1936-1961 - Missionari Monfortani
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1936-1961 - Missionari Monfortani
MONFORTANI ITALIANI IN MISSIONE Frammenti di cronaca dalla corrispondenza dei Missionari Monfortani Italiani in missione 1 ( 1936 - 1961) a cura di Santino Epis Bergamo 2002 Due parole di presentazione La missione “ad gentes” è stata una delle principali aspirazioni del Montfort, e mi pare riduttivo il giudizio di chi sostiene che questo suo desiderio abbia avuto modo di realizzarsi solo nel momento in cui ha pensato di lasciare il fronte della “missione popolare”, dove aveva trovato molti ostacoli: dalla difficoltà di reclutare discepoli e collaboratori alle incom-prensioni e opposizioni di alcuni Vescovi. L’aspirazione alle missioni è stata parte essenziale del suo carisma, anche se il Papa lo ha invitato a restare in Francia come “missionario apostolico”, una sorta d’investitura ufficiale per il ministero della “missione al popolo” che eserciterà, sull’esempio degli Apostoli, fino alla fine della sua vita. La ricostruzione della storia dell’impegno missionario dei Monfortani Italiani viene fatta “in diretta”, ascoltando cioè le dichiarazioni dei diretti interessati, stralciando brani delle loro lettere al Superiore Provinciale, regolarmente riprese da “L’Apostolo di Maria”, l’unica fonte utilizzata nella stesura del testo. È una scelta. Se ne potevano fare altre. Ascoltare quello che hanno scritto i missionari mi è sembrata la cosa più semplice per avere un’idea dello sviluppo che ha avuto la “Missione ad Gentes” nella storia della nostra Provincia Italiana. Altri, partendo da queste testimonianza, e ricorrendo a materiale d’archivio, potranno scrivere di questa forma di missione una storia vera e propria. Lo scopo di questo scritto è di tenere viva la “memoria” di quanto è stato fatto dalla Provincia Italiana nella realtà delle missioni estere da parte di coloro che a questa realtà hanno dedicato interesse e fatica, e che Dio ha fecondato con una straordinaria abbondanza di opere da ricordare. 2 1905 P. Giovan Battista Garbottini negli USA Nell’agosto 1931, P. Giovan Battista Garbottini, primo religioso monfortano italiano, lasciava la diocesi di Brooklyn (New York), dove da 26 anni si prodigava per il bene spirituale degli emigrati italiani. Gli era stato affidato il compito di guidare i primi passi della nuova Provincia Italiana Monfortana. Ecco come la cronaca del tempo ricorda il suo arrivo a Villa S. Maria e l'inizio del suo mandato. “… Il 12 agosto sera, giunse finalmente, insieme al Padre Generale, e gli ospiti illustri furono accolti da applausi e da evviva. L’indomani, nel nostro Santuario, ornato come per le grandi solennità, aveva luogo la cerimonia della presa di possesso. La Provincia italiana della SMM si iniziava ai piedi di Maria. Assistevano, oltre alla Scuola Apostolica, il R. P. Procuratore Generale ed il P. Direttore della Scolasticato della SS. Annunziata, una larga rappresentanza di Suore della Sapienza, tra cui la Madre Provinciale, che da tanti anni segue lo sviluppo della Scuola. Dopo la professione di fede il Rev.mo P. Provinciale impartiva ai suoi nuovi figli la prima benedizione. La causa della Madonna non poteva essere posta in migliori mani. A pranzo, alle parole di augurio e di prosperità del Rev.mo P. Generale, il P. Provinciale rispose commosso, ringraziando ed assicurando pure del suo intenso desiderio di vedere trionfare la causa della Madonna, né mancò di rievocare la buona e cara immagine del Fondatore della Scuola Apostolica, il R. P. U. Gebhard, che presso la tomba del Beato otterrà con le sue preghiere e le sue sofferenze ogni benedizione sull’opera tanto a lui prediletta". 3 P. Giovan Battista Garbottini è stato a pieno titolo il primo monfortano che ha lasciato l’Italia per un servizio missionario all'estero. Ordinato sacerdote il 18 dicembre 1897 da S. E. Mons. G. M. Corna Pellegrini, fu subito destinato come curato a Lovere, dove, quattro anni più tardi fu raggiunto da P. Callisto Bonicelli. La storia di questi due primi religiosi monfortani italiani è nota. Convertiti al carisma e alla missione dei Monfortani dopo una attenta lettura del “Trattato”, trascorso il periodo di: noviziato a Meersen, in Olanda, divennero monfortani a tutti le gli effetti a partire dal 7 ottobre 1904. Dopo un anno trascorso a Roma, all'ombra del Santuario “Maria Regina dei Cuori”, P. Garbottini partì per gli USA e ad Ozone Park (New York) fu parroco esemplare fino al 1931. Ecco come P. C. Bonicelli ricostruisce questi primo periodo americano del confratello: “... Di questo periodo di ministero sappiamo ben poco, perché il caro confratello era schivo a parlare delle sue attività. Tuttavia, ciò che è rimasto dopo la sua partenza testimonia quanto profondo e vasto sia stato il suo lavoro apostolico: numerose scuole ed asili di assistenza per i figli di emigrati italiani, una splendida chiesa ed una bella casa parrocchiale, la quale, a suo tempo, si chiamava la casa di tutti. Nessuno dei nostri poveri emigrati trovò mai la porta chiusa: pane, vestiario, alloggio e, quando occorreva, una buona raccomandazione per un posto di lavoro... Qualcuno ricorda ancora con commozione le avventure apostoliche dei suoi primi mesi di missione. Aveva un alloggio di fortuna e viveva all’eroica. Un giorno, mentre gira per il quartiere in cerca di italiani, legge sui muri un manifesto in lingua patria che invita gli emigrati ad un convegno dove sarà loro annunziata una grande novità. Più che per curiosità, decide di andarvi per avere la buona occasione di far conoscenza con i compatrioti. 4 All’ora convenuta entra nel locale: un buon numero di operai italiani stanno ad ascoltare un signore che parla loro di una religione più pura e più libera, senza tante pastoie di comandamenti e di preti... Il Padre, dal fondo della sala, guarda il concionatore. Lo riconosce: un povero spretato, fuggito dalla Patria in cerca di migliore fortuna. Senza farsi annunziare, si toglie il colletto romano, fende il gruppo degli ascoltatori e si accosta all’oratore. Succede un momento di silenziosa aspettativa. “Amici!, dice il Padre, con la voce pastosa e convincente, volete bene, voi, alla Madonna?”“Sì che le vogliamo bene!-“ “Questo signore, invece, disprezza la Madonna e la vuole strappare dal vostro cuore e dal cuore dei vostri figli. Egli non è così col Papa e vi vuole tirar fuori dalla strada sicura che vi hanno insegnato la vostra mamma e i vostri vecchi. Miei cari fratelli, io sono un Missionario della Compagnia di Maria, venuto apposta dall’Italia per stare in mezzo a voi ed aiutarvi nei vostri bisogni materiali e spirituali. Vedete che io sono solo, non vengo a fare soldi per mantenere la moglie come questo signore. Metto a vostra disposizione tutta la mia vita, e faremo una bella parrocchia come quelle che avevamo in Italia, sotto la protezione della Madonna. Chi vuol bene alla Madonna venga a me!” Uscì, seguito da tutti gli operai. 5 1930/1936 Missioni Monfortane Nei primi numeri della rivista “L’Apostolino di Maria”, nel tentativo lodevole di presentare il carisma della Compagnia di Maria, si era insistito soprattutto sulla sua componente mariana. Del resto, P. Uberto Maria Gebhard, nel presentare il progetto della prima Scuola Apostolica Monfortana Italiana, l’aveva motivato con la necessità di formare “… apostoli della vera devozione a Maria” in un Paese dove la spiritualità del Montfort stava conquistando un numero crescente di fedeli. L’attuazione del progetto doveva essere “… un ricordo vivente” del secondo centenario della morte del Montfort. Ecco come lo annuncia “Regina dei Cuori”, rivista mensile della devozione mariana insegnata dal Montfort, organo dell’arciconfraternita di Maria Regina dei Cuori e dell’Associazione sacerdotale omonima: “... Cominciamo da un’eco che probabilmente nessuno si aspetta. Tante feste si sono celebrate e si celebreranno ancora in onore del Beato di Montfort, ma per quanto solenni e consolanti, queste feste passeranno, e anche la loro eco s’andrà spegnendo... Il nostro Direttore ha voluto che delle feste bicentenarie restasse un ricordo vivente ed ha deciso di aprire, proprio quest’anno 1916, il nostro Collegio Montfort di Roma, riservato fino ad oggi ai religiosi della Compagnia di Maria, ai piccoli studenti italiani che volessero compiervi i loro studi ginnasiali. Requisito essenziale però è la vocazione di Missionario della Compagnia di Maria”. Anche “L’Apostolino di Maria”, sin dalle sue prime apparizioni, si era presentato soprattutto come pubblicazione che doveva far conoscere ad un vasto pubblico quella dottrina mariana del “… Beato Padre di Montfort che ormai da lustri proietta a fasci la luce sull’ufficio di Maria nel mondo e sul suo regno nelle anime”. 6 Nel luglio del 1933 la rivista pubblica un interessante articolo: “Missioni e Missionari della Compagnia di Maria”. “… Premettiamo: la Compagnia di Maria, fondata in Francia dal Beato Luigi Maria Grignion di Montfort (16731716) nei primi decenni del secolo XVIII è una Congregazione di Missionari, diffusa ormai un po’ dappertutto nel mondo. Nei primi numeri delle loro Regole è detto che il fine secondario di questa Compagnia è quello di darsi alle opere apostoliche e specialmente di stabilire nelle anime il regno di Gesù per mezzo di Maria, ma qualche linea innanzi si diceva che il fine primario era la santificazione personale del componenti la Società sia per i voti religiosi e l’osservanza delle Costituzioni, sia (e ciò dà la caratteristica inconfondibile dell’Istituto) mediante la nobile e santa schiavitù d’amore di Maria. L’apostolato deve sgorgare dalla santità, la vita attiva deve radicarsi e prendere l’impulso dalla contemplativa. Bisogna andare a dire ai fratelli ciò che prima il Signore ha detto a noi nel silenzio, nell’unione della Madre di Gesù, tali i primissimi discepoli ed Apostoli: “unanimiter in oratione cum Maria Matre Jesu”. Per ciò che riguarda l’apostolato e l’apostolato all’estero, la Compagnia di Maria conta oggi 10 Missioni cosi ripartite: 1. Nell’Isola di Haiti fondata 2. Nella Danimarca fondata 3. Nello Shiré-Nyassaland fondata 4. Nell’isola d'Islanda fondata 5. Nell’isola di Vancuver fondata 6. Nella Colombia fondata 7. Fra gli Indiani del Vaupés fondata 8. Nel Mozambico fondata 9. Nel Congo Belga fondata nel 1871 nel 1901 nel 1901 nel 1903 nel 1903 nel 1903 nel 1914 nel 1923 nel 1933 7 Le notizie sulle missioni estere monfortane trovano spazi sempre più ampi sulla nuova “...pubblicazione della Scuola Apostolica dei PP. Monfortani”. In agosto la rivista segnala ai lettori le “...bellissime parole di Pio XI nella sua Enciclica sulle Missioni”. Conclusione: “… Pensiamo che saranno lieti i nostri lettori di seguire in ispirito i passi dei nostri Padri che, a esempio degli Apostoli, sono andati ad annunziare l’Evangelo della pace. Solleviamoci dunque sulle ali dell’immaginazione per arrivare presto nell’Africa del sud. Qui ci fermeremo per qualche tempo onde visitare le quattro regioni di Missioni affidate ai nostri Missionari”. A distanza regolare vengono pubblicati articoli sulle missioni dello Shiré, del Mozambico, del Congo Belga, del Madagascar, della Colombia, di Haiti, dell’Islanda. Un contributo decisivo all’interesse missionario tra gli Apostolini venne dato dal passaggio a Villa S. Maria di alcuni Padri stranieri, impegnati nelle missioni estere monfortane. La loro presenza e le loro testimonianze hanno trovato una accoglienza entusiasta. La cronaca ufficiale di Villa S. Maria, verso la fine di maggio del 1930, segnala il passaggio di un vescovo monfortano che vive e svolge il suo ministero in Haiti. Va anche ricordato il contributo alla causa missionaria offerto dalla presenza di P. Gabriele Capdeville “… per quindici anni missionario in Colombia”. Fra Francesco lascia Redona per il Madagascar “Finalmente anche la Provincia Italiana della Compagnia di Maria sarà rappresentata nelle Missioni. Venerdì, 15 giugno u.s., il fratello Francesco, che da 14 anni si prodigava per la Scuola Apostolica, ha lasciato Villa S. Maria per raggiungere in Francia vari nostri Padri, e con essi salpare per la Missione monfortana recentemente aperta nel Madagascar. 8 Al caro Fratello che ci lascia dopo tanti anni di fatiche e di lavoro, col ringraziamento sincero, vada pure l’augurio fervido col quale lo accompagniamo: possa nella lontana isola dove finalmente si realizzerà il suo desiderio, aiutare i missionari e far del bene alle anime, per la gloria di Dio e di Maria”. Il Madagascar, come si dice nella cronaca, è l’ultima missione monfortana aperta sulla Costa meridionale della grande Isola Rossa. Fratel Francesco vi arriva in un momento particolarmente difficile: un terribile ciclone aveva distrutto in pochi attimi tutte le opere della missione. Così scrive il Superiore della missione: “...Avete saputo che il ciclone ha devastato la costa orientale del Madagascar, il 9 gennaio. Dalle 9 a mezzogiorno parecchie case del villaggio sono cadute. Metto subito il SS.mo in luogo sicuro. Appena uscito di chiesa sento un orribile fracasso, tutto il tetto cedeva. Intanto la nostra bella scuola, che avevamo appena finito di riparare, perdeva il tetto. Pranziamo nella casa vacillante, malgrado i suoi puntelli. Portiamo fuori tutte le cose fragili: piatti, bottiglie, salviamo i documenti ufficiali della missione e ci rifugiamo dai cristiani. Verso le 15, la bufera infuria; assistiamo impotenti alla caduta del nostro deposito di viveri, della casa, della vecchia chiesa e anche della nuova, che pure era stata fabbricata in pietra e coperta di zinco. La violenza del vento era tale, da lanciare a 200 metri le lamiere di zinco. Dopo poco, cadevano pure la nostra cucina, la casa del maestro. Verso le 6 della sera la missione era ridotta ad un mucchio di rovine. Pioggia e vento continuarono ad imperversare tutta la notte, e all'alba ci accorgemmo che anche le provviste erano. state distrutte. Benché meglio protetti di noi, avendo le loro case in un bassopiano, i nostri cristiani atterriti venivano ad implorare la nostra benedizione”. 9 I Missionari non si erano dati per vinti e facendo affidamento sulla divina Provvidenza avevano rimediato ai gravi danni: “… Siamo caduti nella più squallida miseria ma siamo sicuri che la nostra missione innalzata sul solido fondamento della Croce, ha ora ogni speranza di successo. Adesso celebriamo la S. Messa nelle case dei cristiani. Poi ci metteremo a ricostruire le opere più necessarie. I nostri cristiani, che hanno sofferto anche loro della bufera, rispondendo al nostro appello, si mettono già a nostra disposizione...”. Commentando questa corrispondenza dal Madagascar, la Redazione de “L'Apostolino di Maria” annota: “… A mo’ d’esempio edificante ci piace rilevare che sono appunto queste lettere ed altre simili, in cui si chiedeva timidamente l’aiuto di alcuni Fratelli Coadiutori, che spinsero il nostro buon Fratel Francesco, l’11 marzo u.s. a stendere formale domanda al nostro P. Generale, per recarsi in questa missione tanto provata. La domanda fu accettata con significativa gratitudine. Noi siamo certi che il sacrificio compiuto da Villa S.Maria nel lasciar partire un fratello tanto desiderato, ridondava pure su di noi di una più larga benedizione del cielo”. Prime notizie dal Madagascar “L'Apostolino di Maria”, sul numero di febbraio, pubblica una prima corrispondenza di Fra Francesco dal Madagascar. “... Il nostro Fratello Francesco, che rappresenta nell’apostolato missionario la Provincia Italiana della Compagnia di Maria, è ormai giunto tra i negri di Mahanoro. Farà certamente piacere ai nostri lettori seguire il viaggio e l’attività del giovane e ardente religioso. In corso di navigazione ci scriveva: 10 “...La mattina del 9 abbiamo fatto un pellegrinaggio di addio alla tomba del nostro Beato Fondatore, per mettere sotto la sua protezione noi stessi, la nostra missione e il nostro viaggio. La sera partiamo. Il Procuratore delle Missioni P. Rivière ci accompagnò fino a Cholet, poi per Lione, arrivammo a Marsiglia, sempre accompagnati da cattivo tempo. A Marsiglia fummo accolti festosamente dalle Suore della Sapienza... La sera del 14 salimmo a bordo del piroscafo. Alle 18 tolse l’ancora e partimmo: addio Francia, addio! Il tempo era brutto, e, appena varcata la grande diga del porto, cominciammo a far conoscenza col rullio e col beccheggio. La “Città di Tamatave” non è una grossa nave, ma un bastimento misto: i passeggeri sono 22, tra cui cinque sacerdoti, un Fratello laico e sei religiose, insomma un convento ambulante... Il pomeriggio del 18 facemmo a bordo un esercizio di abbandono della nave in caso di sinistro. Il 19 costeggiamo l’isola di Creta. Il caldo comincia a farsi sentire. Tutto va.bene! Il morale della piccola colonia monfortana è alto, e fa anche buona figura a bordo. Scriverò presto....”. Fra Francesco mantenne la parola e, in viaggio verso il Madagascar a bordo della “Città di Tamatave” invia una seconda lettera. “… II viaggio procede bene; il piroscafo, costruito nel 1930, è quasi nuovo, le macchine potenti gli danno una velocità di 10 nodi all’ora (circa 18 km!). Il mare è calmo, la brezza leggera tempra un poco i raggi cocenti del sole. A bordo si sta benone, anche troppo. Il piccolo numero di passeggeri ci permette una tranquillità di convento. Il tempo passa rapidamente, consacrato alla preghiera, alla lettura e a un po’ di svago... Mentre termino la lettera, si sta per giungere al primo porto dell’isola. La quarta settimana di navigazione è stata funestata da un doloroso incidente. Un giovane di 14 anni è 11 morto dopo quattro giorni di malattia. A bordo non c’era medico. Era accompagnato dalla mamma e si recavano a Tananarive per raggiungere il padre. Potete facilmente indovinare il dolore della povera madre... Domenica sera saremo a Tamatave dove terminerà il nostro viaggio marittimo...”. La missione del Madagascar viene eretta a “Prefettura ‘Apostolica” poco tempo dopo l’arrivo di Fratel Francesco. Il nuovo Prefetto sarà proprio il Superiore della comunità di Mahanoro, P. A. Le Breton. Leggo con piacere “L'Apostolino di Maria” Nel novembre del 1935 Fratel Francesco si fa nuovamente vivo con una lettera dalla Missione di Mahanoro. “... Ho letto con vivo interesse le notizie di Villa S.Maria date da “L'Apostolino di Maria”: cresciuto il numero dei ragazzi, ritorno del noviziato all’ombra della Scuola Apostolica. Se la passano bene anche sotto i tetti! Almeno non hanno paura che il ciclone abbia a portarli via. Qua invece è il nostro tormento giornaliero prendere precauzioni nella fabbrica o nella riparazione delle case in vista dei cicloni sempre possibili nella stagione calda novembre-febbraio. Domani appunto inizierò una fabbrica destinata a ricovero in tempo di bufera... E Villa S. Maria come la va?... Fratelli, Apostolini, tutti in buona salute?... Non hanno troppo da soffrire delle restrizioni imposte dalla difficoltà del momento?... Il lavoro non deve mancare. Beati voi che avete abbondanza di mano d’opera. Qui siamo veramente troppo pochi. Bisognerebbe avere quattro mani e due teste. Se fossi Padre Generale per due giorni... quanti fratelli manderei in missione!... Se avessi Fra Giovanni per il cemento!.. E’ proprio vero che i fratelli rendono molto servizio nelle missioni. Il loro 12 campo di apostolato è il lavoro continuo; però cosi tolgono ai Padri la cura del materiale. Tanto di guadagnato per dedicarsi totalmente al loro apostolato diretto...”. Mons. Luigi Auneau visita Villa S.Maria Il 13 giugno del 1936 viene annunciata la visita di mons. Luigi Auneau, vescovo monfortano, Vicario Apostolico dello Shirè. Ecco come ne parla il quotidiano “L'Eco di Bergamo”. “…La Scuola Apostolica dei PP. Monfortani è in giubilo per la graditissima visita di S. E. mons. Luigi Auneau, Monfortano, Vescovo titolare di Cerasonte, Vicario Apostolico dello Shiré (Nyassaland Africa O.). Sua Eccellenza che è venuto in Europa per prendere parte al Capitolo della Congregazione, convocato per l’elezione del nuovo Superiore Generale, dopo aver compiuto la sua visita “ad limina” ha voluto passare qualche giorno a Redona “per inoculare maggiormente nei nostri apostolini - come egli disse arrivando - i germi dello zelo missionario di cui si sente invaso. Di questo suo zelo fanno testimonio i suoi trentatré anni d’Africa, venticinque dei quali passati sotto il peso dell’Episcopato, avendo egli appunto celebrato il suo Giubileo nel novembre scorso; ne fanno testimonio i progressi spirituali e temporali del suo vasto Vicariato (42.000 Kmq. con una popolazione di 900.000 abitanti) che sotto il suo governo ha visto quadruplicato il numero degli operai evangelici e aumentati da 1542 a 88.000 i cristiani, mentre ora ben 35.000 catecumeni attendono il S. Battesimo, istruiti e preparati da più di mille catechisti ed istitutori in 1162 scuole che contano 45.00 alunni. Cifre consolanti, certo, soprattutto se si pensa che per il servizio di così vasto territorio non si dispone che di 45 Sacerdoti Monfortani e 4 fratelli laici, coadiuvati da una trentina di Suore della Sapienza. 13 Ed ecco che il Vescovo pensa al futuro e per dare certezza di vita imperitura alla sua cristianità, attuando mirabilmente tutti i desideri della S. Sede in proposito, fonda il Seminario indigeno, che ha già dato il suo frutto col primo sacerdote nero; fonda due Congregazioni religiose indigene: “Le Serve di Maria” e “Gli Oblati della Sacra Famiglia”, e getta nella sua fervente cristianità le.basi dei diversi rami dell’Azione Cattolica. Malgrado tutti questi splendidi risultati, pensando alle 700.000 anime da salvare in quel territorio, bisogna ripetere “Messis multa, operari pauci!”. Per questo S. Ecc.za desidera ardentemente che qualche monfortano italiano vada a lavorare nella sua vigna, dove si trovano una buona cinquantina di connazionali. Il Console d’Italia, poi Sig. Conforzi, ha regalato a S. E. il terreno per la costruzione di una vasta Cappella succursale, e S. E., con gentile pensiero, ha voluto che detta Cappella venisse eretta in stile italiano, scegliendo il disegno a proporzioni ridotte della chiesa di S. Michele in Venezia”. L’efficacia promozionale di questo passaggio di Mons. Auneau a Villa S. Maria fu rilevante e di lunga durata. L’appello del Vescovo missionario monfortano non cadrà nel vuoto. Molto presto qualcuno risponderà all’invito e si renderà disponibile a partire per il Nyasaland, iniziando così una presenza monfortana italiana che dura tuttora. Dal Madagascar e dallo Shirè Nel mese di settembre 1936 dal Madagascar Fratel Francesco invia notizie sul suo lavoro. “… Finora ho dovuto lavorare molto per mettermi in grado di dirigere il lavoro dei miei operai falegnami e manovali. Dopo aver fatto il cuoco per cinque anni e coltivato la terra per altri nove si è poco preparati per tali lavori. 14 L’operaio indigeno, anche se ha seguito corsi speciali nelle scuole industriali governative, è ben lontano dall’avere il valore professionale di un operaio europeo! Il più delle volte possiede una cornice di cognizioni che non sa mettere in pratica. Il “dolce far niente” sta alla base del suo lavoro... e se non è sorvegliato da vicino quanto legname manda alla malora! Ora mi sento la mano più sicura che sul principio, ma mi manca ancora di poter parlare bene il linguaggio del paese. Sono proprio una zucca, e quelle parole barbare non si ficcano nella mia memoria. Per i missionari sarebbe ottima cosa se si rinnovasse il miracolo della Pentecoste.... Pregate un po’ che la Missione dei Monfortani nel Madagascar s’estenda sempre più e faccia il maggior bene possibile. A certi indizi sembra che le cose vadano male almeno per il materiale; le offerte dei paesi d’Europa diminuiscono ogni anno... Disordini in Francia e in Spagna... Che cosa ci riserva l’avvenire? Altri indizi rivelano un miglioramento spirituale nella Prefettura: i Padri man mano che si abituano al clima, al linguaggio, alle usanze del paese, conoscono meglio i loro cristiani, moltiplicano le loro visite. Ma c’è da fare! Pagani, anglicani, protestanti, noie provenienti dall’amministrazione civile, ecc. ecc.. Un lavoro immenso insomma. Pregate il Signore della vigna che mandi nuovi operai e che sostenga con la sua grazia i già impegnati nel lavoro”. Suor Francesca parla del suo lavoro nei villaggi Dallo Shiré scrive regolarmente anche Suor M. Francesca Tombini, Figlia della Sapienza, di Torre Boldone (BG). Ai lettori de “L'Apostolino di Maria” vuole parlare della “sua Africa”. “... Ho cominciato le visite nei villaggi, ed in queste corse il Signore mi dà di tanto in tanto la consolazione di salvare qualche anima...”. 15 Un accenno al lebbrosario della missione di Utale “tenuto dalle Suore della Sapienza con ammirabile abnegazione. Mentre le Religiose curano gli ammalati, i Padri si occupano delle cose spirituali ed anche di quelle temporali poiché a loro incombe l’ufficio di nutrire, vestire e alloggiare quei poveri disgraziati. L’opera ha cinque anni di vita: cura 130 pazienti, sopra 8.000 esistenti nel paese. Ce ne mandano da tutti i posti del Vicariato. Noi abbiamo un bel progetto di lebbrosario, ma finora non abbiamo potuto realizzarne che una piccola parte: la Cappella e il dispensario. I lebbrosi si ricoverano in capanne di fortuna, o meglio d’infortunio, poiché vi sono esposti a tutte le intemperie. Senza dire che non è facile per le Suore andare a curare gli ammalati in queste misere capanne. Ci vorrebbe un ospedale per quelli almeno che non sono più se non dei pacchi di carne in corruzione; per gli altri bisognerebbe costruire dei ricoveri convenienti al loro misero stato. Per questo lebbrosario ci vorrebbero delle risorse e non abbiamo nulla, perché la missione stessa non riesce a sostentarsi. Quelli che l’hanno fondata contavano sulla Provvidenza. Noi li imitiamo, sapendo che Dio può suscitare cuori generosi le cui offerte ci permetteranno di soccorrere i nostri poveri lebbrosi”. 16 1937 Missionari monfortani italiani in Nyasaland Prime avvisaglie Fratel Francesco scrive un’altra lettera datata il 10 gennaio 1937, in cui chiede preghiere per la Prefettura Apostolica del Madagascar che sta attraversando un periodo di gravi difficoltà, suscitate anche dalla parte civile della colonia francese. “... Anche qui c’è la Croce. e questa ci viene oggi dal comunismo, il quale, sotto la tolleranza del governo attuale della Francia, divampa nelle sue colonie e fa strage. Corrono già falsi rumori, per esempio che saranno messi in prigione tutti quelli che portano addosso medaglie, distintivi religiosi, o che appartengono alla religione cattolica. E i nostri creduloni prestano fede ed hanno paura. Certi impiegati del governo, sentendosi appoggiati, cercano tutti i mezzi per nuocere ai missionari. Ne abbiamo un esempio a Marolambo, dove il capo distretto ha fatto molto male ai Padri; non si sa di preciso quanto. Una nuova mentalità si fa strada fra gli indigeni, che rifiutano il lavoro e per poco non sono addirittura insolenti. Disgraziatamente anche i cattolici si lasciano prendere. Poco tempo fa Mons. Fourcardier, Vicario Apostolico di Tananarive, segnalava che molti abbonati alla “Kroa di Madagascar”, giornale cattolico, avevano ritirato il loro abbonamento per abbonarsi al giornale comunista. Dove andiamo? Sarà possibile che non succedano guai?...”. Commentando la lettera, la Redazione de “L'Apostolino di Maria” si rivolge ai lettori e lancia un invito: “...Accogliamo l’appello accorato del buon Missionario ed aiutiamolo con le nostre orazioni e con le nostre opere buone. Il Signore salvi le terre di missione dall’orribile nemico comunista, che vediamo 17 menare tante stragi inaudite, anche in terre civilizzate e a noi così vicine”. Primi monfortani italiani in missione “L'Apostolino di Maria”, nel numero di agostosettembre, con la nomina del nuovo Vicario Provinciale d’Italia della Compagnia di Maria nella persona di P. Ercole Germini, comunica ai lettori la notizia di due “Nuovi Apostoli”. “… Siamo in grado d’informare i nostri lettori che due dei sei novelli sacerdoti della Provincia Italiana della Compagnia di Maria, e precisamente il P. Giovanni Giavarini (di Chiuduno, Bergamo) e il P. Remigio Villa (di Carvico, Bergamo) hanno ricevuto la loro obbedienza per le Missioni estere e che il campo d’apostolato loro assegnato è precisamente lo Shiré (Nyassaland Africa Orientale). Sono questi i due primi Missionari italiani della Compagnia di Maria che scendono sull’arena africana. Mentre ci felicitiamo coi cari confratelli di poter finalmente realizzare il sogno della loro ardente giovinezza, li raccomandiamo alle fervide preghiere dei fedeli lettori, affinché il loro apostolato sia fecondissimo di bene. I due Missionari alla loro volta si raccomandano alla generosità di quanti vengono a leggere queste righe, per essere aiutati nell’acquisto delle cose più indispensabili e per coprire le ingenti spese di viaggio”. I due padri destinati alle missioni estere africane erano stati ordinati sacerdoti a Loreto, nella Pontificia Basilica, da mons. Gaetano Malchiodi. Con loro avevano ricevuto l’ordinazione sacerdotale altri 4 Padri: Corsi Romano, Francesco Castelletti, Sebastiano Benacchio e Elio Gambari. 18 La notizia della partenza La partenza dei due missionari era fissata per l’inizio di novembre. Ecco la notizia della loro partenza pubblicata su “L'Apostolino di Maria”. “Occorre accennare ai RR. PP. Giovanni Giavarini e Remigio Villa i quali il 4 novembre p.v. s’imbarcheranno a Genova sul “Duilio” volgendo la prora verso lo Shirè, in terra d’Africa. La loro partenza è un avvenimento, poiché essi sono i “nostri Missionari”. D’adesso in poi, tutta la Scuola s’interesserà a loro. Si vorrà sapere dove stanno, cosa fanno, e si pregherà che la Madonna benedica i loro lavori e realizzi le loro speranze. Certo, costerà dare addio alla cara famiglia, ai dolci amici, alla patria amata... Io conosco due villaggi dove le ore sembreranno interminabili. Ma sta scritto: “Chi abbandona la casa, i fratelli, le sorelle, il padre, la madre... a causa del mio nome, riceverà il centuplo ed avrà la vita eterna”. In questo momento, dalla sala di studio mi giungono all’orecchio le note vibranti dell’inno missionario composto dal defunto nostro P. Clemens. Attaccano i contralti: “Su figli del Montfort, scendiamo nell’arena...”. Il tema viene ripreso dai soprani. I baritoni insistono, premono, e l’onda melodica si spande incalzante e felice, in accordi pieni. Perché questo canto? È quel che vi dirà la cronaca del mese venturo, pazienti lettori. Vergin Maria, Stella del mare, difendi dai pericoli delle acque i tuoi due figli che partono fidenti nella tua protezione. Conducili a buon porto. Stendi su di loro la tua ala materna. “Monstra te esse Matrem…”. Essi vanno, senza rimpianto, a inalberare - trofeo di vittoria - la Croce del tuo Gesù nelle zone torride dell’Equatore; e sono disposti ad allargare le braccia su quel legno invermigliato”. 19 La cerimonia della consegna del Crocifisso Ed ecco la cronaca della commovente cerimonia della consegna del crocifisso nel Santuario di Villa S.Maria, cronaca firmata da P. Basilio Ferragamo. “… Due crocifissi posati sul petto di due forti e generose giovinezze, vicini a due nobili cuori che battono per Cristo e per le anime che Cristo ha redente, pronti a tutti i sacrifici ed a tutti i distacchi, sono il segno più bello e una prova luminosa che non tutti gli ideali sono spenti in questo secolo d’egoismi, in questi affannosi appetiti da bruti, nel regno dell’utilitarismo e della materia. D’un possente colpo d’ala si lascia la prosa stagnante per entrare nelle regioni più pure e più alte della poesia divina. Nel lunedì del 25 ottobre scorso due giovanissimi Padri Monfortani: P. G. Giavarini di Chiuduno e P. R. Villa di Carvico, due bergamaschi, dunque, avevano la profondissima gioia di vedere realizzarsi il sogno ardente e puro della loro infanzia: essere sacerdoti di Gesù, suoi missionari, banditori del suo Vangelo tra le genti che non hanno ancora la grazia di conoscere l’unico vero Dio creatore e Redentore del mondo. Essi infatti ricevevano da Monsignor nostro Vescovo amatissimo il Crocifisso di Missionari che li consacrava ufficialmente araldi di Cristo Crocifisso, cavalieri di Cristo Re. A nome della Chiesa stessa, il venerato Presule li inviava nel campo immenso del Continente nero, nella messe più che matura, già tutta protesa e inclinata alla mano pietosa che vorrà raccoglierla. Erano due bergamaschi, i due primi della giovanissima Provincia Italiana della Compagnia di Maria, che venivano gravati dell’onore di portare Gesù Cristo e la Madonna in Africa, di aprire le file di altri Missionari Monfortani che certo seguiranno presto le loro tracce di pionieri. 20 Mai forse la nostra chiesa di Redona vide più fremiti di cuori, più tensione di spiriti e d’occhi verso l’altare. Già alla Messa cantata in cui i due protagonisti della giornata ufficiavano rispettivamente da celebrante e da diacono, il Rev.mo P. Provinciale aveva loro rivolto parole d’addio in termini così appropriati e commoventi che gli occhi di tutti erano inumiditi di pianto. Come Maria, diceva loro il Padre, essi avevano ricevuto Gesù con la missione sublime di portarlo alle anime a farlo conoscere al mondo; come Maria essi potevano intonare il loro Magnificat per le “grandi cose” fatte ad essi dal Signore. Grandi cose, la scelta, anzi la preparazione dalle infinite profondità dell’eternità; la chiamata, la vita di preparazione, le ordinazioni e soprattutto il Sacerdozio che li associava al Sacerdozio eterno del Figlio di Dio. Grandi cose in modo speciale l’essere prescelti a Missionari, a Missionari autentici e in atto, a condividere cioè punto per punto la vita stessa del “Messia” divino, Gesù; a continuare in modo diretto l’azione misericordiosa e redentrice di Cristo Salvatore. La nostra chiesa era gremita di folla: parenti, amici, benefattori, confratelli, sacerdoti, tutti, ma specialmente i parenti e in modo particolare i fratelli e i genitori erano stretti intorno ai due felici i cui piedi erano pronti a correre per valli e per monti a spargere la divina semente del Vangelo, i suoi benefici, la sua pace, la sua fratellanza universale, la squisita anzi l’unica civiltà che stringe gli animi ed i popoli avvicinandoli a Dio. Nel pomeriggio Monsignor Vescovo veniva a sanzionare e a sigillare con l’alta sua autorità la missione affidata ai giovani partenti. Dopo la cerimonia della imposizione del Crocifisso, cerimonia breve ma comprensiva, austera e ieratica come si conviene ai piedi dell’altare nel momento del sacrificio, l’amatissimo Pastore esalò dal cuore paterno tutta la piena della sua emozione. 21 Eccoci, diceva Monsignore, qui uniti, uniti per separarci. Ma prima di separarci, come tutti i distacchi, noi ci lasceremo un ricordo, un dono che ci richiami i visi amati e i nobili intensi palpiti di cuori in un’ora solenne della vita. Eccolo il nostro dono: il Crocifisso. Il Crocifisso, punto immobile dei nostri, dei vostri cuori: per Lui voi partite; per Lui noi che restiamo vi lasciamo partire senza troppi rimpianti e senza egoismo. Nel momento dell’addio si usa darsi un ricordo. Ecco Cristo Crocifisso in cui tutti ci incontreremo quando lo bacerete voi affidandogli tutte le vostre speranze e tutti i vostri martirii, lo baceremo anche noi, e su quel viso amato ci sarà dolce il nostro sacrificio; confonderemo le nostre povere lagrime col sangue suo divino ed allora esse varranno qualche cosa per redimere le anime; le nostre e quelle a voi affidate. Uno è il nostro sacrificio in Cristo, una sarà la nostra gioia e la nostra gloria nel suo Regno dei cieli. Al Crocifisso dunque il nostro sguardo e il nostro cuore. Portate Gesù, innalzatelo ben alto Gesù: che tutti lo vedano, che tutti lo sentano, che tutti rispondano al suo appello divino: Ho sete! Venite a me tutti!... Fatelo conoscere, fatelo amare. La civiltà da lui ricevuta, portatela a quelli che da millenni l’aspettano ancora. Portatevi il nome di Dio, il nome di Gesù; predicate la sua legge che affratella, che consola, che perdona,. che nobilita l’umanità fino a ritornarla figlia di Dio, perché tutti i popoli si stringano intorno all’unico Padre che è nei cieli, nell’unico Nome in cui solo c’è salvezza per tutti: Gesù Cristo. Dopo cerimonie e canti fu l’addio commovente ma dolce di anime che si separano per la realizzazione d’una grande ideale: insegnare, convertire tutte le genti al Regno di Cristo. Sogno? Sembra sogno dell’uomo carnale e terreno..., ma al vero discepolo di Cristo che riposa sull’infallibile promessa d’un Dio contenuta nell’imperioso comando: “Andate, insegnate..., battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. 22 L'addio ai nostri missionari Abbiamo la cronaca dell’addio ai missionari in partenza, un evento di rilievo che ha suscitato “... salutare impressione nei chiaroveggenti apostolini cui è apparsa, in modo lampante, la superiore bellezza della vocazione missionaria. Essi avevano cantato, in chiesa e nella sala da pranzo, le più belle melodie del loro repertorio, effondendo nel suono e nel ritmo il meglio del cuore. Di due Missionari avevano udito la voce commossa che penetrava nel petto a guisa di armoniosa canzone. E quando nel chiostro interno, sotto lo sguardo della Regina degli Apostoli, le mani dei due partenti s’elevarono alte per benedire, allora quei sessanta figliuoli in ginocchio ai loro piedi diventarono subitamente taciturni e pensosi. Trattenevano il sospiro. La Scuola li avvolgeva nel suo candido manto e sussurrava loro pensieri infiniti: l’oceano, la terra africana, il glorioso martirio!... Partite, eroi della Buona Novella. La vostra anima, senza incrinature di sorta, si apre alla più liete speranze. Dietro a voi, rimane luminosamente tracciata una via maestra. Altri vi seguiranno che adesso guardano a voi con una punta d’invidia. Andate ed ammaestrate le gente. I moretti d’Africa, che voi battezzerete, vi chiameranno “bambi”. Forse i negri d’Europa battezzeranno voi medesimi con quel nome, nel significato del vernacolo bergamasco...Voi siete pazzi come fu pazzo Gesù. La follia della Croce è la vostra follia.. Ed è gloria verace, legittimo orgoglio, vanto supremo poter fedelmente calcare le orme sanguinolenti del divin Redentore. Li accompagnammo alla stazione. Non c’era bisogno di una forte dose di scienza intuitiva per leggere nei loro occhi la intima emozione dell’ultimo abbraccio. Le vene e i polsi tremavano: ma non era pavida apprensione, quella; era bensì chiara manifestazione d’animo gentile. A Genova s’imbarcarono sul “Duilio” assieme a due confratelli olandesi, presente il nostro P. Provinciale. Fra dieci 23 anni, poco più poco meno, li rivedremo con una barba lunga così... Intanto spettiamo da essi la narrazione particolareggiata del loro viaggio, della loro vita, dei loro miracoli". Una sorta di “Diario” di bordo E da bordo del “Duilio”, all’altezza delle Canarie, P. R. Villa invia una sorta di diario di viaggio al P. Provinciale ripreso puntualmente da “L'Apostolino di Maria”. “… Dal vasto oceano il nostro pensiero (ed anche un po’ il nostro cuore) vola all’Italia ormai lontana, a tutti i nostri cari. Come lei stesso ha potuto notare, la partenza da Genova non fu lacrimosa; la si potrebbe dire piuttosto allegra, grazie anche alla presenza dei due confratelli olandesi. Il mare era calmo e nessuno di noi sentì disturbo alcuno. Giunti nel porto di Marsiglia, sperando d’arrivare più preso avevamo progettato di celebrare la S. Messa nelle Comunità delle Suore della Sapienza. Ma essendo fatto troppo tardi celebrammo a bordo la nostra prima Messa sul mare”. Anche P. G. Giavarini invia una lettera commovente ai propri genitori. “... Ho scorto a lungo le coste della Spagna, sorvegliate da numerose navi da guerra internazionali. Il nostro “Duilio”, non curandosi di loro, filava per la sua rotta. Io però pensai al caro fratello Andrea e non potei a meno di provare al cuore uno schianto di dolore. Ma venne Maria a consolarmi: il Paradiso non si guadagna a parole ma con i sacrifici. Addio, mio caro Andrea... E mi misi a recitare il breviario...”. Ecco finalmente Gibilterra. Scrive P. Remigio Villa nel suo Diario. “… Il nostro cuore ebbe un sussulto che gli altri viaggiatori non potevano avere: alla nostra sinistra di delineava 24 all’orizzonte l’estremo lembo della nostra terra promessa, l’Africa! ... Inoltrati nell’Oceano Atlantico che si mostrava tanto calmo che lo si sarebbe detto l’Oceano Pacifico. Ma non fu sempre così. Un leggero movimento ondulatorio causò i primi disturbi fisici del mal di mare. Qualcuno più suscettibile dovette rinunciare a qualche pasto...”. Finalmente a destinazione! Dopo un mese di viaggio i Missionari, ormai giunti a destinazione il 3 dicembre, inviano le prime notizie dal loro “posto”. Si tratta di informazioni e di prime impressioni. Il 24 novembre, giunti a Durban, abbandonano la nave italiana per imbarcarsi sul piroscafo olandese “Springfontein” che li porterà fino a Beira, nel Mozambico, per proseguire poi in ferrovia verso lo Shirè. “... Alle 18.30 prendemmo il treno che ci doveva condurre fino a Limbe, nello Shirè, sede del Vicario Apostolico. Corriamo tutta la notte. Il treno non aveva l’eleganza e la velocità di un espresso europeo, però ci si stava comodamente. Venne la luce del 3 dicembre ad illuminare il paesaggio per cui si transitava. Ci accorgemmo dì essere veramente in Africa. Le abitazioni non sono che povere capanne di paglia e fango. I vestiti degli indigeni si riducono spesso a minimissimi termini. Alle ore 9 giungemmo a Port-Herald che sarebbe la prima città (?) dello Shirè ed il primo “posto” della nostra missione. Due Padri olandesi sono ad attenderci alla stazione per salutarci al passaggio. Mezz’ora di sosta per aggiungere una seconda locomotiva, e si riparte. Dopo sette ore di viaggio, e precisamente alle 01.30, giungemmo a Limbe. 25 Erano ad aspettarci i quattro Padri Missionari di quella residenza, due Fratelli e molti negri, che ci guardavano e sorridevano. Dopo i più calorosi saluti, in auto entriamo in città; l’attraversiamo per giungere alla Cattedrale all’Episcopio. Monsignore Vescovo ci attendeva sotto l’atrio: ci diede il benvenuto e ci abbracciò ad uno ad uno. Quale magnificenza di costruzioni: la Cattedrale, la Casa dei Missionari, bella, grande e comoda, costruita da soli tre anni. La proprietà dei Padri è assai estesa. Dei giganteschi eucaliptus che contano solo cinque anni di vita, attorniano la Cattedrale. Nel giardino c’è, in piena maturazione, ogni sorta di frutti: pesche, prugne, mele...Non manca neppure l’uva, che fra un mese sarà matura. La vite è stata piantata quest’anno dietro l'esempio del Console italiano Sig. Conforzi, il quale, al dire dei Padri, possiede una magnifica vigna. Il 4 dicembre, sabato, celebrammo la nostra prima Messa in terra di Missione. Nel pomeriggio visitammo le comunità delle Suore della Sapienza, l’educandato per le fanciulle negre e l’altro per i piccoli europei, restando incantati al vedere tante belle cose ed istituzioni che dimostrano il lavoro intenso e sagace dei confratelli che ci precedettero. Verso sera andammo a visitare i negri che abitano attorno alla nostra proprietà. Quale miseria! Le capanne sono dei veri pollai! Le mamme si tengono legato sulla schiena il loro ultimo nato. Come sono carini questi negretti! Ma come starebbe bene un camicino su quella carne nuda!”. Prime informazioni P. Giovanni Giavarini ha una sua personale corrispondenza con i genitori. Giunto a destinazione, scrive: “… Prima di tutto, ringrazio la Madonna per avermi concesso la grazia d’un viaggio felice. Sono stato nominato Curato della Cattedrale di Limbe; inoltre devo occuparmi di Chiolo, paese distante una quarantina di Km., ove si trovano 26 diversi italiani occupati nelle grande fattoria del Console Cav. Conforzi. Finalmente questi connazionali, torinesi e romani in maggioranza, hanno un loro sacerdote... La mia residenza a Limbe si compone di 6 Padri, agli ordini di S.E. mons. Luigi Auneau. È il centro di tutta la nostra Missione, come Bergamo è il centro della vostra diocesi. Tutti gli altri Padri sono disseminati nelle pianure e nei deserti, e ogni tanto compaiono a Limbe per riposarsi e chiedere consigli ed elemosine. Il P. Villa si trova a 100 Km. da me: lo vedrò quando saprò servirmi della motocicletta, quasi nuova, che mi è stata regalata dal Superiore. Il clima africano non lo trovo insopportabile. Alle belle giornate si alternano quelle brutte, proprio come a Chiuduno. C’è un solo guaio: certe volte il caldo è snervante. Ma non per nulla sono missionario! Se c’è da soffrire, si soffre volentieri per la gloria di Dio e per la salute delle anime... Bestie feroci ancora non ne vedo: per vederle bisognerebbe andare nelle residenze più inoltrate. Mi hanno parlato dei serpenti che vengono di notte a mangiare la verdura del nostro orto. I nostri Padri ne fanno la caccia, ma è difficile ucciderli, perché sono astuti come il serpente dell'Eden. Ho visto invece parecchi disastri causati dalla formiche. A Palombe una scuola sta per crollare a causa di questi insetti... Ma gli animali che m’interessano di più sono quelli... ragionevoli. Poveri negri! Potrebbero vivere una vita comoda ed agiata, ma non si curano di niente. Son fatti così: pigri per natura. Eppure da voi si dice “lavorare come negri!”. Varie volte sono entrato nelle loro capanne; ho potuto quindi osservarli da vicino. Miseria nera e vero luridume! Se avessero i nostri letti e le nostre sedie, non saprebbero che farne. Essi dormono per terra, in un angolo; al centro v’è il fuoco; nel lato opposto si vedono galline ecc. ecc. Però, in fatto di religione, i veri cristiani di qui potrebbero servire d’esempio a tanta gente d’Italia. Alcuni di 27 loro fanno decine e decine di Km. per venire alla S. Messa. Oggi, per esempio, è sabato e fra poco cominceranno ad affluire da diverse parti. Passeranno la notte sulla nuda terra, in un locale attiguo alla Chiesa. Domani ascolteranno la S. Messa e faranno la S. Comunione.... Peccato che ci siano ancora molti pagani! Con la grazia del Cielo si lavora per la loro conversione. A molti di essi ho già distribuito medaglie e corone. Vedere come sono contenti! Mi ringraziano con un largo sorriso, dicendo: “Zikomo, Bambo! Grazie, Padre!”. La mia grande difficoltà per il momento è la lingua. Ho già studiato quasi tutta la grammatica, poi sceglierò un negro col quale parlerò e ragionerò; così mi avvezzerò nel più breve tempo possibile a conoscere questo aspro linguaggio. Il quale mi è di prima necessità perché a Chiolo, oltre ai pochi connazionali, vi sono seimila negri di cui io sono il Padre spirituale... A voi, Mamma e Babbo amatissimi, il mio più tenero abbraccio. Ricordatevi che sono qui unicamente per Gesù; la nostra ricompensa, quindi, sarà grande...”. 28 1938 Primi impegni dei nostri missionari Tenendo fede alla promessa fatta alla partenza dall’Italia, i due Missionari inviano regolari corrispondenze dallo Shirè. Sia P. Remigio Villa che P. Giovanni Giavarini sono solerti nell’informare confratelli, parenti e amici sui loro primi impegni missionari. Si tratta abitualmente di lunghi fogli “formato gigante”, con l’aggiunta di fotografie molto belle e di buona fattura che “L'Apostolino di Maria” ben volentieri pubblica come documentazione di ciò che i Missionari descrivono. Ho già avuto modo di provare grandi consolazioni Ecco lo stralcio di una lettera di P. Giovanni Giavarini, datata il 27 febbraio 1938. “... Sono dunque il terzo Curato della cattedrale di Limbe e cappellano degli immigrati italiani di Chiolo. Però finora so ben poco d’inglese e della lingua indigena e non ho potuto fare molto. Ma supponendo di essere fra poco anch’io pratico della lingua dovrò per turno cantare la Messa la domenica, con la spiegazione del Vangelo, e confessioni ad ogni richiesta… Sono stato tra i nostri connazionali alla vigilia del S. Natale, per il primo dell’anno e per tre domeniche consecutive. In una di queste feste celebrai la S. Messa in casa del Console italiano, il Cav. Conforzi, in una splendida sala che mi ricordava il “Duilio”, ricca di tappeti, specchi e poltrone. Tutti gli italiani erano presenti e feci perciò l’omelia... Ed ora vorrei dirvi qualcosa di più concreto della mia Cappellania di Chiolo. Vi assicuro innanzi tutto che ebbi già a provare grandi consolazioni per l’affluenza dei miei cari neri alla chiesa ed ai sacramenti... La Chiesa è bella all’interno e all’esterno si presenta come un vero gioiello, ma c’è molto da restaurare. Il Console Cav. Conforzi mi farà a sue spese tutto il 29 pavimento in cemento, ma si dovrà pensare pure all’altare, alle balaustre ed al tetto. Questo ha bisogno d’essere rifatto e solidamente assicurato perché non venga portato via nuovamente dal temporale... Ora a Limbe si sta lavorando per la costruzione di un nuovo fabbricato scolastico: il progetto è veramente bello, e ci vuole per centro e per la sede Episcopale. Hanno già atterrato i giganteschi eucaliptus per sgomberare l’area fabbricabile e per avere del legname necessario per le impalcature. Ho visto i neri tutti intenti a fabbricare mattoni e tegole... Il 4 settembre p.v. avremo l’ordinazione di due primi preti indigeni. La cerimonia avrà luogo nella cattedrale...”. Intensa la corrispondenza di P. Remigio Villa, impegnato nella residenza di Nsipe, a 130 Km. da Limbe. “... La mia partenza da Limbe è stata affrettata ed improvvisa, senza che potessi far visita al Console italiano e ai nostri connazionali. Un telegramma proveniente da Nzama chiedeva che l’auto del Centro corresse per trasportare all’episcopio il P. Ryo, ammalatosi seriamente. Siccome per raggiungere Nzama si doveva passare per Nsipe si approfitto dell’inaspettata occasione per farmi raggiungere il “posto” assegnatomi. Ed eccomi così nella mia porzione della Vigna del Signore. La Missione di Nsipe è di recente fondazione. Esiste la casa dei Missionari, assai grande, ma manca la Chiesa... L’ambiente è eminentemente protestante e non si contano attorno al nostro posto che 3000 cattolici. La posizione è buona. Mi trovo assai meglio qui che non a Limbe. È vero che siamo abbastanza lontani dalle montagne, però l’altitudine sul mare raggiunge quasi 1000 metri. Ora sono cominciate le piogge con temporali frequenti e anche giornalieri, che portano acqua a catinelle. È una bella provvidenza che proprio nel periodo più caldo abbia a piovere tutti i giorni... 30 Bestie feroci non ne ho ancora viste. I negri di tanto in tanto bruciano le alte erbe delle boscaglie per tenere lontane dall’abitato le fiere. E i negri? Non so ancora abbastanza la loro lingua chinianja e non posso quindi intavolare con loro lunghe conversazioni, però spesso mi ingegno di parlare loro. A Limbe, in quei pochi giorni di attesa, visitavo spesso il piccolo borgo tutto composto da poverissime capanne di paglia, di fronte alle quali i nostri pollai sono delle regge. Avevo sempre con me la statuetta della Madonna di Lourdes col “carillon”. Udendo il bel suono una folla di neretti subito mi attorniava: quale spettacolo! Come sono carini questi piccoli; la maggior parte però è ancora da vestire. Assaggiai un giorno il pasto degli indigeni: farina di mais da un lato e fagioli triturati dall’altro... e basta. Non sanno cosa sia la forchetta e cucchiaio. Un catino fa da piatto comune; lo mettono in terra, vi si accovacciano intorno e tutti si servono con la forchetta di Adamo. Le scarpe poi sono un articolo di lusso e del tutto fuori uso per i nostri neri. Anche gli impiegati dello Stato portano tanto di divisa elegante come i vigili o le guardie d’Europa, ma sempre coi piedi nudi... È ormai trascorsa anche la festa del S. Natale. Certo che il Natale d’Africa non ha la bella poesia di un Natale d’Europa, almeno per noi... Altro che la neve dei nostri paesi! Figuratevi che mentre allestivo il presepio ho dovuto levarmi la veste perché morivo dal caldo!. Se avessi preso un bagno non sarei stato più bagnato... E dire che stavo all’ombra... Non c’è stata la Messa di Mezzanotte, però ci fu un’affluenza grandissima alla Messa del giorno… Le mamme portano sempre, anche nelle funzioni in chiesa, i loro piccoli legati dietro il dorso, ciò che causa talvolta una bella musica, specie nei momenti più solenni: “Laudate pueri Dominum!” Bisogna armarsi di serietà soprattutto quando si amministra il Battesimo o si distribuisce la Comunione, poiché quei marmocchietti dal dorso materno 31 sbirciano il Sacerdote con quegli occhietti vispi e con tanta curiosità, che per le prime volte a stento potei trattenermi serio...”. In visita al lebbrosario di Utale In una delle sue lunghe corrispondenze dallo Shirè, P. Remigio Villa descrive una visita al lebbrosario di Utale, un evento che lo ha scosso profondamente. “… La visita che feci al lebbrosario di Utale costituisce il mio primo viaggio alla moda missionaria. Utale dista dalla mia residenza di Nsipe poco più di 60 Km, in pianura. Il viaggio, breve in sé, fu invece difficile in quel tempo (eravamo ai primi di gennaio) in cui le piogge avevano reso impraticabili vari settori di strada; spesso dovetti portare la mia bicicletta, attraversando pozzanghere e torrenti. Una volta guadai un fiumicello, aggrappato alle spalle del negro che mi accompagnava. Non dico poi il numero delle volte che mi sono trovato in mezzo ai campi con i necessari capitomboli... Povera bicicletta! Finalmente, dopo cinque ore di viaggio, giunsi ad Utale. In questa località i nostri Padri hanno le opere della missione propriamente detta e, poco lontano, la lebbroseria. Il fiume “Rivi Rivi” ne segna la separazione... E’ un tipico villaggioospedale... I ricoverati sono circa 150: uomini, donne, bambini, gente d’ogni religione... Di buon mattino, alle 4.30, un piccolo squillo di tromba sveglia le Suore lebbrose e i Fratelli lebbrosi che recitano la loro preghiera e fanno la meditazione in comune. Alle 5 uno squillo di tromba prolungato dà il segno dell’alzata generale. Pochi minuti dopo i cristiani si riuniscono in chiesa per la preghiera. Frattanto giunge il Padre della vicina residenza si celebra la S. Messa... Finita la Messa vanno al lavoro. Alle 8.30 giunge la Suora infermiera: è l’ora della visita medica. Tutti gli ammalati 32 vanno ordinatamente a farsi medicare in un luogo comune. Tre infermieri curano le piaghe lavandole e disinfettandole, e la Suora applica i rimedi e fascia le membra malate. Assistetti io pure a tali medicazioni e vidi cadere pezzi di carne dalle mani e dai piedi. Molti sono completamente privi delle dita ed anche delle mani: che spettacolo! . . . Angeli di bontà e di eroismo per questi infelici sono veramente le Suore e Fratelli lebbrosi. Essi sono ammalati già guariti, o solo leggermente attaccati dalla lebbra, che per carità cristiana si sono offerti a rimanere tra i compagni più sofferenti per servirli e curarli. I Fratelli attualmente sono 5, tutti giovanotti nel fior degli anni. L'ultimo arrivato è un istitutore d’inglese che superò brillantemente gli esami governativi, ed è appena colpito dalla lebbra, eppure ha voluto rinchiudersi per sempre nel lebbrosario. Io vidi questi bravi giovani all’opera e mi sono convinto subito che essi sono davvero angeli di bontà e di eroismo. Il P. Superiore e le Suore infermiere confermarono pienamente la mia prima impressione. Vivono da soli in una capanna spaziosa, con una stanzetta ognuno, e conducono vita comune come religiosi. Per ora emettono solo voti privati. Vengono detti gli “Oblati di Santa Teresa”. Sorvegliano tutto, dirigono tutto e in modo speciale istruiscono i pagani, disponendo i piccoli al battesimo e gli adulti agli ultimi sacramenti; curano gli ammalati più gravi nelle loro casette, li aiutano a prepararsi il cibo. Le “Oblate di S.Teresa” per ora sono 3 e fanno per le donne quel che i Fratelli fanno per gli uomini. Ma per ricordare questi angeli di bontà indigeni non dobbiamo passare sotto silenzio quelli, ancor più meritevoli, venuti qui dall’Europa: voglio dire le nostre Suore della Sapienza. Ve n’è una al lebbrosario di Utale, Suor Maria Regina di Gesù, che si trova qui nello Shirè da 34 anni consecutivi, senz’essere mai tornata a riposarsi in Europa. È 33 venuta in questa terra con i primi Padri Monfortani... Ah, le Suore! Ne avessimo in tutti i posti!... Nella regione di Utale si ha proprio l'impressione dell’Africa selvaggia, che invece non provo alla mia residenza di Nsipe. Nella proprietà della missione ho potuto ammirare un baobab veramente gigantesco e colossale che misura 24 metri di diametro. Quest’albero fu un tempo per i pagani mèta di pellegrinaggio per rendere il culto gli spiriti. Ora invece in una insenatura naturale si è disposta una nicchia che raccoglie una statua di Maria Immacolata. Mi fermai ad Utale 5 giorni poi tornai a Nsipe. Tutto il cammino era in salita e si può immaginare com’io abbia sudato sul mio cavallo d’acciaio. Chi soffrisse di reumatismi venga in Africa e starà bene!”. Le gioie e le pene del missionario P. Remigio Villa, in una lettera del 20 giugno 1938, descrive le gioie e le pene del missionario, dopo aver visitato tutto il territorio della sua missione. “… In queste visite si provano veramente le gioie e le pene del missionario. Le gioie ve ne sono che potremmo chiamare naturali, poetiche. Oh, i morettini! I più piccoli al primo vedermi entrare in un villaggio si aggrappano terrorizzati al grembo materno, dimenandosi come piccoli ossessi. Ma i più grandicelli, dopo un primo momento di esitazione mi si fanno subito amici. “Moni, bambo Villa”, mi sentii gridare arrivando a Cizungulire. “Moni”, rispondo, “… e il tuo nome?”. A Kalumba fui circondato da una vera folla di bimbi che non mi lasciarono un minuto di libertà. Mi sono dilettato in questo villaggio ad osservare l’intima vita di famiglia degli indigeni. Verso sera le donne tornano dai campi tenendo i bimbi per mano o sul dorso. Subito in ogni capanna si accende il fuoco per preparare la cena, più abbondante quella sera per 34 poterne offrire al “Bambo” ed ai suoi portatori. Al mattino i negretti sbucavano numerosi dalle capanne; si sarebbero detti altrettanti topolini... Quando si arriva in un villaggio nel tempo della scuola i negretti ti offrono il saluto cantando. Basta che il missionario entri in un villaggio per non essere più solo nel suo viaggio. Subito un codazzo di marmocchietti si tiene in dovere di seguire il bambo. In queste visite ai cristiani si dorme qualche volta con il proprietario della capanna. Da notare che il padre di famiglia tiene a dormire con sé il bambino. Il sentire chiamare durante la notte con voce argentina “bambooo, bambolo” ... sono scene che per un momento fanno dimenticare d’essere in Africa e ci rimettono in quei primi anni di vita, quando si era a casa propria... Bisogna poi vedere le mamme dar da mangiare ai piccoli... Non so come non ne siano soffocati: la mamma introduce nella bocca del figlioletto più polenta che può... Ma queste gioie, che chiamai naturali, sono un nulla in confronto di quelle spirituali. Quante anime sembrano essere lì proprio per aspettare il nostro passaggio In quest'ultimo viaggio ne ho mandato in paradiso più di cinque... Anche se si celebra la S. Messa in capanne cadute a metà o che stanno ancora in piedi per miracolo, si provano gioie più grandi che celebrando in una basilica... Ma vi sono pure le pene del missionario, più sensibili qui che altrove. La più grande è senza dubbio il protestantesimo, infiltratosi anche qui con una quindicina di sette differenti. Ha un effetto micidiale nei pagani. “Bambo”, mi dicevano tre giovani protestanti, “perché voi cattolici non siete venuti prima?”... Gli ammalati: ecco un altro capitolo doloroso. In questi mesi qui fa freddo più che fresco, almeno di notte. Io pure dormo con tre coperte: s’immagini quindi cosa debbano soffrire i poveri negri. Vi sono quindi molti casi di polmonite... 35 Altre volte si vede penare questa povera gente e con si ha nulla da dal loro per sollevarli... Altra grande pena è la mancanza di scuole o il loro stato deplorevole. Ho celebrato la S. Messa in certe scuole che rassomigliavano in tutto a quelle devastate della Cina e della Spagna. Per fortuna abbiamo il privilegio di celebrare all’aperto. Anche per il mio centro di Nsipe i cristiani si domandano quando mai incomincerà la costruzione della chiesa...". Pochi giorni dopo, il 27 giugno, P. Giovanni Giavarini invia una lunghissima lettera dove ringrazia prima di tutto quanti hanno preso parte al suo dolore per la tragica scomparsa del fratello Santino, deceduto in un incidente d’auto la sera del 5 maggio. P. Giovanni si dice commosso fino alla lacrime nel leggere le numerose lettere di condoglianze che gli erano pervenute da confratelli e da amici. Prime richieste di rinforzi A metà agosto P. Giovanni Giavarini invia una lettera per informare sulle sue corse apostoliche e per chiedere rinforzi dall’Italia. A Loreto, il 12 marzo, sono stati ordinati ben 15 novelli sacerdoti. “La salute mi accompagna sempre, con la buona volontà di fare del mio meglio tra le anime affidatemi. Ora mi posso dire Missionario vero, benché non perfetto...; ogni lavoro apostolico è divenuto pane per i miei denti e la mia vita è ora ben diversa da quella dei primi mesi. Non c’è da annoiarsi in casa e fuori casa! Il lavoro non manca: ce ne sarà abbondantemente anche per i nuovi eletti... Il freddo umido di giorni fa e il calore repentino attuale hanno risvegliato i microbi della vecchia epidemia che manda all’eternità tanti e tanti dei nostri neri. 36 l cavallo d’acciaio e il missionario di ferro sono sempre di pattuglia, recando ai moribondi il conforto divino e umano. Quante volte ebbi la fortuna, specialmente negli ultimi quindici giorni, trovandomi solo alla missione, di correre unito a Gesù Eucaristico per villaggi vicini.e lontani. La consolazione di questi momenti non ve la posso descrivere... Gesù sul petto, l’Olio Santo in tasca e gli altri poteri nell’anima, si vola finché si può in motocicletta. E quando la natura e integralmente e genuinamente africana da impedire l’uso del veicolo, allora da motociclista si diventa pedone e su e giù, salta di qua e di là, con il Rosario in mano si prega e si trotta... Domenica scorsa, dopo aver confessato senza fine, cantato la S. Messa, battezzato ed ascoltato alcuni processi, mangiai un boccone in fretta per saltare subito a cavallo della mia moto alla volta di un lontano villaggio, in compagnia di Gesù Sacramentato. Il giorno dopo ero egualmente in corsa in un’altra direzione. E così spessissimo Questa vita è la più pura e la più lucrosa per il Cielo. Oh, come mi attacco a Gesù, come lo invoco, come lo prego in quei momenti! Sarà forse la paura che mi stimola?... Ma è altresì, lo sento, il dovere personale di amarlo immensamente poiché si è degnato servirsi di me miserabile per una missione così divina. Quando si arriva nelle povere abitazioni si trova il morente steso per terra, sotto una vecchia coperta che non giunge neppure a coprire tutto il corpo: un po’ di fuoco in mezzo alla stanza. Se fa caldo il malato è portato di fuori, sotto il sole, e là geme senza medicine, senza alcun aiuto; i parenti gli si accovacciano accanto finché sta in vita, impotenti a dargli altro sollievo che un po’ d'acqua. Il missionario arrivando pone il corporale per terra – l’altare immenso di Dio - accende una candela e poi, ginocchioni per terra, ascolta la confessione, dà subito il Viatico e l’Estrema Unzione con la benedizione apostolica, 37 mentre tutti i vicini vengono a disporsi intorno e intonano il Rosario. Come vedete c’è un eccesso di povertà, una mancanza di tutto, ma fede, fede pura, miei cari... E non si può fare a meno d’asciugare gli occhi. Credetemi: queste consolazioni fanno dimenticare ogni sacrificio!... Monsignore mi chiede spesso se ho notizie dei nuovi missionari italiani destinati qui allo Shirè. Sua Eccellenza mi dice che l’unica sua speranza per quest’anno poggia sulla Provincia Italiana, poiché finora sa di ricevere un solo Padre inglese. Siamo perciò tutti in aspettativa. Tanti altri confratelli mi hanno chiesto quanti Padri italiani verranno e se ci sono tra quelli dei Perosi o dei Gigli, alludendo al bisogno di Padri musicisti...”. L’11 settembre ha luogo l’ordinazione sacerdotale dei primi due Padri indigeni del Vicariato Apostolico dello Shirè. Echi della festa li troviamo nelle lettere di P. Remigio Villa che si susseguono a ritmi abbastanza regolari, come quelle di P Giavarini. In una di queste si apprende che P. Villa è stato destinato ad altro importante incarico. S.E. il Vicario Apostolico lo ha nominato professore di latino e di musica nel Seminario indigeno di Nankunda. Ricordando il primo anniversario del suo arrivo in terra di missione, P. R. Villa scrive: “… Non pare vero! È già un anno che mi trovo nel Nyasaland dove giunsi il 3 dicembre 1937! Io continuo a fare il ... professore e per di più, professore di inglese. Alunni e professore crogiolati insieme, non so che risultati darebbero... tanta è la mia conoscenza di questa lingua benedetta... La casa dei Padri e gli edifici del Seminario sono costruiti sopra un vasto altipiano, a nord del quale si trova il monte Zomba. Il panorama che si gode da Nankunda è spettacoloso. Verso occidente si distende l’immensa pianura, 38 solcata dallo Shirè, che serpeggia lucente tra i campi di granoturco. Verso mezzogiorno invece vi sono colline e montagne d’ogni forma e d’ogni altezza... E la vita del seminario? Essa mi fa dimenticare di trovarmi in Africa. Quantunque non mi manchino attrattive per l’ufficio d’insegnante, pure sento vivamente il gran sacrificio della vita missionaria sacrificata in gran parte. È vero che la missione di Zomba è assai vicina e che di quando in quando vi andiamo per fare un po’ di ministero, ma non è la bella vita di villaggio. Si fa però quel che il Signore e la Madonna vogliono. E poi... qui in Africa si può facilmente cambiare di residenza. Spero un giorno o l’altro di poter tornare all’apostolato diretto fra i neri…”. 39 1939 Partono due nuovi missionari Aspettavamo con ansia quel giorno solenne “… Da tempo e con ansia aspettavamo quel giorno solenne. Ricordiamo bene: una sera d’autunno, sotto l’albero secolare del cortile, ci fu annunziato la futura partenza dei due missionari; allora uno scroscio spontaneo di battimani e grida entusiastiche attraversarono gli squallidi rami e salirono fino al cielo, ch’era tersissimo; allora apparve, nel lontano orizzonte, la prospettiva della festa piena di ineffabili gioie e di una mistica dolcezza... Di buon mattino ci rechiamo in S. Maria delle Grazie, una tra le più belle chiese della città, e parata come nelle grandi circostanze; là i nostri Missionari compiono dinanzi al Vescovo e alla folla numerosa il rito del commiato. Non si può non rimanere presi da una simile cerimonia in cui c’entra buona parte della vita primitiva cristiana, anzi, noi viviamo per poco quella medesima vita: i fedeli raccolti più del consueto, i canti, le preghiere che si elevano al Trono di Dio miste all’incenso e al profumo dei fiori sull’altare, le colossale candele dalla tenue luce oscillante, che ci raffigurano le fiaccole antiche, ogni cosa insomma, ci porta di balzo ai primi secoli del regno di Gesù. Dopo la Messa celebrata da P. Mario Caccia, seguono alcune parole paterne di mons. Adriano Bernareggi, quelle stesse rivolte da Gesù agli Apostoli che si accingevano a percorrere il mondo. Quindi Sua Ecc.za porge ai fortunati un Crocifisso, che sarà la loro arma, e, mentre quale spada nel fodero, viene conficcata nell’apertura della veste sul petto, qualcuno fra gli astanti cerca di scoprire negli occhi dei due atleti di Cristo un luccichio, un lampo di giubilo e di fierezza, impossibile a celarsi troppo a lungo nell’animo. Coronare la cerimonia tocca ad un festeggiato, il R. P. Tarcisio Betti, il 40 quale con un breve discorso fa sgorgare lacrime di commozione a più d’uno; poi i confratelli e apostolini baciano le mani e i piedi dei due missionari. E ora che ci rimane a dire? ciò che avviene nella giornata s’indovina facilmente. Concludendo, ci sono avverati i sogni che avevano intravvisto in quella sera d’autunno, sotto quell’albero secolare; e aggiungiamo pure una lieve stretta al cuore nel vederli partire. Oh! su allegri, vi aspettiamo laggiù, addio! no, arrivederci! - dicono in tono scherzoso i partenti per allontanare da noi ogni tristezza; e intanto si recano a Genova, dove s’imbarcheranno sul “Giulio Cesare”. Arrivederci!: qual suono ha per noi questo augurio; la realtà è tanto lontana!... ma lo sentiamo ripetere anche quando i due RR. PP. già scompaiono dietro il muro di cinta... Sì, arrivederci! La Stella del Mare ci guidi a buon porto". Avevamo realizzato il sogno della nostra giovinezza Fin qui la cronaca de “L’Apostolino di Maria” firmata da P. Pirovano. P. Mario Caccia e P. Tarcisio Betti, che attendevano con impazienza la partenza per l’Africa, sono salpati da Genova a bordo del “Giulio Cesare” la sera del 28 febbraio 1939. Avevano realizzato il sogno della loro giovinezza: essi sono Missionari! Mentre le numerose casse dei bagagli personali erano dirette a Genova per prendere posto nella stiva della nave i due RR. PP. andarono a Loreto per salutare, nella sua Santa Casa, la Stella del mare e Regina delle missioni. I Confratelli lauretani vollero improvvisare una simpatica festa cui non si sottrassero i due Missionari. Qualche eco di questa festa l’abbiamo da una corrispondenza da Loreto, firmata da Gianni Vedovati. “... Il 24, festa di S. Mattia, con rito solenne pur nell’austerità del significato di distacco e di sacrificio, nella Cappella del Rifugio S. Giuseppe gentilmente concessa per la 41 circostanza, si è svolta la cerimonia d’addio a due giovani missionari monfortani: P. Tarcisio Betti e P. Mario Caccia, di Bergamo. Presenziavano la cerimonia rappresentanze di tutti gli Istituti ecclesiastici e laici della città e un folto gruppo di invitati. Una Messa solenne preludia la cerimonia della consegna dei Crocifissi. Attorno all’altare grandi tappeti rossi sugli inginocchiatoi drappi di porpora danno alla bianchezza dell’altare un risalto più vivo. Anche i celebranti vestono paramenti rossi. Tutto e colore di sacrificio. Nella controluce degli alti finestroni solo i vasi di mimosa lasciano cadere una nota calma di stanchezza melanconica. Padre Mengoli celebra la Messa solenne e i due Partenti vi assistono da un inginocchiatoi speciale. Al Vangelo P. P. Buondonno esalta la figura e l’idealità del missionario portatore della luce della fede e dell’amore per la ricostruzione dell’ordine antico sintetizzandola nella ricostruzione del grande tempio universale di Dio e nella riconsacrazione dei più alti valori spirituali. La commozione che s’indovina sul volto dei presenti di fronte alle giovani figure dei partenti si fa più intensa quando a Messa terminata, la Schola, diretta sempre dal P. Le Guevello, attacca il “Quam pulchri pedes” del Clemens, raccolto e mistico come una contemplazione, e i confratelli dei Missionari si prostrano al bacio dei loro piedi. Il silenzio profondo è rotto solo dai solisti che declamano come una preghiera viva, l’invocazione di Gesù agli operai nell’abbondanza della messe. Il rito d’addio si conclude con il trionfale “Omnes gentes”, pure di Clemens, e con l’abbraccio di coloro che tra qualche giorno salperanno per l’Africa. Con il “Giulio Cesare”, via Gibilterra e Città del Capo essi raggiungeranno lo Shirè, nel Nyasaland, Africa Orientale Inglese. Le ore dell’indimenticabile giornata passarono rapide. Passò anche il sabato e giunse l’ora del distacco. Scendemmo 42 tutti alla stazione. Era notte e l’addio riuscì per questo anche più commovente. Quando cominciò a trillare il campanello di segnalazione, ci abbracciammo un’ultima volta. I due confratelli con i quali tanta parte di vita avevamo vissuto assieme, sentono profondamente quest’ora. Non parlano più, ma gli occhi lustri raggiano la gioia segreta dell’ideale raggiunto. Quando il treno si ferma, ci stringiamo più vicini e quasi li alziamo di peso sui predellini attendendo che si affacciano agli sportelli chiusi. Un fischio. Il treno si muove e parte. I due missionari salutano con le mani .alzate mentre noi applaudiamo al grido di “Viva le missioni. Viva l’Africa!”. I finestrini del convoglio sono subito occupati dalle teste dei viaggiatori incuriositi da quell’entusiasmo un po’ fuori orario, e qualcuno si unisce a noi nell’applauso senza saperne il perché. Il treno, appena fuori dalla pensilina, gira sulla destra, e vediamo scomparire in ultimo gesto di addio due mani protese nella notte. Del convoglio ancora per poco possiamo vedere e fanali rossi di coda che sembrano lacrimare. E risaliamo al Collegio...”. Mons. Auneau fa l’elogio dei missionari italiani Dallo Shirè Mons. Auneau scrive al P. Provinciale una lettera di ringraziamento e elogio dei Missionari italiani. “Carissimo P. Provinciale, la ringrazio per la sua amabile lettera del 16 febbraio. Le sono oltremodo riconoscente per le notizie fornitemi sul conto dei due giovani Padri salpati dall’Italia per lo Shirè. Continuiamo ad essere contentissimi dei preziosi servizi che ci rendono gli altri due confratelli italiani che li hanno preceduti in questa terra di missione: i RR. PP. Giavarini e Villa. Non dubito che i nuovi Padri cammineranno sulle loro tracce e faranno dell’ottimo lavoro nello Shirè. 43 La nostra Missione si sviluppa con ritmo accelerato. Non abbiamo nessun disoccupato! Anzi vi è molto più lavoro di quel che possono fornire i Missionari attualmente addetti in questo territorio. Perciò le sarei riconoscente se ci facesse ancora dono di suoi giovani sacerdoti che si sentono la vocazione di Missionari “in partibus infidelium”. Non voglia inaridire una sorgente che ci da acqua così eccellente! In questo momento subisco un’acuta crisi di una malattia inveterata, che, ahimè! sembra proprio incurabile; la malattia della... pietra. In questo momento siamo in pieno fervore di lavori. Stiamo costruendo i fabbricati di due Missioni; la Missione di Zomba, capitale del Nyassaland, traslocata in un luogo più spazioso e più adatto ai bisogni di questa Missione; e una nuova Missione sulle rive del Lago Nyassa, il nostro piccolo mare (380 Km. di lunghezza e da 30 a 80 Km. di larghezza). La posizione di questa nuova Missione è incantevole, riunendo in sé le attrattive del Lago Nyassa e quella della foresta africana, che si estende in un territorio immenso. In questa foresta si trova ogni specie di selvaggina: dal coniglio selvatico all’elefante. Il lago poi è molto pescoso ed ha qualità di pesci veramente deliziosi. Pur non disprezzando i vantaggi della caccia e della pesca, i nostri Missionari vogliono però avere, là come ovunque, dei cacciatori e pescatori d’uomini. Avviso ai dilettanti di caccia e di pesca nei due sensi! I miei più cordiali saluti a tutti i confratelli. Voglia gradire, carissimo P. Provinciale, l’espressione dei miei religiosi e rispettosi sentimenti in Gesù e Maria”. Siamo giunti sani e salvi nello Shirè A differenza dei primi due missionari, P. Mario Caccia e P. Tarcisio Betti non inviano notizie durante il viaggio in nave. 44 Solo in aprile, giunto a destinazione, P. Mario Caccia scrive al P. Provinciale da Limbe dove è rimasto per tre settimane, prima di trasferirsi nella missione di Nzama. “… Siamo qui giunti sani e salvi il 28 marzo a sera alle ore 10.30. Vennero a prenderci alla stazione con il camioncino. Il primo abbraccio fu per il R. P. Giavarini che si avanzava fra le tenebre con la sua barba nera nera, con quei suoi grandi occhi, gridandoci un po’ in italiano, un po’ in bergamasco: “Come va?... fatto buon viaggio?...”. E poi via di corsa verso la missione. Qui i Padri della casa ci attendevano, con a capo mons. Vicario Apostolico, per darci il benvenuto. L’appetito ci spinse subito al refettorio. I boys ci servivano guardandoci dall’alto in basso. Chissà quale impressione avremo fatto loro con i nostri vestiti in borghese e con la nostra barba incolta! Il giovedì seguente facemmo una piccola passeggiata fino alla missione di Nguludi. Ritrovandoci assieme, strada facendo, ci raccontavamo le nostre cose e ci scambiavamo le nostre impressioni. Pranzammo alla Scuola Normale, visitando poi i fabbricati dell’importante opera. C’incontrammo e parlammo volentieri con Suor Maria Francesca Tombini, di Torre Boldone. Alle cinque pomeridiane prendemmo la via del ritorno. Ma la notte ci sorprese in cammino e quella brava guida di P. Giavarini, parlando e parlando, smarrì il sentiero, facendoci terminare ai piedi di un’alta montagna. Cercammo di rimetterci sulla buona via, ma inutilmente. Andavamo a tastoni, guazzando fino alle ginocchia in parecchie pozzanghere. Allora Bambo Giavarini incominciò a gridare in Chinyania: “Anthu!...Amai! Bambo wa njra... (Uomini, donne, il Padre ha perso il sentiero!)”. Fu così che con l’aiuto dei neri accorsi ci rimettemmo sulla strada sicura. È stata questa la prima avventura missionaria. Il giorno dopo Monsignore ci chiamò nella sua stanza per darci l’obbedienza. A me fu assegnato il posto di Nzama, la 45 prima missione fondata nel Nyassaland: clima ottimo, posizione incantevole, al confine con la Colonia portoghese del Mozambico. Questa sera partirò da Limbe col treno fino a Balaka, poi a Nsipe e di là alla mia missione. Viaggio da solo, senza sapere né inglese, nè chinianja!... La mia salute è molto buona, però, come ci disse Monsignore avremo sempre da soffrire qualche piccolo disturbo, soprattutto qualche mal di testa, poiché siamo sempre delle piante trapiantate. Abbiamo visto il P. Villa il lunedì di Pasqua e s’è fermato con noi fino a giovedì. Sta molto bene. Abbiamo appreso con grande dispiacere la scomparsa del carissimo P. Gebhard. Saluti a tutti i RR Padri e Apostolini”. Novità nella missione del Madagascar Il mese di maggio 1939 segna una tappa importante nella storia delle missioni estere monfortane. “L'Osservatore Romano” del 29 maggio annunziava la creazione di un nuovo Vicariato in Madagascar. “… Per decreto della “S. C. Propaganda Fide”, in data 25 maggio 1939, la Prefettura Apostolica di Vatomadry è elevata al grado di Vicariato Apostolico, con Tamatave come centro. A questo nuovo Vicariato è aggiunta una parte del territorio dei Vicariati Ap. di Tananarive e di Diego Suarez. Monsignor Alano Le Breton, già Prefetto Apostolico di Vatomandry, è nominato Vicario Apostolico di Tamatave”. I Padri della Compagnia di Maria erano arrivati in Madagascar solo nel 1933. La missione era stata ceduta dai Padri Gesuiti. Primo Superiore era stato nominato P. Le Breton, già missionario nello Shirè e nel Mozambico. Sarà lui il primo Vicario Apostolico (1935). 46 Prime disavventure dei nuovi missionari Nello stesso mese P. Mario Caccia, dallo Shirè, invia notizie sulle sue prime disavventure missionarie. Lo fa, come al solito, con una lettera al P. Provinciale. “… Quando si sta bene non si pensa più a nessuno: il mio lungo silenzio non deve quindi inquietarla... Quante volte, tuttavia, vado col pensiero a Redona, a Loreto, alle belle feste... Quale differenza fra l’Africa e l’Europa! Bisogna che dimentichi il passato ed incominci a pensare a vedere le cose alla maniera dei neri, cioè quasi tutto all’opposto... Quel che è più faticoso è imparare la lingua indigena che non mi vuole entrare in testa. Ma ho già compreso che qui in Africa più che altrove, è necessario armarsi di molta e molta pazienza. Nell’ultima mia lettera, un mese fa, le descrivevo le belle e lunghe giornate passate in compagnia di P. G. Giavarini. Stavamo arcivolentieri assieme, ma la voce di Dio per mezzo dei Superiori, ci impose il sacrificio della separazione. Il mio posto di missione era molto lontano e il mio nuovo Superiore mi attendeva da lungo tempo. Partii da Limbe solo soletto, alle nove e mezzo di sera, col treno africano. Alla stazione vennero anche P. Giavarini e P. Betti. Ci salutammo cordialissimamente. A chissà quando l’arrivederci... Così cominciai il primo viaggio africano: da solo, di notte, senza sapere un’acca né di inglese, né di lingua indigena. Ero contento egualmente. “In Africa bisogna sapersi sbrogliare!” m'aveva detto Mons. Vescovo, comunicandomi il programma del viaggio. Il treno fischia e parte. Entro nel mio scompartimento: fumo qualche sigaretta con un mauriziano che parla francese. Ma dopo un’oretta egli scende ed io resto solo ed isolato. Mi corico per far contenti gli occhi che cominciavano a pizzicarmi: 47 infatti avevo tempo fino alle tre del mattino, mi avevano detto. Che sonno! Che sogni! Mi sveglio, guardo l’orologio, vado al finestrino c’è aria fresca! Ritorno a sonnecchiare, guardo di nuovo l’orologio... Balaka, Limbe, Nsipe, Nzama, un vero sonno di Don Abbondio! Mezzanotte...; le due..., le tre e un quarto. Accidenti! Forse ho già oltrepassata la grande stazione di Balaka, senza avvedermene... Fregandomi gli occhi vado al finestrino: buio pesto. Accidenti, ora sono fritto! Dopo dieci minuti viene il bigliettaio indigeno a ritirare il biglietto. “Balaka”, gli chiesi. “Yes!”., mi risponde. Mi ritornò il respiro. Il treno era in ritardo di mezz’ora... Sarebbe questa la grande stazione di Balaka? Scendo con tutta comodità. Ma ora che faccio qui? Prendo dalla tasca una lettera consegnatami a Limbe da P. Baslé e indirizzata al Capostazione indigeno, nella quale gli raccomandava che mi facesse arrivare a Nsipe e mi desse tutte le istruzioni opportune, data la mia assoluta ignoranza della lingua. Mi avvicino ad un nero per chiedere del Capostazione. Capisco dalla risposta che non c’è, che ora dorme e arriverà solo in mattinata... Eccomi in un bel pasticcio! Dove vado ora a trovare l’auto per Nsipe? Sotto la pallida luce di una lucerna sfoglio il mio dizionario inglese e mi avvicino nuovamente al nero: “When auto for Nsipe Mission”, gli chiedo. “Six cloks!”, mi risponde. “Thank you!”. Mi siedo allora su di una panchetta e, avvolto nel mio impermeabile, utile contro il fresco della notte africana, dopo aver sognato un poco ad occhi aperti, dico la preghiera del mattino e il S. Rosario affinché la Madonna mi accompagni sano e salvo fino alla mèta. Incomincia l’aurora e il sole si fa alto: sono le sei ma l’auto per Nsipe non la vedo e non la sento. Finalmente cominciano ad apparire gli indigeni impiegati alla stazione. Ma 48 chi sarà il Capostazione? Il nero cui avevo consegnato la lettera me lo indicò. Non perdetti più di vista quel signore... Alle 7.15 arriva un autocarro, già quasi completamente carico d’ogni mercanzia. “Che sia propria questa la corriera per Nsipe? Stiamo a vedere”. Passa il capostazione e gli chiedo: “Please! Auto for Nsipe?”. “Yes!”. Mi fa segno di mettere le valigie sull’auto: i neri me le presero e le caricarono. “Ma io dove vado?”, pensavo tra me e me. Il motore comincia a rombare: ... “ma io dove vado?”. Fortunatamente ripassa il capostazione che mi fa segno di salire dinanzi, vicino all’autista. Faccio uno sforzo per salire e mi siedo. Sale pure il capostazione e si pone accanto a me. Si parte, procedendo a media velocità. Finalmente! Cominciai a respirare... Ad Nsipe i neri fanno scendere le mie valigie e le portano all’imbocco della strada che conduce alla missione. Le deposito dinanzi all’abitazione d’un indigeno e mi avvio verso la casa dei Padri domandandomi: “Quale sarà?”. Dopo un breve tratto di strada vedo delle case in mattoni. Domando ad un ragazzo nero che mi seguiva a debita distanza: “Mission catholic?...”. Mi fa un segno con la testa, incuriosito dal mio strano modo di parlare. Mi dirigo verso la scuola cattolica... Un maestro mi indica la casa del Missionario. Mi avvicino e busso. Entro e trovo P. Bethus seduto per la colazione. Sono le 11. Il confratello mi accoglie con tutta cordialità e mi invita e prendere qualcosa di caldo. Domandai prima di poter celebrare la S. Messa. Mi portò subito una sottana e mandò a chiamare i chierichetti. M’accompagnò nella cappellina interna. Che miseria! Vidi immagini ed altarini e la statuetta della Madonna di Loreto: riconobbi subito la mano ed il passaggio del P. Villa... Il mattino seguente partiamo per Nzama. Più di trenta Km. in motocicletta col P. Bethus. Si marcia bene malgrado gli sbalzi formidabili causati dalla irregolarità della strada. Dopo 5 km. la prima fermata: il motore s’è surriscaldato. Dopo un altro 49 Km. altra fermata. Andiamo bene! E fu così fino a Nzama: facemmo davvero tutte le stazioni della Via Crucis, in numero triplicato... Io feci alcuni tratti a piedi, nelle salite, per rimontare poi nelle discese... All’una si comincia a scorgere la casa della missione. Ero veramente stanco, ma contento. Il Superiore ci accolse benissimo, commosso del nostro stato pietoso. Per il mio arrivo avevano ucciso un maiale e fatto arrivare un po’ di vino... Mi trovo bene. La mia principale occupazione è sempre lo studio della lingua indigena. La domenica io canto la Messa mentre gli altri Padri confessano e fanno l’omelia. Già due volte col Superiore sono andato a caccia di scimmie che qui si trovano in abbondanza... A proposito di animali, senta questo caso, capitatomi nel terzo giorno dopo il mio arrivo. Dopo mezzogiorno, volendo andare in ritirata, alquanto discosta dalla casa, mentre faccio per entrare scorgo un grosso serpente che si ficca sotto la porta. Mi si è gelato il sangue nelle vene. Corro, allora, ad avvertire il Superiore, che viene prontamente. Temevo ormai che non si trovasse più, invece il rettile s’era comodamente attorcigliato sotto la cassettina della carta. Si cercò di farlo uscire.. Lo sventrammo a suon di legnate per renderlo innocuo. Due ore dopo la testa continuava a muoversi... Lo finimmo col fuoco. Il Superiore mi disse poi che era molto pericoloso perché velenosissimo: muore dopo un’ora dalla morsicatura. Quindici giorni dopo, un altro della stessa specie venne ucciso a sassate dai neri, mentre si dirigeva, strisciando, verso la nostra casa..". Fino ad ora non l’ho imbroccata giusta... Verso la fine di maggio, con molto ritardo, giunge al Provinciale una lettera di P. Tarcisio Betti. Scrive da Palombe. 50 “...-Se mi domanda come va la vita quaggiù, ah! devo rispondere che fino ad ora non l’ho imbroccata giusta. Il mese trascorso a Limbe fu bello, perché là, a più di 1300 metri d’altitudine, si ha un clima europeo, ma qui a Palombe... Vi sono giunto circa quaranta giorni fa. È capitato a me quello che capita a certe piante importate da altri paesi: da vigorose, snelle, verdi si rattrappiscono ed emettono delle foglioline giallognole, raggrinzite, molto sospette e fan dire al giardiniere che le osserva: “mo’ ce more!”. Qualcosa di simile è accaduto all’individuo novellino, inesperto che arriva in Africa.. Ma diciamo subito che quel brutto tempo era quasi sorpassato quand’ecco un bel giorno (infausto giorno!) me ne capita una più grossa e tragica. Ritornavo da una visita al mercato situato a cinque miglia circa dalla missione; la strada era discreta e la mia moto filava a grande velocità sulla pista liscia segnata dal cammino dei neri. Ad un certo punto la moto mi si scarta e va in mezzo alla strada che in quel punto è un vero Carso. Inesperto ancora del mestiere, incomincio col perdere la testa, poi, pensando di spegnere il motore lo accelero completamente. La moto diventa un cavallo sbizzarrito: le braccia mi tremano freneticamente e non potendo più tenere, mi alzo sui pedali e faccio un tuffo. La macchina, poveretta, gira su se stessa e finisce nel fosso a lato della strada, ed io avanzo di quattro o cinque metri a ruzzoloni verso la missione. Riavutomi dal primo sbalordimento cercai d’alzarmi. Ahi ahi!.. Ia gamba e il braccio destro mi parlano ancora di quell’avventura. Non senza difficoltà riuscii a tirare la moto dal fosso, e per questa volta, a piccola velocità feci ritorno alla missione, dove i Padri, ridendo, mi fecero animo: Coraggio! E' il mestiere... E di ciò ringrazio il Signore d’averla passata abbastanza liscia... Avrei tante altre cose da raccontare, specie sui piccoli negretti, da poter far ridere di gusto, ma per ora il mio braccio esige un po’ di riposo. Io ricordo sempre dl pregare per tutti i 51 componenti della nostra cara Provincia italiana, certo d’essere contraccambiato. Saluti affettuosi a tutti". Nankwali è la mia nuova residenza Poco tempo dopo, anche P. Mario Caccia annuncia il suo cambiamento di residenza. La lettera porta la data del 26.7.1939 ed è stata spedita da Nankwali. “Dopo non ancora quattro mesi di residenza in Africa, il 15 c.m. ricevetti l’obbedienza per una nuova missione: Nankwali. Lasciai il mio primo posto con un po’ di rincrescimento, poiché il far valige è sempre alquanto penoso. Son partito da Nzama il 18 c.m.. diretto a Limbe, dove passai due giorni in compagnia del carissimo P. Giavarini. Giovedì sera, giorno 20, con l’auto di Monsignore mi recai a Zomba, dove egli doveva cresimare il giorno dopo. Aiutai un po’ nelle celebrazioni e visitai il bellissimo collegio locale e i nuovi fabbricati della missione. Sabato 22 andai a piedi (circa 8 Km.!) a Nankunda per trovare P. R. Villa e visitare il seminario indigeno. Il P. Superiore mi fece cantare la Messa e nel dopo mezzogiorno di domenica ritornai a Zomba per attendere il motocarro dei Greci che andavano fino alla missione. Attesi fino alle 5 di sera e arrivò quando meno me lo aspettavo. Già incominciava a far buio. Il motocarro filava; l’aria fresca penetrava nelle ossa. Il cielo limpido, con la luna che rischiarava la via, rese veramente interessante questo viaggio. Arrivati ad un certo punto la strada finisce; si trova davanti a noi lo Shirè, largo circa 100 metri. Non si vede nessun ponte. Un fischio dell’autista fa venire dall’altra parte della sponda un grosso barcone sul quale fece salire il motocarro con tutto il personale e poi pian piano i negri lo spinsero dall’altra parte con bastoni che prendevano il loro punto di appoggio sul letto del fiume. 52 Nella missione, in attesa della nuova casa, continuiamo ad abitare in una povera capanna, dal tetto di paglia e dai muri fatti con un impasto di sassi e fango. Siamo qui alla meglio, un po’ come dei neri. La cappellina misura tre metri di larghezza per due di altezza. Si può appena starci per celebrare la Messa con un solo serviente. La domenica si celebra all’aperto. I cristiani sono assai pochi; è una missione che è agli inizi e bisognerà lavorare molto. Ci sono numerosi protestanti e maomettani e pagani. Con i primi due sarà certo difficile aver presto buoni risultati...”. Di corsa, da un villaggio all'altro P. Giavarini e P. Villa, soprattutto loro, inviano notizie sull’attività missionaria che stanno svolgendo. P. Giovanni Giavarini si rivolge ora direttamente ai suoi “… amatissimi canarini della Madonna”. Si sente un po’ uno “Zio d'Africa”. “... Per darvi una pallida idea del nostro lavoro mi limiterò a dirvi qualcosa dei miei viaggi apostolici dell’ultima Pasqua. Dopo le belle ore trascorse in compagnia dei due desideratissimi confratelli, P. Caccia e P. Betti, il dovere mi obbligava a trascorrere altre ore, forse e senza forse meno desiderate e godute dal “vecchio uomo”, ma ben più preziose per il fine prossimo e ultimo della nostra esistenza. I nostri due giovani missionari sostarono a Limbe bel 15 giorni. Non mancò il tempo per esaurire al completo la fonte fresca e piena delle notizie dei nostri cari e della patria lontana. E siccome non siamo missionari di sole notizie era egualmente grato, di comune accordo, avvenisse il distacco per entrare nelle personali mansioni della vita missionaria. Quindi il sottoscritto dovette cavalcare la ”mula d'acciaio” e correre da un villaggio all’altro per portare l’Autore della vita a tutti gli ammalati di Cholo, Molère, Nsabwe. Il 25 aprile davo l’addio ai compagni e mi diressi sulle alture nei dintorni di Cholo. Il villaggio si chiama Macwana. 53 La sera mi portavo vicino agli ammalati per ascoltare la confessione e mi intrattenevo con loro in conversazione... Quando i torrenti sono gonfi il Padre cavalca l’uomo più robusto, e guai se si mostrasse restio o se volesse scalzarsi; sarebbe un grande insulto per il nero. Quando invece il Padre ha il Santissimo con sé, allora sono due che si offrono, incrociando le mani, e il Padre non ha che adagiarsi sulla soffice e calda poltrona; ed essi, con prudenza finissima, portano il Padre e Gesù all’altra sponda. Quando Gesù è portato eucaristicamente dal Padre, non si parla ma si prega continuamente in silenzio, salvo quando sul percorso non ci siamo protestanti o pagani; allora si prega ad alta voce e il Padre indossa la stola, ma altrimenti senza alcun segno e per di più il Padre è in calzoni. Quando però si giunge presso l’ammalato si indossa la stola e si fa come prescrive il rituale... I neri sono furbi al sommo. Siccome vogliono a tutti i costi la visita del Padre, allora anche se l’ammalato è capace di camminare vi diranno che è impossibile. E d’altra parte tutto e regolato, cioè ogni giorno sanno dove il Padre dirà la S. Messa e quanti ammalati vi sono fisicamente impossibilitati. Ma durante la corsa quanti ne saltano fuori di questi impossibilitati! E allora, non potendo moltiplicare i giorni e rompere l’ordine bisogna adattarsi in una giornata a far delle grandi processioni e correre da un villaggio all’altro. Processioni penose, ma, grazie a Dio, di grande merito! Ma devo dire... che il gran sacrificio lo compie Gesù! È vero che Egli non guarda la capanna, la povertà al sommo, la sporcizia del corpo e le irriverenze che deve incontrare sia per strada, sia da colui che lo porta, e per la mancanza dello stretto necessario al momento della Comunione, ma guarda invece il cuore. Finiti i viaggi per la Comunione pasquale agli ammalati, incominciarono quelli per gli esami dei candidati al Battesimo. Lavoro interessante e divertente per le belle risposte che qua e 54 là ci è dato di raccogliere. Nella nostra missione sono gli uomini che si manifestano più intelligenti, e sono loro che più si applicano allo studio del catechismo. La donna deve occuparsi d’altro...”. Censurata una lettera di P. Remigio Villa Censurata dalle autorità inglesi, con molto ritardo, arriva una lettera scritta da P. Villa e spedita dalla missione di Mpiri dove si trova per i “masonkano”, una sorta di esami dei bambini che si preparano alla prima Comunione e alla Cresima. Per giungere fino qua abbiamo percorso circa 100 Km. in bicicletta. Quanta miseria, spirituale soprattutto, poiché qui il maomettanesimo è assai diffuso. Pensate che fino al 1935 i cristiani non avevano missione qui, ma dovevano andare a Zomba, a circa 100 Km. ! Ma lasciamo le riflessioni e veniamo ai morettini. Sono proprio una “turba magna quam dinumerare…” io non posso. Quasi nessuno è vestito convenientemente. Che vita! Si ruzzolano per terra come tanti... porcellini d’Africa. Imparano molto bene il catechismo e coloro che vengono per la sola Cresima sanno confessarsi benissimo. Vi assicuro che certi frugoletti mi hanno meravigliato davvero..”. 55 1940/45 Il lungo silenzio Nella sua ultima lettera P. Villa parla di “censura inglese”. Sono le prime avvisaglie di un lungo periodo difficile dei primi missionari italiani, presenti in una colonia inglese con cui l’Italia entrerà in guerra. Nessun problema nei primi mesi del 1940. Grazie a Dio ho festeggiato il mio primo anno di missione P. Tarcisio Betti scrive al Provinciale: “... Grazie a Dio sono sempre stato bene, così ho potuto festeggiare con gioia il 28 marzo il primo anno di missione nel Nyasaland. Ho avuto solo un piccolo incidente che merita d’essere raccontato perché conosca meglio che cos’è l’Africa. Alcuni giorni fa, dopo essere stato fino alle undici di sera a sorvegliare il tabacco che secca nelle “Barnes”, mi metto a letto. Il sonno mi fa fare sbadigli da rompere le mandibole, ma sto benissimo. Sono appena sotto le coperte, che comincio a sudare caldo e a tremare di freddo, in modo piuttosto allarmante. Cose d’Africa, dico tra me e me. Tra un convulso batter di denti, mi alzo, vado in cerca di chinino e di aspirina; ne prendo una buona dose: due a due. Verso le tre mi sveglio con la netta sensazione di trovarmi in un bagno caldo, e la febbre continua. Al mattino, con la testa pesante, il freddo alla schiena, la nebbia negli occhi, vado a celebrare la S. Messa, ma subito dopo mi rimetto a letto prendendo nuovamente del chinino e dell’aspirina. Del resto non c’è altro rimedio; la febbre prende il suo tempo. In mattinata, per puro caso, arriva da Likulezi il P. Rèjan, vecchio missionario: “… Ah, questi novellini dell’Africa!”. Per tutto quel giorno stetti male, sempre con la febbre alta. Alla sera, ancora chinino e aspirina, la notte dormo bene e al 56 mattino svegliandomi, tutto è finito, salvo un po di debolezza. Se fosse sempre così, non avrei troppo da lamentarmi... Caro P. Provinciale, forse non lo sa che qui dalla fine di dicembre a tutto marzo abbiamo il periodo delle piogge. Cattivo tempo per chi deve viaggiare, specie alla missione. Phalombe, dove le strade sono torrenti d’acqua e fango, è una maremma. Per buona sorte, anche il Signore si adatta alla nostra vita e deve vederne di tutte le sorti. Non saprei contare le volte che, portando gli ultimi sacramenti agli infermi, sono montato sulla schiena di negri, col Santo Viatico, per attraversare dei pantani...”.Siamo stati bene durante questi sei anni di guerra P. Remigio Villa scrive al Provinciale: “... Grazie a Dio siamo stati bene durante questi sei anni di guerra. Ora ci troviamo così disposti: P.Giavarini alla missione di Palombe; P. Caccia al Seminario indigeno; P. Betti alla missione di Zomba ed il sottoscritto a Limbe. Suor Francesca Tombini pure si trova qui a Limbe, dirige l’ospedale della missione ed è incaricata della Cattedrale. Il lavoro missionario, malgrado la guerra, ha potuto continuare senza interruzione. Noi Padri italiani, dopo quattro mesi di internamento, abbiamo potuto riprendere liberamente la nostra vita di ministero. Anche dal lato materiale abbiamo sofferto pochissimo; solo alcune leggere restrizioni La guerra l’abbiamo sentita solo sui giornali! La salute dei confratelli in genere si mantiene buona, ma si sente il bisogno di rinforzi. Alcuni Padri sono al loro 14° anno di missione, senza riposo! La Regola prevede un anno in Europa ogni otto anni di Africa... Ma quando sarà il nostro turno? Che la Madonna ci conservi in salute e tutto andrà bene. Adesso comincia la stagione laboriosa con i “mazonkano”, cioe la preparazione ai battesimi e alla prime Comunioni. Qui a 57 Limbe c’è del lavoro per tanti. Abbiamo oltre 17.000 cristiani, sparsi nel raggio di 24 miglia e siamo solo in tre! Ogni anno poi c’è l'aumento di circa un migliaio di nuovi communicantes... Dunque chi è senza lavoro venga qui! A settembre abbiamo avuto quattro nuove ordinazioni nel nostro seminario indigeno; finora sono undici i sacerdoti africani, e se ne stanno preparando degli altri. Ora siamo impegnati nella costruzione di un nuovo edificio scolastico; il vecchio era stretto e malsano. Aiutateci e fateci aiutare. Ma soprattutto mandateci qualcuno... Su, i missionari bergamaschi! Egnì 'nzò, ghè post per töcc!”. Grave pericolo di morte per P. Tarcisio Betti Da notizie posteriori a questa lettera sappiamo che P.Tarcisio Betti, colpito dalla febbre nera, venne a trovarsi in punto di morte e fu anzi amministrato dal confratello P. Mario Caccia. Si era poi rimesso bene ed aveva subito ripreso la sua frenetica attività missionaria. Qui abbiamo tanto da fare L’8 dicembre 1945 P. Remigio Villa aveva inviato una lettera al Parroco di Carvico, suo paese di origine, in cui scriveva: “... Qui siamo nell’estate africana: fa caldo, le assicuro! Ma non c’è troppo tempo per pensare al sole; c’è tanto da fare. Il mese scorso fui alla missione soltanto 5 giorni. Per avere un’idea, ecco cosa ebbi le due ultime domeniche nelle nostre chiese succursali: in una 710 comunioni e 17 battesimi, in un’altra 1000 comunioni e 26 battesimi. Le dico che quando tutto è finito, allora si manda un respiro. Ma insomma se c’è del lavoro, pure la salute si mantiene buona, grazie a Dio. Ora che fa così caldo e che la mia moto è 58 rotta da due mesi, quando si va a piedi se ne beve dell’acqua! La sete è quel che mi costa di più in viaggio; e quando si trova dell’acqua non si guarda né al recipiente, spesso ributtante, né al contenuto: si chiudono gli occhi e... giù! Noi qui stiamo tutti bene. Tre Suore ripartiranno per l’Europa il 26 prossimo. Altri Padri sono pure in aspettativa, tra i quali il mio Superiore, che è qui da 15 anni, con altri 3 Padri. Sa, il clima africano consuma tutto il sistema, ed alla fine si è stanchi di tutto e di tutti”. In una lettera alla mamma, spedita il 10 ottobre 1945, ancora P. Villa ci fa sapere che S.E. Mons. Auneau “è stato molto ammalato. Si credeva il cancro e invece è solo un’ulcera allo stomaco. Sono 35 anni che è vescovo missionario ed ha solo 70 anni! Ieri abbiamo saputo che 9 Padri olandesi verranno qui in missione. Chissà se dall’Italia, dalla Francia e dall’lnghilterra ne avremo pure. Oggi P. Tarcisio Betti e P. Giovanni Giavarini sono qui in visita a Limbe. Stanno tutti bene. P. Mario Caccia l’ho visto la settimana scorsa Suor Francesca è contenta, avendo finalmente ricevuto notizie da casa”. Siamo tutti in buona salute e in piena attività In data 21 dicembre 1945 anche P. Mario Caccia scrive una bella lettera alla mamma e alla sorella. “… Il contenuto è strettamente privato, ma, tra l’altro, ribadisce le buone notizie comunicateci poco tempo prima da P. Remigio Villa: tutti in buona salute e in piena attività”. Alcune settimane prima dal porto di Marsiglia sono partiti 21 Padri Monfortani della Provincia francese: 15 per il Nyassaland e 6 per il Madagascar. Altri 9 Monfortani olandesi sono partiti per l’Africa. E i missionari italiani quando partiranno?... 59 1946 A quando una missione tutta italiana? Qui si è in ballo e bisogna ballare A guerra finita riprende la corrispondenza dei missionari. Particolarmente attivo P. Remigio Villa. Spigoliamo da una sua lettera al Provinciale e da un’altra alla mamma. Sono state scritte in aprile. “... Il mese di febbraio fu quanto mai piovoso, proprio come a Bergamo... Che differenza tra oggi e allora! Quand’ero apostolino, durante il brutto tempo me ne stavo tranquillamente in casa: scuola, chiesa, studio... Ora, pioggia, vento, sole mi trovano sulla strada o in mezzo alla savana, a tutte le ore! E non c’è da dire: “Non ne posso più, sono stanco, con questo tempaccio mi prendo un malanno...”. Qui si è in ballo e si deve ballare. Le anime non si salvano con la cuffia in testa e le balbucce ai piedi.. La Madonna, del resto, è una buona mamma e ci dà una salute di ferro e tanta serenità di spirito! La pioggia fu così abbondante che i campi sono dei veri laghi e le strade pozzanghere. I torrenti fanno paura. Una bambina delle nostre scuole volle tentare il passaggio di un torrente e fu portata via dall’acqua. Il corpicino della poveretta fu ritrovato quattro giorni dopo, a dieci miglia di distanza! E dire che anche sua mamma è in fin di vita... A causa della pioggia il tetto della sua capanna si è sfasciato e le è caduto addosso…”. Cosa è successo dal 1939 in poi? Anche dal Madagascar arrivano notizie sulla vita e sul lavoro dei missionari. Qui vive e lavora Fratel Francesco delle Cinque Piaghe. Scoppiata la guerra, attraverso i giornali si seppe che l’isola venne occupata dalle truppe americane. Dei nostri 60 missionari più nulla. Ora siamo in grado di portare alla conoscenza dei lettori una interessante lettera proveniente dall’isola lontana. “… Ci domandate: cosa è successo dal 1939 in qua, nel Vicariato di Tamatave? Temo di non riempire queste quattro pagine di lettera, perché la risposta è molto semplice: siamo sempre qua, carissimi, al servizio del divin Maestro e della amabile Signora; e per l’onore della cara Congregazione, abbiamo tenuto sempre duro e terremo sempre più duro! Nell’ottobre del 1941, per commemorare l’80° anniversario della prima Messa celebrata a Tamatave, uno splendido Congresso Eucaristico riunì nella grande città dell’Est i Vescovi del Madagascar e un numero incalcolabile di fedeli... Chi avrebbe creduto in quei giorni di trionfo che, neanche un anno dopo, le vie percorse dal Re della pace sarebbero state squarciate dalle trincee, e che un feroce bombardamento avrebbe fatto conoscere gli orrori della guerra fino in quest’isola così lontana?... Nel febbraio del 1943 ogni cosa rientrava, più o meno nell’ordine, quando, la sera della Madonna di Lourdes, si abbatteva sulla costa orientale, e più particolarmente su Tamatave, un terribile ciclone. In quei momenti c’è solo da abbandonarsi alla Provvidenza e implorarla d’aver la bontà di risparmiarci un pezzo di muro per ricoverarci. L’indomani non resta che calcolare i disastri e andare in cerca delle tegole del tetto tra le macerie di alberi, foglie, travi e calcinacci!... Ma se voi conosceste l’ingegnosità e l’abnegazione dei nostri Fratelli Coadiutori non vi meravigliereste affatto che solo pochi mesi dopo il disastro, chiese, residenze e scuole abbiano ritrovato muri e tetto. E le costruzioni terranno duro, speriamo, fino al prossimo ciclone!... L’armistizio dell’8 maggio 1945 segnò la fine dell’incubo pauroso. Tutte le campane, anche le vecchie “latte” arruginite e sbrecciate, che costituiscono le campane delle 61 nostre cappelle della savana, hanno suonato per un’ora intera la gioia della vittoria. Con la vittoria ritornarono lentamente i contatti col mondo civile e con i nostri cari confratelli...”. Dopo anni di tenebre Dio ci ridona la luce In giugno scrive anche P. Giovanni Giovarini. “...Dopo tanti anni di tenebre e di dolori fisici e morali, il buon Dio ci ridona la luce e la gioia! Le giungerà questa lettera? Sì, certamente. È finito il tempo delle incertezze. Caro Padre, forse lei crede che io non abbia tentato di scriverle? Non solo lettere ma anche telegrammi.. ma sempre inutilmente. Buio completo!...”. Quale balsamo sapere notizie sulle nostre famiglie Al Superiore Provinciale scrive anche P. Mario Caccia: “Una sua lettera tanto desiderata mi è arrivata finalmente alla metà di maggio, portando la data del 1 dicembre 1945. Grazie infinite! Non può immaginare quanto piacere mi ha recato e quanto balsamo al cuore rivedere la sua scrittura, sapere notizie delle nostre care famiglie e della nostra amata Provincia Italiana, sentire il suo cuore di Padre che non ci ha dimenticati... I giornali e le riviste estere ci parlavano di terribili cose in Italia, circa la carestia di cibo e di vestiario. Quali sono le condizioni attuali? Qui l’abbiamo passata molto bene per tutto, salvo qualche cosa che non vale la pena di ricordare al confronto delle vostre sofferenze. Quando si realizzerà il suo desiderio o di trovarci una missione per noi soli Padri italiani? Il P. Remigio Villa s’è fatto molti zii e zie d’America. Mi rincrescerebbe molto, però, lasciare per sempre i cari negri del Nyasaland. Lei forse aspetta in vacanza il P. Giavarini e il P. Villa... Ma non so quando arriverà il loro turno. Molti altri Padri hanno 62 finito i loro anni e attendono il fortunato giorno di tornare in patria a riposare qualche mese. Anch’io, Padre, ho tanta voglia di rimpatriare, non per restarci, ma per rivedere ancora una volta la mia cara mamma... Quando essa mi scrive, mi chiede sempre: Ho voglia di rivederti ancora una volta. Quando vieni?”. In questa lettera P. Caccia lascia intuire lo stato d’animo di un missionario, felice di trovarsi in missione ma anche giustamente desideroso di un breve rimpatrio per rivedere il volto di familiari, amici, confratelli. Interessante anche l’accenno al progetto di “una missione per noi soli Padri italiani”. Quando e come è nato questo progetto? Dalle parole di P. Mario Caccia risulta abbastanza chiaro che sul progetto esistono già delle ipotesi di lavoro... Mille auguri al carissimo “zio”! In luglio P. Remigio Villa comunica una buona notizia: “… II nostro carissimo P. G. Giavarini, uno dei primi due missionari bergamaschi mandati in Africa dalla nostra. Provincia, è salito di grado: dalla più bassa missione qual’è Chikwawa, è asceso alla più alto locata missione di Molere, in qualità di Superiore. Questa missione era prima una succursale di Limbe, quando il P. Giavarini ci venne come vicario, perciò ritrova terre e gente conosciuta. Mille auguri al carissimo “Zio”! Così saremo più vicini ed ogni tanto una visitina rinfrescherà il cuore nei vecchi ed indimenticabili ricordi di Villa S.Maria e della nostra bergamasca”. 63 Muore P. Gianbattista Garbottini In settembre muore a Villa S. Maria P. Giovan Battista Garbottini, primo fra gli italiani chiamati alla Compagnia di Maria. Appresa la notizia, P. Villa scrive a P. Pasquale Buondonno: “... Con sommo dolore abbiamo appreso la morte dell’amato P. G. B. Garbottini. Ci fosse stato concesso di rivederlo almeno una volta ancora. Fiat! Non ci resta che pregare per lui e, soprattutto, seguire i suoi esempi”. 64 1947 Echi della canonizzazione del Montfort Finalmente riprende la corrispondenza dei missionari Con un significativo “finalmente!”, “L’Apostolino di Maria” riprende a pubblicare la corrispondenza dei missionari. S’incomincia con P. Tarcisio Betti che scrive al Superiore di Villa S. Maria. “… Di ritorno da un viaggio di 3 settimane fra monti e valli ebbi una bella sorpresa, trovai sul mio tavolo il suo “Libro di pietra”, magnifico mese di maggio, splendido commento dei tesori d’arte che adornano la Cappella di Villa S. Maria, e insieme anche un bel pacco di bollettini. Rev.mo Padre, oltre a ringraziarla vivamente per la sua opera che gustai tanto, e dell’«Apostolino di Maria», le raccomando di spedirmelo ogni mese quest’ultimo, unico conforto ch’io abbia qui, in lingua italiana; tutti gli altri libri che avevo portato me li hanno rovinati i topi. Curioso! Siamo in mezzo ai leoni, ai leopardi, alle iene, eppure a questi quasi non ci pensiamo; i topi invece ti rosicchiano le dita dei piedi e qualche volta sono tanto sfrontati da tirarti i capelli mentre dormi, credendoli un commestibile... Ma cambiamo discorso. Dopo l’indisposizione che ebbi l'anno scorso, Monsignore pensò che mi avrebbero fatto bene le arie fine di Nzama e mi mandò da quelle parti per riposarmi e rimettermi in salute; ma quello che qui si guadagna per la finezza delle arie lo si perde nei viaggi, generalmente a piedi, su e giù per montagne e valli, innaffiate da frequenti acquazzoni. Nzama è una striscia di terra che si stende per circa 80 miglia lungo la colonia portoghese e i più vicini a noi sono i Portoghesi e i Padri della Compagnia di Gesù che ne hanno fondata un’altra l’anno scorso, a dieci miglia da Nzama”. 65 Ora stiamo facendo i “sonkano” Invia sue notizie anche P. Remigio Villa: “… Sono impegnato nella preparazione alla Prima Comunione e per darvene un’idea come capiscano a modo loro, sentite: “… Cosa darete a Gesù Bambino quando verrà nei vostri cuori?”, chiedevo durante il catechismo. Mi risposero: “… Mazira" (uova)!”. Così infatti essi ricevono i missionari nei villaggi. Vedendo che io non ero soddisfatto, alcuni tra i più grandicelli pensarono di rispondere meglio dicendo. “… Tidzampatsa Msima udi ukuku! (gli daremo la polenta col pollo!)”. Così essi onorano un visitatore di grande importanza. Dopo tutto, questi diavoletti ci aiutano. Ora, per esempio che stiamo facendo il “sonkano” (cottura dei mattoni), sono loro che ce li stanno portando. Tuttavia, bisogna essere sempre con loro, altrimenti sanno ben presto tagliare la corda... “. Grazie per le notizie sulla canonizzazione del Fondatore In Italia, ma anche altrove in Europa e in tutti i Paesi dove vivono e lavorano i Monfortani, fervono i preparativi per la solenne cerimonia con la quale Pio XII, il 21 luglio, proclamerà Santo il Beato Luigi Maria Grignion da Montfort. L’eco di questi preparativi solenni lo troviamo nella corrispondenza dei nostri missionari. Eccolo in una lettera di P. Remigio Villa al Superiore Provinciale e ai Confratelli. “... Prima di tutto grazie delle belle notizie per la canonizzazione del Beato. Fa piacere nel prevedere i grandissimi onori resi al nostro Santo Fondatore. Gli Apostolini canteranno in San Pietro! “Oh! res miranda!” Peccato che non sia del loro numero! Auguriamo un pieno successo. Noi pure stiamo preparandoci alla grande festa. Speriamo che il Delegato Apostolico, S.E. David Mathew, possa presiedere le solennità. Il Vescovo dei Padri Bianchi, della parte nord del Nyasaland, sarà con noi con parecchi dei suoi 66 missionari. Un Padre Bianco predicherà. Qualora le potesse interessare, ecco il nostro programma: Domenica 20 luglio: alle 2 p.m. processione con le Reliquie del Beato, breve allocuzione in inglese e in cinianja, Te Deum e Benedizione. In serata un intrattenimento per i bianchi e gli indiani. Fuochi d’artificio (se giungeranno in tempo dal Portogallo). Lunedì 21: Corteo con il Delegato alla Cattedrale. Pontificale di S.E. Seguiranno giochi, ginnastica, ed una piccola rappresentazione su “Il Beato e la Legione di Maria”. Tutte le nostre opere di formazione saranno presenti Il Seminario di Nakunda eseguirà la musica. Alle 5 pomeridiane solenne Benedizione Eucaristica e venerazione delle Reliquie. In serata fuochi d’artificio. Seguiranno poi solennità nelle diverse missioni: speriamo che tutto vada bene e che il nostro Santo Fondatore sia sempre più amato e più imitato!”. Una Generosa Iniziativa Missionaria “Con vivo piacere apprendiamo e con cristiano orgoglio a tutti i nostri cortesi lettori additiamo il mirabile esempio di generosa carità dato dal gruppo missionario di Vimercate, diretto dall’indefessa zelatrice Eugenia Bertoletti. Prendendo a cuore le tristi condizioni di tanta povera gente nelle nostre terre di missione, ha chiesto ed ottenuto dal Centro Missionario di Roma di poter occuparsi d’una missione, e noi siamo lieti di poter loro affidare la Missione dello Shirè. Mentre questo eroico gruppo andrà in cerca di sacri paramenti da inviare ai nostri Missionari dello Shirè e di stoffe per coprire le nudità di quella povera gente, resteremo noi semplicemente ammiratori? Nel campo missionario c’è posto per tutti. Gesù che ha promesso il Regno dei Cieli a chi in suo nome avrà dato un bicchiere d’acqua ai poveri non riserverà un premio speciale a si generosa iniziativa?". 67 I festeggiamenti per la canonizzazione del Montfort In ottobre, P. Remigio Villa riferisce la cronaca dei festeggiamenti in onore del Santo di Montfort precedentemente programmati a Limbe nei giorni 20 e 21 luglio. “… Vi avevo promesso di scrivere un resoconto delle nostre feste in onore del Santo Fondatore; ma avvenne un po’ quel che si dice: Fatta la festa, gabbato lo Santo!... cioè tutto passato, non ci fu verso di trovare qualche minuto per la cronaca. Però prima di coricarmi stasera, voglio soddisfare il mio impegno Dunque andiamo all’indimenticabile festa del 20 e 21 luglio. Il tempo fu semplicemente bello; la vigilia temevamo una pioggerella che noi chiamiamo 'mvumbi, e che vi fa gelare le ossa (siamo nel nostro inverno) e che vi fa venire la voglia di stare a letto e non di fare festa. No, il cielo si mise d’accordo con noi. Sin dal giovedì prima i Confratelli cominciarono a far capolino. Trovammo il posto per dormire per oltre 30 Padri. Naturalmente si domandò in prestito alle missioni vicine tutto il necessario. La facciata della chiesa tutta imbandierata, così pure la casa. L’interno tutto rimesso a nuovo ed addobbato in maniera non mai vista. La luce elettrica funzionò per la prima volta nella sua forma definitiva. Sei Padri Bianchi, assieme al Vescovo ed al Prefetto Apostolico del Nord Rodesia, si unirono alla nostra gioia; gli scolari si erano preparati da settimane per le cerimonie, il Seminario per la musica, i futuri maestri indigeni per la parte di teatro “Montfort e la Legione”. 20 luglio 1947. P. Giavarini canta la Messa in presenza del Vescovo. La chiesa è affollatissima e per tutta la giornata i cristiani riempiono la Missione. Alle 2 e mezzo la cerimonia del “Te Deum”. Si incomincia con la processione delle 68 Reliquie di S. Luigi di Montfort, nell’interno della Cattedrale. Seguono due brevi discorsi spiegativi in inglese e in chinianja. Alle 4.30 diamo un ricevimento per tutta la popolazione di Limbe. Numerosi cristiani e conoscenti bianchi ed asiatici sono presenti. Alle 6 le nostre Suore danno un trattenimento nella scuola dei bambini europei, Dio solo può sapere quanta pena si diedero per avere una si bella riuscita. Si cenò alle 9.30 di sera. 21 luglio 1947. Fu per noi la grandissima giornata. Diversi altari portatili erano disposti in tutta la chiesa, di modo che in tre turni i Sacerdoti ebbero l’agio di dire la S. Messa. Alle 9 un corteo preceduto dalla Croce accompagnò il Vescovo alla Cattedrale per il solenne pontificale. Tutto si svolse perfettamente! La musica fece dimenticare l’Africa. Il Rev. P. Daro dei PP. Bianchi tessè il panegirico del Santo di Montfort essendo originario dello stesso paese. Anzi, detto Padre, avendo quasi perso la voce di notte, mise un po’ il nuovo Santo alla prova: “… Caro San Luigi Maria, se volete che parli in vostro onore, ridatemi la voce”. E difatti senza alcun sforzo parlò per oltre mezz’ora e fu inteso da tutti. La Messa finì alle 12 meno un quarto. Alle 12.30 tutti i Sacerdoti presenti a Limbe assieme ad alcuni Sacerdoti indigeni fecero una bella corona al Vescovo anche per l’agape fraterna. Le nostre brave Suore fecero davvero delle meraviglie in questa occasione: vi era di tutto e per tutti i gusti. Un Padre fece l’ufficio di diacono per la mensa ed il servizio fu perfetto. Sul termine del pranzo il P. Vicario Generale ringraziò il Vescovo ed altri personaggi presenti. Il pensiero correva a Roma, dove il nostro Vescovo, mons. Auneau, rappresentava tutti noi. Rispose con parole delicate e sentite S. E. Mons. Julien. Parlarono anche altri Padri tra cui un Sacerdote indigeno, P. Harry Cikuse, il quale diceva come il Clero africano del Nyassaland si crede a titolo speciale nipote del P. di Montfort. 69 Levata la mensa, si prese la foto dei Sacerdoti presenti e subito dopo si diede inizio al teatrino: “Montfort e la Legione”, trattenimento che venne dato all’aperto. Gli altoparlanti resero intelligibile anche ai più lontani la minima parola. I neri gustarono davvero quest’operetta soprattutto quando un diavolo vestito di sacco, con coda e tutto il resto, faceva la sua comparsa, ovvero sgridava i suoi diavoli subalterni... Ogni atto fu intermezzato da giochi ginnici dati da diverse scuole. Insomma tutto durò fino alle cinque pomeridiane. Alle 5.30 rientrammo in chiesa per la Benedizione Eucaristica. La musica stavolta venne dalla scuola dell’Istituto Superiore di Blantyre: canti semplici, ma con cuore e sentimento religioso, che sorpassò ogni aspettativa. Il canto popolare trionfale chiuse l’indimenticabile giornata. Peccato che i fuochi d’artificio non poterono essere spediti dal Portogallo. Poco importa! La gioia di tutti era completa, e credo, il nostro Santo Padre dal cielo doveva volgere ogni tanto il suo sguardo, non solo in S. Pietro ed a S. Teresa al Corso, ma anche qui a Limbe ed avrà dovuto dire: Questi africani! non fanno troppo male… S. Luigi Maria, benedite l'Africa!”. 70 1948 Un più vasto orizzonte missionario Già in precedenza “L'Apostolino di Maria” aveva spaziato su orizzonti missionari monfortani non interessati da una presenza di Padri italiani. Nel 1948 la rivista dedica ampio spazio alla missione del Borneo e quella della Colombia: “Paese dove si cuocciono le uova al sole”. Le notizie sull’impegno missionario dei Padri italiani nel Vicariato Apostolico dello Shirè riprendono a partire dal mese di luglio, anche se le lettere portano date di mesi precedenti. Il destinatario delle lettere è P. Pasquale Buondonno. Interesse per le elezioni politiche italiane Ecco uno stralcio di una lettera di P. Mario Caccia in cui troviamo un accenno all’esito delle elezioni italiane: “... Ho sentito, per mezzo dei giornali, che le elezioni del 18 aprile sono state abbastanza buone, ma, come dicono gli stranieri, potevano essere migliori e non tutti i cattolici hanno fatto il loro dovere. Continuiamo a pregare affinché il Papa e la Chiesa siano sempre rispettati”. Lezione sulla fauna africana P. Tarcisio Betti, scrivendo a P. P. Buondonno preferisce soffermarsi a parlare della fauna africana. “... Nell’ultima sua mi domandava notizie sulla fauna africana. Cercherò di darle qualche notizia, riservando per un’altra volta di rispondere ad altre sue questioni. Se vi domandassi: Chi è il re della foresta? Direste subito: il leone, perché i libri dicono così. Ma stando in questi paraggi incomincio a dubitare di questa asserzione. Bisognerebbe dire che l’elefante è il re della foresta, perché è certamente il più forte. Tutte le bestie se la danno a gambe 71 quando sentono gli elefanti vicini. Nessuna bestia osa attaccare questo mastodonte. E il leone allora? È forte, urla più forte e fa salti da far invidia a tutti gli atleti d’Europa, ma... è cacciato e sbranato spesse volte dai mimbulù: una specie di lupi africani, che marciano sempre in branchi. Quando il leone li sente, se la dà a gambe levate. Ma non pensate per questo che il leone sia un buono a nulla... Ecco per esempio, come va a caccia di vacche da queste parti. Generalmente sono due o più leoni. Qui le stalle sono degli steccati alti circa tre o quattro metri. Con un balzo uno dei leoni salta lo steccato e cade tra le mucche. È strano, ma l’esperienza prova che sceglie sempre delle bestie più grosse e grasse. L’afferra, non importa dove, con le mascelle e, con un mezzo giro di testa, la lancia fuori dello steccato al compagno che aspetta dall’altra parte. Questi riceve il dono con entusiasmo, l’afferra lui pure e la lancia più lontano. Così, a forza di balzi si ritirano con la loro preda in qualche luogo più sicuro per prendere il loro pasto... Lasciamo il leone per dire qualcosa di un altra bestia. I negri del leone se ne infischiano, a parte quelli che hanno la stalla da difendere. C’è un'altra bestia più maligna e pericolosa. È il leopardo. Generalmente non attacca, a meno che non sia preso all’improvviso e senta paura; ma se si accorge che viene cacciato o se vede un braccio alzato... si salvi chi può! Quasi nessuno, per non dire nessuno, arrischia la caccia al leopardo qui. Se lo prendono, è sempre con le trappole. I negri, parlando di caccia, dicono che il leone è “wopusa” (stupido), ma il leopardo è “wocensera” (astuto e maligno). Lui si accontenta di porcelli e di capre. Durante il giorno sta appollaiato su un grande albero, e se le capre vengono vicine, guai a loro! E le iene? Qui ce ne sono da vendere... Sono paurose quanto mai. Scappano sempre quando sentono voce di uomo. Ma di nascosto fanno scempio di capre, di maiali e di cani. Le loro mascelle valgono più di tutte le tenaglie. Per le iene un corno di bue è una polenta deliziosa. 72 E i serpenti? Qui è un giardino zoologico. Per conto mio ne ho ammazzato un buon numero; persino in chiesa e nel confessionale! Ma ne restano ancora: grossi, velenosi, innocui. Venite e vedrete! Qui, caro Padre Buondonno, depongo la mia ingloriosa penna. Scriverò ancora presto..”. L'informazione missionaria della rivista allarga i suoi orizzonti. Dal Madagascar arriva un aggiornamento sulla situazione del Vicariato Apostolico di Tamatave, dopo la sollevazione degli indigeni capitanati da Ravoan: chiese rimaste in piedi o ricostruite dopo la bufera rivoluzionaria: 75; chiese e cappelle incendiate o distrutte dai ribelli: 708. Olanda: iniziativa per portare i missionari in Africa Dall’Olanda arriva la notizia di una importante iniziativa missionaria. Il 4 aprile, sul campo di aviazione dell’Aia, Mons. Bekkers, presidente per l’Olanda dell’Unione Missionaria del Clero, benediceva il primo aereo del “Charter-Comité”, destinato a portare i missionari in Africa, e in seguito anche in altre regioni. L’aereo ha diminuito le distanze tra i continenti in lotta. Non è giusto che se ne avvantaggino anche i missionari nella guerra dell'errore? Per questo la M.I.V.A., interpellata a tale proposito, ha affidato al P. Martino Schreurs, dei Missionari della Compagnia di Maria, l’incarico di studiare un progetto in seno ai “Missionari Riuniti” di Olanda, in cui sono rappresentati trentadue Istituti missionari. Dalla fase di semplice progetto si è subito passati alla sua attuazione. Essendo deciso d’iniziare l’attività con viaggi nel continente nero, sono stati convocati i procuratori di missione aventi missioni in Africa, i quali hanno ben presto costituito un comitato di cui P. Schreurs, anima del progetto, è stato eletto presidente. 73 Il Comitato si propone non solo di far giungere in pochi giorni gli araldi del Vangelo fino agli estremi lembi africani. ma anche di alleggerire le spese di viaggio, evitando che i missionari siano costretti, prima di giungere in missione, a rimanere quasi privi di mezzi spontaneamente offerti dalla carità dei fedeli. A tale scopo il Comitato, coadiuvato dal Signor Diepen, ha potuto concludere un vantaggioso accordo con “Air Holland” per il trasporto delle persone, e con la Società Olandese di Navigazione per il trasporto sollecito ed in gran parte gratuito dei bagagli. Morte di Fra Velsquez nello Shirè In maggio, nell’ospedale di Salisbury, è deceduto quasi improvvisamente, Fra Rodriguez, validissimo aiuto della Missione dello Shirè, dove si era prodigato per 28 anni. "… Dotato di buon talento, si era specializzato come progettista e direttore delle più importanti costruzioni civili della missione. A lui, fra le altre opere, si devono la Cattedrale, davvero maestosa, di Limbe, il palazzo episcopale ed altre chiese... Fu anche paziente e fine scultore in legno, dedicandosi alla lavorazione di altari; dalle sue mani è uscita una bella statua della Madonna in legno duro, che testimonia i sui veri talenti di artista. Di grande aiuto pure le sue capacità di elettricista e di meccanico. Quando lo colse il male che lo portò alla tomba, trovavasi a Zomba, capitale del Nyasaland, occupato nell’istallazione di una turbina per la produzione di elettricità”. Richiesta di dimissione di Mons. Auneau Dal Nyasaland giunge anche un’altra notizia: “S.E: mons. Auneau ha creduto, per ragioni di salute, presentare al Santo 74 Padre le dimissioni da Vicario Apostolico dello Shirè. Il Sovrano Pontefice ha accettato le dimissioni, lasciando a sua Eccellenza l’amministrazione del Vicariato Apostolico fino alla nomina del successore. Sua Santità Pio XII, volendo riconoscere i meriti di un lungo e fruttuoso Episcopato, ha conferito a S.E. Mons. Luigi Auneau i titoli di Conte Romano e Assistente al Soglio Pontificio. Noi chiediamo a Maria, Regina delle Missioni, d’elargire al Venerato Prelato numerosi anni di vita e ricolmi di celesti benedizioni”. P. Tarcisio Betti nella nuova missione di Nankwali A novembre P. Tarcisio Betti scrive a P. Buondonno “… quattro righe non in furia ma in fretta, dato che un postino è pronto a fare 100 miglia per andare alla posta”. Scrive da Nankwali, sua nuova residenza. “... Come vede ho cambiato residenza. Mons. Vescovo venne a Nzama per le Cresime il 1 agosto e mi domandò di venire a Nankwali. Ai pezzi grossi non si possono fare rifiuti. Ed eccomi qui fin dai primi di settembre. Tutto qui è magnifico. La missione si trova sulle rive del lago Nyassa e precisamente vicino alla punta della penisola che, al sud, divide il Nyassa in due. Qui è la vera Africa, come non l’ho mai vista in vita mia: elefanti, a branchi, vengono ogni giorno ad abbeverarsi al lago, leoni e leopardi, ippopotami, coccodrilli e tutto quanto si può pensare della ricca fauna africana. Benché il lago sia infestato dai coccodrilli, ciò non mi impedisce di guazzare ogni giorno nell’acqua. Spesso qualcuno è acchiappato dai coccodrilli: speriamo che non mi tocchi simile sorte! Ma se il paese è magnifico, non così la gente. Quasi tutti i villaggi sono lungo la riva del lago. A loro piace stare distesi sulla sabbia a prendere bagni tutto il giorno, ma lavorare... E 75 con questo la morale è molto giù, e la religione ne soffre. In più è una missione giovane. I protestanti hanno lavorato qui molto e allora è una confusione. E ancora le danze più immorali sono all’ordine del giorno. Mi viene voglia di dire: Si salvi chi può! Ma ho fiducia che Nostra Signora delle Vittorie, che è la Patrona delle Missioni, saprà sempre acciuffare qualcuno per l’orecchio (giacché i capelli li hanno corti) e farlo balzare in Paradiso a tempo opportuno. E speriamo che uno di questi sia pure il sottoscritto...”. La visita di Mons. Giovanni Gunnarson a Redona In novembre, ospite gradito di Villa S. Maria, è di passaggio Mons. Giovanni Gunnarson, monfortano, Vescovo titolare di Holar, Vicario Apostolico d’lslanda, con sede a Reykjavik. Monsignore, figlio d’Islanda, è succeduto a Mons. Meulemberg, deceduto il 15 agosto 1944, poco dopo lo sbarco delle truppe anglo americane. Lo zio missionario racconta Il corrispondente più fedele dallo Shirè è senz’altro P. Remigio Villa. Le sue sono corrispondenze sempre molto lunghe, colorite e ricche d’informazioni. Sono suoi anche i racconti missionari, in parte raccolti dalla cronaca vera, in parte frutto della sua vivace fantasia di “zio missionario”. Nei primi mesi del nuovo anno 1949 invia notizie sulla visita del Delegato Apostolico, rappresentante del Papa, visita attesa da tempo e che ha suscitato molto interesse tra i cristiani. “… Sua Eccellenza era già in visita dal Governatore del Nyassaland. L’indomani venne a Limbe. Una folla di bambini di tutte le scuole della Missione, assieme ad innumerevole popolo, erano là dalla sera precedente, aspettando Sua Eccellenza. 76 Appena giunto sotto la veranda della casa, tutti fecero corona al Delegato, il quale, dopo un benvenuto datogli da un maestro indigeno, disse alcune parole di ringraziamento e diede la benedizione papale. Tutta la giornata i ragazzi delle scuole seguirono giochi di ginnastica con canti. Ma il grande trionfo fu per cosi dire l’indomani con il solenne pontificale. I neri non credono ai loro occhi: il Delegato Apostolico è stato per loro davvero quel grande Capo che si erano immaginati. Se un inviato del Papa è così grande, cosa sarà mai il Papa stesso? Anzi alcuni protestanti dicevano tra loro: Ma costui è il loro Papa, non lo vogliono dire, ma è lui in persona! Immaginate poi il loro sbalordimento, quando al Vangelo, Sua Eccellenza si mise a leggere un discorso in chinianja. Dove ha imparato costui? I cristiani si sentono ancor più fieri della loro Chiesa, perché ora hanno visto quali capi la governano. I protestanti stessi furono decisamente convinti della vitalità della Chiesa cattolica e della falsità di certe opinioni sparse tra i loro correligionari che la Chiesa cattolica stava per finire o era molto indebolita. Il lunedì seguente il Delegato Apostolico visitò la nostra missione madre, quella di Nguludi. La popolazione cristiana ed anche quella non cattolica fece un ricevimento davvero regale. Sua Eccellenza diede la Benedizione Eucaristica e disse qualche parola in chinianja. Nei giorni seguenti visitò altri posti di missione ed opere di formazione: scuola normale delle ragazze, dei ragazzi, secondarie e, soprattutto, il seminario dove pontificò la domenica seguente. Una conferenza intervicariale degli ordinari del Nyassaland chiuse la visita apostolica". Nella stessa corrispondenza P. Remigio Villa torna a parlare del lebbrosario di Utale, una istituzione originale a tutti i livelli e un fiore all’occhiello del Vicariato. “… Fu nella metà del 1929 che il nostro Vescovo mons. Luigi Auneau decise di far della missione di Utale (missione 77 fondata nel 1908 dallo stesso mons. Auneau) un centro di rifugio per poveri lebbrosi. La Suora che sarebbe dovuta partire in vacanza proprio quell’anno, dopo quasi 15 anni di vita missionaria, rinunciò al suo viaggio per poter dar subito principio a tale opera tanto pietosa. Si iniziò con capanne di paglia. Poi si cominciò a fabbricare. Ora il lebbrosario appare come una piccola cittadina ideale africana. La chiesa nel centro, dedicata a Santa Teresina è una delle chiese più belle del nostro Vicariato. Sui due lati, due grandi ospedali. Tutt’intorno alla chiesa, delle case in mattoni dove gli ammalati vivono come se fossero in una casa del proprio villaggio. Per cui il lebbrosario non ha nulla del campo di concentramento come si racconta di simili istituzioni in altre località. Pace, serenità, lavoro e preghiera assieme a liete ricreazioni: ecco la vita dell’ospedale. La vita comincia al mattino con uno squillo di tromba. Alle 5.15 comincia la S. Messa: quasi tutti sono presenti. Un fratello (lebbroso guarito) accompagna all’armonio i canti, dirige le preghiere ecc... Dopo la Messa ciascuno va al proprio lavoro nel campo (ogni paziente ha uno spazio a lui riservato per lavorare: i prodotti sono suoi! Verso le 10 la Suora infermiera, coadiuvata da due suore indigene, fa le medicazioni ed iniezioni; dopo, tempo libero per prepararsi a mangiare (solo i più gravi hanno la cucina in comune; gli altri ricevono di che cucinare per conto proprio). Nel dopo pranzo ciascuno si dà a lavori speciali o ritorna nel proprio campicello. Come dissi, il lebbrosario non ha nulla di triste o di recluso. L’ultima volta in cui feci visita fu il Natale scorso. Ora i degenti all’ospedale sono oltre 350, senza contare gli esterni dei villaggi vicini e i parenti che spesse volte vivono con gli ammalati. Trovai un lebbroso musulmano: non aveva che un mozzicone di mano; i piedi pure non avevano più un dito, era quasi cieco. Eppure anch’egli ha il suo campicello. Un secondo, lui pure con mezze dita, continua il suo mestiere di 78 calzolaio: si è fatto due ciabatte per se stesso onde nascondere i piedi... che non ci sono più! Altri lavorano facendo ceste o stuoie. Nessuno sta con le mani in mano. Una volta alla settimana, a turno, una capanna può fare la “mowa” (birra indigena). È un giorno di riposo, di allegro ritrovo. La conversazione non è mai monotota tra i neri, specie quando hanno una “cipanda” (zucca) di “mowa” tra le mani. Uno spettacolo che ferisce il cuore, invece, sono i bambini dei lebbrosi, già affetti dal terribile male. Finora non si è potuto fare un asilo per loro. I piccoli corrono allegri; inconsci del loro stato... Da questo comprendete come il lebbrosario non e un luogo di orrore, come potreste immaginare. Due anni fa, il nostro Cappellano del lavoro, P. J. De Ponti, nel suo ministero al Sud passò per un lebbrosario e tra gli altri vi trovò 3 lebbrosi del Nyasaland (non cattolici). I poveretti s’attaccarono al Padre perché ottenesse loro di far ritorno nella loro patria: Andremo in un lebbrosario vostro del Nyasaland, ma noi non possiamo più stare qui in prigione!. Questo il giudizio degli ammalati sul nostro lebbrosario cattolico: si sentono liberi, si sentono amati e non oggetto d’orrore. Domandai alla giovane Suora americana, direttrice dell'ospedale: “… Quante precauzioni prendere per non contrarre il germe?”. “Padre, a dirle il vero ci penso poco, non mi sento per nulla impressionata!”. È un'autentica figlia del Montfort, Suor Eustel Marie”. Una carestia mai vista! Più o meno nello stesso periodo P.Tarcisio Betti, invia una lettera a P. P. Buondonno. “… Ho gradito la sua lettera carica di saluti. Lei ama sentire qualcosa dell’Africa. Scusi se non rispondo proprio alle sue domande. La lingua batte dove il dente duole e anch’io seguo un po’ i proverbi che sono la sapienza dei popoli. Qui 79 non marcia proprio come dovrebbe. La natura e gli animali ragionevoli e non ragionevoli hanno congiurato. La stagione delle piogge non ha portato molta pioggia ed il Nyasaland va incontro ad una carestia mai vista. Qui al lago, grazie a Dio, un po’ di pioggia si è avuta e c’è qualcosa nei campi, ma... Ecco entrare nel campo di congiura gli animali irragionevoli. Da dicembre quasi più nessuno viene in chiesa. Tutti nei campi a difendere il loro granoturco dalle scimmie. Non potete immaginare quale flagello siano le scimmie nelle piantagioni! Ammazzarle con i fucili? presto detto, ma quando sono centinaia si perde anche il coraggio di andare a caccia... Anche noi abbiamo preparato un grande campo di granoturco; le scimmie vi si sono già introdotte una volta e ne hanno fatto scempio. Abbiamo pure piantato riso, ma gli ippopotami se lo pappano come se fosse loro. Avevamo pure piantato molte patate dolci, ma ce ne hanno già alleggerita la raccolta gli ippopotami e gli elefanti, che hanno ricevuto da Dio la proboscide affinché potessero scavare meglio. È una vera miseria. Peccato non sia qui il P. Cargnin con la “sciòpa” che aveva a Loreto, farebbe delle ecatombi di queste bestie. Qui il lago ci deve essere di aiuto per avere un po’ di pesce, ma anche nel lago vi sono i bravi intoppi. Avevo comperato, e costava!, una grande rete; si getta la sera e si ritira al mattino. Andò bene alcune volte. Ma una bella mattina, arrivando con la barca sul posto, ecco spuntare e uscire dal lago due grosse teste di coccodrilli. Sentii un brivido; i coccodrilli avevano fatto colazione con i pesci e mi lasciarono la rete a brandelli. Ed ecco ora gli animali ragionevoli entrare in lizza. Non c’è che dire: finora qui non ne vogliono sapere di religione, specie della religione cattolica che vorrebbe proibire le diaboliche danze degli “Zingau”. Una lettera collettiva scritta in gennaio a chi ha l’autorità, diceva: “Siamo stufi della missione cattolica. I Padri devono essere spediti al più presto. 80 Noi vogliamo danzare gli “zingau”. Li finiremo con del veleno...”. Ma bene, ma bravi, pensavo leggendo questa lettera; vomitate un po’ di quel veleno che avete in corpo, sbottonatevi, onde vi possiamo conoscere meglio. Ma il male si è che queste notizie corrono e mantengono dell’odio e molta indifferenza verso di noi. E ancora. Nel mese scorso ad un funerale d’un cristiano della Dutch R.M., il loro pastore, un nero predicava così: “… I nostri Mafumu (capivillaggio) hanno fatto un enorme sproposito permettendo alla belva delle dodici corna (la chiesa!) di stabilirsi qui, e noi dobbiamo combatterla e impedire con ogni sforzo (calunnie!) che si propaghi! E un venditore, in una bottega qui alle porte della missione, aveva cambiato la bottega in basilica e predicava, predicava a distesa con la Bibbia protestante in mano: I Padri di Nanhwali sono dei furfanti, dei ladri che vengono ad ingannarvi e a succhiare i pochi quattrini che avete!”. Cantava bene il gallo, ma razzolava male. Tre settimane fa venne il padrone della bottega e... trovò un deficit di 200 sterline. E il Bourdalou di ieri sta ora in prigione a rinvigorire la sua vita spirituale... nel silenzio, nella solitudine e ... nel digiuno, poiché, a causa della carestia, ho inteso dire che anche ai carcerati è stata dimezzata la razione. E per finire, ancora una, se non ve l’ho raccontata. Qui abbiamo un piccolo dispensario, cercando, con quale medicinale, di ammansire un po’ questa gente. Macchè! Ho inteso dire che nei villaggi, a chi vuole venire qui a prendere una purga, si dice spesso: “Non andare alla missione a prendere delle medicine perché dopo avervi dato la medicina, i Padri vi angarieranno perché andiate in chiesa la domenica...”. Tutti questi untorelli fanno ridere! La Patrona di Nankwali è Nostra Signora delle Vittorie. Non potevamo scegliere meglio. E dobbiamo avere la sicurezza che col tempo, a poco a poco, la Madonna saprà ammansire queste bestie 81 feroci e cambiarle in buoni cristiani. È per questo che chiedo a lei, caro Padre, di pregare e fare qualche sacrificio per questa povera missione. Anche per noi qui, la recita del nostro caro Rosario è l’oasi in cui corriamo a rifugiarci. E lei faccia coraggio ai piccoli Apostolini. Qui c'è posto anche per loro. Troveranno sempre pane per i loro denti missionari...". Aria di ritorno in patria Il 7 luglio P. Pasquale Buondonno viene nominato Vicario della Provincia Italiana Monfortana. Succede a P. Ercole Germini che ha ricoperto la carica per 10 anni. Verso la fine di maggio è tornata dal Nyasaland, dopo 18 anni di permanenza in terra di missione, Suor Maria Francesca Tombini, Figlia della Sapienza, di Torre Boldone. Godendosi un periodo di meritato riposo presso la Comunità delle Suore annessa alla nostra Scuola Apostolica, ha la possibilità di parlare con gli Apostolini della lunga esperienza missionaria. Muore la mamma di P. Remigio Villa Muore la mamma di P. Remigio Villa. La notizia lo raggiunge nella sua missione. Scrive una lettera al Provinciale. “Mio caro Padre, la sua lettera del 22 maggio mi è giunta tre giorni fa, con le care fotografie. Nel mio indicibile dolore mi è di grande conforto quel che il P. Provinciale e i confratelli tutti, assieme agli Apostolini, avete fatto in questa occasione. Che la Madonna SS. benedica tutti per il vostro buon cuore! Mio fratello Giulio mi ha raccontato tutto e mi disse come i nostri cari Apostolini hanno cantato così bene da far piangere! Dica loro il mio grazie commosso, come pure al caro P. R. Omizzolo che vedo ben distintamente nella foto. Grazie pure al P. C. Roberti: forse mia mamma ha avuto la dolce illusione che io ero là all’ultimo istante... 82 Grazie infine alla Suore per le preghiere fatte. Mai come in questa triste circostanza ho trovato vere quelle parole della Scrittura: “Come è bello e giocondo stare in tanti fratelli insieme”. Dunque dica il mio sentito grazie a tutti lontani e vicini. Quando mia mamma morì, io per tre notti non ho potuto dormire. Eppure non avevo ricevuto nessun avviso, anzi, l’ultima lettera mi diceva che stava meglio.. Il sangue non è acqua! Io non facevo che chiamare mia madre... Fiat! Nel mese e mezzo che ci separa dalla partenza abbiamo ancora molto da fare: la preparazione ai Battesimi e alle Prime Comunioni. Accompagnai il Vescovo a Mpiri per le Cresime. Così passai due giorni con P. Giovanni Giavarini. Il Vescovo felicitò il Padre per l’andamento della sua missione. Certo che la lode fu ben meritata. In tutto il nostro Vicariato non ho mai visto pregare così bene in chiesa. Tutta la missione bellamente in ordine ed attraente. Come dissi, Monsignore rimase proprio soddisfatto per tutto. Dopo la Pentecoste ebbi visita del caro P. Mario Caccia. Fa tanto bene ritrovare amici d’infanzia e riandare sul passato prossimo e... remoto. Padre Tarcisio Betti si è annunciato per il mese prossimo, cioè per la vigilia della nostra partenza: sembra che voglia darmi un baule pieno di... lettere e commissioni. Dunque non lamentatevi troppo del suo silenzio; solo abbiate pazienza e vedrete! Sono andato martedì scorso al lebbrosario di Utale e celebrai una Messa colà; per dirvi la verità non mi è mai sembrato di dirla così bene! Vedesse, caro Padre, quale spettacolo commovente! Prego la Madonna perché faccia prosperare la nostra Provincia e conceda santi sacerdoti con un vero spirito missionario...”. 83 Rientro in Italia P. Remigio Villa e P. Giovanni Giavarini Nella sua lettera P. Remigio Villa accenna al suo ritorno in Italia. Ecco come lo descrive il cronista de “L'Apostolino di Maria”. “… Dalla fine di giugno, data approssimativa annunziata per l’imbarco da Beira sulla nave “Gerusalemme”, eravamo in ansiosa attesa dei nostri primi due missionari bergamaschi, P. Giovanni Giavarini e P. Remigio Villa, che da 12 anni lavoravano indefessamente all’evangelizzazione delle popolazioni del Nyasaland. Dalle Agenzie di viaggi venimmo a conoscenza che la nave era partita con qualche giorno di ritardo dal capolinea: questa notizia scombussolò i nostri piani di un ricevimento grandioso allo sbarco di Venezia. Quando arriveranno esattamente? Non era possibile sapere con precisione. Il Rev.mo P. Provinciale la sera del 24 agosto partì per Venezia presentendo che l’arrivo era imminente. Infatti arrivò al mattino seguente, giusto in tempo, quando la “Gerusalemme” attraccava alla banchina. Non si può descrivere la commozione di quel primo abbraccio: giubilo del cuore, lacrime di gioia dei reduci africani... Le noiose operazioni di svincolo dei bagagli, un’oc-chiata ammirativa e trasognata alle bellezze artistiche del centro cittadino, così incantevole, unico al mondo, e un necessario riposo, fermarono i nostri a Venezia tutta la giornata e la notte. Intanto, dalle residenze di Redona e di Treviglio alcuni Padri e Fratelli partiti dietro invito telegrafico del Provinciale, giungevano a Venezia il 26 di buon mattino e si inoltrarono coi Missionari nella grandiosità della Piazza S. Marco. Verso le 9 di sera di quello stesso giorno arrivarono a Villa S. Maria, da dove erano partiti nel lontano 1937, accolti da battimani e da evviva, fra le luminarie e i guizzi di fuochi d’artificio. Il giorno seguente quante cose non avevano da raccontare e da far vedere agli avidi Apostolini! Vi lascio immaginare la 84 gioia estatica di questi nel vedersi porgere fra le mani pelli di fieri leoni e leopardi... e serpenti; le zanne d’avorio d’elefante, e vere opere d’arte in avorio, in ebano, eseguite con mezzi rudimentali dalle pazienti mani di neri. Tutte cose che verranno in seguito a far parte di un piccolo museo missionario che si pensa di allestire a Villa S. Maria. I missionari resteranno in patria circa un anno; saltuariamente avremo il piacere di averli qui con noi. Quante cose impareremo sullo sviluppo e sulle difficoltà delle nostre missioni... in attesa di andare anche noi laggiù a lavorare con soddisfazione immensa all’apostolato diretto”. Riparte Suor Francesca Missionari che ritornano in Italia ed altri che ripartono per il Nyasaland. È il turno di Suor Francesca Tombini. “ Giunse in mezzo a noi otto mesi or sono, in una festa della Madonna. Silenziosa, ella visse la nostra vita, prodigandosi con esemplare assiduità per i nostri Apostolini, come se fosse in comunità. Nulla la distingueva dalle altre Suore, nessun privilegio. Era missionaria anche qui, e collo stesso sorriso di laggiù, tutti accoglieva per una buona parola. Nel tramonto della festa di S. Francesco Saverio ricevette l’annunzio della sua partenza. Gli Apostolini erano dispiaciuti di non poter riudire i suoi racconti missionari... La domenica 4 dicembre ci diede l’addio. Gli Apostolini le improvvisarono una piccola festa, le dissero il loro desiderio di poterla rivedere giù in Africa e le diedero l’arrivederci con il canto “Gesù lo sguardo amabile”. Ha lasciato la vecchia mamma, i suoi fratelli, ed è tornata al suo lebbrosario di Utale, ove spese la maggior parte dei suoi 18 anni di missione. È partita dicendo: “… torno volentieri, essi mi aspettano, però ho bisogno di anime con me...Molto è il lavoro ma siamo poco, troppo pochi...". 85 1949 Partenza di altri due nuovi missionari L'annunzio della partenza di due nuovi missionari per la missione delle Shirè è lo stesso P. Vicario Provinciale a darla ufficialmente in occasione della solennità dell’Epifania: “Col P. Giovanni Giavarini e col P. Remigio Villa partiranno per le missioni altri due Padri: P. Antonio Marchesi e P. Vittorio Crippa. Il silenzio profondo col quale erano state ascoltate le nuove fu rotto da un fragoroso battimani. Era l’esplosione di gioia degna dei nostri apostoli in erba. Era da tempo che si aspettava una simile partenza. Essa sarà solo il principio di una novella schiera di giovani missionari... Preparatevi con generosità. Cosi terminava il P. Provinciale”. Il cronista prosegue: “… Lascio a voi immaginare i castelli in aria e i progetti dei nostri Apostolini. Vengo ad un punto delicato. Essi partiranno per le missioni. Quando non ve lo si dire. Ma presto! Solo vi dico: la vita di questi eroi, araldi di Cristo, è esaltata da tutti, anche da coloro che si dicono miscredenti. Ma come andranno in missione? A mani vuote? In Africa, in Cina, dovunque, sono attesi con impazienza. I popoli vogliono sentire parlare di Dio, vogliono conoscerlo, vogliono pure la civiltà, quella millenaria della Chiesa? E per tutto questo sono necessari dei mezzi economici. Il loro viaggio s’aggira sulle 300.000 lire. Il loro equipaggiamento ne richiede ancora di più. Chi ci penserà? Ho pensato a voi tutti amici, benefattori, conoscenti. Hanno bisogno di preghiere e di sacrifici: interessatene i malati, i sofferenti. Hanno bisogno di denaro e d’ogni cosa: parlatene a chi può, a chi sente il bisogno di fare del bene”. E venne anche per loro il giorno della partenza E venne anche per i due missionari il giorno della partenza. 86 “… P. Giovanni Giavarini e P. Remigio Villa, con due giovani reclute, ci hanno dato l’arrivederci... quando?. Dopo un’ultima visita a S. Maria, salutati i confratelli delle residenze vicine, essi partirono per Venezia. In questa città ebbero la gioia d’incontrasi con il P. Provinciale Nella notte del 14 agosto, vigilia dell’Assunta, lasciavano il suolo d’Italia per la loro missione dello Shirè. A tutti, ma specialmente a P. Marchesi, che per un anno fu professore a Villa S. Maria: “Ad multos annos!” Notizie sul viaggio a bordo della nave “Gerusalemme” Come già in occasione del primo viaggio sul “Duilio”, i missionari a bordo della “Gerusalemme”, inviano al P. Provinciale notizie e impressioni. Scrive P. Vittorio Crippa. “… Avvicinandoci alla terra africana, terra dei nostri sogni, il nostro pensiero vola a lei e a tutti i nostri cari confratelli. È da cinque giorni che viaggiamo e il mare è sempre stato calmo. Si temeva che all’incontro di due navi italiane si fossero alquanto agitate le acque e invece nulla. Così possiamo celebrare con gioia ogni mattina la S. Messa. Su seicento passeggeri circa, siamo undici Sacerdoti e quattro Suore della Consolata, e ci facciamo buona compagnia. P. Giovanni Giavarini, da buon papà, fa da svegliarino, perché le SS. Messe devono essere tutte terminate prima delle sette. È un buon rifornimento spirituale per resistere al demonio dell’impurità che qui si esibisce in maniera sfacciata in un nudismo crudo e copioso. Ieri P. Antonio Marchesi ed io abbiamo dovuto sottoporci alla ispezione preventiva contro la febbre gialla e il vaiolo. Il sottoscritto, al vedere la faccia burbera del medico di bordo e a sentire un forte odore d’infermeria, stava per svenire sotto l’ago. Fortunatamente il pronto soccorso di un buon bicchierino di cognac, presentatomi da un bravo signore mi ha rimesso subito in sesto... 87 Mi tocca sempre stare sopra coperta. In cabina, malgrado il continuo funzionamento dei ventilatori, si respira fuoco. Le giornate sono abbastanza monotone e noiose e per ammazzare il tempo spesso ci intratteniamo a lungo con Morfeo. L’altro giorno, con P. Villa, abbiamo fatta la meditazione sulla mortificazione degli occhi. Gli argomenti dell’autore erano tanto suasivi che in breve si siamo trovati tutti con le palpebre calate a formulare propositi... russi. Siamo pieni delle più belle speranze. Il nostro viaggio è iniziato sotto auspici dell’Assunta e terminerà l’otto settembre, festa della Natività della Regina degli Apostoli. Chiediamo preghiere perché l’opera nostra sia benedetta dalla Madonna e porti frutti copiosi..”. Felice conclusione del viaggio. “… Sono le 11 di notte, ma non voglio andare a letto prima di averle dato qualche nostra notizia. Dopo un viaggio ottimo, malgrado il calore cocente da Venezia fino ad Aden, e malgrado la noia delle giornate monotone sulla nave, siamo sbarcati 1’8 settembre a Beira. La Madonna ci fece trovare pronto il treno per il Nyasaland, in maniera che siamo giunti il 9 settembre sera, oltre 24 ore di treno. L’indomani mons. Theunissen celebrò il suo primo Pontificale. Una trentina di Padri facevano corona a S. Eccellenza. Nel pomeriggio ci fu assegnato il nostro posto di lavoro. P. Giovanni Giavarini a Molere; P. Antonio Marchesi a Mwanza: P. Vittorio Crippa e il sottoscritto a Cholo. Monsignore mi manda a fondare una nuova missione: compito assai arduo per me. Avremo attorno a cinquemila cristiani, più i bianchi e i lavoratori delle diverse aziende agricole. Si tratterà di adattarsi a vivere in una capanna alla negra per alcuni mesi, in attesa che facendo i mattoni possiamo tirar su una casa un po’ più decente e salubre...” 88 1950/51 Arrivi e partenze Nel 1939 il P. Mario Caccia e il P. Tarcisio Betti davano il loro arrivederci ai confratelli e agli Apostolini di allora, che essi hanno ritrovati Padri. Sono dodici anni di lontananza. Allora i loro occhi raggiavano la gioia segreta del loro ideale raggiunto, ora tradivano la soddisfazione di rivedere i volti amici. Sbarcati a Brindisi, risalirono lo stivale facendo tappa a Roma, che già li vide studenti di filosofia, e poi a Loreto, dove furono ordinati sacerdoti ed infine a Villa S. Maria, l’Alma Mater, che li accolse ancor giovanissimi e li avviò verso la fulgida mèta dell'apostolato missionario. Le campane salutarono il loro arrivo e l’incontro fu quanto mai cordiale. Gli Apostolini non si contenevano più dalla gioia. I primi si erano letteralmente precipitati per le scale ai primi tocchi argentini, ma rimasero alquanto interdetti, quando dai mustacchi dei due Confratelli sentirono parole che non comprendevano. Ma fu per poco, perché un grandicello fugò l'imbarazzo dei compagni dichiarando agli ospiti che la lingua del paese che li ospitava era l’italiano o al più il bergamasco. Si andò tutti insieme in Cappella, dove essi celebrarono la S. Messa, al cui termine possente uscì dal petto l’inno di ringraziamento. Mentre si scambiava i ricordi, le impressioni e le notizie sopraggiunsero i parenti, tempestivamente avvertiti per telefono del loro arrivo. Vennero a portarceli via, perché a casa mamme trepidanti attendevano. Il chiostro, come in altre occasioni consimili, risuonò di canti di festa, e delle parole di circostanza del Padre Provinciale che rilevò lo scopo della visita: portare il bacillo missionario in tutti i cuori. P. Mario Caccia ringraziò, anche a nome di P. Tarcisio Betti, per la cordiale accoglienza ricevuta. Anche se la visita fu una fugace apparizione, pure noi li 89 sentiamo vicini. Li attendiamo ansiosi per ascoltare dalla loro viva voce ricordi lontani e vicini ed entusiasmarci di quella vita che fu la passione del grande missionario: S. Luigi da Montfort”. Mi trovo nella missione di Mwanza Dalla sua missione di Mwanza P. Antonio Marchesi invia notizie e impressioni sull’avvio della sua attività missionaria. “… Ho tardato un po’ a dare mie notizie perché ero certo che le avrebbero date gli altri Padri. Ora invece sono solo. Mi trovo nella missione di Mwanza, lontana da Limbe 90 Km. Venendo qui in camion gustai le prime delizie del viaggiare africano. Una delle strade migliori è contorta e polverosa. In cento metri, alle volte s’incontravano quattro curve, tre salite cinque discese. Guidava la macchina un nero frettoloso di tornarsene a casa. Lanciava quindi la macchina alla massima velocità. I salti fatti in quel giorno non si possono contare. Cercavo di stare ben aggrappato al sedile, ma di tanto in tanto facevo dei salti tali da battere la testa sotto il soffitto della cabina. Non potevo dirgli niente perché non mi capiva. Perciò mi rassegnai a prendere delle zuccate ad ogni buca. Giunti alla missione trovammo il ponte rotto, o meglio, il ponte non c’era più, perché portato via dalle acque. Scendemmo quindi dalla macchina e continuammo la strada a piedi. Al suono della campana di mezzogiorno giungevamo in casa. Mi piace rilevare una circostanza: partivo dal mio paese al suono della campana di mezzogiorno e arrivai alla mia missione accolto dallo stesso suono. Questo particolare mi ha commosso tanto. Mi hanno detto che la missione di Mwanza è una delle migliori. E infatti è molto bella. Ci troviamo qui all’altezza di quasi mille metri. Il clima e ottimo, anche se a mezzogiorno il termometro segna 33 gradi all’ombra. È conosciuto come il 90 paese delle arance. Sono arrivato un po’ tardi, ma ancora in tempo per gustarne alcune. La chiesa è bella; mancano però tante cose per non dire tutto. Vi ho trovato un armonium, ma in che stato! Le formiche hanno mangiato tutto il mobile e hanno riempito il mantice di terra. Riuscii tuttavia a farlo funzionare. Mi sedetti e cercai di schiacciare qualche nota alla meno peggio. Quando mi alzai mi trovai circondato da neri, grandi e piccoli. Alcuni azzardarono qualche parola, ma non seppi rispondere, non avendo compreso. Il Superiore mi ha dato un mese di vacanza ed io naturalmente lo passo curvo sulla grammatica o nel giardino con i neretti ad imparare il nome delle piante e delle cose...”. Ancora notizie dalle missioni A fine anno abbiamo una fitta corrispondenza dallo Shirè. Dalla missione di Molere, P. Giovanni Giavarini scrive: “... Il Vescovo mi ha bombardato quassù tra le montagne. Il lavoro non manca, ma non so se rimarrò per lungo tempo. Molere era una succursale di Limbe e la conoscevo bene nei primi anni della mia vita missionaria: era una missione fervente. Ora invece fa spavento! I primi cristiani non si vedono più; la guerra e il conseguente difetto di personale hanno nociuto assai. Si aggiungeva l’opera nefasta delle due potenti sette protestanti, che da qualche anno lavorano diabolicamente per pervertire i cattolici. Carissimo Padre, raddoppiamo i nostri sforzi per sconfiggere il demonio!...”. Da Cholo, P. Remigio Villa fa sapere: “… Io sarei l’uomo più felice se non fossi Superiore. Speriamo che non mi lascino molto in carica. Che la Madonna mi tenga la mano sulla testa!. 91 Il mio primo Natale africano P. Antonio Marchesi scrive da Mwanza per comunicare le impressioni del suo primo Natale africano. “Debbo fare uno sforzo continuo per persuadermi che ci avviciniamo al Santo Natale. Finora concepivo questa cara festa con la neve e il freddo. E invece qui il termometro segna oggi 38 gradi all’ombra! Ma come mi sono abituato a tener sempre la sinistra nei viaggi e non la destra, a chiamare muoio la vita, mano i denti..., così mi abituerò a trascorrere il Santo Natale sudando... Del resto a Mwanza il caldo non è eccessivo e di solito la notte si può dormire. La mia principale occupazione è ancora quella di approfondire la lingua. Non è difficile, ma richiede molta memoria che in me non è molto felice. Tuttavia, comincio a comprendere la parlata di questi poveri neri e a farmi comprendere aiutandomi con i segni...”. Le mie prime esperienze missionarie Da Cholo anche P. Vittorio Crippa scrive per comunicare le sue prime esperienze missionarie. “Pian piano mi sto abituando, ma questi benedetti neri non vogliono ancora decidersi a capirmi e a farsi capire. Trascorro la maggior parte della giornata curvo sulla grammatica e continuo a masticare chinianja. Per la festa di Cristo Re mi sono azzardato ad ascoltare le prime confessioni. Mi sorprendevo a dire ai poveri penitenti, in italiano: ma spiegatevi meglio!... La nostra vita qui, pur nella più squallida povertà, è sempre serena e sentiamo effettivamente che la Madonna è con noi. Come lei sa, viviamo sempre in compagnia del Signore, poiché per mancanza di casa, ci siamo sistemati dietro l’altare della nostra chiesa e a forza di inchiodare assi e stendere stracci, ci siamo creati un posticino abbastanza cristiano. 92 Ci sono però quelle benedette formiche che non sono mai sazie e si attaccano a tutto. È una vera invasione! Ce ne sono di quelle piccole e di quelle grosse; di quelle nere e di quelle rosse e tutte fanno a gara per dare l’assalto a quella poca roba che abbiamo in quella che vorrebbe essere la nostra credenza. Tentare di distruggerle è come tentare di asciugare l’oceano, impresa ridicola! Il lavoro nella missione è molto. P. Remigio Villa non sa da che parte voltarsi, e in più c’è l’opera dei mattoni che non gli dà pace, specie con questi neri che hanno la poltronite acuta. Giorni fa ci è toccato anche coprire tutti i mattoni già fatti, per impedire che il temporale ci distruggesse il lavoro di tutto un mese. Sono rimasto a casa qualche giorno da solo. Il Superiore, era andato per i villaggi a caccia di cristiani. Una notte mi sveglio di soprassalto. Che c’è? Un muggito forte e prolungato... La mia immaginazione cominciò a lavorare forte. Un leopardo? Un leone?... Strinsi la corona in mano e andai a poggiare la sedia contro la porta priva di serratura. La mattina chiesi spiegazioni; mi dissero che a muggire erano state le mucche perché avevano avvertito la presenza di un grosso leopardo...”. P. Vittorio Crippa scrive nuovamente verso la fine di febbraio 1951, dilungandosi su alcuni episodi che hanno segnato la sua prima esperienza missionaria. Annuncia anche che “…finalmente inauguriamo la nostra casetta provvisoria. L’abbiamo intitolata alla Madonna Addolorata. È proprio costata sei mesi di dolori! Se tutto andava bene l’abitazione avrebbe dovuto essere pronta in due. Intanto però, il protrarsi dei lavori ha fatto... fiorire i muri! Tutta una vegetazione si è insinuata fra mattone e mattone. È una delizia per la vista di un esteta, ma noi che siamo pratici ce ne rammarichiamo: i fiori da una parte e le formiche 93 dall’altra accorceranno la durata della costruzione che tanto ci è costata”. Nozze d’oro del Vicariato dello Shirè Il Vicariato Apostolico dello Shirè nel 1951 celebra il 50° anniversario di fondazione. “L'Apostolino di Maria” ospita un lungo articolo di P. M. Nicolas che ricostruisce la storia di questi 50 anni con un titolo significativo: “Con la Croce e la Vergine”. Ecco il testo integrale. “… Quest’anno i RR. Padri Monfortani celebrano le nozze d’oro della fondazione del Vicariato dello Shirè e noi con loro ringraziamo Dio per aver così segnalatamente benedetto il loro lavoro apostolico. Se non ci fosse stata infatti la sua abbondante grazia, vano sarebbe stato il sangue, il sudore e le lacrime di questi cinquant’anni! Ringraziamo quindi Dio e la sua SS.ma Madre per questa così ricca messe di 250.000 cristiani, per questa “perla della cristianità” (Pio XI) con le sue ricche chiese, conventi, scuole e seminari. Un grazie speciale sia reso a Dio soprattutto per i 20 Preti indigeni e le 100 Suore indigene. I mezzi per i quali tali segnalate benedizioni discesero sulla nostra missione, sono mirabilmente riassunte nel motto del Vescovo, recentemente nominato, mons. G. B. Theunissen: “Cruce et Virgine” (Con la Croce e la Vergine). Le prime difficoltà incontrate dai nostri Missionari al loro arrivo sul suolo africano non furono tanto quelle di adattarsi ad una regione sconosciuta, alla sua lingua, ai suoi strani costumi e alle condizioni di clima; queste cose sono comuni a tutti i pionieri. Nyasaland è un paese di leoni, qualche volta ostili e mangiatori di uomini, ma questo può essere rimediato per mezzo di abili cacciatori, non così però del leone che bloccò il sentiero ai nostri primi Missionari. Ve n’era uno che aveva diritto di possesso, non consentendo rivale e obbligando cosi i nostri Missionari 94 Monfortani all’inazione per molti anni. Il suo nome era John Knox, della chiesa protestante scozzese, che vi si era stabilita vent’anni prima. Fortemente trincerati i Missionari scozzesi risentirono amaramente dell’istruzione dei papisti. Non era forse questo paese del Nyasaland scoperto dal loro compatriota e correligionario David Livingstone, la cui memoria essi onoravano col chiamare il loro centro di operazione “Blantyre”, dal nome del suo villaggio nativo? Non era forse questo magnifico paese “L'Africa più nera nella visione più bella” con i suoi altipiani e laghi, destinato ad essere un’altra Scozia, nello splendore dei Tropici? La pratica della cosiddetta “sfera d’influenza” che prevaleva allora dev’essere sembrato un espediente mandato dal cielo per fermare l’invasione romana nella sua baia. Secondo questa perniciosa pratica, nessuna denominazione poteva fondare scuola o chiesa alla distanza di almeno 5 Km di raggio da un’altra. Che di più facile ai protestanti se non di costruire una rete di scuole per bloccare il progresso dei detestati papisti! Così, con questa astuta e coperta opposizione, gli sforzi dei nostri ardenti Missionari erano paralizzati e frustati per ogni tentativo di conversione, e l’essenziale lavoro per arrivare al piccolo popolo per mezzo delle scuole cattoliche, era quasi annullato. Nel 1915, durante la prima guerra mondiale, una ribellione, istigata da un capo africano di una setta protestante, sembrò estinguere ogni barlume di speranza. La chiesa madre della missione venne bruciata e rasa al suolo dai fanatici ribelli, e uno dei missionari gravemente ferito. Fu questo il momento nero della storia della missione. Ma ciò che era ancor più una ferita al cuore fu il triste risultato delle futilità dei loro sforzi. Non sembrava loro di fare alcun progresso, di lavorare contro una grossa muraglia. Tuttavia, come sempre, l’ora nera precede l’aurora, e fu proprio in 95 questo momento che la Provvidenza divina rivelò se stessa e fece tornare l’alta marea ponendo la barca di Pietro in un viaggio di avventurose conquiste. Dalla data di queste ribellioni prevalse un più grande spirito di tolleranza, la pratica della “sfera d'influenza” era sempre meno invocata e i nostri missionari cattolici, avendo un posto al sole, avanzarono con gioia ed andarono a quella conquista “che ebbe raramente un qualcosa di simile nella storia della Chiesa”, come diceva il nostro Delegato Apostolico l’Arcivescovo D. Matthews. Dal primo momento del loro arrivo nel 1901 i missionari, quali degni figli del Montfort, consacrarono il futuro campo di lavoro apostolico alla Madonna. Era a capo di quei 3 missionari il compianto Vicario Apostolico Mons. A. Préseau, l’intrepido ed ardente pioniere. Il Padre Superiore della missione di Port Herald, sentendo la completa impotenza del solo sforzo umano nel lavoro tremendo che gli stava davanti, cavò dalla tasca una medaglia miracolosa, e con la punta del temperino la inserì nella corteccia di uno di quegli enormi alberi chiamati “baobab” che sono la gloria del Nyasaland. Questo gesto pieno di fede e confidenza doveva avere la sua ricompensa. I missionari dovevano trovare il futuro suolo del loro apostolato già arato e pronto. Lo specialissimo affetto degli africani per la mamma e la profonda venerazione nella quale tengono la madre del capo tribù, diede ai missionari cattolici un piede fermo ed un decisivo vantaggio nei loro incontri contro i freddi Presbiteriani avversi a!la Madonna. Nelle ore più oscure i Padri Monfortani guardarono la Stella del Mare, alla Vergine guerriera che infondeva loro fede e coraggio. Quando mons. Auneau fu nominato vescovo nel 1910, succedendo a Mons. Préseau, conservò questa confidenza nella Madonna prendendo come divisa: “Respice stellam, voca Mariam”. Sotto la guida intelligente e tenace di questo Vescovo il piccolo gregge da alcune centinaia 96 di.cristiani nel 1910, crebbe in un grande esercito di 250.000 anime. Una delle tante glorie del suo fruttuoso episcopato fu certamente quella di aver fondato molti nuovi posti di missione nei punti più strategici del territorio. Per finire basta dire che ciascun posto di missione è come una piccola diocesi con numerosissime chiese succursali, cappelle e scuole di villaggi. Con 18 posti di missione come questo in un territorio di 16.000 kmq possiamo giustamente concludere che il Vescovo, con i suoi valorosi missionari, hanno fondato uno dei centri più ferventi del Cattolicesimo". L'articolo commemorativo termina con un breve prospetto statistico, eloquente testimonianza di quanto detto dall'articolista. 1901: Primo arrivo dei 3 Missionari Monfortani: Nessun cattolico indigeno 1905: Arrivo delle Suore Figlie della Sapienza: Alcuni cattolici 1912: 12 Missionari, 2 Fratelli coadiutori, 9 Suore, 600 cattolici indigeni 1926: 29 Missionari, 2 Fratelli, coadiutori, 19 Suore, 21.652 cattolici 1935: 45 Padri Monfortani, 4 Fratelli, 25 Suore della Sapienza, 80.670 cattolici 1951: 80 Missionari, 20 Preti africani, 8 Fratelli indigeni, 25 Suore della Sapienza, 100 Suore indigene, 250.000 cattolici, totale popolazione: 1.120.0000 L'eco delle celebrazioni giubilari P. Antonio Marchesi, riferendo qualche eco delle celebrazioni, scrive: “... Non credo di averle parlato delle feste giubilari celebrate in questa missione nel mese di giugno. Si trattava del 97 50° della venuta dei primi Missionari a Nzama. L’avvenimento meritava quindi un festone. Quel che si e fatto. Alla presenza di due Vescovi: Mons. Auenau e Mons. Theunissen, circondati da 25 Missionari, una folla di cristiani si è raccolta nella nostra vasta chiesa per esprimere riconoscenza al Signore e anche ai suoi inviati. La Messa pontificale nella festa di SS. Pietro e Paolo fu seguita dalla consacrazione alla Madonna sul piazzale della chiesa. Quello però che ha attirato la più viva attenzione di molti - si comprende il perché - fu la danza guerriera per eseguire la quale ci vuole il permesso del Governo. A dire la verità ero già stanco fin dalle prime battute. Urla, salti, polvere in quantità, ecco le sue caratteristiche, ma era tutto voluto. Veramente impressionante fu la dimostrazione dei ragazzi delle scuole, che ha avuto luogo il giorno dopo. Neretti e nerette, in divisa, fecero il loro ingresso solenne nel campo di calcio. Erano più di mille. Alle nove del mattino incominciarono i loro giochi: canti e ginnastica. Vedere per credere! Un signore olandese, venuto espressamente girò un film a colori. Poi li fece cantare. E qui viene il fatto strabiliante per loro. Cantato che ebbero, impose il silenzio a tutta la folla. Dall’alto della sua macchina un altoparlante ripeté i loro canti. Visibilio! Le grida raggiunsero le stelle. Così gloriosamente si chiuserò le feste giubilari. Molti ricordi sono rimasti nel loro cuore. Quello però che amano ripetere più spesso è che quel signore, in questi giorni, l’han visto inginocchiato in mezzo a loro a fare la Comunione al loro fianco. Cosa mai vista a Nzama. Un corso di missioni non avrebbe ottenuto tanto! 98 Salve, Africa nera! Dopo la sua vacanza in Italia P. Tarcisio Betti riparte per lo Shirè. “E’ più di un anno che sono lontano da te, mia seconda diletta patria! Il mio cuore soffre e sanguina, poiché tu sei il dolce sogno di tutta la mia vita, l’unico oggetto del mio amore. Ora vengo a rivederti per non lasciarti mai più. Per te voglio consumare tutte le mie forze e un giorno morire nel tuo soave amplesso”. Cosi il simpatico P Tarcisio Betti, il dì della sua partenza saluta la sua terra dl missione. Tornato in Italia l’anno scorso per riprendere nuove energie e rivedere ancora i suoi cari, è ripartito una seconda volta il 21 novembre. Questa volta però era solo, poveretto! Il suo vecchio collega, il P. Mario Caccia, non ha fatto in tempo a prendere il treno e la nave, sventolando la bandiera tricolore ha solcato il mare senza di lui. Ora il caro Confratello si trova a Redona in qualità di Professore e di Direttore Spirituale dei nostri piccoli studenti e con nostalgia pensa a P. Tarcisio Betti. Hanno accompagnato il Missionario a Venezia il P. Superiore, sua anima gemella, il P. R. Omizzolo, come fac totum dell’Agenzia viaggi, e Fra Tracisio per fotografare il partente. Zomba: la nuova missione di P. Remigio Villa In dicembre P. Vittorio Crippa scrive al P. Provinciale: “… Saprà già che il P. Remigio Villa ha lasciato Cholo perché promosso dal vescovo alla missione più grande di Zomba. Giusto; ai pezzi grossi s’addicono missione grosse. Al Padre, penso, è dispiaciuto un pochino, perché Cholo è stata un po’ la sua creazione; aveva fatto tanto e così bene che in poco tempo aveva dato a questa missione la tonalità di una missione anziana. Avevamo impastato anche più di trecentomila mattoni pronti per casa e scuola; così un altro verrà a raccogliere ciò 99 che il buon P. Remigio Villa ha seminato. A me dispiace ancor di più perché la posso assicurare di aver trovato in lui un’ottima guida nelle mie prime imprese missionarie e adesso c’eravamo messi di lena a controllare i nostri cristiani…”. Utale: un piccolo seme trasformato in un albero gigantesco A distanza di tre anni P. Remigio Villa rivisita il lebbrosario di Utale: “un Cottolengo africano”. “… Ritrovai parecchi ammalati che lasciai tre anni fa. Con piacere ne rividi uno cieco, senza mani né piedi. Da maomettano s’era convertito prendendo il nome di Abraham! Tre anni fa sembrava tutt’altro che vicino alla conversione! Immaginate la mia commozione quando alla domenica gli diedi la S. Comunione. Si fece fotografare ma a condizione di averne una copia. Che ne fai, gli chiedi, dato che sei cieco? Per i miei parenti, mi rispose. L’apostolo delle conversioni fra i musulmani del lebbrosario è un certo Enock, lui pure convertito. Al vederlo fa spavento! Eppure ottiene miracoli di conversione! Oltre al lebbrosario, la missione di Utale raccoglie ogni specie di derelitti. Ho visto ciechi, storpi, sordomuti e mentecatti. Un ragazzo ha tutto il corpo così storpiato che cammina con le mani, senza appoggiare per nulla né piedi, né ginocchi… Ogni giorno accompagna una povera vecchia cieca, guidandola ora con la voce, ora soffermandosi e dandole la mano. Questo è l'ambiente scelto dal vecchio vescovo dimissionario Mons. L. Auneau per prepararsi al Paradiso. Non poteva scegliere meglio! Il piccolo seme piantato da S. Eccellenza 44 anni fa tra febbri malariche e sacrifici d’ogni sorta, oggi si è davvero trasformato in albero gigantesco di carità cristiana, dove gli uccelli dell’aria, i poveri senza tetto, trovano asilo sicuro”. 100 1952 Il lavoro continua In gennaio scrive anche Suor Francesca. In una corrispondenza da Limbe comunica diverse notizie, prima fra tutte: “...Il Padre Betti è arrivato sano e salvo dopo il lungo viaggio sul “Gerusalemme”. Il padre è molto contento perché ritorna a Nankwali, al suo posto di prima.Là starà bene e potrà correre a suo piacere nei villaggi in cerca di anime sperdute e condurle all’ovile”. Sulla stessa lettera si accenna anche a P. Remigio Villa che “… si trova già da un mese nella sua nuova residenza di Zomba. Anche lui è contento; è sempre nei villaggi; viene a casa per un giorno e poi di nuovo in cerca di anime”. Degli altri missionari scrive che “… stanno tutti bene, anche la sottoscritta che si trova sempre a Limbe e continua ogni giorno a prendersi cura degli ammalati”. In febbraio P. G. Giovanni Giavarini scrive alla sorella con una raccomandazione: “… Per la motocicletta non ti ammalare.. Con il tempo e la calma qualche cosa verrà alla luce! In questi momenti di pioggia e di fango va molto bene la motocicletta di S. Francesco”. E ancora: “… Sappi che tutto è utile alla missione, specialmente grandi medaglie e crocifissi di ogni grandezza per distribuire come premio a coloro che daranno ottimi risultati alla fine dell’anno scolastico. Questo puoi dirlo a tutte quelle ottime persone che mi hanno aiutato e che continuano ad aiutarmi”. 101 Oggi mi ha preso il ticchio di scrivere A maggio invia notizie P. Tarcisio Betti: “...E’ da Pasqua che sono assente dalla missione e non so quando ci ritornerò. Oggi mi ha preso il ticchio di scrivere dall’interno di una capannuccia di paglia, un po’ seduto, un po’ inginocchiato e curvo sulla cassetta dell’altare portatile che mi serve da tavolo, mentre attingo l’inchiostro da un boccettino che ho mezzo sepolto nella polvere perché non abbia a spandersi. Le vacanze sono veramente passate e ho ripreso a vivere la vita africana, sempre in giro, sempre su una bicicletta. È una canonica speciale la nostra, sempre sotto la volta del cielo, in mezzo a immense foreste dove abbondano i giganteschi baobab e le palme. Quando ci penso mi sembra che questa nostra canonica, per vastità e bellezza, deve fa crepare d’invidia o almeno arrossire di vergogna tante pur belle canoniche delle valli bergamasche. Il lavoro qui è sempre quello: confessare, visitare ammalati, battezzare, fare ispezioni di scuole, ascoltare e cercare di ricomporre un sacco di difficoltà che sorgono tra cristiani o tra cristiani e pagani…”. Mi sento confusa di fronte a tanta generosità Suor Francesca dalla “Limbe Providence” comunica l’arrivo di una cassa con medicinali ed altro materiale: “...Quanto avrei voluto che foste presenti all’apertura della cassa e a vedere la gioia e la felicità che, al par di noi, ebbero tutte le nostre sisters indigene, e i neri e le nostre figliole; a sentire le esclamazioni di gioia. Non avevano abbastanza occhi per vedere tutti i giocattoli, palle, piccoli strumenti di musica; se li rubavano l’un l’altro per poter suonarli o giocarvi, ma invano; tutto era nuovo per loro.. Che dirò delle medicine? Mi sento confusa dinnanzi a tanta ricchezza e non trovo parole per esprimere tutta la mia riconoscenza. Lasciatemi dire che con queste medicine non 102 solo guarirò i corpi ma salverò tante e tante anime; è proprio con queste che il missionario può avvicinare ogni sorta di persone: musulmani, pagani e protestanti…”. 103 1953 Notizie di disordini in Nyasaland A rompere una lunga pausa di silenzio dei missionari ci pensa P. Remigio Villa: “...Prima di entrare nel silenzio della S. Quaresima mi faccio vivo con voi. La mia vita qui a Limbe, come quella dei confratelli, è sempre la medesima. Però, viaggiando nei villaggi, c’è sempre qualcosa di nuovo. Solo si dimentica di notarlo, quindi viene dimenticato… Nelle mie visite parlo un po’ a tutti, ed è per questo che preferisco andare a piedi. Un giorno m’imbattei con un nero che aveva fatto parte di diverse sette religiose, ultima la più accanita contro a chiesa cattolica e la più spregiudicata nelle sue asserzioni. Il povero uomo n’era nauseato e mi confessò: “Padre, è meglio che noi neri ritorniamo ai nostri sacrifici pagani. Quante chiese ci avete portato voi bianchi! Cosa dobbiamo credere?”. Gli diedi dei libri. E quante anime sono semplicemente disgustate dal protestantesimo! “ Ah, se avessi avuto una moto! Scrive anche P. Vittorio Crippa per esprimere un suo desiderio: “...Una moto! Sono tre anni che la bramo! Non è, no, un capriccio, ma una brama ardente che mi consuma ogni giorno più, di salvare tante anime di questa terra d’Africa. Il mio raggio d’azione si estende fino a trenta chilometri quadrati entro i quali vivono in misere capanne le cinque mila mie pecorelle...nere, e tante altre migliaia abbandonate che non sono ancora del nostro ovile. Se poi si pensa che queste povere anime sono del primo venuto, sia egli un attivista comunista o pastore protestante...se si riflette al sole bruciante che ti mozza il fiato e ti accelera il 104 cuore fuor di misura...se si considera la frequente ed urgente chiamata al capezzale dei morenti… hai voglia allora a percorrere decine e decine di chilometri con il cavallo di S. Francesco o anche con la bici! Ci vuole altro se si vuole arrivare in tempo! Giorni or sono, celebrata la S. Messa un giovane viene ad avvertirmi che la mamma sta male. Prendo tutto l’occorrente per l'amministrazione dei SS. Sacramenti, inforco la bicicletta e brucio, sotto un sole cocente, i 15 chilometri che mi separano dalla moribonda. Le amministro gli ultimi Sacramenti… e ritorno alla missione. Qui trovo un vecchietto che mi prega di correre presto a casa sua perché c’è il nipote che sta per spirare. Bevo un bicchiere d’acqua fresca e… via di nuovo, stavolta a piedi perché la strada è impraticabile con la bici: altri 10 chilometri. Volevo buttarmi a letto per riposare, ma stavano ad attendere i miei negretti per la lezione di catechismo. Comincio… ed ecco un altro a chiamarmi al capezzale di una vecchia! Interrompo la lezione, monto ancora in sella e… desidero diventare Gino Bartali! Ma ahimè!, le mie gambe sono stanche e pedalano lentamente… Ho un presentimento di non arrivare in tempo…! Infatti ad un centinaio di metri odo un vociare confuso e strano. La vecchietta è morta. Tutta la stanchezza e il caldo e la fame li ho sentiti cadermi addosso tutti insieme. Ah, se avessi avuto una moto!!..”. Nuovo vescovo monfortano in Haiti “L'Osservatore Romano” del 12 aprile riporta la seguente notizia: “… La Santità di nostro Signore si è benignamente degnata di nominare il Reverendissimo Padre Remy Augustin, della Compagnia di Maria, Monfortani, alla Chiesa vescovile titolare di Turuzi, deputandolo Ausiliare di sua Eccellenza 105 Reverendissima Monsignor Le Gouaze, Arcivescovo di Portau-Prince (Haiti). Verso la fine del mese dalla missione di Cholo scrive P. Vittorio Crippa: “...Domenica prossima benediremo e inaugureremo una nuova scuola che ci è costata lavoro, sudore e...quattrini non pochi, tanto da svuotare al completo la nostra borsa, sempre vuota del resto. La scuola è molto bella e grande e s’impone soprattutto per cicatrizzare un pochino il lavoro feroce delle sette protestanti che sempre si vantano di avere magnifiche scuole. Ma stavolta gliel’abbiamo… fatta, e come si deve”. Dall’ospedale di Blantyre P. Remigio Villa racconta la sua disavventura: “...Ritornavo da Cholo ove ero andato a salutare P. Vittorio Crippa, quando fui investito da un’auto che mi veniva incontro ad un’andatura da pazzi. Data la nebbia e la pioggerella mi videro all’ultimo momento e mi colpirono soltanto con il lato sinistro dell’auto, altrimenti dovrei essere al cimitero. Porto sempre in tasca la statuetta dell’Immacolata: ebbene fu Lei a salvarmi dalla morte, poiché l’urto venne alla sua altezza. Mi trovai per terra, la moto a due metri a sinistra, il nero che era con me oltre la moto e con la faccia piena di sangue, ed i due autisti portoghesi con l’auto rovesciata a dieci metri a destra, essi pure pieni di sangue ed uno con il braccio rotto. Dopo il primo intontimento ripresi conoscenza per terra e mi trovai una forte ferita all’orecchio destro. Venne l’ambulanza, preceduta dal medico di Cholo. Ora sono qui: Dio sa quando uscirò. Sento dolori al torace e al dorso, ma la gamba dal ginocchio in giù è quella che mi da più fastidio essendo tutta contusa; non l’hanno ancora ingessata perché troppo gonfia. Nessuna rottura e perciò ringraziai la Madonna di avermi salvata la vita. Per la moto… 106 sarà un’altra faccenda. Chi l’ha vista si domanda ancora oggi come io abbia potuto cavarmela. Notizie di disordini P. Remigio Villa da Limbe invia notizie sui disordini scoppiati nel Nyasaland del Sud. “… I leaders dell’African Congress avevano promesso dimostrazioni contro la Federazione del Nyassaland con le due Rhodesie. Ora sembrano effettuare tali minacce. Dal 19 agosto cominciarono disordini nel distretto di Cholo: la polizia dovette intervenire e si ebbero a lamentare un morto e parecchi feriti. I disordini non sono affatto locali ma si sono estesi a parecchi distretti del Sud, anche se per ora sembra si limitino a semplici atti di vandalismo o a semplici dispetti. Ci sono scioperi generali nelle aziende di thè, nella zona di Cholo, ma la maggioranza stanno lontani dal lavoro per paura dei leaders. Una parte della zona di Cholo è stata evacuata dai bianchi. Giovedì il Governatore lanciò un messaggio alla popolazione bianca, soprattutto ai piantatori della zona di Cholo, affinché cerchino di mantenere le aziende aperte al lavoro; di non farsi giustizia da soli, ma prendere tutte le precauzioni possibili contro i sobillatori… Speriamo che le cose si calmino presto perché stanno prendendo una piega inquietante…”. Mi servirebbe tanto una vespa... Suor Francesca da Utale scrive: “… Desidero sempre una vespa. Mi renderebbe immenso servizio anche per avere più tempo per andare nei villaggi, ove qualche ammalato aspetta la suora; invece devo servirmi del cavallo di S. Francesco. Pazienza! 107 V’invito a fare con me una visitina al lebbrosario. Non abbiate paura, non sarete contaminati, prenderemo tutte le precauzioni e misure di igiene italiana; sarà prudente, seguitemi… Vedete quella estensione di campi con delle capanne in giro?… E’ il lebbrosario. I lebbrosi meno malandati lavorano il loro pezzo di terreno seminando fagioli, mais e tutto ciò che può servire di nutrimento. Guadagnano anche qualche cosa per coprirsi, e nel medesimo tempo, essendo occupati, non pensano tanto al loro male. In mezzo a tutte queste capanne c’è la chiesa; per il catechismo vi sono i Fratelli Oblati: sono dei lebbrosi che vogliono essere religiosi… Chi abita in case separate sta meno peggio. Ci sono delle famiglie intere colpite dalla lebbra; si trovano tutti riuniti in una stessa famiglia, come in un villaggio e sono contenti perché non sono a contatto con i più contagiosi. I bambini sono trattenuti in reparti speciali. Il lebbrosario è immenso e c’è posto per tutto un popolo. Nella sala ci sono lebbrosi di ogni grado. A questo la lebbra gli ha roso gli occhi e i piedi, cadono le falangi dalle dita e il corpo si stacca a pezzi; in quest’altro i vermi sono come in casa loro; quest’altro è mangiato vivo dalla testa ai piedi, ad ogni medicazione cadono lembi di carne… Guardate questi come sono sfigurati, senza naso e senza bocca, con due buchi al posto degli occhi. E questo? Le braccia e le gambe sono tenute con la pelle, ogni volta che mi avvicino mi dice: Suora me li tagli perché sono troppo pesanti… Come vedete sono tutti su per giù ben malati. Sono 600, internati nella sale, gli altri vivono in famiglia nel villaggio dei lebbrosi, costruito dai nostri Padri Missionari. Per curare tutti questi poveretti siamo in quattro: due suore indigene e due europee. Quando qualche buon’anima si deciderà a venirci in aiuto?”. 108 Partenze per gli Stati Uniti d’America Viene resa pubblica la notizia della partenza per gli Stati Uniti di P. Giacchino Sangiorgio, Fra Alfonso e Fra Gabriele:”...Sono tre come i moschettieri del Dumas: cuore ardente, occhi limpidi, energia a volontà. Partono per l’America del Nord condotti dall’obbedienza. D’ora in poi la loro attività si svolgerà a favore del nostro Studentato Americano a Lirchfield, Connecticut”. Port Herald: nuova residenza di P. Remigio Villa In dicembre da Port Herald, sua nuova residenza, scrive P. Remigio Villa: “...La mia nuova missione è assai estesa, soprattutto è popolatissima. I villaggi si estendono ininterrottamente lungo le sponde dello Shiré. È una missione con parecchie scuole, ma non possiamo tenerle aperte tutte. Anche quelle che funzionano sono aperte al massimo quattro mesi all’anno. Da qui i risultati piuttosto scarsi finora ottenuti, anche per mancanza di suore. Mentre nella sola diocesi di Bergamo ci sono oltre 2000 suore, qui invece… solo 18!”. 109 1954 L’anno mariano nelle missioni Nel nuovo anno la prima posta africana proviene da Nankwali. P. Tarcisio Betti scrive a P. Omizzolo: “...Nello scorso anno Nostra Signora delle Vittorie si sarà molto compiaciuta nel vedere la sua bella chiesa coperta di luccicanti lamiere anziché di povere erbe. Si sarà pure rallegrata nel vedere entrare in chiesa il bell’armonium che ci hai mandato. E cosa dirà mai quando sentirà il tintinnio di una bella campana che la saluta tre volte al giorno all’Angelus? Spero quindi che le tue premure siano state coronate. Come promettesti fa in modo che la campana arrivi nel Nyasaland verso la fine di febbraio o in marzo, di modo che si possa avere a Nankwali, prima di Pasqua, così comincerà a suonare per l’alleluia della Risurrezione. Non si potrebbe avere un’occasione migliore! E allora sì che i protestanti di Yesaia rimarranno di stucco! È un villaggio vicinissimo alla nostra missione e nel quale c’è un solo cattolico in mezzo a tutta la popolazione protestante. Hanno appena una chiesetta di terra e paglia ed hanno pure una campanella appesa ad un ramo d’albero. Di questa sono fieri! Talvolta si permettono pure di burlarsi di noi cattolici: Cosa credete di essere voi?… Non avete neppure una campana! Ti assicuro quindi che la tua campana è tanto desiderata: i protestanti devono rimanere a bocca aperta almeno per 15 giorni! E il nostro prestigio aumenterà, perché nella mentalità dei neri una campana più grossa è anche un argomento di dottrina più elevata. Se puoi… mandamene una... da un quintale! P. Marchesi, mio fedele compagno di lavoro apostolico, sta già facendo i piani per il campanile”. In occasione della Pasqua P. Vittorio Crippa scrive agli amici e benefattori: 110 “...Dopo essermi sepolto in un lungo silenzio sento il dovere di uscirne per esprimervi con tutta riconoscenza i più cari e lieti auguri assicurando a tutti un costante e affettuoso ricordo. Durante il periodo di preparazione alla Pasqua ho trottato un po’ dappertutto, raggiungendo i più remoti villaggi, rimettendoci perfino un paio di scarpe. Poverette, dopo aver tenuto duro per tanti mesi e con tanta buona volontà, hanno pensato di dire basta a tutti gli spaghi e fili… Il bello arrivò il mattino seguente, quando si trattò di celebrare la S. Messa a piedi nudi. Fin là non ero mai arrivato! Povero Signore, pensavo, ti devi adattare anche a questa mancanza di galateo. La colpa è tutta delle scarpe… Un bilancio dell'anno mariano in Africa La lunga parentesi della “Posta Africana” si chiude con un bilancio dell’anno mariano in Africa tracciato da P. Remigio Villa. “...L'Anno della Madonna, come in altri continenti, è stato davvero anno di grazie e di misericordia per tante anime africane. Pur non potendosi effettuare come altrove, con solennità e preparazione esterna, si cercò tuttavia di dare ogni apparato possibile, conforme allo straordinario avvenimento. Alcuni mesi prima, si annunziava alle cristianità la data del passaggio della statua della Vergine Immacolata. Per meglio disporre le anime si preparava il grande evento con un triduo di predicazione e di penitenza. Il simulacro della Madonna, giunto nella missione, restava per tre giorni, occupati da turni di preghiera da parte dei cristiani. Nel nostro Vicariato la prima missione ad avere la visita della Madre di Dio fu Limbe. Dopo un triduo la statua fu accolta da una folla immensa ed entusiasta di cristiani e di curiosi. Maria ali kufika ( Maria sta per venire) era la frase che in quei giorni era sulla bocca di tutti. Ognuno voleva godere e contemplare la faccia della Vergine SS. 111 Ovunque fu un succedersi di manifestazioni grandiose, almeno per noi africani. Non c’erano illuminazioni o addobbi, ma molto coraggio nel camminare per lunghi chilometri, nello stare digiuni fino a tarda ora per poter ricevere la S. Comunione… Credo che la manifestazione più grande sia stata quella che si svolse a Nguludi, chiesa madre del Vicariato. Una moltitudine di fedeli assistette alla S. Messa, cantata dal Vicario Apostolico, e prese parte alla processione finale. Dalle otto del mattino fino all’una del pomeriggio fu tutta una dimostrazione religiosa ardente e sentita. Non un ragazzo che dicesse una sola parola durante quel tempo, ma tutti cantavano e pregavano con devozione. Naturalmente i curiosi che assistettero alla “Peregrinatio” erano pagani e, soprattutto protestanti neri. Alcuni volevano vedere cosa fosse questa “Vergine Maria” che i cattolici nominavano sempre…”. Il 12 novembre P. Antonio Marchesi scrive a P. Serafino Corali: “… La mia vita da ormai due mesi scorre in mezzo ai mattoni. Ho cambiato residenza ed ora mi trovo a Zomba, la capitale del Nyasaland. È una bella città, posta sul fianco di una montagna. A due chilometri da casa nostra c’è la casa del vescovo.La nostra abitazione è nuova, bella, ma anche l’unica costruzione della zona. Mancano tante e tante cose. Adesso ho incominciato la procura, dove si raccoglie tutto il necessario per le altre missioni. Nello stesso tempo devo finire un grande canale che porta l’acqua a casa nostra. La cascata dovrebbe azionare diverse macchine, come il mulino, la sega, la pialla… Poi dovrò costruire tante casette per i lavoratori. Non abbiamo la chiesa. Per il momento serve ancora la vecchia, ma questa, oltre ad essere piccola, è anche molto lontana e perciò scomoda. Come vedi il lavoro non manca. Potessimo avere dei Fratelli coadiutori! I Padri sarebbero molto più liberi di occuparsi dei cristiani, che sono molti, circa 112 20.000. Una vera folla di pecore senza pastore, sperdute. Pensa che per tutta questa gente non ci sono che tre Padri, uno dei quali è P. Betti. Il sabato e la domenica cerco di aiutarli anch’io, ma ci vuole altro! Si fa quello che si può! La “Peregrinatio Mariae” nei villaggi P. Vittorio Crippa torna sulla “Peregrinatio Mariae” . Scrive: “… Pochi giorni or sono tornato dal ministero di più settimane durante le quali ebbi la gioia di accompagnare la Madonna Pellegrina in tanti villaggi della nostra missione africana del Nyasaland. Non vi sto a dire quanto mi sia piaciuto questo lavoro, ricco di soavi consolazioni spirituali. Quanto bene ha operato la Madonna in mezzo a codesti negretti cristiani! In verità è molto facile attirare il negro al Signore attraverso la devozione alla Madonna, presentata quale Madre. In loro più che in ogni altro è profondamente radicato l’affetto verso la madre. Per essi è come un dio. Impressionante la devozione alla Madonna che i poveri lebbrosi vollero manifestare alla Regina del Cielo, loro cara Madre e Consolatrice. Per potere facilitare a tutti l’avvicinamento alla Madonna Pellegrina, il missionario credette bene di scegliere, a trono della Madonna, un grosso baobab, che apriva ai suoi fianchi una grossa fessura, quasi a forma di nicchia. Qui venne adagiata la statua della Madonna al principio del villaggio dei lebbrosi. Il santo simulacro della Vergine venne portato in processione dagli stessi lebbrosi, attraverso le vie del villaggio. Commovente il vedere la povera gente ammalata uscire dalle loro capanne e farsi incontro alla Madonna e recitare l’Ave Maria, per poi infilarsi anch’essi in processione come potevano, uomini e donne, unendo al coro degli oranti la loro debole voce: “Santa Maria, prega per noi, poveri peccatori”. Coro di 800 ammalati che in quell’istante sentivano tanto 113 conforto, pensando che in cielo una mamma tanto buona pregava per essi. L’Immacolata, dall’alto trono che la natura stessa le volle erigere, stende le sua braccia materne sopra tanti afflitti… I Protestanti stessi accorrevano in massa alle sante funzioni e ne rimanevano sbalorditi. Sentendo le prediche che si facevano all’aperto, hanno potuto ben capire cosa intendiamo noi cattolici e cosa vogliamo quando veneriamo la Madonna. Per i protestanti la “Peregrinatio Mariae” è stata veramente un colpo mortale. Venivano per curiosare e criticare, come fanno sempre, ma quando avevano sentito spiegare chi è la Madonna e perché la si venera, si allontanavano sconcertati e umiliati. Se si potesse lavorare come si deve, se fossimo in più, in breve tempo tutto il Nyasaland diventerebbe il vero regno di Maria. Abbiamo ora estremo bisogno di scuole. Più di 300 ragazzi sono ammucchiati sotto un tetto di erbe e due mura di fango; fanno veramente pietà! Non potremo mai sviluppare le nostre attività se non potremo fare funzionare le scuole. Qui l’unico e quasi esclusivo mezzo di apostolato e di reclutamento cattolico sono le scuole. Che la Madonna, Regina delle Missioni, ci mandi bravi e santi missionari e ci benedica nelle nostre fatiche”. 114 1955 Missionari in Madagascar All’inizio dell’anno un orrendo ciclone si abbatte sulla missione del Nyasaland. Ne da notizia Suor Francesca Tombini: “… Dio sia benedetto! Proprio il 9 gennaio il Signore visitò i suoi missionari di Utale con una pesante croce, inviando uno spaventoso ciclone che al dire dei più anziani missionari del luogo non si era mai visto nel Nyassaland. Tutto quanto lo zelo e la carità cristiana aveva costruito in molti anni e con tanti sacrifici, improvvisamente, nel giro di dieci minuti, fu distrutto dalla bufera: due chiese, il lebbrosario, l’ospedale, varie case dei negri, tutto ridotto ad un mucchio di rovine. Una gran moltitudine di animali di ogni sorta circolavano nella zona, vennero travolti e sepolti dal ciclone. Altissimi e grossi alberi che formavano una vera meraviglia nel luogo vennero sradicati, tra questi anche quello che conteneva in una nicchia la bella statua della Madonna Immacolata, ivi deposta a ricordo della “Peregrinatio Mariae” dello scorso anno. Tra tanta desolazione e miseria potemmo ammirare la grande bontà del Signore e della Madonna che ci vollero risparmiare almeno la casa dei PP. Missionari; essa sola restò in piedi in mezzo a tante rovine. Tremò la casa, come scossa da un tremendo terremoto, ci parve di sentircela crollare addosso. Sulla forza incontrollata della natura vigilava la Madonna. La casa fu salva. C’è ora il grande problema di rialzare tutte queste macerie. Come fare? I missionari di Utale sono nella vera miseria. Tutto di spera dalla Divina Provvidenza e dalla carità dei buoni cattolici”. 115 Invio di tre missionari in Madagascar Il 21 aprile il P. Provinciale comunica a P. Rizzardo Omizzolo, e ai PP. Alessandro Assolari e Emilio Nozza la loro destinazione nella lontana isola del Madagascar. “… La notizia ha fatto esultare i tre fortunati prescelti ed ha messo in tutti i componenti della nostra famiglia religiosa un nuovo entusiastico slancio di apostolato missionario. La partenza è prevista per metà di ottobre; intanto fervono i preparativi per allestire il copioso bagaglio personale e comune, ricco di tutto ciò che maggiormente occorre per fondare una nuova missione. Per questo i nostri tre bravi missionari si raccomandano anche alla generosità degli amici…”. Un caldo saluto d’addio Prima di salpare per la nuova destinazione P. Rizzardo Omizzolo, anche a nome degli altri due missionari, dalle pagine de “L'Apostolo di Maria”, invia un saluto e un appello: “… A voi tutti, dilettissimi lettori del nostro bollettino, il sottoscritto, a nome suo e dei confratelli P. Assolari Alessandro e P. Nozza Emilio, rivolge un caldo saluto d’addio ed un appassionato appello. Salutiamo con profonda commozione i nostri cari familiari che, vincendo ogni più tenero affetto, ci hanno lasciti partire nel nome benedetto di Gesù e di Maria, verso il nostro lontano destino. Salutiamo i confratelli di religione che ci accompagnano con una santa invidia, gli apostolini di Villa Santa Maria, i novizi di Castiglione Torinese e i cari studenti di Loreto, i quali tutti ci seguono e forse già ci precedono col fervido desiderio della loro balda giovinezza. Salutiamo i benefattori e gli amici noti e ignoti, che con la loro stupenda generosità, ci hanno fornito dell’indispensabile occorrente. A tutti il grazie più sincero e profondo. 116 Non dimenticateci! Non lasciateci soli! Fate che quando saremo laggiù, sperduti nell’isola immensa del Madagascar, tra gli inevitabili stenti e pericoli d’ogni opera del genere che comincia, ci sentiamo circondati dal caldo alone della vostra simpatia cristiana. Una simpatia fatta di preghiere e di opere. La nuova missione che il Santo Padre ci ha incaricati di fondare deve essere non solo l’opera delle nostre povere braccia e del nostro cuore, ma l’opera di tutti voi, benefattori ed amici delle missioni monfortane. State sicuri che noi vi terremo costantemente informati su quanto andremo facendo attraverso le pagine de “L'Apostolo di Maria”: a voi di aiutarci efficacemente in tutte le nostre sante iniziative. Lavoreremo insieme, soffriremo insieme, costruiremo insieme, salveremo tutte le anime che ci sarà possibile, con la grazia del Dio e la materna assistenza di Maria. Carissimi, ricordatevi sempre che chi aiuta il missionario avrà la ricompensa del missionario”. La consegna del crocifisso ai tre partenti avvenne in forma solenne il 26 novembre. “...Nel pomeriggio giunse e si radunò una folla di familiari, amici e invitati, i quali, unitisi alla turba di padri, fratelli coadiutori e apostolini, improvvisarono un’accoglienza festosa e devota a S.E. Rev.ma Mons. Giuseppe Piazzi, vescovo di Bergamo. L’Ecc.mo Vescovo, nello splendore degli abiti pontificali, consegnò, in nome di Gesù e di S. Luigi di Montfort, i tre crocifissi ai missionari partenti. Poi, con una parola semplice, disse cose divine, spiegò cioè il significato della consegna”. 117 P. Remigio Villa riparte per le missioni Pochi giorni dopo la partenza per il Madagascar dei tre missionari, riparte per l’Africa anche P. Remigio Villa. P. Alberto Scotton, gli dedica un ricordo: “...Quando tornasti fra noi, circa due anni fa disfatto e sofferente, appoggiato a due stampelle...credevano di dover assistere al tuo lungo e penoso tramonto… E invece sei risorto!… E sei ripartito forte, sereno, allegro ed entusiasta come la prima volta. Il mal d’Africa è inguaribile, specialmente per un missionario monfortano...Addio, caro P. Remigio! T’accompagni nel viaggio e nella tua lontana missione l’affetto e la preghiera dei nostri cuori: ti vogliamo tanto bene!”. Il 7 dicembre P. Remigio Villa salpa con la nave dal porto di Venezia. Scrive al Padre Superiore di Redona: “...Le scrivo mentre la nave costeggia la Grecia. Ho ancora il cuore pieno di riconoscenza e di commozione pensando all’ospitalità veramente squisita che il Card. Patriarca di Venezia, l'Em.mo Roncalli, usò a me ed ai miei compagni. Penso che Pio X doveva essere così. Ieri, festa dell’Immacolata, celebrai la prima Messa a bordo… il mare finora si conserva calmo; si vede che la luna fa giudizio. Andiamo verso il caldo e la luce. La vita a bordo? Finora è calma. Il Cappellano non c’è ed io parlo or con l’uno or con l’altro…”. Diario di bordo in viaggio verso il Madagascar Dalla nave scrive P. Rizzardo Omizzolo: “… Avevamo promesso di scrivervi quanto prima.. Eccoci qui a mantenere la promessa. Immaginiamo la vostra curiosità e pertanto torniamo indietro per farvi la cronistoria da momento che abbiamo lasciato Redona, il mattino del 27 novembre. 118 Abbracciati i nostri cari siamo partiti per Parigi. Il nostro soggiorno parigino è stato necessariamente un po’ movimentato per via del famoso visto che ancora non avevamo potuto apporre ai nostri passaporti per l’entrata in Madagascar… Da Parigi siamo partiti alla volta di Saint-Laurent-surSèvre e da qui per Marsiglia. Finalmente, il mattino del 3 dicembre, festa liturgica del grande missionario S. Francesco Saverio, ci siamo diretti al porto per l’imbarco sulla nave “Ferdinand Lesseps”. A mezzogiorno in punto, un colpo di sirena ha annunziato che stavamo staccandoci dal molo per prendere il largo… Al mattino seguente ci svegliammo un po’ prima del solito per un certo dondolio imprevisto, che non era certamente adatto a cullare dolci sonni...Un forte vento che agitava le onde in modo alquanto impressionante, dava alla nave movimenti alterni di beccheggio e rollio che ci fecero da insolito svegliarino… Mentre si stava a pranzando, ecco una mareggiata più forte che mai da sinistra a destra, con conseguente rotolio di bottiglie e rovinio di piatti… Nel tardo pomeriggio il vento diminuì gradatamente. Abbiamo navigato ancora tutta la notte e al mattino giungemmo a Port-Said sotto una pioggia da diluvio e un vento da bufera. Ci affrettammo a celebrare la S. Messa per poter scendere a terra e visitare la terra d’Egitto. Alla 10 la nostra nave si allineava al convoglio predisposto per infilare il famoso Canale di Suez.. Qui, cari parenti, amici e benefattori è necessario fare il punto. Dispiace anche a noi di dover rimandare ad un’altra volta la cronaca del resto del nostro viaggio…”. 119 Notizie da P. Remigio Villa in viaggio per lo Shirè Da Port-Said transita anche P. Remigio Villa; ne approfitta per spedire una lettera: “… Siamo a Porto Said, prima città africana. Quasi tutti si scende a toccare la terra ferma… A tarda notte la nave riprese il viaggio ed entrammo nel Canale di Suez. Navi di ogni dimensione s’incrociavano e lo sfolgorio delle loro luci che andavano e venivano dava la gioconda impressione di una festa. Mandai un’ultima invocazione alla Regina Mundi che domina la cattedrale di Porto Said, pensando ai milioni di infedeli che popolano l’immenso continente nero”. Il Diario di viaggio di P. Remigio Villa continua in altre lettere: “...Siamo nel Mar Rosso. Il mare è ottimo e la temperatura è primaverile. Alcuni vogliono cercare il punto preciso ove gli Ebrei passarono a piedi asciutti...Il tempo vola: pregando, chiacchierando, guardando, giocando arriva sera senza che ce ne accorgiamo”. Giunto a destinazione scrive: “… Vi scrivo queste ultime notizie dalla mia residenza provvisoria di Limbe. Ho trascorso felicemente il Santo Natale a Beira. Dico felicemente per lo spirito, perché quanto al corpo...faceva un caldo. Un caldo! Pensate che a mezzanotte fui costretto a prendere una doccia fredda per trovare un po’ di riposo! I RR. PP. Betti e Marchesi vennero a Limbe e trascorremmo insieme due belle giornate. Poi mi recai con P. Crippa a Cholo, dove celebrai il primo dell’anno. Ho già avuto modo di visitare parecchie missioni. Sono stato ad Utale dove trovai l’amatissimo Vescovo Mons. Auneau e Suor Francesca. Bisogna vederla volare in vespa…”. 120 Scriviamo dalla terra malgascia dove siamo sbarcati Dal Madagascar arriva una lunga corrispondenza dei tre nuovi missionari: “… Questa volta vi scriviamo dalla terra malgascia della quale abbiamo già toccato tre porti, in attesa di toccare domani sera il quarto ed ultimo del nostro viaggio, quello di Tamatave, dove ha sede il centro della missione monfortana”. Fedeli alle promesse fatte alla partenza dall’Italia i tre missionari inviano informazioni sul seguito del viaggio. “...Al passaggio dell’Equatore, gran festa a bordo per il battesimo dei neofiti, quelli che passavano per la prima volta la linea dell’Equatore: fra questi eravamo inclusi anche noi, che essendo persone troppo serie ci siamo tappati in camera per tutta la mattinata, sicuri della validità del nostro vero ed efficace battesimo che ci ha fatti figli di Dio. A sera però ci fu un po’ di festa nella grande famiglia navigante, ed a questa partecipammo in parte anche noi, poiché qui non si trattava più di parodie, sia pure giustificate dalle tradizioni marinare. E vi partecipammo attivamente, a richiesta di molti, cantando al microfono alcune belle canzoni italiane che P. Assolari ha pensato bene portare con sé dall'Italia… Il 20 dicembre, alle prime luci dell'alba, abbiamo finalmente toccato l’isola di Madagascar nella rada di Majunga. Se l’Africa si è presentata a noi come una terra di fate, il Madagascar ci è apparso subito come la terra dei sogni: e questo doppiamente per noi. Una vegetazione lussureggiante quanto mai, una visuale fantastica in qualsiasi direzione si voltasse lo sguardo nostro estasiato… Siamo scesi a terra per prendere una prima cognizione della terra che sarà la nostra terra d’apostolato L’ingresso nel porto di Tamatave fu per noi emozionante: stava davvero incominciando la nostra nuova vita apostolica. La residenza dei Padri non era tanto lontana dal porto tant’è 121 vero che potemmo scorgere dalla nave un confratello che stava scrutando il nostro arrivo dalla balconata superiore. Con lui scambiammo i primi saluti con lo sventolio di fazzoletti. Finalmente, espletate tutte le pratiche burocratiche potemmo iniziare lo scarico dei nostri bagagli, passare la dogana ed abbracciare i confratelli accorsi, baciare l’anello a Mons. Vescovo e ricevere la benedizione che rendesse fecondo fin dall’inizio il nostro apostolato in terra malgascia. La mattina seguente, vigilia del S. Natale, la passammo a svincolare i bagagli più voluminosi. A Natale...ci sembrava di essere a Redona, con la differenza che qui non c’era bisogno di caloriferi, ma di fazzoletti per asciugarsi il copioso e continuo sudore, pur essendo di notte… Domani, 27 dicembre, col camioncino della Procura delle nostre missioni ci avvieremo verso Mahanoro, a 247 chilometri a sud di Tamatave, dove per tre mesi avremo il piacere di ridiventare scolaretti per imparare la lingua malgascia. 30 dicembre. Siamo giunti a destinazione da 2 giorni. Resteremo per tre mesi coi confratelli anziani in attesa che ci venga assegnato il posto di lavoro definitivo Siamo partiti da Tamatave il 27 dicembre. Fu davvero un viaggio pieno di emozioni a non finire. Dopo alcuni chilometri di strada asfaltata eccoci sulla strada di terra battuta e molto in disordine. E dovevamo percorrere 250 chilometri… La prima novità del viaggio ci fu offerta da un grosso serpente, lungo circa due metri, che si godeva beatamente il sole nel bel mezzo della strada. Ci siamo passati gentilmente addosso con le ruote di sinistra e credo abbia fatta una ben triste fine...Abbiamo dovuto attraversare due grossi fiumi: per questo vi è un buon servizio di grossi zatteroni spinti da motori a scoppio e capaci di portare fino a tre macchine alla volta. Verso le 17 siamo giunti a Brikaville, dove abbiamo fatto visita ai confratelli di quella residenza. La posizione è bellissima, proprio in riva al fiume, dal quale affiorano di quando in quando coccodrilli, ragion per cui è sconsigliato 122 prendervi il bagno. Abbiamo poi proseguito per Aniverana, dove ha sede il piccolo seminario del Vicariato per il clero indigeno. Vi giungemmo al calar del sole accolto con gran festa dai buoni confratelli. Abbiamo anche pernottato in questa residenza e non abbiamo per nulla sofferto il caldo durante la notte, dormendo pacificamente… Al mattino seguente, ricorrendo la festa dei Santi Innocenti, v’è stata una buona frequenza alle Messe e alla Comunione: era commovente sentire il popolo cantare bei cantici a più voci, senza affatto scomporsi, restando ciascuno devotamente inginocchiato a proprio posto… Ripartiti, dopo più di quattro ore di corsa per una strada impossibile, che ci faceva sobbalzare tremendamente, giungemmo a Vatomandry, capoluogo del distretto, ospiti dei confratelli di quella residenza. Nel pomeriggio continuammo il nostro viaggio, passando ancora tre volte i fiumi sul solito zatterone: l’ultima volta, attendendo l’imbarco, mi sono aggirato un po’ sulla riva ed ho scorto fra l’erba una mandibola di coccodrillo, ridotta ormai alle sole ossa spolpate, ma munita ancora di alcuni denti. Naturalmente non ho mancato la bella occasione e li ho estratti per portarli, a suo ,tempo, ad arricchire il piccolo museo di Redona… L’ultima parte del viaggio fu oltremodo scabrosa, poiché la cosiddetta strada si ridusse in una semplice pista tracciata attraverso una steppa desertica molto sabbiosa, che impediva talvolta di avanzare per lo slittamento delle ruote nelle cunette si sabbia… Finalmente (è il caso di dirlo con tutta sincerità!) verso le 18 arrivammo a destinazione: Mahanoro. I confratelli ci accolsero con grandi segni di giubilo, tra la meravigliata curiosità dei fedeli, molti dei quali vennero subito a darci il loro benvenuto con calorose strette di mano. Mahanoro è un piccolo centro che conta circa tremila abitanti, di cui 1200 cattolici. La piccola proprietà della missione confina con la riva dell’Oceano Indiano, le cui acque 123 lambiscono rumorosamente il lido, non praticabile per i bagni a causa dei pescecani. Passeggiando all’ombra del colonnato superiore vediamo l’estesa azzurra delle acque e ne udiamo l’infrangersi delle onde sulla riva. Qualche volta, dopo cena, passiamo l’ora di ricreazione in riva al mare, al chiaro di luna, godendoci la brezza marina; ciò è molto bello e poetico...ma soprattutto utile, e direi necessario, dopo una giornata di solleone. Questa mattina abbiamo avuto la prima lezione grammaticale della lingua malgascia: sarà un ossicino abbastanza duro...Bisogna imparare bene questa lingua se si vuole fare dell’apostolato nei villaggi ancora pagani e per confessare i già convertiti, predicare, fare il catechismo… Speriamo di non essere da meno degli altri che ci hanno preceduto e di riuscire a masticare presto il malgascio”. Pensate: ho una magnifica vespa! Da Utale Suor Francesca scrive alla consorelle di Villa S. Maria. “...Mie care sorelle, adesso non vado più a piedi. Pensate: ho una magnifica vespa! Mi è stata regalata dai nostri studenti monfortani di Loreto. Quanto li ringrazio. Viva la Madonna! E viva i nostri generosi studenti! Il nostro ospedale vecchio è ormai troppo piccolo ed è con vera pena che siamo costretti a rifiutare tanti poveretti che vengono a chiederci ricovero piangendo… Ho appreso con la più viva commozione la notizia che ora anche la nostra Provincia Italiana avrà una missione tutta propria nell’isola di Madagascar. Sono ormai più di 25 anni che mi trovo in Africa. Come vola il tempo! Mi pare d’essere arrivata ieri e di avere appena lasciata la nostra bella Italia! In realtà quante peripezie in 25 anni! Un romanzo! Quante anime il Signore mi ha dato la 124 grazia e la gioia di battezzare in punto di morte e di farle volare in Paradiso! Pregate per me, ne ho tanto bisogno”. 125 1956 Godiamo nel sentirci missionari I più fedeli nella corrispondenza sono i Missionari del Madagascar, P. Rizzardo Omizzolo su tutti. A fine gennaio scrive da Mahanoro: “...Da due mesi siamo partiti dall’Italia e da trenta giorni ci troviamo in questa residenza missionaria, alle prese con la lingua malgascia. Il ricordo della patria e dei nostri cari è sempre, e più che mai, vivo. Ma se noi ricordiamo tutti con affetto, abbiamo avuto modo di constatate che anche tanti buoni amici si ricordano di noi. Noi siamo attualmente a Mahanoro. A proposito, volete sapere cosa significa questo nome? Sì? Mahanoro significa “che rende felice, che dà gioia”. In una località che porta un nome così significativo, potete immaginare se non siamo pieni di felicità e di gioia! Oltre a godere tutti e tre di ottima salute, godiamo del paesaggio così denso di vegetazione tropicale, godiamo della brezza dell’Oceano Indiano che spira ininterrottamente a refrigerarci, godiamo dello spumeggiare delle onde che possiamo vedere e sentire dalla nostra casa… ma godiamo soprattutto nel sentirci missionari veri in terra di missione. Tutti assorti ancora nello studio della lingua, non abbiamo occasione di fare delle puntate apostoliche nell’interno, e non possiamo quindi descrivervi con cognizione di causa gli usi e costumi delle nostre future pecorelle… Il Madagascar è chiamata spesso, e, purtroppo, giustamente, l’isola dei cicloni. Benché senza tristi conseguenze ce ne siamo accorti un po’ anche noi. Nel mese di gennaio ne sono passati già due attraverso la grande isola. Del primo abbiamo sentito parlare solo alla radio; è passato lontano da qui ed ha interessato soprattutto la costa ovest. Il secondo, proveniente dall’Oceano Indiano, era diretto verso la costa orientale. Quando si annunzia dai lontani posti di 126 avvistamento, collocati nelle piccole isole, Sechelles e Rèunione, che un ciclone è in formazione al largo, la radio nazionale di Tananarive lancia subito i primi allarmi sul pericolo incombente, dando ad ogni ora i comunicati interessanti lo sviluppo e la direzione della tromba d’aria. Anche noi, quindi, seguivamo fedelmente i comunicati con grande apprensione. Abbiamo temuto un po’ per i nostri confratelli più a nord, quando abbiamo appreso che il vento catastrofico, a 200 km l’ora, si dirigeva verso la fascia costiera fra l’isola Santa Maria e la città di Tamatave. Il ciclone ha toccato le coste di Madagascar verso le 5.30 del 26 gennaio, asportando, come venimmo a sapere dai comunicati, gli impianti elettrici e telefonici della zona colpita, senza per altro fare gravissimi danni. Noi, da qui, benché a 250 km dall’epicentro, avemmo le prove evidenti che il ciclone era giunto sulle coste, poiché un vento violentissimo che faceva piegare fino a terra i rami di grossi alberi, cominciò improvvisamente a soffiare dal mare, accompagnato da un acquazzone da diluvio. Un momento di panico, pochi minuti di apprensione… e poi tutto era già passato. Sapemmo che anche nella regione di Tamatave i guasti non erano stati gravi. Deo gratias per lo scampato pericolo! Piena fiducia nella Provvidenza divina e nell’intercessione della Madonna per il futuro”. Avete fatto strabiliare i postini di quaggiù! Durante la Settimana Santa scrive P. Alessandro Assolari. “...Con i vostri auguri pasquali avete fatto strabiliare i postini di quaggiù! Ma se i postini restarono a bocca aperta a vedere tante lettere, letterine, carte e cartoline, noi eravamo felici come tanti scolaretti messi in vacanza. Mi capirete... Uno prende una letterina dalla mamma e per cinque minuti non capisce più niente! L’altro riceve una consistente epistola dal 127 papà. E via, si parte per Verdello. Sopra il terzo cadde una vera pioggia di lettere: sono i fratelli e i cugini, sparsi per l’universo orbe terrarum, i quali si ritrovano tutti qui per la circostanza. E poi ci sono le zie e gli zii, gli amici, i quali vogliano dirti che pur essendo lontani pensano sempre a te. Quindi vengono le epistole comunitarie. Loreto è in testa. I compagni di ventura, coloro assieme ai quali avevamo percorso la via che porta al sacerdozio, ti mandano letterine dissolventi. Gli scolastici te li vedi sognare a occhi aperti. E bruciano dalla voglia di venire qui… Passata l’ebbrezza del momento… Bisogna pensare a rispondere. Alla mamma bisogna dire che dopo tutto i coccodrilli non sono poi tanto frequenti e che non si va a mettere loro un dito in bocca per tastarne i denti! Al papà si risponde affermativamente: sì, una buona pipa e un gocciolo di acqua calda combattono magnificamente la malaria, purché si abbia cura di non dimenticare la chinina o la nivachina. Agli scolastici dico: venite pure. Qui non ci si pesta i piedi: parola d’onore! Volete un pezzo di mondo? Sono felicissimo di darvelo… A tutti gli amici e conoscenti che mi hanno scritto parole tanto belle e affettuose mando un cordialissimo grazie e rinnovo la mia più calda raccomandazione: ricordatevi sempre dei mie poveri neri. Devo andare in Paradiso io e tirami dietro tutte queste anime che mi stanno intorno e ricevono dal mio sacerdozio la vita soprannaturale. Ai carissimi benefattori mando tante benedizioni quanto sono i centesimi che mi avete dato e mi darete. Continuate a mettere da parte le vostre piccole offerte, mandatele al Procuratore delle missioni che risiede a Redona e poi lasciate fare a me che le metterò a frutto il cento per uno nella Banca del Signore, l’unica che rende bene e non fallisce mai, Amen!”. 128 Sono ancora qui a Mahanoro Continua la sua corrispondenza P. Rizzardo Omizzolo. “…Sono ancora qui a Mahanoro, capoluogo di un distretto amministrativo esteso più di tutta la provincia di Bergamo. P. E. Nozza, lui, felice e contento ha raggiunto la sua destinazione a circa 140 Km più a sud, su per i monti, in mezzo a foreste vergini, abitate da un infinità di scimmie, d’ogni specie e dimensione, tutte del resto innocue. P. A. Assolari è stato destinato qui a Mahanoro, come secondo curato. Quando incomincerà le sue corse apostoliche in piroga e a cavallo, avrà da correre parecchio: pensate che dipendono da questa parrocchia ben 155 chiese e cappelle sparse in territorio di circa 120 Km di costa e per 50/60 Km verso l’interno. Quante diocesi d’Italia hanno una simile estensione? Forse solo quella di Milano, con la differenza che per tale immenso territorio qui non si dispone che di tre sacerdoti. Io sono per il momento ancora in aspettativa di destinazione. Fin dopo Pasqua Mons. Vescovo mi lascia qui per aiutare i confratelli nelle solenni cerimonie della Settimana Santa. Tanto per non perdere la ventennale abitudine, mi sono occupato del settore musicale-liturgico. I malgasci amano il canto a più voci ed è un vero piacere, a chiesa stipata, sentirli cantare con tanto gusto e devozione”. Marolambo: la mia nuova missione Verso metà maggio P. Rizzardo Omizzolo invia notizie da Marolambo, la sua nuova missione. “...Esattamente un mese fa, è cominciata per me una nuova vita. Terminato lo studio teorico della lingua malgascia ho ricevuto il momentaneo incarico di accompagnare S. E. Mons. Le Breton, nostro Vescovo, in un lungo viaggio apostolico per l’amministrazione della Cresima nel Distretto di Marolambo. 129 Il centro del Distretto dista esattamente 130 Km da Mahanoro. Nel percorso dei primi 25 Km dovemmo attraversare due grossi fiumi. A questo scopo fanno servizio fra le due sponde delle piroghe per i pedoni e dei grossi zatteroni, su barconi di ferro abbinati e spinti a motore, per il trasbordo delle autovetture. Noi siamo ormai abituati a questo sistema: ma la prima volta sembra una cosa tanto curiosa il non trovare dei ponti come in Europa. Che volete, non è facile gettare dei ponti su dei fiumi così larghi da sembrare lagune, con sponde basse, di argilla friabilissima, e che nell’epoca della grandi piogge vengono spazzate via dalla forza delle acque, che dilagano su territori immensi, asportando alberi colossali e case intere. I ponti non resisterebbero molto a lungo o bisognerebbe farli sospesi, ad arco superiore, fissandoli alle sponde ad enormi montagne di cemento armato.. Con relativa spesa di centinaia di milioni, se non di miliardi… quasi come il progettato ponte attraverso lo Stretto di Messina. Ma lasciamo andare i progetti e passiamo il fiume sullo zatterone a motore. È quanto mai interessante osservare al lavoro gli uomini addetti all’abbordaggio e all’imbarco. Saltano nell’acqua come ranocchie, immersi talvolta fino alla cintola… Superato l’ostacolo delle acque, ecco quello non meno difficile dei monti. Inoltrandosi verso l’interno dell’isola non avremmo trovato che dei monti senza fine. Nel primo tratto il tracciato della strada era discreto, ma poi, man mano si avanzava, il fondo si faceva sempre più scabroso, seminato di grosse pietre, di buche impantanate che facevano slittare la macchina a destra e a sinistra. Per fortuna la vegetazione della foresta dalla parte del pendio era così fitta che sarebbe stato molto difficile andare lontano se per disgrazia la macchina fosse scivolata verso valle… Controllando la scorta di benzina mi accorsi che era calata non poco su quelle terribili salite, ed ebbi il timore che 130 con quanto ce ne restava non saremmo probabilmente arrivati fino alla meta. Ce la faremo? Non ce la faremo? Dilemma grave in mezzo a monti e foreste… Così, col cuore sospeso, continuammo il nostro viaggio, inerpicandoci fino a 900 metri di altitudine, al valico più elevato del nostro tragitto. La strada, a partire da qui, accennava a scendere verso valle. Meno male! Ma venne a mancare la benzina a soli 18 Km dalla meta… A Marolambo ricevo la conferma che sono destinato definitivamente a questa residenza missionaria. Mentre la “tournée” del Vescovo, accompagnato dal Superiore locale, continuava senza sosta, io sono sceso con la jeep a Mahanoro a prendere definitivamente i miei bagagli, e sono risalito quassù dove si sta veramente bene. L’aria è fresca e pura: le zanzare sono quasi del tutto sconosciute. Mi sembra di essere tornato in quel di Bergamo a predicare in una della magnifiche valli orobiche. Dalla mia finestra godo un panorama che mi fa pensare alla Valle Imagna o Brembana: manca però la visione dei paesi sparsi numerosi sul pendio dei monti o sulle cime, e non vedo che monti coperti da foreste; mancano le belle chiese bergamasche, gli alti campanili e i rintocchi maestosi si numerose campane… Alla fine del mese di maggio, o ai primi di giugno, inizierò una lunga perlustrazione nella parte più selvaggia ed impervia del distretto. Sarà per me una magnifica iniziazione apostolica nel più autentico senso della parola, e una splendida occasione per apprendere la lingua viva degli indigeni, che differisce non poco da quella appresa stentatamente sui libri… Cavaliere errante per Cristo per monti e foreste Dopo questa esperienza di “cavaliere errante di Cristo per monti e foreste” P. Rizzardo Omizzolo riprende la sua corrispondenza. “...Ora posso dire d’aver vissuto veramente un mese di piena vita apostolica, con le sue fatiche, le sue emozioni e le 131 sue consolazioni. Partito l’8 giugno, festa del Sacro Cuore, sono rientrato alla base solo ieri, 9 luglio: trenta giorni esatti di scorribanda a cavallo e a piedi, in continui saliscendi su per i monti, in fondo alle valli, sugli altipiani e attraverso foreste vergini, con un percorso di circa 500 chilometri. Non si dimentichi che in questi territori di missione una residenza missionaria abbraccia l’estensione di un’intera diocesi italiana.. moltiplicata due o tre volte. È già bello se, con tutta la buona volontà, possiamo visitare tre o quattro volte all’anno ogni piccolo centro di culto cattolico. Contiamo infatti, alle dipendenze di questa residenza missionaria, ben 147 fra chiese, cappelle e centri di preghiera. Ma veniamo a noi. Innanzitutto è necessario che vi presenti i componenti della spedizione apostolica: due sacerdoti missionari, due accompagnatori, quattro robusti portatori per i nostri pesanti bagagli e infine tre personaggi molto importanti, benché appartengono al regno animale: due magnifici cavalli e “Boby”, il fido cagnolino, compagno di tutte le nostre avventure e disavventure, cacciatore di faraone selvatiche, all’occorrenza anche di galline domestiche, ma soprattutto dei molesti topacci notturni che infestano tutti i villaggi. L’8 giugno, sellati i cavalli e disposti i bagagli, la colonna si mosse col saluto e la benedizione del Superiore. Ma dopo breve percorso, eccoci dinanzi ad un grande fiume. Gli uomini ed i bagagli passano in piroghe ed i cavalli, liberati della sella e tenuti a briglia allungata a fianco delle imbarcazioni, passano felicemente a nuoto.. Risellati i cavalli, incominciamo l’irta salita dei monti. Dopo due ore di marcia giungiamo in vista del primo villaggio: Ambalaherana. Una deputazione di fedeli ci corre incontro per darci il benvenuto tradizionale e ci accompagna cantando fino alla capanna che ci è stata assegnata per abitazione. I due missionari e gli accompagnatori sono invitati a consumare il frugale pasto serale consistente in riso bollito 132 senza sale e qualche pezzetto di pollo semplicemente bollito in acqua salata. Come bevanda acqua di riso, ottenuta gettando dell’acqua nel recipiente ancora rovente in cui è stato cotto il riso. La parca cenetta è consumata per terra, seduti a gambe incrociate sulla stuoia che ricopre tutto il pavimento. …E giunse anche per noi, dopo la prima faticosa giornata, l’ora di un meritato riposo. Adattati i nostri giacigli non ci restò che stenderci sopra e avvoltolarci nelle due coperte di lana portate ad seguito col bagaglio”. La storia di Vincenzo. Ragazzo handicappato P. Alessandro Assolari chiede una carrozzella per Vincenzo, un ragazzo handicappato. Quella di Vincenzo è una storia commovente. Frequenta la scuola maschile della missione con una novantina di altri alunni, pagani nella stragrande maggioranza. “… Se non frequentassero la scuola cattolica, con tutta probabilità non verrebbero mai a conoscenza della nostra religione. Così, mentre imparano a leggere, scrivere e fare i conti, hanno modo di conoscere Gesù. A scuola si prega e si fa un’ora di catechismo ogni giorno. Dovreste vedere come sono simpatici questi monelli indiavolati. Tra essi ci è anche Sambany. Ogni mattina arriva a scuola. Ma lui non può correre come gli altri perché una terribile malattia infantile gli ha deformato i piedi e gli ha tolto la possibilità di reggersi dritto. Viene a scuola carponi. Piova o faccia sole, Sambany non manca una sola volta in classe. È intelligente. Legge e scrive correntemente. Quando si tratta di fare i conti bagna il naso a tutti i compagni. A scuola ha fatto il più bell’incontro di tutta la sua vita: ha incontrato Gesù. Ha imparato a pregare ed ha potuto apprendere il catechismo. All’esame si è fatto onore ed è stato ammesso al Battesimo”. 133 Sono sottoposto a continue marce forzate P. Emilio Nozza. “… Vi scrivo questa lettera in una casa di Ambinaninandrano, in alta montagna. La scrivo sdraiato per terra, accanto al fuoco che i malgasci tengono acceso per riscaldarmi. Domani proseguirò la salita fino alle sorgenti del fiume Sakaleone che voglio visitare perché presentano alla vista una grande cascata di 300 metri. La cascata è la più grande del Madagascar. Sono arrivato qui, ultimo paese della vallata del Sakaleone, dopo un giro contorto, attraverso i monti che separano la mia missione da quella di Marolambo. Sono continue marce forzate che mi danno la gioia grande di far nascere nuove cristianità. Ci sono molti paesi sperduti su questi monti, paesi di 60/100 abitanti, distanti dalle due alle quattro ore di marcia, collegati da sentieri poco battuti che passano tra foreste e rocce, quindi non praticabili a cavallo. Questi paesi attendono da anni il missionario senza mai averlo. Il paese di Abelanbinana che ieri si è aperto al cristianesimo, da tre anni non vedeva transitare il missionario. Il paese di Ambinaninandrano, dove mi trovo, ha visto passare due missionari nel 1949: li ha visti solo passare, perché si recavano alle sorgenti del fiume per visitare le cascate. Questo dimostra il bisogno che abbiamo di missionari. Certo, non si può pretendere una mentalità cristiana in questa buona popolazione. È gente semplice che si aggira contenta e libera tra queste foreste. Un pugno di riso a mezzogiorno e a sera, uno straccio unto e bisunto che li ricopra: tutto questo li rende superiori a qualunque ricchezza, anche all’oro che qui vicino si nasconde in quantità. Se è gente semplice e quasi primitiva è anche gente eminentemente tradizionalista, attaccata al culto degli avi, al sacrificio che compiono per chiamare a raccolta tutti gli spiriti dei trapassati, erranti lontano dal loro paese. Per un po’ di anni mischieranno tutto assieme, cristianesimo e culto pagano. 134 Pazienza! Ma poi, con le nuove generazioni è lecito sperare anche una mentalità veramente cristiana. Per ora mi posso dire soddisfatto, perché alla base di questa ricerca ed accettazione che fanno del missionario c’è un atto di amore alla nostra religione e quindi l’inizio della vera amicizia con Dio. Ho l’impressione che questi paesi si aprano al regno di Gesù perché c’è la Vergine SS. che vi prepara i cuori. Non sarò un monfortano esemplare ma cerco di invocare la nostra Madre nell’avvicinarmi a questi villaggi, affinché Essa prepari i cuori al regno di Gesù che vi penetra per opera del missionario. Attendo i nuovi missionari, sperando di averne uno con me. Speriamo ne vengano anche l’anno prossimo, perché noi italiani saremo grandemente utili alla Chiesa del Madagascar nel prossimo avvenire…”. Nuovi arrivi dall’Italia I nuovi missionari attesi da P. Emilio Nozza sono P. Carlo Berton e P. Pietro Valsecchi. In ottobre ricevono il Crocifisso dalle mani di Mons. Maggi. “...Durante il discorso anche gli occhi dei due missionari s’imperlarono di lacrime… non di dolore, ma di gioia. Finalmente il sogno di tanti anni si era avverato!” Imbarcati sulla nave “La Bourdonais”, a Marsiglia, inviano notizie sul loro viaggio. “...Nel pomeriggio del 15 ottobre, a Redona, come sapete, davanti a quella stessa Regina dei Cuori che ci vide apostolini, abbiamo ricevuto dalle mani di Mons. Maggi il Crocifisso, simbolo e strumento del nostro apostolato. Nell’abbraccio di addio ai confratelli ci siamo sentiti degli onorati prescelti dalla Regina delle missioni per essere i testimoni del suo Divin Figlio fino agli estremi confini della terra. 135 Nella mattinata della Commemorazione di tutti i defunti saliamo a bordo della “Bourdonnais”. Siamo nella cabina 231, a 4 posti, ma la occupiamo in 3. Dovremo fare il periplo dell’Africa a motivo della guerra sul Canale di Suez. Per fortuna la Compagnia Marittima non ha chiesto il supplemento al prezzo del biglietto, altrimenti… poveri noi! A pochi chilometri da Marsiglia il mare, già mosso, cominciò a fare il matto. Una vera tempesta! Cominciò il mal di mare. Povero stomaco! A cena la sala è deserta. Neanche a letto si aveva pace. Si ruzzolava picchiando ora la testa ora i piedi contro le sponde del lettino. Così tutta la notte. Naturalmente il giorno 3 niente Messa. Per fortuna verso mezzogiorno tutto tornò calmo. Il pomeriggio del giorno 4 urlano le sirene. Ci si raduna sul ponte per pericolo di naufragio:… è solo una prova! Alla sera si passa lo Stretto di Gibilterra e si entra nell’Atlantico perfettamente calmo…”. Magomero: mia nuova missione In questo stesso periodo scrive P. Tarcisio Betti. “...Tre anni fa dovetti lasciare ippopotami e coccodrilli del lago Nyassa per venire a Zomba e l’anno scorso, in ottobre ho lasciato Zomba per Magomero, lungo le rive del fiume Namadzi, che fa confine col vicariato di Blantyre. La missione di Magomero è iniziata per alleggerire un po’ la missione di Zomba. I cristiani sono circa diecimila, distribuiti in mezzo a pagani e protestanti di parecchie denominazioni”. Diario di viaggio a bordo della nave Arrivano nuove notizie del viaggio in nave di P. Carlo Berton e di P. Pietro Valsecchi: “...Stiamo viaggiando con una nave di recente costruzione. Ha 150 m. di lunghezza e 20 di larghezza. In una giornata può percorrere 408 miglia, cioè 775 chilometri; supera 136 di poco la mezza velocità della nostra scomparsa “Andrea Doria”. Tutti i passeggeri, con il personale, raggiungeranno le 500 persone. Vi sono tutte razze. Un vera arca di Noè. C’è stato riferito esserci a bordo un pastore protestante, ma non siamo riusciti ad individuarlo. Credevamo che il caldo andasse aumentando gradualmente mentre scendevamo i paralleli, invece ci fu un continuo aumentare del freddo. Tirava un vento fortissimo dal Sud. Grazie a Dio il nostro stomaco è allenato e non soffre alcun disturbo… Al mattino, sempre molto presto, celebriamo la S. Messa nel salone del bridge, dove, aprendo un armadio, appare un altare. La domenica, invece, si celebra nel più grande salone per i passeggeri. I missionari qui sulla nave sono benvoluti. Il P. Carlo Berton è scambiato per un originario francese ed il P. Pietro Valsecchi per un oriundo polacco, così che il suo nome varia tra Wanski e Walenski. Chi sa poi come lo chiameranno i malgasci! Superiamo il Capo di Buona Speranza con un tranquillissimo “mare delle tempeste”. Dal Capo fino a Durban s’incomincia finalmente a sentire il caldo sole africano. Persino i pesci se la godono. Qualche pescecane mostra la sua testa poco rassicurante. Più simpatici i delfini ed i caratteristici piccoli pesci volanti che nella mattinata escono a frotte dall’acqua. L’alba del 24 novembre illuminava la costa verdeggiante della “grande isola”. Il cielo tersissimo e il mare di un azzurro intenso palpitavano della stessa gioia del nostro cuore fremente di commozione nel porre piede sulla terra del nostro apostolato, nella patria elezione: il Madagascar Il 27 novembre, festa della Medaglia miracolosa, a tarda sera, sotto un diluvio d’acqua, sbarchiamo a Tamatave. I confratelli francesi che ci aspettavano al porto ci accolgono fraternamente nelle residenze di S. Joseph, accanto alla 137 cattedrale. Un incontro assai gradito è quello con le tre suore italiane qui a Tamatave: Sr. Ernestina, Sr. Rosa e Sr. Agnese. Altrettanto quello con il simpaticissimo Fr. Francesco. Il 5 dicembre sera siamo finalmente a Mahanoro. Ci sono i padri ad aspettarci, e particolarmente gradito un padre italiano, P. Alessandro Assolari. Abbracci ed esclamazioni in tutte le lingue. Finalmente siamo arrivati alla casa che ci sarà di dolce dimora sicuramente per almeno tre mesi, finché saremo padroni della lingua malgascia e spiccheremo il volo verso la foresta”. 138 1957 Le difficoltà degli inizi P. Rizzardo Omizzolo racconta il suo primo Natale missionario. “...Sarebbe perlomeno strano se nelle grandi solennità liturgiche i Padri missionari se ne stessero pacificamente al centro residenziale a godersi le belle cerimonie in una grande chiesa, che darebbe l’illusione di essere in Europa, con grande soddisfazione personale e direi quasi egoistica… benché di ordine spirituale. Vi pare? Quando vi sono tante cristianità sparse fra le foreste dei monti, che attendono la gioia d’avere il Padre fra loro per accostarsi ai Sacramenti e cantare le lodi del Signore… Fu per questo che a me venne assegnato il capoluogo di Cantone di Ambohimilanja, a circa quaranta Km. da Marolambo. La partenza avvenne il 22 dicembre. La giornata era splendida e il sole dardeggiava come si conviene in questa estate sub tropicale. Niente paura: ormai sono abituato a queste faticose cavalcate, che hanno del resto sempre un’attrattiva speciale… Come Dio volle, cotto dal sole e madido di sudore giunsi a destinazione. I cristiani del luogo mi attendevano sulla piazzetta del villaggio, assieme ai mie due portatori, che presero subito in consegna la cavalcatura. Alla capanna riservata agli ospiti di passaggio mi fu servito un frugale pasto, tanto più delizioso in quanto condito… da ottimo appetito. Un discreto pagliericcio steso sul pavimento accolse le mie stanche membra per un meritato riposo. E poi incominciò il lavoro missionario: le confessioni dei cattolici del luogo, desiderosi di fare la comunione fin dall’antivigilia di Natale. Coi mezzi più semplici mi sono messo all’opera per l’allestimento del presepio. Alla vigilia del Natale, prima di mezzogiorno tutto era terminato, con grande meraviglia di una frotta di piccoli e grandi che non si stancavano di ammirare le 139 belle statuine, soprattutto i Re Magi di color cioccolato… che potevano benissimo passare per malgasci. Ero felice della mia opera, destinata a far colpo a mezzanotte, al fioco chiarore dei moccoletti di cera vergine. Ma ohimè! Non ero stato abbastanza previdente. Ma chi poteva prevedere ciò che sto per dirvi?… Sono cose che capitano davvero solo qui in terra di missione. Dovete sapere che, come fondo sul piano del tavolo su cui era disposto il presepio, avevo steso uno strato di pula di riso in sostituzione della paglia. Non l’avessi mai fatto! La baracca di legno a giunchi sconnessi che serve di chiesa, aperta a tutti i venti, senza porta… fu invasa da una frotta di galline, attirate senza dubbio dall’odore della pula. Quelle bestie maleducate saltarono sul presepio e, razzolando allegramente fra i minuscoli personaggi di gesso, mi combinarono un mezzo disastro: tanto che la Madonna ne uscì addirittura decapitata! Fu una buona donna che venne a darmene il triste annunzio, esterefatta. Corsi subito alla chiesetta, in compagnia del cane lupo, deciso ad acchiappare almeno una delle colpevoli e farla finire in pentola. Ma le male bestie, appena videro apparire il cane al loro inseguimento, se la svignarono lestamente per gli innumerevoli pertugi delle pareti di giunchi.. La lezione mi servì e pensai cosa prudente avvolgere tutto il presepio con tovaglie e lenzuoli, fino all’ora dello scoprimento alla Messa di mezzanotte. Ma i guai del presepio non erano ancora cessati… All’ora stabilita per la celebrazione vennero a chiamarmi. Al chiarore di lumini a petrolio raggiungemmo la chiesetta stipata all’inverosimile. Confessai gli ultimi arrivati e diedi gli ultimi ritocchi alla povera decorazione dell’altare. Quando, cinque minuti prima della mezzanotte scoprii il presepio m’accorsi che nuovi devastatori lo avevano invaso: i topi, dei quali le tracce erano inconfondibili. Questa volta si trattava di semplici spostamenti e rovesciamenti di statuine senza alcuna rottura. Tutto fu ben preso riordinato, ad allo scoccare della 140 mezzanotte si diede inizio alla devota cerimonia con un canto natalizio… Alla Messa di mezzanotte seguì quella dell’aurora, seguita con la preghiera e con canti natalizi. Quando uscimmo di chiesa avevamo tutti un’aria commossa e una grande gioia nell’anima: la pace annunziata a Betlemme dal coro degli angeli. Il cielo s’era intanto rischiarato dai nuvoloni e splendevano magnifiche le stelle: e credo che fra quelle più rilucenti fosse davvero riapparsa quella meravigliosa che condusse i Magi alla culla del Dio Bambino…”. Stiamo a vedere cosa succede… Dalla loro nuova patria si rifanno vivi P. Carlo Berton e P. Pietro Valsecchi. Parlano dell’accoglienza avuta dalle gente di Mahanoro. “...Un po’ perplessi stiamo a vedere cosa succede. Inizia un bel coro… un canto malgascio eseguito a chissà quante voci. Terminato, avanza un catechista che ci legge un complimento. Ecco qualche pensiero: Siate i benvenuti a Mahanoro, rev. Padri. Noi sappiamo che è per nostro amore che voi non avete esitato ad abbandonare il vostro caro paese natale, i vostri genitori, i vostri amici, per venire a soccorrerci. Vi auguriamo che vi adattiate bene al clima malgascio e che il vostro stomaco delicato non abbia a rifiutare né la maioca, né il bredes, né le cavallette. La nostra risposta fu tradotta poi dal francese in malgascio dallo stesso catechista che era un fedele interprete. Ma non è finita: dopo i soliti battimani che coronano ogni discorso, ecco un altro cristiano farsi avanti con nelle mani una busta: “Accogliete questa piccola offerta come omaggio del nostro profondo rispetto”. Era il frutto di una colletta organizzata e compiuta spontaneamente da loro. Ci sentiamo sinceramente commossi. Vedere davanti a noi quei poveri malgasci con dei sentimenti così delicati e 141 ripieni di amore; quelle facce patite, con i segni della sottoalimentazione sul viso, che, spinti da nessuno preparano e presentano una offerta ai nuovi missionari, come primo segno di una preziosa ospitalità. Tutto ciò ci ha colpito... I festeggiamenti non sono ancora finiti: è il turno dei ragazzi della scuola della missione. Quando ci vengono a chiamare i ragazzi sono già schierato sul prato. In testa portano un turbante di cartone, nella destra una piccola lancia e nella sinistra un minuscolo scudo. Iniziano con i canti… seguono le danze,,, completano le marce al ritmo di un tamburo improvvisato: un bidoncino vuoto su cui si legge distintamente “Mobil Oil”. Ma non è finita. Da veri e autentici ragazzi, essi ci hanno preparato su un bella tavola ciò che essi apprezzano di più: riso, uova, banane, due lunghe canne da zucchero, mango, lecci, ananas. Nella lingua malgascia, Mahanoro significa “che rende felice”… e noi siamo felici non solo di portare a questi popoli la luce della Verità e della Vita, ma di trovarci tra un popolo tanto vicino al regno dei cieli, perché piccolo, semplice e spontaneo”. Non possiamo che essere riconoscenti... P. Alessandro Assolari scrive ai lettori de “L’Apostolo di Maria”: “… Se è vero quanto si dice, parrebbe che le lettrici e i lettori de “L’Apostolo” s’interessano visibilmente alla sorte dei monfortani italiani in terra malgascia. E noi non possiamo che esservi riconoscenti. P. Omizzolo vi ha spedito ogni sorta d’informazioni concernenti il viaggio, prime e seconde impressioni, costumi e lingua malgascia, ecc. Finché siamo stati assieme qui a Mahanoro noi, P. Nozza ed io, l’avevamo eletto deputato per queste faccende. Poi venne l’esame di qualificazione malgascia e con esso la diaspora: come sapete, 142 uno ad ovest, uno a sud ed uno in loco. Ad ognuno una bella porzione di vigna. Dunque oggi dovrei raccontare quanto ho fatto e tutto ciò che mi è capitato dal momento della diaspora in poi. È una faccenda seria e un tantino complessa, anche perché io non ho la stoffa del regista che sa cogliere e filmare solo quanto è meritevole d’essere visto. Ma non voglio andare per le lunghe, per cui, attenti, si gira e si parte. Non sto a dire la trepidazione e la commozione che avevo in cuore al momento della partenza per il primo viaggio missionario. Avevo cercato di pensare a tutto. Il mio Superiore, buon papà, mi aveva ben provvisto di consigli altamente pratici. Aveva messo a mia disposizione i suoi 23 anni di vita in terra malgascia. Dovevo recarmi ad una quarantina di chilometri da Mahanoro. I cristiani stavano ad attendere da un paio d’ore. Saluti, canti e grida di gioia. Ero proprio commosso. Il programma della giornata si svolse regolarmente Non ci sarebbe proprio nulla da notare per i primi giorni. Vi dirò solo che quando si trattò di conversare con i cristiani e con i catecumeni, vi assicuro che sentivo un frescolino giù per la schiena… Ci capivo ben poco! Giunto a sera avevo una voglia d’imprecare contro qui tali della torre di Babele… Questa è la storia degli inizi. So bene che sono cose noiose, ma che ci potevo fare io? Dopo tutto sono stato io ad avere la peggio. Il mio primo viaggio missionario durò precisamente 15 giorni. Avevo visitato 15 cristianità. Risultato? Se qualcosa di bene è stato fatto, è scritto nel diario del buon Dio. Tradotta in cifre questa tournée non sfigura troppo: una quarantina di battesimi, parecchie confessioni e comunioni. Soprattutto ho potuto constatare con i miei occhi quanto sia urgente il problema del personale missionario, e come restino paurosamente attuali le parole di Gesù: “La messe è molta e gli operai sono pochi”. 143 Potremmo raddoppiare con molta facilità il numero dei cristiani. Potremmo dare una formazione molto più profonda ai nostri battezzati, se fossimo più numerosi. Vi rendete conto che due missionari e due cavalli devono percorrere un territorio che, in estensione, dovrebbe essere il doppio della Provincia di Novara? Noi missionari forse abbiamo la faccia dura e il cuore di pietra. Eppure non so dire quanto dolore provai allorché, passando per un villaggio, vidi venirmi incontro gli anziani per chiedermi che mi fermassi tra loro tutto il giorno. Non potevo. Ero atteso in un altro villaggi, ad un’ora di viaggio. “Prendi almeno questa pollastrella e questo riso, e non dimenticarti di noi. Iddio ti protegga sempre”. Ringraziai. Strinsi la mano ai grandi e ai piccini e ripresi la strada. Avevo un nodo alla gola”. La mia prima tournée missionaria P. Emilio Nozza invia notizie sulla sua prima tournée missionaria. “… Voi sapete che lo scopo del missionario è di portare Gesù in tutto il mondo, in tutti i villaggi, in tutte le capanne, in tutti i cuori ancora pagani: ebbene la missione di Ambodilafa si presenta dinnanzi alla penetrazione missionaria come una terra ancora vergine. È un grosso paese di 4000 abitanti, 300 dei quali cattolici, dista 400 Km. da Tamatave ed è posta a 400 me di altitudine. È la punta estrema del nostro Vicariato, verso il sud-ovest dell’isola. Giunto ad Ambodilafa a piedi, trascorsi i primi 10 giorni a vangare, piantare fagioli e pomodori, perché altrimenti si è costretti a tirare la cinghia. Poi col Superiore partii per la visita ai villaggi cristiani: scarpe a spalla e via, su e giù per colline e montagne, attraverso risaie, foreste e torrenti. Ogni quarto d’ora ce n’era uno da attraversare. 144 Dopo una settimana tornammo alla base, poi, trascorsi due o tre giorni, ci separammo: “P. Nozza, parti, arrangiati e cerca di combinare qualcosa per il Signore!”. Così ci separammo: il P. Superiore a Soavina ed io ad Ampasinambo. Feci sellare il cavallo e via… per la prima volta solo, per la prima volta a cavallo, per la prima volta verso una regione ed una popolazione che non conoscevo, senza neppure possedere la lingua… Passo attraverso montagne, foreste, abitate solo da tre o quattro piccoli villaggi. Io amo molto la poesia e vi assicuro che quando mi sento stanco, il passaggio nelle foreste tra il gorgoglio dei torrenti è per me un riposo ed una gioia. Si può essere missionari e poeti? Altroché! Dopo 33 Km. Arrivai a destinazione, accolto dai cristiani e dal Governatore. Tutti cantavano a squarciagola. Visitai la chiesa, assai bella, anche se costruita con nervature di foglie d’albero. Due giorni dopo incominciai a piedi la visita dei villaggi per l’esame di catechismo, prima della Cresima. Venti giorni di marcia, durante i quali non ho visto che riso, riso, sempre riso… per una decina di giorni ebbi in attivo sulla schiena molti acquazzoni. Vi assicuro che su questi sentieri ci si può sentire felicissimi, durante la marcia, pur tenendo nella destra la corona del Rosario e nella sinistra una foglia di banana per proteggere la testa dalla pioggia. Comunque sia, con questa prima visita alle cristianità, alle quali parlavo in francese e il mio catechista traduceva in malgascio, ebbi una prima visione del mio campo di apostolato…”. Non ci sono notizie allarmanti sulla mia salute A metà aprile P. Remigio Villa invia notizie dalla missione di Limbe: “… Buona e Santa Pasqua a tutti! Prendo un minuto di respiro tra due ritiri pasquali, per mandarvi i miei auguri e per 145 darvi qualche notizia del nostro ministero missionario e della vita ordinaria. Giacché qualcuno ha sentito notizie allarmanti sulla mia salute, posso tranquillizzarvi dicendo che se anche non ho più vent’anni, pure penso che faccio il lavoro di quell’età e senza troppo stancarmi. Comunque, conto sempre sulle vostre preghiere indirizzate alla Madonna della salute. Ne abbiamo un po’ tutti bisogno. La Quaresima è la stagione più bella, non solo liturgicamente, ma anche per la natura e il clima nel Nyasaland. Ma soprattutto, bisogna ammetterlo, i nostri cristiani la sentono nel profondo del cuore. Fanno dei bei chilometri per assistere alla Messa, e fanno dei veri sacrifici per partecipare alla Settimana Santa. Se avessimo sacerdoti in numero sufficiente, potremmo riempire la Cattedrale e le chiese succursali a parecchie riprese. Il giorno delle Ceneri la folla era tanta che dovetti fare la cerimonia all’aperto, e, naturalmente non ho potuto confessare tutti. In questi giorni di fervore generale siamo presi dalla mattina fino a tardi. La Messa termina verso le 9 e mezza. Alle dieci: Via Crucis e predica. A mezzogiorno: predica ad una parte dei ragazzi. Alle 13 altra predica e benedizione. Poi si continua a sistemare i casi dei cristiani o pagani che si presentano. Alle 17: Rosario, predica e preghiera della sera. Insomma, si è presi davvero tutta la giornata. Alla sera il tempo per il breviario. Pregate tanto e poi tanto per me e per la mia missione. C’è tanto da fare che non si sa come fare tutto lo stretto necessario…”. In Madagascar squilli di risurrezione! Arrivano “squilli di Resurrezione” anche dal Madagascar. Ad inviarli dalla foresta malgascia è P. Carlo Berton. 146 “...Terminato il breve corso di lingua malgascia a Mahanoro, ai primi di aprile partii per la mia prima missione. S.E. Mons. Le Breton mi destinò ad Ilaka. Mi trovo, quindi, a nord, rispetto ai confratelli italiani ed a circa 250 Km. da P. E. Nozza, internato tra le montagne del sud. Qui, dicono i vecchi missionari barbuti come Matusalemme, i giovani non hanno diritto di parlare di cavalcate, finché non abbiano superato i 100 Km.. Avendoli abbondantemente superati, posso scrivere anche su questo argomento. Assieme ad un altro missionario dovevo internarmi nel territorio per raggiungere un villaggio tra le montagne, posto all’incrocio di due vallate. Partimmo il Venerdì Santo. Attraversammo luoghi splendidi e pittoreschi. I cristiani del villaggio non erano molti al nostro arrivo. Motivo: la fame. Il riso dell’ultimo raccolto era finito e adesso non c’era più nulla da mangiare. Come avrebbero potuto venire le famiglie più lontane, senza un chicco di riso per sfamarsi? La mancanza periodica del riso è una delle piaghe più visibili del Madagascar. Un territorio grande due volte l’Italia non sfama i soli 4 milioni e mezzo di abitanti… Il mio primo lavoro fu quello di ordinare la chiesa, per renderla il meno indecente possibile, onde celebrare la sacre funzioni. Si aggiustò la tavola che fungeva da altare e presi tutti i moccoletti di cera, e fusili insieme se ne fece un candelotto che nelle intenzioni doveva essere il cero pasquale. Cominciammo, poi, a preparare le anime. Mentre il mio confratello faceva gli esami di catechismo ai catecumeni, io ascoltai le confessioni dei fedeli. Seduti sopra un’assicella, in un angolo della chiesa, una piccola parte di giunchi mi separava dai penitenti. Ogni tanto, non so se dipendesse dal fervore del penitente, dovevo appoggiarmi forte con la spalla alla piccola parete per non vedermi venire addosso e la parete e il penitente. 147 Quando scesero le tenebre, iniziammo la funzione. Alcune candele e una lampada a petrolio illuminavano la chiesa. Mentre io celebravo, l’altro padre dava ogni spiegazione in malgascio. L’assemblea, in un silenzio impressionante, seguiva ogni cerimonia: la benedizione del fuoco, del cero, i battesimi ed anche un matrimonio. Lo sposo, essendo l’unico che sapesse servire la Messa, lasciò la sposa e venne all’altare ad aiutarmi, vestito da chierichetto… Conclusa la celebrazione, usciti di chiesa, i cristiani si disponevano a gruppi, fuori della capanne e continuavano ad eseguire le arie di Pasqua. Nel buio della notte lungo la vallata echeggiavano gli squilli della campanella ed i canti dei cristiani…”. Come si fa ad avere pace quando... Continua la corrispondenza di P. Alessandro Assolari. “...La nostra vita di missionari è caratterizzata da continui viaggi, sempre interessanti, perché solo così si possono raggiungere delle anime, le quali, diversamente non verrebbero mai a contatto con la fede cristiana. La frequenza dei passaggi del missionario dipende dalla vastità del territorio e dal numero dei padri. Noi qui a Mahanoro possiamo sì e no vedere 3/4 volte l’anno le nostre cristianità. È durante questi viaggi che proviamo le gioie più intime e i dolori più profondi. Si viene a sapere di certi catecumeni morti senza il battesimo. Come si fa ad avere pace quando si viene a sapere che due, tre, quattro bambini sono stati portati via dalla morte senza essere stati lavati dall’acqua rigeneratrice! Poveri frugoletti, non avranno mai la gioia del Paradiso! E allora noi missionari siamo presi da tanta tristezza e proviamo tanta invidia per le cristianità europee, le quali hanno la grazia di Dio a portata di mano e non se ne rendono conto e non l’apprezzano in tutto il suo valore. Quanti sacerdoti in Italia! Se noi avessimo potuto passare solo una o due volte in 148 più, penso che a questo momento ci sarebbero tanti angioletti in più in Paradiso…”. Notizie sulla storia della missione di Ilaka P. Carlo Berton racconta come è nata la sua missione di Ilaka. “…A circa 180 Km. a sud di Tamatave e a 6 Km. dalla costa dell’Oceano Indiano, sorge Ilaka. Le capanne e alcune costruzioni europee si allineano sulla sponda sinistra del fiume Manampontsy. Per gli amanti di filologia, Ilaka è il nome di un albero malgascio e la denominazione Est è posta per distinguere il villaggio da un altro omonimo situato nel territorio dei Retsilao. L’evangelizzazione di Ilaka non è tanto lontana nel tempo. La prima S. Messa fu celebrata qui 36 anni fa, precisamente il 14 agosto 1921 dal P. Vincent Cotte, premostratense. Questo padre, sceso da Vatomandry, si fermò a lavorare assai in questo paese. Con l’aiuto dei primi catecumeni portò a termine la costruzione di una chiesa in legno con accanto una baracca per il missionario di passaggio. L’opposizione dei pagani, specie all’inizio, fu tenace. Proprio nel prato accanto alla chiesa, venivano a eseguire balli e gazzarre indiavolate. Queste piccole scaramucce di Satana non impedirono la crescita dei numero dei cristiani. Costoro seppero mostrasi generosi nelle necessità del missionario. Nei primi mesi del 1947 scoppiò la rivolta malgascia. Il movimento era in tutta l’isola, ma si manifestò apertamente solo nella costa orientale e quasi esclusivamente nella grande tribù Ritsimisaraka. Il movimento d’insurrezione era analogo a quello dei Mau Mau: cacciata dei bianchi e ritorno alle pratiche ancestrali. Il periodo cruciale si ebbe da aprile a luglio 1947. Orde selvagge, aizzate dagli stregoni, scorrazzavano un po’ ovunque sulla costa, dando la caccia al bianco. Già erano state le liste dei missionari condannati a morte. Le residenze 149 missionarie isolate vennero abbandonate e i missionari si rifugiarono nei grandi centri protetti dalle forze dell’ordine. Ilaka era uno dei centri dei capi ribelli. Della chiesa e della baracca dei missionario non rimase che un cumulo di cenere. C’è stata la caccia ai cattolici e fu vietata qualsiasi manifestazione religiosa. Spento il fuoco della persecuzione e scossa la cenere della paura, i cristiani rifecero la loro comparsa. I Padri Monfortani ritornarono a visitare la popolazione e ad incoraggiare i fedeli. Il numero crescente dei cattolici e dei catecumeni impose una residenza fissa di missionari. Così nel 1950 i cristiani di Ilaka ebbero la gioia di avere nel loro villaggio in maniera stabile i missionari”. Storie di avventure missionarie Di avventure missionarie parla anche P. Alessandro Assolari: “...Non molto tempo fa, alla fine di un lungo viaggio missionario, mi fermai a Masomeloka, da dove avrei dovuto proseguire alla volta di Mahanoro. In seguito ad un contrattempo dovetti restare due giorni ad attendere insieme ad un confratello. La casa (!) di Masomeloka è abbastanza famosa per i suoi topi. Anche i più abituati devono aspettarsi ogni notte qualche ora di sonno persa. Giunta la sera, feci sistemare il mio lettuccio: un materassino, un lenzuolo ed una coperta. Siccome la stanchezza era molta contai di prendere sonno con una relativa facilità. E così fu. Se non che ad un certo punto la corsa di un topo impazzito mi richiama alla realtà. Non dissi nulla, anche perché ero al corrente della faccenda. Mi abbandonai tranquillamente al sonno. Ma non ero ancora entrato nel mondo dei sogni quando sento strisciare vicino a me qualcosa di strano. Non fanno così i topi, pensai. Proprio non avevo l’idea di che si trattasse. 150 Al mattino, dopo la celebrazione della S. Messa, rientrando in stanza volli rendermi conto un po’ della faccenda. Guardai dietro l’armadio. Brrr! C’era un serpente che mi stava fissando con occhi impauriti…”. Quando la gente perde la fiducia P. Remigio Villa scrive per lanciare un appello: “...La gente perde fiducia. Non c’è la Chiesa Cattolica, allora pregheranno in quella Protestante che è vicina e va avanti bene. C’è di peggio: dei bambini cattolici, non avendo altra possibilità, sono entrati nella scuola protestante per imparare a leggere e scrivere. Potete immaginare con quale danno spirituale. E chi più li afferra in seguito? Ci sono anche le scuole senza religione alcuna e in esse le menti dei piccoli vengono avvelenate da idee politiche false ed esaltate… Amici cari, rispondete voi a questo appello accorato che un povero missionario vi lancia dall’Africa? Sono sicuro che farete qualcosa.!” Perché preferisco il “cavallo di San Francesco” P. Rizzardo Omizzolo ci aggiorna sul suo ultimo viaggio apostolico “sul cavallo di S. Francesco”. “...Debbo spiegarvi perché ho preferito andare a piedi: per guadagnare tempo! Sembrerà un paradosso, ma per il missionario, come nel caso mio, è verità dimostrabile a fil di logica. Quando vado a piedi, ho tutto il tempo di seminare le “Ave Maria” del mio Rosario intero quotidiano per tutti i sentieri, in fondo alla valli o in cima ai monti, o nel folto delle foreste. Ho tutto il tempo di recitare il mio Breviario, che in queste circostanze trovo più sostanzioso che mai. Quante espressioni dei Salmi s’inquadrano a meraviglia nel nostro ambiente malgascio! Ogni giorno ci trovo nuove idee 151 profondissime che altre volte mi passavano quasi inosservate. Così, quando giungo al seguente villaggio ho tutto il tempo per intrattenermi con la gente, studiare il malgascio e imparare la lezione catechistica e il sermoncino per la riunione della sera…”. Ancora notizie sulla missione di Ilaka Est inviate da P. Carlo Berton. “… Il territorio dipendente da questa residenza comprende, secondo la divisione francese, 6 Cantoni, corrispondenti a circa 6 Province Italiane. Non so ancora quanti Kmq. comprenda, pur chiedendolo ai funzionari. Conoscono il territorio meno dei missionari. La popolazione è di 35.000 anime. Sparsa in piccoli villaggi, spesso staccati d’una decina di chilometri tra loro. Questo territorio si può dire ancora vergine per il Vangelo. La popolazione è quasi tutta pagana.Oltre ad alcuni centri di protestanti di varie denominazioni, vi sono 3.000 cattolici. Finora i missionari sono riusciti a penetrare in 120 villaggi; non perché sia difficile penetrarvi, ma solo perché insufficiente il numero dei missionari. In ognuna di queste 120 cristianità sorge una chiesetta, spesso una semplice capanna, dove i cristiani si radunano settimanalmente. In ogni villaggio v’è un presidente della cristianità ed un catechista. Viene eletto catechista colui che nel villaggio sa leggere, essendo molti coloro che sanno leggere nella “brousse”, in alcune comunità abbiamo per catechisti delle donne e non mancano dei catechisti ancora pagani! In questo vasto territorio il missionario deve continuamente girare per visitare le cristianità. Il mezzo principale: il cavallo. Uno dei più grandi amici del missionario è appunto il cavallo. Con lui il missionario condivide fatiche e sudori. Questo bravo animale deve trottare, sotto il sole o sotto la pioggia, salire le forti rampe delle montagne e passare a nuoto o a guado i fiumi ed i torrenti che sbarrano la via. Alcune 152 volte, per raggiungere una regione da visitare, occorrono due giornate di marcia, ed il cavallo deve sorbirsele senza fiatare, per non assaggiare il frustino del cavaliere. Per un posto missionario, già 120 villaggi sono molti: si riesce a visitare il territorio tre o quattro volte l’anno. Potete immaginare in quale stato si possono trovare i cristiani con delle visite così distanziate! Il Santo Curato d’Ars diceva: “Lasciate un paese senza sacerdote per 10 anni e sarà pagano”. Si può quindi immaginare come sia lenta l’evoluzione e la trasformazione di queste masse pagane, con delle visite fugaci ed a lunga scadenza. Alle volte ci si domanda come non diventino di nuovo pagani queste piccole comunità di cristiani, viventi in una società pagana! Qui tutto è pagano e intessuto di riti pagani: la vita in tutto il suo svolgersi dalla vita alla morte, il lavoro, i viaggi ed ogni manifestazione di gioia o di dolore. Bisogna riconoscerlo: più che il lavoro del missionario vi è la grande opera della grazia. Lo Spirito Santo, disceso col battesimo nel cuore di questi neofiti, non vi dimora inoperoso: lavora infinitamente più del missionario. In ogni villaggio ci si ferma una sola giornata, ed in questo brevissimo tempo bisogna fare entrare il viaggio spesso di varie ore, istruzioni, esami di catechismo, battesimi, matrimoni da preparare, confessioni, soluzioni dei problemi della comunità cristiana. Non si è ancora finito che bisogna ripartire e di ritornerà fra tre o quattro mesi! Senza l’opera della grazia non rimarrebbe nulla… Alle volte arriva alla missione una delegazione di un villaggio pagano: Noi vogliamo pregare con i cattolici. Desideriamo la chiesa, un catechista, la visita e l’istruzione del missionario e, se possibile, una scuola. Se non venite voi andiamo dai protestanti!”. Se è uno strazio per il cuore di un padre sentire la voce del figlio chiedergli il pane e non poterlo accontentare, cosa deve 153 provare il missionario, quando tanti figli gli chiedono il pane della luce e della verità e non può esaudirli?”. 154 1958 L’arrivo del missionario è sempre atteso Verso la fine dell’anno giunge la notizia della nomina a vescovo di Tamatave di Mons. Giulio Puset. Consacrazione di Mons. Giulio Puset P. Rizzardo Omizzolo scrive: “...Ho avuto il piacere di assistere alla consacrazione episcopale di S.E. Mons. Giulio Puset, Vescovo di Tamatave, avvenuta il 26 gennaio, nella grande chiesa parrocchiale di N. S.di Lourdes, dove l’eletto aveva esplicato per tanti anni il suo apostolato. Da tutti gli angoli dell’immensa diocesi, Padri, Fratelli e Suore della Sapienza affluirono alla Capitale della costa orientale, unitamente a rappresentanze di fedeli dei singoli distretti. Credo che Tamatave non abbia mai registrato in passato una simile affluenza di folla estranea. Già una settimana prima della data della consacrazione, gli alberghi e le pensioni tutte accusavano il tutto esaurito e non era facile trovare una sistemazione per dormire, neppure nelle case d'amici. Molti pellegrini dovettero essere alloggiati nelle scuole e nelle sale delle opere parrocchiali. Del resto, essendo qui il pieno dell’estate, anche la previsione di dormire sotto le tende o all’aria aperta, non avrebbe spaventato alcuno. Per la città di Tamatave, la data del 26 gennaio rappresentava un avvenimento eccezionale ed unico: la prima consacrazione episcopale sul posto. S. E. Mons. Le Breton, predecessore di Mons. Puset, era stato consacrato in Francia come Vicario Apostolico di Vatomandry, con residenza abituale a Mahanoro. Solo in seguito si trasferì a Tamatave, che venne poi eletta sede episcopale residenziale, quando venne istituita la gerarchia ecclesiastica nella Grande Isola, nel 1956. Ma solo pochi mesi dopo la sua presa di possesso, Mons. Le 155 Breton, a causa della sua malferma salute, chiedeva al Papa di venire esonerato dalla gravosa carica. Le sue dimissioni furono accettate, a patto che rimanesse in luogo come Amministratore Apostolico, fino alla nomina del successore. Nel Concistoro del 7 dicembre 1957, il Sommo Pontefice fece annunciare la nomina a Vescovo di Tamatave di Mons. Puset, già Vicario Generale della medesima Diocesi. La nomina fu accolta con grande giubilo da tutti i fedeli, che ben conoscevano l’eletto, avendo egli per quasi vent’anni percorso tutti i luoghi della Diocesi come semplice missionario, come direttore delle scuole cattoliche, come Superiore Regionale e poi come Vicario Generale. Tutti conoscevano quindi il suo carattere gioviale, l’andatura giovanile e la sua perfetta padronanza della lingua malgascia. I giornali, a nomina avvenuta, si prodigarono in felicitazioni e in elogi. La grande cerimonia della consacrazione si svolse nella chiesa parrocchiale di N.S. di Lourdes, prevedendo che la Cattedrale di S. Giuseppe, che pure è una grande chiesa a tre navate, non avrebbe potuto ricevere che una parte delle Autorità e degli invitati muniti di biglietto speciale...Ma bisognava pensare ai fedeli ed ai pellegrini venuti da lontano. La chiesa di Lourdes si prestava a ricevere più di duemila persone nel banchi e molte altre sulla tribuna o lungo le navate… Vescovo Consacrante fu lo stesso Mons. Le Breton, mentre come vescovi Assistenti funzionarono Mons. David e Mons. Rolland. La cerimonia si svolse in modo impeccabile e veramente grandioso: tutti erano visibilmente commossi nel fondo dell’animo. La commozione giunse al suo culmine quando, alla fine della concelebrazione della S. Messa, il nuovo Vescovo, rivestito di tutte le insegne episcopali, percorse la grande navata impartendo ripetutamente la benedizione alle due fitte ali di popolo, che si riversò poi nel grande viale per assistere al corteo dei Vescovi e delle Autorità che 156 accompagnarono il Neo Consacrato fino al grande cortile del Collegio femminile diretto dalle benemerite Suore di S. Giuseppe di Cluny.. Per la terza volta, il 2 aprile, da Venezia, parte per il Nyasaland P. Giovanni Giavarini. Lo accompagna P. Francesco Valdameri, alla sua prima esperienza missionaria . Vincenzo ha finalmente la sua carrozzella Ricordate l'appello lanciato da P. Alessandro Assolari per una carrozzella da regalare al povero Vincenzo? Il miracolo si è avverato. È arrivata finalmente dall’Italia, regalo di alcuni benefattori. “...Nel pomeriggio di domenica, Vincenzo si presentò pulito e vestito meglio che poteva. E dopo la Messa Cantata ci fu la benedizione della carrozzella e… seduto comodo e felice sulla sua nuova macchina, Vincenzo sorrise ai suoi cari benefattori. Lasciai per quel giorno a Vincenzo la gioia di provare la sua nuova macchina perché non si trovasse troppo impacciato nel giorno della consegna fissata per la prossima domenica. Non vi sto a dire la meraviglia che produsse nel villaggio l’apparizione di quella bella carrozzella, mai vista prima di allora… e anche Vincenzo non riusciva a star quieto, avanti e indietro tre o quattro volte per la medesima strada…”. Sempre gradito ed atteso l’arrivo del missionario P. Tarcisio Betti c’informa sulla sua vita missionaria. “...Ciò che in Europa si chiama parrocchia, in Africa si chiama missione. È un territorio con la residenza missionari al centro e un raggio di venti, trenta o quaranta chilometri. I neri non vivono in grossi aggruppamenti, sparpagliati un po’ ovunque in piccoli villaggi che possono variare da una decina di capanne a 157 venti o trenta. La residenza missionaria comporta una casa, una chiesa, una scuola. Qui si fa una specie di vita parrocchiale, con la Messa ogni domenica e altre celebrazioni come Benedizione, Primo Venerdì e Sabato del mese ecc.. Il missionario in residenza fa il catechismo, visita gli ammalati dei dintorni, riceve i cristiani che vengono a lamentarsi di difficoltà di famiglia, visita le scuole, fa il lavoro di ufficio che non è mai finito, dato il gran numero dei cristiani che nascono e muoiono e la cattiva abitudine che i neri hanno di cambiare il nome. Se i missionari potessero restare sempre alla missione le cose sarebbero piuttosto facili, ma si deve girare in lunghi viaggi in villaggi sperduti. Non potendo i cristiani venire tutti alla missione per i Sacramenti, bisogna andare a trovarli nei loro villaggi e così l’uno dopo l’altro i Padri devono prendere l’altare portatile su una moto o bicicletta o sulla testa di un nero, e andare di villaggio in villaggio per celebrare, amministrare i sacramenti, visitare gli infermi e le scuole e cercare di rimettere pace nelle famiglie dove è entrato il disaccordo. L'arrivo del missionario è sempre atteso e accolto con grande giubilo. È il più grande avvenimento per il villaggio. L’arrivo del missionario bianco è quasi sempre festeggiato con canti e danze, non solo da parte dei cattolici ma anche dai pagani. I cristiani sono preparati a ricevere la confessione e comunione. Viene loro impartita una lunga istruzione, specie per aiutarli a sbarazzarsi di tanti costumi e credenze pagane, Tante volte un buon tamburo serve da tribunale di penitenza. Delle buone vecchiette vengono a confessarsi facendo grandi inchini e genuflessioni e poi annunciano che non sono più capaci di peccare e aspettano solo di essere chiamate per andare a stare con Amai Maria, la madre Maria, su in Paradiso. 158 Un grande mortaio con sopra l’altare portatile serve da altare, che si erige nella scuola se è abbastanza vasta, o sotto una grande pianta. Tutto il villaggio assiste alla Messa; anche i pagani e i protestanti per curiosità. Dopo la S. Messa parecchie volte i cristiani hanno delle domande da fare. Un giorno, un tale, essendo morto un uomo, era preoccupato della forma dell’anima; sapendo che in morte il corpo resta nella tomba e l’anima se ne va a Dio, domandò molto innocentemente come in Paradiso si potrà distinguere le anime degli uomini da quelle delle donne. Un altro mi presentò un’immaginetta dell’Annunciazione e volle delle spiegazioni sull’Angelo alato che portava il messaggio celeste alla Madonna. Perché quell’Angelo aveva delle ali come le galline? E non è venuto in aeroplano? E voleva assolutamente sapere il nome e cognome dell’uomo che aveva visto quell’Angelo per descriverlo così bene… Per capire un po’ la ragione di queste domande bisogna notare che i nostri cristiani vivono in mezzo ai protestanti, per i quali la Bibbia è il solo libro al quale fanno dire tutto quello che passa per la loro testa. Dopo la Messa nei villaggi si passa ai battesimi dei nuovi arrivati, e qui è tutto un affare. C’è anzitutto la scelta del nome. Una dice: mio figlio si chiamerà Gologolio: Mai incontrato questo nome, ma dopo un po’ di discussioni vengo a sapere che vogliono dire Gregorio. Un’altra dice: mia figlia si chiamerà Malata. Io dico che non c’è una Malata in Paradiso. Alla fine vengo a sapere che significa Marta. Non avendo poi nessuna assistenza medica, le povere madri devono affidarsi agli stregoni per proteggere la vita dei loro bambini, e gli stregoni sono generosi in medicine da legare alla gambe, alla vita e al collo dei morettini. Generalmente lasciano fare ai missionari e col coltello si tagliano via tutte queste medicine, ma qualche madre vuol protestare, fa gli occhiacci, piange, strepita, vuole scappare e bisogna ritenerla con la forza. Se la cristiana torna a casa, dove 159 l’aspettano i parenti pagani, col bimbo senza medicine, sono guai per la povera madre… Terminato tutto questo, si porta la Comunione ai malati che non hanno potuto venire alla Messa. Poi si torna al villaggio. Sono le dieci o anche le dodici, ora del pasto che vale per la colazione del mattino e il pranzo di mezzogiorno. Spesse volte un piccolo tavolo, sul quale è deposta una fumante polenta bianca che si mangia senza intralci di forchetta, cucchiai e coltelli. Le dita sono le migliori posate e costano poco! Infine si va a fare un’ispezione alla scuola, dove il catechista sta insegnando. Bisogna vedere se i ragazzi frequentano la scuola, se imparano il catechismo, specialmente i catecumeni. Questi ultimi sono sempre i più fedeli alla scuola, perché sanno che senza questo non saranno ammessi al battesimo. I più benestanti e i più furbi scrivono servendosi di lavagnette che hanno comperato alla missione; altri usano mezzi più rudimentali: accoccolati per terra si fanno un piccolo quadrato liscio con della polvere fine e lì risolvono i problemi di aritmetica e stampano le lettere dell’alfabeto. Visitata così la scuola e fatte le debite osservazioni e raccomandazioni sono canti e grida di saluti e auguri di presto arrivederci ancora… Si parte per un altro villaggio, e poi un altro ancora per giorni finché si ritorna alla missione da dove si ripartirà poco dopo per altri villaggi. Così il buon seme è gettato nel solchi, la guerra contro Satana è combattuta e i poveri selvaggi dell’Africa sono indirizzati verso la casa del Padre Celeste”. A caccia di animali e di… anime! P. Rizzardo Omizzolo parla di caccia di animali e di… anime. 160 “… La storia della caccia al serpente mi ha fatto perdere il filo del discorso che iniziava col titolo “Alla caccia di anime fedeli”. Scusate! Giovedì 2 luglio, mentre i nostri Apostolini a Redona sciamavano dalla Scuola Apostolica per andare a godere le vacanze in famiglia, il sottoscritto accompagnato dal fido accompagnatore si metteva in marcia per una passeggiata di soli 10 giorni, per visitare altrettanti villaggi nella brousse. Io, come d’abitudine, ho marciato quasi sempre a piedi: arcicontento il mio piccolo compagno di viaggio, fiero in arcione sul bel cavallo come un imperatore. I due portatori, legata la mia cassetta nel bel mezzo di un grosso e lungo bambù, e appoggiato questo sulle loro spalle, trotterellando allegramente malgrado la pioggia intermittente e la pista viscida di fango. Dopo due ore e mezzo di marcia, tra due fitte ali di foresta vergine, la prima mèta è raggiunta: 13 chilometri. Per le mie snelle gambette rimaste agili e robuste come quelle di un giovanotto ventenne, quella distanza non rappresenta che una passeggiata di piacere. I pochi cristiani del villaggio erano già adunati accanto alla chiesetta di legno e giunchi, e al mio arrivo mi hanno accolto col loro festoso canto. Una breve visitina alla cappella, una corta preghiera seguita dalle prime parole di saluto ai fedeli e disposizioni per l’adunata della sera. Poi conducono il Padre e il suo seguito alla capanna destinata alla sua abitazione momentanea, e servono un fumante e squisito caffè, tanto più gradito in quanto il tempo è piuttosto freddo e gli abiti inzuppati d’acqua e inzaccherati di fango. Alle 17.00, recita del S. Rosario, con l’annunciazione dei misteri in canto. Segue la predica del Padre, ordinariamente una lezione pratica di catechismo e lettura e commento di qualche pagina evangelica. Dopo di che, quelli già ammessi alla Comunione e che non ne sono esclusi per cattiva condotta palese, si preparano alla Confessione e ricevono l’assoluzione. Al mattino seguente si celebra la S. Messa e si distribuisce la S. Comunione seguita da convenienti preghiere di ringraziamento. 161 La visita alla cristianità e virtualmente finita. Si esaminano casi speciali, talvolta delicati; si controllano le liste dei fedeli, rimasti veramente fedeli, e dei catecumeni. Un sorso di caffè, qualche cucchiaio di riso bollito in acqua insipida, si dispongono i bagagli e ci si rimette in marcia. Ogni tragitto e ogni permanenza hanno più o meno la stessa storia. Perciò vi faccio grazie dei dettagli singoli, che pur danno un colorito ad ogni circostanza, almeno per noi che siamo sul posto”. Uno era il mio amato Giorgio... P. Vittorio Crippa parla delle sue disavventure: una passeggiata notturna. “...Un caldo da crepare questa notte! Dopo cena, mi riposavo un po’, fuori casa, contemplando il cielo e riandando con il pensiero alle due persone cui avevo amministrato gli ultimi sacramenti durante il giorno. Uno era il mio amato Giorgio. Veramente bravo e ottimo ragazzo che fino a due giorni prima giocava e saltava come un agnellino. All’ospedale, dove venne ricoverato per un forte colpo di sole, insistette presso la mamma per essere portato a spalle fino alla missione perché diceva: ho bisogno di Gesù! La buona donna si caricò il suo amore sulle spalle e faticosamente divorò sette chilometri. Giorgio stette a lungo davanti al tabernacolo, tutto assorto nella preghiera. Io non ero ancora tornato dalla visita ad un’ammalata. Rientrando mi trovai una donna accoccolata sulla porta di casa, piena di tristezza. “Moni Bambo, il mio Giorgio ha bisogno di te”. Lo trovai in un angolo della chiesa oppresso dal male, con il respiro affannoso, con gli occhi estatici, fissi al tabernacolo, le labbra atteggiate a sorriso. Non osavo toccarlo, era così bello! - Giorgio, che fai qui? Sei molto malato? Che cosa vuoi? - Che il Signore mi prenda con sé! Mi confessa, Padre? 162 A stento potei ascoltare la sua confessione. Che occhi! Che Angelo! - Adesso, Padre, sono contento, posso partire… - Sì, ti porto pian piano all’ospedale con la mia moto. La madre ci seguiva a piedi, assorta nel suo dolore e con un triste presentimento nel cuore. All’ospedale gli feci fare delle applicazioni d’acqua fredda e somministrare sulfamidici, ma lui continuava a ripetermi: Bambo, non mi lasciare, tu mi devi accompagnare da Gesù. Mi chiese parecchie volte la benedizione mentre la mamma recitava il Rosario. Alla quattordicesima posta, il mistero dell’Assunta, Giorgio con voce angelica esclamava: “Santa Maria, prega per noi, adesso e nell’ora della nostra morte”. Era l’appuntamento. Giorgio sorrise e stringendo il Crocifisso della mia corona, spirò. Era andato a far corona alla Regina degli Angeli... Consegna del Crocifisso a due nuovi missionari Nel santuario di Maria Regina dei Cuori, S.E. Mons. Giuseppe Piazzi il 7 ottobre, ha consegnato il Crocifisso a due giovani missionari monfortani: P. Francesco Valdameri e Fra Paolo Pesenti, partenti per l’Africa. P. Valdameri, giovane sacerdote di Pieranica (Cremona), è partito il 15 ottobre per il Vicariato Apostolico di Zomba. Più tardi Fra Paolo Pesenti, Fratello coadiutore di Laxolo, partirà per l’isola di Madagascar Dopo un periodo di vacanze operose in Italia, per la seconda volta P. Vittorio Crippa riparte per la sua missione di Cholo (Nyassaland). Sua maestà il riso P. Carlo Berton, in una corrispondenza dalla sua missione, invia preziose informazioni su “Sua maestà il riso”. “… Se per caso qualcuno non ama il riso, che non gli venga l’idea di venire a fare il missionario nel Madagascar. I 163 malgasci non possono pensare ad un pasto senza il riso; senza il riso non possono vivere e non c’è alcun altro cibo capace di sostituirlo. Ricordo ancora come a bordo del “Labourdonnais” dei malgasci assai evoluti, finito il pasto all’europea, chiedevano il riso, perché non si sentivano sazi. Il riso bollito nell’acqua e senza sale, viene posto su una piccola stuoia al centro della capanna.In un altro piccolo tegame vi è il condimento fatto di erbe più o meno amare e piccanti. Accoccolata per terra, accanto alla stuoia, tutta la famiglia mangia in silenzio. Ognuno è munito di una foglia di ravenale o di banana, piegata a forma di cono. Riempita di riso si porta alla bocca, rivolta al soffitto e non si ribassa la testa finché tutto il riso è sparito. Per il missionario tutto è lo stesso, solo che come segno di civiltà porta il cucchiaio. Finito il riso, con una foglia un po’ più allungata, si beve l’acqua versata nella pentola ancora calda dov’è stato bollito il riso. Quest’acqua poi prende tutti i colori, a seconda dello stato di pulizia della pentola. A colazione, non essendovi condimento, il riso è cotto con molta acqua e così rimane più tenero e non si rimane ingozzati. Caffè, tè, e tutti i frutti non vengono mai consumati durante i pasti dai malgasci. Ogni malgascio prende il caffè in media 2 volte al giorno, al mattino e nel pomeriggio. In tournée lo si beve almeno tre volte al giorno. Quando manca lo zucchero, pestano in un piccolo mortaio le canne da zucchero ed il caffè è zuccherato. Portando il caffè al missionario, spesso, la vecchia che lo porta beve prima di voi, alle volte nella stessa tazza, per assicurarvi dell’assenza di veleno nella bevanda. Altre volte per dimostrarvi che la tazza è pulita, vi versano alcune gocce d’acqua e poi vengono a lavarla davanti a voi, introducendovi le dita e strofinando l’interno, piene di soddisfazione. L’acqua che ne esce pare già del caffè. Per fortuna quella non si beve. 164 Non vi parlo dei magnifici frutti propri dei tropici, quali ananas, banane, papaie, mango e non continuo la lista perché avete già l’acquolina in bocca. Grazie a Dio ve ne sono in abbondanza. Vi sono però delle leccornie proprie dei malgasci. Un giorno vengono dei ragazzi a portarmi un piatto prelibato: delle cicale arrostite. Non so cosa inventai per scusarmi di non prenderle, ma ricordo il loro sorriso, mentre le facevano croccare sotto i denti, con lo stesso piacere dei ragazzi europei quando mangiano il torrone. Altre cose prelibate sono una specie di ghiri che arrostiscono con la pelle, una specie di cavallette e delle larve di vespe. Tenuti ad un sì perfetto regime nessun missionario è ancor morto di fame, come pure nessuno ha raggiunto le dimensioni dell’uomo cannone, il ché sarebbe un guaio per il povero cavallo che lo dovrebbe portare…”. P. Vittorio Crippa, ripartito per la sua missione, scrive: “...Da Venezia abbiamo avuto un viaggio buonissimo. Un mare molto giudizioso, specie il Mar Rosso. A Port Said, nostro primo dovere fu quello di andare a rendere omaggio alla “Regina Mondi”, nel suo splendido santuario voluto dal grande Papa delle missioni, Pio XI, che volle collocare la Madonna all’inizio del continente nero, quale Padrona e Regina. Ai suoi piedi pregammo a lungo e consacrammo tutti i nostri apostolici ideali. Accanto a quella maestosa cattedrale mariana, per dispetto, fu costruita una bellissima moschea, che ha impedito ai cattolici di collocare la bella statua della “Regina Mundi” sulla torre campanaria, perché avrebbe sorpassato il minareto. Un giorno, però, la Madonna vincerà, poiché, mi diceva un buon padre francescano, i Maomettani nel loro fanatismo temono i cattolici proprio per la loro grande devozione alla Madonna. 165 Sulla nave viviamo da veri signori. Qui abbiamo fatto molti amici e la maggior parte di questi sono ebrei… Al mattino presto la nave si trasforma in una piccola cattedrale, ci sono una trentina di messe…” Prime impressioni di un nuovo missionario P. Francesco Valdameri racconta le sue prime impressioni missionarie. “...Il viaggio è riuscito benissimo, con novità e bellezze indimenticabili. Il mio Vicario Apostolico mi ha inviato nella missione di Mpiri, dove ci sono due missionari: uno inglese e uno americano: ci manca poco per formare l’ONU. Questa missione ha quasi 30 Km. di estensione nella lunghezza, ancora tutta boscaglia, in mezzo alla quale si trovano qua e là i villaggi dei neri. Per raggiungere questi villaggi non ci sono che sentieri, molti dei quali inaccessibili con la moto. Non so ancora di preciso quanti neri ci sono in questa missione, circa 100.000, mussulmani la maggior parte e solo 5.000 cristiani. Sparse qua e là ci sono chiese e scuole succursali, molte delle quali sono ancora di fango e paglia. Come si vede, per tre missionari, in una parrocchietta come questa, il lavoro non manca… Ecco la mia prima avvenuta. Portavo a Mpiri, con un camion, i miei bauli, avevo con me due neri, uno guidava e l’altro se ne stava seduto sui bauli. A metà strada ci ha sorpreso un temporale numero uno. Fulmini, vento fortissimo, pioggia torrenziale.. Erano le tre del pomeriggio e non ci si vedeva più niente. Ad un certo punto un gigantesco albero si rovesciò sulla strada. Per poco non ci ha schiacciati: il nero aveva fatto appena in tempo a frenare la macchina. Intanto si aspettava che cessasse il temporale per rimuovete l’albero. Ho potuto assistere ad un’altra scena molto più divertente. Si vedevano i tetti delle capanne svolazzare qua e là, portati dal vento. 166 Terminato il temporale abbiamo dovuto lavorare più di due ore per liberare la strada. Con l’aiuto del camion al quale avevamo legato l’albero e dei neri, venuti da un villaggio vicino, riuscimmo a superare l’ostacolo. Un’avventura come questa ci voleva come ricordo della mia entrata nella missione di Mpiri”. Masanjala: la mia nuova missione P. Vittorio Crippa presenta la sua “nuova” missione . “..Masanjala: ecco la mia nuova missione. Sono tutto solo. Ho appena terminato di sistemare una capanna in attesa di mettere mano ad altre opere quale la casa, soprattutto la chiesa che già esiste, ma a dire il vero avrei preferito che non ci fosse stata, tanto è malandata e pericolante. Ogni volta che entriamo dobbiamo fare un atto di contrizione perfetta per la paura di essere sorpresi da qualche mattone o palo. Questa nuova missione non è altro che la divisione della vastissima missione di Nguludi. La parte affidatami si circoscrive in un raggio di una trentina di chilometri. Vi sono più di 10.000 cristiani e circa 80.000 tra pagani e protestanti. Come di vede non c’è da dormire!… L’8 dicembre ho cercato di solennizzare la festa dell’Immacolata nel miglior modo possibile. Ho dedicato la missione all’Immacolata, consacrandola tutta a Lei. Subito dopo la funzione mi si è presentato un grande capo della setta scozzese, dicendomi che da tempo voleva farsi cattolico e che dopo aver sentito parlare così bene della Madonna non aveva più nessuna titubanza. Volle assolutamente essere iscritto tra i catecumeni che entreranno fra qualche mese nella Chiesa cattolica. Si può immaginare la mia gioia nel constatare una vittoria della Madonna così bella, proprio all’inizio di questa nuova missione a Lei dedicata…”. 167 Aiuto! Aiuto! P. Antonio Marchesi dal Madagascar va gridando: Aiuto! Aiuto!: “...Da pochi mesi sono diventato Direttore della Missione di Ambinanindrano. Sono in mezzo a mille difficoltà. Ho bisogno di tutto. Perciò vado gridando a tutti: aiuto! aiuto! Lo so che neppure voi nuotate nell’abbondanza, ma la vostra situazione sarà sempre migliore della mia che nuoto nella miseria. Pensate: devo rifare tutti i tetti della chiesa, della casa e adiacenze. Tutti quest’anno. In mancanza di meglio debbo rifarli in foglie, le foglie di palma. Qualcosa come 100.000 foglie, lunghe da 2 a 3 metri. E poi… ho già radunato dei ragazzi e ne cerco ancora. Li tengo a mie spese, preparandoli per il seminario. Ho solo un po’ di riso, ma i vestititi...sono quasi in costume adamitico… Qui ho bisogno estremo di ogni genere di stoffa…”. 168 1959 Quando sorgerà una missione tutta italiana? Il 13 febbraio è partito da Marsiglia per il Madagascar Fratel Paolo, primo tra i fratelli coadiutori italiani a partire per le terre di missione. Ci si interroga: quando sorgerà una missione italiana monfortana? “… Era l'aprile del 1955. S. E. Mons. Alano Le Breton, l’allora Vescovo di Tamatave era a Roma per la sua visita ufficiale al Santo Padre. In seguito, in un suo colloquio con il rev.mo P. Generale, dove esponeva lo stato attuale della missione, mise in chiaro l’urgente bisogno di personale. Rivoltosi in un primo tempo al P. Provinciale di Francia, il Generale ricevette una risposta negativa. Essendovi però necessità urgente, decise di rivolgersi al nostro P. Provinciale, esponendogli il desiderio del Vescovo missionario. Fu così che, d’accordo con la Sacra Congregazione De propaganda Fide il R.P. Provinciale decise d’inviare tre Padri italiani nella lontana isola del Madagascar, con l’intenzione di fondarvi più tardi la prima missione monfortana esclusivamente italiana. Per questo, il 3 dicembre dello stesso anno, festa del Protettore delle missioni, a bordo della “Fernando Lesseps”, partirono i nostri cari Padri Rizzardo Omizzolo, Alessandro Assolari ed Emilio Nozza, verso l’Isola Rossa. Arrivati il 23 dicembre a Tamatave, furono cordialmente accolti dal Vescovo e dai confratelli francesi e nella medesima città trascorsero le feste natalizie. Il 27 dello stesso mese, poi, a bordo di una jeep partirono per Mahanoro, dove giunsero accolti dalle grida di giubilo della popolazione e dagli affettuosi abbracci dei confratelli francesi: accoglienza che 23 anni prima aveva fatto ai primi Padri francesi, capitanati da Mons. Le Breton, allora semplice missionario. 169 Ad essi furono affidate tre diverse missioni: a P. Rizzardo Omizzolo Marolambo, a P. Alessandro Assolari Mahanoro, a P. Emilio Nozza un villaggio sperduto in mezzo ai monti, a circa 140 Km. più a sud, Ambolilafa. Ai primi di novembre 1956, P. Pietro Valsecchi e P. Carlo Berton, pure loro, partirono per il Madagascar. A P. Pietro Valsecchi fu affidata la missione di Mahanoro e a P. Carlo Berton quella di Ilaka Est. P. Antonio Marchesi, il 31 maggio 1957, s’aggiunse ai nostri missionari italiani nel Madagascar ed ora è Direttore della missione di Ambinanindrano. Quando i missionari monfortani d’Italia avranno una missione esclusivamente italiana? E' il solito assillante problema evangelico: “La messe è molta ma gli operai sono pochi”. Ho visto un lebbroso... In attesa che si realizzi il progetto, P. Carlo Berton parla di un incontro che lo ha particolarmente colpito: “...Stavo facendo l’esame di catechismo ad alcuni neofiti, quando il catechista mi chiama: Padre, un malato vuole parlarti. Interrompo immediatamente ogni esame e parto con il catechista, mia guida. Tutto un codazzo di ragazzi mi segue, fino ad un villaggetto di una decina di capanne. Domando al catechista di che malattia si trattasse. Mi disse qualcosa d’impreciso, poi soggiunse: malato in tutto il corpo. Arrivai presso la capanna; alcune persone uscirono immediatamente per darmi il passaggio. Entrai e vidi accanto al fuoco un vecchio avvolto in un lenzuolo. Quando il vecchio si accorse della mia presenza, cercò di mettersi seduto ed aprendo il lenzuolo mi allungò la sua mano priva delle dita. Un forte odore di pus e di marcio mi investì. Oltre il lenzuolo non aveva più nulla quel vecchio ridotto a pelle ed 170 ossa. Ritirando la mia mano dalla stretta del saluto la sentii inumidita. Non volli neanche guadare. Avevo capito: un vero lebbroso con iniziata putrefazione. Qui nel Madagascar i lebbrosi non sono numerosi; una buona parte, specialmente all’inizio, viene curata a domicilio. Quando sono ancora forti vanno a trovare il medico per avere i medicinali per una quindicina di giorni, ma se la malattia progredisce restano nella loro capanna ad attendere qualche rara visita del dottore e aspettano la morte. Era la prima volta che mi capitava di vedere la lebbra nella sua vera faccia e vi assicuro che non ero fiero. Ad aumentare il senso di asfissia prodotto dal fetore, un mugolo di mosche girava ronzando intorno al malato per succhiargli il resto del sangue. Sudavo. Oltre al calore del giorno vi era il fuoco che ardeva e tutti i curiosi che si stringevano sulla porta, togliendo ogni filo d’aria. Il fumo che riempiva la casetta mi faceva lacrimare ed allora mi sedetti con coraggio presso il vecchio lebbroso…”. Un ennesimo, catastrofico ciclone Una lettera commovente, diretta al P. Provinciale, arriva dal Madagascar, l’isola dei cicloni. Porta la firma di P. Alessandro Assolari. “… Rev.mo P. Provinciale, le dirò subito che ho il cuore grosso. Avrà forse saputo dai giornali le notizie raccapriccianti provenienti dal Madagascar. La radio non fa che emettere notizie e comunicati uno più spaventoso dell’altro. Ho atteso fino all’ultimo momento prima di spedire la presente, perché avrei voluto avere notizie interessanti direttamente i nostri posti di missione. Cercherò ora di ordinare un po’ la cronaca degli avvenimenti di questi ultimi quindici giorni. La domenica delle Palme trovava quasi tutti i Padri del sud, francesi e italiani, riuniti a Marolambo per festeggiare le nozze d’argento di P. Rizzardo Omizzolo. Monsignore e il 171 Superiore Regionale erano pure intervenuti. Di noi italiani era assente solo P. Carlo Berton, trattenuto ad Ilaka da impegni di ministero. Malgrado l’inclemenza del tempo, la festa si svolse in un’atmosfera di gioia. Fra Paolo, che per la circostanza era venuto da Tamatave, ci portò notizie dall’Italia. Penso che da Marolambo le sia giunta relazione recante lo svolgimento della festa. L'indomani mattina gli ospiti riprendevano la via del ritorno. Un viaggio del genere, durante il periodo delle grandi piogge, ha qualcosa di epico, causa lo stato del tracciato stradale: non può chiamarsi strada un tracciato che può essere transitabile impunemente alla sola condizione d’essere assistiti in modo speciale da S. Cristoforo. Fummo presi dal temporale ancora prima di giungere a Mahanoro. Colà sapemmo che v’era un ciclone in formazione diretto verso la provincia di Tamatave. Durante la notte tra lunedì e martedì, tutti i fiumi ingrossarono: impossibile ogni traghettamento. Avrei voluto rientrare a Masomeloka, ma fui costretto dal Vescovo a venire a Tamatave per sottomettermi ad una cura, dato che il mio stato di salute non era dei più floridi. Ogni comunicazione via terra era interrotta. Per cui non restava che l’apparecchio. Le dirò subito che non mi dice gran cosa un viaggio in aereo. L’ultimo bollettino meteorologico annunziava che il ciclone stava dirigendosi verso la regione di Tamatave nord, e l’apparecchio era in ritardo di alcune ore. Per amore di brevità non sto a descrivere i sentimenti che mi animavano allorché mi accingevo al battesimo dell’aria. In certe circostanze ci si sente più portati alla devozione. In un quarto d’ora si fece il tragitto Mahanoro-Vatomandry. La sapemmo che la pressione atmosferica abbassava ad un ritmo impressionante. L’operatore radio ci disse che, in caso disperato, invece di atterrare a Tamatave, saremmo sbarcati a Tananarive, se le condizioni atmosferiche fossero peggiorate. 172 Si riprese il volo. Ogni tanto l’aereo era scosso dal vento. Io cercavo di mostrare più coraggio di quanto non ne avessi in realtà. Fra Paolo, da parte sua, era troppo fiero. Il peggio fu allorché ci trovammo in vista di Tamatave. Il tempo si fece pessimo. Un vento sempre più forte rese problematico l’atterraggio. Potemmo mettere i piedi a terra sani e salvi. A Tamatave potevamo farci un’idea più precisa della situazione a mezzo del bollettino radio trasmesso ogni ora. Da ogni parte si segnalavano inondazioni, slittamenti di terreno, ponti portati via dalle acque. Nel frattempo il ciclone stava avvicinandosi a terra peggiorando lo stato del tempo. Le navi giunte nella baia di Tamatave non poterono accostare e fuggirono in direzione opposta al ciclone. Altoparlanti circolavano per la città allertando tutti: ognuno doveva prendere le massime precauzioni perché il ciclone era uno dei più violenti. Nel frattempo la pioggia continuava a cadere in modo impressionante. Ma in compenso il ciclone cambiava un po’ direzione, evitando d’investire Tamatave. Si dirigeva verso il nord aumentando di velocità. Qui, lungo la costa, ogni ruscello diventava un torrente. Vi sono fiumi dove l’acqua aumentava fino a dieci metri sopra il livello normale. Tutta la fascia costiera prendeva l’aspetto di un mare che sommergeva villaggi e risaie. La gente si rifugiava sui tetti, sugli alberi, sulle colline circostanti. Il ciclone investì la zona che si trova ad un centinaio di chilometri, a nord di Tamatave, distruggendo tutti i villaggi che trovava al suo passaggio. Questo ciclone entrava all’interno dirigendosi verso occidente, piegava quindi a sud per poi riprendere ad oriente. Durante questo tragitto la violenza del vento diminuiva. Ma quanto non era distrutto dal vento era preda delle inondazioni. Nel frattempo un altro ciclone si formava sull’oceano dirigendosi verso la costa malgascia, a sud di Tamatave. 173 Sapevamo dalla radio che ben sei cicloni dovevano abbattersi quasi contemporaneamente su questa povera isola che non a torto è detta l’isola dei cicloni. Da qui di faceva il possibile per mettersi in comunicazione coi posti del sud. Abbiamo saputo che il villaggio di Ilaka, residenza di P. Carlo Berton, era stato evacuato e in seguito inondato dalle acque. Abbiamo saputo dalla radio che vi sono otto persone annegate nella zona di Mahanoro. Ma penso che ci vorranno dei giorni prima di mettersi in comunicazione con Masomeloka. Anche questa zona deve essere stata toccata dal ciclone del sud. Cosa ne sarà della mia povera chiesetta? Stava in piedi per pura misericordia in tempi normali. E la casa? Cosa resterà del mio posto di missione? Avevamo circa cinque tonnellate di cemento per i lavori della nuova chiesa. È proprio brutto non sapere assolutamente nulla. Spero di poter rientrare alla missione tra alcuni giorni, ma non so come potrò farlo. Da ieri una buona parte della città di Tamatave è sommersa dalle acque. Sono già state evacuate oltre 40.000 persone. E le acque continuano a crescere… Per il momento è assolutamente impossibile farsi un’idea di questo cataclisma. Si ha paura di una carestia e delle epidemie. Si tratta di una vera catastrofe nazionale: a parte una sola provincia, tutte le altre sono state colpite. Non si sa quanti villaggi siano stati distrutti. Ci vorranno delle settimane prima di poter venire a conoscenza di tutti questi disastri. E se lei conosce l’economia non certo rosea malgascia, mi dica cosa si può sperare per il prossimo avvenire… Sono arrivato sano e salvo, ma cosa farò? Dal Madagascar scrive il nuovo arrivato, Fratel Paolo Pesenti: “Sono arrivato sano e salvo a Tamatave dopo un discreto viaggio ed una prolungata cura di silenzio, a causa del francese che non riesco ancora a parlare. A ricevermi al porto c’erano il 174 Padre Procuratore delle Missioni e Fratel Francesco. Forse vedrò i nostri Padri alla festa di P. Omizzolo, se andrò anch’io a parteciparvi. Ancora non vedo Mons. Vescovo. Mi pesa molto il non potermi esprimere in francese. Il mio esempio valga di lezione per gli altri. Devo intanto imparare i mestieri. Per fortuna Fratel Francesco è un tecnico e un costruttore in gamba. Con la grazia di Dio spero d’imparare qualcosa anch’io. Anche se il mestiere non mi piace troppo cercherò di fare onore alla Provincia. Il lavoro dei Fratelli è di muratore, di tecnico e soprattutto di falegname. Anche se non sono ancora pratico in questi mestieri, non mi scoraggio. Fratel Francesco mi ha detto che quando arrivò qui sapeva fare solo un po’ il falegname; il resto lo ha imparato sul posto. Se non si sa, non bisogna mostrarlo. Questa, dicono i Fratelli, è la massima coi neri di qui”. A distanza di poco tempo, Fratel Paolo scrive un’altra lettera con altre informazioni. “...Qui nulla di nuovo all’infuori di un forte ciclone nella regione di Tananarive e dintorni. Le nostre missioni credo abbiano avuto pochi disastri. Per la festa di P. Omizzolo ci siamo trovati tutti, eccetto P. Carlo Berton che però avevo visto a Marolambo. I Padri italiani li ho trovati discretamente bene, più di quel che credevo; sono però magri come melgàs. Godono di tanta stima qui. Sono giovani e forse il loro ardore li ha spinti troppo in la, ma non fino a rovinarsi la salute come si era detto da qualcuno. I Superiori sono buoni e gentili. Il Vescovo è un perfetto autista malgascio lui pure; come questi non teme ostacoli con la sua jeep e la lancia a piena velocità. In Italia non si ha un’idea esatta di quel che può essere la vita qui. Le distanze, per esempio, sono enormi. Mancano vie di comunicazione; si devono attraversare diversi fiumi che, se 175 piove molto per due o tre giorni, diventano assai pericolosi. Il tempo qui non conta, tutti me lo dicono e me lo ripetono…”. Notizie di turbamenti politici nel Nyasaland Dal Nyasaland scrive P. Francesco Valdameri: “...Avete sentito per radio o visto per televisione i turbamenti politici del Nyasaland. Ora tutto è in pace. Nessun danno ha subito la mia missione. Si trattava di una rivoluzione interna, capeggiata da un certo Banda che aveva sognato con alcuni aderenti l’indipendenza del Nyasaland. Banda è un nero del Nyasaland, ma ha vissuto per più di 40 anni in Inghilterra: ha dimenticato persino la sua lingua madre e parla solo l’inglese. Ed ora si è sognato di diventare il salvatore del suo popolo. Quello che è peggio è un anticattolico e un mangiatore di missionari più che un rivoluzionario politico. È evidente in lui il veleno del comunismo. Adesso è in prigione con 700 suoi seguaci ed ogni cosa prosegue normalmente”. Grazie per aver risposto al mio appello! P. Antonio Marchesi ringrazia tutti coloro che hanno risposto alla sua richiesta di aiuto. Lo fa attraverso “L'Apostolo di Mara”. “… Caro “Apostolo di Maria”, le mie più vive congratulazioni per il tuo magnifico lavoro svolto a favore dei missionari. A te tutto il merito di aver portato un po’ ovunque il nostro grido invocante aiuto e di aver risvegliato in tanti cuori i sentimenti della più squisita generosità. A ora il dovere di dire a tutti la nostra commossa riconoscenza. Era forte il tuo grido, forse un po’ troppo, mi ha detto qualcuno. Io non so, ma tu ascolta e giudica. Avrai già sentito parlare radio e giornali, delle alluvioni avvenute qui nel Madagascar durante la Settimana Santa. La notte del Venerdì 176 Santo ci fu un vero diluvio. Ore di angoscia per tutti. Mentre voi cantavate le lamentazioni di Geremia Profeta, noi le vivevamo in pieno. L’acqua scendeva a catinelle e la piena del fiume saliva in modo impressionante. Fortunatamente che la nostra casa si trova su un’altura ma non tutti erano tranquilli e al sicuro. Verso l’una dopo mezzanotte avreste sentito le grida e i pianti lacerare le tenebre e non solo quelle… Erano i bambini del pastore protestante. Era il pastore stesso che invocava aiuto. Ti assicuro, caro “Apostolo”, che non si preoccupava molto di modulare la sua voce e non temeva di importunare gli altri. E a nessuno di noi, del resto, veniva in mente di dirgli di non gridare così forte e che non si addicevano alla sua dignità di Pastore quella grida scomposte! L’unico nostro desiderio in quel momento era di accorrere in aiuto e l'unica nostra preoccupazione era quella di come salvarli! Era notte e pioveva a dirotto e l’acqua del fiume era cresciuta di ben nove metri. Ti rendi conto che cosa vuol dire l’aumento di nove metri? Fu improvvisata una zattera con foglie di ravenale: bene impacchettate e legate queste foglie formano una solida imbarcazione. Però ti dico la verità che non si era troppo fieri su quel coso… Lo scopo fu raggiunto e le persone tratte in salvo. Nel frattempo venne inondata la nostra chiesa. Feci appena in tempo a mettere al sicuro il SS. Sacramento. Poi nel santuario si avverarono le parole del Profeta: “desolatio desolationis”. Un grande tonfo ci avvertì che qualcosa era caduta: nientemeno che l’Altare maggiore, tutto in legno, veniva rovesciato e il tabernacolo già aperto dopo la funzione del Venerdì Santo, riempito d’acqua e fango. I banchi galleggiavano e l’armonio. Delizia e orgoglio dei miei cristiani, ha trovato la via del presbiterio e si è posato sulla predella dell’Altare, ormai inservibile. E i paramenti? Ti lascio immaginare! Non ci resta che in colore unico: il giallo rosso del fango. Poi l’acqua si è ritirata, in fretta, quasi paventando 177 un rimprovero. Ma il ricordo è rimasto: dieci centimetri di poltiglia. Abbiamo trascorso tutto il Sabato Santo, in otto, a lavare e scopare. Malgrado i nostri sforzi, il giorno di Pasqua, i pochi cristiani che hanno coraggiosamente affrontato le ire del fiume, passando su un minuscolo tronco d’albero, si sono inginocchiati in mezzo al fango e nel fango abbiamo cantato l’Alleluia pasquale. Nei giorni seguenti sono giunte le prime notizie provenienti dai diversi punti della nostra missione. Le sorprese non erano finite! Mi limiterò al bilancio riassuntivo: una quindicina di villaggi sono andati completamente distrutti, da cancellarsi sulla carta geografica; una decina di chiesette hanno preso la via del mare. Molte risaie letteralmente ricoperte di sabbia. Le strade impraticabili e dei numerosi ponti di legno non esiste se non il ricordo… Forse è meglio non continuare l’enumerazione. Mi diranno ancora che grido troppo forte! E d’altra parte mi fa troppo male il ricordo… Tu, caro “Apostolo”, hai ben compreso il tuo dovere: dì un bel grazie a tutti i nostri benefattori, dillo forte, soprattutto che il loro soccorso ci giunge proprio in un momento tragico. Se qualcuno tra i buoni lettori volesse aggiungere un’Ave Maria alle loro preghiere giornaliere per il missionario che ti scrive, ti assicuro che non sarà insensibile al loro atto di carità. A tutti il mio saluto e a te, caro “Apostolo”, buon lavoro… e grida ancora forte: Aiuto! Aiuto! Aiuto!” Drammatiche notizie sui danni prodotti dal ciclone Anche P. Carlo Berton scrive agli studenti monfortani di Loreto fornendo notizie sul ciclone: “...Avrete saputo dai giornali la tragedia che ha vissuto il Madagascar verso Pasqua. Qui a Ilaka la Messa di Pasqua fu 178 celebrata su di una collina dove c’è un posto di gendarmeria: seicento persone, da parecchi giorni, vi erano rifugiate in alcune baracche. Per fortuna da noi ci fu solo l’acqua, perché se fosse giunto anche il ciclone saremmo morti. La metà del villaggio era sotto l’acqua. Bisognerebbe venire qui per capire il Diluvio universale! Strade scomparse, ponti tagliati, barconi partiti con le acque, mandrie di zebù annegate, partite in mare, risaie e piantagioni di caffè più o meno distrutte. La mia residenza non fu toccata, perciò è piena di gente rifugiata. Quest’anno non potrò cavalcare molto il cavallo, perché le frane hanno distrutto le piste...Non ci perdiamo mai di coraggio noi; prima di tutto perché crediamo nella Provvidenza ed anche nella generosità dei benefattori…”. Una Pasqua davvero malinconica Stesse notizie arrivano da P. Pietro Valsecchi: “… La festa di Pasqua è stata veramente malinconica. Pensate a tre missionari obbligati a star rifugiati in casa durante tutte le feste pasquali, senza poter fare un po’ di ministero. I cristiani poi, distanti solo due chilometri dalla chiesa di Marolambo, non potevano partecipare alle sacre celebrazioni e neanche alla Messa di Pasqua, date le devastazioni causate dall’acqua. Il fiume in piena è salito de sei o sette metri sopra il livello normale ed ha scavato in nuovo letto che minaccia il villaggio di Marolambo. Oggi come oggi è il terzo giorno di bel tempo, ma il fiume è sceso di livello solo tre metri e le sue acque sono ancora torbide. Sono isolato e per rimettere a posto la via di comunicazione che ci collega con Mahanoro ci vorranno almeno tre mesi di lavoro. Per il primo anno d’indipendenza del Madagascar questi cicloni sono veramente la prova del fuoco. Il coraggio non manca per rimettere a posto le cose, ma continuate a pregare 179 affinché i miei malgasci non perdano la confidenza nel Signore”. Sei cicloni in venticinque giorni “Sei cicloni in venticinque giorni”: così la rivista “L’Apostolo di Maria” riassume la lunga lettera di P. Rizzardo Omizzolo dove racconta della festa del suo XXV di Sacerdozio e le drammatiche giornate dei cicloni. Il suo rammarico: “…Ci dispiace che il maltempo ci impedirà per settimane di fare le visite pasquali nelle foreste. Le vallette sono laghi, le piste sono sparite nel fango e si rischierebbe di fare perire cavalli e cavalieri nei gorghi della melma. Meglio attendere!” Scrive anche P. Alessandro Assolari: “...Nella missione abbiamo avuto perdite per un mezzo milione, almeno: abbiamo avuto perdite anche alla nuova costruzione. L’acqua è salita a circa 120 centimetri. Parte del legname andò a finire in mare. Circa quattro tonnellate di cemento andò a farsi friggere. Se pensate cosa era costato tutto ciò, potete facilmente immaginare la tristezza da cui eravamo presi all’indomani delle inondazioni. Ma oggi stesso abbiamo ripreso i lavori. Per quanto riguarda l’avvenire, vi assicuro che le prospettive sono lontane dall’essere rosee. Se la nostra missione ha sofferto bisogna pur dire che il nostro territorio ha sofferto ancora di più. Quanti cristiani si trovano sul lastrico: c’è chi ha perduto la casa, c’è chi ha perduto le risaie, c’è chi ha perso il campo, c’è chi ha perso tutto. Nella nostra missione ci sono ventidue villaggi completamente portati via dalle acque: si trovavano tutti in riva ai numerosi fiumi che in passato avevano reso fertile questa zona…”. 180 Ho visto il diluvio! Sulla situazione della missione di Ilaka torna ad informare P. Carlo Berton. Lo fa con una lettera a “L’Apostolo di Maria”: “Ho visto il diluvio!” Una lunga relazione con dovizia di dettagli sulla tragedia causata dai cicloni nella sua missione. A conclusione, come al solito, un appello: “Qui non si fa che parlare di cicloni, costatando le devastazioni enormi accadute. Il più grave danno è la quasi totale perdita del riso, unica risorsa malgascia, per cui c’è la fame, sempre fame… Ho lanciato vari appelli… Qualcosa è arrivato, ma è quasi nulla di fronte alle enormi necessità. Pensate, certi hanno perduto tutto nelle acque e non è loro rimasto che quello straccio di cui erano ricoperti al momento delle inondazioni. Sono bimbi, sono mamme e papà di famiglia che mi chiedono un po' di cibo, che mi chiedono qualche straccio per coprirsi. Non dimentichiamo che in Madagascar ora è inverno... Perciò ho pensato di lanciare a voi un appello: Aiutatemi! Aiutatemi! Con amore e generosità, guardando le vostre possibilità frugate nei vostri armadi e sono sicuro che troverete indumenti, panni, stoffe di qualsiasi specie per i miei poveri negri; frugate anche nel vostro portafoglio e, sacrificando magari qualche piacere lecito, ci sarà anche qualche soldo per la mia povera missione. Pensate: mi è morto anche il cavallo, mio compagno di viaggio. Questo è meno male perché tutte le piste di viaggio sono state distrutte e quindi anche il cavallo non mi servirebbe più.. Cari lettori, vi chiedo con il cuore in mano un po’ di soldi per sfamare tanti affamati e un po’ d’indumenti per vestire i miei negri. Aiutatemi!”. P. Tarcisio Betti parla del suo viaggio di ritorno in Africa. “…Il mio viaggio di ritorno in Africa andò abbastanza 181 bene, salvo venti freddi nel Mediterraneo e mare grosso un po’ ovunque fino a Beira… Una sera, dopo il passaggio di un’onda, la poppa della neve si ingolfò al punto che strappò un urlo generale, credendo si andasse a finire in acqua… Ma come Dio volle si arrivò sani e salvi a destinazione il sabato 18 aprile”. Mpiri fu la sua nuova missione. “… Il giorno fissato per la partenza l’Africa mi venne incontro col suo benvenuto: un attacco di febbre di malaria mi tenne a letto per tre giorni. Passata la bufera presi la strada per Mpiri. Sono qui con il P. Valdameri, un canadese e un inglese”. Trionfo della fede cattolica nel Nyasaland In occasione della Pentecoste P. Remigio Villa annuncia un “...Trionfo di fede cattolica nel Nyassaland”. L’occasione è data dall’erezione in questa regione dell’Africa Centrale Inglese della Gerarchia Ecclesiastica.. Mons. Theunissen fu nominato primo Arcivescovo del Nyassaland. “… La notizia suscitò una grandissima gioia non soltanto fra i cattolici, ma in tutta la popolazione di ogni religione e razza. Incominciarono subito i preparativi per solennizzare l’avvenimento fissato per il 19 luglio dal Delegato Apostolico e la municipalità di Limbe-Blantyre considerò onore altissimo essere stata scelta a sede metropolitana. Il Nyasaland mai vide nella sua storia una folla così numerosa ed entusiasta come quella di domenica 19 luglio. Migliaia di africani si affollavano intorno alla cattedrale per vedere la processione dei Vescovi e del clero. Tutti sentivano che quel giorno doveva essere veramente straordinario. Infatti la Chiesa Cattolica del Nyasaland diventava, per così dire, maggiorenne con esistenza piena e giuridica. 182 Tutto il Nyasaland era presente, dal Commissario del provincia all’ultimo africano giunto a piedi dal suo villaggio…”. Le statistiche, pur nella loro aridità, sono eloquenti: dallo zero del 1901, siamo ora nel Nyasaland ad una cristianità di oltre 444.000 cristiani. Delle 2284 scuole 1249 sono cattoliche. Come pure 13 delle 24 scuole superiori e normali. In queste scuole 140.000 ragazzi ricevono la loro educazione. Il trionfo del 19 luglio non fu dunque che il premio di un lavoro duro e paziente di molti anni di sacrificio…”. Un missionario bergamasco simpaticissimo In questo periodo il più attivo a corrispondere con “L’Apostolo di Maria” è ancora P. Remigio Villa che il gesuita P. Ilario Rudez, dopo averlo conosciuto in occasione di un viaggio attraverso le missioni del Nyasaland, definisce amichevolmente “un missionario bergamasco simpaticissimo”. Ecco la sua testimonianza: “...Non posso tralasciare un cenno all’incontro con un simpaticissimo bergamasco, il P. Remigio Villa, Superiore dei Monfortani di Limbe, che mi ospitò con tanta cordialità e mi fece visitare tutto il vasto territorio dove i suoi missionari svolgono un’attività incredibile. Visitai tutte le missioni, entrai in tutte le scuole e in tutte le classi, accolto con vero entusiasmo, meravigliato nel sentirmi cantare quelle canzoni genuinamente africane che in breve tempo avevo imparato e sapevo ormai accompagnare con la mia inseparabile fisarmonica. Se ce ne fosse qualche decina in più di questi missionari, il Nyasaland diventerebbe ben presto cristiano: si tratta soltanto di mietere. Mons. Knox, già Delegato Apostolico, diceva: “Non basteranno cent’anni per ricuperare l’eventuale ritardo di questi dieci anni”. Io vorrei aggiungere per tutti coloro che 183 hanno un cuore giovane e generoso: “Venite quaggiù soltanto per qualche anno; poi andremo in India, in Giappone o dove vorrete”. Il Superiore Provinciale in visita nel Madagascar In luglio “…per la prima volta nella storia della Provincia Italiana un Padre Provinciale ha visitato i suoi missionari sul loro campo di lavoro”. Le notizie di questo importante avvenimento sono fornite da P. Pietro Valsecchi: “…Con l’auto concessagli gentilmente dal P. Méar, Vicario Generale, il Provinciale ha potuto venire a visitarci egli stesso nelle nostre diverse residenze. Fra Paolo fu il primo ad essere pescato… E poi, dopo una corsa di 90 Km. ecco l’incontro con P. Berton nella sua isolata e silenziosa residenza di Ilaka… Altri 40 Km. ed ecco Mahanoro: lì c’è P. Assolari che l’attende con ansia speciale… Lasciando le costruzioni in cemento, l’auto condusse il P. Provinciale nell’interno delle foreste di ravenale, di rafia e di eucalipti. Dopo 70 Km. poté incontrare P. Marchesi nella sua casa di legno col tetto di foglie di ravenale… Il giorno dopo, l’auto lo portò ancora più nell’interno e dopo una gimkana di 60 Km. poté arrivare a Marolambo dove trovò il solo P. Omizzolo… Il 25 ottobre il Padre partì per visitare l’ultima residenza, la più a sud: Ambodilafa, casa di P. Nozza. Dovette fare un giro di almeno 200 Km. per poterla raggiungere in auto… Per ben chiudere questa visita, purtroppo assai veloce, ci si riunì tutti a Mahanoro per uno scambio di idee, di vedute e di propositi…”. 184 I miei quattro anni di missione Agli amici de “L’Apostolo di Maria” e delle missioni scrive P. Emilio Nozza per tracciare un bilancio del suo quarto anno di missione. “… Con la fine del prossimo mese saranno ormai quattro anni che mi trovo qui in Madagascar. Mi trovo sperduto tra le montagne e trascorro la mia vita marciando più volte da mattina a sera attraverso queste foreste in cerca di sordi, ciechi e zoppi nello spirito. La mia casa abituale è ormai la strada: compio regolarmente ogni mese tra i trecento e i cinquecento chilometri a piedi e mi è difficile fare una sosta superiore ai cinque giorni. Il male della strada è il male di ogni missionario qui nel mio Distretto. Realizzare il mio ideale missionario mi è impossibile senza una continua marcia. Quindi continuo e continuerò fino al giorno che mi si dirà di arrestarmi! Farvi il bilancio del mio lavoro missionario non è cosa né difficile né lunga. Parlarvi poi dei miei progetti, delle mie chiese di prossima costruzione mi è molto più facile… Per incoraggiare i miei cristiani per rendere più grande la Chiesa Cattolica agli occhi di questi indigeni, ho progettato la costruzione di due piccole chiese in mattoni. Saranno le prime del genere in tutto il Sud della Diocesi di Tamatave. Qui, solo ora, si sta incominciando a costruire con i mattoni. Finora non si costruiva che il legno e foglie. Arriverò al termine di questo mio sogno?… Spero nell’aiuto del Cielo e nel vostro aiuto, cari lettori”. Un telegramma dal Nyasaland del 7 novembre annunzia la morte di Mons. Luigi Auneau, vescovo monfortano della missione dello Shiré. Una lettera successiva di P. R. Villa comunicava i particolari di questo grande lutto. P. P. Buondonno, in un articolo commemorativo sulle pagine de “L’Apostolo di Maria” lo descrive come “…un condottiero 185 degno di un poema: il poema di una cristianità che sotto la sua guida è passata dai mille cristiani di cinquant’anni fa ai trecento mila di oggi…”. Pagine di diario del Provinciale A partire dal secondo numero del 1960, “L’Apostolo di Maria” inizia la pubblicazione di “Pagine di Diario”, resoconto dettagliato del viaggio nel Continente Nero di P. Pasquale Buondonno, iniziato il 5 agosto 1959: “… Se lo scrittore francese Saverio de Maistre ha potuto comporre un discreto, interessante volume per narrare di un suo viaggio intorno alla propria camera, penso di poter destare io pure un qualche interesse sfogliando il diario di un viaggio compiuto nel Continente Nero e che mi ha fatto percorrere più di 35.000 chilometri. Mi sono arricchito di una nuova bellissima esperienza; ho preso il “Mal d'Africa”, quel male che caratterizza i nostri cari missionari. Un male che fu messo addosso agli Apostoli da Gesù stesso, quando disse loro: “Andate, insegnate a tutte le genti…”. P. Vittorio Crippa e P. Giovanni Giavarini informano che stanno per fondare una nuova missione. “...Siamo qui a Masanjala per dare inizio alla missione della fame. Difatti il significato etimologico di Masanjala è “occhi della fame”. Si può così immaginare tutte le conseguenze di questo nome. Tra i significati di miseria che può avere Masanjala, uno è abbastanza consolante: vedere i nostri neri affamati di Eucaristia. Circa mille sono le SS. Comunioni settimanali. Il giorno dell’Immacolata, poi, è stato un assalto alle balaustre e con nostra sorpresa e soddisfazione abbiamo svuotato due grossi pissidi. Si noti che qui non è festa di precetto. È la Madonna che attira a Gesù. 186 Veramente suggestiva fu la consacrazione degli scolari all’Immacolata. È un grande conforto per noi missionari. Ma quante anime ci attendono ancora. Nella nostra missione contiamo solo 10.000 cristiani su una popolazione di 80.000 abitanti… e siamo solo due missionari. Se spiritualmente possiamo chiamare Masanjala la missione che ha fame di bene, materialmente va chiamata la missione della fame e della miseria. Noi missionari siamo sistemati in un vero buco. La chiesa sta per cadere. Scuole da costruire, opere da sviluppare. Al solo pensarci si diventerebbe matti! Sentite. Con fatica abbiamo scavato un pozzo… Scava che ti scavo, speravamo di trovare un filone d’oro… Macché! Solo acqua e poca anche quella! La provvidenza di Dio ci aiuterà sempre…”. 187 1960 Nuove partenze per le missioni “Vi siete mai chiesto come possa nascere una cristianità?” Se lo chiede P. Alessandro Assolari. E risponde: “...Le vie del Signore sono infinite. E come tutte le strade conducono a Roma, così tutti i mezzi possono essere impiegati da Cristo per penetrare là dove prima non c’era la preghiera. Spesso qui la gente viene alla chiesa tramite la parentela. Un membro della famiglia si fa cristiano, e come una ciliegia tira l’altra e via di seguito. Vi dirò pure che qui i legami della parentela sono assai sentiti. Questo fatto, in se stesso positivo, può avere effetti negativi, perché capita di frequente che la famiglia pagana influisca sul neoconvertito, soprattutto in alcune circostanze particolari, e tenti di assorbirlo per ricondurlo alle pratiche pagane: sortilegi, sacrifici, concubinaggio, ecc.. Le cristianità ferventi riescono ordinariamente a far pregare i villaggi circonvicini. Se pescano qualche simpatizzante lo entusiasmano, lo convincono e li abituano a poco a poco alla vita cristiana. Un gruppo di fervorosi si recherà ogni domenica nel villaggio ove si vuol pregare per insegnare canti e catechismo e organizzare, se le cose vanno per il meglio, la riunione per la santificazione della domenica. Da noi qui c’è un altro fenomeno che si verifica in seguito alla inondazioni. La gente della pianura tende a spostarsi verso l’interno collinoso per trovare terreno interessante le colture ricche: caffè, garofano, pepe, vaniglia. Possono arrivare in una zona dove “lo straniero della barba” non sia passato. Se tali individui non cristiani poco ferventi finiscono col ricadere in pieno nelle abitudini pagane e si perdono. Ma ve ne sono pure di bravi, soprattutto coloro che sono in regola con la Chiesa in fatto di matrimonio. Costoro frequentano la cristianità più vicina, la domenica. Però, presto, 188 a causa del maltempo o dei figli numerosi, finiscono per restare a pregare sul posto: là una nuova cristianità nasce…” Con il numero di Aprile 1960 parte su “L’Apostolo di Maria” la rubrica “Pagine di Diario”: Il mio viaggio nel Continente nero, di P. Pasquale Buondonno. E' una ricca fonte d'informazioni, di ricordi e di riflessioni sulla realtà incontrate in questo primo contato con le missioni del Nyasaland prima e con il Madagascar, subito dopo. Anivorano: Una serra di fiori assortiti P. Rizzardo Omizzolo informa sul seminario di Anivorano: una serra di fiori assortiti. “… L’Isola di Madagascar conta già circa venti preti indigeni, appartenenti sia al Clero secolare che a differenti Congregazioni religiose. Tutti lavorano in Patria, nella Grande Isola, dediti al ministero parrocchiale o all’evangelizzazione diretta dei connazionali ancora pagani o aderenti a diverse sette protestanti. Ma quando si pensi ai cinque milioni e più d’abitanti dei quali solo un milione sono cattolici, si può farsi un’idea dell’immenso lavoro che resta ancora da compiere in questa porzione della Vigna del Signore. Da parecchie decine d’anni già, molto tempo prima che si potesse sperare l’istituzione della gerarchia ecclesiastica nel Madagascar, ma indubbiamente in vista di questa possibilità per il futuro, i Vicari Apostolici e i missionari tutti si erano preoccupati della formazione del Clero indigeno. Ora, nelle 14 Arcidiocesi e Diocesi in cui è stata divisa l’isola, si è intensificato lo sforzo nella fondazione e nello sviluppo dei Seminari Diocesani, per formare un clero sufficiente e sempre più abbondante alla Patria, divenuta ormai maggiorenne e Stato indipendente. Nella Diocesi di Tamatave, il Seminario di Anivorano fu fondato in sede propria nel 1951 da Mons. Alano Le Breton. 189 Da principio era stato sistemato alla meglio in ampie baracche costruite col sistema locale d’ossatura in legno e pareti in traliccio di giunchi e bambù, con tetto di foglie di ravenale. Il luogo scelto era incantevole: alla confluenza di due fiumi, sulle collinette sovrastanti il centro abitato del cantone di Anivorano, e in buona parte ricoperte da simmetriche piantagioni di eucaliptus. Aria, sole e solitudine ideale. A motivo dell’aumento di aspiranti e della conseguente insufficienza di spazio il vescovo, il dinamico Mons. Puset pensò a nuovi progetti. Sua Eccellenza è pieno di fiducia nella Divina Provvidenza, la quale non mancherà certo di venire in aiuto. I fiori del nostro giardino sono svariati, poiché qui in Madagascar non v’è mai stata discriminazione razziale e di colore. Il colore della pelle può essere vario, ma l’ideale è unico: divenire degli zelanti sacerdoti nel clero diocesano…”. Vado dove ci sono lavori più urgenti Si fa vivo anche Fratel Paolo. “… Non ho ancora residenza fissa. Vado dove ci sono i lavori più urgenti. Ora mi trovo ad Ambinanindrano con P. Marchesi per coprire con tetto di legno la chiesa, per rifare la cucina che è un vero porcile… La sporcizia e la miseria regnano ovunque in questa baracca, come sono in generale tutte le altre capanne. In compenso della miseria c’è tanta fede nei cristiani. Ho avuto la fortuna in questi giorni di assistere ad un piccolo teatrino dato all’aperto dai negri. Vedeste come recitano bene, anche se molti non sanno né scrivere né leggere. Recitare è la loro arte! Lavorare… non troppo! Ambinanindrano è un piccolo paese sperduto nella foresta. Conta 150 cristiani, 100 anglicani, 50 protestanti, gli altri tutti pagani. In tutto 700 abitanti. È proprio vero che i soldi non rendono felici. Questa gente è sempre allegra. I negri qui non sanno cosa significhi 190 arrabbiarsi o non essere contenti della vita povera. Mangiano un po’ di riso insieme con qualche. In paese la posta arriva due volte la settimana e così parte… sempre portata a piedi fino a Mahanoro, che dista 70 chilometri. Luce, acqua, radio, giornale qui non esistono. Eppure voi vedete la gente sempre disposta a ridere, a scherzare, poco preoccupata della vita d’affari. Si può dire che vivono proprio il Vangelo alla lettera. Pensano a vivere giorno per giorno… Anche noi abbiamo qualcosa da imparare da questi negri…”. Pasqua di Risurrezione a Masomeloka. Ne parla P. Alessandro Assolari in una lettera. “...Da tanto tempo volevo indirizzarmi a voi per darvi la bella notizia: abbiamo vissuto a Masomeloka un giorno splendido, un giorno che ne vale cento, secondo un modo di dire malgascio. A Masomeloka è stata celebrata una prima S. Messa. No, non vi sono state ordinazioni. Supposto che tutto vada bene, ce ne sarà una di qui a quindici anni. Non v’era nemmeno un sacerdote novello. Eppure abbiamo festeggiato una prima S. Messa: la Santa notte di Pasqua ho potuto celebrare la prima S. Messa nella nuova chiesa. Non pensavamo di farcela. La domenica delle Palme il tetto non era stato posto. Ma fra Henri, il quale era venuto da Anivorano con tutta una squadra di falegnami e carpentieri, ce la mise tutta. E la sera del Giovedì Santo era tutto radioso quando poté dirmi: “Sabato sera, Padre, potremo pregare nella nuova chiesa”. Difatti, negli ultimi giorni disparve da tutti noi qui quella specie di pigrizia che patina l’esistenza di chi vive sotto i tropici. Il tetto non era stato messo, ma la nostra chiesa aveva l’aspetto d’un capannone e bisognava far lavorare la fantasia per vedervi una… basilica. Uomini e donne, grandi e piccoli: tutti ci mettemmo all’opera. Io mi riservai il coro: una 191 sessantina di metri quadrati di pavimento. Non v’era altro. Due fusti di benzina vuoti, quattro tavole, alcuni metri di stoffa: e l’altare era fatto. Un fusto di benzina vuoto ed un coperchio di cassa furono tramutati in tavolo per le cerimonie. Quattro prisme disposte con gusto e simmetria ci diedero lo sgabello per gli inservienti. La nostra Pasqua è un passaggio. Ce lo spiegò lo stesso S. Paolo, il quale se n’intendeva di queste cose. Lo ripetei io pure ai miei cristiani riunitisi il Sabato Santo alle dieci di sera nella vecchia cappella. Dissi loro: “Volete sapere che cosa vuol dire celebrare la S. Pasqua? Vuol dire passare da ciò che è vecchio ad uno stato nuovo. In questa povera e cara chiesa abbiamo pregato tanto in questi anni, eppure ora non ci restiamo più. Sapete perché? Gesù l’ha abbandonata. Anche noi l’abbandoniamo perché vogliamo celebrare la S. Pasqua nella nuova chiesa. È là che Gesù ci attende… Accanto alla nuova chiesa c’è un’altra costruzione. È Fra Paolo che lavora e vi fa lavorare: stiamo costruendo la casa. Ed è logico: non pretenderete che abbiamo ad abitare nella foresta. La nuova casa sarà una costruzione che concilierà l’eleganza e la semplicità estrema… Alcuni lettori de “L’Apostolo” mi hanno scritto lamentandosi perché sulle foto pubblicate nella rivista ho l’aspetto troppo serio. I motivi? Sono le preoccupazioni di ordine economico, che in parole povere si chiamano debiti. Vi assicuro che ne ho tanti. I miei cristiani sono poveri, per di più soffrono ancora le conseguenze delle gravi inondazioni e cicloni che funestarono tutto il Madagascar lo scorso anno. Da soli non potremo mai e poi mai sbarazzarci di questi parassiti noiosissimi. Volete che io sorrida d’un sorriso aperto e sereno? Se tutti i lettori de “L’Apostolo” si privassero d’un solo gelato a beneficio della mia missione, avrei il cemento necessario per portare a termine i lavori. Se tutti i lettori mi 192 dessero cento lire vi assicuro che su “L’Apostolo” apparirebbe la foto d’un Padre Assolari sorridente…”. Due Padri di “prima barba missionaria” in Madagascar Nella ricorrenza della Madonna del Rosario Mons. G. Piazzi, vescovo di Bergamo, consegna il Crocifisso a due giovani missionari “di prima barba missionaria”: P. Angelo Rota di Torre Boldone e P. Achille Valsecchi di Sant’Antonio d’Adda. “Sacerdoti da pochi anni, sono stati destinati alle missioni estere. È sembrato più che naturale, nel ricordo e sull’esempio di Luigi di Montfort, consegnare loro il Crocifisso di missione nel nostro Santuario, nel centro di quella casa in cui le missioni si vivono con il cuore e con la fantasia prima che nella realtà. S. E. Mons. Piazzi vedeva nella presenza di questi due giovani un motivo di gaudio. Seguiti dagli sguardi dei loro cari accorsi come per un’altra prima Messa, si sono inginocchiati dinanzi all’altare ricevendo insieme con il Crocifisso l’abbraccio fraterno del Vescovo. Per essi Mons. Piazzi ebbe commosse parole di saluto e di augurio. Si dà loro un Crocifisso - diceva - perché tutto il lavoro missionario è incentrato in N. S. Gesù Cristo. Comincia con Gesù, viene condotto con Gesù e per Gesù e termina con Gesù. Ecco perché giustamente al missionario che parte si dona il Crocifisso…”. Inquilini indesiderati nelle residenze missionarie Nella residenze missionarie spesso s’incontrano “inquilini indesiderati”. Ne parla P. Carlo Berton scrivendo dalla sua missione di Ilaka. “Il posto missionario di Ilaka ha ormai 15 anni di vita, anche se non è ancora missione... La costruzione si trova alquanto separata dal villaggio. La chiesa e la casa dei 193 missionari sorgono circondate dagli alti eucaliptus che danno un senso di pace e di frescura anche nelle giornate più torride. Se tutte le missioni sono povere, Ilaka non nuota certo nell’abbondanza. La chiesa è costruita con lo stesso materiale delle capanne malgasce. Lo scheletro in legno, il tetto coperto dalle foglie di ravenale la cui durata è assai effimera e le pareti di falafa intessuta con il gambo delle foglie di ravenale. Da qualche mese la parete sinistra è inclinata di qualche spanna, ma pare non abbia intenzione di cadere. Banchi non ce ne sono troppi e quindi arrivano solo fino a metà chiesa. Il motivo è semplice: se c’è molto legno mancano gli attrezzi per lavorarlo. Nel Madagascar, isola ricca di foreste, arriva del legname lavorato dalla Francia. La chiesa è dedicata al nostro Fondatore, San Luigi Maria. L’interno, specie nelle grandi feste, viene ornato con ogni cura per infondere negli indigeni il rispetto per la Casa di Dio. Non manca il campanile. Vi è un’autentica campana la cui grandezza richiama alla mente la campanella che i contadini italiani appendono al collo delle mucche. I suoi sostegni sono gli eucaliptus. Quando la si suona, bisogna stare a rispettabile distanza per non riceverla addosso. L’eucaliptus infatti dondola come un elastico. Quando poi piove molto, l’acqua ingrossa la corteccia e allora la povera campanella non vuole più girare nei cardini. Se la chiesa è povera, la casa del missionario non è migliore. Costruita con lo stesso materiale della chiesa, ha però una variante. Il pavimento è in rapaca, è fatto cioè in corteccia dell’ormai noto ravenale. Questo pavimento ha molte qualità, non escluso qualche difetto. Per chi cammina la prima volta, pare di mettere i piedi su delle molle che si abbassano e rialzano a scatti. Dalle ampie fessure passa aria refrigerante che rende ottima la temperatura. L’unico difetto è questo: dalle fessure, purtroppo, entrano tanti ospiti indesiderati: lucertole, scarabei, formiche, topi. 194 Entrano ed escono a loro piacimento, passeggiando beatamente. Qualche volta entrano pure dei serpenti… Ogni missione ha i suoi dolori più o meno varianti, più o meno acuti. Ad Ilaka la mancanza più avvertita è questa: la scuola e le Suore. Mancare una scuola per una missione è quasi un suicidio. Senza la scuola non si hanno i fanciulli e senza gioventù non si ha una cristianità domani. È nei giovani che penetra più facilmente la formazione e la mentalità cristiana. Provo quasi vergogna scrivere che la mia missione non ha la scuola, ma la colpa non è dei missionari, la colpa è dei soldi che mancano. Da un sasso non si spreme acqua. E così si resta ad attendere. La seconda mancanza è quella delle Suore. Tutto il mondo femminile è più facile avvicinarlo con le Suore. La Suora è il vero braccio destro del missionario. Quando vedo passare le fanciulle pagane con appesa al collo una collana di amuleti donati loro, quale protezione dallo stregone, allora penso sempre agli angeli bianchi che mancano alla missione e penso alle migliaia di Suore disseminate in tutta Italia. In certi paesi anche piccoli ve ne sono parecchie e qui in un territorio abitato da 35.000 anime non ve n’è una sola. Quando si pensa a ciò, vi assicuro che nel fondo dell’anima ci resta qualcosa di strano che opprime e vi sorregge solo la speranza che qualche anima generosa abbia ad aiutarvi…”. Il lebbrosario di Utale: la perla della missione Nel suo “Diario Africano” P. Pasquale Buodonno descrive la sua visita ad Utale e il suo lebbrosario, “perla della missione”. “...Utale è la località dove i Monfortani hanno sistemato da più di trent’anni la perla della missione del Nyasaland, il Lebbrosario. 195 In quel luogo di pianura, in mezzo ad una fitta foresta, già dal 1908 il Vescovo Mons. Luigi Auneau aveva costruito un posto di missione. Il passare degli anni gli fece notare una categoria particolarmente infelice e bisognosa, quella dei poveri lebbrosi. In Africa la malattia è allo stato endemico e miete numerose vittime. Il primo rimedio che viene applicato ai poveri lebbrosi è ancora quello di cui parla il Vangelo: una segregazione spietata che butta il povero malato in braccio alla desolazione più amara. Il cuore del nostro grande Vescovo si commosse allo spettacolo di questa desolazione disperata e creò il 1929 il lebbrosario... Gli angeli del lebbrosario sono le Figlie della Sapienza e le Suore indigene Serve della Santissima Vergine. Per poter essere più sollecite nei loro movimenti non solo di casetta in casetta nel villaggio, ma anche nella vasta periferia, esse adoperano delle motorette abbastanza veloci e poco rumorose. Peccato non abbia incontrato qui nel suo luogo di lavoro la nostra Suor Francesca. Proprio in questi giorni essa era rientrata in Patria per un periodo di riposo…”. . 196 1961 Nuovi disordini in Nyasaland Haiti: espulsi un vescovo e quattro Missionari Monfortani Il nuovo anno si apre con la notizia che il vescovo Mons. Remy Augustin e quattro missionari monfortani sono stati espulsi dalla missione di Haiti. “...Il Governo di Haiti ha sospeso un giornale cattolico, espulso il più alto dignitario della Chiesa cattolica e ordinato l’allontanamento dall’isola di quattro sacerdoti. Mons. Remy Augustin è stato fatto salire su un apparecchio in partenza per l’Argentina, dopo quattordici ore di arresto domiciliare. La Polizia aveva fatto irruzione nella sua camera mentre egli si trovava a letto e non gli aveva permesso nemmeno di prendere con sé la protesi dentaria. In seguito è stata decretata l’espulsione di quattro sacerdoti fermati in giornata: il Vicario Generale dell’arcivescovado, il suo Segretario Generale, il Rettore della maggiore scuola superiore cattolica di Port au Prince e un altro sacerdote. In precedenza il Governo aveva preso altri duri provvedimenti contro la Chiesa, espellendo dall’isola il primate Farancois Poirier”. Immediata e dura la reazione della Santa Sede che commina ai responsabili la scomunica “latae sententiae” riservata in special modo alla Sede Apostolica. Un forte appello alla collaborazione Dal Madagascar P. Emilio Nozza “rilancia un appello ancora più forte”. “… E’ notte ed i miei cristiani stanno cuocendo i centomila mattoni terminati dopo tre lunghi mesi. È ora il bello: i mattoni stanno diventando rossi nella fornace, mentre… le mie tasche stanno diventando verdi, sempre più 197 verdi. Alcuni mesi or sono ho lanciato un appello alla gente generosa: a che punto siamo? Nel caso che non ci fossero risultati rilanciamo l’appello ancora più forte nella speranza che possa essere accolto. Dovrei in principio iniziare la mia chiesa il mese prossimo e mi trovo già in fastidio per comprarmi un poco di cemento. Spero sempre nella Divina Provvidenza e nell’aiuto di tante persone buone e generose…”. Ho pensato di procurarmi una moto Scrive anche P. Carlo Berton per annunciare che da cavaliere sfortunato è diventato cittadino. “...La proclamazione dell’indipendenza malgascia si è svolta nella calma e nell’ordine più perfetto. Ne sia ringraziato Iddio. In quei giorni nessun disordine all’infuori degli ubriaconi. I malgasci amano l’alcool ed è una delle piaghe che affligge il popolo già povero. Quando sono brilli parlano tutti il francese. Pare che il vino dia loro il dono delle lingue. Il mio cavallo, dapprima ammalato al piede, ha tirato le cuoia già da parecchi mesi, e siccome non ero in residenza non potei vederne neppure la carcassa… Visto che sono un cavaliere sfortunato, ho pensato di procurarmi una moto. Chi me la pagherà? Mi è proprio necessaria, giacché da alcune settimane ho cambiato residenza e il Vescovo mi ha chiamato a Tamatave nella chiesa di Notre Dame di Lourdes, in veste di vicario, per aiutare il Curato della più grande parrocchia della città. Un grande cambiamento per me. Sono diventato cittadino! Celebrato il Natale nella brousse ho dovuto partire per la città. Addio cavallo, corse alla cow-boys, la semplicità della gente della foresta, addio al bel dialetto Betsimisaraka. Ora si apre per me una nuova vita: apprendere la lingua merina ed esercitarmi nella predicazione in francese. La parrocchia infatti è mista: vi sono creoli francesi e malgasci di 198 tutte le tribù dell’isola, spinti qui dal fenomeno dell’urbanizzazione. Un lavoro assorbente: 11.000 battezzati dei 25.000 abitanti della nostra parrocchia. Accanto a noi una scuola di Fratelli delle Scuole Cristiane con 500 alunni e le Suore con non so ancora con quante ragazze. Per ora non riesco ancora ad ambientarmi; spero però che lo farò presto dato che le persone qui hanno l’aria assai simpatica”. Notizie frammentarie giungono anche da altri missionari. Scrive P. Remigio Villa: “...Le cose vanno malissimo nel Nyasaland. Il partito di Banda si è scatenato furioso contro la Chiesa perché la si accusa di aver formato il Partito Democratico Cristiano. I Vescovi, riuniti, hanno fatto una dichiarazione. Anche il giornale locale ha riportato la risposta del Vescovo. Ma il passo del giornale del partito è velenoso e se la prende con il Papa, con il Vescovo e con il capo del nuovo partito. La gente tira avanti sempre più povera e miserabile”. Nonostante i disordini c'è ovunque un fervore cristiano P. Vittorio Crippa aggiunge: “...Qui da noi, nonostante gli strombazzamenti dei seguaci di Banda, c’è dovunque un consolante fervore cristiano. Trecentocinquanta furono i battesimi e quattrocento le Prime Comunioni. Il giorno delle Cresime il Vescovo, mentre stava cresimando, di tanto in tanto mi guardava con due occhi che in fondo esprimevano la sua soddisfazione, ma come per dire...qui non finisce più. Ed aveva ragione, perché per arrivare ad amministrare la Cresima a ottocento cristiani c’era da sudare. 80 matrimoni in un sol colpo. C’era da imparare a memoria senza sforzo le parole della formula, senza tutto il resto. Infatti, qui il rituale del sacramento del Matrimonio è molto bello, ma abbastanza lungo con i suoi salmi e relative numerose benedizioni…”. 199 Ulteriori informazioni sulla reale situazione del Paese P. Vittorio Crippa invia ulteriori informazioni sulla situazione politica del Paese. “...Da parecchi giorni sono passato dalla diocesi di Blantyre a quella di Zomba. Da Masanjala, paese della fame, sono arrivato a Namitendo, paese della miseria. Qui fa molto caldo e ci sono le zanzare. A qualche chilometro scorre il fiume Shirè, lungo il quale si trovano delle scritte: “Attenti ai coccodrilli!”, ma questi che sanno ben leggere, in barba ai cartelli, mettono la loro pancia al sole là dove non ci sono scritte, per restare più tranquilli. Questa mia nuova missione si trova in pieno bosco. Conta circa 7.000 cristiani che vivono tra molti musulmani. . Per fortuna ci sono una bella scuola e una modesta casa di residenza. La cappella fa veramente pietà. Manca tutto. Sull’altare ci sono due canne di bambù che funzionano da candelieri. Qualche straccio bianco per tovaglia. Una grossa scatola per tabernacolo. Signore, abbi pietà di noi! La missione è tutta da organizzare con chiese e scuole succursali. In questo tempo il nostro apostolato si fa più difficile a causa dei movimenti politici. Il famoso dott. Banda con i suoi seguaci vuole introdurre il comunismo e ne ha già dato prova lampante attaccando apertamente l’imperialismo del Vaticano, per cui ha intenzione di organizzare una chiesa nazionale. Il suo partito ha ormai conquistato quasi tutti i neri, i quali aderiscono perché intimoriti con frasi di questo tipo: “Se non vuoi appartenere al partito, segno che sei con i bianchi”. Bruciano case, mollano manganellate. Così, anche i cristiani si lasciano prendere dalla paura e mandano al diavolo il loro cristianesimo. Ora noi missionari combattiamo accanitamente e incoraggiamo i fedeli a mantenersi forti. Grazie a Dio, parecchi comprendono bene che si può ottenere l’indipendenza senza rinnegare la propria fede… e ci 200 aiutano nella lotta. Vi chiedo una preghiera per me e per i miei cristiani. È l’unica arma che ci fa forti e, speriamo, vittoriosi!” Notizie sulla sorte di Mons. Augustin “L’Apostolo di Maria” informa anche circa il seguito dell’espulsione di Mons. R. Augustin da Haiti. Le notizie giungono dagli Stati Uniti a firma di P. Pasquale Buondonno. “...A trovarmi qui a New York, a contatto di un mondo nuovo, con la possibilità di rendere più ricca la mia esperienza, mi ha permesso di assistere pure al penultimo atto di un dramma della Chiesa Cattolica nella Perla delle Antille: l’isola di Haiti. Avevamo appena terminato la Santa Messa il mercoledì 11 gennaio, quando il Padre Generale, qui di passaggio, mi fece segno di avvicinarmi. Mi mostrò sul giornale: “New York Times” la notizia dell’espulsione di Mons. Remigio Augustin, Amministratore Apostolico della capitale di Haiti, Port au Prince. Il giornale diceva che al Vescovo era stata data una direzione obbligata per il suo esilio. Buenos Aires, ci chiedevamo, cosa andrà a fare lì il povero Vescovo? Monfortani in Argentina ancora non ce ne sono. Nulla di improbabile che egli riesca a cambiare rotta e a venire qui negli Stati Uniti. Infatti, il giorno dopo un telegramma ci avvertiva che Monsignore sarebbe arrivato all’aeroporto di New York la sera seguente… Il motivo ufficiale dell’arresto e dell’ordine di esilio? Monsignore, in occasione di un suo viaggio nell’America Latina aveva parlato con un nemico dell’attuale Governo del Presidente Duvalier. Intanto noi Monfortani siamo in trepidazione per la più antica delle nostre missioni: vi lavorano da quasi cent’anni e vi siamo bonificando, Padri e Suore, la terra e le anime. 201 Come andrà a finire? La Santa Sede ha detto la parola ufficiale per interpretare i fatti: si tratta di una vera persecuzione e i responsabili della medesima sono incorsi nella scomunica riservata al Papa “speciali modo”. . Dalla missione di Mpiri P. Tarcisio Betti scrive a “L’Apostolo di Maria” per rompere un lungo periodo di silenzio. “Caro Apostolo di Maria, mi sia permesso di rompere il muro di silenzio pere inviare a te a ai tuoi cari lettori qualche notizia dalla missione di Mpiri. Pensavo di dover scrivere, in questo mese, dagli inferi o dal profondo di qualche carcere Mamertino. La ragione è semplice. Tre mesi fa, un grosso esponente del partito nazionale “Malawi Congress Party” fece grandi giri di propaganda attorno alla missione di Mpiri, e, tra le altre belle cose, predicava: ancora tre mesi e la missione di Mpiri diventerà Quartiere Generale e Uffici del Malawi Party… Quel tribuno non ha mai detto cosa ne avrebbe fatto di quelli che abitavano a Mpiri… Di più, una quarantina di camice rosse, delle quali si vestono uomini e donne del partito, invece di salutare come nei vecchi tempi, alzavano il braccio destro, chiudevano il pugno, lasciando il pollice in aria, e vi gridavano: Kwacia, AAzungu! ( S’è fatto giorno, Europei!) A mettere il formaggio sulla minestra venne un giorno il commissario del distretto a domandarci che mezzi avevamo di tagliare la corda in caso di… Allora erano tempi un po’ tirati. Ascoltando la prediche del tribuno di cui sopra, che la Chiesa Romana è diventata cattiva, causa la fondazione del “Christian Democratic Party” da parte di un cattolico, alcuni capi hanno dato anche fuoco alla chiesa-cappella innalzata nel loro villaggio; altri proibivano ai ragazzi di frequentare la nostra scuola. Tutto questo è stato un temporale che per il momento almeno si è calmato. Poi non tutti i Malawiani sono degli 202 sfegatati. Per esempio: il predicatore suddetto aveva ordinato di boicottare i mulini appartenenti ai bianchi, agli indiani. Ciò fu fatto. Un maomettano che abita alle porte di Mpiri ed il capoccia del “Mpiri Branch of Malawi Congress Party” ricevette l’ordine di venire alla missione per ordinare la chiusura del mulino che ci aiuta a spingere avanti le scuole. Qui alla missione non si è mai fatto vedere per dare comandi. Per ora il mulino continua allegramente a funzionare richiamando cristiani, maomettani e pagani a portare il loro contributo alla missione. Ciò che consola il missionario è che in mezzo a questo trambusto politico il Signore continua la sua opera salvatrice. L’anno scorso circa 400 furono i nuovi battezzati tra adulti e bambini. Tra gli altri convertiti c’è da ricordare una famiglia della chiesa scozzese, passata alla religione cattolica. Il padre della famiglia era stato pastore della setta nel suo villaggio per molti anni. Nei giorni che passò qui alla missione per prepararsi ad essere ricevuto nella Chiesa cattolica, uscì con queste parole che non si possono dimenticare: “Padre, io ho letto e spiegato il Vangelo e la Bibbia, per molti anni, la domenica, ma devo confessare che soltanto quando ho cominciato a leggere e imparare il vostro catechismo ho incominciato a capire il vangelo…”. L'anno scorso, in ottobre, con gioia generale si celebrò il 25° della missione di Mpiri. Tutti i Padri che hanno lavorato qui erano stati invitati con i piccoli e i grandi capi. Qualche membro sfegatato del “Malawi Party” cercò di mettere un po’ di subbuglio, di disordine e di timore nella grande folla dei convenuti, ma i grandi e piccoli capi, riconoscenti, vennero a ringraziare tutti i missionari per il bene operato in questi 25 anni. Dicevano: senza la missione di Mpiri saremmo ancora nelle tenebre; grazie alla missione di Mpiri tanti dei nostri sudditi sanno leggere e scrivere e parecchi occupano dei buoni 203 impieghi nel governo. Ma la cosa più sensazionale fu di poter dire: 25 anni fa la missione di Mpiri si separava dalla Missione-Madre di Zomba, per cominciare a vivere di vita propria; e proprio in questo anno giubilare Mpiri sta diventando madre anch’essa, dando alla luce una sua figlia, la nuova missione di Namwera…”. Piccoli e grandi oranti oltre oceano P. Antonio Marchesi scrive di aver scoperto dei “Piccoli e Grandi Oranti oltre Oceano”. Rispondendo ad una loro lettera scrive: “...Voi mi avete scritto per la Pasqua del 1960 ed io vi rispondo per quella del 1961. Sono in ritardo? I miei negretti direbbero di no. Meglio tardi che mai! Grazie delle preghiere e delle belle notizie. Vi dirò che mi sono accorto di avere dei “piccoli e grandi oranti” dall’altra parte dell’oceano, perché qualche volta la scampiamo proprio bella. Si sente che la mano di un angioletto ci preserva da tanti e tanti pericoli. Una volta, per esempio, stavo cadendo nelle sabbie mobili… Un piede vi era già entrato e stava per entrare il secondo. Chi mi ha trattenuto in tempo? Non mi sono neppure reso conto sul momento. Mi sono accorto quando i cristiani m’hanno detto che l’avevo scampata bella. E chi mi ha fatto deviare quel toro infuriato che procedeva contro di me a testa bassa, sbuffando come una locomotiva, su di un sentiero in mezzo alla foresta? Il mio catechista che ha visto la scena non esita più un istante a dire che chi fa muovere gli angeli custodi ci sono proprio e potenti! Ma io sono convinto che chi fa muovere gli angeli del cielo sono le invocazioni di voi, fratellini qui in terra. Ecco perché ho tanta fiducia nelle preghiere di tutti i buoni, ma specialmente nelle vostre, che ancora conservano il profumo dell’innocenza. 204 Sono trascorse le feste pasquali. La gente partecipò a tutte le celebrazioni. Arrivarono per il Giovedì Santo e il Venerdì Santo i più lontani non fecero ritorno che il lunedì dopo Pasqua! I più non portarono con sé che il riso, accontentandosi di far bollire delle foglie come pietanza. Se alcuni non vennero era proprio perché erano impediti, dovendo in questa stagione difendere il loro raccolto dalla voracità degli uccelli e dei cinghiali. Infatti, quando il riso sta per mettere la spiga è assalito da orme di uccelli rossi, i cosiddetti cardinali, che se lasciati liberi distruggerebbero l'intera piantagione. Di notte, poi, è la volta dei cinghiali o maiali selvatici. Anche loro vengono a frotte per assaggiare il frutto proibito, ma qualche volta ci lasciano la pelle cadendo in trappola o in buche profonde ricoperte con foglie. Quest’anno si è messa anche la siccità. Gennaio e febbraio sono i mesi delle grandi piogge, e ordinariamente se ne ha fino alla gola. Quest’anno invece i campi sono rimasti asciutti in modo che si stava per perdere l’ultima speranza di una possibile raccolta di riso. Gli stregoni hanno sfoderato tutte le loro stregonerie, cercando le cause prossime e remote di un simile flagello, accusando un po’ tutto e un po’ tutti, come presunti responsabili, dimenticando, o piuttosto non sapendo trovare un rimedio che facesse aprire i cieli. Noi abbiamo preferito l’arma classica e infallibile: ogni mattina si cantavano le Litanie dei santi. Però la nostra fede è stata messa a dura prova e i miei stavano per scoraggiarsi, quando il cielo ha avuto pietà, lasciando cadere quel liquido che in poche ore ha rinverdito tutti i campi, riaccendendo la speranza e ridonando quel sorriso aperto che è la caratteristica della gente semplice, facile ad accontentarsi di poco. Così abbiamo forse evitato la carestia, parola brutta in tutti i continenti e sotto tutti i cieli. 205 Ora gli stregoni pretendono di aver ottenuto la pioggia e obbligano la gente ad uccidere un bue rosso per ogni villaggio, minacciando castighi ben più terribili qualora non si eseguissero gli ordini di Dio, manifestati per bocca di una pitone. Si ha un ben dire alla gente che i serpenti non parlano e che il Signore ha ben altre cose per manifestare la sua volontà e che non ha bisogno dei buoi rossi… Sono ancora troppi coloro che considerano la parola dello stregone come parola del Vangelo, per potersi liberare della loro tirannia. E così in questi giorni mangiano il bue rosso! Vedete che le superstizioni sono ancora di moda e non accennano a scomparire. Ne sono immersi fino alla gola… Fino a quando? Lo sa il Signore. A noi pregare…”. Ennesimo appello ai commercianti di Verdello (BG) Ennesimo appello di P. Emilio Nozza ai commercianti di Verdello: “...Rivolgermi a voi dalla mia lontana foresta, non credo sia cosa superflua né inutile. Dalla mia lontana isola del Madagascar guardo molte volte a Verdello, penso molte volte ai cari compagni di Verdello. Sono ormai sei anni che ho lasciato il paese natio per consacrarmi alla evangelizzazione della Grande Isola Rossa. Riassumervi in qualche riga il mio lavoro di contatto con questi indigeni, dispersi tra i monti e foreste è abbastanza difficile. Essendo vicina la data del mio congedo per l’Italia, invio ai nostri prossimi incontri il resoconto del mio povero lavoro apostolico e un giro d’orizzonte illustrativo circa queste popolazioni e regioni che piangono miseria, nonostante l'indipendenza politica della Repubblica del Madagascar. Tutti i subbugli, tutte le rivoluzioni, tutti i rovesci della politica e dei governi d’Africa, anche se mettono la vostra anima nell’apprensione per tanti massacri e per tante 206 ingiustizie, spero non vi facciano dimenticare che solamente l’idea cristiana può e deve portare la pace e l’equilibrio fra tribù e tribù, tra casta e casta, tra nazione e nazione. Per questo noi missionari dobbiamo continuare il nostro lavoro. L’evangelizzazione del mondo in profondità o in estensione è in ordine del Cristo, perché è il mistero della sua redenzione che si comunica all’umanità. Perciò anche noi missionari del Madagascar, benché sia evidente l’instabilità politica della nostra cara isola, continuiamo nel lavoro di evangelizzazione e di aiuto a queste popolazioni che guardano alla Chiesa Cattolica con sempre maggiore ansia e interesse. Quanto alla mia missione, priva di comunicazioni e sperduta tra foreste e montagne, dove povera gente vive continuamente del passato attorno alle tombe dei loro antenati, senza gioia e senza fede, non posso lasciarla abbandonata. Miei cari compaesani, non credo sia uno sbaglio di rivolgermi a voi per domandarvi di aiutarmi nella risurrezione spirituale di questi nostri fratelli. Il Signore vi ha aiutato e vi aiuterà in tutto ciò che vi è di più caro e di bisognoso nella vostra casa e nei vostri affari, se voi aiuterete i vostri fratelli. Ho deciso di costruire una chiesa in mattoni nel centro della mia zona missionaria. Voglio rinnovare il loro paese, distruggendo le loro baite e le loro capanne di foglie e costruendone delle nuove in mattoni. Sarà una piccola rivoluzione che non sarà da tutti forse bene accetta per tante ragioni. Ma bisognerà arrivare là. Conto sul vostro aiuto. Ho incominciato con la chiesa. È la prima chiesa che non sia di foglie, in una zona di 150 Kmq. Ho finito tutti i mattoni che c’erano… e sono solo alla base. Ora bisognerà innalzare i muri. La costruzione di questa chiesa spero possa portare a tutti questi poveri indigeni un po’ più di unione, un po’ più di amore, spero sia l’inizio della loro risurrezione…”. 207 Inizi di una nuova missione… tra i leoni “Inizi di una missione… tra i leoni”: è il titolo di una corrispondenza di P. Francesco Valdameri dalla missione di Mpiri. “...Anticamente, quando l’Africa era conosciuta solo lungo le coste, i geografi lasciavano un grande spazio vuoto nel mezzo di questo immenso continente, e vi si poteva leggere questa iscrizione latina: “Ibi sunti leones”, qui ci sono leoni. Ai nostri giorni la carta geografica dell’Africa non porta più questa segnalazione. Si è popolata di nomi più o meno noti, ma i leoni ci sono rimasti. Esistono tuttora zone in cui, a notte inoltrata, i vecchi padroni del paese fanno udire la loro potente voce e fanno valere l’indiscutibile loro autorità. È in questo ambiente che stiamo lavorando per iniziare una nuova missione. Partendo da Mpiri in direzione nord dell’Africa, sulla strada che porta al lago Nyassa, a circa 60 Km., lasciati i villaggi che costeggiano la strada, ci si inoltra per un chilometro in una zona disabitata. Tra erbacce alte e sempre fitta boscaglia, si scende in una vallata fino a raggiungere un torrente. È qui che il Vescovo di Zomba ha acquistato un appezzamento di terreno per la nuova missione. Al di là del torrente si ergono alte montagne che formano una lunga catena fino a raggiungere il lago Nyassa. Su questi monti mai persona umana osò mettere piede. Il primo giorno in cui P. Tarcisio Betti arrivò sul posto, ebbe non poche difficoltà per trovare in mezzo alla boscaglia una posizione dove iniziare una casa. Era scortato da un gruppetto di uomini armati e scuri, picconi, zappe e badili. Seguendo piccoli sentieri aperti tra le erbe dalle gazzelle, cinghiali, maiali selvatici e compagnia del genere, studiò la topografia del luogo. Un po’ ovunque vi si notarono per terra le tracce fresche di bestie selvagge. Caratteristiche e molto visibili quelle delle scimmie, delle gazzelle e dei cinghiali. Più 208 rare quelle dei leopardi. Qua e là non mancavano quelle del re della foresta. Di tanto in tanto un fruscio tra le erbe metteva in allarme la comitiva: nulla da temere; erano gazzelle o scimmie che fuggivano udendo la voce degli uomini.. Più di un mese di lavoro per abbattere piante e far luce su un promontorio roccioso, avvistato come una delle migliori posizioni per una casa. Nel frattempo si costruì in lungo capannone che servì da rifugio per la notte. In pieno giorno, mentre gli uomini lavoravano, si vedevano di tanto in tanto truppe di piccole e grosse scimmie saltellare sulla spianata, libera da piante. In mattinata vi facevano regolare apparizione i maiali selvatici e i cinghiali. Ritornavano dalle loro scorrerie notturne nei campi di mais e andavano a rintanarsi giù al torrente. Queste visite erano di un gusto selvaggio, ma gradevole. Si aveva l’impressione d’essere lontani mille secoli dal mondo attuale. Si era a contatto con la natura come fu nella fase primitiva. Di notte però, altri visitatori, benché anch’essi di stampo primitivo, erano quanto mai indesiderabili. Vi basti dire che P. Betti, dopo alcune settimane di soggiorno si sentì costretto a ritornare a Mpiri per rifarsi del sonno perduto. I leoni non avevano un po’ di ritegno nei loro potenti ruggiti notturni… Così iniziò la nuova missione per la tribù degli Aiao. I leoni sono solo un accidente…. Di buon mattino parto da Mpiri con P. Betti, alla volta di Namwera, dove già da circa un mese si sono iniziati i lavori per la nuova missione. È la mia prima visita a quel luogo. Giungendo non vedo che un grande piazzale in mezzo alla foresta ed una capannone di paglia. I lavoratori non fanno che portare pietre. Scegliamo la posizione migliore e tracciamo su carta il piano regolatore… Alcuni uomini accendono un fuoco, prendono le loro pentole di terracotta e si preparano un meritato pranzetto. Avevano fatto portare dalla missione di Mpiri un sacco di farina di mais ed un altro di fagioli. Tutti trovano così di che sfamarsi. 209 Dopo il frugale pasto P. Betti ed io visitiamo i dintorni della missione. Scendiamo giù al torrente, lo attraversiamo e ci arrampichiamo per un tratto sul dorso della montagna fino a che possiamo contemplare in basso tutta la vallata. Scorgiamo lo spiazzale in cui si sono iniziati i lavori. Più lontano si vede l’altipiano con la strada che conduce al lago Nyassa. Qua e là, in lontananza, si vedono gruppi di capanne e appezzamenti di terreno coltivati dai neri.Ci sediamo su una grossa roccia e fumiamo alcune sigarette. Nel frattempo P. Betti mi indica le località nelle quali fece visita ai diversi capi villaggi per avviare qualche scuola. La prudenza però ci suggerisce di scendere presto al torrente e raggiungere il capannone, perché al tramonto del sole si sarebbe potuto avere qualche incontro indesiderato. Sono le 18 e già si fa buio. Stiamo seduti fuori del capannone. Si parla del più e del meno con i lavoratori, quando sentiamo un primo ruggito di leone: un roboante urlo che risuona nella vallata, seguito da una serie di sbuffate che diminuiscono in potenza fino a spegnersi tra le montagne. Dalla direzione nella quale giungono a noi i ruggiti possiamo accertarci che il leone sta scendendo pian piano dalla montagna. A più riprese ripete la sua vecchia canzone che si fa assordante e mette brividi nelle vene. I lavoratori per primi si ritirano nel capannone, sbarrano la porta di canne con grossi pali. Anche noi due ci rassegniamo alla gloriosa ritirata. C’è uno scompartimento per noi. Aggiustiamo i letti da campo e cerchiamo di fissare la porta con un bastone. I ruggiti ci fanno sempre più vicini. La cosa sembra diventi seria. Prendo il sacco di farina, il tavolo e la sedia.. E li appoggio alla porta. P. Betti, per incoraggiarmi, scherza e ride delle mie precauzioni, ma neppure lui è del tutto tranquillo. Se quella belva avesse voluto prendere qualcuno di noi tra le sue mandibole e divorarci come se si trattasse di un pollastrello, le sarebbe bastata una zampata alla porta o un piccolo salto sul 210 tetto di paglia e scendere nel bel mezzo della capanna. In genere, però, non è sua abitudine agire in tal modo con gli uomini. Si accontenta di dare lezioni indimenticabili soltanto a chi osa, nottetempo, competergli la libertà di girare… Sono le ore 22… è vicino. Si vorrebbe trattenere il respiro per non far notare la nostra presenza. Ci consola solo il pensiero che non è la prima notte che i leoni passano di qui, da quando gli uomini pernottano nel capannone. Difatti si odono i ruggiti che si allontanano in direzione dei villaggi. Il cuore rallenta i suoi battiti. Ci si può abbandonare al sonno. Verso l’una e le due sarà di ritorno con una capra o una bestia selvaggia in bocca. Ma il suo ritorno non ci farà più paura, poiché avrà di che sfamarsi. Salutiamo l’alba con grande gioia. I nostri lavoratori, ormai abituati, trovano interessante fare subito visita giù al torrente, nel luogo dove il leone è solito divorare la sua preda. Sono curiosi di sapere che cosa abbia divorato; soprattutto sperano di trovarvi qualche cosa anche per loro. Infatti, i leoni sono molto delicati di stomaco: scelgono solo i pezzi migliori… del grasso non se ne curano…”. Nell’Isola Rossa Nel mese di luglio P. Pasquale Buondonno pubblica una sorta di “Diaro” del suo viaggio in Madagascar, seguito a quello nel Nyasaland. Ecco alcuni stralci. “...il Supercostellation atterra nel campo di aviazione di Arivonimano, a 70 Km. da Tananarive. Dall’alto intanto ho già potuto contemplare il vascello gigante nel fianco dell’Africa: così è stato definito il Madagascar. È, per grandezza, la terza isola del mondo subito dopo la Nuova Guinea e il Borneo. Ha una superficie di 490.000 chilometri quadrati, due volte quella dell’Italia, ma una popolazione di soli 5 milioni di abitanti. È un crocevia di continenti. A girare per le strade della grande città, si dà subito ragione a colui che dal punto di vista 211 della popolazione ha dato questo nome al Madagascar. Se volete offendere un malgascio non avete che a dirgli ch’egli è un africano. Niente Africa qui, dice egli. Qui siamo un popolo tutto speciale e se proprio volete classificarci dovete metterci piuttosto con l’Asia e con l’Australia… Il lato più simpatico di questa grande isola è proprio il miscuglio e la parità di diritti di tutte le razze. In Africa, con tutta la buona volontà e con tutto lo spirito cattolico un bianco si sentirà portato a tenersi un po’ distante dal nero e il nero dal bianco. Nelle chiese la navata centrale è riservata ai neri e i lati del presbiterio ai bianchi. Un nero non oserà mettersi alla stessa tavola del bianco e così in quasi tutte le manifestazioni della vita civile. Solo i sacerdoti africani cominciano, aiutati dai nostri padri, a rompere questo rigoroso e a volte spietata e urlante barriera del colore. Qui in Madagascar vi è la perfetta fusione e la perfetta parità delle razze. Nel Nyasaland il meticcio è considerato un povero paria, mentre nell’Isola Rossa nessuno si sente di dover arrossire se è nato da due genitori che non hanno lo stesso colore della pelle. Nelle chiese vedrete fianco a fianco in perfetta fraternità un nero, un bianco, un giallo, un olivastro, un vero arcobaleno di facce. L’Isola Rossa: il nome se lo merita assai bene, specialmente per chi guarda la terra della capitale. Il rosso, scrive il Launois, s’impone ai nostri occhi quando la nave entra nella rada di Majunga: rosso cupo e sporco del fiume, rosso vivo e sostenuto delle rocce, rosso ocra della Punta di Sabbia sulla quale si erge la città, rosso violaceo degli altipiani. È giustificato quindi il nome di Isola Rossa, almeno per la maggior parte del territorio. Attorno alla Capitale anche le casette contribuiscono a dare questa impressione: sono costruite di mattoni di una rosso molto carico. Purtroppo c’è la minaccia che questo rosso del suolo e delle case si trasformi in rosso politico. I comunisti lavorano accanitamente e i capoccioni sono ben foraggiati da 212 Mosca. Nelle ultime elezioni proprio a Tananarive hanno vinto i marxisti. Qui, come altrove, la barriera anticomunista è costituita unicamente dal Cristianesimo…”. Qui, attualmente, c’è calma Dal Nyasaland P. Vittorio Crippa fa sapere che “il denaro è un grande tiranno ma anche un ottimo servitore…”. Accenna anche alla situazione politica del paese: “… Qui nel Nyasaland, al presente, c’è calma…, però anche sforzandoci di essere ottimisti si teme sempre, perché il partito di massa, di tinta comunista, accortosi degli sbagli fatti con un attacco terribile e aperto alla Chiesa cattolica, sta camuffando il rosso per non perdere compagni tra i nostri cristiani. Nonostante ciò noi lavoriamo sempre e con frutti sorprendenti. Il numero dei nuovi battezzati, adulti e neonati, è altissimo, ancor più degli anni scorsi. A Namitembo, la mia missione, i nuovi cristiani sono stati duecento, mentre l’anno scorso solo ottanta. Quello che più preoccupa è la situazione finanziaria. In quasi dodici anni di Africa non mi sono mai trovato in una situazione così spaventosa. Non si può fare niente con tutto quello che si dovrebbe fare… In certi momenti mi dispero proprio… e se non ci fosse la fede nella Divina Provvidenza ci sarebbe da diventare matti. A fine mese mi occorrono cento sterline per pagare i maestri di catechismo e non ho un becco di un quattrino. Se ti presenti al Vescovo ti mostra la sua borsa vuota e ti licenzia con una bella benedizione che apprezzo molto, ma che in verità non basta...Perdonate, cari lettori, questo sfogo un po’ materiale, ma ricordo le parole di Pio XI: “Il denaro è un gran tiranno, ma anche un ottimo servitore” e… quindi potrebbe servire benissimo alla causa dell’estensione del Regno di Dio e della Madonna. 213 Vedendomi le mani legate davanti a tanto bene che si potrebbe fare, mi sento stringere il cuore e calar un pochino le… braghe! Dico a tutti quelli che possono fare qualcosa per la causa missionaria: aiutatemi! Aiutatemi! Aiutatemi!” Notizie dei due nuovi missionari giunti in Madagascar Dal Madagascar, sbarcati da poco, i due nuovi missionari, P. Angelo Rota e P. Achille Valsecchi scrivono: “… Finalmente siamo giunti nell’Isola Rossa tanto sospirata dai nostri ardori missionari. Proprio così! Abbiamo preso la terza classe, che sconsigliamo ai futuri missionari, perché le cabine erano vere topaie e insetti di ogni genere formavano un battaglione di prima linea. Hanno rosicchiato abiti e valige, perfino la barba e i baffi. Basti dire che P. Achille Valsecchi un mattino si svegliò senza la punta dei baffi dal lato sinistro. Fu una cosa terribile per lui guardarsi allo specchio e vedersi mutilato di ciò che aveva di più caro e che non avrebbe sacrificato per nessun motivo. Noi parliamo poi degli sballottamenti, delle paure di un mare in tempesta. Non sappiamo le volte che abbiamo recitato “l’Atto di dolore”! Abbiamo sofferto il mal di mare per parecchi giorni… Tutto è iniziato a Marsiglia il 5 settembre. Le prime impressioni qui in Madagascar furono ottime. Simpaticissimi i Padri, educatissimi i malgasci. Nei nostri primi giorni di permanenza a Tamatave abbiamo visitato le nostre cinque parrocchie. Le chiese non le possiamo paragonare alle nostre cattedrali italiane e nemmeno alle nostre parrocchie con pavimenti in marmo, con finestre istoriate, con pareti affrescate e con tendaggi ricercati. Le chiese di Tamatave hanno il loro bel tetto in lamiera, i muri più o meno bianchi, il pavimento in cemento livellato, i banchi decenti, l’altare in muratura e anche il campanile dal quale partono rintocchi stonati, ma sempre invitanti alla preghiera. 214 La meraviglia delle chiese malgasce è la folla dei fedeli in preghiera, una preghiera comune, raccolta, sincera, fervorosa, vibrante di fede e di amore. E questa preghiera ha un accento possente con il canto corale. Sono centinaia e centinaia di uomini e donne, giovani e fanciulli che innalzano le loro orazioni al Signore e alla Vergine Santa con una varietà di toni alti e bassi possenti e sussurranti, misti e drammatici, melodici e sincopati, sotto la direzione di un catechista. Cantare a più voci e sempre a contrappunto è connaturale all’animo malgascio; ed è vera l’espressione dei nostri missionari che qui si nasce musicisti. I malgasci sono nobili per sentimenti e per comportamento. Mai si contraddicono tra di loro. Mai diranno al compagno di conversazione che ha torto. Sempre uno loderà l’altro per la proprietà del parlare, per la profondità e assennatezza del discorso e per la pacatezza dei gesti. Quando incontrano un sacerdote si inchinano con rispetto e vi salutano porgendovi le due mani per stringere la vostra. Si sentono onorati se date loro una sigaretta o se chiedete notizie dei parenti. Il malgascio, tuttavia, è suscettibile. L’ingiuria più grave sarebbe di chiamarli neri o africani. La lode più ambita è di osservare la loro pelle e dire che è quasi bianca. Siete sicuri che in questo modo vi renderete simpatici e vi fate degli amici. Nella città di Tamatave vi sono rappresentate diverse razze e tribù. Vi sono i bianchi, i creoli, i cinesi, e veri africani, i malesi, il tipo malgascio con la sua capigliatura liscia e di color ebano. Sembra di assistere allo spettacolo pentecostale annotato dagli evangeli. Non c’è divisione; ma si ammira la carità di Cristo che unisce popoli e abitudini diverse. Queste le nostre prime impressioni. Attualmente siamo a Brickaville per imparare la lingua malgascia. Speriamo, dopo tre mesi, di farci comprendere...e incominciare la nostra vita missionaria…”. 215 Con il suo diario africano P. Pasquale Buondonno riprende le notizie sul Madagascar. “Per deserti e per foreste”. Così titola il suo nuovo articolo dove racconta il suo itinerario verso il Sud della grande Isola Rossa. Nessuna novità rispetto a quello già descritto dai missionari residenti. Parlando di “ricchezza e di miseria” commenta: “...Se la gente lavorasse di più, quanta ricchezza potrebbe ricavare dal suolo! E invece spesso si contentano di vivere solo alla giornata, senza nessun senso di risparmio per l'avvenire”. Una nota curiosa di questo “Diario” è riferita alla missione di P. E. Nozza, Ambodilafa. “… E’ il regno del P. E. Nozza. Lo abbiamo raggiunto dopo un altro lungo viaggio verso l’estremo sud. Che fatica per arrivarci! Ma una volta lì si trova come un piccolo paradiso terrestre. Una collinetta tutta circondata da cime più alte. Ai piedi scorre un fiume che sembra fermo nel proposito di non voler fare scherzi. Ho dormito nella casetta del Superiore, separata dalla casa comune dei missionari. La prima notte ho avuto un mistero sotto il pavimento: un continuo raspare con guaiti intermittenti. Che bestie saranno? La mattina seguente ho avuta la spiegazione: il cane dei missionari e le loro galline che trovano lì sotto rifugio durante la notte. Niente paura, allora! Il Superiore la mattina mi accompagna con la macchina su per i monti: tre ragazzi vengono con noi per raccogliere foglie di palma nel bosco fittissimo di questa zona; serviranno per fare cappellini e cesti. Attorno alla missione di Ambodilafa vi è una bella piantagione di caffè, proprietà dei missionari. All’ingresso del viale che dalla missione conduce al villaggio c’è l’Immacolata di Verdello. È il P. Nozza che ne racconta la storia. La bella statua proviene dal suo paese nativo. Dove metterla? Egli aveva trovata una sede naturale lì vicino. È credenza dei pagani malgasci che quando si trova una grossa pietra prismoidale, 216 ritta su una delle basi, dentro ci sia l’anima di un defunto. E in omaggio a quell’anima prigioniera e… forse affamata mettono sulla base superiore del riso e anche delle monete, Padre E. Nozza vi ha messo l’Immacolata e l’ha voluta con la faccia verso il villaggio di Ambodilafa perché Essa guardi pietosa quei suoi poveri figli smarriti e li attiri alla vera fede…”. Il Superiore Generale visita il Madagascar Anche P. Cornelio Heligers, Superiore Generale, visita il Madagascar: “… Era venuto nell’Isola Rossa perché il Padre voleva incontrasi con i figli e desiderava vederli sul campo di lavoro. Perciò non è rimasto solo a Tamatave, sede e centro della diocesi affidata ai Monfortani. Non ha voluto visitare solamente le cinque parrocchie della città, ma si è recato nelle più lontane cristianità. È un avvenimento eccezionale per la Congregazione, perché registra nelle sue cronache la prima visita di un Superiore Maggiore nell’Isola Rossa. I viaggi nella regione di Tamatave sono tutti interessanti per la diversità dei paesaggi. Vi sono colline sempre verdi, montagne brulle, pianure coltivate a riso e a canna da zucchero, deserti aridi e assolati, fiumi sempre pieni d’acqua. Oltre all’aspetto pittoresco, il viaggiatore vi trova anche l’avventura. Una escursione in jeep in queste regioni quasi disabitate ha le sue incognite. Se si rompesse la vettura, si aspetta anche per più giorni l’occasione propizia per continuare il viaggio. E nel frattempo si invoca da Dio la rassegnazione e la pace interiore Il Padre Generale è rimasto incantato nell’attraversare i fiumi sulle zattere. L’incanto viene dalla riviere sempre sorridenti di fiori, sulle quali Dio ha profuso a piene mani l’opera della sua fantasia. Ma l’incanto svanisce quando si 217 scorge un certo animaletto affiorare dall’acqua, che vi guarda con occhi sornioni di innamorato e invita a tuffarsi nel fiume. Questo animale si chiama coccodrillo. Bocca immensa, denti acuminati, corpo squamato, coda agilissima. E allora i minuti diventano ore e i metri diventano chilometri. E si giunge alla riva con il singulto e madidi di sudore. Il nostro Padre Generale fu più volte preso da questa sensazione. Ed allora chiudeva gli occhi per meditare sulla Sapienza del Creatore e si sforzava di ripetere le parole di San Francesco: “Laudato sii, mi Signore per frate coccodrillo”. Ma li riapriva subito per la stranezza di chiamare un animale tanto inquietante con il dolce nome di fratello. Ed ecco il Padre Generale giungere nelle diverse residenze dei Padri Monfortani. Ci sembrava strano baciare la sua mano, salutarlo, parlare con lui, ridere con lui, sedersi alla stessa mensa. Ci pareva di toccare il cielo con il dito. Il Padre parlava con tutti. Ascoltava tutti, rispondeva a tutti, incoraggiava ognuno con amore e comprensione. Era felice perché condivideva la stessa vita dei figli. “Quando terminerò la mia carica di Superiore, tornerò nel Madagascar come missionario”. Spesso ripeteva questa frase. Perché? Non disse il motivo, ma è facile pensarlo. Perché è rimasto entusiasta del lavoro missionario svolto dai suoi figli; perché ha costatato che qui c’è bisogno di sacerdoti; perché ha preso conoscenza che il popolo malgascio è meritevole di attenzione per la signorilità del parlare, per la delicatezza del trattare, per la dolcezza del carattere e per la devozione ai padri. Il Padre Generale ha scoperto nell’animo malgascio la nobiltà dei sentimenti espressi nel canto in una melodia varia. Sentire mille voci di uomini, donne, giovani, fanciulli è impressionante e suscita meraviglia e l’ascoltatore esclama: Qui nel Madagascar si nasce veramente musicisti! E il nostro Padre Generale, che ha ottenuto dalla madre natura la sensibilità vibrante di intendere la musica, ha voluto risentire gli inni religiosi che i fedeli malgasci innalzano a Dio e alla 218 Vergine nel raccoglimento della Chiesa e del tempio familiare. Eravamo noi, nel silenzio della sera, sotto lo sguardo trepido delle stelle, che cantavamo in malgascio. E fissavamo lo sguardo nel volto del Padre trasfigurato dall’espressività delle melodie ed illuminato dalla tiepida luce degli astri. Se il Padre Generale fu bene impressionato dei Monfortani che lavorano nel Madagascar per estendere la Chiesa di Dio, noi missionari non abbiamo parole capaci di esprimere la nostra riconoscenza per la sua visita. A lungo rimarrà nel ricordo. Quando saremo attanagliati dalla sofferenza e dallo sconforto, penseremo alla giocondità del Padre. Quando nel nostro animo canterà la gioia di avere conquistato un altro figlio di Dio, noi penseremo al Padre. Quando saremo stanchi per i lunghi viaggi sotto la pioggia e sotto il sole bruciante, penseremo al Padre che ci addita il Cielo. Quando le nostre forze diminuiranno, pregheremo Iddio di realizzare la parola del nostro Padre Generale: Quando terminerò la carica di Superiore, tornerò nel Madagascar come missionario”. Come si sposano i malgasci? Su “come si sposano nel Madagascar” interviene P. Alessandro Assolari. “Giungendo un giorno in un villaggio dove di straniero non era passato che il missionario, trovai tutti gli abitanti dinanzi alla casa del sacrificatore di buoi. Chiesi di che si trattasse. C'era uno sposalizio. Non entrai nemmeno nella capanna riservatami. Mi frammischiai tra la gente appoggiandomi all’angolo della capanna ove si trovavano le due colombelle, centro della festa, e una piccola folla di parenti ed amici. Una grande tazza di bevanda alcolica, estratta dalla canna da zucchero, fa il giro tra la gente: ognuno ne beve a sazietà. Stanco del viaggio ed 219 assetato, non lascio certo passare il mio turno e ne bevo una buona sorsata. La gente è contenta e ride. Anch’io sorrido, assorbendo la bevanda rimasta tra i baffi…”. P. Angelo Rota invia notizie sul suo primo viaggio missionario. “Arrivando in Madagascar il nostro più grande desiderio era quello di incontraci con i confratelli italiani che vivono nelle più lontane residenze, a 350 Km. L’occasione della visita del Padre Generale, che si trovava a Mahanoro, fu ottima. Decidemmo sui due piedi e partimmo di buon mattino con un trenino locale per Ambila, a 10 Km. da Brickaville. Fuori dalla stazione erano allineati grossi camion più o meno in efficienza, che sembravano tornare da mille battaglie. Smaliziati da Fra Paolo ci precipitammo per avere un posto in cabina, onde evitare qualche scossone, ed eccoci sulla strada di Vatomandry. Un centinaio di chilometri su una strada che per il paese è una vera grazia di Dio, mentre da noi potrebbe gareggiare solo con le stradine in mezzo ai campi, come quelle che percorrevo io da ragazzo con la mia vecchia e bolsa Balilla. Attraversammo due grandi fiumi su grossi zatteroni, spinti a motore, e a mezzogiorno eravamo a Vatomandry, dove il buon Superiore ci trattenne fino all’indomani per farci visitare il cantiere di Fra Paolo e il grosso villaggio destinato in un lontano domani ad essere una delle città della giovane Repubblica Malgascia. Il giorno dopo, un altro camion, il postale, ci portava a destinazione, Mahanoro. Fu il tratto per così dire il più interessante del nostro primo viaggio nell’Isola Rossa. Appollaiati nella cabina ci studiavamo di prendere la posizione migliore anche per poter gustare la meravigliosa vegetazione della foresta. Di tanto in tanto gli occhi di P. A. Valsecchi si incontravano con i miei e a stento si conteneva la voglia matta di ridere per i sobbalzi dovuti alle irregolarità del fondo 220 stradale. Se l’autista cercava di evitare una buca ne trovava altre tre o quattro delle quali non poteva affatto salvarsi. Che volte, quando si ha un fondo stradale fatto di sabbia non si può pretendere molto.. e bisogna vedere come ci camminano veloci gli autisti malgasci: certo i meno fortunati sono i passeggeri. Arrivati al primo fiume da attraversare con il traghetto fummo costretti ad una sosta forzata di due ore e mezzo. Cos’era accaduto? Dei due zatteroni uno era rotto e l’altro tornando dalla sponda opposta aveva sul suo groppone un camion rimasto giustamente con il motore spento dal momento che vi era salito per traghettamento. Era interessante vedere i buoni malgasci cercare il mezzo per farlo scendere a terra. Dopo una mezz’ora di sforzi per accendere il motore si accorsero che il difetto stava nel serbatoio: non c’era più benzina. Fu allora che un tipo venne a domandarmi in un francese che per la verità non faceva invidia al mio, cosa avrei consigliato di fare. Dissi che bisognava spingere il camion a forza di braccia e rimorchiarlo. Al sentire che proponevo di spingere il camino carico di riso, mi guardarono e nei loro sguardi non mi fu difficile leggere una parola che non mi dissero solo per rispetto alla mia veste: pazzo! Consigliai di rimorchiare, ma i proprietari del camion, in attesa di passare, fecero orecchio da mercante. Non c’era mezzo di uscire da tale penosa situazione. Pensai che l’esempio pratico avrebbe forse potuto rompere l’incanto a con P. A. Valsecchi cominciai a spingere. Un fulmine a ciel sereno: in un istante uomini, donne e bambini si attaccarono al camion e persino un autista si decise a prestare la sua opera, rimorchiando. Quando il camion fu a terra erano trascorse due ore e mezzo. Si partì di corsa. Il conduttore del postale mi pregò che all’arrivo a Mahanoro gli facessi da testimone per dire al Capo che il ritardo non era dovuto a lui. Benissimo! 221 Facemmo pochi chilometri e di nuovo dovemmo fermarci: stavolta era il postale che non poteva continuare: aveva una balestra che non funzionava a dovere. Fu qui che potei ammirare l’ingegno e la sveltezza dell’autista. Levò la balestra rotta, la girò nel senso contrario e, un quanto d’ora dopo potemmo riprendere il viaggio. Toccammo Ilaka, l’antica missione di P. Carlo Berton, ne salutammo i confratelli mentre il postale faceva il giro del villaggio e poi via decisi. Arrivammo a Mahanoro che faceva già buio; otto ore per un totale di 120/130 chilometri, ma infine ci arrivammo! Alle nostre espressioni di meraviglia i confratelli anziani del luogo ci dissero di ritenerci fortunati, poiché se invece del postale avessimo preso un taxi qualunque saremmo certamente rimasti per strada… Per i malgasci il tempo non conta: passato un giorno ne verrà un altro. Alla fine dei conti il tempo è tutto attaccato. Essi sanno che ovunque si trovino avranno un pugno di riso e un buco per trascorrere la notte e per loro questo è tutto. Ma a noi che viaggiamo per la prima volta in questa terra riusciva strano di vedere la calma e la pacatezza dei malgasci. Ci abitueremo anche noi! A Mahanoro trovammo il Padre Generale, circondato dai confratelli della residenza e dei dintorni. Anche P. A. Marchesi e P. P. Valsecchi erano scesi dai loro altipiani, mentre P. A. Assolari e P. E. Nozza arrivarono soltanto due giorni dopo. Restammo assieme una settimana e vi assicuro, furono giorni pieni di allegria…”. Brevi “cosucce” provengono da vari missionari. P. Emilio Nozza fa sapere: “… I Confratelli mi hanno chiamato il 'marciatore di Dio e della Madonna'. È proprio vero. I miei piedi non sanno più contare i chilometri percorsi su e giù per i monti e in mezzo alle foreste, in cerca di anime. Dopo l’incontro a Tamatave con 222 i due nuovi missionari arrivati dall’Italia, ripresi il mio cammino, dove la chiesa in costruzione mi aspettava. Fra poche settimane spero di aver tirato su i muri. Non mi resterà che il grattacapo delle lamiere di zinco per il tetto. Come farò a procurale se sono senza soldi? Mi occorrerebbero 100.000 lire. Che cosa sarebbe per un milionario! Ma sono sicuro che i poveri, e sono sempre i poveri che danno con il cuore, mi aiuteranno a terminare la prima chiesa in questa mia missione, sperduta tra le foreste e i monti…” Anche P. Remigio Villa chiede aiuto: “...Le costruzioni vanno avanti così così. Una chiesa è stata coperta con tegole… Per i neri è più bella di una basilica. Ho altre due chiese senza tetto! Non so come fare… Intanto si dice la Messa all’aria aperta e in questo modo bisogna fare il parroco di 14.000 fedeli! Il buon Dio e le buone persone mi aiuteranno, come sempre mi hanno aiutato…”. Scrive anche P. Francesco Valdameri. “… La vita missionaria a Mpiri continua più o meno con il medesimo ritmo di viaggi a mai finire, di villaggio in villaggio. Però se le gambe si stancano il cuore si consola. Sono stati già battezzati in due mesi 200 adulti. Alla fine dell’anno raggiungeremo ancora 500 battesimi. Abbiamo qui la Legione di Maria che fa miracoli. Sono 14 “Praesidia”, dispersi ai quattro venti, che lavorano da veri soldati sotto il vessillo dell’Immacolata. Così, gran parte del lavoro missionario è in mano alla Madonna e ai suoi legionari. Solo mancano i sacerdoti per amministrare i Sacramenti. Siamo in due soli...aspettiamo rinforzi e aiuti. C’è posto e lavoro per tutti… Dio lo vuole! … E' un ambiente ostile, è un mondo chiuso dinnanzi a noi missionari. Anche per la missione di Mpiri dovremmo fare la medesima constatazione a proposito di conversioni 223 musulmane. Comunque non abbiamo diritto di scoraggiarci e tanto meno di alzare le mani in segno di resa. P. Betti e P. Valdameri lavorano da anni in questa missione: un lavoro duro, penoso, in mezzo ad una grande povertà. Pur proferendo le loro migliori energie nel penetrare nella popolazione pagana hanno saputo creare le premesse di un dialogo con i maomettani del luogo. In meno di due anni di lavoro hanno costruito una casa moderna per le Suore indigene, un Dispensario ed una Casa di Maternità. Queste opere incidono profondamente nei due ambienti. Soprattutto i musulmani vedono e sentono aumentare sempre più l’ascendente del cattolicesimo nei loro villaggi. Sapere creare quelle condizioni umane che permettano il disgelo del mondo musulmano verso i cattolici, è il primo dovere per noi missionari se vogliamo penetrare in questo mondo chiuso. Anche nel Nyasaland l’evangelizzazione dell’Islam è condizionata da questo metodo. Il cammino sarà lungo prima di giungere ad un’apertura di un vero dialogo con le tribù degli Aiao. Un giorno però anche su questa terra a nord-est di Mpiri splenderà il sole. Colui che ha vinto il mondo estenderà il suo regno anche nei villaggi maomettani”. Due leoni nel villaggio P. Francesco Valdameri racconta le sue disavventure missionarie. “… Sono le due di sera. Nel camioncino che lasciai pochi minuti fa all’entrata della casa vi è ancora adagiato un materasso impregnato di sangue. Vorrei distendermi nel letto per attendere il sonno, ma non riesco. Meglio che prenda la penna in mano per ricostruirvi le vicende che ho vissuto in questi giorni. Da una settimana due leoni avevano messo in subbuglio tutti i villaggi circostanti la missione di Mpiri. Usciti dalla foresta, ad una ventina di chilometri da qui, avevano stabilito la 224 loro dimora su una collinetta situata in zona abitata. Ogni sera, fino a notte tarda, facevano udire i loro terrificanti ruggiti e nelle tenebre scendevano ai villaggi in cerca di preda… La gente aveva prudentemente rinchiuso nelle proprie capanne capre, polli, maiali e cani. Da un giorno all’altro ci si augurava che i due disturbatori della quiete pubblica ritornassero nella foresta. Improvvisamente ieri sera, mentre si faceva buio, si sono udite grida disperate. Uno dei leoni si era avventato su un gruppo di donne che stavano ritornando al villaggio. La belva ne aveva azzannata una e se l’era trascinata a poca distanza in mezzo alle erbacce alte. La notizia si sparge subito nei villaggi vicini. Gli uomini più coraggiosi escono con lance, coltellacci, bastoni e fiaccole. Tutti incominciarono a urlare e a vociare per impaurire il leone, con la speranza che abbandonasse la povera donna. Difatti la belva se ne fugge, ma sul luogo della disgrazia si sono potuti trovare solo la testa e due mozziconi di gamba, orribilmente maciullati. I parenti raccolgono pietosamente questi resti umani e se li portano al villaggio. Li depongono in mezzo al piazzale, accendono il fuoco: tutti gli anziani del villaggio si riuniscono per la veglia mortuaria e giurano vendetta. Stamattina in ogni villaggio circostante è giunto un avviso del capo: tutti devo riunirsi per dare la caccia e uccidere la belva! In poche ore la collina, dove si sono rifugiati i due leoni è letteralmente circondata da uomini armati fino ai denti. Uno di loro ha un fucile da caccia. Accompagnato dal gruppetto dei più coraggiosi avanza quatto quatto tra le erbe e si spinge verso la cima della collina, mentre gli altri salgono contemporaneamente da tutte le parti per stringere l'assedio. La belva incomincia ad agitarsi. La si vide da lontano, ora ritta su una roccia, ora saltare improvvisamente dietro i cespugli.. La lenta avanzata d’assedio dura da una paio d’ore. Il cacciatore provvisto di fucile si trova ormai ad una ventina di metri, nascosto dietro una roccia, col fucile spianato, in attesa 225 del momento favorevole. Il leone dimenandosi qua a e là si accorge della vicinanza di quel gruppo di uomini e, con uno scatto rabbioso, si avventa su uno di loro. Il cacciatore tira un colpo e lo ferisce al petto. La belva inferocita non dà a vedere di essere stata ferita a morte e si getta sul più vicino facendolo stramazzare a terra. Con gli artigli gli straccia letteralmente la pelle e i muscoli delle braccia e delle gambe e con un morso tremendo gli frattura il bacino. Poi, improvvisamente, si avventa contro il cacciatore che, per istinto di difesa, gli mette le mani nelle fauci. Fortunatamente il colpo è stato mortale.La belva gli stava maciullando le mani quando cade sfinita. Il tutto è avvenuto nel giro di pochi secondi, dopo la fucilata. È stata l’ultima prova di forza e ferocia prima della morte. Nel frattempo giunge tutta una folla di gente. Chi s’avventa sul leone ancora rantolante, chi si prende cura pietosa dei due feriti. È a questo punto che entro in scena anch’io. Un gruppo di uomini è venuto a chiedermi un pronto soccorso per i due feriti. Prendo il camioncino e corro sul posto. Trovo i due feriti sanguinanti. Fascio strettamente le enormi ferite per impedire ulteriori perdite di sangue, e parto per Zomba portando i due feriti gravi all’ospedale, a circa 100 Km. da Mpiri. Mentre fasciavo i feriti, osservano con interesse un’altra scena. Era la gente che sfogava sulla belva il desiderio di vendetta. Erano intenti soprattutto a strappargli i denti e degli artigli, perché, così pensano i neri secondo le loro vecchie credenze, questi denti e questi artigli appesi ad una pianta nel villaggio impediranno ad altri leoni di ritornarvi”. 226 Indice Due parole di presentazione.................................................. p. 2 1905: Padre Giovan Battista Garbottini negli USA .............. p. 3 1930/1936: missioni monfortane .......................................... p. 6 1937: missionari monfortani italiani in Nyasaland ............... p. 17 1938: primi impegni dei nostri missionari .............................p. 29 1939: partono due nuovi missionari.......................................p. 40 1940/1945: il lungo silenzio...................................................p. 56 1946: a quando una missione tutta italiana? ..........................p. 60 1947: echi della canonizzazione del Montfort .......................p. 65 1948: un più vasto orizzonte missionario ..............................p. 71 1949: partenza di altri due nuovi missionari..........................p. 86 1950/1951: arrivi e partenze ..................................................p. 89 1952: il lavoro continua .........................................................p. 101 1953: notizie di disordini in Nyasaland .................................p. 104 1954: l’anno mariano nelle missioni...................................... p. 110 1955: missionari in Madagascar ............................................p. 115 1956: godiamo nel sentirci missionari ................................... p. 126 1957: le difficoltà degli inizi..................................................p. 139 1958: l’arrivo del missionario è sempre atteso ......................p. 155 1959: quando sorgerà una missione tutta italiana? ................ p. 169 1960: nuove partenze per le missioni.....................................p. 188 1961: nuovi disordini in Nyasaland .......................................p. 197 227