ARISTOTELE E LE ORIGINI DELL`OIKONOMIA GRECA Nella sua

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ARISTOTELE E LE ORIGINI DELL`OIKONOMIA GRECA Nella sua
ARISTOTELE E LE ORIGINI DELL 'OIKONOMIA GRECA
Nella sua intervista sulla «teologia economica»1 e sulla sua importanza quale strumento interpretativo
utile per comprendere il fenomeno dell'economia moderna e della globalizzazione, Giorgio Agamben ha assunto
come punto di partenza la nozione aristotelica di oikonomia delineando poi, nel quadro di un ragionamento
ardito e affascinante, le modalità con cui essa sarebbe stata in seguito «teologizzata», venendo utilizzata nel primo
Cristianesimo per l'articolazione del concetto della Trinità. Da studioso della storia greca e dell'economia antica,
vorrei qui ritornare sulla nozione aristotelica di oikonomia per evidenziare come, se in una prospettiva culturale
moderna, essa ovviamente costituisce un fondamentale «punto di partenza», nell'ottica del dibattito sviluppatosi
nell'antichità greca sul ruolo dell'economia nella società, essa rappresenta invece un «punto di arrivo» attraverso
cui Aristotele, sulla base di una rilettura critica di posizioni e dottrine filosofiche precedenti e di una pressoché
totale rimozione della dimensione acquistiva dell'azione umana (crematistica), riproponeva il primato del politico
nella città di fronte ad un'economia in rapida evoluzione e sempre più incentrata sul mercato e sulla moneta.
L'archeologia della nozione greca di oikonomia, anch'essa, pur con qualche significativa eccezione, tutto
sommato piuttosto trascurata nella storia degli studi, può in tal modo aiutare a riproporre anche all'indietro nel
tempo la dialettica tra economia e oikonomia.
IL PROBLEMA
Gli anni recenti hanno visto un rinnovato interesse da parte degli studiosi per quel corpus di scritti e di
riflessioni che l'antichità ci ha tramandato in tema di oikonomia. Il punto di riferimento obbligato nella indagini
rimane sempre il giudizio più volte espresso in proposito da Moses Finley, lo studioso che ha maggiormente
influenzato il dibattito sull'economia antica negli ultimi trent'anni 2, il quale, svalutando del tutto i risultati del
pensiero economico greco (e di quello romano), considerava gli scritti di oikonomia significativi e paradigmatici
della Weltanschauung antica per la totale assenza che in essi si evidenzierebbe di ciò che oggi comunemente
intendiamo per analisi economica e per mentalità economica. Ciò li relegherebbe nel dominio dell'etica e, piu
specificatamente, in quel filone della letteratura europea che O. Brunner etichettò come Hausvaterliteratur 3.
Finley stesso ammette di giungere a tali conclusioni partendo da definizioni e categorie analitiche che sono
essenzialmente quelle elaborate per l'indagine dei fenomeni economici nelle società capitalistiche moderne, ma il
fatto che gli antichi non disponessero di tali strumenti concettuali non dimostra a priori che essi fossero incapaci
di una qualsiasi percezione dei fenomeni economici, bensì soltanto la loro incapacità di investigare tali fenomeni
allo stesso modo in cui lo farebbe, alla luce degli sviluppi dell'economia moderna, uno studioso d'oggi. Il
pensiero economico antico, così come in generale tutta l'economia antica, appare di conseguenza a Finley
paradossalmente caratterizzato dal comune denominatore della «non-economicità»: privo di una dimensione
autonoma e schiacciato dal peso dei dominanti valori etici e sociali esso offrirebbe tutt'al più osservazioni banali
ed empiriche, comunque pre-scientifiche, mai organizzate in un sistema teorico coerente.
Le posizioni del Finley, per ciò che concerne il rapporto dell'economia antica con quella moderna,
difficilmente potrebbero nella loro essenza essere poste in discussione ed hanno rappresentato a lungo la dottrina
prevalente. Se esse hanno un limite, questo è peraltro nella loro staticità: filtrate attraverso la lente deformante del
confronto con l'economia moderna, esse sono inevitabilmente destinate a lasciare in secondo piano gli aspetti
«dinamici» del pensiero economico greco, quella molteplicità, cioè, di opinioni espresse a questo proposito in una
sorta di dialogo continuo dagli autori antichi. Stabilita in altri termini la distanza che ci separa dagli antichi nella
descrizione e nella comprensione dei fenomeni economici, e ammessi i limiti delle formulazioni date alle loro
osservazioni, rimane ancora lo spazio per indagare il perché di tali formulazioni e il loro preciso significato.
1 “L’Intervista a Giorgio Agamben: dalla teologia politica alla teologia economica” è stata pubblicata nel numero 3 di Aprile 2004 della
“Rivista della Scuola superiore dell’Economia e delle finanze”, www.rivista.ssef.it.
2 L'economia degli antichi e dei moderni, Bari 1974.
3 O. Brunner, La «casa come complesso» e l'antica «economica» europea, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970, pp. 133164.
LA NOZIONE DI OIKONOM IA: ASPETTI «DINAMICI»
Il termine oikonomia occupa in questo contesto una posizione centrale e, in questa prospettiva, si rivela
emblematico. L'oikonomia, nella definizione aristotelica, si occupa, come è noto, di tutto ciò che fa capo
all'oikos, e cioè dei beni familiari, ma anche e soprattutto dei tre fondamentali rapporti interpersonali che sono gli
elementi costitutivi del vivere sociale: il rapporto marito-moglie, padre-figli e padrone-schiavi (Arist. Pol. 1253b311). Parti della famiglia sono dunque l'uomo e la proprietà, le persone e le cose, e questo rende l'oikonomia ben
distante e distinta dalla nozione moderna di economia.
Il concetto di oikonomia non rimase tuttavia sempre lo stesso: la parola ha una sua storia, e una sua
preistoria, che sono del massimo interesse e vanno perciò prese in esame. Uno sviluppo ben documentabile ha la
sua origine nell'idea, ben presente nelle fonti, ma, come osserva Giorgio Agam ben, respinta da Aristotele, che tra
il governo di una casa e quello di una polis vi fosse soltanto una differenza quantitativa e non di specie e nell'uso
metaforico, ad essa connesso, del verbo oikeo in riferimento alla polis e alla sua amministrazione. A partire dalla
metà del IV secolo il valore di oikonomia, uscendo dall'ambito strettamente privato per il quale il termine era
nato, si andò quindi gradualmente estendendo anche alla sfera pubblica ad indicare l'amministrazione finanziaria
di una città, in altri termini il complesso delle entrate e delle uscite. Così si giustifica anche la celebre espressione
di politike oikonomia, cioè di «amministrazione della città», un'apparente anticipazione dell'économie politique
moderna, che ricorre nell'ambito di una classificazione dei tipi di amministrazione finanziaria, in rapporto alle
diverse forme di organizzazione politica, nei paragrafi iniziali del secondo libro dell'Economico trasmessoci nel
corpus delle opere di Aristotele (1345b11-1346a16: «quattro sono i tipi di amministrazione…: del re, del satrapo,
della città e privata»). Da questo significato di «amministrazione» in età ellenistica oikonomia andò poi
progressivamente ad indicare, per estensione, qualsiasi forma di gestione e di organizzazione, compresa ad
esempio quella di un testo letterario. Fu evidentemente in questa accezione che esso venne in seguito ripreso
nella riflessione del Cristianesimo più antico.
Un altro aspetto per il quale una definizione monolitica di oikonomia si rivela non del tutto adeguata è
quello del suo rapporto con l'arte dell'acquisizione, la crematistica. Il problema si pose in tutta la sua complessità
ad Aristotele che lo risolse in modo un po' artificioso e non sempre coerente distinguendo, innanzitutto sul piano
teorico, tra una crematistica naturale ed una innaturale e assegnando unicamente la prima alla sfera
dell'oikonomia (Pol. 1253b23-25, 1256a1-1258b8) – essa sola mira infatti all'autarchia, fine cui tendono per
natura le comunità umane. Che la questione fosse discussa, e che anzi la sua fosse una posizione di minoranza, lo
ammette tuttavia lo stesso Aristotele (1253b12-14, dove è detto che secondo alcuni la crematistica si identifica
con l'oikonomia, secondo altri è la parte più importante di essa). La sua radicale soluzione – l'oikonomia è diversa
dalla crematistica perché funzione di quest'ultima è procacciare, della prima usare (Pol. 1256a10-13) –
scontrandosi con la ben maggiore complessità della realtà denuncia tuttavia i limiti di una ricerca faticosa e
condotta attraverso una serie di definizioni e formulazioni agli occhi del filosofo stesso evidentemente non
sempre soddisfacenti. Se questa fu inoltre la posizione sostenuta e difesa da Aristotele nel primo libro della
Politica, dove egli affrontò il problema nella forma più rigorosa e sistematica, altrove, in brani meno sorvegliati e
di minor impegno teorico, o dove comunque il linguaggio è meno preciso, egli pare ritornare a quella che doveva
essere la dottrina più diffusa. Nella stessa Politica, nel terzo libro, egli distingue ad esempio tra una oikonomia
maschile ed una femminile, sostenendo che compito dell'una è acquistare, dell'altra conservare, mentre nell'Etica
Nicomachea egli afferma che come ogni techne ed ogni scienza hanno il loro fine, così il fine dell'oikonomia è la
ricchezza, un'enunciazione senza dubbio difficilmente conciliabile con quelle, più riduttive, della Politica
(1094a9).
L'«ECONOMICO» DI SENOFONTE
D'altra parte, nell'utilizzare una definizione più ampia di oikonomia, Aristotele non faceva che
ricollegarsi ad una tradizione per la quale possiamo risalire per lo meno fino agli inizi del IV secolo, e con buona
probabilità anche agli ultimi decenni del V. L'Apologia di Socrate (36b) è, significativamente, l'opera in cui
compare la prima attestazione del termine oikonomia, cui, nell'elenco dei temi di generale interesse trascurati da
Socrate, è immediatamente affiancato, in uno stretto binomio, l'affarismo, la ricerca del guadagno
(chrematismos). E' chiaro che oikonomia conserva qui un significato ristretto, ma è anche significativo che il
termine venga giustapposto a chrematismos e, cosa per noi più importante, che il nesso individui agli occhi di
Socrate un campo delle attività umane in sé ben definito e distinto, ma anche tenuto allo stesso livello della
guerra e della politica. Oikonomia e crematistica non coprono quindi lo stesso campo semantico, non sono
sinonimi; tuttavia, formando un'endiadi, si riferiscono ad aree dell'attività umana vicine e del tutto affini: sono, si
potrebbe dire, complementari. Lo stretto rapporto tra oikonomia e crematistica ricorre del resto più volte anche
altrove nell'opera di Platone e riflette l'interesse per i temi legati al denaro, all'uso e all'acquisizione della ricchezza
caratteristico del circolo socratico.
Che l'attenzione al profitto, in altre parole la mentalità acquisitiva, non fosse in origine estranea
all'ambito dell'oikonomia appare inoltre in modo chiaro dall'Economico di Senofonte, un'opera che occupò una
posizione di assoluta centralità nella letteratura «economica» antica, costituendo un punto di riferimento
obbligato per tutti gli scrittori successivi. Come è stato opportunamente messo in luce (Roscalla), essa delinea in
particolare un programma di valorizzazione dell'oikos, anche in chiave politica, in netta e consapevole
opposizione, e risposta, alla sua totale marginalizzazione nell'ambito della costituzione perfetta descritta nella
Repubblica platonica.
L' Economico si presenta con una complessa struttura ad incastro e sembra proporre due modelli, tra
loro diversi, di oikonomos: da un lato, nella prima parte, quello, più innovativo, di un «manager» professionista,
vero e proprio esperto dell'amministrazione della casa, pronto a mettere la propria scienza (episteme) al servizio
degli altri e a ricavare un compenso in cambio delle sue prestazioni (1,1-4), dall'altro, nella seconda, quello, più
tradizionale, del «gentiluomo» che conduce il proprio oikos mediante intendenti e schiavi. Comune ai due modelli
è comunque l'idea che fine dell'oikonomia è l'accrescimento del patrimonio, la produzione di un'eccedenza
(periousia) e non è quindi un caso che il termine chrematistes venga impiegato nell'opera in funzione sinonimica
rispetto a oikonomos. Senofonte ci appare così interessato soprattutto all'aspetto «crematistico» dell'oikonomia,
una posizione da cui, come si è visto, Aristotele prenderà poi faticosamente le distanze (Pol. 1256a1-1258b8).
Così come presenta due modelli diversi di oikonomos, Senofonte ci presenta anche due modelli di vita e
di comportamento economico. Quello incarnato da Socrate, consistente in una estrema limitazione dei bisogni e
delle spese (2,2-9), viene immediatamente riconosciuto impraticabile se applicato a chi, per la sua posizione
sociale, era tenuto ad un'ampia gamma di obblighi fiscali e, più in generale economici, di fronte alla città. Proprio
per questa ragione nella seconda parte del dialogo viene allora introdotto il personaggio di Iscomaco, la cui
oikonomia assume di conseguenza il valore paradigmatico di un modello da imitare. Ciò che a noi interessa qui
notare è soprattutto la posizione di Iscomaco in rapporto alla polis ateniese. Nel delineare il suo ideale di vita egli
afferma di aspirare, oltre che ad avere buona salute e ad essere forte nel corpo, a «essere tenuto in onore nella
città, ad essere ben voluto dagli amici, a salvarsi con dignità in guerra e ad accrescere le ricchezze con mezzi
onesti» (11,8). Ma quando egli passa a descrivere le sue occupazioni giornaliere appare immediatamente come,
benché viva in città (11,14-16), la vita politica non sia al centro degli interessi di Iscomaco. Egli riserva buona
parte delle energie per gli esercizi a cavallo in funzione del suo status di cavaliere, mentre per il resto il suo
atteggiamento di fronte alla città rimane essenzialmente di tensione, «difensivo», legato alla necessità di mettersi al
riparo da possibili attacchi nei tribunali cui, per la sua ricchezza, sentiva di essere in continuazione esposto.
Per il suo stile di vita, pur nell'innegabile aspirazione a vivere in modo armonico nella comunità
«politica», Iscomaco si connota ai nostri occhi soprattutto come un homo oeconomicus. Ferma restando la sua
preoccupazione tutta «aristocratica», più volte sottolineata, di arricchire in modo onesto, cioè attraverso
l'agricoltura, l'agricoltura è per Iscomaco anche il mezzo più adatto per accrescere il proprio patrimonio. Lungi
dall'essere un proprietario assenteista, egli sovrintende ai lavori dei campi sia direttamente sia curando
personalmente la formazione di un numero di fattori che possano agire sotto il suo controllo e in sua vece, ma la
natura del suo «amore per l'agricoltura» (philogeorgia) si rivela soprattutto nella pratica, già messa in atto dal
padre, di comperare terre improduttive a basso prezzo e di rivenderle quindi dopo averle rese fertili e messe a
coltura, ricavandone un guadagno (20,22-29). L'operazione viene certamente presentata come una scoperta, una
sorta di stratagemma escogitato dal padre di Iscomaco, ma resta ugualmente significativo il paragone, proposto
nel testo, con i mercanti di grano che portano a vendere il loro carico là dove essi hanno sentito che questo viene
meglio valutato: la valorizzazione dell'aspetto crematistico dell'oikonomia induce Senofonte a confrontare
quest'ultima addirittura con l'attività commerciale, una posizione nuovamente del tutto antitetica rispetto al punto
di vista sostenuto da Aristotele nel primo libro della Politica. Analogamente, di nuovo con accenti diversi da
quelli usati da Aristotele, lo stesso rapporto matrimoniale viene, in maniera originale e innovativa, presentato da
Senofonte come una «condivisione» (koinonia), anche delle risorse materiali, in cui, in una condizione di
sostanziale uguaglianza tra i due partner, ciascuno contribuisce secondo le proprie capacità e nei rispettivi, ben
divisi ambiti di competenza al benessere, e soprattutto alla crescita del benessere, della casa.
Un'altra caratteristica del metodo di amministrazione di Iscomaco è l'akribeia, l'attenzione al dettaglio. A
8,10 tra i precetti impartiti alla giovane moglie vi è anche quello che fine del buon economo è di «saper
amministrare le sostanze con minuzia». L'akribeia più che una qualità è un metodo, un habitus mentale. Termine
di origine con ogni verisimiglianza circoscrivibile all'ambito delle tecniche (forse della carpenteria), poi divenuto,
probabilmente attraverso la mediazione sofistica, uno dei concetti-chiave del metodo storico di Tucidide, così
come di quello della medicina ippocratica, il suo uso venne presto esteso anche a contesti di carattere economico
ad esprimere la qualità di una attenta e corretta amministrazione. Caratteristica del «minuzioso», dell'«esatto» è
l'estrema attenzione per il calcolo economico. Nelle Leggi Platone sostiene che «per l'economia domestica, per la
costituzione e per tutte le arti nessun disciplina che si impara da bambini ha tanto valore quanto la scienza dei
numeri» (745b), ma l'importanza del calcolo ai fini dell'oikonomia era un aspetto su cui già i sofisti, nella seconda
metà del V secolo, avevano certamente posto l'accento.
Nelle commedia delle Rane, rappresentate nel gennaio del 405, Aristofane ad esempio, mettendo in
parodia i procedimenti sofistici di classificazione e argomentazione, mette in bocca ad Euripide le seguenti
vanterie: «Ed io li ho istruiti a pensare a tali cose, introducendo nell'arte il calcolo (logismos) e la riflessione,
cosicché ormai tutto pensano e distinguono e amministrano le loro case e il resto meglio di prima e indagano:
"Come va questo?", "Dov'è quest'altro?", "Quello chi lo ha preso?"», cui Dioniso, ironizzando, così replica: «Sì,
per gli dei, adesso ogni Ateniese rientrando a casa grida agli schiavi e fa l'inchiesta: "Dov'è la pentola?", "Chi ha
mangiato la testa della sardella?" "E il piatto dell'anno scorso è scomparso" "Dov'è l'aglio di ieri?" "Chi ha
rosicchiato l'oliva?"» (971-988).
«OIKONOMIA» ED ECONOMIA
Al di là di questa reductio ad adsurdum che distorce il significato dell'applicazione del calcolo
all'oikonomia facendone una semplice manifestazione di gretta spilorceria, è significativo il fatto che la parodia,
per essere apprezzata, presupponga da parte del pubblico una qualche familiarità con la nuova tecnica. Di questa
non a caso ci dà un'accurata descrizione Plutarco in un ben noto passo della Vita di Pericle (16,3-6). Questi,
rileva il biografo, incorrotto dalla ricchezza, e d'altra parte nello stesso tempo «non disinteressandosi
completamente del far denaro», aveva organizzato la conduzione del suo oikos in modo tale da potersi dedicare
con agio alla vita politica senza trascurare il patrimonio ereditato dal padre. Egli vendeva tutti in una volta i
prodotti annuali e procedeva quindi ad acquistare di volta in volta sul mercato nell'agorà ciò di cui c'era necessità.
«Per questo» i figli e le donne della casa «gli rimproveravano questa spesa fatta giorno per giorno e regolata con la
massima minuzia, senza che vi fosse nessuna abbondanza come in una grande casa e in una situazione di
prosperità, ma al contrario venendo ogni spesa ed ogni entrata esattamente calcolata e misurata». Tale precisione
(akribeia) nell'amministrazione era possibile - conclude Plutarco - grazie alle doti di uno schiavo, Evangelo, che
Pericle aveva personalmente addestrato nell'arte dell'oikonomia.
La notizia viene riportata da Plutarco in forma di aneddoto a dimostrazione dell'atteggiamento superiore
di Pericle di fronte al denaro. Se essa si era preservata nella tradizione, ciò doveva tuttavia essere soprattutto per
il carattere innovativo del sistema di conduzione domestica attuato dallo statista. Esso si fondava su un sistema di
compra-vendita, la cosiddetta «economia attica» ([Arist.] Oec. 1344b30-33), che presupponeva – e questa doveva
essere la sua novità e specificità – la presenza di un mercato come luogo di scambio della merce e la presenza di
un'economia sempre più monetizzata. Diventa perciò alla luce di ciò altamente probabile che l'emergere di
nozioni quali quelle di oikonomia e di akribeia debba essere messo in rapporto proprio a quest'ultimo fenomeno
come il riflesso di una società che, anche nella sua organizzazione economica, si faceva sempre più complessa.
Questa ipotesi viene del resto confermata anche da ciò che definirei la «preistoria» del temine oikonomia.
Se è vero infatti che il termine astratto oikonomia è attestato per la prima volta soltanto alla fine del V secolo,
oikonomos, da cui oikonomia è evidentemente derivato, ha una storia certamente più antica. Per quanto tutto
sommato piuttosto raro fino alla fine del V secolo, laddove ricorre esso significativamente compare sempre
riferito a personaggi femminili ad indicare la «massaia», la «donna di casa». Soltanto nel IV secolo esso entra
invece stabilmente a far parte del mondo maschile. L'uso linguistico rivela qui un fatto la cui importanza non
deve essere trascurata. Il passaggio di oikonomos nella sfera delle attività proprie dell'uomo, con il conseguente
conio dell'astratto oikonomia, presuppone un radicale mutamento nello status dei valori sociali ad esso sottesi.
L'oikonomia era in altri termini divenuta «un affare di uomini». Sul piano culturale ciò si tradusse nella nascita di
un nuovo genere letterario, il logos oikonomikos, il trattato di oikonomia, di cui l'Economico di Senofonte
costituisce per noi la prima testimonianza ma di cui non dovevano mancare antecedenti da un lato
nell'insegnamento dei sofisti, dall'altro nelle riflessioni della scuola socratica.
L'A NONIMO DI GIAMBLICO
Di tutta questa letteratura non è rimasta nella tradizione alcuna traccia e oggi possiamo farcene una
pallida idea soltanto attraverso i titoli di opere per noi perdute. Per quanto in esso non venga utilizzato il termine
oikonomia, possediamo tuttavia un testo, generalmente poco noto, di grande originalità e suggestione, che ci
consente di uscire da questo apparente vicolo cieco. Questo è rappresentato da uno scritto, con ogni probabilità
di impronta sofistica e ragionevolmente databile alla fine del V secolo, convenzionalmente noto come
l'«Anonimo di Giamblico», tramandatoci nella forma di sette «frammenti» (o estratti) all'interno del Protrettico
del filosofo neoplatonico Giamblico (cfr. ora D. Musti [ed.], Anonimo di Giamblico. La pace e il benessere,
Milano 2003). Molti punti rimangono controversi riguardo a questo testo: paternità, collocazione cronologica,
ordine dei frammenti e loro rapporto con l'opera originaria, natura e portata dell'«intervento editoriale» di
Giamblico.
La questione fondamentale che viene agitata nel ragionamento dipanantesi nei sette frammenti
dell'estratto è quella del rapporto tra l'individuo, in particolare quello che ha conseguito il massimo grado di virtù
(arete) e di eccellenza, e la società, ma si capisce come sia quest'ultima il vero centro su cui si focalizza
l'attenzione dell'anonimo autore. A 3,1 è detto infatti che l'arete, per essere tale, deve essere esercitata in funzione
di ciò che è «giusto e legittimo», così che chi la possiede possa essere utile al maggior numero di uomini possibile
(3,3), mentre nel cap. 6 la tensione tra nomos e physis viene risolta, in una prospettiva democratica, a vantaggio
del nomos – identificato con il giusto – con la motivazione peraltro che ciò trova il suo fondamento nella physis
stessa, nell'incapacità cioè dell'uomo di vivere un'esistenza solitaria e nella necessità che ne risulta di formare una
società ordinata (6,1).
I frr. 3 e 6 si presentano quindi come tematicamente omogenei e sono a loro volta completati dal fr. 7 in
cui il pendolo della discussione si sposta nuovamente dalla società sull'individuo e, in particolare, sui benefici e gli
svantaggi che l'individuo può trarre da una condizione di ordine ben regolato dalle leggi (eunomia), e
rispettivamente di disordine (anomia), nella società. Di questi, e in ciò consiste l'unicità dello scritto, l'autore
sembra in particolare interessato a cogliere gli aspetti economici ed è qui che appaiono alcune sorprendenti
riflessioni sul ruolo della moneta nella società. Dall'eunomia, sostiene l'Anonimo, deriva un clima di fiducia
(pistis) che, arrecando grande vantaggio a tutti gli uomini, fa sì che le ricchezze divengano comuni e «così, anche
quando fossero poche, ugualmente per il fatto che circolano sono sufficienti, mentre senza quella, anche se sono
molte non bastano» (7,1). All'opposto, in una situazione di anomia, gli uomini «a causa della mancanza di fiducia
e di scambio tesaurizzano e non mettono in comune le ricchezze, e così queste diventano scarse anche se sono
molte» (7,8). In particolare, continua l'autore, quando la situazione nella società è favorevole, gli uomini non
devono dedicare il loro tempo agli affari politici, tempo che, così speso, viene significativamente definito argos,
«sterile», mentre diventa «produttivo» (ergasimos) il tempo dedicato alle «opere della vita».
L'importanza e l'originalità delle affermazioni dell'Anonimo non vanno sottovalutate. Se è vero infatti
che, tra i vantaggi che l'eunomia porta con sé, vi è, oltre alle condizioni di sicurezza di cui i ricchi possono
beneficiare nel godimento dei propri beni, anche il fatto che i meno fortunati possono a loro volta fare
affidamento sul sostegno dei primi (7,2), nondimeno a 3,4-6 egli rifiuta apertamente l'idea di un uso
«assistenzialistico» della ricchezza, in quanto esso è inevitabilmente destinato a sfociare nella povertà e nella
malvagità, e quindi un una sorta di circolo vizioso. Considerato inoltre che nel fr. 4 egli condanna, in quanto
espressione di passioni egoistiche e irrazionali, anche l'«amore per le ricchezze» (philochrematia), da intendersi
come tendenza all'acquisizione sterile e alla avida tesaurizzazione, se ne conclude che l'Anonimo doveva avere in
mente un modello sociale ed economico fondato su un uso produttivo della ricchezza, come anche emerge dal
ricorrere di aggettivi tratti dal linguaggio economico e finanziario quali argos, «sterile», ed ergasimos,
«produttivo», impiegati ad indicare, rispettivamente, il tempo dedicato agli «spiacevoli» affari politici e alle
«piacevoli» opere della vita.
Si potrebbe quindi dire che, per l'Anonimo, la circolazione del denaro, quando la ricchezza diventa
«comune» e vi è ampia possibilità di credito, è di per sé un fatto socialmente positivo ed una premessa
indispensabile per il buon funzionamento della società, società la cui prosperità viene in maniera originale fatta
dipendere dalla quantità della moneta circolante. L'Anonimo ci prospetta in altri termini una visione
«economicistica» del buon funzionamento della società che nuovamente lo pone agli antipodi del quadro del
primo libro della Politica dedicato da Aristotele all'oikonomia.
CONCLUSIONI
I dati, in conclusione, pur scarsi ed eterogenei, vanno tutti nella stessa direzione e concorrono a formare
un quadro nelle sue grandi linee coerente. L'oikonomia come techne autonoma che dà luogo al genere letterario
del logos oikonomikos, lungi dal poter essere considerata un dato scontato, è un prodotto degli ultimi decenni
del V secolo ed è essa stessa il riflesso di una novità identificabile nell'aspetto sempre più monetario che
l'economia ateniese, e greca in generale, erano andate assumendo. In questa prospettiva, la definizione aristotelica
di oikonomia, che privilegiava l'aspetto dell'autosufficienza e la teneva distinta e separata dalla crematistica,
acquista un significato concreto ben diverso da quello che gli attribuiva il Finley, il quale ne faceva la sintesi più
compiuta delle riflessioni proposte al riguardo dall'antichità greca. Più che come un punto di partenza essa deve
essere da noi interpretata come un punto di arrivo, come il frutto di una rilettura critica di posizioni precedenti,
di fronte alle quali Aristotele dovette operare delle scelte che lo portarono ad oscurarne quasi totalmente alcuni
importanti aspetti. Oggetto di discussione era in particolare lo statuto dell'oikonomia in relazione alla
crematistica: qui il pensiero di Aristotele, così come in precedenza quello platonico, si sviluppò nel senso di una
vera rimozione con una radicale esclusione della seconda dall'ambito della prima. Aristotele in altri termini non
«scoprì l'economia», come pur sosteneva Karl Polanyi in un celebre saggio del 1954, bensì, coerentemente con la
sua visione «funzionalista», e non «essenzialista», della moneta e con la sua volontà di riportare lo scambio entro i
limiti dello scambio tra produttori (e quindi entro i limiti di una forma perfezionata di baratto) (E.N. 1132b211133b28)5, mirava ad «imbrigliarla», a neutralizzarne gli effetti potenzialmente dirompenti sul tessuto tradizionale
della società.
Michele Faraguna
Università di Trieste
4 K. Polanyi, Aristotele scopre l'economia, in K. Polanyi (ed.), Traffici e mercati negli antichi imperi. Le economie nella storia e nella teoria, Torino
1978, pp. 75-113.
5 M. Faraguna, “Nomisma” e “polis”. Aspetti della riflessione greca antica sul ruolo della moneta nella società, in G. Urso (ed.), Moneta, mercanti,
banchieri. I precedenti greci e romani dell'Euro, Pisa 2003, pp. 128-134.