondo bisogno di paesaggio e di natura che evochi gli episodi
energici e le immagini vitali della calda terra di Spagna, dando loro una
sfumatura quasi onirica e tendente al surrealismo. L’educazione iniziale
che ha ricevuto il poeta nell’ambito familiare e scolastico prima, nei
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circoli culturali di Granada poi, si allarga necessariamente e
rapidamente, dopo il suo trasferimento a Madrid, verso dimensioni più
estese, fino a paragonarsi con i luoghi fondamentali dell’identità
spagnola: Avila, Burgos, Santiago de Compostela e il monastero di
Silos.
Quando leggeva i propri testi Lorca era commovente e straordinario;
notevoli capacità vocali e spiccata comunicatività, uniti ad una certa
simpatia, obbligavano quasi ad arrendersi al suo fascino interpretativo;
la creatività di cui era dotato appariva sempre naturale e spontanea, mai
artificiosa o manierata. La sua poesia mette quasi di fronte ad
un’essenza di assolutismo: è il suo duende (suggeritore notturno) che
gli rivelava ciò che egli era capace di trasporre in un’immediatezza
talvolta crudele (come nel celeberrimo Lamento per Ignazio Sánchez
Mejías), ma pur sempre vicina alle radici dell’esistenza umana e
dell’universo, in una prospettiva che illuminava se stesso e il mondo
circostante.
Lorca fece parte, con un ruolo quasi di leader, di quel gruppo di
scrittori che in Spagna tennero banco fino al 1936, anno della
rivoluzione franchista; i più noti furono Pedro Salinas, Jorge Guillén,
Dámaso Alonso, Vicente Aleixandre, Rafael Alberti, Luis Cernuda,
Léon Felipe, Miguel Hérnandez. Tutti questi autori, dispersi dalla
politica franchista, si contrapposero sempre e decisamente al regime
con i loro messaggi di libertà. Lorca, forse un po’ più degli altri, fu
capace di descrivere in maniera quasi perfetta gli aspetti
dell’andalusismo popolare, rappresentato dalla personale esperienza
granadina, creando fin dall’inizio uno stretto legame con le radici della
terra natia e contemporaneamente seguendo l’esperienza popolare del
suo “vagabondare” per la Spagna. L’ispirazione di Lorca, da lirica e
romantica, si volge verso il concreto dei fatti storici per poi spingersi
alla ricerca di una visionarietà riconducibile a correnti artistiche come
l’Espressionismo, il Surrealismo e il Dadaismo. Il profilo culturale e
onirico-sognatore della realtà popolare è intriso di aspetti storici e
sociali; probabilmente è per questo che le sue romanze erano lette
davanti a tutti nei raduni repubblicani e nei circoli. Denunciato come
omosessuale e come agente al servizio dei sovietici da un clericale di
destra, Lorca è catturato il 16 agosto 1936 in casa del poeta Luis
Rosales. La sua tragica morte, avvenuta per fucilazione ad opera della
guardia civile, ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi, anche fuori
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dalla Spagna, la condanna di un autore che con i suoi scritti si era
schierato a fianco del popolo contro il clero e la destra fascista.
Lorca nella sua breve vita scrisse anche opere teatrali: La casa di
Bernarda Alba (che ha come sottotitolo Dramma di donne in terra di
Spagna) e Donna Rosita nubile vengono considerate capolavori nel
teatro spagnolo del Novecento; il tema di fondo è quello della
femminilità frustrata che vive il conflitto fra la passione amorosa e
sessuale (con ansia di maternità) e le convenzioni dell’onore nel senso
della rispettabilità sociale. Le vicende hanno per sfondo paesaggi
malinconici sprofondati in un’atmosfera indefinita che sembra
attendere una catastrofe incombente e forse inevitabile. Questo mondo
di passioni violente e talvolta incontrollabili vengono comunque
riscattate da una poesia umana e civile che conferisce grandissima
dignità all’esistenza delle protagoniste.
Le poesie che vi propongo, nella traduzione di Lorenzo Blini, sono Il
silenzio e Paesaggio, tratte entrambe dal Poema del canto profondo;
sono due liriche poco note e soprattutto brevi che rispecchiano
perfettamente i temi di fondo della raccolta: nella prima, in sei versi
sciolti e liberi anche nell’originale versione in lingua spagnola, colpisce
l’immediatezza estrema e la violenta brutalità dei due versi finali che
esprimono senza mezzi termini (e senza uguali in poesia) il dolore
eccessivo di un passato destinato a ripetersi; la seconda sintetizza
l’essenza della terra andalusa e accenna velati riferimenti a trascorsi
indefiniti che però ancora riguardano un presente incerto, tipico della
cultura popolare gitana.
Riferimenti: Federico Garcia Lorca, Poesie, Fabbri Editori.
IL SILENZIO
Ascolta, figlio mio, il silenzio.
È un silenzio ondulato,
un silenzio,
dove scivolano valli ed echi
e che inclina le fronti
al suolo.
Carmina n.6
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PAESAGGIO
Il campo
di olivi
si apre e si chiude
come un ventaglio.
Sull’oliveto
un cielo sommerso
e una oscura pioggia
di stelle fredde.
Trema giunco e penombra
sulla riva del fiume.
Si arriccia il vento grigio.
Gli olivi
sono carichi
di grida.
Carmina n.6
19
“And all their eyes are ice”
Un incontro a un secolo di distanza
Di Chiara Micheli
Wilfred Owen, poeta inglese della corrente dei cosiddetti
“georgiani”, rientra nella categoria dei poeti minori: non certo per il
contenuto delle sue strofe ma per l’avvento di correnti letterarie più
rilevanti al cambio di un’epoca, siccome storicamente situato tra la fine
dell’800 e gli inizi del ‘900. Nacque nel marzo del 1893 in Inghilterra e
nel 1915 si arruolò negli Artist Rifles, un corpo speciale dell’esercito
Britannico. Considerato da molti come il poeta principale della Prima
Guerra Mondiale, è conosciuto per la sua War Poetry sugli orrori della
trincea. Owen morì in seguito ad un’azione militare il 4 novembre del
1918 durante l’attraversamento del canale di Sambre-Oise, una settima
prima dell’armistizio. Non vide mai le sue opere pubblicate. La prima
edizione, curata da S. Sassoon, è del 1922.
Una sera di due anni fa Chiara Micheli l’ha “incontrato”, grazie ad
una sua amica americana che le ha mostrato una lettera di Owen, scritta
alla famiglia durante la guerra. E’ diventata così la prima italiana ad
aver tradotto tutte le poesie dell’autore anche se, per una parte dei suoi
scritti, esisteva già una versione italiana. «Ricordo che Owen è partito
per la guerra nel ‘17 ed è morto l’anno dopo. In questo periodo ha
scritto molto alla famiglia. Non ho letto le lettere come pubblicate ma
direttamente gli autografi, oggi accessibili. C’è stato davvero un
incontro, nonostante il divario temporale: è come se avessi conosciuto,
o forse riconosciuto, una persona. Anche se nella realtà odierna non
esiste più». In un primo momento Chiara aveva deciso di tradurre
proprio le lettere, convinta che esistessero già versioni italiane
complete delle opere di Owen. Ma dopo accurate ricerche si è resa
conto che non ce n’erano «Owen viene ricordato solo per le sue poesie
di guerra, che sono una quarantina, le uniche tradotte. Però lui ne ha
scritte circa 130. Quando mi sono resa conto che nessuno aveva
lavorato ad una traduzione della sua opera, ho deciso di incamminarmi
in questa direzione, lasciando, per il momento perdere le lettere».
Owen è un poeta di guerra decisamente pacifista. Ovviamente la guerra
è il tema di molti suoi scritti perché vissuta in prima persona per un
Carmina n.6
20
periodo fondamentale della sua vita, ma lo sguardo è di poca illusione.
Pensiamo al suo difficile coraggio: se oggi è socialmente accettato
essere pacifisti, allora voleva dire essere traditori della nazione e del
tuo stesso popolo».
Owen è un cantore fine e davvero particolare, innovativo e allo stesso
tempo geniale, poiché artisticamente si avvale della pararima: una
forma singolare di rima, ove combacia il suono della parola. Il lavoro
del traduttore qui diventa arduo, riportare in italiano la stessa melodia
dei suoni inglesi è praticamente impossibile: «In italiano non funziona
la pararima e quindi la traduzione si è dimostrata subito difficoltosa.
Owen appartiene ad un’epoca in cui la forma estetica della poesia ha un
posto di rilievo e la sua particolare forma, purtroppo, non può essere
riportata con assoluta fedeltà nella nostra lingua. Devo dire che ciò che
più mi ha colpito è stato il contenuto dei suoi versi, allo stesso tempo
teneri e terribili, colmi di pietas».. Un lavoro durato sei mesi per
tradurre la prima parte ed altri cinque per la seconda. Ma Chiara ha
continuato e se oggi possiamo leggere le opere di Owen lo dobbiamo a
lei.
Il risultato non è un classico libro ma un cd multimediale pieno di
immagini. In seguito verrà pubblicata e presentata anche la versione
cartacea. E questo perché Chiara non è solo una scrittrice ma anche
un’artista. Fin da bambina si è occupata di grafica, è stata anche
assistente dell’architetto americano Craig Ellwood riuscendo ad
apprendere molte nozioni fondamentali delle principali tecniche
artistiche: «La prima edizione è digitale, un PDF illustrato. Ho unito
letteratura e arte figurativa ed è venuto fuori un prodotto nuovo, nella
forma e nel contenuto. Owen scrisse in una delle sue lettere che
avrebbe amato per le proprie poesie un’edizione elegante. Ovviamente
per me il miglior mezzo, il più attuale per esprimere l’eleganza
ricercata da Owen non poteva che essere il digitale. Qualsiasi forma
editoriale diversa mi rimanda al passato e lui non desiderava questo; se
non altro per l’estrema attualità delle sue poesie».
Chiara si occupa anche di progettare e attuare laboratori di diffusione
della scrittura sul territorio.
Ad esempio, in collaborazione con la Biblioteca e il Comune di
Pergine Valdarno, Chiara ha seguito e sviluppato “Scrivere è un
Carmina n.6
21
viaggio…” che si è concluso con la raccolta in un libro di racconti
brevi e poesie, “La dinamica dell’imperfezione”.
«Questo laboratorio è durato due mesi, ed è stato seguito da una
varietà notevole di persone. All’inizio c’erano molti dubbi sul risultato,
ma quando si cerca di trasmettere la cultura, la conoscenza, penso basti
trovare il mezzo gusto perché questa venga recepita nel migliore dei
modi da chi ne ha veramente voglia, ne sente il bisogno. Quando metti
in comune esperienza, capacità di esprimerti e volontà, si possono
ottenere risultati incredibili. Più siamo misti e più il gruppo si
amalgama, ai laboratori partecipano persone di tutte le età ed estrazioni
sociali. Chi si credeva incapace di scrivere anche solo una riga scopre
un lato del proprio essere che non conosceva». «Dare qualcosa alle
persone, trasmettere conoscenza e nello stesso tempo allargare gli
ambiti di possibilità di qualcuno è la più grande soddisfazione.
All’inizio i laboratori rappresentavano per me una sorta di impegno
marginale, adesso occupano metà del mio tempo. Le persone hanno
bisogno di essere fruitrici “attive” del sapere e la nostra società non è
molto propensa a permetterlo, accampando scuse assurde, non ultime
quelle che siamo ormai tutti succubi della televisione. Ricordo durante
una prima lezione di aver letto una poesia complessa, Devotion, di
Arthur Rimbaud. Credevo che al laboratorio non sarebbe tornato
nessuno, invece sono tornati tutti. Mi conforta che la bellezza e la verità
arrivino comunque. E che non esistano i gradi della possibilità di
conoscere. Non fa differenza se hai una laurea o sei quasi analfabeta,
siamo ugualmente estremamente ricettivi. Adesso sto affrontando i
Canti Orfici di Dino Campana: definitivamente uno dei più grandi poeti
senza paura di questa nostra terra».
Chiara ha anche un sito, www.diuominimortiesognatori.splinder.com,
dove si occupa di letteratura legata al mondo della comunicazione e dei
media, soprattutto cinema.
Ecco alcune delle poesie tradotte di Wilfred Owen:
All’aperto
I nostri cervelli dolgono, nei venti orientali senza pietà che ci
Carmina n.6
22
accoltellano…
Esausti restiamo svegli perché la notte è silenziosa…
Lampi bassi e curvi confondono la nostra memoria del saliente..
Preoccupate dal silenzio le sentinelle bisbigliano, curiose, nervose,
E non accade niente.
Guardinghi, sentiamo le raffiche folli strappare i fili spinati,
Come agonie convulse di uomini tra i suoi rovi.
Da nord, incessante, i tremolii dell’artiglieria brontolano,
Lontano, come un rumore smorto di qualche altra guerra.
Che ci facciamo qui?
La miseria acuta dell’alba comincia ad aumentare…
Sappiamo solo che la guerra dura, la pioggia bagna, e le nuvole si
abbassano tempestose.
L’alba che ammassa ad est il suo melanconico esercito
Attacca ancora una volta in ranghi le schiere tremanti di grigio,
E non accade niente.
Stormi consecutivi di proiettili striano improvvisi il silenzio.
Meno mortali dell’aria che rabbrividisce nera di neve,
Con un fluire sghembo quello stormo cade a fiocchi, che si fermano,
riprendono;
Li guardiamo pellegrinare su e giù nel vento indifferente,
E non accade niente.
Fiocchi pallidi furtivi arrivano a palpare le nostre facce Ci accucciamo nei buchi, torniamo ai sogni dimenticati e fissiamo
intenti, storditi dalla neve,
Trincee più erbose. Così sonnecchiamo, assopiti dal sole,
Sparpagliati coi fiori che stillano dove i merli si affannano.
- Forse stiamo morendo?
Carmina n.6
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Lentamente i nostri fantasmi si trascinano a casa: intravedono i
fuochi calare,
Coperti di gioielli rosso cupo incrostati; i grilli cantilenano;
Per ore i topi innocenti si rallegrano; la casa è loro;
Porte e finestre, tutte chiuse: per noi le porte sono chiuse, Ritorniamo al nostro morire.
Poiché crediamo che il fuoco non possa bruciare altrimenti;
Neppure più il sole sorridere schietto a ragazzi, o campi, o frutti.
Poiché per la primavera invincibile di Dio il nostro amore è
impaurito;
Dunque, pronti, giacciamo qui fuori; per questo siamo nati,
Perché l’amore di Dio sembra morire.
Stanotte, questo gelo legherà noi a questo fango,
Avvizzendo molte mani, raggrinzendo molte fronti fresche.
La squadra dei seppellitori, picconi e badili nelle loro strette tramanti,
Si ferma su facce un poco conosciute. Tutti i loro occhi sono
ghiaccio,
E non accade niente.
Exposure - March 1918
Antifona per la gioventù condannata
Quali campane a lutto per questi che muoiono come bestiame?
Solo la rabbia mostruosa dei cannoni.
Solo il rapido crepitare di fucili balbettanti
Può sgranare le loro affrettate orazioni.
Non più scherzi per loro, né preghiere né campane,
Nessuna voce di cordoglio eccetto i cori I cori striduli e dementi dei proiettili lamentosi;
E trombe che li chiamano da tristi territori.
Carmina n.6
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Che candele tenere per spingerli tutti?
Non nelle mani dei ragazzi, ma nei loro occhi
Splenderanno i sacri barlumi degli addii.
Il pallore di fronti di ragazze sarà il loro sudario;
La tenerezza di menti pazienti i loro fiori,
E ogni lento crepuscolo un chiudersi di tende.
Anthem for Doomed Youth - September 1917
La parabola del vecchio e del giovane
E Abramo si alzò, e raccolse la legna, e andò,
E prese il fuoco con sé, e il coltello.
E mentre soggiornavano insieme,
Isacco il primo nato parlò e disse: Padre Mio,
Va bene i preparativi, il fuoco e il ferro,
Ma dov'è l'agnello per questo sacrificio?
Allora Abramo legò il giovane con cinghie e cinture,
E lì costruì parapetti e trincee,
E brandì il coltello per sgozzare il figlio.
Quand’ecco! un angelo apparve in cielo, e disse,
Non stendere la mano sopra il ragazzo,
Non fare alcun male a tuo figlio.
Guarda, preso per le corna nel cespuglio c’è un capro;
Offri invece il Capro dell’Orgoglio.
Ma il vecchio non volle saperne, e sgozzò il figlio,
E metà del seme d’Europa, uno per uno.
The Parable of the Old Man and the Young - 1918
Carmina n.6
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Insensibilità
I
Felici quelli che prima ancora d’esser uccisi
Sanno far scorrere la freddezza nelle loro vene.
Che nessuna compassione schernisce e fa i loro piedi
Dolenti sui viali lastricati dai compagni.
La linea del fronte avvizzisce. Ma sono truppe che svaniscono, non
fiori,
Per le sciocchezze lacrimose dei poeti:
Uomini, vuoti da riempire:
Perdite, che avrebbero potuto combattere
Ancora; ma nessuno se ne cura.
II
E certi cessano persino di sentire
Sé stessi o per sé stessi.
L'ottusità risolve meglio
I fastidi e i dubbi dei bombardamenti,
E la strana aritmetica del Caso
E’ più semplice del contare gli scellini.
Non si tiene conto della decimazione negli eserciti.
III
Felici quelli che perdono l'immaginazione:
Hanno abbastanza da portare con le munizioni.
Il loro spirito non trascina zaini.
Le vecchie ferite, al freddo, non fanno più male.
Avendo visto tutto il rosso delle cose,
I loro occhi sono salvi per sempre
Dal dolore del colore del sangue.
E finita la prima costrizione del terrore,
I loro cuori restano rimpiccioliti.
I loro sensi con qualche cocente cauterio di battaglia
Carmina n.6
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Ormai cicatrizzati,
Possono ridere tra i morti, indifferenti.
IV
Felice la casa del soldato, senza nozione alcuna
Di come da qualche parte, ogni alba, degli uomini attacchino
E molti sospiri esalino.
Felice il ragazzo che la sua mente non è stata mai educata:
I suoi giorni meritano che li si dimentichi.
Lui canta forte la marcia
Che noi marciamo taciturni, a causa del crepuscolo,
Il nostro lungo, disperato, implacabile andare
Da giorni più grandi a notti più enormi.
V
Saggi noi, che con un pensiero imbrattiamo
Il sangue sopra tutte le nostre anime,
Come dovremmo vedere il nostro compito
Se non attraverso i suoi occhi bruschi e senza ciglia?
Vivo, non è molto vitale;
Morente, non molto mortale;
Né triste, né fiero,
Per niente curioso.
Non sa distinguere la sua placidità
Da quella di un vecchio.
VI
Ma maledetti siano gli stupidi che nessun cannone scalfisce,
Potrebbero essere delle pietre.
Miserabili sono, e malvagi
Con una pochezza che non fu mai semplicità.
Hanno scelto di farsi immuni
Alla pietà e a tutto ciò che nell’uomo geme
Davanti all’ultimo mare e alle sventurate stelle;
Carmina n.6
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A tutto ciò che piange quando molti lasciano queste spiagge;
A tutto ciò che condivide
L’eterna reciprocità del pianto.
Insensibility - March 1918
Addormentato
Sotto l’elmetto, appoggiato allo zaino,
Dopo così tanti giorni di lavoro e veglia,
Il sonno l’ha preso per le ciglia e l’ha disteso.
Là, nel felice senza tempo del suo sonno,
La Morte l’ha preso per il cuore.
Là levò un tremolio alla vita abortita
Dentro lui che fece un balzo…
E poi braccia e torace assonnati caddero di nuovo.
E presto il sangue lento e sperso arrivò strisciando
Su dal piombo intruso, come formiche in fila.
Se il suo sonno più profondo giace all’ombra del battito
Di grandi ali, e dei pensieri che tengono le stelle,
Adagiato sui cuscini fatti da Dio calmi
Sopra queste nuvole, queste piogge, questi nevischi di pallottole,
E questi venti a scimitarre;
O se ancora la sua testa piccola e bagnata
Si confonde sempre più con la terra bassa,
I sui capelli tutt'uno con l’erba grigia
Su campi finiti e fili di ferro arrugginiti..
Chi sa? Chi spera? Chi se ne preoccupa?
Che passi!
Lui dorme. Lui dorme meno tremulo e meno freddo
Di noi che ci svegliamo e svegliandoci diciamo ahimè.
Asleep - October 1917
Carmina n.6
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Strano incontro
Sembrò che uscissi indenne dalla battaglia
Giù attraverso un tunnel profondo e fosco, d’epoca immemorabile
Tra graniti che guerre titaniche avevano scavato.
E là, in tutta la lunghezza, ingombro di dormienti che gemevano,
Troppo presi dai pensieri o dalla morte per spostarsi.
Poi, mentre li osservavo attentamente, uno saltò su
E mi guardò, gli occhi fissi in pietoso riconoscimento,
Alzando le mani angosciate, come per benedire.
E dal suo sorriso, conobbi quell’antro tetro.
Dal suo sorriso seppi che eravamo all’inferno.
Il volto di quella visione era granito di mille dolori;
Eppure il sangue non filtrava dal terreno sovrastante,
E nessun colpo di cannone, né lamenti attraverso le condotte.
“Strano amico” io dissi, “qui non c’è alcun motivo di dolersi”.
“Nessuno” disse l’altro, “a parte gli anni sprecati.
La disperazione. Qualunque sia la tua speranza,
Era anche la mia vita. Andavo a caccia all’impazzata
Dietro le bellezze selvagge del mondo,
Che non hanno la calma dentro gli occhi, né trecce nei capelli;
Ma si prendono gioco del trascorrere costante del tempo.
E se si addolorano, più ricco di qui è il dolore.
Perché per la mia gioia molti uomini avrebbero potuto ridere,
E del mio pianto qualcosa è rimasto,
Che deve morire ora. Intendo la verità non detta,
La pietà della guerra, la pietà che la guerra ha distillato.
Adesso gli uomini se ne andranno contenti
Con ciò che abbiamo saccheggiato,
O scontenti, il sangue ribollente, e lo spargeranno.
Saranno veloci come la tigre, nessuno romperà i ranghi,
Anche se le nazioni viaggeranno lente dal progresso.
Carmina n.6
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Il coraggio era mio, ed avevo il mistero,
La saggezza era mia, ed avevo la maestria:
Perdere la marcia di questo mondo in ritirata
Verso le cittadelle vane che non hanno mura.
Allora, quando ancora sangue avesse ostruito le ruote del loro carro
Io sarei salito a lavarli con l’acqua dolce di pozzo,
Con le verità che sono troppo profonde per guastarsi.
Avrei versato il mio spirito senza limite,
Ma non con le ferite, non con la tassa immane della guerra.
Fronti d’uomini hanno sanguinato dove non c’erano ferite.
- Sono il nemico che tu hai ucciso, amico mio.
Ti ho riconosciuto in questa oscurità: perché così ti sei accigliato
Ieri, mentre mi infilzavi e mi uccidevi.
Io ti ho schivato; ma le mie mani erano fredde e intorpidite.
Dormiamo adesso…”
Strange Meeting - March 1918
Lo show
Siamo caduti nei sogni che l’eterno
Alita sugli specchi offuscati del mondo
E poi lucida con mani d’avorio e sospiri.
W.B.Yeats
La mia anima guardò giù da una vaga altezza, con la Morte,
Non ricordavo come c’ero arrivato e perché,
E vide una terra triste, fiaccata dalle fatiche della carestia,
Grigia, di crateri come la luna, scavati di dolore,
E butterata di grandi pustole e croste di piaghe.
Carmina n.6
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Nella sua barba, quell’orrore di fil di ferro aspro,
Si muovevano bruchi sottili, srotolati lentamente.
Sembrava si sforzassero d’essere come tappi
Di fosse, dove si contorcevano e attorcigliavano, uccisi.
Sentieri melmosi avevano raspato e calpestato
Intorno a miriadi di verruche come piccole colline.
Dagli ultimi rimasugli del buio queste creature estenuate
Strisciarono, e svanirono dall’alba a nascondersi nei buchi.
(E un odore saliva da quelle aperture immonde,
Come da bocche o da ferite gravi che s’aggravano.)
Esitando, piedi si radunarono, ancora e ancora,
File brune, contro strisce di grigio, con spine dritte,
Tutti migratori da terre verdi, assorti sulla melma.
Quelli che erano grigi, di progenie più abbondante,
Si gettarono sugli altri e li mangiarono e furono mangiati.
Vidi le loro schiene morse curvarsi, avvolgersi, raddrizzarsi.
Guardai quelle agonie arrotolarsi, alzarsi e ridistendersi.
Qualunque cosa la visione potesse significare, nel terrore
Io barcollai tremando, come una piuma, cadendo verso terra.
E la Morte cadde con me, come un gemito incupito.
Là Lei, raccogliendo uno dei vermi, che nascondeva
Metà delle ferite sotto terra e non strisciava più,
Mi mostrò i suoi piedi, i piedi di molti uomini,
E la sua testa appena tranciata, la mia.
The Show - March 18
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BRUNO TOLENTINO
Di Gian Paolo Grattarola
Il 27 giugno si è spenta la voce di Bruno Tolentino, il più illustre e
prolifico poeta brasiliano contemporaneo, per diversi anni direttore
della prestigiosa rivista Bravo, attorno alla quale era riuscito a
raccogliere i più significativi fermenti del mondo intellettuale di quella
immensa e feconda nazione.
Amico personale di Giuseppe Ungaretti, presso il quale soggiornò
durante un breve periodo durante gli anni di esilio in Europa seguiti al
colpo di stato del 1964 in Brasile, nel corso delle sue lunghe
peregrinazioni ebbe il privilegio di frequentare i più illustri intellettuali
e poeti del secolo scorso tra cui spiccano i nomi di Sartre, Serao,
Montale, Bishop, Auden, Pasolini, Levi e Quasimodo.
Bruno Tolentino deve la sua fama al conseguimento nel 1995 e nel
2006 del premio Jabuti, il più importante riconoscimento letterario del
suo paese, a vent’anni di onorato insegnamento a Oxford, ma anche a
due anni di soggiorno in carcere sotto le pesanti accuse di spaccio e
contrabbando. Ma in Italia, ove tornava periodicamente essendovi
strettamente legato dalle antiche radici famigliari e da un sentimento di
profondo affetto, negli ultimi anni era noto soprattutto per lo stretto
sodalizio con Don Giussani e l’ambiente culturale cattolico a seguito
della sua radicale conversione religiosa.
Tra le sue opere più prestigiose ricordiamo “O mundo como Idéia”,
in cui il poeta manifesta il bisogno di varcare le anguste sembianze
della prefigurazione concettuale, che privano l’uomo della necessità di
infinitarsi nel ampio respiro della totalità dell’essere.
L’arte ebbe a dire una volta è una menzogna che dice la verità ma il
varco di montaliana memoria attraverso cui raggiungerla e che lo ha
condotto dapprima nei bassifondi di Varsavia, quindi sul teatro di
guerra libanese e infine nelle segrete delle carceri si è materializzato
infine nell’incanto dolente di una notte stellata sotto le sembianze
inattese di una conversione alla fede cattolica. E pur consegnando alla
storia la parabola esistenziale di un poeta che ha lambito tutte le
correnti culturali del Novecento, pur resistendo stoicamente al richiamo
del senso di appartenenza, si congeda da questo mondo nella
Carmina n.6
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convinzione che il poeta sia un uomo inutile e che il problema non stia
nella ricerca di una rettitudine morale ma nella possibilità di una piena
realizzazione dell’essere attraverso il calvario di un’estenuante ricerca
anche tra gli anfratti più oscuri.
O MUNDO COMO IDÉIA
O mundo como idéia (ou pensamento).
Entre a gnose e o real (talvez) o acordo.
Mas no ramo (imperene) cantão tordo
(provisório) e invisível vem o vento
e leva o canto e deixa um desalento,
a queixa dos sentido… Não recordo
se sonhei tudo isso ou não: um tordo
e a noite em meus ouvidos um momento,
outro rapto no vento… Mas supor
que o triunfo moral do cognitivo
restitua-me o ser menos a dor,
é resignar-me a um perfume tão rápido
que não existe quase, insubstantivo
como a Idéia… Não: o mundo como rapto!
IL MONDO COME IDEA
Il mondo come idea (o pensiero)
Tra la gnosi e la realtà (forse) l’accordo.
Ma nel ramoscello (imminente) canta il tordo
(inatteso) e invisibile sopraggiunge il vento
portandosi via il canto e lasciando una malinconia,
a lagnarsi dei sensi… Non ricordo
se ho sognato tutto questo oppure no: un tordo
e la notte nei miei orecchi un istante,
un’altro raptus nel vento… Ma supporre
che il trionfo morale della consapevolezza
possa ridarmi meno dolore,
è abbandonarmi rapito ad un profumo
Carmina n.6
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che quasi non esiste, infondato
come l’idea… Non: il mondo come raptus.
Traduz. di Suerda Maria Alves
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In morte di un poeta Cubano in Esilio
Osvaldo Navarro
Di Gordiano Lupi
Il romanziere e poeta cubano Osvaldo Navarro è morto nel suo
esilio messicano, il 7 febbraio 2008, vittima di un infarto. I suoi resti
sono stati cremati e le ceneri portate dalla moglie, la poetessa Elena
Tamargo, a Miami - dove risiedono i figli Osvaldo e Nazin - per essere
sepolte in terra statunitense. Navarro nasce a Santo Domingo, in
provincia di Villa Clara, nel 1946, membro delle forze armate e del
ministero degli interni per dieci anni, studia filologia alla Università
dell’Avana e consigliere culturale nella ambasciata cubana di Mosca
fino al 1987. Vince molti premi nazionali di poesia e ottiene importanti
riconoscimenti per la sua opera letteraria. Osvaldo Navarro è un
convinto difensore del realismo socialista nella creazione artistica, ma a
un certo punto della sua vita perde fiducia nel processo rivoluzionario e
nel 1993 ripara in Messico. Vive da esiliato volontario, per qualche
periodo soggiorna a Miami, torna in Messico, fonda la rivista Nao e
lavora come promotore culturale. Tra le sue opere di poesia citiamo De
regreso a la tierra (1974), Los días y los hombres (1975), Espejo de
conciencia (1989), Las manos en el fuego (1981), Nosotros dos (1984),
Combustión interna (antologia, 1985), Clarividencia (1989),
Xabaneras (1996) e Catarsis (1999). Tra i romanzi ricordiamo El
caballo de la Mayaguara (1984) - premio nazionale della critica
cubana - e Hijos de Saturno (2002). Figli di Saturno sarebbe un libro
importante da far conoscere in Italia, perché è un omaggio a tutte le
persone che hanno creduto nella rivoluzione cubana e ne sono state
divorate. L’istituto Politecnico Nazionale del Messico pubblicherà
un’antologia della sua opera poetica e un suo saggio su José Martí.
Osvaldo Navarro è stato uno dei migliori poeti cubani
contemporanei, in un primo periodo della sua vita convinto
rivoluzionario, appena si rende conto della grande truffa castrista lotta
contro il regime fino a riparare in esilio. In ogni caso Osvaldo Navarro
non mette la poesia al servizio di un’ideologia e questa è la sua grande
forza letteraria. Non ha mai scritto un libro celebrativo del regime e
non si è piegato al ruolo di poeta cortigiano, neppure quando era
Carmina n.6
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convinto assertore della bontà rivoluzionaria. Nella Cuba di Fidel
Castro nessuno scriverà una riga sulla sua morte, visto che in passato è
stato definito dal regime come opportunista. Osvaldo Navarro resta nel
gruppo dei poeti da dimenticare, tra i letterati che non vanno studiati,
depennato dalla lista degli scrittori in lingua spagnola dei quali è lecito
occuparsi. Meno male che istruzione e cultura (insieme alla sanità)
sono le cose migliori che citano sempre i fiancheggiatori del regime.
Ho avuto la triste notizia della morte di Navarro dallo scrittore
cubano Felix Luis Viera, pure lui esule in Messico e destinato a vivere
lontano dalla sua terra per colpa di un regime duro e intollerante. Per
ricordare un grande scrittore pubblico una piccola antologia poetica in
lingua originale, accompagnata dalla mia traduzione letterale che fa
perdere liricità ai testi ma è utile per comprendere il significato.
Osvaldo Navarro parla di solitudine, dialoga con se stesso, sente di
essere rimasto senza parole e senza musica, di non avere più la forza di
scrivere poesia, vuol essere vegetariano in un mondo di antropofagi,
comprende che tanti amici si sono lasciati condurre su una strada
sbagliata e che adesso si bruciano le ali per aver volato troppo vicino al
fuoco. Parla di politica in modo velato, con sottili allusioni e raffinata
scelta lessicale, usa la poesia fantastica per realizzare un importante
discorso sociale. Le idee modificate da uomini che non sono all’altezza
dei loro sogni producono mostri, come il sonno della ragione, come un
antropofago che cucina carne umana e si lascia tentare dal sapore
proibito. Osvaldo Navarro critica Stai Uniti e Cuba, non risparmia
nessuno, in un atto di accusa che unisce globalizzazione a base di
hamburger alla rivoluzione cubana che predilige carne di cannone e
lingue di poeti stufate.
Uno scrittore che sono orgoglioso di presentare per primo in Italia e
che dovrebbe essere tradotto e pubblicato anche nel nostro paese.
ANTOLOGIA POETICA
HOT EDAD
La soledad que asumo es tan divina
Que de tanto ignorarla somos dos:
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Uno en el comedor traga su arroz
Y el otro lava el plato en la cocina.
Navarro es un buen hombre que se inclina
Y conjuga los verbos siempre en nos.
Osvaldo es quien se yergue frente a Dios,
Y es una débil sombra que ilumina.
A veces somos más, y somos tantos
Que no alcanza la tierra para cuantos
Habitan esta estricta soledad.
Hablo conmigo, que es decir nosotros,
Pero no entablan diálogo los otros:
Los demás son yo mismo en su hot edad.
ATONAL
Hijos, indíquenme el tono,
Que me he quedado sin música.
Sordo de mí mismo, escucho
sólo lamentos y súplicas,
el ruido de las almas
y ciertas notas estúpidas
que repiten y repiten
en un vacío de acústica.
Ya no escucho los acordes
de aquellas mañanas fúlgidas,
con su vértigo de pájaros
y estruendo de alas alúminas.
De las primaveras no
recuerdo su risa última,
ni el compás de las estrellas
en aquellas noches únicas,
y tú, mujer, que vibrabas
como una cítara púdica.
No oigo sonar las campanas
el re de mi abeja lúdica,
ni a mi madre que tañía
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ésta mi lira tan rústica.
Hijos, indíquenme el tono,
que me he quedado sin música.
ANTROPOFAGIA
Adobada con zumo de limón y asada a la parrilla
en forma de arrachera o de churrasco –a la argentina–,
la carne humana es un manjar de lujo
en las mesas de las clases altas,
restoranes gourmet, hoteles cinco estrellas.
También se la prepara encebollada y con curry –estilo indio–
para las fiestas patrias y los banquetes
a los que asisten dignatarios, obispos, grandes inversionistas.
Los Estados Unidos –importadores de rebaños en pie–,
tienen mataderos muy desarrollados
donde el descuartizamiento se realiza en forma automática.
Utilizan hasta la recortería,
a la que agregan soya y otros ingredientes –fórmula secreta–,
y forman una masa con la que moldean hamburguesas y nuggets,
cuyas franquicias venden a las cadenas internacionales de fast food.
Es una industria eficiente y productiva
que se inspira en la escuela clásica alemana:
fabrican telas con el pelo, botones con los huesos y jabón con la grasa.
La publicidad sobre la carne humana en la televisión es sensacional.
Presentan fisiculturistas, bailarinas, artistas de cine
reconstruidas por los bisturís estéticos.
El mensaje subliminal es que la carne no sólo sirve para fornicar,
sino que contiene altos poderes nutricionales.
En los mercados populares del mundo,
se expende salada, en forma de cecina –a la mexicana– para freír,
o seca, para cocer entomatada como tasajo de caballo –a la uruguaya.
En los ganchos de las carnicerías cuelgan las piernas,
los brazos y los costillares, entre las moscas y el olor de las especias.
También se venden los ojos, las tetas, las vísceras, los testículos
cocidos de las formas más diversas y servidos como antojitos,
salpicados con cilantro, cebolla cruda bien rebanada y algo de picante,
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envueltos en pan árabe o en tortillas de maíz.
En Cuba –país tan especial– la matazón se realiza por fusilamiento,
por prurito militar y por apego a la tradición de las guerras de
independencia.
La carne es sometida a un proceso parecido al de Estados Unidos,
pero con influencia de los indios caribes (caníbales),
que adobaban sus presas con ajo de montaña, ají cachucha y culantro.
El contenido se aumenta con soya y con harina de trigo,
y se fabrica un engrudo insípido y fofo (sin envoltura)
llamado masa cárnica.
(Como la distribución está racionada,
los hambrientos han saqueado las criptas de los cementerios).
El pelo se desperdicia por falta de tecnología,
pero la grasa –si la hubiera– se aprovecha en las salsas
(“Échale salsita”, dice el son),
y los huesos, en suculentas caldosas
y en la brujería industrial, gran productora de divisas.
Los dirigentes y los jefes prefieren la carne de cañón
y la lengua estofada de poetas.
Los españoles son fanáticos de la sangre y de las vísceras,
para hacer butifarra,
y ahuman un jamón de pierna serrano
que nada tiene que envidiarle al de cerdo.
Francia es algo aparte.
Allá hornean unos racionales pasteles de seso,
extraídos de los artistas naif de Haití y los inmigrantes árabes,
cuyo olor cartesiano se percibe hasta en lo alto de la torre Eiffel,
y cenan frugalmente con buen vino de mesa.
En África, donde existen costumbres muy extrañas,
dejan pudrir la carne, y se la comen, con las manos,
mezclada con mandioca,
también en estado de putrefacción.
Los japoneses –de paladar tan exquisito–
prefieren las manos y los pies de mujer, porque,
según los exigentes consumidores,
tienen un sabor más refinado que las aletas de tiburón.
Los chinos han desarrollado una novedosa industria,
que consiste en aplicar la tortura china en forma productiva:
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cortan pedazos a los disidentes, sin matarlos,
y han invadido el mundo con esas rebanadas,
como si fueran tilapia congelada;
así, han aumentado en dos en por ciento el producto interno bruto.
Yo, que soy un tanto melindroso y tengo escrúpulos,
me he vuelto vegetariano,
y me voy con las vacas y los caballos
a ramonear la magra hierba que aún verdea en los campos.
EN EL FUEGO
Yo he visto y sé de cosas que no he dicho ni digo,
cosas tristes y a veces amargas y onerosas
golpes que los amigos nos dan como si rosas,
cosas que más parecen labor del enemigo.
Yo he visto y sé de amigos que resultaron cosas
y de cosas que hicieron la función del amigo
vi cómo el hermano se pasó al enemigo
y vi como trepaban al árbol las babosas.
Vi a los hombres errar igual que mariposas
y quemarse las alas ligeras y amorosas
en el fuego de todos sin que hubiera un testigo.
Vi mucho más, vi las heces correr hacia las fosas
de un tiempo que apestaba como un viejo mendigo
y callar los testigos verdades peligrosas.
CALDA ETÀ
La solitudine che assumo è tanto divina
che a ignorarla così tanto siamo in due:
uno nella sala da pranzo mangia il suo riso
e l’altro lava il piatto nella cucina.
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Navarro è un buon uomo che si china
e coniuga i verbi sempre in noi.
Osvaldo è colui che fronteggia Dio,
ed è una debole ombra che illumina.
A volte siamo di più, e siamo tanti
che non basta la terra per tutti coloro
che abitano questa severa solitudine.
Parlo con me, che è come dire noi,
però gli altri non intavolano un dialogo:
gli altri sono io stesso nella sua calda età.
ATONALE
Figli, indicatemi il tono,
che sono rimasto senza musica.
Sordo di me stesso, ascolto
solo lamenti e suppliche,
il rumore delle anime
e certe note stupide
che ripetono e ripetono
in un vuoto di acustica.
Ora non ascolto gli accordi
di quelle mattine fulgide,
con la sua vertigine di passeri
e strepito di ali ossidate.
Delle primavere non
ricordo le ultime risate
né il compasso delle stelle
in quelle notti uniche,
e tu, donna, che vibravi
come una chitarra pudica.
Non sento suonare le campane
il re della mia ape ludica,
né a mia madre che suonava
questa mia lira così rustica.
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Figli, indicatemi il tono,
che sono rimasto senza musica.
ANTROPOFAGIA
Guarnita con succo di limone e arrostita alla griglia
come arrachera o churrasco - alla argentina -,
la carne umana è un manicaretto di lusso
sulle tavole delle classi alte,
ristoranti esclusivi, alberghi a cinque stelle.
Si prepara anche con cipolla e curry - stile indio per le feste della patria e per i banchetti
che frequentano dignitari, arcivescovi, grandi investitori.
Gli Stati Uniti - importatori di animali vivi possiedono mattatoi molto sviluppati
dove lo squartamento si realizza in modo automatico.
Utilizzano persino le frattaglie,
alle quali aggiungono soia e altri ingredienti - formula segreta -,
e formano una pasta con la quale modellano hamburger e nuggets,
che le aziende vendono alle catene internazionali del fast food.
È un’industria efficiente e produttiva
che si ispira alla scuola classica tedesca:
fabbricano tele con i capelli, bottoni con le ossa e sapone con il grasso.
La pubblicità sulla carne umana in televisione è sensazionale.
Presentano culturisti, ballerine, attori di cinema
ricostruiti da bisturi estetici.
Il messaggio subliminale è che la carne non serve solo per fornicare,
ma contiene anche un alto potere nutrizionale.
Nei mercati popolari del mondo,
si vende salata, come prosciutto - alla messicana - per friggere,
o secca, per cuocere con il pomodoro come carne salata di cavallo - alla
uruguagia.
Nei ganci delle macellerie attaccano le gambe,
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i bracci e le costole, tra le mosche e l’odore delle specie animali.
Si vendono anche gli occhi, le mammelle, le viscere, i testicoli
cucinati nelle forme più diverse e serviti come antipasti,
saltati con cilantro, cipolla cruda ben tagliata e qualcosa di
piccante, avvolti in pane arabo o in frittate di mais.
A Cuba - paese molto speciale - l’uccisione si realizza per fucilazione,
per prurito militare e per attaccamento alla tradizione delle guerre di
indipendenza.
La carne è sottomessa a un processo simile a quello degli Stati Uniti,
però con l’influenza degli indios caraibici (cannibali),
che guarnivano le prede con aglio di montagna, peperoni piccanti e
culantro.
Il contenuto si aumenta con soia e farina di grano,
e si produce un impasto insipido e molle (senza involucro)
chiamato pasta di carne.
(Siccome la distribuzione è razionata,
gli affamati hanno saccheggiato le cripte dei cimiteri).
I capelli si disperdono per mancanza di tecnologia,
però il grasso – se ci fosse – si utilizza nelle salse
(Echale salsita, dice il son),
e le ossa, in succulenti minestroni
e nella stregoneria industriale, grande produttrice di dollari.
I dirigenti e i capi preferiscono la carne di cannone
e la lingua stufata dei poeti.
Gli spagnoli sono fanatici di sangue e viscere,
per fare salsicce,
e affumicano un prosciutto di gamba montanara
che non ha niente da invidiare a quello di maiale.
La Francia è una cosa a parte.
Là cuociono al forno alcuni pasticcini di cervello,
estratti dagli artisti naif di Haiti e dagli immigranti arabi,
il cui odore cartesiano si percepisce fino in cima alla Torre Eiffel,
e cenano frugalmente con buon vino da tavola.
In Africa, dove ci sono usanze molto strane,
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fanno imputridire la carne, e se la mangiano, con le mani,
mescolata con manioca,
anch’essa in stato di putrefazione.
I giapponesi - di palato tanto raffinato preferiscono le mani e i piedi di donna, perché,
secondo gli esigenti consumatori,
hanno un sapore più raffinato delle pinne di pescecane.
I cinesi hanno sviluppato un’industria innovativa,
che consiste nell’applicare la tortura cinese in modo produttivo:
tagliano pezzi ai dissidenti, senza ammazzarli,
e hanno invaso il mondo con queste fette di carne,
come se fossero pesci congelati:
così hanno aumentato del due per cento il prodotto interno lordo.
Io, che sono un poco schizzinoso e mi faccio scrupoli,
sono diventato vegetariano,
e me ne vado con le vacche e i cavalli
a ruminare la poca erba che ancora verdeggia nei campi.
Nota: Alcune espressioni sono intraducibili e non hanno un
corrispettivo italiano. Si tratta di termini culinari, spezie e modi di dire
cubani. Ho scelto di lasciarli nella forma originale indicandoli con un
corsivo.
NEL FUOCO
Ho visto e so cose che non ho detto né dico,
cose tristi, a volte amare e onerose
botte che gli amici danno come fossero rose,
cose che sembrano più un lavoro del nemico.
Ho visto e so di amici che si convertirono in cose
e di cose che presero il posto dell’amico,
vidi come il fratello passò al nemico
e vidi come si arrampicavano all’albero le lumache.
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Vidi gli uomini errare come farfalle
e bruciarsi le ali leggere e amorose
nel fuoco di tutti senza che ci fosse un testimone.
Vidi molto di più, vidi gli escrementi correre verso le fosse
di un tempo che puzzava come un vecchio mendicante
e verità pericolose zittire i testimoni.
Opere originali di Osvaldo Navarro (1946 – 2008)
Traduzioni di Gordiano Lupi
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Per una lettura di «salterio bianco»
di Cesare Ruffato
Di Roberto Nassi
«Se leggo un libro ed esso mi dà un tale senso di gelo in tutto il corpo
che nessun fuoco può riscaldarlo, allora so che quella è poesia. Se ho
l’impressione fisica che mi si scoperchi il cranio, allora so che quella è
poesia»1. Mi sono venute in mente queste parole della biancovestita
poetessa di Amherst, Emily Dickinson, leggendo, in un lentissimo
Maelström di risucchio, le pagine di Salterio bianco2. Per via di quel
senso di gelo che si irradiava nel mio corpo, per quel ribollimento
dentro il cranio. Forza della poesia. Solo che non era proprio uno
scoperchiamento quello che avvertivo nella testa, trascorrendo di
componimento in componimento, di parola in parola, di silenzio in
silenzio, piuttosto una progressiva intensificazione del voltaggio, una
fibrillante tensione sinaptica, una pressione bruciante sempre più
insostenibile e sempre invece, incredibilmente, sostenuta e sfiatata qua
e là in sbuffi di vapore-pensiero. Abiti della poesia. Cesare Ruffato è
ipersensibile come Emily Dickinson. Come Emily ha vestito di bianco
la propria esistenza. Una bianca eco si distilla dai versi di questo
salterio cantato in corpo e in anima, Magnificat dell’amore nel tempo
dell’assenza, salmodia intima e tesa sopravvissuta o risorta dopo che il
Dolore «fecit potentiam in brachio suo».
Colloquia con le ombre l’uomo Ruffato, nella stupefazione della
propria sopravvivenza oltre il limite assegnato dalla sorte ai suoi affetti
più cari, oltre la soglia della solitudine. Colloquia con la poesia che ha
«tentato l’impossibile» e non ha goduto «dell’insicura via / e del trionfo
innato della morte / non della fama e talora / di frammenti di gioia
altra». E tocchiamo già un termine chiave, uno di quelli più
frequentemente e intensamente ricorrenti in queste pagine: ‘altro/a’:
«gioia altra», «emozioni altre», «lagrime e sogni altri», «altra dimora»,
1 Puntello la mia memoria sulla citazione di C. IZZO, La letteratura nord-americana, Milano, Accademia, 1988, p.
449. Questo pensiero della Dickinson è riportato in una lettera di A. T. W. Higginson alla moglie scritta subito
dopo la sua prima visita ad Amherst. Cfr. EMILY DICKINSON, Letters of Emily Dickinson, a cura di M. L. Todd, New
York, The World Publishing Company, 1951, p. 265.
2
C. RUFFATO, Salterio Bianco, Milano, Mimesis, 2006. A cui si riferiscono i numeri di pagina riportati in
seguito.
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«mondo altro», «geometrie altre», «prati altri», «fascinazione altra»,
«tempo altro» ecc., sfilacci e pezze di essenza come foglie illuminate
dal sole del ricordo e, lì appresso, entro lo stesso circuito semantico,
‘oltre’ (nel suo senso incipitario, proiettivo, e anche, al contempo, di
explicit dell’al di qua, dunque ‘limite’): «oltre i fumi della mia
cinetosi / oltre il settimo cielo / oltre l’oltre eretto dell’universo / e del
tempo ove mi attenderai sulla riva / dei fiumi onomatopeici Lete e
Eunoè»; termine vettoriale puntato al luogo non-luogo
dell’indecifrabile e del ricongiungimento, regno del bianco cui l’io – la
sua parola – tende già da ‘questa’ vita «per un solo moto verticale». Il
‘bianco’, con l’ampio corteggio dei suoi nivei allotropi sinonimici,
balugina squarcia soffonde innerva ogni poesia. Non sono solo rimandi
o ritorni carichi di pregnanza simbolica bensì il polso vivo di un trobare
che, per quanto sapientemente intonato da un fine orecchio musicale e
orchestrato nelle volute dei versi, tende a rallentare in squarci di
concertato, a brividire in sillabazioni dodecafoniche in prossimità degli
eccessi di senso, dei biancori ineffabili.
Non deve trarre in inganno la copia di terminologia scientifica (dal
linguaggio medico in primis); non siamo di fronte a un compiaciuto
poeta doctus beantesi della propria cultura specialistica e sprezzante del
volgo: la poesia di Ruffato – e qui sta il segreto, il bianco della sua
genuinità, della sua onestà, della sua grandezza – è sempre innervata di
tensione conoscitiva, anzi, è tutt’uno con essa. Ma a ben vedere i
contorni netti del lessico scientifico – esemplarmente in Salterio bianco
– sottendono il rischio di un più sottile autoinganno del lettore.
L’essenziale precisione della lingua della scienza di cui la mente, fedele
compagna del cuore, si arma nel suo tentativo euristico di
attraversamento del limite e di decodifica dei geroglifici
dell’esistenza è
solo, per così dire, il primo piano di questa poesia. Dietro di esso c’è
l’abisso sfocato luminescente a cui cuore e mente tendono. Un po’
come il melo e il pero di Pascoli, netti e precisi, si stagliano sull’«alba
di perla». Dietro di essi c’è il bianco dell’ineffabile, del perturbante,
«ciò che si sottrae / nell’atto di definire l’inesprimibile» (p. 82).
Lo specillo del linguaggio scientifico taglia il velo del discorso per
attingere scintille «di trasfigurata altra verbalità» (p. 80), è il primo
termine di un contrappunto necessario, «Come silenzio e parola
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muoiono / nell’estasi d’estenuati rimandi». Rimanda a un’apice, «il più
lontano / da ogni possibile rappresentazione» (p. 24), «l’altitudo del
sacro e del mistero» (p. 68).
Né è solo il linguaggio tecnico e scientifico a fare clus il trobar del
trovatore-salmista Ruffato. La forte compattezza tematica e stilistica
del Salterio bianco è un concentrato incandescente di stilemi e modi
ruffatiani: la commistione e il livellamento linguistici, per cui accanto e
dentro l’italiano – nelle sue escursioni verticali (linguaggio
dell’intimità,
gergo tecnico scientifico, ricorrenze auliche...) e
orizzontali (arcaismi e poetismi: «desio», «enfiati», il consueto
«ove»…) – trovano spazio il latino (lingua sapientiae, che sta dietro ma
anche a lato dell’italiana in un rapporto osmotico che investe anche la
grafia e la pronuncia) il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’antico
provenzale perfino a non dire del greco, compenetrato in neologismi e
tecnicismi, matrice linguistica inesauribile («scazonto», «alfale»); la
forzatura (quasi una fusione dovuta a quell’alto voltaggio di cui si
diceva) delle diatesi verbali («frecciato», «così ti riposo», «mi
svettavi», «ti aderisce alla favola», «ci strapiomba», «residua la mia
decrepita vita», «l’inverno [...] mi circola», «per scintillarmi»),
neoformazioni e denominali («albema», «per brividirti / d’intimità», «si
slamella», «carismo», «mi discoro», «mi chimeri», «l’atmosfera
smogata») e dantismi («intuarmi», «t’incielava»), sollecitazioni
etimologiche di stampo ermetico o più propriamente luziano
(«divagare», «si procintano»), composizioni dotte («eotemporalità»,
«astroviro», «somasema»)…
Ma se risulta clus questo trobare è per intima e oggettiva necessità.
Lo stile grande, arduo, nobilmente teso del poeta scrutatore del divenire
edace e contemplatore smaniante dell’essere, ci viene detto fin dalla
prima poesia – sulla soglia, dunque, di un universo ‘altro’, della
(a)spazialità poetica, del regime verbale – «è riconducibile in realtà
all’impegno / peculiare della mente» (p. 7). Pur distinguendosene
sostanzialmente nei suoi costituenti e interne motivazioni ricorda per la
nobiltà della pronuncia e l’abnegazione di un umano titanismo i grandi
‘oscuri’ del Novecento, Eliot e Pound, il miglior fabbro. Ricorda, per lo
slancio conoscitivo, il pionierismo linguistico, l’innesto degli astratti
filosofico-scientifici, la corposità fonica e il taglio scultoreo del verso il
più grande poeta-filosofo dell’antichità, Lucrezio (ma non è il
pacificato «suavi mari magno» lo stato del poeta d’oggi che «sulla
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battigia in ascolto e sguardo / della marea» interroga «sinopia/ e
schiuma di seni e geroglifici / strani d’altra dimora», p. 45).
Naturalmente c’è Dante sempre in vista. Non potrebbe essere altrimenti
in questo viaggio della mente dalla «piana deserta» (p. 94, e si noti,
appena sopra, quel «nostro unanime euristico percorso», come il
«cammin di nostra vita» [corsivi miei]) a «l’altra riva» (p. 44, quella
evangelica del lago di Tiberiade – o mare di Galilea – da cui Gesù sale
sul monte solo a pregare, quella del fiume dell’oblio Letè, limite
dell’‘oltre’, soglia di beatidutine), nel quale una puellula languidula,
novella Beatrice alonata di bianco lunare, si pone al termine
dell’attenzione e della parola del poeta viator in mente sua e lo sollecita
e sprona coi suoi silenzi.
Viaggio3 e commedia, anzi comedìa, sono i costituenti di questa
poesia:
Ti narrerò il viaggio notturno
tra vortici nevosi nel cielo stellato
e la comedia con imboscate intralci
e adescamenti della spuria umana
felicità. (p. 52)
Ma il plurilinguismo di Ruffato, pur nutrito alla fonte primaria del
poema sacro, se ne differenzia in questo. Il plurilinguismo di Dante
copre uno spettro di escursioni verticali – lessicali e di registro –
praticamente illimitato adeguandosi alla propria materia, che all’inizio,
parafrasando l’epistola a Cangrande, è paurosa e fetida, ma alla fine è
buona, desiderabile e gradita, perché tratta del Paradiso. Nel Salterio
bianco di Ruffato i tre regni sono concentrati nel divenire umano,
tracce di essere paradisiaco («non luogo ossessivo dell’indecifrabile /
del rammemorare essenziale», p. 16) baluginano nell’al di qua ove si
trova la mente poetante, il regno del dolore – della dignità del dolore –
e squarci mnestici purgatoriali sono la quotidiana realtà di chi resta. Il
plurilinguismo stilistico ruffatiano, di conseguenza, occupa ed è
3 Come Rimbaud, il poeta veggente, dell’identificazione con l’altro, del superamento dell’oltre, Ruffato viaggia,
vele al vento, su un «bateau d'abîme» (p. 38). E, «Nel fondo del godimento avaro» (p. 74), bordeggia anche il Luzi
che parla a Giuseppina ritornata per «così cupo viaggio»: «Ti cerco hic et nunc al modo mio che sai» (p. 10) come
«Mi trovo qui a questa età che sai» (Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, v. 6, in M. Luzi, Tutte le poesie, Milano,
Garzanti, 1999, p. 19; e va notato anche lo scambio di ruolo degli attanti: in Luzi è Giuseppina defunta a ritornare
dall’amico, in Ruffato è l’io il soggetto della quête).
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compresso nella parte centrale e superiore dello spettro tonale
(escludendo il livello scatologico e carnevalesco, nel senso
bachtiniano4) perché tende ad affabulare un unico oggetto, fisso e
sfuggente: l’Ineffabile, il Sublime.
Inseguo il sogno filtro dell’anima
impronta del mio sonno che mi accosta
ad una conoscenza sublime
fonte di aderenza con l'inconscio
dell’universo e della mia integra essenza. (p. 91)
La compresenza dei tre regni nel reale trova la sua cifra retorica
principale nell’ossimoro che fonde ombra e luce pressoché in ogni
pagina («in tenebre bianche risplende» p. 20, «luce nera» pp. 34, 38,
58, 80, «benché da te la notte / prenda ancora lume» p. 46, «sogno
d’ombra luce e speranza» p. 47, «un nero / seppia soffoca le forme
bianche», «bianco splendore di luce nera» p. 88, «luce oscura» p. 94) e
si riflette iconicamente nelle immagini chiave della nebbia, del
crepuscolo e, soprattutto, dell’eclissi.
Che l’aggettivazione sia meno coloristica e impressionistica che
densa di sovrasensi allusivi lo dimostrano bene sintagmi come «male
bianco», «intimo dialogo bianco», «quiete bianca», «silenzio eburneo»,
«cereo profumo», «disperata sublimità bianca», «dolore silente
virtualmente bianco», «albo oblio», «morte bianca»5. Persino il referto
cronachistico della «nivea liseuse» «dal collo a lupetto» è virato a
significati ‘altri’ e si impregna della luce d’alba degli edenici fiumi e
della «albissima» collina
…mi attenderai sulla riva
dei fiumi onomatopeici Lete e Eunoè
per abluzioni in acqua lampra e pura
ad inalbarmi il volto patibolare
sosia del tuo attuale che sbuca
4 Ma non la lingua ipocorostica degli affetti: «fantola» (una sorta di ossimoro tonale, sia parola paradiasiaca – già
in Dante – che del sermo familiaris; del resto non è il regno dei cieli per i piccoli e i puri di cuore?) «gonfi
bagonghi»; «cucuciae»; « lallare» (che è termine medico della lingua italiana e insieme parola domestica e del
petèl latino).
5 Non sono diversi i vari « cerva bianca », «sinottica frangia bianca» ecc. e lo stesso vale per i nomi includenti il
sema della luce: «fotonia del niente assoluto», «lume di dolore» ecc.
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dal collo a lupetto della nivea liseuse
per contemplare l’albissima collina
divina dell’eden plene sguardo ed ascolto. (p. 52)
Così il viola, paramentale colore del lutto e della perdita, delle
«sparute viole / colte nel ritiro e per ricordo / compresse tra i fogli», è
anche la sinestesia labile della consolazione
ma nelle mani ritrovo aria viola
che mi sorpassa e consola perché qui
tutto è disposto con sapienza (p. 48)
La vocazione ‘compitante’ e ‘sillabante’ di questa poesia (i brividi
dodecafonici cui si accennava all’inizio) è confermata dalla raffinata
tessitura sonora. Il senso che essa ci lascia di una estrema compattezza
e quasi di reductio ad unum perfino delle vertiginose istanze del
plurilinguismo deve molto alle disseminazioni allitteranti e alla
costante riduzione fonica che conferiscono alle parole un’aura di
consustanzialità, di ‘urorigine’ comune. L’osmosi fonica allaccia,
‘sincizia’ le parole in coppia (nel pieno dell’onda ritmica come nella
tensione dell’inarcatura), si estende nel verso (specie in successione
trimembre) e dilaga in dense campiture di gravitazione sonora
un nero di seppia soffoca le forme (p. 51)
la mia senescenza lievita lievi (p. 74)
lenta di lagrime quasi siepe
del pianto. (p. 49)
io ancora qui alla finestra
finale di vita mi chiedo (p. 61)
e gemiti geroglifici inseguiti (p. 57)
sfida diafana blesa (p. 50)
sillabe di sabbia portentose
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qualche resto di nostri protoavi
fra funghi di fango fascinosi
in silenzi sconcertanti metafisici (p. 42)
armonizza gli innesti di lingue altre (peraltro mai corsivati e quindi
anche visivamente omogenei e integrati nello sfondo dell’italiano)
al vento d’un bateau d’abime
[…]
je me sombre in intimo dialogo (p. 38)
attentato ed attente (p. 65)
tensegrity scolma, ci sporgiamo (p. 39)
si impunta in paronomasie e bisticci verbali
di sostanza presenza e pregnanza (p. 23)
si spera diverso e non perverso (p. 43)
oblivione amnesie amnistie anamnesi (p. 59)
lente del mio albo oblio. (p. 94)
si fa squillante nei rintocchi della rima, non rara in repentina
successione
di gioia e dolore se non per certe
varianti di colore e di fervore (p. 59)
il tuo sguardo e il bigio della pelle
ribelle… (p. 50)
forse nemmeno voi, io e dubito poi (p. 76)
Gemme spinose nei sentieri urenti
poche gocce d'erba eutrofiche
Carmina n.6
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soavità crepuscolare seducente
negli avvolgimenti del seno. (p. 84)
ma anche circolarmente collocata, a inizio e fine del verso o della
poesia intera
in sinopsie in singolari lipotimie (p. 82)
Prenderò posto alla chiarità
[…]
in stille nella vostra eternità. (p. 83)
(a ricordarci la rilevanza della retorica del circolo e dello specchio
Al ritorno negli stupiti ideogrammi
dei tuoi occhi s’immerge l’intorno
simbolico e il finire mi è sublime. (p. 37)
e soprattutto baciata
Il cuore divaga nel fantasma
inonda i desideri del plasma (p. 71)
gli eventi della mia esistenza
a radicarli quasi in resistenza (p. 76)
presta a suggellare i componimenti (con un impressione di ‘facilità’
che mitiga la sintassi tesa e la sfida del lessico)
E pure il lume di dolore
ha del distacco il colore. (p. 86)
dell’estrema unzione nell’orizzonte
naturale d'ogni attrazione. (p. 75)
Ed ecco tutto questo contemporaneamente in atto nel testo
Mi indichi un particolare lontano
Carmina n.6
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di fonte pura mentre allento il polso
della fleboclisi unico lagrimoso
nutrimento. Mi trascino privo
mentre il sole sale e ci inombra
a protezione d'altri sensi di passione. (p. 39)
Intorno a me Loro isole eteree
proteggono quanto residua
dell’ombra del velo e del fuoco
pallido che scatta ancora qualche
verbo scintilla ascendente stella
alle loro mancate primavere. (p. 97)
Non sarà troppo da stupirsi se questi tratti, riduzione fonica,
alliterazione spinta, facilità della rima, ci ricordano, ancora una volta,
Pascoli (passato al filtro dell’atonalismo montaliano). Pascoli – sotto la
crosta bucolica e ritornellante – dà voce ai tremori della perdita,
all’inquietudine del quotidiano, al colloquio con le ombre e come il
Nostro tende alla riunificazione impossibile del perduto nido degli
affetti familiari. Per non parlare della precisione scientifica del lessico
Pascoliano (botanico e ornitologico) pendant non peregrino al
linguaggio medico e psicologico di Ruffato. E insomma non è proprio
il poeta di San Mauro il primo tra i moderni e il grande decadente della
poesia italiana?
Così i fatti di forma rimandano e anzi coincidono – come accade alla
grande poesia – a sostanzialità di contenuto.
Parola e forma sono l’unico oro del poeta volto sempre a raccogliere
la «manna del nome» (p. 85) anche quando nelle parole trova
«polvere / confusa dissoluzione / come un tradimento / del mondo sulla
pista di lancio / per l’universo» (ibidem). Anche quando la sua è
un’impotente titanica aspirazione
Se le parole mutassero in palafitte
con solida simbiosi metamorfica
ed allitterando in saliscendi
colle influenze lunari di marea
un qualche soffio di speranza
di nuova umanità per il domani
Carmina n.6
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ondando in adagi e fughe
d’una vera sinfonia universale. (p. 69)
Di più. Lo spirito del soggetto non si distingue da quello che fa
vibrare la sua voce, sicché l’io – come una parola – può dire di sé:
«All’ultimo angolo mi compita la meraviglia / del vivere sull’alone
della morte» (p. 94).
E qui davvero stiamo sfiorando il cuore e l’anima di questo Salterio
bianco. L’osmosi fonica e musicale (una musicalità solo parcamente
melodica e qua e là persino stridente) così come il livellamento della
coercizione plurilinguistica essendo specchio e figura di un’osmosi
d’anime che fonde l’io del poeta col «voi che intendo vivere» (p. 64) e
lo slarga nel noi della comunione d’amore nella «psicorealtà
immaginativa»
un rapporto sconcertante con l’ombra
del nulla. Forse solo così può
svolgersi l’osmosi sapiente tra noi
e la soffusa aerea divinità
la biotelepatia che ci lega e sopravvive
in psicorealtà immaginativa
che vi esalta e impone
in assetata umile attesa
in stratificato remaniement evolutivo
di corpi e spiriti sino all'essenza pura.
Mi rispecchio multiapparente
proiettato in voi solo intelletto
quasi sonda di fiamma
annegata d’emozione. (p. 65)
È per l’umano e amoroso miracolo di questa fusione o unione
sinciziale che la morte stessa – non più puro e oscuro ‘oltre’ ma ‘limite’
esperibile e appercepito – si trasfigura tingendosi di bianco.
Ricordo una dichiarazione di gusto di P.V. Mengaldo – allora mio
professore di storia della lingua italiana all’università di Padova.
Rimproverava Mengaldo a Stefano Protonotaro di scrivere troppo ‘con
la testa’. Ora, Cesare Ruffato non può essere se non incautamente
bollato come un poeta eccessivamente intellettuale, o meglio, mentale.
Carmina n.6
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L’abbrivio di questa poesia è addirittura elegiaco. Non solo. Lo stile di
Ruffato è lirico per surplus e implosione della vis raziocinante che,
sottoposta ad altissime temperature in ardui percorsi gnoseologici,
temprata dal sentimento inesausto, va incontro a un cambiamento
qualitativo. Il passo meditativo e ragionante diventa lirico, il gradiente
speculativo sublime (un sublime zavorrato di realtà). Ce lo aveva del
resto insegnato già Dante, il Dante stilnovista. «Donne ch’avete
intelletto d’amore» gli pronunciarono le labbra mosse come per se
stesse; ‘intelletto’ non cuore. A tutta prima sembra un ossimoro che
costringe gli eterni sfidanti cuore e mente. Ma al livello più alto la
contraddizione non si pone. Secondo la distinzione aristotelica l’anima
è triplice: vegetativa, sensitiva e ‘razionale’. Vi corrispondono tre
forme d’amore di cui l’ultima è la più nobile e grande. Cesare Ruffato
lo sa, non per tardiva imitazione ma in quanto poeta speculativo dal
forte sentire:
Il nostro muto colloquio conferisce
all’intelletto d’amore luminosità
nuova e profumo di fiori ignoti.
Per questa strada, la più ardua ed esigente (e forse l’unica possibile),
che richiede una mente ardita e un cuore puro, il ‘poeta pallido’6
Ruffato varca il confine dell’ineffabile e attinge, attraverso l’ombra del
pensiero, la percezione di una luminosità altra. I versi qui sopra
riportati continuano così:
L’oltre di noi puro che trascini
è già centro di un mondo altro
di vita che si sottrae
al pensiero umbratile
d’ogni conoscenza e divenire. (p. 40)
Perciò, sfidando i tempi pulp e splatter in cui sopravviviamo e
l’understatement e la parola stanca, lasciatemelo dire, qui, ora:
«onorate l’altissimo poeta».
6 Cfr. C. Ruffato, Il poeta pallido, Venezia, Marsilio, 2005.
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Ville(s) di Rimbaud
Di Alberto Accorsi
Vorrei proporre qualche riflessione su alcuni scritti di Arthur
Rimbaud. La sua bruciante esperienza continua a parlarci anche a
distanza di tanto tempo: ci si scotta ancora. E la ferita domanda sempre
cura, comprensione.
“Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi veggente… bisogna esser
forti, esser nati poeti, ed io mi sono riconosciuto poeta” così nella
lettera al professore di retorica Izambard del 13 Maggio 1871.
In modo più articolato nella lettera del 15 Maggio 1871 all’amico
Paul Demeny, scrive: “Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba non
è mica per colpa sua. Questo mi sembra evidente: io assisto allo
schiudersi del mio pensiero: io lo guardo l’ascolto: dò un colpo
d’archetto: la sinfonia fa le sue evoluzioni… tanti egoisti si proclamano
autori. Io dico che bisogna farsi veggente. Il poeta si fa veggente
attraverso un ragionato sregolamento di tutti i sensi (in qualche modo
spersonalizzandosi deliberatamente) perchè egli giunge all’ignoto!”
Arthur Rimbaud dunque spende tutto se stesso nel tentativo di
costruirsi poeta, un poeta che guarda al futuro, creatore di opere che
anticipino il mondo a venire. Vuole essere un veggente, attraverso la
poesia potrà arrivare alla conoscenza. Si tratterà di un sapere esoterico?
In Parade, una delle Illuminazioni, Rimbaud sembrerà suffragare
questa ipotesi: “Solo io ho la chiave di questa parata selvaggia”.
Ma nella lettera già citata a Demeny, del Maggio 1871, aveva
testimoniato la marginalità del poeta nell’insieme del processo creativo.
“Io è un altro”, appunto e la canzone è in un certo senso indipendente
dal pensiero cantato e compreso dal cantore. Così ha senso ogni
tentativo di interpretazione che si attua sulla “canzone” non sul
“cantore”. E generazioni di interpreti si avvicenderanno per trarre dai
testi rimbaudiani insegnamenti, visioni, pensieri.
Delle tre Illuminations intitolate città, due sono al plurale (Villes) e
una al singolare (Ville): perchè?
Di fronte a un Rimbaud “mistico e selvaggio” (secondo Paul
Carmina n.6
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Claudel) la natura, la vita, la storia e tutto ciò che lo circonda, Londra o
Parigi appaiono come un turbinio di immagini senza senso e occorre un
modo per ordinare e conoscere la propria realtà. I miti rivelano l’ordine
profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l’estate e
l’inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà. Assistiamo dunque
alla elaborazione di un mito?
I miti, come le parabole, e le fiabe hanno il compito di far arrivare
l’ascoltatore al mondo dei principi attraverso la parola e il
coinvolgimento emotivo. Spetterà poi alla razionalità il chiarimento
delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella
giusta luce.
Le due illuminazioni intitolate Villes sembrano solo tentativi di
cristallizzare le caratteristiche delle metropoli moderne, falliti per
eccesso, (Villes I ) o per difetto di potenza immaginativa (Villes II).
Leggiamo in Villes I:
Sono città! È per un popolo che sono sorti questi Alleghani e questi
Libani di sogno!…
Sulle piattaforme in mezzo agli abissi gli Orlandi suonano il loro
coraggio… Oltre il livellodelle più alte creste un mare turbato
dall’eterna nascita di Venere, carico di flotte canore… Cortei di Mab
in abiti rossicci, opalini, salgono dalle forre. Lassù, con le zampe nella
cascata e nei rovi, i cervi poppano Diana. Le Baccanti delle periferie
singhiozzano e la luna arde e urla. Venere entra nelle caverne dei fabbri
e degli eremiti…
“In questa ribalta tutto si recita”, ha commentato Gabriele Aldo
Bertozzi. Le immagini delle diverse mitologie (Orlandi, Venere,
Baccanti, Mab, Diana) si susseguono con un ritmo mozzafiato. Il loro
nesso logico ci sfugge. Quasi nessun elemento ci collega alla realtà.
Invece in Villes II :
L’acropoli ufficiale supera le concezioni più colossali della barbarie
modernal… Assisto a esposizioni di pittura in locali venti volte più
vasti di Hampton Court. E che pittura! Un Nabucodonosor
norvegese ha fatto costruire le scale dei ministeri… I parchi
rappresentano la natura primitiva modellata da un’arte superba. Il
quartiere alto ha parti inesplicabili… Un corto ponte conduce a una
postierla proprio sotto la cupola della Santa Cappella. Questa cupola è
Carmina n.6
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un’artistica armatura d’acciaio di circa quindicimila piedi di
diametro… Il quartiere commerciale è un anfiteatro di uno stesso
stile… qualche nababbo raro come chi va a spasso di domenica mattina
a Londra, si dirige verso una diligenza di diamanti… Il sobborgo,
elegante quanto una bella via di Parigi ha la fortuna di avere un aspetto
luminoso…
Qui al contrario un’autorevole interprete, Enid Starkie, ha creduto di
leggere la descrizione sistematica e precisa di Londra (West End,
Piccadilly).
Quasi che Rimbaud sia stato spinto da un’esigenza dialettica, dopo
la selvaggia cavalcata fantastica di Villes I a fissare sulla carta
immagini assai concrete, quasi quotidiane.
Per “L’acropole officielle” si è pensato al Crystal Palace
dell’Esposizione Universale di Londra del 1851; per quanto riguarda
l’allusione al re di Babilonia si può ricordare che l’urbanista J.Martin
aveva progettato e costruito in Londra edifici in stile babilonese.
La sintesi sembra realizzarsi proprio in Ville; è quì che il poeta
sembra esprimere la quintessenza delle sue esperienze: è in Ville che
sembra aversi la manifestazione di quel “luogo unico” di cui ha scritto,
in pagine assai acute, Cesare Pavese.
Per Pavese, il carattere della fiaba mitica è la consacrazione dei
luoghi unici… A un luogo tra tutti si dà un significato assoluto
isolandolo dal mondo. Il paragone con l’infanzia chiarisce come il
luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome
comune, universale, il prato, la selva… che nella sua indeterminatezza
evoca tutti i prati, le selve… Nel nostro caso La Città, santuario della
modernità che fatta in sostanza di meccanicità, di banalità, evoca tutte
le città future.
Seguiamo Rimbaud:
“Sono un effimero e non troppo scontento abitante di una metropoli
ritenuta moderna perchè ogni gusto conosciuto è stato eluso
nell’arredamento e nell’esterno delle case come nella pianta della città.
Qui non potreste segnalare tracce di alcun monumento di superstizione.
Morale e lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione,
finalmente! Questi milioni di persone che non hanno bisogno di
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conoscersi conducono nello stesso modo educazione, mestiere e
vecchiaia, tanto che il corso della vita deve essere parecchie volte meno
lungo di quel che una statistica folle non riscontri per i popoli del
continente. E perciò come, dalla mia finestra, vedo spettri nuovi che
rotolano attraverso lo spesso ed eterno fumo di carbone, nostra ombra
dei boschi, nostra notte d’estate, nuove Erinni, davanti al mio cottage
che è la mia patria e tutto il mio cuore poichè tutto qui assomiglia a
questo, la Morte senza pianti, nostra attiva figlia e serva, e un Amore
disperato, e un piacevole Crimine che geme nel fango della strada.
Con Ville siamo davanti all’aspetto fondamentale della metropoli in
quanto Rimbaud pone al centro del testo proprio il modo in cui è
vissuto il tempo dai milioni di abitanti della grande città: “Morale e
lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione, finalmente!
Questi milioni di persone che non hanno bisogno di conoscersi
conducono nello stesso modo educazione, mestiere e vecchiaia,
tanto che il corso della vita deve essere parecchie volte meno lungo
di quel che una statistica folle non riscontri per i popoli del
continente”. L’inquietudine e la perplessità di fronte alla vita, nelle
prime grandi città industrializzate, non poteva naturalmente essere del
solo Rimbaud. Una testimonianza molto significativa ci è stata offerta
da Friedrich Engels nel suo libro del 1845 La situazione della classe
operaia in Inghilterra. Scrivendo di Manchester egli rileva: “queste
persone di tutti i ceti e di tutte le classi… non devono forse tutti quanti
ricercare la felicità per le stesse vie e con gli stessi mezzi? Eppure si
passano davanti in fretta, come se non avessero nulla in comune…
In questa “illuminazione” pare che Rimbaud sia proprio riuscito a
intuire l’essenza della città moderna: una macchina gigantesca dove
ogni ingranaggio si trova ripetere le stesse azioni, e dove predomina
l’indifferenza.
La giornata scorre tra ore che non passano mai e, paradossalmente,
orari da rispettare in modo ferreo. È forse per quest’ultimo motivo che
il linguaggio e la morale sono ridotti ai minimi termini? “Morale e
lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione, finalmente!”
Scrive Rimbaud.
Pochi anni prima, in tutt’altro contesto, nei “Parerga e Paralipomena”
Arthur Schopenhauer polemizzava aspramente contro chi contribuiva a
Carmina n.6
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impoverire sempre di più il linguaggio e con esso il pensiero stesso:
“La genuina concisione dell’espressione consiste nel saper dire in ogni
caso soltanto ciò che è degno di essere detto. Invece non bisogna
sacrificare la chiarezza e tantomeno la grammatica alla concisione. È
una deplorevole dissennatezza indebolire l’espressione di un
pensiero… per riuscire ad adoperare qualche parola in meno. Ma
proprio questa è la tendenza alla falsa concisione che oggidì è talmente
di moda…
E ai nostri tempi, non v’è chi non sia in grado di rilevare come, nelle
grandi città, si stia assistendo al crescere dell’indifferenza, al crescere
di quella che è stata considerata la specifica povertà dei paesi ricchi, la
solitudine; e, su un piano nettamente diverso, alimentato dalle nuove
tecnologie, a un ulteriore impoverimento del linguaggio.
Ma la “profezia” di Rimbaud assume una valenza addirittura
strutturale.
Scriveva Engels nel 1845 che la società borghese, nella grande città,
dissimulava ciò di cui viveva, i quartieri operai dimore di chi
costituisce il motore della produzione industriale erano nascosti; può
capitare di non incontrare operai in città; operai che nelle industrie che
stavano diffondendosi, venivano a svolgere funzioni complementari per
la sempre più accentuata divisione del lavoro; ciò costituirà, tra l’altro,
la base materiale per il formarsi e per lo sviluppo della solidarietà e
della cosiddetta “coscienza di classe”.
Oggi, per effetto della rivoluzione informatica, l’organizzazione del
lavoro nei moderni centri di produzione è tale da chiudere i lavoratori
in una monade che è la produttività individuale isolandoli, tramite la
competizione, dagli altri lavoratori.
Così oggi l’essenza della nostra società, perlomeno di quella
cosiddetta dei “due terzi”, non è più nascosta. Essa si presenta in modo
evidente nella vita quotidiana della città, soprattutto in quelli che sono
stati definiti “non luoghi”. “Questi milioni di persone che non hanno
bisogno di conoscersi conducono nello stesso modo educazione,
mestiere e vecchiaia, tanto che il corso della vita deve essere parecchie
volte meno lungo di quel…” in termini hegeliani potremmo dire che
essenza ed esistenza trovano, finalmente, la loro conciliazione.
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Di fronte a questa prospettiva per Rimbaud non c’è che la fuga…
da Una stagione all’inferno:
“L’astuzia è lasciare questo continente, dove la follia va in giro per
fornire ostaggi a quei miserabili. Si accendano le città nella sera,
abbandono l’Europa… viaggeremo, andremo a caccia nei deserti,
dormiremo sui selciati delle città sconosciute, senza pensieri, senza
pene. Eccomi sulla spiaggia armoricana. Le città si accendono nella
sera. La mia giornata è fatta; io lascio l’Europa. L’aria marina mi
brucerà i polmoni; i climi perduti mi abbronzeranno. Nuotare, pestare
l’erba, cacciare, fumare soprattutto; bere liquori forti come metallo
bollente, come facevano quei cari antenati intorno ai fuochi. Quando
andremo, oltre le spiagge e i monti, a salutare la nascita del nuovo
lavoro, la nuova saggezza, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della
superstizione, ad adorare - i primi! - Natale sulla terra!”
Ma la delusione non mancherà:
dal Rapporto sull’Ogaden, 10 Dicembre 1883: “L’occupazione
giornaliera è quella di andare ad accovacciarsi a gruppi sotto gli
alberi… e, armi alla mano, deliberare indefinitamente sui loro vari
interessi di pastori. A parte le sedute, il pattugliamento a cavallo
durante l’abbeveraggio e le razzie presso i loro vicini, sono
completamente inattivi. Ai bambini e alle donne è lasciato il compito
del bestiame, della preparazione degli utensili domestici, della
costruzione delle capanne, dell’allestimento delle carovane”.
E l’alternativa stessa era destinata a svanire. Ancora da Una stagione
all’inferno:
“Conosco ancora la natura? Mi conosco? - Niente più parole.
Seppellisco i morti nel mio ventre. Grida, tamburo, danza, danza,
danza, danza! Io non vedo neppure l’ora in cui, sbarcati i bianchi, io
cadrò nel nulla. Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!”
E poi…
“I bianchi sbarcano. Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo,
abbigliarsi, lavorare. Ho ricevuto al cuore il colpo di grazia. Ah! io non
l’avevo previsto!”
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L’uomo “dalle suole di vento” in realtà l’aveva previsto forse dal
giorno stesso in cui si era messo in cammino e aveva deciso di provare
a vivere mille vite spese tutte nel tentativo di dare all’esistenza un
senso inaudito.
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EDGAR ALLAN POE
Il diavolo dentro
Di Fabrizio Manini
Edgar Poe (Boston 1809 – Baltimora 1849) è figlio di attori
girovaghi, in un’America in perenne fermento, scossa dalle guerre e in
cerca di una propria identità istituzionale e sociale. Impara da subito
cosa siano realtà e illusione, inscindibilmente unite fra loro a
un’infanzia fatta di disagi, ristrettezze, ribellione mai sopita e istinto da
gran vagabondo. Perde il padre dopo pochi mesi, la madre a due anni;
alcuni giorni dopo il teatro di Richmond dove recitava la compagnia
viene distrutto dalle fiamme. La troupe affida il piccolo Edgar alla
famiglia Allan, da cui prenderà il secondo cognome in segno di
ringraziamento per i genitori adottivi. Il padre non è mai stato gentile
con Edgar, al contrario la madre, che non può avere figli, è
assolutamente troppo presente, troppo soffocante, troppo permissiva,
troppo arrendevole, troppo indulgente, troppo tollerante e pronta a
perdonare tutto. Gli Allan sono una famiglia di ricchi commercianti e
nel 1815, all’indomani della sconfitta di Napoleone, si trasferiscono in
Inghilterra per rilanciare la loro attività seriamente compromessa dalla
seconda guerra d’indipendenza americana e dal blocco navale inglese.
Qui Edgar viene sballottato fra parenti, scuole, collegi, tutti di
ispirazione profondamente religiosa intrisa da un’opprimente mentalità
puritana. Tuttavia il giovane rimane favorevolmente colpito dal
villaggio di Stoke Newington dove “si levava una folla di alberi
giganteschi e nodosi e dove tutte le case apparivano eccessivamente
vecchie”. Gli antichi borghi misteriosi, le abitazioni decrepite, le
cantine umide, i corridoi oscuri, le foreste impenetrabili, la percezione
di presenze non umane sono lo spunto esperienziale che eccita la
fantasia di un bambino pauroso. Il gusto del macabro e
l’interiorizzazione di questi luoghi costituiscono il punto di partenza a
cui bisogna guardare per capire appieno le componenti della sua opera
e le ambientazioni gotiche e orrorifiche dei suoi racconti.
Nel 1920 la famiglia Allan torna in America perché gli affari non
vanno secondo le loro previsioni. Edgar frequenta la English Classical
School ed è l’inizio di una lunghissima serie di infatuazioni ed
Carmina n.6
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esaltazioni erotiche che si susseguiranno e si accavalleranno
caoticamente e tragicamente per tutta la vita. John Allan iscrive il figlio
all’università della Virginia, ma qui Edgar si dà al gioco d’azzardo,
all’alcool, all’oppio, al laudano, alle donne e ai duelli. Vuole
primeggiare, vuole stupire, vuole dimostrare, cerca ammirazione,
prende senza pagare, contrae numerosi debiti, non salda i creditori. Nel
1827 un violentissimo scontro verbale con il padre lo porta ad
abbandonare sdegnosamente la casa degli Allan e l’arricchimento del
deprecabile mondo borghese. La madre riesce a fargli avere un po’ di
denaro, ma per qualche anno la vita di Edgar sarà il baratro. In questo
periodo pubblica il quaderno Tamerlano e altre poesie scritte da un
bostoniano e inizia la stesura del poema Al Aaraaf. Nel 1829 muore la
madre adottiva e questo segna un riavvicinamento fra lui e il padre
John Allan che gli darà del denaro e alcune lettere di raccomandazione
per entrare nell’accademia militare di West Point. Durante l’attesa
necessaria per il disbrigo delle pratiche ministeriali va a vivere a
Baltimora presso la zia Maria Clemm; qui ritrova il fratello Henry
William, perso da piccolo, e conosce la cuginetta Virginia. È uno dei
pochi momenti tranquilli della sua breve vita; la sorte gli sorride anche
in campo letterario in quanto Al Aaraaf viene favorevolmente recensito
dal critico John Neale e pubblicato sulla Gazzetta Letteraria di Boston.
La vita dentro l’accademia non è affatto ciò che Edgar credeva e
sperava: la mancanza cronica di denaro e la vita dispendiosa che deve
condurre per rimanere alla pari dei compagni più ricchi lo costringono
a contrarre nuovi debiti che il signor Allan si rifiuta di pagare.
Oltretutto quest’ultimo si è risposato ed è finalmente in attesa di un
erede legittimo. Non potendo più contare sull’eredità di Allan i rapporti
fra i due si interrompono definitivamente. Nel 1831 una serie di
intemperanze lo portano a essere espulso con disonore da West Point,
ma il giovane Edgar non se ne cura più di tanto e torna a Baltimora
dalla zia Clemm dalla quale non si separerà più. La zia è stata
probabilmente la figura più importante di tutta la sua vita: riuscirà
infatti a dare all’irruento scrittore quell’affetto materno di cui il giovane
sente inconsciamente il bisogno e lo aiuterà ad affrontare, e talvolta a
superare, le sempre più numerose crisi materiali e spirituali.
Nel 1833 Edgar vince il concorso del Saturday Visiter di Baltimora
col racconto Manoscritto trovato in una bottiglia. Il critico Kennedy,
membro della giuria, lo prende in simpatia e lo stesso anno lo fa
Carmina n.6
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assumere presso il Literary Messenger di Richmond dove il direttore
Thomas White lo impiega come redattore. Poe è apparentemente
soddisfatto e si dedica al lavoro con impegno, ma dopo pochi mesi in
una lettera al Kennedy scrive che “sono in uno stato veramente pietoso,
soffro di una depressione mentale come non ne ho mai provate, ho
lottato invano contro la malinconia, sono in uno stato miserevole e non
so perché”. Poe inizia a bere disinteressandosi del lavoro e per questo
White lo licenzia. Dietro intercessione di Kennedy viene assunto di
nuovo e questa volta lavorando duro riesce ad incrementare la tiratura
del giornale e anche a essere promosso redattore capo. Nel 1836 sposa
la cuginetta Virginia, ma l’inizio della costruzione di una famiglia non è
la cura per il suo male oscuro. La malinconia e la sensazione di
inadeguatezza unite all’abuso di alcool e di stupefacenti lo portano a
perdere definitivamente il lavoro di redattore. Vive un po’ a New York,
dove pubblica il romanzo Le avventure di Arthur Gordon Pym, e un po’
a Filafelfia, dove collabora al Gentleman’s Magazine che gli pubblica
La rovina della casa degli Usher, William Wilson e Morella. Poe, però,
continua a sentirsi dilaniato dal dentro, si vede come un incompreso, si
percepisce come un perseguitato; non riesce a mantenere un lavoro, i
tentativi di risollevarsi falliscono miseramente, la moglie Virginia si
ammala di tisi. Poe torna a New York e inaspettata arriva la svolta:
l’Evening Mirror il 29 gennaio 1845 pubblica la poesia Il corvo. È il
trionfo. Il pubblico rimane sconvolto da quella poesia nera così insolita,
così angosciosa, così morbosa. Il successo letterario e quello mondano
sono immediati e immensi. Poe relega la moglie Virginia a Fordham in
campagna e inizia a viaggiare in lungo e in largo per tutti gli Stati
Uniti; non c’è un salotto in cui non sia presente, ma la tragedia
incombe. Usa tutti i risparmi per comprare il Broadway Journal di New
York, ma è impossibilitato a proseguire le pubblicazioni per cui perde
sia la testata sia il denaro investito. Nel 1846 torna a Fordham dalla zia
Clemm e dalla moglie Virginia, ma quest’ultima muore l’anno
successivo. In memoria della moglie Poe scrive la dolente Ulalume.
Lascia nuovamente Fordham e vive altre avventure con altre donne, ma
è tutto senza importanza; il ricorso ossessivo all’alcool gli causa una
crisi di delirium tremens che lo porta a tentare due volte il suicidio.
Pochi mesi prima di morire, nel luglio del 1849, ritrova una sua vecchia
fiamma, Elmira Royster vedova Shelton, e insieme decidono di
convolare a nozze il 17 ottobre dello stesso anno. Poe vuole che al
Carmina n.6
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matrimonio sia presente anche la zia Clemm, per cui il 27 settembre
parte alla volta di Fordham per prenderla, ma non ci arriverà mai. Il 3
ottobre viene ritrovato moribondo in Hight Street presso Baltimora;
ricoverato in fin di vita al Washington Hospital muore il 7 ottobre e
viene sepolto nel piccolo cimitero presbiteriano della città.
Poe è senza dubbio il padre della narrativa di genere, del racconto
nero, tenebroso, caratterizzato da tinte fosche e tematiche fra il
misterioso, il lugubre, l’irrazionale e il soprannaturale. L’opera di Poe
comprende settanta racconti, il romanzo Le avventure di Arthur Gordon
Pym, circa cinquanta poesie (una su tutte Il corvo), almeno ottocento
pagine di articoli critici, un libro di filosofia intitolato Eureka, gli scritti
Marginalia e Suggestions che sono pensieri e annotazioni di vario
argomento, un abbozzo di dramma intitolato Politian, un manuale di
conchigliologia quasi del tutto plagiato.
Poesia, narrativa e critica sono i tre interessi principali che Poe ha
coltivato durante la sua tragica vita; sono i tre aspetti della sua arte che
si mescolano in un reciproco scambio di temi che rendono la sua opera
apparentemente frammentaria e discontinua. Ma è alla narrativa che
intendiamo rivolgere maggiormente la nostra attenzione. Con il titolo
generico di Racconti straordinari si indicano tutti i racconti che Poe
scrisse fra il 1832 e il 1849. Le uniche raccolte curate dall’autore sono i
Racconti del grottesco e dell’arabesco del 1840 e i Racconti del 1845,
entrambe tradotte in francese da Baudelaire. Nell’edizione postuma,
nota col nome di Buckner Library Edition i racconti vengono suddivisi
in tre sezioni: Racconti fantastici, Racconti vari, Racconti umoristici.
RACCONTI FANTASTICI. “La morte trionfava nella sua voce” ha scritto
Mallarmé di Edgar Allan Poe; e nei racconti fantastici è proprio la
morte con il suo funebre corteo (seppellimenti prematuri,
sopravvivenza, vampirismo femminile, passaggio della vita da un
essere all’altro) a costituire il tema di fondo.
• Curiosità e paura sono gli strumenti di cui l’autore si serve per
variare e perfezionare quel tema che nel racconto La maschera della
morte rossa (1842) assurge addirittura a simbolo. Per sfuggire alla
peste rossa il principe Prospero si è rinchiuso con i suoi amici in
un’abbazia fortificata. L’allegra brigata passa il tempo tra feste e balli
mascherati, ma durante l’orgia più fastosa un ospite sconosciuto circola
Carmina n.6
67
nelle sale in abbigliamento di pessimo gusto. La sua maschera
rappresenta il volto di un morto e l’ampio sudario che gli fa da
mantello è macchiato di sangue. Prospero dà ordine di arrestarlo, ma
poiché nessuno osa obbedirgli si lancia egli stesso all’inseguimento
dell’intruso brandendo un pugnale. Ma quando sta per essere colpito lo
sconosciuto si volta a guardarlo fisso e il principe Prospero cade a terra
fulminato. A quel punto gli ospiti si gettano furiosamente sull’intruso e
gli strappano maschera e sudario. Fra il terrore generale si accorgono
che sotto non c’è niente. È la Morte Rossa.
• Nella serie di racconti che portano per titolo nomi di donna il
problema della morte appare sotto vari aspetti: ad esempio il passaggio
della vita da una persona all’altra in Morella (1835), in cui una sposa
mal amata dal marito rivive nella figlia che dà alla luce morendo, e in
Ligea (1838); la bella Ligea dai capelli corvini muore dopo
un’estenuante lotta contro la morte. Alcuni anni dopo il marito sposa la
bionda Lady Rowena di Tremaine, ma il ricordo di Ligea è sempre in
fondo al suo cuore ed egli non riesce ad amare la bionda consorte. Ben
presto anche Rowena si ammala. Una sera, nei sogni che gli procura
l’oppio, l’uomo vede una mano nascere dal nulla e versare nel bicchiere
di Rowena un misterioso liquido. La donna ne beve e muore
immediatamente, ma nel cuore della notte avviene un evento
straordinario: la morta si alza e cammina; sembra molto più alta e in
effetti lo è; quando si toglie dalla testa il sudario non sono i biondi
capelli di Rowena che appaiono all’uomo, ma quelli neri di Ligea.
Sotterramento prematuro e feticismo costituiscono invece il tema di
Berenice (1835). Egeo è ossessionato dai denti della cugina Berenice,
sua promessa sposa. Quando quest’ultima muore per un attacco di
epilessia viene sepolta nei sotterranei del castello. Egeo, in preda al
sonnambulismo, va a dissotterrarla e le strappa “i trentadue minuscoli e
bellissimi oggetti bianchi”. Solo più tardi si scoprirà che Berenice non
era morta, ma era caduta in catalessi.
• Lo stesso tema si ritrova ne La rovina della casa degli Usher
(1839). Roderick e sua sorella Madeline, ultimi discendenti della
famiglia degli Usher, vivono nella villa in rovina ereditata dagli
antenati, in una campagna da incubo isolata e nebbiosa, ai bordi di uno
stagno nero e sempre immobile. Roderick è nevrotico e paranoico,
sente con chiarezza lancinante anche i più piccoli rumori; Madeline
soffre spesso di catalessi. Alla sua presunta morte la fanciulla viene
Carmina n.6
68
sepolta nei sotterranei della villa. Una notte, durante una tempesta
indicibile, un amico di Roderick, chiamato da quest’ultimo a fargli
compagnia, sta leggendo un libro ad alta voce. All’improvviso dal
sotterraneo sale un rumore spaventoso accompagnato da grida
agghiaccianti. Si spalanca la porta della stanza e appare Madeline
“avvolta nel sudario; i suoi candidi panni apparivano insanguinati e su
tutta la sua persona si scorgevano le tracce manifeste di una terribile
lotta”. La fanciulla avanza vacillando e si abbatte sul fratello; i due
cadono a terra morti. L’ospite fugge in preda al terrore appena in tempo
perché la casa, strettamente legata da misteriosi vincoli alla dinastia
degli Usher e alla vita dei suoi occupanti, crolla e viene inghiottita dalle
nere acque dello stagno.
• Il racconto William Wilson (1840) è eminentemente autobiografico.
Un giovane malvagio viene perseguitato per tutta la vita da un sosia
buono che non è altri che la sua coscienza. Esasperato da questa
persecuzione William Wilson cattivo uccide in duello William Wilson
buono. Il morente, poco prima di soccombere, mormore queste parole:
“Tu hai vinto e io muoio, ma d’ora in poi anche tu sei morto… nella
mia morte vedi, per mezzo di questa immagine che è la tua propria,
come hai completamente assassinato te stesso”.
• Il gatto nero (1843) è il racconto che più colpì la fervida fantasia di
Baudelaire e dei letterati francesi. Per inciso il locale di cabaret che
sarà aperto da Rodolphe Salis a Montmartre nel 1881 si chiamerà
infatti “Le chat noir”. La narrazione inizia con un uomo perseguitato da
un gatto nero; l’uomo amava follemente quel gatto, ma durante una
sbronza lo ha accecato. Non riuscendo più a sopportare l’odio
dell’animale l’uomo lo impicca. Ma poi si pente del suo gesto e,
incontrato per strada un altro gatto nero come il primo e come lui senza
un occhio, lo prende con sé e lo porta a casa. Ma anche questo gatto
prova per lui un odio istintivo. Un giorno l’uomo scende in cantina con
il gatto e con la moglie, ma il gatto lo fa cadere. L’uomo, preso da furia
omicida, tenta di colpirlo con una scure, ma è la moglie, intervenuta per
difendere la bestiola, a ricevere il fendente. L’uomo mura il cadavere
della donna in cantina e corre a cercare il gatto per ucciderlo., ma non
lo trova da nessuna parte. Passano alcuni giorni e la polizia si presenta
a casa dell’uomo in cerca della donna scomparsa. L’uomo è tanto sicuro
di sé da schernire gli agenti chiedendo loro perché non abbattono quel
solidissimo muro della cantina e picchia con i pugni sulla parete appena
Carmina n.6
69
eretta. Immediatamente si leva un orribile gemito. Gli agenti
demoliscono il muro e scoprono il cadavere; sulla sua testa c’è il
terribile gatto.
• Uno dei racconti più noti di Poe è Il pozzo e il pendolo (1842)
dove si narra le terribili torture fisiche e morali di un detenuto
dell’Inquisizione spagnola salvato in extremis dall’arrivo delle truppe
francesi. Seguono poi Lo scarabeo d’oro (1843) che racconta della
scoperta di un tesoro grazie alla decifrazione di una complicata mappa
trovata sulla spiaggia. Il Manoscritto trovato in una bottiglia (1833) è
la storia di un naufragio, il racconto che fece vincere a Poe i cinquanta
dollari del premio del Saturday Visiter. Metzengerstein (1832)
presenta il caso di reincarnazione di un antico cavaliere nel suo
cavallo dipinto su una tappezzeria della casa del discendente del suo
uccisore; il diabolico cavallo trascinerà nelle fiamme del castello il
vizioso Metzengerstein.
• Completano i Racconti Fantastici: Eleonora (1841), Il demone
della perversità (1845), Il barile di Amontillado (1846), Rivelazione
mesmerica (1844), La verità sul caso Valdemar (1845), Una discesa
nel Maelström (1841), L’appuntamento (1834 e 1845), Il cuore
rivelatore (1843), Una storia delle Ragged Mountains (1844), La
cassa oblunga (1844), L’uomo della folla (1840), Re Peste (1835) e Il
ritratto ovale (1842).
RACCONTI VARI. In questa categoria hanno grande importanza storica
quelli a carattere poliziesco che successivamente sfoceranno, a opera di
altri autori come Doyle (Sherlock Holmes), Wright (Philo Vance),
Chesterton (Padre Brown), Agatha Christie (Hercule Poirot), Biggers
(Charlie Chan), Chandler (Philip Marlowe), Gardner (Perry Mason),
Stout (Nero Wolfe), Simenon (Jules Maigret), nel romanzo
investigativo. Da parte sua Poe è il precursore di tutti questi scrittori,
essendo stato il primo ad aver inventato la figura del detective, nel suo
caso il cavaliere Auguste Dupin.
• Nel racconto Gli assassinii della Rue Morgue (1841), il brillante
investigatore-pensatore Dupin, risolve il caso di due donne trovate
barbaramente massacrate in una stanza chiusa dall’interno. Le indagini
della polizia segnano il passo, ma per fortuna interviene Dupin che
rileva un fatto apparentemente insignificante, e cioè che il delitto è
troppo feroce per poter essere stato commesso da un essere umano. A
Carmina n.6
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questo si accompagnano altri indizi insoliti, come la forza
straordinaria dell’assassino, i peli ritrovati nella mano di una delle
vittime, i versi incomprensibili che i vicini hanno sentito durante
l’aggressione. Per chiarire il caso Dupin fa pubblicare su un giornale
un annuncio: “Trovato al Bois de Boulogne un orangutang fulvo, il
proprietario può riaverlo rivolgendosi a Dupin”. Qui scatta la trappola.
Il proprietario della bestia è un marinaio maltese che si presenta
all’indirizzo indicato; il finto arresto di un innocente è lo stratagemma
del cavaliere per forzare la mano al colpevole. Il marinaio non può che
confessare, di fronte alle incalzanti contestazioni dell’investigatore,
che l’orribile delitto è stato commesso proprio dal suo orangutang.
• Il mistero di Marie Roget (1842) è la trasposizione a Parigi di un
caso realmente avvenuto a New York: l’assassinio di una giovane
donna di nome Mary Rogers che la polizia non riusci mai a chiarire.
Dupin, riflettendo sulle testimonianze riportate dai giornali, trova la
soluzione. Il racconto è una sorta di lungo saggio che rappresenta un
noioso quanto abile esercizio di ragionamento.
• La lettera rubata (1845) è il miglior racconto poliziesco di Poe.
Una lettera compromettente è stata rubata a una dama della famiglia
reale da un ministro intrigante. La casa del ministro è stata perquisita
più che accuratamente, ma della lettera nessuna traccia. Il prefetto,
disperato, ricorre all’aiuto di Dupin. L’investigatore si reca in visita
dal ministro e, approfittando della mmomentanea disattenzione
dell’ospite attirato alla finestra da uno sparo che è rimbombato in
strada (trucco precedentemente organizzato dallo stesso Dupin), impadronisce della lettera che era ben in vista in un portalettere appeso
sopra il caminetto.
• Anche Sei stato tu (1844) può essere in parte considerato un
racconto polizesco, anzi, il capostipite del giallo umoristico; il “vecchio
Carletto”, simpatico e gioviale amicone di tutti, ha ucciso il signor
Shuttleworthy per sottrargli un’ingente somma di denaro. Per sviare le
indagini, ha costruito una sfilza di prove contro il nipote dell’ucciso,
che viene arrestato e condannato a morte. Ma davanti al cadavere della
sua vittima che gli viene recapitato in una cassa di vino durante un
festoso pranzo, Carletto confessa la sua colpa e muore di terrore.
• Seguono poi: Quattro bestie in una (1836), Il seppellimento troppo affrettato (1844), La sfinge (1846), Il dominio di Arnheim (1847),
Carmina n.6
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La villa di Landor e Hop Frog (1849), Il giocatore di scacchi di
Mælzel (1836), nel quale Poe dà una spiegazione razionale del celebre
automa che gioca a scacchi.
RACCONTI UMORISTICI. II New York Sun del 13 aprile 1844 pubblicò in
prima pagina la sbalorditiva notizia che Monck Mason aveva
attraversato in tre giorni l’Atlantico sul dirigibile Victoria. La gente
fece a pugni per riuscire a conquistare una copia del giornale, poi
assediò a lungo la redazione per avere ulteriori notizie. Ma era tutto
falso, una clamorosa montatura giornalistica passata alla storia sotto il
nome di La frottola del pallone. L’autore del brillante scherzo era
Edgar Allan Poe, che segnava in modo tanto originale il suo ritorno a
New York.
• Uno dei più noti Racconti umoristici è senza dubbio
L’impareggiabile avventura di un certo Hans Pfaall (1835). Il
personaggio del titolo, un ex accomodatore di soffietti, è misteriosamente scomparso da Rotterdam. Ricompare dopo alcuni anni,
piovendo letteralmente dal cielo a bordo di un pallone di sua costruzione, getta ai piedi del borgomastro della citta una lettera in cui fa un
resoconto accurato della sua “impareggiabile avventura” (il viaggio
sulla luna) e poi risale nuovamente in cielo. In cambio di quella
relazione di grande valore scientifico chiede il condono dei delitti che
ha commesso prima di lasciare Rotterdam nelle persone dei suoi feroci
e implacabili creditori. Ma non ritornerà mai a prendere la risposta.
• Non scommettete la testa col diavolo (1841) ha ispirato a Fellini il
suo episodio del film ‘Tre passi nel delirio’. Dammit è uno
scommettitore inveterato. Non passa giorno senza che provochi gli
amici con i suoi “scommetto”. “Scommetto la testa col diavolo” urla
un giorno all’amico che mette in dubbio la sua capacità di saltare un
cancetto girevole che impedisce l’ingresso a un ponte. Uno strano
vecchietto zoppo, rintanato nell’oscurità di un angolo, si affretta ad
accettare la scommessa. Dammit spicca uno splendido balzo, si libra
in aria ben oltre l’ostacolo, ma ricade violentemente all’indietro. Il
vecchietto si china su di lui, raccoglie frettolosamente qualcosa e fugge
via. Quando l’amico-narratore arriva vicino a Dammit, si accorge che
lo scommettitore è senza testa: gliela ha tranciata di netto un’invisibile
sbarra di ferro, affilata dal tempo, infissa a mezza altezza; e il
vecchietto-diavolo se ne è andato con la sua posta.
Carmina n.6
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• Negli altri racconti c’è maggior spazio per l’umorismo (sempre
piuttosto macabro) di Poe: ad esempio Il diavolo nel campanile
(1839), e soprattutto Il sistema del dottor Catrame e del dottor Piuma
(1845) che descrive un manicomio in cui le parti sono invertite: sono i
matti a fare da medici e i medici a far da pazienti.
• Altri racconti sono: Il duca de l’Omelette, Storiella
Gerosolimitana, Bon Bon e Perdita di fiato (1832); Celebrità (1837),
Come scrivere un articolo alla Blackwood (1838) e Un caso
imbarazzante (1838), L’uomo finito (1839), Perche il francesino porta
il braccio al collo (1840) e L’uomo d'affari (1840), Tre domeniche in
una settimana (1841), La truffa considerata come una delle scienze
esatte (1843), L’angelo del bizzarro (1844) e Gli occhiali ovvero
l’amore a prima vista (1844), Quattro chiacchiere con una mummia
(1845), Il 1002° racconto di Sheherazade (1845), Vita letteraria di
Thingum Bob (1845), Von Kempelen e la sua scoperta (1849), X-atura
d’un articolo (1849), Mellonta Tauta (1849), Mistificazione (1837).
Riferimenti: AA.VV., I Giganti n° 22, Edgar A. Poe, Mondadori.
Carmina n.6
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RECENSIONI
Herbarium mysticum – Clausole medievali
Di Gianfranco Franchi
Non stupisca la pubblicazione, nel 2007, di queste “clausole
medievali”: rivisitazione sensibile e accorta d’un passaggio, quello dal
medioevo all’umanesimo, fondante per la cultura mediterranea e per la
letteratura italiana. Non stupisca perché quello era un tempo in cui le
letterature circolavano (male, ma liberamente) al di là dei confini dei
regni e degli imperi, per suggestioni romanze e quindi, diremmo oggi,
europee occidentali; tornando all’etimo, ricordiamo: romanze e cioè
neolatine, Romane. Tanto che i chierici del nostro nuovo medioevo
contemporaneo, avventurandosi nella c.d. “Storia della Letteratura
Italiana”, scopriranno non poche difformità e stravaganze nella storia
della nostra letteratura dell’undicesimo e dodicesimo secolo, a partire
dalla compresenza di diverse lingue. Confusioni che soltanto lo Stato
Moderno e il suo imponente apparato propagandista, menzogna
moloch, ha saputo risolvere forzando la mano e riscrivendo il passato,
assicurando che era italiano chi non sapeva d’esserlo, perché “italia”
altro non era che una nostalgia Romana dei letterati, un ormai
splendido “non luogo”. Ma questa è un’altra storia, ne riparleremo.
Non stupisca la scelta, dicevo, di pubblicare “clausole medievali”
perché l’autrice si trova a vivere in una delle più antiche aree romanze,
perdute oggi e destinate a combattere eroicamente per tenere viva la
coscienza di sé, della propria storia e delle proprie radici, a dispetto
della giovane, viva, plurietnica e forte ondata slava del sud. Vlada
Acquavita è istriana: mi spingo, per ragioni di sangue, a leggere il
significato della parola “istriana”. Per me significa né italiana né croata,
significa cittadina d’una terra d’area in generale latina, quindi romanza,
caratterizzata da una popolazione costiera un tempo a maggioranza
assoluta italiana, e da una popolazione rurale un tempo a maggioranza
assoluta slovena o croata: tutte governate, tendenzialmente e
storicamente, da Venezia e dall’Austria, negli ultimi sette secoli. Con
Carmina n.6
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tolleranza e intelligenza. Sino a circa cento anni fa, quando è
sopraggiunta la menzogna dello Stato Moderno, il delirio delle macronazioni, la confusione del centralismo, la massificazione, l’ideologia
assassina alfa e quella beta.
Per me “istriana” significa cittadina delle patrie lettere italiane,
perché non ho dimenticato la storia. E non m’illudono e non
m’accecano i favolosi glagolitici che periodicamente spacciano un
passato inesistente per storia.
Non stupisca la scelta, ribadisco, perché tra i circa 30mila rimasti,
dall’esodo dei 300mila istriani, fiumani e dalmati, è ancora viva la
coscienza della storia, del sangue, della terra, del passato. È vivo
nuovamente quel non-luogo chiamato Italia, fantasma di Petrarca e
Dante. Loro hanno avuto il privilegio di ritornare prima di noi nel
medioevo, e dal futuro comunicano.
Comunicano concetti chiari. Si chiamano nostalgia, malinconia,
amarezza, rimpianto; si chiamano desiderio di ricordare – come
viandanti d’un libro di Bradbury – e di tenere vive certe lezioni. Perché
magari tra trecento, quattrocento anni gli europei avranno imparato la
lezione, e si potrà rinascere.
Medioevo, futuro. Da lì Vlada Acquavita nomina, interpola e
interiorizza Valery, Dino Campana, Francesco d’Assisi, Cielo
d’Alcamo, il Cantico dei Cantici, Arnaut Daniel, Bernardo di
Chiaravalle, avanzando sulle tracce del sacro nei paesaggi istriani, per
misteriose rovine e selvatica natura. Castelli, chiese e case del passato
sono spettri, “immagini infrante”, nessun restauro e nessun rinnovo. La
nuova architettura è una negazione di Roma, Venezia, Austria. È altro, è
storia nuova. Vlada cerca quel luogo ineffabile (attenzione) dove la
parola “affoga nel silenzio”, in cerca delle tracce del sacro logorato
dalla quotidianità. L’allegoria mi sembra chiara, la risposta degli Stati
altrettanto.
Vlada è tornata nel medioevo e sa che almeno le piante – come certi
libri – non si sradicano mai del tutto. Ecco l’erbario mistico d’una
poetessa di lingua italiana – ahi lingua solo letteraria, patrimonio vero
di noi pochi e di nessun altro – nuovo Deus e(s)t Amor, nuova
discendenza petrarchesca e trobadorica, nuova testimonianza di vitalità
di un popolo che qualcuno preferisce credere perduto. Non cercate in
questi versi modernità o contemporaneità: troverete soltanto passato
Carmina n.6
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remoto e futuro anteriore, come in ogni visione mistica.
C’è una rosa avvizzita nella vigna, dimentica delle radici; e c’è chi
maledice il suo esilio. C’è un bestiario che s’addentra in casa come
demone meridiano, disarmato con la nuda voce e la protezione della
Madonna. C’è quell’antica luce preziosa e casta, e un passaggio
improvviso per traduzione d’Abelardo e Eloisa, dell’amore riunito in
Cristo e per Cristo. Ci sono canti soavi che giungono da oltremare, e da
lontano veleggia un sogno d’amore: rosa bianca sprofonda nel sogno.
Ci sono le prime attestazioni del volgare nel territorio di Umago, ci
sono leggende apocrife e rivisitazioni. Commentario e note per chi
vuole approfondire.
Capire è un po’ più complesso, mi rammarica ammettere che soltanto
chi ha sangue giuliano, istriano, fiumano potrà capire. In Italia – in
questa stupenda cartina geografica disegnata, in centoquarant’anni, da
mani europee, russe e americane, con poca fantasia e qualche errore di
troppo – c’è qualche confusione che dubito possa essere risolta dai
partiti, dai media o dalla letteratura. La prima confusione si chiama
“italiani”.
Io testimonio comprensione, condivisione, riflessione e
interiorizzazione. Per quanto mi riguarda questo è canto soave e lirico
che giunge da oltremare. Intanto, confido ai rimasti quel che ripeto agli
esuli e ai miei strani concittadini italiani; è tornato il tempo di contarci
e di sopravvivere, salvando i libri e discutendo dei libri per come
possiamo e quanto possiamo: siamo chierici, siamo tornati chierici e
bisogna prenderne coscienza. L’Italia non vuole letterati e non vuole
letteratura. Perché è una menzogna di nazione, non ha storia perché la
riscrive e la cancella in fretta: ha solo letteratura. A quella m’appello,
m’uncino, m’aggrappo, speranza di comprensione e comunicazione.
Tutto il resto è espressione.
“Che, in Istria, interi capitoli di storia sono stati inghiottiti dalla
nebbia, è noto. Altrettanto noto è che antichi castelli e palazzi sono in
attesa di restauro” (p. 127). Cara Vlada, potrà l’Europa se saprà essere
asburgica. Né Italia, né Croazia: tertium non datur?
(tertium è letteratura, io dico)
Carmina n.6
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EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Vlada Acquavita (Capodistria, 19xx), scrittrice, saggista e poetessa
italiana e croata. Vive e lavora a Buie d’Istria. Laureata in Lingua e
Letteratura Francese a Zagabria, ha esordito pubblicando “La rosa
selvaggia e altri canti eleusini” per l’Accademia Casentinese nel 1997.
Carmina n.6
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Recensione di Dare voce al silenzio di Patrizia
Garofalo
Di Gianfranco Franchi
“A casa del poeta non si piange” – incipit, e allora “metto il collirio /
e / sorrido”: primi versi a testimoniare caratteristiche distintive
d’un’opera in versi che sa essere frammentaria e incisiva, singhiozzante
e disperatamente viva. Lo stile e lo spirito di Patrizia Garofalo sono in
questo frammento: si va per versi asimmetrici e immediati, per
espressione di contrasti e di simboli – il simbolo non tradisce, già
dall’etimo – e per scrosci di lirismo puro. Tanto puro che corrode chi sa
sentire, e chi conosce quella tradizione che da Petrarca s’è evoluta e
mutata e spiegata in Ungaretti, Caproni, Erba. Il sentimento che
t’ammazza.
È una poesia di nostalgia e desideri perduti, di cicatrici indelebili
d’abbandoni e d’irrisolte interazioni umane; tuttavia ritornanti, come
ossessioni dai colori che muta spietato il tempo. L’armonia appare
quando “tra i tuoi capelli / respira / oggi / il vento”: la pioggia e l’acqua
vanno invece a sbiadire e dissolvere la memoria, la carta si piega e
s’abbandona.
La letteratura come vizio, come sorriso inghiottito: come espressione
del passato, e quindi come fantasma: Caproni parla di diario, l’autrice
di “nuovi calendari dell’anima” – l’impatto è prepotente e dolce,
sensuale e luminoso. D’un tratto si sprigiona il sublime:
“Impigliate stelle
alle nostre finestre
dal cielo
dirottate traiettorie
Riposiamo tra foglie rosse
ad un autunno insperato”
E s’avanza per tempeste di coscienza di sé, origine d’acqua e sogno
di terra: per amori tratteggiati nell’attesa e cristallizzati nella genesi del
desiderio, femminili e incerti: accade quando “anche la luna / si
appende / alle mie caviglie”, e il presente rovescia il cielo e la terra è
dominio dell’artista.
Più di chiunque altro capisco il secondo componimento, per via della
Carmina n.6
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sua genesi – ma questa è storia personale, mi limito a salutare e
ricordare l’antica febbre. Felice di vedere su carta l’impatto d’una
lettura d’un’opera rimasta incompiuta. Vive nei versi di Patrizia
Garofalo, adesso. La sua nuova raccolta di poesia è stata pubblicata
dalle Edizioni Il Foglio: aggiungo queste note a quanto avevo scritto, a
proposito dell’opera omnia, qui. Stavolta ho viaggiato e interiorizzato
pensando al taccuino di chi scrive strappando a dio il dolore e la
menzogna. E ci libera dal male.
Saluto l’avvento di poesia nuova con il sorriso riconoscente del
lettore antico.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Patrizia Garofalo (Camerino, 1949), poetessa italiana. Insegna
Lettere a Ferrara.
Patrizia Garofalo, “Dare voce al silenzio”, Il Foglio, Piombino, 2007.
Prefazione di Attilio Mauro Caproni.
Bibliografia:
Patrizia Garofalo, “Ipotesi di donna”, Gabriele Corbo, Roma 1986.
Prefazione di Giorgio Caproni. Patrizia Garofalo, “Le bambole non si
pettinano”, Gabriele Corbo, Roma 1992. Prefazione di Franco Patruno.
Patrizia Garofalo, “Terra di nomadi”, Libroitaliano, Ragusa, 1996.
Patrizia Garofalo, “Mare d’anime”, Schifanoia Editore, Ferrara, 2003.
Prefazione di Paolo Ruffilli. In copertina, riproduzione dell’acquerello
di Oliviero Accossano.
Approfondimento nel web: Franchi sull’opera omnia di Patrizia
Garofalo: “Polvere e Luna”.
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Recensione a Silloge di Cristina Bove
di Luciano Recchiuti
Più che una Silloge si tratta di un autentico spaccato di vita, una
lunga sequela di odi poetiche apprezzabili stilisticamente e
contenutisticamente, che parla a favore della forza interiore e delle
capacità espressive di Cristina Bove.
La prima lettura invita subito a una segnalazione, un consiglio, più
che altro: un libro che racchiuda il meglio della raccolta, che veda la
luce al più presto per non disperdere nel tempo la voglia di fare.
Perché Cristina è poeta vero, che sa coniugare stile e interiorità,
malesseri e gioie dell’anima con il gusto di raccontare in rime sciolte
libere e liberate da pastoie metriche: gli scritti sono il dettato del cuore.
Anche se redatte evidentemente in epoche diverse (magari non
lontanissime), cambia poco lo stile sempre a Lei riconducibile che si
evolve nel tempo, che matura insieme alla sempre accurata scelta delle
parole, delle figure retoriche, delle metafore efficaci con le quali cela il
vero ed esalta il sogno (e viceversa).
Il tutto si accompagna, quale precisa scelta dell’autrice, all’assoluta
mancanza di punteggiatura, lasciando alla naturale musicalità del verso
il centro del raccontare.
Questo fa sì che in talune poesie i “pons”, i giochi di parole, riescano a
esprimere con leggerezza sentimenti ed emozioni (vedi “Ad una ad
una”), padroneggiati saldamente e parte di un lessico di valenza
costante ed evoluta.
Così come “Al raduno”, surreale visione che colpisce per
originalità e tematica (una “vecchiaia vista alla rovescia”, se mi si
consente l’espressione), nella quale si affaccia improvvisa la persa
gioventù da quelle stesse vesti prima occupate da corpi cadenti,
nell’esaltazione dei doni fantastici della “vita” e del “nuovo”.
Poesie libere e liberate, dicevo, depurate dagli orpelli del fatuo e
dell’inutile e pregne invece di significati sottili e di un “segno” leggero
che tutta la contraddistingue. La disposizione stessa delle parole sul
foglio assicura ritmo alle intime scelte del poeta e significato spesso
mutevole, in un esercizio non facile sospeso sul baratro della banalità
(senza “scivolate” significative).
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In “Brulicava di luci” “leggera filigrana ondeggia sopra gli archi
lunari e ne accarezza di rami flessi le colonne attorte”. E ancora
“s’azzardano le mani a carezzare un ricordo di sogno fatto d’acqua”.
La leggerezza si fa parola, la parola asseconda il moto consolatorio
dell’anima.
Mi piace citare ancora “E condurrò” per le visioni evocate, vive e
allucinate, contorte e avviluppate l’una all’altra dell’Equatore, del Sole,
di Lune “corrusche”, di un Fiume dalle tracce d’oro, del Tempo che
consuma, dell’Ombra incisa nella notte. Fiori di un giardino sconfinato,
verde a dismisura come una valle piena di coloratissime farfalle
stralunate.
Piacevoli le liriche in cui trionfa l’amore, in cui il gioco delle parole
trascende l’oggetto del desiderio fino a sublimarlo, angelicandone la
figura, ripulita dallo sporco delle ali al contatto con il terreno. Lo stile è
sorretto da una scrittura mai scarna, pur se tendente all’essenziale,
densa di significati e silenzi mai domi che si trasformano in immagini
vissute.
Amore, etica e spiritualità vanno a braccetto, nel figurare l’Eterno
che occhieggia come in un gioco di ombre cinesi, soprattutto nei versi
dettati dalla solitudine e dalle grida talvolta disperate dell’Autrice.
Delicata e pudica nel raccontare momenti intimi, come in “Figli”:
“attraverso me ci siete – ora siamo tutti insieme”.
Poesia moderna che si nutre d’antico, epopee del Mito che hanno
radici all’insù, nel presente, mentre più rade le immagini ispirate al
futuro, che si apre improvviso nella lirica “I ragazzi”, “corpi fatti di
musica e richiami”, “futuri genitori dei nuovi figli liberi dal tempo”.
Particolarmente efficaci le liriche brevi, nelle quali è un singolo
pensiero a volare, sintesi e compendio dell’essere, sempre rifuggenti
dall’apparire.
“Sono viva perché nella mia notte qualcuno accese un sogno di
poesia” (in “Ho visto la città”: è la poetica della Bove, l’alfa e
l’omega, il suo rapporto con la realtà e le tante domande che spesso
scaturiscono dal rapporto (talora irrazionale) con essa. Come giudicare
altrimenti, infatti, la spietata disamina di “Homunculus”, che coniuga
l’ “orribile visu” descritto con la presenza di “esseri lievi e tenui come
veli assorti nei ricordi d’altri Cieli”?
Lo stile asseconda i concetti, si fa Poesia Visiva in “Incantesimo”,
dove crea delle dissolvenze di forma e contenuto, in quel “niente” che
Carmina n.6
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piano si scioglie e si asciuga come una lacrima al sole, simbolo di un
destino terribile ma non disperato. Non c’è mai autentica perdizione
nella poesia di Cristina: più spesso accettazione e la tendenza a fare
delle parole insegnamento e saggia morale, impalpabile e diafana, sul
limitare estremo delle liriche. Come in scritti d’altri tempi, o romanzi
d’appendice.
La forza del “sé” prorompe dall’interno come un geiger con la
maturità del vissuto, come un dono che consoli e sveleni i sentimenti
meno nobili: “sentire nel cuore la dolcezza della musica amando chi la
suona” (“La Saggezza”).
Stringendo le file di questa lunga disamina (tante erano le poesie e
articolate), è possibile riconoscere l’elemento vincente della Silloge
nella concretezza del Sogno, che si esprime con particolare forza
commentando la stanchezza del ballerino con una semplice
constatazione “Quanto gli può costare un paio d’ali?”
Sì, Cristina, è lì il segreto della vita, saltare gli ostacoli a piè pari
con le giuste soluzioni.
Bella “prova d’autore”, in cui il poeta è nudo di fronte ai temi che
tratta, affetti, amore, famiglia, tempo, visioni cosmiche e naturalistiche,
stati d’animo, ricordi e sogni. Le ultime liriche gettate sulla carta quasi
con rabbia e sentimenti contrastanti: “Sulla sabbia”, “Nuovi faraoni”,
Siamo noi”, “Sogno”, “Volo”.
Nulla manca in questa Silloge, neanche i brividi che ci destano “le
tredici Lune”, “la scienza assoluta e beffarda”, e la morte che ci
penetra dentro nella poesia “Volo”, ove “quel che resta nella carlinga
è notte… (mentre)… fuori è l’alba”.
Al lettore (e al critico) il dispiacere che le righe scritte siano finite, e
trionfi il bianco del foglio che ottunde gli occhi, nel ricordo della
condivisa e partecipata lettura.
Carmina n.6
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Recensione a “Premiata Forneria Marconi
1971-2006: 35 anni di rock immaginifico”
di Donato Zoppo
di Enrico Pietrangeli
Il libro di Zoppo, per sancire l’essenza emanata dalla PFM, non
resiste alla tentazione di aprire il “Tutto” avvalendosi di un esergo di
Rumi. C’è una “rosa” che “narra” e, con un disinvolto approccio
giornalistico, sviluppa un armonioso trattato sul gruppo
ripercorrendone l’intera carriera. Capitoli imperniati sulla discografia e
linguaggio articolato, dove seguendo criteri perlopiù comparativi
trapelano ampi scorci sulle condizioni sociali e le panoramiche
musicali che hanno contraddistinto i tempi. Largo uso d’inserti e
aneddoti, comunque ben disposti, euritmici; c’è qualche ridondanza,
ma riguarda solo le introduzioni. Si parte dal primo raduno beat del ’66,
quello organizzato da Miki Del Prete a Milano e che, accanto a Giganti,
Ribelli ed i più singolari New Dada, annovera anche la cover band di
Quelli. Siamo lontani da altri esordi, quelli psichedelico-melodici de Le
Orme di Ad Gloriam o quelli più sperimentali e colti de Le Stelle di
Mario Schifano, ma la strada dei rimaneggiamenti traccerà veri e propri
gioielli addentrandosi nell’era progressiva: 21st Century Schizoid Man
è un meno noto tassello della bravura e coesione strumentale di cui è
capace la PFM (sigla tenuta a battesimo da Lake e Sinfield).
Impressioni di Settembre sarà l’indelebile motivo di traino per tutto il
progressive italiano, caratterizzata dal ritornello del moog e già pronta
a sbirciare oltre i naturali confini per poi reincarnarsi in The world
became the world. Sì, perché la PFM, prima di tutto, è italianità
approdata altrove, in un mercato che, soprattutto negli anni Settanta,
era invaso da produzioni anglo-americane. Sarà proprio quando Le
Orme tenteranno la strada del mercato inglese con Peter Hammill che i
testi della PFM incontreranno Sinfield. Mentre Pagani farà da collante
alle realtà di movimento e relativi festival (Parco Lambro etc.), il
gruppo si barcamenerà tra Mamone, tentazioni americane e
l’imperversante contestazione. Logiche di mercato, da quanto si evince,
mietono la prima vittima: Piazza viene rimpiazzato da Djivas al basso,
più adatto al ruolo per un pubblico d’oltreoceano. La stagione dei
Carmina n.6
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concerti americani avrà il suo apice con la stampa di Cook, un live per
il mercato internazionale nella già consolidata egida della Manticore.
Chocolate’s Kings, l’album successivo che introduce Lanzetti, è,
probabilmente, l’optimum, frutto di omogeneità e grande maturazione.
Risente, tuttavia, del vento che soffia, a partire dai testi, sì impegnati da
riportare consensi verso l’imminente ’77 ma, forse, non del tutto
digeribili altrove. Uscirà negli States illustrato con una barra di
cioccolato avvolta nella bandiera a stelle e strisce. Sinfield, nonostante
una certa propensione a “sinistra”, stenta a comprendere. Ma “la goccia
che fa traboccare il vaso” col mercato statunitense giunge nel ’76,
quando la PFM prenderà parte ad un concerto organizzato a Roma per
conto dell’OLP. Con Jet Lag si apre al jazz rock, poi la formazione
chiude il decennio consegnandosi agli anni Ottanta nell’inevitabile
decadenza dovuta all’impatto con tutt’altra epoca e nuove tendenze.
Tuttavia, prima di segnare il passo coi nuovi tempi, la PFM realizzerà
un altro memorabile live, lo farà girando la sola peninsula con Fabrizio
De André. Personalmente rinnegherò il gruppo fin dai tempi di Suonare
Suonare, ma Zoppo tira dritto, tra ritratti e sincretismi, fino all’epilogo
di Miss Baker: praticamente estraneo alle origini. Gli anni Novanta e
una rinnovata voglia di spaziare, portata avanti anche attraverso l’uso
del digitale, desteranno ulteriori attenzioni verso il filone progressivo.
Ulisse cercherà, a partire dal tema del viaggio, di ripercorrere strade
perdute. Lo farà attraverso la collaborazione dei testi di Incenzo, autore
anche di Dracula. Quest’ultimo è il coronamento di un sogno, quello di
realizzare un’opera rock, decisamente pretenzioso e dove compare
anche Ricky Tognazzi, mentre Serendipity, più proteso verso le sonorità
del nuovo millennio, vedrà, tra gli altri, un’intraprendente Fernanda
Pivano inserita nel progetto.
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Recensione a “Beckett e Keaton: il comico e
l’angoscia d’esistere” di Sandro Montalto
Di Enrico Pietrangeli
Lo scorso novembre, a Milano, durante le manifestazioni per il
centenario della nascita di Samuel Beckett, sono stati presentati diversi
saggi italiani, tra cui quello di Montalto e il più circoscritto Beckett e
l’Italia a cura di Giancarlo Alfano e Andrea Cortellessa. Un Beckett
che, nella memoria collettiva, ci riporta ad Aspettando Godot, la pièce
con Vladimir ed Estragon, i due protagonisti che porteranno alla ribalta
il tema dell’attesa, della solitudine dell’uomo in lotta contro il destino
del proprio annientamento, fin tanto da temere insita nella stessa morte
una qualche forma di residua (r)esistenza, aggiungerei alla luce della
lettura del saggio di Montalto. Film, il tema trattato nel libro, è un corto
realizzato in bianco e nero nel ’64. Montalto non solo ha voluto
testimoniarlo attraverso un’attenta e mai pedante interpretazione, ma è
andato oltre, spingendosi dove la critica all’autore definito tra i più
“chiosati” non era ancora arrivata. Lo fa in una serrata e avvincente
analisi comparata, sino ad addentrarsi nell’impianto del secolo, in un
parallelo ed omogeneo ripercorrere il contesto storico e filosofico. Un
film che, attraverso le sue pagine, diviene compendio del percorso di
tutta la produzione beckettiana. Il testo analizza subito circostanze e
dettagli della pellicola, a partire dallo script e dalle tecniche utilizzate:
una “camera a mano” che, indubbiamente, vivifica corrispondenze e
azioni tra Og, un ormai anziano e malandato Keaton, ed Oc, ovvero
l’occhio che lo riprende, in un cortometraggio anacronisticamente
muto, dove incombe “un silenzio drammatico quanto parodistico”.
Tutta la tensione iniziale dell’esterno girato in strada ed il relativo
inseguimento si sposta poi nella “stanza-utero della madre”, colei che
“costringe ad esistere” e dove, infine, si consuma l’agonia di Og. Finale
che si gioca sull’eliminazione delle possibilità di “essere percepito”,
nella negazione della propria esistenza, attraverso la soppressione delle
“scorie della memoria”, ovvero le fotografie di un’intera vita. I titoli di
coda compaiono con “un primissimo piano dell’occhio di Keaton”
definito “torbido, dalla palpebra squamosa”. La morte diviene quindi
un atto pietoso e l’altrui percezione, oltre ad essere una violenta
Carmina n.6
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invasione nella nostra esistenza, ne diviene anche conferma. Keaton,
tanto come personaggio a sé quanto in relazione a Beckett, è altrettanto
scrupolosamente analizzato. Un protagonista definito cinematografico
rispetto all’essenza “smaccatamente teatrale” di un Chaplin
precedentemente contattato per svolgere lo stesso ruolo. Forti i
richiami, a partire dall’ambientazione, al cinema d’autore surrealista, in
particolare ad Etoile de mer di Ray per talune tecniche di ripresa e, più
in generale, nell’onnipresente occhio, sebbene l’espressionismo, nell’
“esigenza di controllo assoluto di tutti gli elementi della messa in
scena”, sembrerebbe prevalere. Tra la lunga sfilza d’intellettuali
analizzati per paragrafi, risalta Bergson, per via di quella “anestesia
momentanea del cuore” che suscita il riso. “Il comico e l’angoscia
d’esistere”, infatti, è sottotitolo e tema, perno tra Beckett e Keaton. Non
si tralascia nulla, neppure le attestazioni negative che la pellicola ha
suscitato e i remake, inclusi quelli ipotizzati, dove compare persino il
nome di Gassman. Con Film, tutto il peso del Novecento, proteso alla
fuga ma imbrigliato in gabbie accademiche, diviene chiave di svolta
per approdare all’assopimento creativo della soggettività sovrapposta in
un’alternanza di percepito e percepente. Non citato nel testo, Ezra
Pound, a tal proposito, mi sovviene per la "distanza trascorsa fra il
mondo del Novecento e quello della serenità". E’ comunque il tema
della vecchiaia ad incalzare nei retaggi proustiani di un tempo che
“consegna al fallimento le aspirazioni umane costringendo l’uomo ad
un aborto del desiderio”. Tutto diviene vacuità, drammatica e dagli
inevitabili, nonché cinici, risvolti comici. Anche l’esistenzialismo,
quell’ultimo blasonato baluardo dell’epistemologia eretto ad estrema
difesa dell’uomo, viene scavalcato. Un uomo che, con Beckett, non ha
più vie d’uscita. Il tempo, i ricordi, la propria immagine riflessa allo
specchio, unitamente alla profonda consapevolezza di una lunga ricerca
intercorsa nei secoli precedenti, altro non sono che pietra che si sgretola
lentamente, lasciandoci impotenti, abbandonati nel moto perpetuo del
dondolo, tanto caro alla simbologia dell’autore e che, non a caso, anche
qui ricorre. L’angoscia della vita, forse, si concretizza tutta lì, celata in
quel breve intervallo intercorso nell’oscillazione.
Carmina n.6
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Recensione a “Basso impero”
di Claudio Comandini
Di Enrico Pietrangeli
Questo romanzo d’esordio di Claudio Comandini è ambientato
nell’hinterland di un’ex provincia ormai logora di troppi eventi o,
altrimenti, svanita tra ricordi di dolce vita. Nel cuore di quello che un
tempo fu, nonostante tutto, anche impero, si anima, accanita e puntuale,
una penna (o tastiera che si voglia) pronta a scandagliare ricercando
ogni possibile riferimento ormai inesistente nel suo essere licenziosa e
irriverente. Una scrittura canalizzata in un fondo, quello di un Basso
Impero che, attraverso secoli ricolmi d’intrighi e cortigiane, si
avvicenda ancora, longevo e implacabile, espletandosi in tutto il suo
più infimo degrado. Siamo agli sgoccioli del Novecento, corre l’anno
1994 e l’Italia conosce il suo primo governo Berlusconi. Comandini,
per l’occasione, trova due date intense ed evocative per meglio
rimarcare la sua narrazione, quella del 25 aprile e quella dell’8
settembre: dalla liberazione all’armistizio. Con questa stessa sequenza,
traccia principio ed epilogo di tutti gli accadimenti che si susseguono
nel suo libro. Sono eventi racchiusi in un diacronico accavallarsi di
sequenze che imperversano, ma non a caso, rappresentando una
stagione rissosa, persino dolorosa e nondimeno provocatoriamente
spassosa. Sono mutamenti che toccano anche luoghi disconnessi nella
memoria, davanti una televisione spenta che parla e un calendario
senza giorni penzolante sul muro. C’è un bar che anima il tutto insieme
alla piccola comunità che vi bivacca intorno. Dentro ci scorrono i
personaggi del luogo, con le loro singolari vicissitudini, che si
alternano in un comune vivere divenuto inconsulto. Ci sono Ludovico,
Porkospin, Cecco lo sciamano, il grande amico Eugenio e le “femmine”
che, sebbene qui vengano meno come tematica portante, prendono qua
e là il sopravvento, fino ad occupare letteralmente un’intera pagina
attraverso i loro attributi più intimi. Attributi dove lasciarsi andare in
elucubrazioni mitologico-filosofiche con voluttuosità canzonatorie;
cavalcare ardite fantasie per stordirsi nell’esperienza e galoppare,
dopotutto, sul “fondo”. Bukowski che fa capolino, ma qui abbondano
anche androgeni transessuali. L’amore c’è, mai scritto maiuscolo
Carmina n.6
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eppure totale e incondizionato: è quello sentito per Serena. Ishtar è la
loro gatta invalida, trovata in fin di vita, dentro un cassonetto dei rifiuti,
sarà lei la loro complice e più diretta testimone. In questo “basso
impero dove solo i servi hanno potere” compare, in primis, Jim
Morrison, ci parla in greco e scivola sulle labbra “aspirapolvere” delle
ragazze “crickcrock”. Mito e mercato post mortem non potevano
tralasciare Kubain coinvolgendo persino Hegel ne “l’effettualità come
criterio decisivo del farsi della realtà”. Un Basso Impero “maionese
globale” dove The end è “l’unica canzone dei Doors da non sembrare
datata”, “uovo del mondo alla fase terminale” con qualche turbato
sorriso acceso sulle note di On the Sunday of Life dei Porcupine Three
o Sunday morning dei Velvet. Stile fluido e intenso, fortemente
intellettualistico nel suo essere triviale, ma che non rinuncia a calarsi
nel gergo del mondo di cui, in fin dei conti, è parte: “a uno scudo dal
collasso”. Tanta foga, rabbia, denuncia, tanto passato prossimo ancora
da archiviare, che pulsa di armonioso disordine, materia viva e ancora
tutta da plasmare, così scorrono i tanti aneddoti descritti da Comandini.
Storia, oltre storielle e inferni personali che si aprono tra chiassosi echi
delle risa di amici; fantasmi che, puntualmente, ritornano. La strage di
Bologna, in questo libro, potrebbe rappresentare un comune nodo per
tutto, tanto nel personale del protagonista quanto nelle più pubbliche
faccende di questo paese. La memoria intanto corre, ritorna in Grecia,
ai viaggi con Serena e i ricordi di scuola. Tragedia e piacere
s’incontrano. Un’amara casualità è quella della notizia dell’attentato
sopraggiunta sul primo acerbo piacere di un’eiaculazione, nella più
aspra, pungente e vitale poesia adolescenziale.
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Recensione a “Disorder”
di Gianfranco Franchi
Di Enrico Pietrangeli
Prima di affrontare la lettura di questo libro, mi sono predisposto nel
giusto ordine d’idee: Disorder. Unkonwn pleasures sono scivolati sul
mio giradischi. Joy Division, ala dura e pura, esoterico primordiale,
possibile rituale pagano del punk più rivoluzionario, quello fulminante
ed immolato. Sono gli ultimi eroi della terra consumati in angosciosa
fretta, quelli del nulla. Frammentazione, cupa polverizzazione di un
mondo. Danza Shiva, il rockettaro pure, Iside implode e si rivela alla
luce: suicidio. Gli anni Settanta stavano per terminare, tre papi si
succedevano sul trono di Pietro e Gianfranco, finalmente assemblato,
veniva alla luce. Protagonista è Guido Orsini, alter ego dell’autore in
una serie di racconti brevi con trama e stile volutamente debordante; tra
reale, onirico e cosciente delirio. Guido è figlio di un borghesia colta,
mitteleuropea, giunta all’apice della sua decadenza. Perduto nei
meandri del frenetico niente del suo tempo, si ritrova, nauseato, a
scavare dentro il suo nulla; lì cerca radici, elementi primigeni, selvaggi
ed istintivi per rigenerare vita nel tempo. Non stenterà, il buon Guido, a
sperimentare molestie sul suo gatto o contendere spazio al pacifico
geco, ma mai ad armi impari. Il libro inizia con apparente quiete e
linearità descrittiva per poi osare valicando le strutture narrative.
Continua nell’ibridazione del testo, associandosi spesso a suoni e
parole delle canzoni, finanche ad erompere dalle strutture sintattiche. È
l’universo femminile che innesca questa iperbole creativa e distruttiva
al tempo stesso e che, non a caso, prende forma già dal terzo episodio
intitolato Complemento oggetto. Prende quota, contemporaneamente,
una buona dose di poesia visionaria, percettività che Gianfranco, al pari
del suo personaggio Guido, sembrerebbe comunque non perdere mai di
vista. E allora ecco “un prato di Marlboro rosse accendersi” e “un
esercito di fiammiferi tinti d’inchiostro scrivere sulle nuvole”, ecco
comparire Mascheri che, oltre a scrivere la prefazione del libro, si
sdoppia in quanto narrato dell’autore sino a prendere forme polivalenti.
Cecì n’est pas le paradis: “niente ninfette ninfomani e imbecilli che
fondano gruppi rock”. Volontà d’amicizia, quella vera e più
Carmina n.6
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classicheggiante, e tanta tragedia amorosa di stampo cavalleresco.
Tristano e Isotta, tra i suoi possibili modelli. Al mare Orsini resta con
“un vecchio televisore ed una vecchia radio” , al rock e a Radio Rock
non saprà rinunciare. E con l’eccezione di David Bowie, quello di
Rock’n roll suicide, la colonna sonora è perlopiù nineteen: Radiohead,
Massive attack, Blur, Verve, Nevermind e Kurt fanno qua e là capolino,
consistenti alla stregua di un sottotitolo. I Cocteau Twins sono la magia
che non poteva mancare nel suo ricorrente rifugio, ritrovo e ricordo del
Gianicolo. Un protagonista che non elude le tematiche sociali e
politiche, che si fa portavoce di un’originale forma di
antiberlusconismo, quella più etimologica e ai più poco evidente.
Quella che Claudio Lolli, proprio mentre Gianfranco nasceva, non
esitava a cantare in queste tinte: “la socialdemocrazia è un mostro
senza testa”. Di fatto questo paese resta senza liberismo, senza
comunismo e senza lavoro. Questo è lo scotto della generazione di
Guido Orsini ed oltre, arrangiati e denigrati nella precarietà di una
concreta indipendenza che vede i patriarchi ostinati nel continuare ad
arraffare qualcosa che ha già toccato il suo fondo: “tutto è acqua
corretta con qualche medicina”. “Mi chiamo Guido Orsini e non ho
senso; sono un ruolo che non c’è in un mondo che mi sta
disintegrando”. “Sono la compassione della povertà e l’empatia della
fragilità, sono la zavorra borghese e la decadenza delle arti”. Libro,
anche questo, dotato di “un biglietto di ritorno” nella postilla, dove il
narratore diviene personaggio insieme a Guido scorrazzando in auto,
con “abbastanza benzina per arrivare fin dove volevi tu”. Un piccolo,
grande libro.
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Recensione a “Estate di Yul”
di Emanuele Bevilacqua
Di Enrico Pietrangeli
Siamo nel cuore degli anni Settanta, un’epoca indelebile che l’autore,
già affermato manager nel campo editoriale, riesce ancora a
trasmetterci attraverso la sua estate, o meglio quella di Yul, approdando
alla narrativa con un fresco romanzo d’esordio. Un tema che non può
non vedermi coinvolto, a partire da una parallela formazione ed alcune
analogie strutturali che, parafrasando il mio testo, definirei da “biglietto
di ritorno”. Premettendo che, nel campo editoriale, tanto la mia carriera
quanto la mia esperienza è pressoché modesta, vorrei subito mettere in
risalto che ho gradito questo libro. Ne ho gustato la storia, la vivida
fotografia di una fantastica stagione che sfugge e rifugge un
provincialismo italiano per sognare in technicolor, su grandi schermi,
tra sconfinati spazi americani. L’Italia, tuttavia, non è mai persa
d’occhio da Emanuele, riaffiora qua e là in un gelido e scarno scandire
di eventi e di date. Ritorna improvvisa, erompente, assecondata dal
peyote, pensando ad Henry Miller. Si dischiude in una somiglianza col
nonno trasportandoci nella città lasciata. Torna “l’odore dei copertoni
bruciati”, fumogeni, poliziotti che sparano e giovani manifestanti
impauriti, “ventre a terra, come gli indiani nella prateria”. E’ da allora
che diviene “chiaro il coraggio di Yul”, la scelta di “aspettare che quel
casino finisca”, “aspettare fuori dall’Europa”. Siamo nel ’75, esce
Rimmel di De Gregori, AIDS e Khomeini tarderanno ancora qualche
anno a galvanizzare i nuovi moralisti di turno e l’America, tutto
sommato, è un paese con liberi e disinvolti rapporti sessuali, tanta erba
e dell’ottimo acid rock. Un romanzo on the road, vissuto in corsa con
una vecchia Ford Mustang ed altri possibili espedienti. Non c’è pausa
che non sia un bizzarro e folgorante amplesso, un sesso che, prima di
tutto, è ritmo. Si susseguono perlopiù momenti esilaranti lasciando
comunque spazio a brevi innesti di considerazioni e qualche fugace
flash poetico. L’intera vicenda si articola in California con paio di
sortite in Messico e l’epilogo finale coast to coast verso New York,
con meno di quattro giorni a disposizione per restituire un’automobile a
noleggio e pochi soldi a disposizione. Un finale scandito in viva diretta,
Carmina n.6
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con brevissimi paragrafi di percorso e l’onnipresente radio, soundtrack
sull’orizzonte americano. I percorsi di Leo, Sal e Walter si divideranno
e ritroveranno in California, riportando e condividendo gioie e dolori in
un’indomita voglia di farcela che culmina con Born to run, a Paterson:
“ poco più di un’ora dalla meta”. Leo tornerà piuttosto malridotto e
provato dal suo più profondo viaggio in Messico, dove si respira ancora
il profumo di droga e miseria amalgamato da Kerouac. Un’inaspettata e
violenta resa dei conti lo attende con un tassista di frontiera. Sal,
innamorato poco ricambiato da Cristine, si ritroverà l’auto sabotata, lei
in ospedale ed il relativo padre pronto a fargli causa. Walter sarà molto
più sottilmente vittima di Charlotte, la sorellina di Gloria, rischia anche
lui qualche brutta denuncia, è amareggiato ma non salterà l’ultimo
grande evento: il concerto al Golden Gate Park di San Francisco. Leo,
tra succulente scopate (ciliegina sulla torta Lourdes, la cilena), è
sempre alla ricerca di Mr. Miller; lo troverai poi, a meno di cinquecento
metri, degente in un centro clinico. La musica è cornice ovunque in
un’America dove ancora tutto è possibile, quella di Crosby, Stills, Nash
e Young, John Cipollina, Jerry Garcia, Grace Slick… Resta il
retrogusto del miele spalmato sopra Agnese, Clara ed il sogno del
cinema, il tempo che scorre e mai vanifica, semmai impreziosisce
rendendo i ricordi più fluidi, più permeabili alla fantasia: quanto
ingenera futuro. Allora una sera Yul, il più veloce, viene a sfiorare una
spalla accompagnando il lettore insieme all’autore in un antico file del
computer. Una sera in cui riscoprirci più umani e più vivi, disincantati e
partecipi a quanto ci lega a quella stessa estate, quella di Yul.
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Recensione a “Il racconto ulteriore”
a cura di Flavio Ermini
Di Enrico Pietrangeli
Il Racconto ulteriore, “antecedente all’intelligibilità” nella
contrapposizione di un tempo mitico alla desolante contemporaneità di
una terra già esplorata da Eliot, è un progetto che vede Flavio Ermini
coordinare dei pensatori nel “gesto narrativo”. L’inquietudine
dell’imprevedibile ci ha condotto verso false certezze allontanandoci
dal vero senso della tradizione, dall’origine. Dal chaos, nello stesso
gesto della creazione sussiste ancora, inalterata, l’energia per una
prospettiva ulteriore, devoluta a un sapere autentico, non più reso
asettico, e considerato nel suo originario contesto organico. Bonnefoy
lo fa attraverso una possibile variante per la cacciata dal giardino. Un
punto in cui il tempo non ha avuto ancora inizio, dove l’immediato e il
mediato, opportunamente affrontati da Vitiello nell’episodio finale,
sono ancora “erranza nell’eterno” e prendono forma col giorno,
nell’esperienza, tra l’eco di un flauto, mediando dolore e speranza.
Prima o dopo divengono l’intangibilità del tempo dove l’archetipo,
riflesso nella forma, si tramanda nel mito, restando impresso tra luci e
ombre. Nel tema della leggenda primordiale resta ancorato anche Félix
Duque, è quella indigena della foresta e del suo lago, mentre, a poca
distanza, si consuma “l’imminente fine di questo mondo”, tra disastri
ecologici e notiziari flash sul terrorismo. Quella di Labarthe è
un’Allusione all’inizio migratoria, iniziatica ed incentrata sulla
comunicativa, in un viaggio che ci vede dubitare e disperderci,
ricominciare: possibile metafora della stessa vita. L’arcangelo, con
Antonio Prete, dalla sua sostanza di luce, viene a contatto col tempo e
la disgregazione della materia. Vive con rammarico i suoi fallimenti, la
distrazione di una colpa ancestrale. È questa la prima delle Tre storie
sul tempo e l’apparenza, quale “impossibile somma d’infiniti vuoti”
nell’epilogo della sera: lo scorgere finalmente il sorriso di una bimba
ricongiunta al suo gatto. Articolato e dettagliato è il ritratto ginevrino di
Roberta De Monticelli che, traversando memorie e riflessioni, approda
su più acquietanti sogni in una “fragorosa e sporca” piazza toscana.
Spinoza, l’ottico, tanto ebreo quanto eretico, con Tagliapietra lo
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ritroviamo che si diletta coi ragni e sarà specchio di una risata che è
dio, vittima e carnefice nelle vesti di un Benjamin portato al martirio,
ancora immerso nella lettura di Ethica. Uno Spinoza che ricorre anche
con Vitiello, ricordandoci “che ogni definizione è negativa” e che, con
Jean Luc Nancy, ci riporta a quel “sentiamo e sperimentiamo il nostro
essere eterni”. Interessante il contesto in cui si sviluppa Diario,
“fluttuante in un’incerta intemporalità” che va dal 4 al 10 novembre
2002. Realizzato per conto della rivista Parallax, vede qui la sua
versione italiana dopo essere stato tradotto in inglese. Il marionettista
di Givone, unitamente al racconto di Tagliapietra, è, a mio parere, tra
gli episodi più centrati, almeno in relazione all’intento narrativo
preposto. Tutto il fascino e la magia dello spettacolo dei burattini viene
rilevato allontanando lo spettro di un demiurgo dietro le quinte,
restituendoci personaggi con un’anima sottesa a un filo tramite cui
comunicare, finanche a recepire “dal basso” “le sollecitazioni
sceniche”. Ironico ed incisivo giunge Carlo Simi che, attraverso
l’antica e collaudata formula del dialogo, ci trasporta nel mondo delle
fiabe che preannunciano ciclicità atemporali. Con Donà ci si addentra
in tematiche che includono risvolti psicologici, mentre con Gargani si
abbandona il filone narrativo soltanto per meglio sviscerarlo con esiti
che,
personalmente,
trovo
convincenti,
soprattutto
per
quell’indissolubile legame tra “etica e scrittura” ricordato anche
attraverso il monito di Wittgenstein: “non possiamo scrivere qualcosa
di vero se non siamo veri”. Riportare la figura dell’intellettuale ad un
suo più connaturato baricentro rendendogli la giusta attenzione, a
partire dall’operato scientifico e politico, potrebbe essere un varco
aperto da questo libro, poiché in queste condizioni, come Gargani
stesso afferma, “non c’è da sorprendersi che fenomeni mafiosi si
estendano all’ambito dell’organizzazione della cultura e del mondo
accademico”.
Carmina n.6
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Recensione a “L’eretico e il cattolico”
Intervista a Elio Bartolini a cura di Mauro Daltin
Di Enrico Pietrangeli
La Kappa Vu, con Mauro Daltin, si è caratterizzata come una
coraggiosa casa editrice di frontiera, dedita soprattutto a tematiche
politiche e storiche che si sviluppano verso la Slovenia e i Balcani,
nella natura di una regione con cultura e tradizioni di confine dove, di
regola, la preservazione di un patrimonio multilinguistico è un’esigenza
fondamentale. Elio Bartolini, friulano quasi doc, tanto che “tutti quanti
dimenticano che c’è stata prima Conegliano”, a Codroipo, in Friuli,
arriverà bambino e, a parte brevi parentesi tra Roma e Milano, è in
questo territorio che trascorrerà la vita intera. Un’esistenza che,
purtroppo, si è spenta lo scorso anno, a ottantaquattro anni, nella
provincia di Udine, dove risiedeva da lungo tempo. L’intervista di
Mauro Daltin non è che un progetto interrotto da questo lutto.
Un’ambizione ben più vasta, come chiarisce nella prefazione a sua
firma, era insita in questo programma scandito dal sabato pomeriggio.
Di fatto, in questo libro, ritroviamo la giovinezza di Bartolini, le sue
esperienze formative, la guerra e il primo dopoguerra che lo condurrà a
una riflessione più ampia e articolata, sintesi di “ex” (o exit) e militanza
tra ideologia cattolica e comunista filtrate dalla sua eresia intellettuale.
Sceneggiatore in alcuni film di Antonioni ed anche in collaborazione
con Pasolini ne Il carro armato dell'8 settembre di Gianni Puccini, ci
lascia, tra l’altro, una personale e contraddittoria testimonianza di Pier
Paolo (anche lui friulano) nella sua intervista. Ma è soprattutto come
narratore che Bartolini ha segnato la sua carriera, con romanzi come La
bellezza d'Ippolita, Chi abita la villa, Icaro e Petronio, Pontificale in
San Marco e il Ghebo, oltre che come saggista e anche poeta. L’eretico
e il cattolico, “chiave di tutto il mio pensiero”, sono lettura nella
memoria, sigillo posto a tergo degli incontri del sabato. Ancora
fanciullo, entrò entusiasta in seminario, un posto affollato e dove
“bisognava pagare”. Tempi in cui il fascismo, venendo a patti, si
contendeva/divideva la gioventù con l’Azione Cattolica. Poi la guerra
di Spagna, i primi dubbi, le prime letture e riflessioni importanti, di
quelle che cambiano la vita. Madame Bovary, Lirici nuovi, l’uscita dal
Carmina n.6
95
seminario, l’ex che compare e con cui si deve “ricominciare da zero”.
Pochi soldi in tasca ed ingrati lavori. Durante la guerra ed il periodo
universitario si avvale di un approccio con riviste come Primato,
Frontespizio e Prospettive, “prima apertura di finestra su un mondo che
non finiva con Croce”. E sarà attraverso le riviste che,
successivamente, conoscerà le sue prime fortune letterarie con la
narrativa breve. Quindi la chiamata alle armi, le crisi isteriche, il
ricovero ed infine l’8 settembre con l’epilogo partigiano. L’esperienza
del carcere e il ricordo della X Mas: “ragazzi dalmati e istriani,
antisloveni e antislavi”. Risalta, tra aneddoti e osservazioni storiche, un
Mussolini “molto meschino”, al contrario di Hitler, imbrigliato nella
retorica della “non belligeranza”, “neologismo per non dire neutralità”.
In questi colloquiali spunti, resta ferrea l’ottica di una guerra di
liberazione antifascista, poco incline alle tentazioni fuorvianti del
revisionismo. Resta anche pietà e spazio per il sentimento popolare,
come nel caso del “cuginetto”, arruolato a Salò e morto ammazzato,
mentre era in approvvigionamento, dai gruppi partigiani. Nel primo
dopoguerra vive la scomunica di Tito e la conseguente fuoriuscita dal
partito, l’ex che ritorna, ciclico, nell’eresia intellettuale. Il cattolicesimo
sedimenta come archetipo di tutte le rivoluzioni perché “si sfalda, entra
in crisi” e, inevitabilmente, “si trasforma in eresia”. “Il marxismo non è
fallito, è difficilissimo da mettere in pratica”, questo, dopotutto,
conclude Bartolini. L’intervistatore, da parte sua, tira in ballo nel finale
la figura di un intellettuale che, nel nostro paese, è relegato ai margini;
Bartolini aggiunge che è addirittura sbeffeggiato. “Dipende dalla
società” che (come dargli torto) si mostra più sensibile al pensiero,
come “quella slava”. Da noi, annota tra le cause, pesano troppi secoli in
cui “l’intellettuale è stato cortigiano”.
Carmina n.6
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Recensione a “L’urlo e il sorriso”
di Enrico Campofreda e Marina Monego
Di Enrico Pietrangeli
Quello di Enrico Campofreda e Marina Monego è un esordio
narrativo a quattro mani dove vengono ripercorsi, con estrema lucidità
e dovizia di particolari, i sentieri dell’infanzia. Meglio, forse, non
avrebbero fatto in quella terza età caratterizzata dalla repentina
esplosione di così tanti dettagli legati ai primordi. Racconti brevi,
strutturati con semplicità ed efficacia, non del tutto estranei a talune
ricercatezze e che comunque scorrono, fluidi e disarmanti, nella
consunta poetica di spontanee ingenuità perdute, sempreverdi memorie
radicate. Fuoriesce, inevitabilmente, quel bel paese ancora arrangiato e
che già subiva il travaglio di profonde trasformazioni in corso. Ritratti
in bianco e nero, istantanee neorealiste carpite da uno schermo, quello
della memoria, dov’è ancora palpabile quello sfondo sociale vincolato
ad interagire coi destini dei protagonisti. L’automobile, la TV, il
frigorifero, i nuovi quartieri che sopravanzano: sono gli anni del boom
economico, cementano Celentano e la via Gluck. Lo scenario di
campagna e di città si alterna facendo da cappello ai titoli dei singoli
episodi che si susseguono. Inconsulte e altrettanto innocenti riemergono
passioni per le lucertole, corse alla marrana, un fragrante schiamazzo di
borgata, strade sterrate, biciclette e lambrette. Venezia e l’entroterra,
insieme alla periferia romana, sono i luoghi d’azione nonché di origine
degli stessi autori. In una corsa nei campi, dove svetta alto il mais in
un’antropomorfica visione di bambine, si svela un sapore antico, quello
del Veneto contadino, che ancora sussiste attraverso i suoi riti
propiziando nuove stagioni in un immenso falò. Dietro lo sguardo di un
bambino silenzioso, c’è lo scorcio di una laguna colto con nostalgia, un
castello di sabbia “ancora intatto”. Del resto, la nota di quarta di
copertina relativa a Marina Monego, conclude precisando che “a
Venezia è rimasta affezionata e vi ritorna sempre volentieri”. Aneddoti
di scuola ci lasciano in una coda di suoni, sono quelli della Gigliola
Cinquetti che canta “Non ho l’età”. Forse sarà stato anche per via di
quel festival simbolo nazionale, dove spopolò nel ’64, che si
confondono “cinguettii” con “cinquettii”. La televisione imperversa e
Carmina n.6
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diviene “simbolo di quegli anni” operando una “omologazione
culturale”, come precisa Arace nella sua prefazione. Tra bighellonate,
giochi e altre esperienze, si finisce nel gelo del fossato o si osa,
infrangendo il tabù materno dell’imbarcadero. Meloni rubati a
ferragosto, approfittando della festa in corso, in una campagna che vede
il contadino erigersi a piccolo proprietario, retaggio di un’ancora non
troppo lontana riforma agraria. Spesso si fa ricorso al dialetto nei
dialoghi, soprattutto il gergo romano di periferia, ma non mancano
neppure più melodici accenni di filastrocche venete. Ghiaccio bollente
è un episodio che riporta ancora in pieno a quel clima più prossimo al
dopoguerra piuttosto che di sviluppo, è il ritmo di una campagna che
serenamente stenta nel mettersi al passo coi tempi. In Areniade la
periferia si misura “dalla strada al mondo”, Valle Giulia e gli studenti in
rivolta iniziano a fomentare dubbi, ma il cuore pulsa altrove, è tutto
rivolto verso le olimpiadi di Città del Messico che i ragazzi, di lì a
poco, si appresteranno a emulare. Sesso e religione, insieme ad una
motoretta, perno di una rocambolesca gita al mare, costituiscono una
possibile trilogia assemblante il finale. Sudate iniziazioni dispensano,
come premio, la riluttante visione di cosce smagliate e cadenti, mentre
il chierichetto ci ricorda quanto sia teatrale la messa e, tutto sommato,
tanto vale parteciparci da protagonista. Un’edizione ben curata, una
piacevole lettura assicurata. Nodi narrativi a tratti stereotipati, ma mai
noioso. Questo è senz’altro un esordio che segna il passo, osa poco, ma
si presenta come un prodotto compiuto, capace di aprire a future e più
consistenti produzioni sempre che, i rispettivi autori, siano anche in
grado un po’ più di esporsi.
Carmina n.6
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Recensione a “Nerone oltre la leggenda”
di Guglielmo Natalini
Di Enrico Pietrangeli
La Ugo Magnanti Editore è una piccola casa editrice presente sul
territorio pontino e dedita a stampe rigorosamente limitate e molto
curate. Anzio, città natale del più discusso imperatore romano, è anche
lembo costiero che si approssima all’editore della contigua Nettuno
attraverso una complessa e tuttora avvincente ricerca che viene
condotta sull’argomento. Yves Perrin, segretario della Sociètè
Internazionale D’Etudes Nèroniennes, nella prefazione chiarisce subito
che “esistono due Neroni, quello degli studiosi e quello dei non
specialisti”. L’immagine convenzionale è quella di un “folle dedito alle
orge, spietato matricida e uxoricida”. In queste pagine emerge una
figura contrastata, denigrata ed esaltata, amata e odiata, fintanto da
rendere la stessa storia più umana; frutto di ricerca ed imparziale
dedizione vissuta con autentico pathos. Dopo la morte dell’ultimo dei
Giulio-Claudi, Tacito osserva che “era stato reso pubblico un segreto di
Stato: potersi creare un imperatore fuori di Roma”. Per molti anni
furono in tanti a crederlo ancora vivo e pronto a tornare, diversi furono
coloro che presero il suo nome in prestito o a pretesto. Di fronte
all’evidenza della sua morte, c’è chi non rinunciò a credere che un
giorno sarebbe persino resuscitato rendendo a tutti giustizia. Di
giustizia a lungo si occupò in vita Nerone, determinato nel consolidare
un potere assoluto, di svolta per quel che sarà la successiva iconografia
del tardo impero, sempre più minacciato tanto nelle sue faccende
interne quanto nelle pressioni esterne esercitate sui confini. Tra i vari
filoni etimologici sulle leggende divampate, ci si addentra in due
tradizione pagane, l’una favorevole e l’altra contraria a Nerone.
Postuma è quella avversa dei cristiani, sviluppatasi nel corso del III°
secolo, che lo presenta come un persecutore in una fosca visione
apocalittica. Inoltre sussiste un’ulteriore tradizione ostile di stampo
giudaico, che si origina intorno alla distruzione del tempio di
Gerusalemme. Con l’umanesimo e la proiezione interpretativa della
verosimiglianza storica, l’argomento s’inizia a discernere più
attentamente. Taluni studiosi contemporanei giungeranno alla
conclusione che i primi cinque anni del regno furono un modello di
Carmina n.6
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saggezza, umanità e lungimiranza. Politica estera di mantenimento,
garantismo ante-litteram, riforme fiscali ed economia programmatica
caratterizzarono questo periodo nonostante i prevedibili crescenti
conflitti tra il monarca e l’apparato aristocratico senatoriale. Gerolamo
Cardano, autore de L’Elogio di Nerone, resta un opportuno esempio tra
quanti, su questo fronte, si sono spinti anche oltre. Tra le probabili
cause dell’incendio di Roma, risaltano le condizioni di
sovraffollamento urbano, l’impegno di Nerone a condurre i soccorsi in
prima persona, il fanatismo di taluni cristiani che vedevano nella
libertina Roma dei tempi la bestia dell’apocalisse da estirpare nei
flagelli della carestia, della morte e del fuoco. Di fatto Nerone, al
contrario di certi successori, non mise mai in atto una politica
anticristiana limitandosi a processare le frange ritenute colpevoli del
solo incendio. Paolo di Tarso, già presente a Roma e noto alle autorità,
non venne neppure inquisito. Un imperatore amato dalla plebe romana
ma anche nell’antica Lione, ovvero Lugdunum, per la ricostruzione
avvenuta dopo l’incendio. A proposito di ricostruzioni, la Domus Aurea
resta d’esempio, nelle descrizioni tramandate, non solo per gli sfrenati e
dispendiosi lussi, ma anche per la modernità e le soluzioni integrative.
L’artista Nerone esordisce in pubblico a Napoli, coronando poi le sue
ambizioni durante il lungo e dispendioso soggiorno in Grecia, dove
finirà col distogliersi completamente dalla realtà politica. Lungo spazio
è lasciato alle congiure che si susseguiranno, fallendo anche
ingenuamente, nel volgere al termine del regno, a cominciare da quella
di Pisone fino all’ascesa di Galba, avvenuta imprevedibilmente
nell’ormai critica ed irreversibile situazione di dispendio e declino
psicofisico di Nerone. L’ultimo capitolo è un excursus sulle messe in
scena nel corso dei secoli, ma qui, probabilmente, occorreva scrivere
un secondo tomo. Un imperatore la cui sensibilità artistica non ha
giovato molto e a cui la creazione artistica, indubbiamente,
sembrerebbe essersi pressoché ininterrottamente ispirata. In sostanza,
se già il persistere troppo nell’arte non conduce mai, bene che vada, a
proficui frutti, dovendo gestire un potere, non può che condurre a
enormi sciagure.
Carmina n.6
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Recensione a “Rosso”
di Cinzia Tani
Di Enrico Pietrangeli
Il saluto di fine luglio organizzato dalla Giulio Perrone Editore è
stato un piacevole happening prossimo alla spiaggia, con tanto di
piscina e comunque vittima della fagocitante calura estiva. Un evento
che ribadiva un target giovanile (nella media trent’anni) e un’apparente
voglia di esserci e coinvolgersi in tanti in nome della lettura. In questa
occasione ho avuto modo di avvicinarmi tanto al libro quanto
all’autrice. Cinzia Tani, scrittrice, già conduttrice televisiva e
collaboratrice d’importanti testate giornalistiche femminili nonché
docente, incontra quest’editore attraverso Racconti d’autore, una ben
curata collana tascabile contenuta nel prezzo e nelle pagine. Rosso, il
titolo della raccolta comprendente sette racconti, vuole essere un filo
conduttore, attraverso il dettaglio, nel ritrovare corrispondenze e
percorsi nello scorrere delle narrazioni. Di rosso è tinto tutto un
cammino seguito, e con rilevanza, dall’autrice. Esordendo come
scrittrice con Sognando California, un romanzo di formazione, hai poi
avviato con la Mondadori una serie di pubblicazioni dedicandosi al noir
femminile. Sarà Assassine a inaugurare un fortunato ciclo rivolto alla
cronaca nera e che la porterà anche a tenere corsi di Storia del Delitto
presso l’Università di Roma. Indagare nelle menti permettendo al
lettore di accedervi gradualmente, attraverso quei dettagli che ne
rendono tangibile l’esistenza stessa, è una componente strutturale che
permane nella sua narrativa breve. Sono brandelli di vita che si
dischiudono nei pensieri dei protagonisti, sofferenze celate e speranze
di rinnovamento che, a parte qualche innocuo e malandato maniaco del
virtuale o un omicidio con tanto di ricatto erotico spiato, sembrerebbero
piuttosto raffigurazioni esistenziali. Personaggi che si profilano nella
loro quotidianità incorrendo nel particolare, possibile variante ma
anche nesso di un’intera esistenza. Rosso è il colore di una maglietta
che si accavalla al tradimento e poi fuoriesce in un improvviso sguardo
ghermito da un balcone: “capacità del vero amore è quella di rendere
intenso ogni momento come fosse l’ultimo”. I segreti delle donne, un
suo più recente libro che rivela un intimo meno patologico ed
Carmina n.6
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inquietante, quello di una condizione femminile comunque soggetta a
una rigidità morale, dove anticonformismo ed eccentricità trovano
antico rifugio nelle segrete stanze della mente, è, probabilmente, molto
più facilmente accostabile agli argomenti di quante vicende si rasentano
in Rosso. Rosso è lo sfondo, quello di “tende rosso vivo” e del golf di
lui, “rosso sui jeans azzurri”. Forte è il retaggio giornalistico e
professionale, soprattutto nel racconto introduttivo e di chiusura.
Bambine, l’episodio più intimistico e ricco di trasversali memorie, ci
trasporta, con la sua bicicletta rossa, nel rifugio di una Fregene pregna
di riflessioni e solitario lavoro, ma anche di tanti incontri: grandi amori
e quelli occasionali. Un ciondolo rinvenuto dopo tanti anni sarà
l’occasione per fare una pedalata in un’altra Fregene, quella
dell’infanzia, in una sovrapposizione tra la figura materna e filiale.
Medio Oriente, Costa Azzurra, New York, sono altre tappe dove
rincorrere un amore perduto o ritrovarlo quasi casualmente, nella
conclamata insoddisfazione di un diverso percorso tracciato dalla vita.
Al caso è connesso anche lui, che appare dal nulla e nel nulla scompare
senza mai tradire una pavida illusione di aspettative. A lei non resta che
chiedergli: “Non credi più nella sorpresa, nel caso, nell’inatteso?”
Carmina n.6
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Recensione a “Sopra e sotto”
di Roberto Casalena
Di Enrico Pietrangeli
Sopra e sotto. Sottosopra sono le regole, le virtù, l’autenticità di
dubbi burattinai del mondo. Sopra e sotto è antico gioco di parti, potere
esercitato, primordiale posizione: quella degli amanti. A chi sta sotto,
tuttavia, è sempre concesso di guardare il cielo e “meno le punte dei
piedi”. Gli eletti, poi, quelli più eccentrici e fanciulli, che non hanno
mai smesso di aver fede (quella nel cielo, piuttosto che delle varie
chiese), potrebbero incappare in qualche sorta di paradiso terrestre
finalmente riscattato. Allora le vergini non saranno più conseguenti ad
un martirio, solcheranno i nostri cieli dentro astronavi portando, con la
loro brama di amore, giustizia e pace per tutti. Del resto, in questo
nostro bel paese martoriato, dagli immutati costumi di comodo, fatti di
scontri all’ultimo sangue e trasversali accomodamenti, non ci resta che
invocare un terzo polo di extraterrestri. Se poi sono anche tutte
femmine, e di quelle con “F maiuscola”, potrebbero essere ancora in
grado di rispolverare qualche italico ideale tra le genti della nostra
antica, gloriosa stirpe. Quella che ci propone Roberto Casalena,
giornalista economico, è anzitutto una storia, quella di Alessandro, con
cui condivide la stessa professione. Il protagonista, che scopre la sua
origine divina e immortale durante un acquazzone, viaggiando nel
caotico traffico romano, vive la notte del black out nazionale
trastullandosi con Francesca. È preso, e molto, da un ambizioso
progetto: quello di avviare un nuovo giornale che sia realmente libero,
indipendente. Qui incontra Stella, una donna tenera e travolgente, in
grado di ricondurlo ad una grazia perduta. Con lei inizia anche un gioco
delle parti: sopra e sotto. Gelosie insite, scuse e banali bugie faranno
entrare in ballo subito Giada, da poco approdata nella redazione. Qua e
là squarci di noiosa e nondimeno avvincente vita mondana con qualche
denuncia sociale spiattellata dentro: “Si dice, almeno stando ai soliti
dati Istat, che in Italia la disoccupazione risulti in calo, la verità, però, è
un’altra, e cioè, che chi è raccomandato trova un posto, mentre gli altri,
tutti in fila ad aspettare. La meritocrazia non è un principio, ma un
optional”. Le figure femminili si sovrappongono, incessanti, come un
Carmina n.6
103
ossessione, in un inevitabile ed ideale senso di liberazione. Giada
sembrerebbe una compagna leale e affidabile, ma presto dovrà far
fronte ad altre rivali. Contro queste ultime, aliene ed assetate di maschi
per la loro riproduzione, non resta che un unico compromesso:
assecondare. Un oscuro virus ha sterminato tutti i maschi del loro
pianeta, da tempo vagano nello spazio e, nella terra, sembrerebbe
esserci ancora abbastanza posto per tutti. Mediazioni dei servizi segreti,
dopo un primo attacco, riescono a farle stabilire in Cecenia, con tanto
di benestare da parte dei russi. Un racconto che esordisce verosimile, a
tratti intimistico e biografico, per poi virare, improvviso, tra gli UFO;
intimi anche quelli, dopotutto. Apparizioni, contatti ravvicinati ed uno
sventato scontro più diretto, svelano un’umanità più solidale,
finalmente unita e redenta. Tutto, forse troppo, parrebbe una fiaba a
lieto fine: un vero e proprio intreccio tra fantasy, grottesco e
fantascienza. Le pagine di Casalena, tuttavia, scorrono davvero liete.
Lasciano, ingenue ed incalzanti, soprattutto nei loop su certe
considerazioni, autenticità alle loro sensazioni, quali che esse siano,
tralasciando orpelli letterari e altri tipi di fronzoli narrativi. Questo lo
rende un libro possibile, intelligentemente spudorato, da leggere in
meno di un’ora, tutto di un fiato. In un finale dove il protagonista,
sempre grazie alle aliene, troverà soldi e finanziamenti per un grande
quotidiano da un mecenate dell’industria, con tanto di figliola, la bella
Daniela, come segretaria in allegato. A proposito di Alessandro…
naturalmente finirà con lo stabilirsi in Cecenia e, oltre a Daniela, vivrà
a lungo e gioioso anche in compagnia di Giada e l’incantevole
marziana Emmer.
Carmina n.6
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Recensione a “Teatro totale”
di Alfio Petrini
Di Enrico Pietrangeli
Titivillus, diavoletto dello spettacolo, si manifesta rendendo fruibili
idee integre dalla censura di “monaci medioevali” e accoglie questo
saggio di Petrini nella sua collana Altre visioni, dove prendono forma
ulteriori spunti per la didattica del settore. Teatro totale è sintesi e
strumento di ricerca, momento d’intersezione delle arti e, al contempo,
uno scorcio rinascimentale, prospettiva verso il più antico e connaturato
varco predisposto a sincretismi e sinestesie, una pluralità del linguaggio
che non può rinnegare le origini, per ricalcare più direttamente il
pensiero dell’autore. Quella del teatro totale è, in ogni caso,
un’esperienza che vede coinvolto Petrini in un lungo percorso, di cui
compare a tergo del libro quella relativa al primo convegno
internazionale svoltosi a Roma nello scorso 2001. Attore, regista,
drammaturgo, critico e redattore della rivista INscena, l’autore, in
questo libro, si avvale dell’introduzione di Giancarlo Sammartano,
empatica e gradevolmente romantica nel rivendicare attraverso la scena
“un volontario destino”; forse un po’ più riduttiva nel rilevare le vesti di
un “apprendista proletario che si fa maestro aristocratico”, un
interessante spunto di dibattito s’intravede comunque nella chiusa:
“salutare con-fusione di Teatro e Vita”. Petrini guarda alla ricerca senza
mai perdere di vista la tradizione, fintanto da ravvisare “una necessità
sociale” nella “pluralità del teatro”. “L’unità nella diversità” è il dogma
che ne scaturisce. Nel complesso, risulta essere un ottimo compendio
generale, sviluppato con pathos e tesi originali che tendono a
personalizzarne la fattura. Ripercorrendo le varie strutturazioni del
teatro, si approda in maniera più incisiva verso le avanguardie ed il
teatro futurista, profondamente rivalutato attraverso la figura di
Marinetti, sul quale il silenzio imposto viene additato come preconcetto
ideologico sul giudizio artistico. Il paragrafo iniziale dedicato al teatro
totale evidenzia subito una prima grande figura, quella di Wagner, il
teorizzatore, ma anche quella di Artaud ed il suo “doppio” prende
subito consistenza come un inevitabile punto di riferimento per l’intero
argomento trattato. Naturalmente sia Stanislavskij che Grotowski sono
Carmina n.6
105
imprescindibili come eredità del teatro più moderno. Grande rilevanza
è riservata alla poesia o meglio a quel “valore aggiunto” inteso a
sottolineare che teatro e parole sono strettamente vincolate alla
corporeità dell’azione, “parola del non detto”. Se “l’opera d’arte esiste
nel suo divenire”, il regista non può far altro che tradirla per amore ed è
un “fare poetico” che racchiude il “favoloso possibile” a ricondurlo al
nulla, ovvero allo “spazio della creazione”. Beckett e Shakespeare sono
quei “cattivi pensieri” indispensabili per scavare oltre e specchiarci
nelle nostre eresie barbariche, tasselli pressoché fondamentali
nell’espressione della totalità. Un attento sguardo è rivolto alla
panoramica delle tecnologie digitali, alla multimedialità ma anche
all’intermedialità passando per la pop art, la performance, l’happening
e quant’altro ancora fino a reinventare “le regole della visione e della
percezione”. Da Fluxus, John Cage e gli anni Sessanta alla più
prossima generazione degli anni Novanta, così variegata e composita,
sino a quel nuovo teatro che ha tentato di forzare verso un “ritmo
cinematografico o da videoclip” giungendo, infine, alle forme
cosiddette estreme o eXtreme, quelle dove la crudeltà è esplicita nelle
ferite come nel dolore teatralizzati nella live art. Il paragrafo de
L’attore me stesso conclude il tutto in un personale riepilogo della
diretta esperienza dell’autore che poi è divenuto anche “maestro”.
Teatro totale, ovvero la vita e tutte le sue sfumature che, abbattendo la
barriera della scena, nel Novecento finiscono col coinvolgere il
pubblico in prima persona. Che il teatro si possa confondere nella vita e
viceversa, del resto, è cosa ben più remota. Il punto è determinare
un’etica che, indubbiamente, è più facilmente accertabile nella
rappresentazione, piuttosto che nella confusione. Magari anche in
questo caso, perché no, nasce l’esigenza di una “fusione” con quanto
l’autore vuole addurre alla luce come indispensabile aspettativa della
vita.
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Recensione di “Versi tra le sbarre”
a cura di William Navarrete
Di Enrico Pietrangeli
Che Cuba riporti a ben altre immagini che i consumati simboli di
rivoluzione da taluni ancora cavalcati, i tipi de Il Foglio non se lo sono
lasciato sfuggire realizzando e curando un’intera collana
sull’argomento. Tutto questo, nondimeno, gli è costato qualche palese
censura praticata persino in un paese libero come il nostro. L’etica della
centralità della dignità dell’uomo, espressa con fermezza e priva di
rancori, nell’oggettività di un’umana richiesta, è quanto colpisce in
quest’antologica, non tanto nella forma dei versi, spesso eterogenei,
quanto nella loro stessa consistenza. È un sommesso anelito che non
viene mai meno, quello di una Cuba libera, dove nessuno debba mai
più vergognarsi di appartenere alla propria terra. La copertina di Elena
Migliorini ne esprime appieno l’idea. Le traduzioni di Elisa Montanelli
sono puntuali e letteralmente pure, forse troppo, talvolta, da tralasciare
la poesia. Navarrete, il curatore del testo, è un esule cubano che risiede
e coordina a Parigi attività di dissidenza. Nella prefazione la primavera
del 2003 aleggia ancora come “spietata repressione di un regime
totalitario” che imprigiona giornalisti, poeti ed altri attivisti per i diritti
umani. Vazquez Portal, già affermato poeta prima dell’incarcerazione,
viene ricordato “libero in questa nostra gigantesca prigione: Cuba”
dove si conclude desiderando “speranza per un intero popolo
prigioniero”. Sì, questa è Cuba, sebbene una certa sinistra, apologeta
del mito, pur di fare antiamericanismo, sarebbe disposta a vendere
l’anima al primo talebano esploso alla stessa stregua di una certa destra.
Molti degli autori presenti hanno collaborato con Radio Martì, a
Miami, dove risiedono gran parte di coloro che sono riusciti ad
abbandonare l’isola. Gonzales Alfonso è uno di loro, giornalista
indipendente che mette in versi un Otello carceriere: “il suo odio/lo
riservava ai condannati”. Iglesias Ramirez, scrittore e militante del
Movimento Cristiano di Liberazione, auspica una resurrezione intrisa
di compassione, incluso verso i nemici, perché “Dio li ama. E anch’io”.
Mayo Hernàndez è tra quanti hanno più patito a causa di precarie
condizioni di salute e dell’ostinata insensibilità di un regime che arriva
Carmina n.6
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persino a negargli l’assistenza medica. Resta in lui, nondimeno
radicata, una consistenza del femminile “penetrata nella pelle” e che gli
“ha infuocato le ossa”. Forse più di altri è ancora legato alla tradizione
modernista e alle sue schegge romantiche; emblematica, in questo
senso, la sua musa, un calembour di “solubile indugio” e sinestesie al
“suono di naftalina”, dove tuttora si percepisce la “nutritiva vernice” di
questo genere di poesia. Olivera Castillo è tra quanti in passato
collaborarono col regime e, con coraggio e coerenza (“la bile è riuscita
a divorare il mio nome”), ne mostra le “orecchie della perversità”:
“Cuba affonda!”. Il poeta Raúl Rivero Castañeda, dopo aver subito
l’umiliazione del carcere, vive esiliato a Madrid. Con Alta fedeltà si
cimenta in originali metafore a trentatre giri: “Si libereranno dal dolore
del giradischi/torturato dallo strofinio e dalle punte”. A merito di Pier
Ferdinando Casini va l’aver riportato adeguata attenzione al suo caso
durante il seminario Cuba e democrazia svoltosi nel 2004 e citato nella
nota biografica redatta sull’autore. Omar Moisés Ruiz Hernàndez,
membro del Partito Liberale Democratico Cubano, ci descrive molto
bene, attraverso uno stile prossimo al prosastico, come “puniscono con
spietatezza l’ansia/umana di vivere in libertà”. “Vengo, patria, ad
abbracciarti/per risorgere insieme a te” sono i versi con cui Manuel
Vazquez Portal conclude questa antologica. Nell’augurio che questo
avvenga quanto prima possibile, che tanto il vecchio quanto il nuovo
castrismo di Chavez sia, per sempre, sradicato dalla regione, non
possiamo esitare un solo istante nel prendere inequivocabilmente
posizione verso chi collabora attivamente con l’Iran atomico, teocratico
e negazionista. Infine, se qualcuno dovesse nutrire ancora dei dubbi
sulla Isla feliz, una più adeguata delucidazione la potrà ottenere
attraverso l’appello di Amnesty International riportato a tergo del libro.
Carmina n.6
108
Recensione a “Cosa Cerchi? Poesie (1990 -2006)”
di Francesco Carraro
Di Renzo Montagnoli
Prima ancora di aprire questo volume, caratterizzato dalla copertina
bianca, candore interrotto solo dal titolo, dal nome dell’autore e da tre
cerchi di diverso diametro e dalla circonferenza blu, mi sono chiesto
quale è stata la molla che ha indotto un poeta ancora giovane a
sostenere i costi della stampa in proprio, ben sapendo l’impossibilità
poi di una normale distribuzione.
Le risposte sono state tante e nemmeno una soddisfacente, ma quella
che reputo convincente è emersa solo in corso di lettura, come si
evincerà dalle righe seguenti.
Cosa Cerchi? è una silloge costituita da raccolte di poesie che
Francesco Carraro ha scritto dal 1990 al 2006. Considerato il periodo è
indubbio che finisca con il rappresentare l’opera omnia dell’autore, una
sorta di diario esistenziale che ha inteso raccogliere in un’unica
struttura come memoria, prima per sé che per gli altri.
Ali di Carta costituisce la prima raccolta ed è relativa agli anni dal
1990 al 1994. Carraro all’epoca frequentava ancora l’università e pur
nella sua giovinezza accompagna i versi con una nota malinconica,
lieve, ma sempre presente, come in Sera (Sera / mi riporti l’eco / spenta
/ delle strida / di uccelli selvatici…/…Anche / nel mio intimo / rifugio /
è sera).
Mi si potrà dire che è il frutto di turbamenti dell’età, di quel connubio
di entusiasmi e di insicurezze che tutti abbiamo sperimentato, ma lui li
ha ritenuti determinanti tali da fissarli sulla carta, come in Giovinezza
(…/ Momenti urlati nel vuoto / e riflesse a ondate negli occhi / le voglie
roventi /del sole di maggio. / Momenti vissuti / con incauto trasporto /
incoscienti / dell’immensa voluttà / dell’esistere).
Adesso anche a me, come a voi, tornerà in mente questo periodo di
inconsapevole felicità, in cui tutto ci sembrava o troppo solare, o troppo
scuro, in cui si viveva come in una sorta di limbo.
Stazione di posta è la seconda raccolta ed è relativa agli anni dal
1995 al 1997; in essa mi sembra più evidente uno sconforto
esistenziale, quasi come se dalla vita ci si potessero attendere solo
Carmina n.6
109
consapevoli illusioni, come, per esempio, in Ascensioni, (…/ Per non
ridurre il vivere / a una landa brulla, / a un tessuto brucato / dalle
voraci, / infaticabili larve / del nulla…). Qui troviamo anche quella
giudico una delle migliori poesie di questo volume e mi riferisco a In
memoria di Fabio Casartelli, versi per nulla scontati e che conferiscono
al ricordo la dignità di un grande sentimento espresso con serena
struggente pacatezza.
Più avanti, e già sono gli anni 1998 e 1999, c’è la strana raccolta
intitolata Quaderni di quando ho capito. Di colpo l’autore sembra aver
trovato le risposte a tanti perché (…Le ho detto: / sei la verità / e ti
conosco…), (…E null’altro / che conti / tranne / che esistere. /
Sapendolo.). Tuttavia, le possibilità interpretative aumentano, nel senso
che si avvia una certa tendenza a un linguaggio introverso, quasi come
se si temesse di aprire agli altri soluzioni considerate proprie e forse per
questo fallaci.
Nel 2000 scrive Sincronie Tantriche (coincidenze d’amore). Appare
evidente che c’è qualche cosa di nuovo, con la nascita e l’incontro di un
sentimento, e la mano del poeta sa cogliere momenti e stati particolari,
con una grazia misurata e pudica e con risultati più facilmente
comprensibili (Rivelarmi / è stato semplice. / Molto / più difficile /
scoprirmi / disvelato. / Sapermi amato / amando / mi pungeva / quanto
un infinito dolore / mai espresso. / Solo / che era / grazia).
È stato un momento di certezze corrisposte, una sorta di osmosi che
ha beatificato il poeta, testimone attore che ci rende partecipi di questo
pathos.
L’ultima raccolta, del 2006, si intitola Ritratti in carboncino,
denominazione indovinatissima, perché si tratta di veri e propri schizzi
letterari. Questi ritratti sono di figure reali, persone che sono entrate,
ognuna con il suo peso, nella vita dell’autore e la capacità di
descriverne il carattere, la personalità è veramente di tutto rilievo.
Troviamo così il Padre (Quello / che non ti dissi / non sarà detto /
quello / che non ti scrissi / non sarà scritto.), una poesia lunga in cui si
esprime con sobrietà la riconoscenza per chi ha allevato un figlio,
oppure la Madre (Hai un sorriso / in bilico / cui m’aggrappo…), una
serie di versi di affettuosa e lieve tenerezza. L’ultimo ritratto, a
conclusione del volume, è dedicato alla Moglie, forse meno originale di
altri, più conformista e incline a riecheggiare, ma fortemente sentito,
perché questa figura è il presente e sarà anche il futuro.
Carmina n.6
110
Considerato il lungo periodo abbracciato da questa silloge e le
molteplici tematiche è naturale che si finisca con il valutare più l’autore
che l’opera e in questo senso ritengo che il ricorso al verso libero di
Carraro, fatto di poche parole, di frequente addirittura di una sola,
costituisca nell’insieme tuttavia una composizione equilibrata e dotata
anche di una propria armonia su cadenze sempre piuttosto lente, come
se la carta venisse accarezzata dalla penna.
L’impressione che ho ritratto è di un poetare frutto di una preventiva
costruzione interiore, e quindi mai istintivo, anzi assai riflessivo, ma
ciò non toglie che il sapiente ricorso a metafore, a unioni concettuali e
anche a sospensioni finisce con il consentire una fluidità propria, come
se il tutto fosse esclusivamente frutto della spontaneità, e ciò rende
assai piacevole la lettura.
Francesco Carraro è nato nel 1970 a Padova, dove vive.
Si è laureato in giurisprudenza ed è avvocato.
Carmina n.6
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Recensione a “L’azzurro del mare”
di Roberto Morpurgo
Prefazione di Sandro Montalto
Di Renzo Montagnoli
Chiudo il libro e mi dispiace, perché il fluire dei versi di questa
silloge ha la stessa carezza lieve di una brezza di primavera; già la luce
fuori si fa fioca e il giorno è passato assaporando le armonie di una
penna felice, un susseguirsi di immagini e di emozioni, mai forti, ma
sommesse e quasi pudiche, in un lento adagio che avvolge e coinvolge
trasmettendo, senza che me ne accorga, una grande serenità.
Questa è la poesia di Roberto Morpurgo, un verbo sussurrato con
soavità.
La silloge in verità è costituita da quattro raccolte tematiche (Il
dolore e paesaggi, L’azzurro del mare, Viaggiare l’Italia, Pianura e
anima), quattro riflessioni di ampio respiro che s’intrecciano a formare
un’unica opera composita, come i tempi di una sinfonia.
L’azzurro del mare è anche il titolo di una poesia…
C’è a Itaca un trono
sepolto nelle acque
chiare dello Ionio.
Il richiamo al mitico eroe omerico, al lungo pellegrinaggio per il
ritorno alla terra natia cela il percorso del poeta alla continua ricerca di
una verità che sembra quasi di toccar con mano, ma che poi si disperde
come nebbia al sole.
Il ricorso alla metafora è precipuo in questa raccolta, ma è fatto con
misura e con grazia; così nella raccolta Il dolore e i paesaggi appare
sfumato (Cammino perché scricchi / la ghiaia), oppure, come ne
L’azzurro del mare, l’aspetto figurativo è simbolo di un’espressione
non didascalica, ma incisiva (…/ È come un istmo il mare. / …). Non
manca anche l’aspetto figurativo che introduce al sogno (Autunno / ti
illude Roma / alla sua luce / aurora / che azzurra ulcera / i cieli / come
nevi…) e nemmeno l’impatto tagliente, quasi brutale, per quanto
soffuso (Tango / ballato da enormi tacchi / sul fango / di un lucido /
Carmina n.6
112
acquazzone…).
Mi sembra indubbio che Roberto Morpurgo riesca a far sentire la sua
voce senza gridare, senza sovrastare quella d’altri, e ciò in forza di un
forte personalità poetica che permea tutta la sua produzione in cui
l’apparente semplicità della costruzione è frutto invece di un’attenta, e
probabilmente anche minuziosa, continua ricerca dell’armonia. Il suo è
un verso libero, ma procede in un flusso ininterrotto, senza asprezze e
acuti, bensì con una levità sonora tale da sembrare soggetta a regole
metriche, per quanto diverse dalle classiche. E in questo scorrere di
parole viene a crearsi una composizione di esemplare equilibrio
formale e fonetico che arricchisce ulteriormente la lettura, con il
risultato che al termine l’appagamento è tale che dispiace che non vi
siano altre pagine e altre poesie.
Roberto Morpurgo (Milano, 1959) è laureato in filosofia e scrive
poesie, aforismi, racconti, saggi, oltre a coltivare interessi per la
psicologia psicoanalitica, il cinema e anche il teatro. In campo
cinematografico ha collaborato fra gli altri con la Provincia di
Milano, l’Arci Cinema e l’Obraz Cinestudio. In campo teatrale ha
lavorato fra gli altri con il Teatro Universitario di Richard Gordon e
collabora come autore drammatico con la RSI (Radio Svizzera
Italiana). In campo musicale ha scritto canzoni (musiche e testi) e
lavorato per la Ricordi. In campo editoriale ha collaborato fra l’altro
con editori ed enciclopedie. Svolge la professione di consulente
aziendale.
Carmina n.6
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Recensione a “Testamento breve (Poesie)”
di Pasquale Mesolella
Prefazione di Armando Saveriano
Pentalinea Editore – Pagg. 106 – € 10,00
Di Renzo Montagnoli
Testamento Breve è una silloge di due raccolte: Il dolore di sempre
(1968-2000) e Ed è subito giorno (2001-2007).
Di conseguenza il periodo di tempo in cui sono state create queste
poesie è piuttosto ampio (quasi otto lustri) e, se da un lato consente di
verificare un progressivo e costante affinamento dello stile, dall’altro
comporta che le opere più lontane restino un po’ sotto tono rispetto alle
più recenti.
La mia non vuol essere un’osservazione negativa, anzi tende a
chiarire i motivi per cui si possono rilevare difformità evidenti, per
esempio, fra la pur valida Le mie amiche sconosciute e la più compiuta
Autunno.
Al di là di questa breve, ma necessaria premessa, tesa a giustificare
un’assenza di uniformità fra le opere esposte, l’esame della silloge si
presta a molte considerazioni.
Mi sembra evidente una semplicità stilistica che, anche per i temi
trattati, non costituisce un limite, ma anzi finisce con il diventare un
elemento caratteristico che accompagna sempre, con piacevolezza, la
lettura.
Molto spazio è dedicato alla memoria, a quel tratto di vita vissuta che
è sempre elemento caro ai poeti che in questo modo possono avvalersi
di esperienze smussate, quasi sfumate dal tempo.
Così le emozioni, anche dolorose, giungono ovattate e si prestano a
essere meglio veicolate sulla carta, dove si riflettono in toni più blandi,
propri di una sofferenza ormai metabolizzata, come ne Il dolore di
sempre, oppure nella tenera Se dovessi morire stanotte.
Il linguaggio appare nella prima raccolta più dimesso e l’impressione
è che la spontaneità dell’estro creativo abbia costituito la caratteristica
privilegiata.
La seconda, invece, assai più recente, ha anche maggiori pretese,
tanto che prende il titolo da una delle poesie (Ed è subito giorno),
parafrasando, in parte, quello della più conosciuta Ed è subito sera, di
Carmina n.6
114
Salvatore Quasimodo.
Del resto il ricorso a spunti da opere di autori noti non manca, come
nel caso di A mia figlia, che richiama po’ Alla mia bambina di Umberto
Saba; nulla che possa lasciar supporre un influsso determinante, ma
certo è che le ultime poesie risentono maggiormente delle letture fatte
dall’autore.
Peraltro, la costruzione più articolata del verso non è a discapito di
quella parvenza di spontaneità che offre alla poesia quella freschezza
tale da renderla senza età, e questo è un merito non da poco, perché in
un autore in cui la ricercatezza formale non è determinante, resta
proprio quella semplicità a imprimere una caratteristica dominante che
ne connota, positivamente, tutta la produzione.
Quindi i sentimenti e le emozioni sono esposte con il rigore della
semplicità, un risultato di tutto rispetto, come anche testimoniato dalla
assai riuscita Testamento Breve, che dà il titolo all’intera silloge.
Testamento breve (a mio figlio) (Di me/ ti lascio nulla / che ti possa /
liberamente vendere / all’effimero mercato / delle vanità. / Nulla ti
lascio / che ti faccia inorgoglire / di essere unico / grande / diverso. /
Solo / ti lascio / un barlume / di speranza / che t’illumini / la mente, /
una segreta traccia / di sofferenza / che ti faccia ricordare / ogni tanto /
di essere uomo).
Pasquale Mesolella è nato a Teano il 18 gennaio 1949. Dopo aver
frequentato le scuole medie e superiori in alcuni istituti religiosi della
Campania, ha seguito i corsi di diritto presso la facoltà di
giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli. Ha lavorato per
alcuni anni a Milano e poi a Prato in un Ente pubblico dove esercita
l’attività di funzionario. Vive, con la moglie e i due figli, a Prato, in
Toscana. Con le raccolte di poesie inedite “Parole al vento”, “Canti
d’amore”, “Frammenti”, “Electa”, ha partecipato a diversi concorsi,
segnalandosi per il suo vivo e intenso sentimento poetico. Il suo primo
esordio editoriale è del 2004 con un carme dal titolo “Carme alla mia
terra”, a ricordo della sua città natale, Teano, in provincia di Caserta.
Con la casa Editrice Bastogi, ha pubblicato nel 2005 la raccolta di
poesie dal titolo “Tornerò a riprendermi il sole”, e nel 2006
un’interessante raccolta di detti e racconti popolari dal titolo “Cose
della mia terra”.
Carmina n.6
115
ANTOLOGIA POETICA
M’incanto
nei magistrali colori del tramonto
quando superbi troneggiano
stormi di nuvole rapaci
addolciti soltanto un po’ negli intenti
dal mio cuore di bambino.
Alessio Bernabò
Ebbri di follia animale
su cumuli di macerie danzeremo
ubriachi di luna
e non finiranno mai nuove libertà
da scoprire inventare
unire a quelle vecchie.
Alessio Bernabò
* * *
INSEGUENDO ACHILLE (dedicata a Giorgio)
Ci sono passi
che ancora non riesco a fare
ed è inutile per me affrontare
ma so che dietro alla porta
con le rughe coperte dai bianchi capelli
ho una spinta che mi riesce a mandare oltre
non è necessario, padre
che tu cammini dinnanzi al mio mondo
Carmina n.6
116
perché io ti vedo lo stesso
e so perfettamente dove ti posso cercare
Lo so
mi hanno infinite volte trafitto il tallone
e moltissime altre l’ho trafitto io stesso
ho fatto della conquista della mia personalissima Troia
un cavallo di battaglia, senza che fosse di legno
e molte volte ci hanno abbattuto entrambi
Ci sono idee, padre
che ancora non riesco ad avere
e me ne vergogno un po’,
proprio ora che con lo scudo universitario
mi faccio difesa e vanto
trovo delle fondamenta leggere e mal costruite
ed ancora ricorro
alle tue cure ed alle tue carezze
che non ho mai avuto e che mai ho cercato
Sono tutt’ora l’incauto inquilino di una delle tue dimore
difensore dell’ultima ombra vista e passata
potrò mai padre,
vedere le mie ossa riposare in pace
senza dover necessariamente ansimare
e rifugiarmi tra le tue braccia…?
Ancor, io non so…
Alessandro Borsetto
SCRIVERE
Scrivere è la follia notturna
la pioggia mattutina sul tetto che ti sveglia
l’istinto, la rabbia… la paura
scrivere è guardarsi allo specchio, sapendo di non poter mentire
ascoltare dal muro voci straniere
guardare il sole senza bisogno di occhiali
scrivere è esorcizzare la morte
costruire un labirinto di mattoni attorno a sé
Carmina n.6
117
circuire la paura
corteggiare una donna volutamente velata
amare una musa, senza poter congiungersi materialmente a lei
scrivere è il brivido di una farfalla in bocca ad una lucertola
nebbia alcolica in notti buie
stanze polverose adornate di carta ed inchiostro
scrivere è fuggire, scappare da un recinto imposto
o semplicemente donato
ascoltare la canzone triste della vita
e vedere lungo la strada facce, corpi…
scrivere è non avere nessun piano
nessun fuori
nessun angelo e nessun Dio,
nessun pettirosso che doni gioia lungo la terrazza
scrivere è sapere che quando hai una conquista
la fortuna può andarsene
e tu non hai più sangue in te
per danzare
per parlare
per vivere
e per morire.
Alessandro Borsetto
* * *
SOTTO LA QUERCIA
Dorme il brusio secolare
delle fronde,
Assente è il turbine
E la brezza audace.
Un solingo intrigo
Di luce opaca
Schiude,
Cullando nelle grinfie
Carmina n.6
118
questo silenzio pittorico.
Pare beltà, appare tedio,
Sentenza veritiera
di vita sublime.
Nulla si disloca
Ed io
rinvigorisco
connesso a tutte le energie del globo.
Davide Capriati
RITRATTO DI UNA SCONOSCIUTA
Occhi da morgana
e d’eccellenza pleonastica,
salsedine corvina
di un cristallo oceanico;
pallida sorgi, fra i fiumi
rudagiosi di nere chiome
e affondi il viso lunare
sui limiti della crosta terrestre.
S’illumina di te il sole
e s’accende di speme
l’illusionato amore
Ti invidia Artemide
e rimpiange chi ti osserva
innanzi,
lo sconosciuto nome
per un solo saluto.
Davide Capriati
* * *
Carmina n.6
119
FRA NOI
Le false verità che mi apparecchi
si fermano fra noi,
acqua stagnante.
Sento il suo lezzo traversarmi la gola,
tocco l’opacità con la mia pelle.
Serra le labbra,
e più non mi parlare
e va lontano
e più non mi ferire.
Milvia Comastri
In tasche di vestiti troppo stretti
si annidano le parole delle donne:
quelle non dette o appena sussurrate,
quelle riposte per non fare male,
e quelle tralasciate per paura.
Un no mai pronunciato, un sì non rivelato
stanno schiacciati nel frustrante spazio
di un microcosmo senza più illusioni,
fra biglietti di treni non timbrati
e briciole di giorni smozzicati.
In tasche di vestiti troppo stretti
gli alfabeti negati delle donne
a poco a poco muoiono in silenzio.
Milvia Comastri
L’ho vista la parola uscire a taglio
dai tuoi denti serrati.
L’ho vista la parola mentre precipitava
Carmina n.6
120
pesante fra i nostri corpi
aridi e duri come statue di sale.
Ho allungato una mano ad afferrarla
Ma è caduta per terra, e lì è rimasta,
in una pozza di sangue scolorito.
Ed era l’ultima delle tue parole,
e, anche se d’odio, io volevo amarla.
Milvia Comastri
* * *
PENSIERO D’AMORE
Si muove piano,
si insinua delicato
come un pensiero d’amore,
come un bacio rubato
dammi un sogno che io possa seguire,
un volto che io possa riconoscere
una mano che voglia stringere,
un respiro che io possa fare mio.
Enzo Cristofori
* * *
REQUIEM
Danzano ancora le ombre
senza più riconoscersi.
La tua,
Carmina n.6
121
nel suo vestito di nero ornato;
la mia,
seguendo il tuo passo lieve disperdersi.
Danzano insieme
senza più appartenersi, senza più toccarsi.
Sia dannato Dio
perchè non potremo vivere ancora.
Amen.
Giovanni Di Benedetto
SPLEEN
Alla mia morte,
il riflesso del mio viso sull’acqua
rispecchierà soltanto
l’immensa desolazione
di questo cielo.
Che suoni pure
un’ultima volta
la lira discorde.
Giovanni Di Benedetto
XENIA (a Carmen)
Il ricordo del suono della pioggia
svanisce nell’aria
come le lacrime versate
sulla sua pelle.
Lei, la sposa del vento.
Più non sentirò la sua voce.
Carmina n.6
122
Vorrei non essere ancora nato
e ricordare soltanto
il respiro di mia madre.
Giovanni Di Benedetto
* * *
NELLA NEBBIA
Trovo che ormai è superfluo chiedere
e passare per pazzo
e rubare regali,
non basta scrivere, bene, emozionare
Trovo che ormai la domanda è da veri ignoranti
inventarsi una vita impossibile,
non basta scrivere, bene, emozionare
la sorte non decide sola.
Vita di stenti, di pasti nelle mense
morire alla terza settimana con il gas
dimenticarsi che da due anni non lo pago
cos’è questa vita
dove assaporo l’inchiostro che uso per scrivere
parlare di una farfalla e vederla volare.
Armando Garbarini
QUALCUNO DA AMARE
Ho scritto una poesia per te
e’ l’emozione di sentirmi viva,
Carmina n.6
123
le mie mani che disegnano vortici irregolari sul foglio bianco
che a poco a poco si colora di parole con le ali.
Scrivo per te questa canzone che canto con la mia voce
e mi faccio bella, credendo che gli incontri più belli
siano il primo e l’ultimo,quando occhi ti guardano e assaporano gusti
i più inebrianti,ed io e te come due amanti insieme per divenire una
cosa sola,
in un abbraccio,in cento, mille abbracci
in un bacio,in cento, mille baci
nell’amore che disfa lenzuola fredde di solitudine.
Questa è la mia vita, una poesia per te
con lo sguardo fisso sulla luna
non ho paura di morire, non ho paura di vivere.
Armando Garbarini
* * *
Avaro di sorrisi
Il cielo restituisce alla terra
Frammenti di luce
Superbo nella sua vastità
Ruba sogni e desideri
Affondo le mani nella terra
Penetro fino alla radice di una pianta
Nella notte sono coperta di luce
Desiderosa di realtà mi ribello al sogno
Attendo l’alba
per una luce più sincera
Patrizia Garofalo
Carmina n.6
124
Sfiorerai
ciglia d’antilope
di velluto al tatto
…sempre
occhi liquorosi
di tramonti senza orizzonti
colorati cristalli di sabbia
iridescenti lacrime
cospargono deserti
feriscono lo sguardo
accompagnano l’andare errante
liberi dalle reti del tempo
avrà il sapore del mare
anche
la melma del fosso
andrai nel mondo
con i miei occhi
perle senza vivaio
da custodire in acqua
Patrizia Garofalo
* * *
HO SCAVATO INTORNO
Ho scavato intorno
due metri per uno
ho mangiato la terra
intorno al tuo corpo
ora ti sento sui denti
e ti posso onorare
ti ho ingoiato a morsi
Carmina n.6
125
per anni.
Serena Granatelli
* * *
IL GLICINE
Quasi contorto nel freddo
s’aggrappa ancora alla vita
tronco rugoso orbo di foglie
avvinghiato all’umida ringhiera
sfida il vento d’inverno
sperando in un’altra primavera.
Renzo Montagnoli
(da Il cerchio infinito)
* * *
LE VERITA’ ASSOLUTE
Ma quando allora
il mondo avrà
esaurito le
parole degli uomini,
sarà costretto
a utilizzare
quelle
dei poeti!
Alessandro Oliviero
Carmina n.6
126
PIOMBO NEL CIELO
E nel frattempo il
vento raccoglie il
tappeto rosso di
foglie
fuggite
dall’albero in cerca
di libertà e di
di vento,
del vento che ne facesse tappeto
vermiglio stipato
agli angoli delle aiuole
dure di freddo.
Alessandro Oliviero
* * *
SCARNE EMOZIONI
Fugace
da scarne emozioni
rido
di un luglio
ormai lontano
che a volte
ancora calpesta
questo mio presente
distratto e vago.
Sagace
di scarne emozioni
Carmina n.6
127
violento
i miei sogni
sbattuti
contro un muro
come tramonti
attesi
da infinite ore.
Piero Picca
* * *
CONOSCENTE, AMANTE FORSE
Io, come il tempo, uggioso,
forse come dicevi di sentirti
quando resti sola in casa.
Malinconico, svogliato e scisso.
Mi forzo al lavoro per distrarmi.
Mi chiedo se è il fare sesso
o meno che potrà aiutarmi.
Cerco, di fondo, comunicazione,
permango nel terrore che altri
possano guardarmi dentro:
nudo, impaurito, bambino.
Sono un sassolino sul selciato,
scalciato, altrove abbandonato.
Io, nella pioggia, ignaro
del mio e dell’altrui destino:
rette che s’intersecano
nel buio silenzio del cosmo.
Enrico Pietrangeli
(da Ad Istanbul, tra pubbliche intimità, Ed. Il Foglio 2007)
Carmina n.6
128
GIORNO PER GIORNO
Ci sono giorni e giorni
e taluni non ti sopporto,
altri mi venderei l’anima
per sentirti madre, come la terra,
e respirare sul tuo ventre, promontorio
dove tutto sembrerebbe meno vacuo
colmando il sepolcro delle carezze
che la pala, sapientemente, dosa…
Giorni che fuggiamo, atterriti,
per poi volgere, sempre più accorti,
strateghi artefici di altre morti:
sono giorni di sesso viscerale,
trivellati in profonde falde.
Primigenio e terricolo
anelare un diritto alla vita.
Enrico Pietrangeli
(da Ad Istanbul, tra pubbliche intimità, Ed. Il Foglio 2007)
* * *
FIGLIO
È nei suoi occhi il tuo cielo
luce sul tuo tramonto
scopri ancora quel velo
sospeso sul suo sorriso
in catene d’oro
ricami la tua felicità.
Simona Ratto
Carmina n.6
129
* * *
MEDUSA DI CRISTALLO
Sbadiglio del sole
Insaccato
all’ orizzonte
alito d’alghe e di marosi
sipario di tramati zeffiri
e tramontane
che forzano vele
cantando fra le sartie
Alcioni in schiuma di risacca
muovono
in faticoso ritroso.
La tela è umida di mare
Guida il sottile racconto
Medusa di cristallo
Sotto il pelo dell’acqua
sobbalzando fra le onde
Nicoletta Santini
OPERA D’ARTE
Dipingo il vento di prima
che se ne andava
sotto uno scroscio di pioggia
e il rumoreggiare lontano del tuono
camaleontico nei sussulti deliri
che tutto cambia al suo passare.
Visioni surreali
Immagini evocanti memorie
nell’inerte spazio che vaga
…e creo la forma.
Un vaso con desto Giglio borioso
Carmina n.6
130
Compagno di appariscente Calla
Sfiorita
Dal rigido stelo
Agonizzante
Col reclinato Ciclamino
Custode di ultimi ombrati sentieri
Dipingo una mano con una brocca piena d’acqua
Che li disseta
Nicoletta Santini
* * *
MANI
Capriola al soliloquio, al violato vento
il movimento, supplichevole
di un disegno che sfila l’ombra con lo sgambetto,
e in una commedia, senza parole
la presenza guarda in suadenti,
umili, carezzevoli canti tra le
travi mute dell’orgoglio; sono mani prementi
che vedono oltre il vedere, l’uguale
spogliarsi per amore, con la scure
di un fuoco che taglia la testa alla memoria,
e si veste di millenni, senza il segreto mai svelare.
Mani cupide, innamorate, s’aprono alla ghiaccia
della brutta verità nel drappo
di un indeciso sole,
nel silenzio dei fiori allo strappo
della notte, insopportabile Babele
al passo velato dell’anima
Carmina n.6
131
lume della ragione, orma
splendente di un vasto cielo, rima
d’un palpito lontano, ma
sempre caldo nella sua voce, di vastità colma.
Sull’ultima sabbia di luce, chiama
lei, mano, la sua impronta, s’accovaccia
sul mantello della terra, per celarsi
nell’eterna tenerezza di una foglia.
Patrizia Trimboli
* * *
SOMALIA
Quando la penna inferocita
schizzante nelle lenzuola di cartapesta
dove, si affoga
tra rime affamate e assiderate
e,quando l’amore smunto
amaro di silloge pagane
avrà detestato campi aridi
e risollevato per attimi
consapevolezze prive di potenza
io rimango qui
tra carcasse
sabbia rossa
e milioni di lacrime morte.
Annalisa E. Vivino
Carmina n.6
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Carmina n.6
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