1936-1961 - Missionari Monfortani

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1936-1961 - Missionari Monfortani
MONFORTANI
ITALIANI
IN MISSIONE
Frammenti di cronaca dalla corrispondenza
dei Missionari Monfortani Italiani
in missione
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( 1936 - 1961)
a cura di
Santino Epis
Bergamo 2002
Due parole di presentazione
La missione “ad gentes” è stata una delle principali
aspirazioni del Montfort, e mi pare riduttivo il giudizio di chi
sostiene che questo suo desiderio abbia avuto modo di realizzarsi
solo nel momento in cui ha pensato di lasciare il fronte della
“missione popolare”, dove aveva trovato molti ostacoli: dalla
difficoltà di reclutare discepoli e collaboratori alle incom-prensioni e
opposizioni di alcuni Vescovi.
L’aspirazione alle missioni è stata parte essenziale del suo
carisma, anche se il Papa lo ha invitato a restare in Francia come
“missionario apostolico”, una sorta d’investitura ufficiale per il
ministero della “missione al popolo” che eserciterà, sull’esempio
degli Apostoli, fino alla fine della sua vita.
La ricostruzione della storia dell’impegno missionario dei
Monfortani Italiani viene fatta “in diretta”, ascoltando cioè le
dichiarazioni dei diretti interessati, stralciando brani delle loro lettere
al Superiore Provinciale, regolarmente riprese da “L’Apostolo di
Maria”, l’unica fonte utilizzata nella stesura del testo.
È una scelta. Se ne potevano fare altre. Ascoltare quello che
hanno scritto i missionari mi è sembrata la cosa più semplice per
avere un’idea dello sviluppo che ha avuto la “Missione ad Gentes”
nella storia della nostra Provincia Italiana. Altri, partendo da queste
testimonianza, e ricorrendo a materiale d’archivio, potranno scrivere
di questa forma di missione una storia vera e propria.
Lo scopo di questo scritto è di tenere viva la “memoria” di
quanto è stato fatto dalla Provincia Italiana nella realtà delle missioni
estere da parte di coloro che a questa realtà hanno dedicato interesse
e fatica, e che Dio ha fecondato con una straordinaria abbondanza di
opere da ricordare.
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1905
P. Giovan Battista Garbottini negli USA
Nell’agosto 1931, P. Giovan Battista Garbottini, primo
religioso monfortano italiano, lasciava la diocesi di Brooklyn
(New York), dove da 26 anni si prodigava per il bene spirituale
degli emigrati italiani. Gli era stato affidato il compito di
guidare i primi passi della nuova Provincia Italiana
Monfortana.
Ecco come la cronaca del tempo ricorda il suo arrivo a
Villa S. Maria e l'inizio del suo mandato.
“… Il 12 agosto sera, giunse finalmente, insieme al Padre
Generale, e gli ospiti illustri furono accolti da applausi e da
evviva.
L’indomani, nel nostro Santuario, ornato come per le
grandi solennità, aveva luogo la cerimonia della presa di
possesso. La Provincia italiana della SMM si iniziava ai piedi
di Maria. Assistevano, oltre alla Scuola Apostolica, il R. P.
Procuratore Generale ed il P. Direttore della Scolasticato della
SS. Annunziata, una larga rappresentanza di Suore della
Sapienza, tra cui la Madre Provinciale, che da tanti anni segue
lo sviluppo della Scuola.
Dopo la professione di fede il Rev.mo P. Provinciale
impartiva ai suoi nuovi figli la prima benedizione. La causa
della Madonna non poteva essere posta in migliori mani. A
pranzo, alle parole di augurio e di prosperità del Rev.mo P.
Generale, il P. Provinciale rispose commosso, ringraziando ed
assicurando pure del suo intenso desiderio di vedere trionfare
la causa della Madonna, né mancò di rievocare la buona e cara
immagine del Fondatore della Scuola Apostolica, il R. P. U.
Gebhard, che presso la tomba del Beato otterrà con le sue
preghiere e le sue sofferenze ogni benedizione sull’opera tanto
a lui prediletta".
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P. Giovan Battista Garbottini è stato a pieno titolo il
primo monfortano che ha lasciato l’Italia per un servizio
missionario all'estero.
Ordinato sacerdote il 18 dicembre 1897 da S. E. Mons.
G. M. Corna Pellegrini, fu subito destinato come curato a
Lovere, dove, quattro anni più tardi fu raggiunto da P. Callisto
Bonicelli.
La storia di questi due primi religiosi monfortani italiani
è nota. Convertiti al carisma e alla missione dei Monfortani
dopo una attenta lettura del “Trattato”, trascorso il periodo di:
noviziato a Meersen, in Olanda, divennero monfortani a tutti le
gli effetti a partire dal 7 ottobre 1904.
Dopo un anno trascorso a Roma, all'ombra del Santuario
“Maria Regina dei Cuori”, P. Garbottini partì per gli USA e ad
Ozone Park (New York) fu parroco esemplare fino al 1931.
Ecco come P. C. Bonicelli ricostruisce questi primo
periodo americano del confratello:
“... Di questo periodo di ministero sappiamo ben poco,
perché il caro confratello era schivo a parlare delle sue attività.
Tuttavia, ciò che è rimasto dopo la sua partenza testimonia
quanto profondo e vasto sia stato il suo lavoro apostolico:
numerose scuole ed asili di assistenza per i figli di emigrati
italiani, una splendida chiesa ed una bella casa parrocchiale, la
quale, a suo tempo, si chiamava la casa di tutti. Nessuno dei
nostri poveri emigrati trovò mai la porta chiusa: pane, vestiario,
alloggio e, quando occorreva, una buona raccomandazione per
un posto di lavoro...
Qualcuno ricorda ancora con commozione le avventure
apostoliche dei suoi primi mesi di missione. Aveva un alloggio
di fortuna e viveva all’eroica. Un giorno, mentre gira per il
quartiere in cerca di italiani, legge sui muri un manifesto in
lingua patria che invita gli emigrati ad un convegno dove sarà
loro annunziata una grande novità. Più che per curiosità, decide
di andarvi per avere la buona occasione di far conoscenza con i
compatrioti.
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All’ora convenuta entra nel locale: un buon numero di
operai italiani stanno ad ascoltare un signore che parla loro di
una religione più pura e più libera, senza tante pastoie di
comandamenti e di preti...
Il Padre, dal fondo della sala, guarda il concionatore. Lo
riconosce: un povero spretato, fuggito dalla Patria in cerca di
migliore fortuna. Senza farsi annunziare, si toglie il colletto
romano, fende il gruppo degli ascoltatori e si accosta
all’oratore. Succede un momento di silenziosa aspettativa.
“Amici!, dice il Padre, con la voce pastosa e convincente,
volete bene, voi, alla Madonna?”“Sì che le vogliamo bene!-“
“Questo signore, invece, disprezza la Madonna e la vuole
strappare dal vostro cuore e dal cuore dei vostri figli. Egli non
è così col Papa e vi vuole tirar fuori dalla strada sicura che vi
hanno insegnato la vostra mamma e i vostri vecchi.
Miei cari fratelli, io sono un Missionario della
Compagnia di Maria, venuto apposta dall’Italia per stare in
mezzo a voi ed aiutarvi nei vostri bisogni materiali e spirituali.
Vedete che io sono solo, non vengo a fare soldi per mantenere
la moglie come questo signore. Metto a vostra disposizione
tutta la mia vita, e faremo una bella parrocchia come quelle che
avevamo in Italia, sotto la protezione della Madonna. Chi vuol
bene alla Madonna venga a me!” Uscì, seguito da tutti gli
operai.
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1930/1936
Missioni Monfortane
Nei primi numeri della rivista “L’Apostolino di Maria”,
nel tentativo lodevole di presentare il carisma della Compagnia
di Maria, si era insistito soprattutto sulla sua componente
mariana. Del resto, P. Uberto Maria Gebhard, nel presentare il
progetto della prima Scuola Apostolica Monfortana Italiana,
l’aveva motivato con la necessità di formare “… apostoli della
vera devozione a Maria” in un Paese dove la spiritualità del
Montfort stava conquistando un numero crescente di fedeli.
L’attuazione del progetto doveva essere “… un ricordo
vivente” del secondo centenario della morte del Montfort. Ecco
come lo annuncia “Regina dei Cuori”, rivista mensile della
devozione mariana insegnata dal Montfort, organo
dell’arciconfraternita di Maria Regina dei Cuori e dell’Associazione sacerdotale omonima:
“... Cominciamo da un’eco che probabilmente nessuno si
aspetta. Tante feste si sono celebrate e si celebreranno ancora
in onore del Beato di Montfort, ma per quanto solenni e
consolanti, queste feste passeranno, e anche la loro eco s’andrà
spegnendo... Il nostro Direttore ha voluto che delle feste
bicentenarie restasse un ricordo vivente ed ha deciso di aprire,
proprio quest’anno 1916, il nostro Collegio Montfort di Roma,
riservato fino ad oggi ai religiosi della Compagnia di Maria, ai
piccoli studenti italiani che volessero compiervi i loro studi
ginnasiali. Requisito essenziale però è la vocazione di
Missionario della Compagnia di Maria”.
Anche “L’Apostolino di Maria”, sin dalle sue prime
apparizioni, si era presentato soprattutto come pubblicazione
che doveva far conoscere ad un vasto pubblico quella dottrina
mariana del “… Beato Padre di Montfort che ormai da lustri
proietta a fasci la luce sull’ufficio di Maria nel mondo e sul suo
regno nelle anime”.
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Nel luglio del 1933 la rivista pubblica un interessante
articolo: “Missioni e Missionari della Compagnia di Maria”.
“… Premettiamo: la Compagnia di Maria, fondata in
Francia dal Beato Luigi Maria Grignion di Montfort (16731716) nei primi decenni del secolo XVIII è una Congregazione
di Missionari, diffusa ormai un po’ dappertutto nel mondo.
Nei primi numeri delle loro Regole è detto che il fine
secondario di questa Compagnia è quello di darsi alle opere
apostoliche e specialmente di stabilire nelle anime il regno di
Gesù per mezzo di Maria, ma qualche linea innanzi si diceva
che il fine primario era la santificazione personale del
componenti la Società sia per i voti religiosi e l’osservanza
delle Costituzioni, sia (e ciò dà la caratteristica inconfondibile
dell’Istituto) mediante la nobile e santa schiavitù d’amore di
Maria. L’apostolato deve sgorgare dalla santità, la vita attiva
deve radicarsi e prendere l’impulso dalla contemplativa.
Bisogna andare a dire ai fratelli ciò che prima il Signore
ha detto a noi nel silenzio, nell’unione della Madre di Gesù, tali
i primissimi discepoli ed Apostoli: “unanimiter in oratione cum
Maria Matre Jesu”.
Per ciò che riguarda l’apostolato e l’apostolato all’estero,
la Compagnia di Maria conta oggi 10 Missioni cosi ripartite:
1. Nell’Isola di Haiti fondata
2. Nella Danimarca fondata
3. Nello Shiré-Nyassaland fondata
4. Nell’isola d'Islanda fondata
5. Nell’isola di Vancuver fondata
6. Nella Colombia fondata
7. Fra gli Indiani del Vaupés fondata
8. Nel Mozambico fondata
9. Nel Congo Belga fondata
nel 1871
nel 1901
nel 1901
nel 1903
nel 1903
nel 1903
nel 1914
nel 1923
nel 1933
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Le notizie sulle missioni estere monfortane trovano spazi
sempre più ampi sulla nuova “...pubblicazione della Scuola
Apostolica dei PP. Monfortani”.
In agosto la rivista segnala ai lettori le “...bellissime
parole di Pio XI nella sua Enciclica sulle Missioni”.
Conclusione: “… Pensiamo che saranno lieti i nostri lettori di
seguire in ispirito i passi dei nostri Padri che, a esempio degli
Apostoli, sono andati ad annunziare l’Evangelo della pace.
Solleviamoci dunque sulle ali dell’immaginazione per arrivare
presto nell’Africa del sud. Qui ci fermeremo per qualche tempo
onde visitare le quattro regioni di Missioni affidate ai nostri
Missionari”.
A distanza regolare vengono pubblicati articoli sulle
missioni dello Shiré, del Mozambico, del Congo Belga, del
Madagascar, della Colombia, di Haiti, dell’Islanda.
Un contributo decisivo all’interesse missionario tra gli
Apostolini venne dato dal passaggio a Villa S. Maria di alcuni
Padri stranieri, impegnati nelle missioni estere monfortane. La
loro presenza e le loro testimonianze hanno trovato una
accoglienza entusiasta.
La cronaca ufficiale di Villa S. Maria, verso la fine di
maggio del 1930, segnala il passaggio di un vescovo
monfortano che vive e svolge il suo ministero in Haiti. Va
anche ricordato il contributo alla causa missionaria offerto
dalla presenza di P. Gabriele Capdeville “… per quindici anni
missionario in Colombia”.
Fra Francesco lascia Redona per il Madagascar
“Finalmente anche la Provincia Italiana della Compagnia di Maria sarà rappresentata nelle Missioni. Venerdì, 15
giugno u.s., il fratello Francesco, che da 14 anni si prodigava
per la Scuola Apostolica, ha lasciato Villa S. Maria per
raggiungere in Francia vari nostri Padri, e con essi salpare per
la Missione monfortana recentemente aperta nel Madagascar.
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Al caro Fratello che ci lascia dopo tanti anni di fatiche e
di lavoro, col ringraziamento sincero, vada pure l’augurio
fervido col quale lo accompagniamo: possa nella lontana isola
dove finalmente si realizzerà il suo desiderio, aiutare i
missionari e far del bene alle anime, per la gloria di Dio e di
Maria”.
Il Madagascar, come si dice nella cronaca, è l’ultima
missione monfortana aperta sulla Costa meridionale della
grande Isola Rossa. Fratel Francesco vi arriva in un momento
particolarmente difficile: un terribile ciclone aveva distrutto in
pochi attimi tutte le opere della missione.
Così scrive il Superiore della missione:
“...Avete saputo che il ciclone ha devastato la costa
orientale del Madagascar, il 9 gennaio. Dalle 9 a mezzogiorno
parecchie case del villaggio sono cadute. Metto subito il SS.mo
in luogo sicuro. Appena uscito di chiesa sento un orribile
fracasso, tutto il tetto cedeva. Intanto la nostra bella scuola, che
avevamo appena finito di riparare, perdeva il tetto. Pranziamo
nella casa vacillante, malgrado i suoi puntelli. Portiamo fuori
tutte le cose fragili: piatti, bottiglie, salviamo i documenti
ufficiali della missione e ci rifugiamo dai cristiani.
Verso le 15, la bufera infuria; assistiamo impotenti alla
caduta del nostro deposito di viveri, della casa, della vecchia
chiesa e anche della nuova, che pure era stata fabbricata in
pietra e coperta di zinco. La violenza del vento era tale, da
lanciare a 200 metri le lamiere di zinco. Dopo poco, cadevano
pure la nostra cucina, la casa del maestro.
Verso le 6 della sera la missione era ridotta ad un
mucchio di rovine. Pioggia e vento continuarono ad
imperversare tutta la notte, e all'alba ci accorgemmo che anche
le provviste erano. state distrutte.
Benché meglio protetti di noi, avendo le loro case in un
bassopiano, i nostri cristiani atterriti venivano ad implorare la
nostra benedizione”.
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I Missionari non si erano dati per vinti e facendo
affidamento sulla divina Provvidenza avevano rimediato ai
gravi danni:
“… Siamo caduti nella più squallida miseria ma siamo
sicuri che la nostra missione innalzata sul solido fondamento
della Croce, ha ora ogni speranza di successo. Adesso
celebriamo la S. Messa nelle case dei cristiani. Poi ci
metteremo a ricostruire le opere più necessarie. I nostri
cristiani, che hanno sofferto anche loro della bufera,
rispondendo al nostro appello, si mettono già a nostra
disposizione...”.
Commentando questa corrispondenza dal Madagascar, la
Redazione de “L'Apostolino di Maria” annota:
“… A mo’ d’esempio edificante ci piace rilevare che
sono appunto queste lettere ed altre simili, in cui si chiedeva
timidamente l’aiuto di alcuni Fratelli Coadiutori, che spinsero
il nostro buon Fratel Francesco, l’11 marzo u.s. a stendere
formale domanda al nostro P. Generale, per recarsi in questa
missione tanto provata.
La domanda fu accettata con significativa gratitudine.
Noi siamo certi che il sacrificio compiuto da Villa S.Maria nel
lasciar partire un fratello tanto desiderato, ridondava pure su di
noi di una più larga benedizione del cielo”.
Prime notizie dal Madagascar
“L'Apostolino di Maria”, sul numero di febbraio,
pubblica una prima corrispondenza di Fra Francesco dal
Madagascar.
“... Il nostro Fratello Francesco, che rappresenta nell’apostolato missionario la Provincia Italiana della Compagnia
di Maria, è ormai giunto tra i negri di Mahanoro. Farà
certamente piacere ai nostri lettori seguire il viaggio e l’attività
del giovane e ardente religioso. In corso di navigazione ci
scriveva:
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“...La mattina del 9 abbiamo fatto un pellegrinaggio di
addio alla tomba del nostro Beato Fondatore, per mettere sotto
la sua protezione noi stessi, la nostra missione e il nostro
viaggio. La sera partiamo. Il Procuratore delle Missioni P.
Rivière ci accompagnò fino a Cholet, poi per Lione, arrivammo
a Marsiglia, sempre accompagnati da cattivo tempo.
A Marsiglia fummo accolti festosamente dalle Suore
della Sapienza... La sera del 14 salimmo a bordo del piroscafo.
Alle 18 tolse l’ancora e partimmo: addio Francia, addio!
Il tempo era brutto, e, appena varcata la grande diga del
porto, cominciammo a far conoscenza col rullio e col
beccheggio. La “Città di Tamatave” non è una grossa nave, ma
un bastimento misto: i passeggeri sono 22, tra cui cinque
sacerdoti, un Fratello laico e sei religiose, insomma un
convento ambulante...
Il pomeriggio del 18 facemmo a bordo un esercizio di
abbandono della nave in caso di sinistro. Il 19 costeggiamo
l’isola di Creta. Il caldo comincia a farsi sentire. Tutto va.bene!
Il morale della piccola colonia monfortana è alto, e fa anche
buona figura a bordo. Scriverò presto....”.
Fra Francesco mantenne la parola e, in viaggio verso il
Madagascar a bordo della “Città di Tamatave” invia una
seconda lettera.
“… II viaggio procede bene; il piroscafo, costruito nel
1930, è quasi nuovo, le macchine potenti gli danno una velocità
di 10 nodi all’ora (circa 18 km!). Il mare è calmo, la brezza
leggera tempra un poco i raggi cocenti del sole. A bordo si sta
benone, anche troppo. Il piccolo numero di passeggeri ci
permette una tranquillità di convento. Il tempo passa
rapidamente, consacrato alla preghiera, alla lettura e a un po’ di
svago...
Mentre termino la lettera, si sta per giungere al primo
porto dell’isola. La quarta settimana di navigazione è stata
funestata da un doloroso incidente. Un giovane di 14 anni è
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morto dopo quattro giorni di malattia. A bordo non c’era
medico. Era accompagnato dalla mamma e si recavano a
Tananarive per raggiungere il padre. Potete facilmente
indovinare il dolore della povera madre... Domenica sera
saremo a Tamatave dove terminerà il nostro viaggio
marittimo...”.
La missione del Madagascar viene eretta a “Prefettura
‘Apostolica” poco tempo dopo l’arrivo di Fratel Francesco. Il
nuovo Prefetto sarà proprio il Superiore della comunità di
Mahanoro, P. A. Le Breton.
Leggo con piacere “L'Apostolino di Maria”
Nel novembre del 1935 Fratel Francesco si fa nuovamente vivo con una lettera dalla Missione di Mahanoro.
“... Ho letto con vivo interesse le notizie di Villa S.Maria
date da “L'Apostolino di Maria”: cresciuto il numero dei
ragazzi, ritorno del noviziato all’ombra della Scuola Apostolica. Se la passano bene anche sotto i tetti! Almeno non
hanno paura che il ciclone abbia a portarli via. Qua invece è il
nostro tormento giornaliero prendere precauzioni nella fabbrica
o nella riparazione delle case in vista dei cicloni sempre
possibili nella stagione calda novembre-febbraio. Domani
appunto inizierò una fabbrica destinata a ricovero in tempo di
bufera...
E Villa S. Maria come la va?... Fratelli, Apostolini, tutti
in buona salute?... Non hanno troppo da soffrire delle
restrizioni imposte dalla difficoltà del momento?... Il lavoro
non deve mancare.
Beati voi che avete abbondanza di
mano d’opera. Qui siamo veramente troppo pochi.
Bisognerebbe avere quattro mani e due teste. Se fossi Padre
Generale per due giorni... quanti fratelli manderei in
missione!... Se avessi Fra Giovanni per il cemento!.. E’ proprio
vero che i fratelli rendono molto servizio nelle missioni. Il loro
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campo di apostolato è il lavoro continuo; però cosi tolgono ai
Padri la cura del materiale. Tanto di guadagnato per dedicarsi
totalmente al loro apostolato diretto...”.
Mons. Luigi Auneau visita Villa S.Maria
Il 13 giugno del 1936 viene annunciata la visita di mons.
Luigi Auneau, vescovo monfortano, Vicario Apostolico dello
Shirè. Ecco come ne parla il quotidiano “L'Eco di Bergamo”.
“…La Scuola Apostolica dei PP. Monfortani è in giubilo
per la graditissima visita di S. E. mons. Luigi Auneau,
Monfortano, Vescovo titolare di Cerasonte, Vicario Apostolico
dello Shiré (Nyassaland Africa O.). Sua Eccellenza che è
venuto in Europa per prendere parte al Capitolo della
Congregazione, convocato per l’elezione del nuovo Superiore
Generale, dopo aver compiuto la sua visita “ad limina” ha
voluto passare qualche giorno a Redona “per inoculare
maggiormente nei nostri apostolini - come egli disse arrivando
- i germi dello zelo missionario di cui si sente invaso.
Di questo suo zelo fanno testimonio i suoi trentatré anni
d’Africa, venticinque dei quali passati sotto il peso
dell’Episcopato, avendo egli appunto celebrato il suo Giubileo
nel novembre scorso; ne fanno testimonio i progressi spirituali
e temporali del suo vasto Vicariato (42.000 Kmq. con una
popolazione di 900.000 abitanti) che sotto il suo governo ha
visto quadruplicato il numero degli operai evangelici e
aumentati da 1542 a 88.000 i cristiani, mentre ora ben 35.000
catecumeni attendono il S. Battesimo, istruiti e preparati da più
di mille catechisti ed istitutori in 1162 scuole che contano
45.00 alunni.
Cifre consolanti, certo, soprattutto se si pensa che per il
servizio di così vasto territorio non si dispone che di 45
Sacerdoti Monfortani e 4 fratelli laici, coadiuvati da una
trentina di Suore della Sapienza.
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Ed ecco che il Vescovo pensa al futuro e per dare
certezza di vita imperitura alla sua cristianità, attuando
mirabilmente tutti i desideri della S. Sede in proposito, fonda il
Seminario indigeno, che ha già dato il suo frutto col primo
sacerdote nero; fonda due Congregazioni religiose indigene:
“Le Serve di Maria” e “Gli Oblati della Sacra Famiglia”, e
getta nella sua fervente cristianità le.basi dei diversi rami
dell’Azione Cattolica.
Malgrado tutti questi splendidi risultati, pensando alle
700.000 anime da salvare in quel territorio, bisogna ripetere
“Messis multa, operari pauci!”. Per questo S. Ecc.za desidera
ardentemente che qualche monfortano italiano vada a lavorare
nella sua vigna, dove si trovano una buona cinquantina di
connazionali.
Il Console d’Italia, poi Sig. Conforzi, ha regalato a S. E.
il terreno per la costruzione di una vasta Cappella succursale, e
S. E., con gentile pensiero, ha voluto che detta Cappella
venisse eretta in stile italiano, scegliendo il disegno a
proporzioni ridotte della chiesa di S. Michele in Venezia”.
L’efficacia promozionale di questo passaggio di Mons.
Auneau a Villa S. Maria fu rilevante e di lunga durata.
L’appello del Vescovo missionario monfortano non cadrà nel
vuoto. Molto presto qualcuno risponderà all’invito e si renderà
disponibile a partire per il Nyasaland, iniziando così una
presenza monfortana italiana che dura tuttora.
Dal Madagascar e dallo Shirè
Nel mese di settembre 1936 dal Madagascar Fratel
Francesco invia notizie sul suo lavoro.
“… Finora ho dovuto lavorare molto per mettermi in
grado di dirigere il lavoro dei miei operai falegnami e
manovali. Dopo aver fatto il cuoco per cinque anni e coltivato
la terra per altri nove si è poco preparati per tali lavori.
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L’operaio indigeno, anche se ha seguito corsi speciali nelle
scuole industriali governative, è ben lontano dall’avere il
valore professionale di un operaio europeo! Il più delle volte
possiede una cornice di cognizioni che non sa mettere in
pratica. Il “dolce far niente” sta alla base del suo lavoro... e se
non è sorvegliato da vicino quanto legname manda alla malora!
Ora mi sento la mano più sicura che sul principio, ma mi
manca ancora di poter parlare bene il linguaggio del paese.
Sono proprio una zucca, e quelle parole barbare non si ficcano
nella mia memoria. Per i missionari sarebbe ottima cosa se si
rinnovasse il miracolo della Pentecoste....
Pregate un po’ che la Missione dei Monfortani nel
Madagascar s’estenda sempre più e faccia il maggior bene
possibile. A certi indizi sembra che le cose vadano male
almeno per il materiale; le offerte dei paesi d’Europa
diminuiscono ogni anno... Disordini in Francia e in Spagna...
Che cosa ci riserva l’avvenire? Altri indizi rivelano un
miglioramento spirituale nella Prefettura: i Padri man mano che
si abituano al clima, al linguaggio, alle usanze del paese,
conoscono meglio i loro cristiani, moltiplicano le loro visite.
Ma c’è da fare! Pagani, anglicani, protestanti, noie provenienti
dall’amministrazione civile, ecc. ecc.. Un lavoro immenso
insomma. Pregate il Signore della vigna che mandi nuovi
operai e che sostenga con la sua grazia i già impegnati nel
lavoro”.
Suor Francesca parla del suo lavoro nei villaggi
Dallo Shiré scrive regolarmente anche Suor M. Francesca
Tombini, Figlia della Sapienza, di Torre Boldone (BG). Ai
lettori de “L'Apostolino di Maria” vuole parlare della “sua
Africa”. “... Ho cominciato le visite nei villaggi, ed in queste
corse il Signore mi dà di tanto in tanto la consolazione di
salvare qualche anima...”.
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Un accenno al lebbrosario della missione di Utale “tenuto
dalle Suore della Sapienza con ammirabile abnegazione.
Mentre le Religiose curano gli ammalati, i Padri si occupano
delle cose spirituali ed anche di quelle temporali poiché a loro
incombe l’ufficio di nutrire, vestire e alloggiare quei poveri
disgraziati.
L’opera ha cinque anni di vita: cura 130 pazienti, sopra
8.000 esistenti nel paese. Ce ne mandano da tutti i posti del
Vicariato. Noi abbiamo un bel progetto di lebbrosario, ma
finora non abbiamo potuto realizzarne che una piccola parte: la
Cappella e il dispensario.
I lebbrosi si ricoverano in capanne di fortuna, o meglio
d’infortunio, poiché vi sono esposti a tutte le intemperie. Senza
dire che non è facile per le Suore andare a curare gli ammalati
in queste misere capanne. Ci vorrebbe un ospedale per quelli
almeno che non sono più se non dei pacchi di carne in
corruzione; per gli altri bisognerebbe costruire dei ricoveri
convenienti al loro misero stato. Per questo lebbrosario ci
vorrebbero delle risorse e non abbiamo nulla, perché la
missione stessa non riesce a sostentarsi. Quelli che l’hanno
fondata contavano sulla Provvidenza. Noi li imitiamo, sapendo
che Dio può suscitare cuori generosi le cui offerte ci
permetteranno di soccorrere i nostri poveri lebbrosi”.
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1937
Missionari monfortani italiani in Nyasaland
Prime avvisaglie
Fratel Francesco scrive un’altra lettera datata il 10
gennaio 1937, in cui chiede preghiere per la Prefettura
Apostolica del Madagascar che sta attraversando un periodo di
gravi difficoltà, suscitate anche dalla parte civile della colonia
francese.
“... Anche qui c’è la Croce. e questa ci viene oggi dal
comunismo, il quale, sotto la tolleranza del governo attuale
della Francia, divampa nelle sue colonie e fa strage. Corrono
già falsi rumori, per esempio che saranno messi in prigione
tutti quelli che portano addosso medaglie, distintivi religiosi, o
che appartengono alla religione cattolica. E i nostri creduloni
prestano fede ed hanno paura.
Certi impiegati del governo, sentendosi appoggiati,
cercano tutti i mezzi per nuocere ai missionari. Ne abbiamo un
esempio a Marolambo, dove il capo distretto ha fatto molto
male ai Padri; non si sa di preciso quanto.
Una nuova mentalità si fa strada fra gli indigeni, che
rifiutano il lavoro e per poco non sono addirittura insolenti.
Disgraziatamente anche i cattolici si lasciano prendere. Poco
tempo fa Mons. Fourcardier, Vicario Apostolico di Tananarive,
segnalava che molti abbonati alla “Kroa di Madagascar”,
giornale cattolico, avevano ritirato il loro abbonamento per
abbonarsi al giornale comunista. Dove andiamo? Sarà possibile
che non succedano guai?...”.
Commentando la lettera, la Redazione de “L'Apostolino
di Maria” si rivolge ai lettori e lancia un invito: “...Accogliamo
l’appello accorato del buon Missionario ed aiutiamolo con le
nostre orazioni e con le nostre opere buone. Il Signore salvi le
terre di missione dall’orribile nemico comunista, che vediamo
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menare tante stragi inaudite, anche in terre civilizzate e a noi
così vicine”.
Primi monfortani italiani in missione
“L'Apostolino di Maria”, nel numero di agostosettembre, con la nomina del nuovo Vicario Provinciale d’Italia
della Compagnia di Maria nella persona di P. Ercole Germini,
comunica ai lettori la notizia di due “Nuovi Apostoli”.
“… Siamo in grado d’informare i nostri lettori che due
dei sei novelli sacerdoti della Provincia Italiana della
Compagnia di Maria, e precisamente il P. Giovanni Giavarini
(di Chiuduno, Bergamo) e il P. Remigio Villa (di Carvico,
Bergamo) hanno ricevuto la loro obbedienza per le Missioni
estere e che il campo d’apostolato loro assegnato è
precisamente lo Shiré (Nyassaland Africa Orientale).
Sono questi i due primi Missionari italiani della
Compagnia di Maria che scendono sull’arena africana. Mentre
ci felicitiamo coi cari confratelli di poter finalmente realizzare
il sogno della loro ardente giovinezza, li raccomandiamo alle
fervide preghiere dei fedeli lettori, affinché il loro apostolato
sia fecondissimo di bene. I due Missionari alla loro volta si
raccomandano alla generosità di quanti vengono a leggere
queste righe, per essere aiutati nell’acquisto delle cose più
indispensabili e per coprire le ingenti spese di viaggio”.
I due padri destinati alle missioni estere africane erano
stati ordinati sacerdoti a Loreto, nella Pontificia Basilica, da
mons. Gaetano Malchiodi. Con loro avevano ricevuto
l’ordinazione sacerdotale altri 4 Padri: Corsi Romano,
Francesco Castelletti, Sebastiano Benacchio e Elio Gambari.
18
La notizia della partenza
La partenza dei due missionari era fissata per l’inizio di
novembre. Ecco la notizia della loro partenza pubblicata su
“L'Apostolino di Maria”.
“Occorre accennare ai RR. PP. Giovanni Giavarini e
Remigio Villa i quali il 4 novembre p.v. s’imbarcheranno a
Genova sul “Duilio” volgendo la prora verso lo Shirè, in terra
d’Africa. La loro partenza è un avvenimento, poiché essi sono i
“nostri Missionari”. D’adesso in poi, tutta la Scuola
s’interesserà a loro. Si vorrà sapere dove stanno, cosa fanno, e
si pregherà che la Madonna benedica i loro lavori e realizzi le
loro speranze.
Certo, costerà dare addio alla cara famiglia, ai dolci
amici, alla patria amata... Io conosco due villaggi dove le ore
sembreranno interminabili. Ma sta scritto: “Chi abbandona la
casa, i fratelli, le sorelle, il padre, la madre... a causa del mio
nome, riceverà il centuplo ed avrà la vita eterna”.
In questo momento, dalla sala di studio mi giungono
all’orecchio le note vibranti dell’inno missionario composto dal
defunto nostro P. Clemens. Attaccano i contralti: “Su figli del
Montfort, scendiamo nell’arena...”. Il tema viene ripreso dai
soprani. I baritoni insistono, premono, e l’onda melodica si
spande incalzante e felice, in accordi pieni. Perché questo
canto? È quel che vi dirà la cronaca del mese venturo, pazienti
lettori.
Vergin Maria, Stella del mare, difendi dai pericoli delle
acque i tuoi due figli che partono fidenti nella tua protezione.
Conducili a buon porto. Stendi su di loro la tua ala materna.
“Monstra te esse Matrem…”. Essi vanno, senza rimpianto, a
inalberare - trofeo di vittoria - la Croce del tuo Gesù nelle zone
torride dell’Equatore; e sono disposti ad allargare le braccia su
quel legno invermigliato”.
19
La cerimonia della consegna del Crocifisso
Ed ecco la cronaca della commovente cerimonia della
consegna del crocifisso nel Santuario di Villa S.Maria, cronaca
firmata da P. Basilio Ferragamo.
“… Due crocifissi posati sul petto di due forti e generose
giovinezze, vicini a due nobili cuori che battono per Cristo e
per le anime che Cristo ha redente, pronti a tutti i sacrifici ed a
tutti i distacchi, sono il segno più bello e una prova luminosa
che non tutti gli ideali sono spenti in questo secolo d’egoismi,
in questi affannosi appetiti da bruti, nel regno dell’utilitarismo
e della materia. D’un possente colpo d’ala si lascia la prosa
stagnante per entrare nelle regioni più pure e più alte della
poesia divina.
Nel lunedì del 25 ottobre scorso due giovanissimi Padri
Monfortani: P. G. Giavarini di Chiuduno e P. R. Villa di
Carvico, due bergamaschi, dunque, avevano la profondissima
gioia di vedere realizzarsi il sogno ardente e puro della loro
infanzia: essere sacerdoti di Gesù, suoi missionari, banditori
del suo Vangelo tra le genti che non hanno ancora la grazia di
conoscere l’unico vero Dio creatore e Redentore del mondo.
Essi infatti ricevevano da Monsignor nostro Vescovo
amatissimo il Crocifisso di Missionari che li consacrava
ufficialmente araldi di Cristo Crocifisso, cavalieri di Cristo Re.
A nome della Chiesa stessa, il venerato Presule li inviava nel
campo immenso del Continente nero, nella messe più che
matura, già tutta protesa e inclinata alla mano pietosa che vorrà
raccoglierla.
Erano due bergamaschi, i due primi della giovanissima
Provincia Italiana della Compagnia di Maria, che venivano
gravati dell’onore di portare Gesù Cristo e la Madonna in
Africa, di aprire le file di altri Missionari Monfortani che certo
seguiranno presto le loro tracce di pionieri.
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Mai forse la nostra chiesa di Redona vide più fremiti di
cuori, più tensione di spiriti e d’occhi verso l’altare. Già alla
Messa cantata in cui i due protagonisti della giornata
ufficiavano rispettivamente da celebrante e da diacono, il
Rev.mo P. Provinciale aveva loro rivolto parole d’addio in
termini così appropriati e commoventi che gli occhi di tutti
erano inumiditi di pianto.
Come Maria, diceva loro il Padre, essi avevano ricevuto
Gesù con la missione sublime di portarlo alle anime a farlo
conoscere al mondo; come Maria essi potevano intonare il loro
Magnificat per le “grandi cose” fatte ad essi dal Signore.
Grandi cose, la scelta, anzi la preparazione dalle infinite
profondità dell’eternità; la chiamata, la vita di preparazione, le
ordinazioni e soprattutto il Sacerdozio che li associava al
Sacerdozio eterno del Figlio di Dio. Grandi cose in modo
speciale l’essere prescelti a Missionari, a Missionari autentici e
in atto, a condividere cioè punto per punto la vita stessa del
“Messia” divino, Gesù; a continuare in modo diretto l’azione
misericordiosa e redentrice di Cristo Salvatore.
La nostra chiesa era gremita di folla: parenti, amici,
benefattori, confratelli, sacerdoti, tutti, ma specialmente i
parenti e in modo particolare i fratelli e i genitori erano stretti
intorno ai due felici i cui piedi erano pronti a correre per valli e
per monti a spargere la divina semente del Vangelo, i suoi
benefici, la sua pace, la sua fratellanza universale, la squisita
anzi l’unica civiltà che stringe gli animi ed i popoli
avvicinandoli a Dio.
Nel pomeriggio Monsignor Vescovo veniva a sanzionare e a sigillare con l’alta sua autorità la missione affidata
ai giovani partenti. Dopo la cerimonia della imposizione del
Crocifisso, cerimonia breve ma comprensiva, austera e ieratica
come si conviene ai piedi dell’altare nel momento del
sacrificio, l’amatissimo Pastore esalò dal cuore paterno tutta la
piena della sua emozione.
21
Eccoci, diceva Monsignore, qui uniti, uniti per separarci.
Ma prima di separarci, come tutti i distacchi, noi ci lasceremo
un ricordo, un dono che ci richiami i visi amati e i nobili intensi
palpiti di cuori in un’ora solenne della vita. Eccolo il nostro
dono: il Crocifisso. Il Crocifisso, punto immobile dei nostri, dei
vostri cuori: per Lui voi partite; per Lui noi che restiamo vi
lasciamo partire senza troppi rimpianti e senza egoismo.
Nel momento dell’addio si usa darsi un ricordo. Ecco
Cristo Crocifisso in cui tutti ci incontreremo quando lo
bacerete voi affidandogli tutte le vostre speranze e tutti i vostri
martirii, lo baceremo anche noi, e su quel viso amato ci sarà
dolce il nostro sacrificio; confonderemo le nostre povere
lagrime col sangue suo divino ed allora esse varranno qualche
cosa per redimere le anime; le nostre e quelle a voi affidate.
Uno è il nostro sacrificio in Cristo, una sarà la nostra gioia e la
nostra gloria nel suo Regno dei cieli. Al Crocifisso dunque il
nostro sguardo e il nostro cuore.
Portate Gesù, innalzatelo ben alto Gesù: che tutti lo
vedano, che tutti lo sentano, che tutti rispondano al suo appello
divino: Ho sete! Venite a me tutti!... Fatelo conoscere, fatelo
amare. La civiltà da lui ricevuta, portatela a quelli che da
millenni l’aspettano ancora. Portatevi il nome di Dio, il nome
di Gesù; predicate la sua legge che affratella, che consola, che
perdona,. che nobilita l’umanità fino a ritornarla figlia di Dio,
perché tutti i popoli si stringano intorno all’unico Padre che è
nei cieli, nell’unico Nome in cui solo c’è salvezza per tutti:
Gesù Cristo.
Dopo cerimonie e canti fu l’addio commovente ma dolce
di anime che si separano per la realizzazione d’una grande
ideale: insegnare, convertire tutte le genti al Regno di Cristo.
Sogno? Sembra sogno dell’uomo carnale e terreno..., ma al
vero discepolo di Cristo che riposa sull’infallibile promessa
d’un Dio contenuta nell’imperioso comando: “Andate,
insegnate..., battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo”.
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L'addio ai nostri missionari
Abbiamo la cronaca dell’addio ai missionari in partenza,
un evento di rilievo che ha suscitato “... salutare impressione
nei chiaroveggenti apostolini cui è apparsa, in modo lampante,
la superiore bellezza della vocazione missionaria.
Essi avevano cantato, in chiesa e nella sala da pranzo, le
più belle melodie del loro repertorio, effondendo nel suono e
nel ritmo il meglio del cuore. Di due Missionari avevano udito
la voce commossa che penetrava nel petto a guisa di armoniosa
canzone. E quando nel chiostro interno, sotto lo sguardo della
Regina degli Apostoli, le mani dei due partenti s’elevarono alte
per benedire, allora quei sessanta figliuoli in ginocchio ai loro piedi diventarono subitamente taciturni e pensosi. Trattenevano
il sospiro. La Scuola li avvolgeva nel suo candido manto e
sussurrava loro pensieri infiniti: l’oceano, la terra africana, il
glorioso martirio!...
Partite, eroi della Buona Novella. La vostra anima, senza
incrinature di sorta, si apre alla più liete speranze. Dietro a voi,
rimane luminosamente tracciata una via maestra. Altri vi
seguiranno che adesso guardano a voi con una punta d’invidia.
Andate ed ammaestrate le gente. I moretti d’Africa, che voi
battezzerete, vi chiameranno “bambi”. Forse i negri d’Europa
battezzeranno voi medesimi con quel nome, nel significato del
vernacolo bergamasco...Voi siete pazzi come fu pazzo Gesù.
La follia della Croce è la vostra follia.. Ed è gloria verace,
legittimo orgoglio, vanto supremo poter fedelmente calcare le
orme sanguinolenti del divin Redentore.
Li accompagnammo alla stazione. Non c’era bisogno di
una forte dose di scienza intuitiva per leggere nei loro occhi la
intima emozione dell’ultimo abbraccio. Le vene e i polsi
tremavano: ma non era pavida apprensione, quella; era bensì
chiara manifestazione d’animo gentile.
A Genova s’imbarcarono sul “Duilio” assieme a due
confratelli olandesi, presente il nostro P. Provinciale. Fra dieci
23
anni, poco più poco meno, li rivedremo con una barba lunga
così... Intanto spettiamo da essi la narrazione particolareggiata
del loro viaggio, della loro vita, dei loro miracoli".
Una sorta di “Diario” di bordo
E da bordo del “Duilio”, all’altezza delle Canarie, P. R.
Villa invia una sorta di diario di viaggio al P. Provinciale
ripreso puntualmente da “L'Apostolino di Maria”.
“… Dal vasto oceano il nostro pensiero (ed anche un po’
il nostro cuore) vola all’Italia ormai lontana, a tutti i nostri cari.
Come lei stesso ha potuto notare, la partenza da Genova non fu
lacrimosa; la si potrebbe dire piuttosto allegra, grazie anche
alla presenza dei due confratelli olandesi. Il mare era calmo e
nessuno di noi sentì disturbo alcuno.
Giunti nel porto di Marsiglia, sperando d’arrivare più
preso avevamo progettato di celebrare la S. Messa nelle
Comunità delle Suore della Sapienza. Ma essendo fatto troppo
tardi celebrammo a bordo la nostra prima Messa sul mare”.
Anche P. G. Giavarini invia una lettera commovente ai
propri genitori.
“... Ho scorto a lungo le coste della Spagna, sorvegliate
da numerose navi da guerra internazionali. Il nostro “Duilio”,
non curandosi di loro, filava per la sua rotta. Io però pensai al
caro fratello Andrea e non potei a meno di provare al cuore uno
schianto di dolore. Ma venne Maria a consolarmi: il Paradiso
non si guadagna a parole ma con i sacrifici. Addio, mio caro
Andrea... E mi misi a recitare il breviario...”.
Ecco finalmente Gibilterra. Scrive P. Remigio Villa nel
suo Diario.
“… Il nostro cuore ebbe un sussulto che gli altri
viaggiatori non potevano avere: alla nostra sinistra di delineava
24
all’orizzonte l’estremo lembo della nostra terra promessa,
l’Africa! ...
Inoltrati nell’Oceano Atlantico che si mostrava tanto
calmo che lo si sarebbe detto l’Oceano Pacifico. Ma non fu
sempre così. Un leggero movimento ondulatorio causò i primi
disturbi fisici del mal di mare. Qualcuno più suscettibile
dovette rinunciare a qualche pasto...”.
Finalmente a destinazione!
Dopo un mese di viaggio i Missionari, ormai giunti a
destinazione il 3 dicembre, inviano le prime notizie dal loro
“posto”. Si tratta di informazioni e di prime impressioni.
Il 24 novembre, giunti a Durban, abbandonano la nave
italiana per imbarcarsi sul piroscafo olandese “Springfontein”
che li porterà fino a Beira, nel Mozambico, per proseguire poi
in ferrovia verso lo Shirè.
“... Alle 18.30 prendemmo il treno che ci doveva
condurre fino a Limbe, nello Shirè, sede del Vicario
Apostolico. Corriamo tutta la notte. Il treno non aveva
l’eleganza e la velocità di un espresso europeo, però ci si stava
comodamente.
Venne la luce del 3 dicembre ad illuminare il paesaggio
per cui si transitava. Ci accorgemmo dì essere veramente in
Africa.
Le abitazioni non sono che povere capanne di paglia e
fango. I vestiti degli indigeni si riducono spesso a minimissimi
termini.
Alle ore 9 giungemmo a Port-Herald che sarebbe la
prima città (?) dello Shirè ed il primo “posto” della nostra
missione. Due Padri olandesi sono ad attenderci alla stazione
per salutarci al passaggio. Mezz’ora di sosta per aggiungere
una seconda locomotiva, e si riparte. Dopo sette ore di viaggio,
e precisamente alle 01.30, giungemmo a Limbe.
25
Erano ad aspettarci i quattro Padri Missionari di quella
residenza, due Fratelli e molti negri, che ci guardavano e
sorridevano. Dopo i più calorosi saluti, in auto entriamo in
città; l’attraversiamo per giungere alla Cattedrale all’Episcopio.
Monsignore Vescovo ci attendeva sotto l’atrio: ci diede il
benvenuto e ci abbracciò ad uno ad uno.
Quale magnificenza di costruzioni: la Cattedrale, la Casa
dei Missionari, bella, grande e comoda, costruita da soli tre
anni. La proprietà dei Padri è assai estesa. Dei giganteschi
eucaliptus che contano solo cinque anni di vita, attorniano la
Cattedrale. Nel giardino c’è, in piena maturazione, ogni sorta di
frutti: pesche, prugne, mele...Non manca neppure l’uva, che fra
un mese sarà matura. La vite è stata piantata quest’anno dietro
l'esempio del Console italiano Sig. Conforzi, il quale, al dire
dei Padri, possiede una magnifica vigna.
Il 4 dicembre, sabato, celebrammo la nostra prima Messa
in terra di Missione. Nel pomeriggio visitammo le comunità
delle Suore della Sapienza, l’educandato per le fanciulle negre
e l’altro per i piccoli europei, restando incantati al vedere tante
belle cose ed istituzioni che dimostrano il lavoro intenso e
sagace dei confratelli che ci precedettero.
Verso sera andammo a visitare i negri che abitano attorno
alla nostra proprietà. Quale miseria! Le capanne sono dei veri
pollai! Le mamme si tengono legato sulla schiena il loro ultimo
nato. Come sono carini questi negretti! Ma come starebbe bene
un camicino su quella carne nuda!”.
Prime informazioni
P. Giovanni Giavarini ha una sua personale corrispondenza con i genitori. Giunto a destinazione, scrive:
“… Prima di tutto, ringrazio la Madonna per avermi
concesso la grazia d’un viaggio felice. Sono stato nominato
Curato della Cattedrale di Limbe; inoltre devo occuparmi di
Chiolo, paese distante una quarantina di Km., ove si trovano
26
diversi italiani occupati nelle grande fattoria del Console Cav.
Conforzi. Finalmente questi connazionali, torinesi e romani in
maggioranza, hanno un loro sacerdote...
La mia residenza a Limbe si compone di 6 Padri, agli
ordini di S.E. mons. Luigi Auneau. È il centro di tutta la nostra
Missione, come Bergamo è il centro della vostra diocesi. Tutti
gli altri Padri sono disseminati nelle pianure e nei deserti, e
ogni tanto compaiono a Limbe per riposarsi e chiedere consigli
ed elemosine. Il P. Villa si trova a 100 Km. da me: lo vedrò
quando saprò servirmi della motocicletta, quasi nuova, che mi
è stata regalata dal Superiore.
Il clima africano non lo trovo insopportabile. Alle belle
giornate si alternano quelle brutte, proprio come a Chiuduno.
C’è un solo guaio: certe volte il caldo è snervante. Ma non per
nulla sono missionario! Se c’è da soffrire, si soffre volentieri
per la gloria di Dio e per la salute delle anime...
Bestie feroci ancora non ne vedo: per vederle bisognerebbe andare nelle residenze più inoltrate. Mi hanno parlato
dei serpenti che vengono di notte a mangiare la verdura del
nostro orto. I nostri Padri ne fanno la caccia, ma è difficile
ucciderli, perché sono astuti come il serpente dell'Eden. Ho
visto invece parecchi disastri causati dalla formiche. A
Palombe una scuola sta per crollare a causa di questi insetti...
Ma gli animali che m’interessano di più sono quelli...
ragionevoli.
Poveri negri! Potrebbero vivere una vita comoda ed
agiata, ma non si curano di niente. Son fatti così: pigri per
natura. Eppure da voi si dice “lavorare come negri!”. Varie
volte sono entrato nelle loro capanne; ho potuto quindi
osservarli da vicino. Miseria nera e vero luridume! Se avessero
i nostri letti e le nostre sedie, non saprebbero che farne. Essi
dormono per terra, in un angolo; al centro v’è il fuoco; nel lato
opposto si vedono galline ecc. ecc.
Però, in fatto di religione, i veri cristiani di qui
potrebbero servire d’esempio a tanta gente d’Italia. Alcuni di
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loro fanno decine e decine di Km. per venire alla S. Messa.
Oggi, per esempio, è sabato e fra poco cominceranno ad
affluire da diverse parti. Passeranno la notte sulla nuda terra, in
un locale attiguo alla Chiesa. Domani ascolteranno la S. Messa
e faranno la S. Comunione....
Peccato che ci siano ancora molti pagani! Con la grazia
del Cielo si lavora per la loro conversione. A molti di essi ho
già distribuito medaglie e corone. Vedere come sono contenti!
Mi ringraziano con un largo sorriso, dicendo: “Zikomo,
Bambo! Grazie, Padre!”.
La mia grande difficoltà per il momento è la lingua. Ho
già studiato quasi tutta la grammatica, poi sceglierò un negro
col quale parlerò e ragionerò; così mi avvezzerò nel più breve
tempo possibile a conoscere questo aspro linguaggio. Il quale
mi è di prima necessità perché a Chiolo, oltre ai pochi
connazionali, vi sono seimila negri di cui io sono il Padre
spirituale...
A voi, Mamma e Babbo amatissimi, il mio più tenero
abbraccio. Ricordatevi che sono qui unicamente per Gesù; la
nostra ricompensa, quindi, sarà grande...”.
28
1938
Primi impegni dei nostri missionari
Tenendo fede alla promessa fatta alla partenza dall’Italia,
i due Missionari inviano regolari corrispondenze dallo Shirè.
Sia P. Remigio Villa che P. Giovanni Giavarini sono solerti
nell’informare confratelli, parenti e amici sui loro primi
impegni missionari. Si tratta abitualmente di lunghi fogli
“formato gigante”, con l’aggiunta di fotografie molto belle e di
buona fattura che “L'Apostolino di Maria” ben volentieri
pubblica come documentazione di ciò che i Missionari
descrivono.
Ho già avuto modo di provare grandi consolazioni
Ecco lo stralcio di una lettera di P. Giovanni Giavarini,
datata il 27 febbraio 1938.
“... Sono dunque il terzo Curato della cattedrale di Limbe
e cappellano degli immigrati italiani di Chiolo. Però finora so
ben poco d’inglese e della lingua indigena e non ho potuto fare
molto. Ma supponendo di essere fra poco anch’io pratico della
lingua dovrò per turno cantare la Messa la domenica, con la
spiegazione del Vangelo, e confessioni ad ogni richiesta…
Sono stato tra i nostri connazionali alla vigilia del S.
Natale, per il primo dell’anno e per tre domeniche consecutive.
In una di queste feste celebrai la S. Messa in casa del Console
italiano, il Cav. Conforzi, in una splendida sala che mi
ricordava il “Duilio”, ricca di tappeti, specchi e poltrone. Tutti
gli italiani erano presenti e feci perciò l’omelia...
Ed ora vorrei dirvi qualcosa di più concreto della mia
Cappellania di Chiolo. Vi assicuro innanzi tutto che ebbi già a
provare grandi consolazioni per l’affluenza dei miei cari neri
alla chiesa ed ai sacramenti... La Chiesa è bella all’interno e
all’esterno si presenta come un vero gioiello, ma c’è molto da
restaurare. Il Console Cav. Conforzi mi farà a sue spese tutto il
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pavimento in cemento, ma si dovrà pensare pure all’altare, alle
balaustre ed al tetto. Questo ha bisogno d’essere rifatto e
solidamente assicurato perché non venga portato via
nuovamente dal temporale...
Ora a Limbe si sta lavorando per la costruzione di un
nuovo fabbricato scolastico: il progetto è veramente bello, e ci
vuole per centro e per la sede Episcopale. Hanno già atterrato i
giganteschi eucaliptus per sgomberare l’area fabbricabile e per
avere del legname necessario per le impalcature. Ho visto i neri
tutti intenti a fabbricare mattoni e tegole...
Il 4 settembre p.v. avremo l’ordinazione di due primi
preti indigeni. La cerimonia avrà luogo nella cattedrale...”.
Intensa la corrispondenza di P. Remigio Villa, impegnato
nella residenza di Nsipe, a 130 Km. da Limbe.
“... La mia partenza da Limbe è stata affrettata ed
improvvisa, senza che potessi far visita al Console italiano e ai
nostri connazionali. Un telegramma proveniente da Nzama
chiedeva che l’auto del Centro corresse per trasportare
all’episcopio il P. Ryo, ammalatosi seriamente. Siccome per
raggiungere Nzama si doveva passare per Nsipe si approfitto
dell’inaspettata occasione per farmi raggiungere il “posto”
assegnatomi. Ed eccomi così nella mia porzione della Vigna
del Signore.
La Missione di Nsipe è di recente fondazione. Esiste la
casa dei Missionari, assai grande, ma manca la Chiesa...
L’ambiente è eminentemente protestante e non si contano
attorno al nostro posto che 3000 cattolici. La posizione è
buona. Mi trovo assai meglio qui che non a Limbe. È vero che
siamo abbastanza lontani dalle montagne, però l’altitudine sul
mare raggiunge quasi 1000 metri.
Ora sono cominciate le piogge con temporali frequenti e
anche giornalieri, che portano acqua a catinelle. È una bella
provvidenza che proprio nel periodo più caldo abbia a piovere
tutti i giorni...
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Bestie feroci non ne ho ancora viste. I negri di tanto in
tanto bruciano le alte erbe delle boscaglie per tenere lontane
dall’abitato le fiere. E i negri? Non so ancora abbastanza la loro
lingua chinianja e non posso quindi intavolare con loro lunghe
conversazioni, però spesso mi ingegno di parlare loro.
A Limbe, in quei pochi giorni di attesa, visitavo spesso il
piccolo borgo tutto composto da poverissime capanne di
paglia, di fronte alle quali i nostri pollai sono delle regge.
Avevo sempre con me la statuetta della Madonna di Lourdes
col “carillon”. Udendo il bel suono una folla di neretti subito
mi attorniava: quale spettacolo! Come sono carini questi
piccoli; la maggior parte però è ancora da vestire. Assaggiai un
giorno il pasto degli indigeni: farina di mais da un lato e fagioli
triturati dall’altro... e basta.
Non sanno cosa sia la forchetta e cucchiaio. Un catino fa
da piatto comune; lo mettono in terra, vi si accovacciano
intorno e tutti si servono con la forchetta di Adamo. Le scarpe
poi sono un articolo di lusso e del tutto fuori uso per i nostri
neri. Anche gli impiegati dello Stato portano tanto di divisa
elegante come i vigili o le guardie d’Europa, ma sempre coi
piedi nudi...
È ormai trascorsa anche la festa del S. Natale. Certo che
il Natale d’Africa non ha la bella poesia di un Natale d’Europa,
almeno per noi... Altro che la neve dei nostri paesi! Figuratevi
che mentre allestivo il presepio ho dovuto levarmi la veste
perché morivo dal caldo!. Se avessi preso un bagno non sarei
stato più bagnato... E dire che stavo all’ombra... Non c’è stata
la Messa di Mezzanotte, però ci fu un’affluenza grandissima
alla Messa del giorno…
Le mamme portano sempre, anche nelle funzioni in
chiesa, i loro piccoli legati dietro il dorso, ciò che causa
talvolta una bella musica, specie nei momenti più solenni:
“Laudate pueri Dominum!” Bisogna armarsi di serietà soprattutto quando si amministra il Battesimo o si distribuisce la
Comunione, poiché quei marmocchietti dal dorso materno
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sbirciano il Sacerdote con quegli occhietti vispi e con tanta
curiosità, che per le prime volte a stento potei trattenermi
serio...”.
In visita al lebbrosario di Utale
In una delle sue lunghe corrispondenze dallo Shirè, P.
Remigio Villa descrive una visita al lebbrosario di Utale, un
evento che lo ha scosso profondamente.
“… La visita che feci al lebbrosario di Utale costituisce il
mio primo viaggio alla moda missionaria. Utale dista dalla mia
residenza di Nsipe poco più di 60 Km, in pianura. Il viaggio,
breve in sé, fu invece difficile in quel tempo (eravamo ai primi
di gennaio) in cui le piogge avevano reso impraticabili vari
settori di strada; spesso dovetti portare la mia bicicletta,
attraversando pozzanghere e torrenti. Una volta guadai un
fiumicello, aggrappato alle spalle del negro che mi
accompagnava. Non dico poi il numero delle volte che mi sono
trovato in mezzo ai campi con i necessari capitomboli... Povera
bicicletta!
Finalmente, dopo cinque ore di viaggio, giunsi ad Utale.
In questa località i nostri Padri hanno le opere della missione
propriamente detta e, poco lontano, la lebbroseria. Il fiume
“Rivi Rivi” ne segna la separazione... E’ un tipico villaggioospedale... I ricoverati sono circa 150: uomini, donne, bambini,
gente d’ogni religione...
Di buon mattino, alle 4.30, un piccolo squillo di tromba
sveglia le Suore lebbrose e i Fratelli lebbrosi che recitano la
loro preghiera e fanno la meditazione in comune. Alle 5 uno
squillo di tromba prolungato dà il segno dell’alzata generale.
Pochi minuti dopo i cristiani si riuniscono in chiesa per la
preghiera. Frattanto giunge il Padre della vicina residenza si
celebra la S. Messa...
Finita la Messa vanno al lavoro. Alle 8.30 giunge la
Suora infermiera: è l’ora della visita medica. Tutti gli ammalati
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vanno ordinatamente a farsi medicare in un luogo comune. Tre
infermieri curano le piaghe lavandole e disinfettandole, e la
Suora applica i rimedi e fascia le membra malate. Assistetti io
pure a tali medicazioni e vidi cadere pezzi di carne dalle mani e
dai piedi. Molti sono completamente privi delle dita ed anche
delle mani: che spettacolo! . . .
Angeli di bontà e di eroismo per questi infelici sono
veramente le Suore e Fratelli lebbrosi. Essi sono ammalati già
guariti, o solo leggermente attaccati dalla lebbra, che per carità
cristiana si sono offerti a rimanere tra i compagni più sofferenti
per servirli e curarli.
I Fratelli attualmente sono 5, tutti giovanotti nel fior degli
anni. L'ultimo arrivato è un istitutore d’inglese che superò
brillantemente gli esami governativi, ed è appena colpito dalla
lebbra, eppure ha voluto rinchiudersi per sempre nel
lebbrosario.
Io vidi questi bravi giovani all’opera e mi sono convinto
subito che essi sono davvero angeli di bontà e di eroismo. Il P.
Superiore e le Suore infermiere confermarono pienamente la
mia prima impressione. Vivono da soli in una capanna
spaziosa, con una stanzetta ognuno, e conducono vita comune
come religiosi. Per ora emettono solo voti privati. Vengono
detti gli “Oblati di Santa Teresa”. Sorvegliano tutto, dirigono
tutto e in modo speciale istruiscono i pagani, disponendo i
piccoli al battesimo e gli adulti agli ultimi sacramenti; curano
gli ammalati più gravi nelle loro casette, li aiutano a prepararsi
il cibo. Le “Oblate di S.Teresa” per ora sono 3 e fanno per le
donne quel che i Fratelli fanno per gli uomini.
Ma per ricordare questi angeli di bontà indigeni non
dobbiamo passare sotto silenzio quelli, ancor più meritevoli,
venuti qui dall’Europa: voglio dire le nostre Suore della
Sapienza. Ve n’è una al lebbrosario di Utale, Suor Maria
Regina di Gesù, che si trova qui nello Shirè da 34 anni
consecutivi, senz’essere mai tornata a riposarsi in Europa. È
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venuta in questa terra con i primi Padri Monfortani... Ah, le
Suore! Ne avessimo in tutti i posti!...
Nella regione di Utale si ha proprio l'impressione
dell’Africa selvaggia, che invece non provo alla mia residenza
di Nsipe. Nella proprietà della missione ho potuto ammirare un
baobab veramente gigantesco e colossale che misura 24 metri
di diametro. Quest’albero fu un tempo per i pagani mèta di
pellegrinaggio per rendere il culto gli spiriti. Ora invece in una
insenatura naturale si è disposta una nicchia che raccoglie una
statua di Maria Immacolata.
Mi fermai ad Utale 5 giorni poi tornai a Nsipe. Tutto il
cammino era in salita e si può immaginare com’io abbia sudato
sul mio cavallo d’acciaio. Chi soffrisse di reumatismi venga in
Africa e starà bene!”.
Le gioie e le pene del missionario
P. Remigio Villa, in una lettera del 20 giugno 1938,
descrive le gioie e le pene del missionario, dopo aver visitato
tutto il territorio della sua missione.
“… In queste visite si provano veramente le gioie e le
pene del missionario. Le gioie ve ne sono che potremmo
chiamare naturali, poetiche. Oh, i morettini! I più piccoli al
primo vedermi entrare in un villaggio si aggrappano terrorizzati
al grembo materno, dimenandosi come piccoli ossessi. Ma i più
grandicelli, dopo un primo momento di esitazione mi si fanno
subito amici. “Moni, bambo Villa”, mi sentii gridare arrivando
a Cizungulire. “Moni”, rispondo, “… e il tuo nome?”.
A Kalumba fui circondato da una vera folla di bimbi che
non mi lasciarono un minuto di libertà. Mi sono dilettato in
questo villaggio ad osservare l’intima vita di famiglia degli
indigeni.
Verso sera le donne tornano dai campi tenendo i bimbi
per mano o sul dorso. Subito in ogni capanna si accende il
fuoco per preparare la cena, più abbondante quella sera per
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poterne offrire al “Bambo” ed ai suoi portatori. Al mattino i
negretti sbucavano numerosi dalle capanne; si sarebbero detti
altrettanti topolini...
Quando si arriva in un villaggio nel tempo della scuola i
negretti ti offrono il saluto cantando. Basta che il missionario
entri in un villaggio per non essere più solo nel suo viaggio.
Subito un codazzo di marmocchietti si tiene in dovere di
seguire il bambo.
In queste visite ai cristiani si dorme qualche volta con il
proprietario della capanna. Da notare che il padre di famiglia
tiene a dormire con sé il bambino. Il sentire chiamare durante
la notte con voce argentina “bambooo, bambolo” ... sono scene
che per un momento fanno dimenticare d’essere in Africa e ci
rimettono in quei primi anni di vita, quando si era a casa
propria...
Bisogna poi vedere le mamme dar da mangiare ai
piccoli... Non so come non ne siano soffocati: la mamma
introduce nella bocca del figlioletto più polenta che può...
Ma queste gioie, che chiamai naturali, sono un nulla in
confronto di quelle spirituali. Quante anime sembrano essere lì
proprio per aspettare il nostro passaggio In quest'ultimo viaggio
ne ho mandato in paradiso più di cinque...
Anche se si celebra la S. Messa in capanne cadute a metà
o che stanno ancora in piedi per miracolo, si provano gioie più
grandi che celebrando in una basilica...
Ma vi sono pure le pene del missionario, più sensibili qui
che altrove. La più grande è senza dubbio il protestantesimo,
infiltratosi anche qui con una quindicina di sette differenti. Ha
un effetto micidiale nei pagani. “Bambo”, mi dicevano tre
giovani protestanti, “perché voi cattolici non siete venuti
prima?”...
Gli ammalati: ecco un altro capitolo doloroso. In questi
mesi qui fa freddo più che fresco, almeno di notte. Io pure
dormo con tre coperte: s’immagini quindi cosa debbano
soffrire i poveri negri. Vi sono quindi molti casi di polmonite...
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Altre volte si vede penare questa povera gente e con si ha nulla
da dal loro per sollevarli...
Altra grande pena è la mancanza di scuole o il loro stato
deplorevole. Ho celebrato la S. Messa in certe scuole che
rassomigliavano in tutto a quelle devastate della Cina e della
Spagna. Per fortuna abbiamo il privilegio di celebrare
all’aperto. Anche per il mio centro di Nsipe i cristiani si
domandano quando mai incomincerà la costruzione della
chiesa...".
Pochi giorni dopo, il 27 giugno, P. Giovanni Giavarini
invia una lunghissima lettera dove ringrazia prima di tutto
quanti hanno preso parte al suo dolore per la tragica scomparsa
del fratello Santino, deceduto in un incidente d’auto la sera del
5 maggio. P. Giovanni si dice commosso fino alla lacrime nel
leggere le numerose lettere di condoglianze che gli erano
pervenute da confratelli e da amici.
Prime richieste di rinforzi
A metà agosto P. Giovanni Giavarini invia una lettera per
informare sulle sue corse apostoliche e per chiedere rinforzi
dall’Italia. A Loreto, il 12 marzo, sono stati ordinati ben 15
novelli sacerdoti.
“La salute mi accompagna sempre, con la buona volontà
di fare del mio meglio tra le anime affidatemi. Ora mi posso
dire Missionario vero, benché non perfetto...; ogni lavoro
apostolico è divenuto pane per i miei denti e la mia vita è ora
ben diversa da quella dei primi mesi. Non c’è da annoiarsi in
casa e fuori casa! Il lavoro non manca: ce ne sarà
abbondantemente anche per i nuovi eletti...
Il freddo umido di giorni fa e il calore repentino attuale
hanno risvegliato i microbi della vecchia epidemia che manda
all’eternità tanti e tanti dei nostri neri.
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l cavallo d’acciaio e il missionario di ferro sono sempre
di pattuglia, recando ai moribondi il conforto divino e umano.
Quante volte ebbi la fortuna, specialmente negli ultimi quindici
giorni, trovandomi solo alla missione, di correre unito a Gesù
Eucaristico per villaggi vicini.e lontani. La consolazione di
questi momenti non ve la posso descrivere... Gesù sul petto,
l’Olio Santo in tasca e gli altri poteri nell’anima, si vola finché
si può in motocicletta. E quando la natura e integralmente e
genuinamente africana da impedire l’uso del veicolo, allora da
motociclista si diventa pedone e su e giù, salta di qua e di là,
con il Rosario in mano si prega e si trotta...
Domenica scorsa, dopo aver confessato senza fine,
cantato la S. Messa, battezzato ed ascoltato alcuni processi,
mangiai un boccone in fretta per saltare subito a cavallo della
mia moto alla volta di un lontano villaggio, in compagnia di
Gesù Sacramentato.
Il giorno dopo ero egualmente in corsa in un’altra
direzione. E così spessissimo Questa vita è la più pura e la più
lucrosa per il Cielo. Oh, come mi attacco a Gesù, come lo
invoco, come lo prego in quei momenti! Sarà forse la paura che
mi stimola?... Ma è altresì, lo sento, il dovere personale di
amarlo immensamente poiché si è degnato servirsi di me
miserabile per una missione così divina.
Quando si arriva nelle povere abitazioni si trova il
morente steso per terra, sotto una vecchia coperta che non
giunge neppure a coprire tutto il corpo: un po’ di fuoco in
mezzo alla stanza. Se fa caldo il malato è portato di fuori, sotto
il sole, e là geme senza medicine, senza alcun aiuto; i parenti
gli si accovacciano accanto finché sta in vita, impotenti a dargli
altro sollievo che un po’ d'acqua.
Il missionario arrivando pone il corporale per terra –
l’altare immenso di Dio - accende una candela e poi,
ginocchioni per terra, ascolta la confessione, dà subito il
Viatico e l’Estrema Unzione con la benedizione apostolica,
37
mentre tutti i vicini vengono a disporsi intorno e intonano il
Rosario.
Come vedete c’è un eccesso di povertà, una mancanza di
tutto, ma fede, fede pura, miei cari... E non si può fare a meno
d’asciugare gli occhi. Credetemi: queste consolazioni fanno
dimenticare ogni sacrificio!...
Monsignore mi chiede spesso se ho notizie dei nuovi
missionari italiani destinati qui allo Shirè. Sua Eccellenza mi
dice che l’unica sua speranza per quest’anno poggia sulla
Provincia Italiana, poiché finora sa di ricevere un solo Padre
inglese. Siamo perciò tutti in aspettativa. Tanti altri confratelli
mi hanno chiesto quanti Padri italiani verranno e se ci sono tra
quelli dei Perosi o dei Gigli, alludendo al bisogno di Padri
musicisti...”.
L’11 settembre ha luogo l’ordinazione sacerdotale dei
primi due Padri indigeni del Vicariato Apostolico dello Shirè.
Echi della festa li troviamo nelle lettere di P. Remigio Villa che
si susseguono a ritmi abbastanza regolari, come quelle di P
Giavarini.
In una di queste si apprende che P. Villa è stato destinato
ad altro importante incarico. S.E. il Vicario Apostolico lo ha
nominato professore di latino e di musica nel Seminario
indigeno di Nankunda.
Ricordando il primo anniversario del suo arrivo in terra
di missione, P. R. Villa scrive:
“… Non pare vero! È già un anno che mi trovo nel
Nyasaland dove giunsi il 3 dicembre 1937! Io continuo a fare il
... professore e per di più, professore di inglese. Alunni e
professore crogiolati insieme, non so che risultati darebbero...
tanta è la mia conoscenza di questa lingua benedetta...
La casa dei Padri e gli edifici del Seminario sono
costruiti sopra un vasto altipiano, a nord del quale si trova il
monte Zomba. Il panorama che si gode da Nankunda è
spettacoloso. Verso occidente si distende l’immensa pianura,
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solcata dallo Shirè, che serpeggia lucente tra i campi di
granoturco. Verso mezzogiorno invece vi sono colline e
montagne d’ogni forma e d’ogni altezza...
E la vita del seminario? Essa mi fa dimenticare di trovarmi in
Africa. Quantunque non mi manchino attrattive per l’ufficio
d’insegnante, pure sento vivamente il gran sacrificio della vita
missionaria sacrificata in gran parte. È vero che la missione di
Zomba è assai vicina e che di quando in quando vi andiamo per
fare un po’ di ministero, ma non è la bella vita di villaggio. Si
fa però quel che il Signore e la Madonna vogliono. E poi... qui
in Africa si può facilmente cambiare di residenza. Spero un
giorno o l’altro di poter tornare all’apostolato diretto fra i
neri…”.
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1939
Partono due nuovi missionari
Aspettavamo con ansia quel giorno solenne
“… Da tempo e con ansia aspettavamo quel giorno
solenne. Ricordiamo bene: una sera d’autunno, sotto l’albero
secolare del cortile, ci fu annunziato la futura partenza dei due
missionari; allora uno scroscio spontaneo di battimani e grida
entusiastiche attraversarono gli squallidi rami e salirono fino al
cielo, ch’era tersissimo; allora apparve, nel lontano orizzonte,
la prospettiva della festa piena di ineffabili gioie e di una
mistica dolcezza...
Di buon mattino ci rechiamo in S. Maria delle Grazie,
una tra le più belle chiese della città, e parata come nelle grandi
circostanze; là i nostri Missionari compiono dinanzi al Vescovo
e alla folla numerosa il rito del commiato. Non si può non
rimanere presi da una simile cerimonia in cui c’entra buona
parte della vita primitiva cristiana, anzi, noi viviamo per poco
quella medesima vita: i fedeli raccolti più del consueto, i canti,
le preghiere che si elevano al Trono di Dio miste all’incenso e
al profumo dei fiori sull’altare, le colossale candele dalla tenue
luce oscillante, che ci raffigurano le fiaccole antiche, ogni cosa
insomma, ci porta di balzo ai primi secoli del regno di Gesù.
Dopo la Messa celebrata da P. Mario Caccia, seguono
alcune parole paterne di mons. Adriano Bernareggi, quelle
stesse rivolte da Gesù agli Apostoli che si accingevano a
percorrere il mondo. Quindi Sua Ecc.za porge ai fortunati un
Crocifisso, che sarà la loro arma, e, mentre quale spada nel
fodero, viene conficcata nell’apertura della veste sul petto,
qualcuno fra gli astanti cerca di scoprire negli occhi dei due
atleti di Cristo un luccichio, un lampo di giubilo e di fierezza,
impossibile a celarsi troppo a lungo nell’animo. Coronare la
cerimonia tocca ad un festeggiato, il R. P. Tarcisio Betti, il
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quale con un breve discorso fa sgorgare lacrime di
commozione a più d’uno; poi i confratelli e apostolini baciano
le mani e i piedi dei due missionari.
E ora che ci rimane a dire? ciò che avviene nella giornata
s’indovina facilmente. Concludendo, ci sono avverati i sogni
che avevano intravvisto in quella sera d’autunno, sotto
quell’albero secolare; e aggiungiamo pure una lieve stretta al
cuore nel vederli partire. Oh! su allegri, vi aspettiamo laggiù,
addio! no, arrivederci! - dicono in tono scherzoso i partenti per
allontanare da noi ogni tristezza; e intanto si recano a Genova,
dove s’imbarcheranno sul “Giulio Cesare”.
Arrivederci!: qual suono ha per noi questo augurio; la
realtà è tanto lontana!... ma lo sentiamo ripetere anche quando i
due RR. PP. già scompaiono dietro il muro di cinta... Sì,
arrivederci! La Stella del Mare ci guidi a buon porto".
Avevamo realizzato il sogno della nostra giovinezza
Fin qui la cronaca de “L’Apostolino di Maria” firmata da
P. Pirovano. P. Mario Caccia e P. Tarcisio Betti, che
attendevano con impazienza la partenza per l’Africa, sono
salpati da Genova a bordo del “Giulio Cesare” la sera del 28
febbraio 1939.
Avevano realizzato il sogno della loro giovinezza: essi
sono Missionari! Mentre le numerose casse dei bagagli
personali erano dirette a Genova per prendere posto nella stiva
della nave i due RR. PP. andarono a Loreto per salutare, nella
sua Santa Casa, la Stella del mare e Regina delle missioni. I
Confratelli lauretani vollero improvvisare una simpatica festa
cui non si sottrassero i due Missionari. Qualche eco di questa
festa l’abbiamo da una corrispondenza da Loreto, firmata da
Gianni Vedovati.
“... Il 24, festa di S. Mattia, con rito solenne pur
nell’austerità del significato di distacco e di sacrificio, nella
Cappella del Rifugio S. Giuseppe gentilmente concessa per la
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circostanza, si è svolta la cerimonia d’addio a due giovani
missionari monfortani: P. Tarcisio Betti e P. Mario Caccia, di
Bergamo.
Presenziavano la cerimonia rappresentanze di tutti gli
Istituti ecclesiastici e laici della città e un folto gruppo di
invitati. Una Messa solenne preludia la cerimonia della
consegna dei Crocifissi. Attorno all’altare grandi tappeti rossi
sugli inginocchiatoi drappi di porpora danno alla bianchezza
dell’altare un risalto più vivo. Anche i celebranti vestono
paramenti rossi. Tutto e colore di sacrificio. Nella controluce
degli alti finestroni solo i vasi di mimosa lasciano cadere una
nota calma di stanchezza melanconica. Padre Mengoli celebra
la Messa solenne e i due Partenti vi assistono da un
inginocchiatoi speciale.
Al Vangelo P. P. Buondonno esalta la figura e l’idealità
del missionario portatore della luce della fede e dell’amore per
la ricostruzione dell’ordine antico sintetizzandola nella
ricostruzione del grande tempio universale di Dio e nella
riconsacrazione dei più alti valori spirituali.
La commozione che s’indovina sul volto dei presenti di
fronte alle giovani figure dei partenti si fa più intensa quando a
Messa terminata, la Schola, diretta sempre dal P. Le Guevello,
attacca il “Quam pulchri pedes” del Clemens, raccolto e
mistico come una contemplazione, e i confratelli dei Missionari
si prostrano al bacio dei loro piedi. Il silenzio profondo è rotto
solo dai solisti che declamano come una preghiera viva,
l’invocazione di Gesù agli operai nell’abbondanza della messe.
Il rito d’addio si conclude con il trionfale “Omnes
gentes”, pure di Clemens, e con l’abbraccio di coloro che tra
qualche giorno salperanno per l’Africa.
Con il “Giulio Cesare”, via Gibilterra e Città del Capo
essi raggiungeranno lo Shirè, nel Nyasaland, Africa Orientale
Inglese.
Le ore dell’indimenticabile giornata passarono rapide.
Passò anche il sabato e giunse l’ora del distacco. Scendemmo
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tutti alla stazione. Era notte e l’addio riuscì per questo anche
più commovente. Quando cominciò a trillare il campanello di
segnalazione, ci abbracciammo un’ultima volta. I due
confratelli con i quali tanta parte di vita avevamo vissuto
assieme, sentono profondamente quest’ora. Non parlano più,
ma gli occhi lustri raggiano la gioia segreta dell’ideale
raggiunto.
Quando il treno si ferma, ci stringiamo più vicini e quasi
li alziamo di peso sui predellini attendendo che si affacciano
agli sportelli chiusi. Un fischio. Il treno si muove e parte. I due
missionari salutano con le mani .alzate mentre noi applaudiamo
al grido di “Viva le missioni. Viva l’Africa!”.
I finestrini del convoglio sono subito occupati dalle teste
dei viaggiatori incuriositi da quell’entusiasmo un po’ fuori
orario, e qualcuno si unisce a noi nell’applauso senza saperne il
perché. Il treno, appena fuori dalla pensilina, gira sulla destra, e
vediamo scomparire in ultimo gesto di addio due mani protese
nella notte. Del convoglio ancora per poco possiamo vedere e
fanali rossi di coda che sembrano lacrimare. E risaliamo al
Collegio...”.
Mons. Auneau fa l’elogio dei missionari italiani
Dallo Shirè Mons. Auneau scrive al P. Provinciale una
lettera di ringraziamento e elogio dei Missionari italiani.
“Carissimo P. Provinciale, la ringrazio per la sua amabile
lettera del 16 febbraio. Le sono oltremodo riconoscente per le
notizie fornitemi sul conto dei due giovani Padri salpati
dall’Italia per lo Shirè.
Continuiamo ad essere contentissimi dei preziosi servizi
che ci rendono gli altri due confratelli italiani che li hanno
preceduti in questa terra di missione: i RR. PP. Giavarini e
Villa. Non dubito che i nuovi Padri cammineranno sulle loro
tracce e faranno dell’ottimo lavoro nello Shirè.
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La nostra Missione si sviluppa con ritmo accelerato. Non
abbiamo nessun disoccupato! Anzi vi è molto più lavoro di
quel che possono fornire i Missionari attualmente addetti in
questo territorio. Perciò le sarei riconoscente se ci facesse
ancora dono di suoi giovani sacerdoti che si sentono la
vocazione di Missionari “in partibus infidelium”. Non voglia
inaridire una sorgente che ci da acqua così eccellente!
In questo momento subisco un’acuta crisi di una malattia
inveterata, che, ahimè! sembra proprio incurabile; la malattia
della... pietra.
In questo momento siamo in pieno fervore di lavori.
Stiamo costruendo i fabbricati di due Missioni; la Missione di
Zomba, capitale del Nyassaland, traslocata in un luogo più
spazioso e più adatto ai bisogni di questa Missione; e una
nuova Missione sulle rive del Lago Nyassa, il nostro piccolo
mare (380 Km. di lunghezza e da 30 a 80 Km. di larghezza).
La posizione di questa nuova Missione è incantevole,
riunendo in sé le attrattive del Lago Nyassa e quella della
foresta africana, che si estende in un territorio immenso.
In questa foresta si trova ogni specie di selvaggina: dal
coniglio selvatico all’elefante. Il lago poi è molto pescoso ed
ha qualità di pesci veramente deliziosi. Pur non disprezzando i
vantaggi della caccia e della pesca, i nostri Missionari vogliono
però avere, là come ovunque, dei cacciatori e pescatori
d’uomini. Avviso ai dilettanti di caccia e di pesca nei due
sensi!
I miei più cordiali saluti a tutti i confratelli. Voglia
gradire, carissimo P. Provinciale, l’espressione dei miei
religiosi e rispettosi sentimenti in Gesù e Maria”.
Siamo giunti sani e salvi nello Shirè
A differenza dei primi due missionari, P. Mario Caccia e
P. Tarcisio Betti non inviano notizie durante il viaggio in nave.
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Solo in aprile, giunto a destinazione, P. Mario Caccia scrive al
P. Provinciale da Limbe dove è rimasto per tre settimane,
prima di trasferirsi nella missione di Nzama.
“… Siamo qui giunti sani e salvi il 28 marzo a sera alle
ore 10.30. Vennero a prenderci alla stazione con il camioncino. Il primo abbraccio fu per il R. P. Giavarini che si
avanzava fra le tenebre con la sua barba nera nera, con quei
suoi grandi occhi, gridandoci un po’ in italiano, un po’ in
bergamasco: “Come va?... fatto buon viaggio?...”. E poi via di
corsa verso la missione.
Qui i Padri della casa ci attendevano, con a capo mons.
Vicario Apostolico, per darci il benvenuto. L’appetito ci spinse
subito al refettorio. I boys ci servivano guardandoci dall’alto in
basso. Chissà quale impressione avremo fatto loro con i nostri
vestiti in borghese e con la nostra barba incolta!
Il giovedì seguente facemmo una piccola passeggiata fino
alla missione di Nguludi. Ritrovandoci assieme, strada facendo,
ci raccontavamo le nostre cose e ci scambiavamo le nostre
impressioni. Pranzammo alla Scuola Normale, visitando poi i
fabbricati dell’importante opera. C’incontrammo e parlammo
volentieri con Suor Maria Francesca Tombini, di Torre
Boldone.
Alle cinque pomeridiane prendemmo la via del ritorno.
Ma la notte ci sorprese in cammino e quella brava guida di P.
Giavarini, parlando e parlando, smarrì il sentiero, facendoci
terminare ai piedi di un’alta montagna. Cercammo di rimetterci
sulla buona via, ma inutilmente. Andavamo a tastoni,
guazzando fino alle ginocchia in parecchie pozzanghere.
Allora Bambo Giavarini incominciò a gridare in
Chinyania: “Anthu!...Amai! Bambo wa njra... (Uomini, donne,
il Padre ha perso il sentiero!)”. Fu così che con l’aiuto dei neri
accorsi ci rimettemmo sulla strada sicura. È stata questa la
prima avventura missionaria.
Il giorno dopo Monsignore ci chiamò nella sua stanza per
darci l’obbedienza. A me fu assegnato il posto di Nzama, la
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prima missione fondata nel Nyassaland: clima ottimo,
posizione incantevole, al confine con la Colonia portoghese del
Mozambico. Questa sera partirò da Limbe col treno fino a
Balaka, poi a Nsipe e di là alla mia missione. Viaggio da solo,
senza sapere né inglese, nè chinianja!...
La mia salute è molto buona, però, come ci disse
Monsignore avremo sempre da soffrire qualche piccolo
disturbo, soprattutto qualche mal di testa, poiché siamo sempre
delle piante trapiantate. Abbiamo visto il P. Villa il lunedì di
Pasqua e s’è fermato con noi fino a giovedì. Sta molto bene.
Abbiamo appreso con grande dispiacere la scomparsa del
carissimo P. Gebhard. Saluti a tutti i RR Padri e Apostolini”.
Novità nella missione del Madagascar
Il mese di maggio 1939 segna una tappa importante nella
storia delle missioni estere monfortane. “L'Osservatore
Romano” del 29 maggio annunziava la creazione di un nuovo
Vicariato in Madagascar.
“… Per decreto della “S. C. Propaganda Fide”, in data 25
maggio 1939, la Prefettura Apostolica di Vatomadry è elevata
al grado di Vicariato Apostolico, con Tamatave come centro. A
questo nuovo Vicariato è aggiunta una parte del territorio dei
Vicariati Ap. di Tananarive e di Diego Suarez. Monsignor
Alano Le Breton, già Prefetto Apostolico di Vatomandry, è
nominato Vicario Apostolico di Tamatave”.
I Padri della Compagnia di Maria erano arrivati in
Madagascar solo nel 1933. La missione era stata ceduta dai
Padri Gesuiti. Primo Superiore era stato nominato P. Le
Breton, già missionario nello Shirè e nel Mozambico. Sarà lui
il primo Vicario Apostolico (1935).
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Prime disavventure dei nuovi missionari
Nello stesso mese P. Mario Caccia, dallo Shirè, invia
notizie sulle sue prime disavventure missionarie. Lo fa, come
al solito, con una lettera al P. Provinciale.
“… Quando si sta bene non si pensa più a nessuno: il mio
lungo silenzio non deve quindi inquietarla... Quante volte,
tuttavia, vado col pensiero a Redona, a Loreto, alle belle feste...
Quale differenza fra l’Africa e l’Europa! Bisogna che
dimentichi il passato ed incominci a pensare a vedere le cose
alla maniera dei neri, cioè quasi tutto all’opposto...
Quel che è più faticoso è imparare la lingua indigena che
non mi vuole entrare in testa. Ma ho già compreso che qui in
Africa più che altrove, è necessario armarsi di molta e molta
pazienza.
Nell’ultima mia lettera, un mese fa, le descrivevo le belle
e lunghe giornate passate in compagnia di P. G. Giavarini.
Stavamo arcivolentieri assieme, ma la voce di Dio per mezzo
dei Superiori, ci impose il sacrificio della separazione. Il mio
posto di missione era molto lontano e il mio nuovo Superiore
mi attendeva da lungo tempo.
Partii da Limbe solo soletto, alle nove e mezzo di sera,
col treno africano. Alla stazione vennero anche P. Giavarini e
P. Betti. Ci salutammo cordialissimamente. A chissà quando
l’arrivederci...
Così cominciai il primo viaggio africano: da solo, di
notte, senza sapere un’acca né di inglese, né di lingua indigena.
Ero contento egualmente. “In Africa bisogna sapersi
sbrogliare!” m'aveva detto Mons. Vescovo, comunicandomi il
programma del viaggio.
Il treno fischia e parte. Entro nel mio scompartimento:
fumo qualche sigaretta con un mauriziano che parla francese.
Ma dopo un’oretta egli scende ed io resto solo ed isolato. Mi
corico per far contenti gli occhi che cominciavano a pizzicarmi:
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infatti avevo tempo fino alle tre del mattino, mi avevano detto.
Che sonno! Che sogni!
Mi sveglio, guardo l’orologio, vado al finestrino c’è aria
fresca! Ritorno a sonnecchiare, guardo di nuovo l’orologio...
Balaka, Limbe, Nsipe, Nzama, un vero sonno di Don
Abbondio! Mezzanotte...; le due..., le tre e un quarto.
Accidenti! Forse ho già oltrepassata la grande stazione di
Balaka, senza avvedermene... Fregandomi gli occhi vado al
finestrino: buio pesto. Accidenti, ora sono fritto! Dopo dieci
minuti viene il bigliettaio indigeno a ritirare il biglietto.
“Balaka”, gli chiesi. “Yes!”., mi risponde. Mi ritornò il respiro.
Il treno era in ritardo di mezz’ora... Sarebbe questa la grande
stazione di Balaka?
Scendo con tutta comodità. Ma ora che faccio qui?
Prendo dalla tasca una lettera consegnatami a Limbe da P.
Baslé e indirizzata al Capostazione indigeno, nella quale gli
raccomandava che mi facesse arrivare a Nsipe e mi desse tutte
le istruzioni opportune, data la mia assoluta ignoranza della
lingua.
Mi avvicino ad un nero per chiedere del Capostazione.
Capisco dalla risposta che non c’è, che ora dorme e arriverà
solo in mattinata... Eccomi in un bel pasticcio! Dove vado ora a
trovare l’auto per Nsipe? Sotto la pallida luce di una lucerna
sfoglio il mio dizionario inglese e mi avvicino nuovamente al
nero: “When auto for Nsipe Mission”, gli chiedo. “Six cloks!”,
mi risponde. “Thank you!”.
Mi siedo allora su di una panchetta e, avvolto nel mio
impermeabile, utile contro il fresco della notte africana, dopo
aver sognato un poco ad occhi aperti, dico la preghiera del
mattino e il S. Rosario affinché la Madonna mi accompagni
sano e salvo fino alla mèta.
Incomincia l’aurora e il sole si fa alto: sono le sei ma
l’auto per Nsipe non la vedo e non la sento. Finalmente
cominciano ad apparire gli indigeni impiegati alla stazione. Ma
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chi sarà il Capostazione? Il nero cui avevo consegnato la lettera
me lo indicò. Non perdetti più di vista quel signore...
Alle 7.15 arriva un autocarro, già quasi completamente
carico d’ogni mercanzia. “Che sia propria questa la corriera per
Nsipe? Stiamo a vedere”.
Passa il capostazione e gli chiedo: “Please! Auto for
Nsipe?”. “Yes!”. Mi fa segno di mettere le valigie sull’auto: i
neri me le presero e le caricarono. “Ma io dove vado?”,
pensavo tra me e me. Il motore comincia a rombare: ... “ma io
dove vado?”. Fortunatamente ripassa il capostazione che mi fa
segno di salire dinanzi, vicino all’autista. Faccio uno sforzo per
salire e mi siedo. Sale pure il capostazione e si pone accanto a
me. Si parte, procedendo a media velocità. Finalmente!
Cominciai a respirare...
Ad Nsipe i neri fanno scendere le mie valigie e le portano
all’imbocco della strada che conduce alla missione. Le
deposito dinanzi all’abitazione d’un indigeno e mi avvio verso
la casa dei Padri domandandomi: “Quale sarà?”.
Dopo un breve tratto di strada vedo delle case in mattoni.
Domando ad un ragazzo nero che mi seguiva a debita distanza:
“Mission catholic?...”. Mi fa un segno con la testa, incuriosito
dal mio strano modo di parlare. Mi dirigo verso la scuola
cattolica... Un maestro mi indica la casa del Missionario. Mi
avvicino e busso. Entro e trovo P. Bethus seduto per la
colazione. Sono le 11. Il confratello mi accoglie con tutta
cordialità e mi invita e prendere qualcosa di caldo.
Domandai prima di poter celebrare la S. Messa. Mi portò
subito una sottana e mandò a chiamare i chierichetti.
M’accompagnò nella cappellina interna. Che miseria! Vidi
immagini ed altarini e la statuetta della Madonna di Loreto:
riconobbi subito la mano ed il passaggio del P. Villa...
Il mattino seguente partiamo per Nzama. Più di trenta
Km. in motocicletta col P. Bethus. Si marcia bene malgrado gli
sbalzi formidabili causati dalla irregolarità della strada. Dopo 5
km. la prima fermata: il motore s’è surriscaldato. Dopo un altro
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Km. altra fermata. Andiamo bene! E fu così fino a Nzama:
facemmo davvero tutte le stazioni della Via Crucis, in numero
triplicato... Io feci alcuni tratti a piedi, nelle salite, per
rimontare poi nelle discese...
All’una si comincia a scorgere la casa della missione. Ero
veramente stanco, ma contento.
Il Superiore ci accolse benissimo, commosso del nostro
stato pietoso. Per il mio arrivo avevano ucciso un maiale e fatto
arrivare un po’ di vino...
Mi trovo bene. La mia principale occupazione è sempre
lo studio della lingua indigena. La domenica io canto la Messa
mentre gli altri Padri confessano e fanno l’omelia. Già due
volte col Superiore sono andato a caccia di scimmie che qui si
trovano in abbondanza...
A proposito di animali, senta questo caso, capitatomi nel
terzo giorno dopo il mio arrivo.
Dopo mezzogiorno, volendo andare in ritirata, alquanto
discosta dalla casa, mentre faccio per entrare scorgo un grosso
serpente che si ficca sotto la porta. Mi si è gelato il sangue
nelle vene. Corro, allora, ad avvertire il Superiore, che viene
prontamente. Temevo ormai che non si trovasse più, invece il
rettile s’era comodamente attorcigliato sotto la cassettina della
carta. Si cercò di farlo uscire.. Lo sventrammo a suon di
legnate per renderlo innocuo. Due ore dopo la testa continuava
a muoversi... Lo finimmo col fuoco. Il Superiore mi disse poi
che era molto pericoloso perché velenosissimo: muore dopo
un’ora dalla morsicatura. Quindici giorni dopo, un altro della
stessa specie venne ucciso a sassate dai neri, mentre si dirigeva,
strisciando, verso la nostra casa..".
Fino ad ora non l’ho imbroccata giusta...
Verso la fine di maggio, con molto ritardo, giunge al
Provinciale una lettera di P. Tarcisio Betti. Scrive da Palombe.
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“...-Se mi domanda come va la vita quaggiù, ah! devo
rispondere che fino ad ora non l’ho imbroccata giusta. Il mese
trascorso a Limbe fu bello, perché là, a più di 1300 metri
d’altitudine, si ha un clima europeo, ma qui a Palombe...
Vi sono giunto circa quaranta giorni fa. È capitato a me
quello che capita a certe piante importate da altri paesi: da
vigorose, snelle, verdi si rattrappiscono ed emettono delle
foglioline giallognole, raggrinzite, molto sospette e fan dire al
giardiniere che le osserva: “mo’ ce more!”.
Qualcosa di simile è accaduto all’individuo novellino,
inesperto che arriva in Africa.. Ma diciamo subito che quel
brutto tempo era quasi sorpassato quand’ecco un bel giorno
(infausto giorno!) me ne capita una più grossa e tragica.
Ritornavo da una visita al mercato situato a cinque miglia
circa dalla missione; la strada era discreta e la mia moto filava
a grande velocità sulla pista liscia segnata dal cammino dei
neri. Ad un certo punto la moto mi si scarta e va in mezzo alla
strada che in quel punto è un vero Carso. Inesperto ancora del
mestiere, incomincio col perdere la testa, poi, pensando di
spegnere il motore lo accelero completamente. La moto diventa
un cavallo sbizzarrito: le braccia mi tremano freneticamente e
non potendo più tenere, mi alzo sui pedali e faccio un tuffo. La
macchina, poveretta, gira su se stessa e finisce nel fosso a lato
della strada, ed io avanzo di quattro o cinque metri a ruzzoloni
verso la missione.
Riavutomi dal primo sbalordimento cercai d’alzarmi. Ahi
ahi!.. Ia gamba e il braccio destro mi parlano ancora di
quell’avventura. Non senza difficoltà riuscii a tirare la moto dal
fosso, e per questa volta, a piccola velocità feci ritorno alla
missione, dove i Padri, ridendo, mi fecero animo: Coraggio! E'
il mestiere... E di ciò ringrazio il Signore d’averla passata
abbastanza liscia...
Avrei tante altre cose da raccontare, specie sui piccoli
negretti, da poter far ridere di gusto, ma per ora il mio braccio
esige un po’ di riposo. Io ricordo sempre dl pregare per tutti i
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componenti della nostra cara Provincia italiana, certo d’essere
contraccambiato. Saluti affettuosi a tutti".
Nankwali è la mia nuova residenza
Poco tempo dopo, anche P. Mario Caccia annuncia il suo
cambiamento di residenza. La lettera porta la data del
26.7.1939 ed è stata spedita da Nankwali.
“Dopo non ancora quattro mesi di residenza in Africa, il
15 c.m. ricevetti l’obbedienza per una nuova missione:
Nankwali. Lasciai il mio primo posto con un po’ di
rincrescimento, poiché il far valige è sempre alquanto penoso.
Son partito da Nzama il 18 c.m.. diretto a Limbe, dove
passai due giorni in compagnia del carissimo P. Giavarini.
Giovedì sera, giorno 20, con l’auto di Monsignore mi recai a
Zomba, dove egli doveva cresimare il giorno dopo. Aiutai un
po’ nelle celebrazioni e visitai il bellissimo collegio locale e i
nuovi fabbricati della missione.
Sabato 22 andai a piedi (circa 8 Km.!) a Nankunda per
trovare P. R. Villa e visitare il seminario indigeno. Il P.
Superiore mi fece cantare la Messa e nel dopo mezzogiorno di
domenica ritornai a Zomba per attendere il motocarro dei Greci
che andavano fino alla missione. Attesi fino alle 5 di sera e
arrivò quando meno me lo aspettavo. Già incominciava a far
buio.
Il motocarro filava; l’aria fresca penetrava nelle ossa. Il
cielo limpido, con la luna che rischiarava la via, rese veramente
interessante questo viaggio.
Arrivati ad un certo punto la strada finisce; si trova
davanti a noi lo Shirè, largo circa 100 metri. Non si vede
nessun ponte. Un fischio dell’autista fa venire dall’altra parte
della sponda un grosso barcone sul quale fece salire il motocarro con tutto il personale e poi pian piano i negri lo spinsero
dall’altra parte con bastoni che prendevano il loro punto di
appoggio sul letto del fiume.
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Nella missione, in attesa della nuova casa, continuiamo
ad abitare in una povera capanna, dal tetto di paglia e dai muri
fatti con un impasto di sassi e fango.
Siamo qui alla meglio, un po’ come dei neri. La
cappellina misura tre metri di larghezza per due di altezza. Si
può appena starci per celebrare la Messa con un solo serviente.
La domenica si celebra all’aperto. I cristiani sono assai pochi; è
una missione che è agli inizi e bisognerà lavorare molto.
Ci sono numerosi protestanti e maomettani e pagani. Con
i primi due sarà certo difficile aver presto buoni risultati...”.
Di corsa, da un villaggio all'altro
P. Giavarini e P. Villa, soprattutto loro, inviano notizie
sull’attività missionaria che stanno svolgendo. P. Giovanni
Giavarini si rivolge ora direttamente ai suoi “… amatissimi
canarini della Madonna”. Si sente un po’ uno “Zio d'Africa”.
“... Per darvi una pallida idea del nostro lavoro mi
limiterò a dirvi qualcosa dei miei viaggi apostolici dell’ultima
Pasqua. Dopo le belle ore trascorse in compagnia dei due
desideratissimi confratelli, P. Caccia e P. Betti, il dovere mi
obbligava a trascorrere altre ore, forse e senza forse meno
desiderate e godute dal “vecchio uomo”, ma ben più preziose
per il fine prossimo e ultimo della nostra esistenza.
I nostri due giovani missionari sostarono a Limbe bel 15
giorni. Non mancò il tempo per esaurire al completo la fonte
fresca e piena delle notizie dei nostri cari e della patria lontana.
E siccome non siamo missionari di sole notizie era egualmente
grato, di comune accordo, avvenisse il distacco per entrare
nelle personali mansioni della vita missionaria. Quindi il
sottoscritto dovette cavalcare la ”mula d'acciaio” e correre da
un villaggio all’altro per portare l’Autore della vita a tutti gli
ammalati di Cholo, Molère, Nsabwe.
Il 25 aprile davo l’addio ai compagni e mi diressi sulle
alture nei dintorni di Cholo. Il villaggio si chiama Macwana.
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La sera mi portavo vicino agli ammalati per ascoltare la
confessione e mi intrattenevo con loro in conversazione...
Quando i torrenti sono gonfi il Padre cavalca l’uomo più
robusto, e guai se si mostrasse restio o se volesse scalzarsi;
sarebbe un grande insulto per il nero. Quando invece il Padre
ha il Santissimo con sé, allora sono due che si offrono,
incrociando le mani, e il Padre non ha che adagiarsi sulla
soffice e calda poltrona; ed essi, con prudenza finissima,
portano il Padre e Gesù all’altra sponda.
Quando Gesù è portato eucaristicamente dal Padre, non si
parla ma si prega continuamente in silenzio, salvo quando sul
percorso non ci siamo protestanti o pagani; allora si prega ad
alta voce e il Padre indossa la stola, ma altrimenti senza alcun
segno e per di più il Padre è in calzoni. Quando però si giunge
presso l’ammalato si indossa la stola e si fa come prescrive il
rituale...
I neri sono furbi al sommo. Siccome vogliono a tutti i
costi la visita del Padre, allora anche se l’ammalato è capace di
camminare vi diranno che è impossibile. E d’altra parte tutto e
regolato, cioè ogni giorno sanno dove il Padre dirà la S. Messa
e quanti ammalati vi sono fisicamente impossibilitati. Ma
durante la corsa quanti ne saltano fuori di questi
impossibilitati! E allora, non potendo moltiplicare i giorni e
rompere l’ordine bisogna adattarsi in una giornata a far delle
grandi processioni e correre da un villaggio all’altro.
Processioni penose, ma, grazie a Dio, di grande merito!
Ma devo dire... che il gran sacrificio lo compie Gesù! È
vero che Egli non guarda la capanna, la povertà al sommo, la
sporcizia del corpo e le irriverenze che deve incontrare sia per
strada, sia da colui che lo porta, e per la mancanza dello stretto
necessario al momento della Comunione, ma guarda invece il
cuore.
Finiti i viaggi per la Comunione pasquale agli ammalati,
incominciarono quelli per gli esami dei candidati al Battesimo.
Lavoro interessante e divertente per le belle risposte che qua e
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là ci è dato di raccogliere. Nella nostra missione sono gli
uomini che si manifestano più intelligenti, e sono loro che più
si applicano allo studio del catechismo. La donna deve
occuparsi d’altro...”.
Censurata una lettera di P. Remigio Villa
Censurata dalle autorità inglesi, con molto ritardo, arriva
una lettera scritta da P. Villa e spedita dalla missione di Mpiri
dove si trova per i “masonkano”, una sorta di esami dei
bambini che si preparano alla prima Comunione e alla Cresima.
Per giungere fino qua abbiamo percorso circa 100 Km. in
bicicletta. Quanta miseria, spirituale soprattutto, poiché qui il
maomettanesimo è assai diffuso. Pensate che fino al 1935 i
cristiani non avevano missione qui, ma dovevano andare a
Zomba, a circa 100 Km. !
Ma lasciamo le riflessioni e veniamo ai morettini. Sono
proprio una “turba magna quam dinumerare…” io non posso.
Quasi nessuno è vestito convenientemente. Che vita! Si
ruzzolano per terra come tanti... porcellini d’Africa. Imparano
molto bene il catechismo e coloro che vengono per la sola
Cresima sanno confessarsi benissimo. Vi assicuro che certi
frugoletti mi hanno meravigliato davvero..”.
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1940/45
Il lungo silenzio
Nella sua ultima lettera P. Villa parla di “censura
inglese”. Sono le prime avvisaglie di un lungo periodo difficile
dei primi missionari italiani, presenti in una colonia inglese con
cui l’Italia entrerà in guerra. Nessun problema nei primi mesi
del 1940.
Grazie a Dio ho festeggiato il mio primo anno di missione
P. Tarcisio Betti scrive al Provinciale: “... Grazie a Dio
sono sempre stato bene, così ho potuto festeggiare con gioia il
28 marzo il primo anno di missione nel Nyasaland. Ho avuto
solo un piccolo incidente che merita d’essere raccontato perché
conosca meglio che cos’è l’Africa.
Alcuni giorni fa, dopo essere stato fino alle undici di sera
a sorvegliare il tabacco che secca nelle “Barnes”, mi metto a
letto. Il sonno mi fa fare sbadigli da rompere le mandibole, ma
sto benissimo. Sono appena sotto le coperte, che comincio a
sudare caldo e a tremare di freddo, in modo piuttosto
allarmante. Cose d’Africa, dico tra me e me. Tra un convulso
batter di denti, mi alzo, vado in cerca di chinino e di aspirina;
ne prendo una buona dose: due a due. Verso le tre mi sveglio
con la netta sensazione di trovarmi in un bagno caldo, e la
febbre continua.
Al mattino, con la testa pesante, il freddo alla schiena, la
nebbia negli occhi, vado a celebrare la S. Messa, ma subito
dopo mi rimetto a letto prendendo nuovamente del chinino e
dell’aspirina. Del resto non c’è altro rimedio; la febbre prende
il suo tempo.
In mattinata, per puro caso, arriva da Likulezi il P. Rèjan,
vecchio missionario: “… Ah, questi novellini dell’Africa!”. Per
tutto quel giorno stetti male, sempre con la febbre alta. Alla
sera, ancora chinino e aspirina, la notte dormo bene e al
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mattino svegliandomi, tutto è finito, salvo un po di debolezza.
Se fosse sempre così, non avrei troppo da lamentarmi...
Caro P. Provinciale, forse non lo sa che qui dalla fine di
dicembre a tutto marzo abbiamo il periodo delle piogge.
Cattivo tempo per chi deve viaggiare, specie alla missione.
Phalombe, dove le strade sono torrenti d’acqua e fango, è una
maremma.
Per buona sorte, anche il Signore si adatta alla nostra vita
e deve vederne di tutte le sorti. Non saprei contare le volte che,
portando gli ultimi sacramenti agli infermi, sono montato sulla
schiena di negri, col Santo Viatico, per attraversare dei
pantani...”.Siamo stati bene durante questi sei anni di guerra
P. Remigio Villa scrive al Provinciale: “... Grazie a Dio
siamo stati bene durante questi sei anni di guerra. Ora ci
troviamo così disposti: P.Giavarini alla missione di Palombe;
P. Caccia al Seminario indigeno; P. Betti alla missione di
Zomba ed il sottoscritto a Limbe. Suor Francesca Tombini pure
si trova qui a Limbe, dirige l’ospedale della missione ed è
incaricata della Cattedrale.
Il lavoro missionario, malgrado la guerra, ha potuto
continuare senza interruzione. Noi Padri italiani, dopo quattro
mesi di internamento, abbiamo potuto riprendere liberamente la
nostra vita di ministero. Anche dal lato materiale abbiamo
sofferto pochissimo; solo alcune leggere restrizioni La guerra
l’abbiamo sentita solo sui giornali!
La salute dei confratelli in genere si mantiene buona, ma
si sente il bisogno di rinforzi. Alcuni Padri sono al loro 14°
anno di missione, senza riposo! La Regola prevede un anno in
Europa ogni otto anni di Africa... Ma quando sarà il nostro
turno? Che la Madonna ci conservi in salute e tutto andrà bene.
Adesso comincia la stagione laboriosa con i “mazonkano”, cioe
la preparazione ai battesimi e alla prime Comunioni. Qui a
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Limbe c’è del lavoro per tanti. Abbiamo oltre 17.000 cristiani,
sparsi nel raggio di 24 miglia e siamo solo in tre! Ogni anno
poi c’è l'aumento di circa un migliaio di nuovi
communicantes...
Dunque chi è senza lavoro venga qui! A settembre
abbiamo avuto quattro nuove ordinazioni nel nostro seminario
indigeno; finora sono undici i sacerdoti africani, e se ne stanno
preparando degli altri.
Ora siamo impegnati nella costruzione di un nuovo
edificio scolastico; il vecchio era stretto e malsano. Aiutateci e
fateci aiutare. Ma soprattutto mandateci qualcuno... Su, i
missionari bergamaschi! Egnì 'nzò, ghè post per töcc!”.
Grave pericolo di morte per P. Tarcisio Betti
Da notizie posteriori a questa lettera sappiamo che
P.Tarcisio Betti, colpito dalla febbre nera, venne a trovarsi in
punto di morte e fu anzi amministrato dal confratello P. Mario
Caccia. Si era poi rimesso bene ed aveva subito ripreso la sua
frenetica attività missionaria.
Qui abbiamo tanto da fare
L’8 dicembre 1945 P. Remigio Villa aveva inviato una
lettera al Parroco di Carvico, suo paese di origine, in cui
scriveva:
“... Qui siamo nell’estate africana: fa caldo, le assicuro!
Ma non c’è troppo tempo per pensare al sole; c’è tanto da fare.
Il mese scorso fui alla missione soltanto 5 giorni. Per avere
un’idea, ecco cosa ebbi le due ultime domeniche nelle nostre
chiese succursali: in una 710 comunioni e 17 battesimi, in
un’altra 1000 comunioni e 26 battesimi. Le dico che quando
tutto è finito, allora si manda un respiro.
Ma insomma se c’è del lavoro, pure la salute si mantiene
buona, grazie a Dio. Ora che fa così caldo e che la mia moto è
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rotta da due mesi, quando si va a piedi se ne beve dell’acqua!
La sete è quel che mi costa di più in viaggio; e quando si trova
dell’acqua non si guarda né al recipiente, spesso ributtante, né
al contenuto: si chiudono gli occhi e... giù!
Noi qui stiamo tutti bene. Tre Suore ripartiranno per
l’Europa il 26 prossimo. Altri Padri sono pure in aspettativa, tra
i quali il mio Superiore, che è qui da 15 anni, con altri 3 Padri.
Sa, il clima africano consuma tutto il sistema, ed alla fine si è
stanchi di tutto e di tutti”.
In una lettera alla mamma, spedita il 10 ottobre 1945,
ancora P. Villa ci fa sapere che S.E. Mons. Auneau “è stato
molto ammalato. Si credeva il cancro e invece è solo un’ulcera
allo stomaco. Sono 35 anni che è vescovo missionario ed ha
solo 70 anni!
Ieri abbiamo saputo che 9 Padri olandesi verranno qui in
missione. Chissà se dall’Italia, dalla Francia e dall’lnghilterra
ne avremo pure. Oggi P. Tarcisio Betti e P. Giovanni Giavarini
sono qui in visita a Limbe. Stanno tutti bene. P. Mario Caccia
l’ho visto la settimana scorsa Suor Francesca è contenta,
avendo finalmente ricevuto notizie da casa”.
Siamo tutti in buona salute e in piena attività
In data 21 dicembre 1945 anche P. Mario Caccia scrive
una bella lettera alla mamma e alla sorella. “… Il contenuto è
strettamente privato, ma, tra l’altro, ribadisce le buone notizie
comunicateci poco tempo prima da P. Remigio Villa: tutti in
buona salute e in piena attività”.
Alcune settimane prima dal porto di Marsiglia sono
partiti 21 Padri Monfortani della Provincia francese: 15 per il
Nyassaland e 6 per il Madagascar. Altri 9 Monfortani olandesi
sono partiti per l’Africa. E i missionari italiani quando
partiranno?...
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1946
A quando una missione tutta italiana?
Qui si è in ballo e bisogna ballare
A guerra finita riprende la corrispondenza dei missionari. Particolarmente attivo P. Remigio Villa. Spigoliamo da
una sua lettera al Provinciale e da un’altra alla mamma. Sono
state scritte in aprile.
“... Il mese di febbraio fu quanto mai piovoso, proprio
come a Bergamo... Che differenza tra oggi e allora! Quand’ero
apostolino, durante il brutto tempo me ne stavo tranquillamente
in casa: scuola, chiesa, studio... Ora, pioggia, vento, sole mi
trovano sulla strada o in mezzo alla savana, a tutte le ore! E
non c’è da dire: “Non ne posso più, sono stanco, con questo
tempaccio mi prendo un malanno...”. Qui si è in ballo e si deve
ballare. Le anime non si salvano con la cuffia in testa e le
balbucce ai piedi.. La Madonna, del resto, è una buona mamma
e ci dà una salute di ferro e tanta serenità di spirito!
La pioggia fu così abbondante che i campi sono dei veri
laghi e le strade pozzanghere. I torrenti fanno paura. Una
bambina delle nostre scuole volle tentare il passaggio di un
torrente e fu portata via dall’acqua. Il corpicino della poveretta
fu ritrovato quattro giorni dopo, a dieci miglia di distanza! E
dire che anche sua mamma è in fin di vita... A causa della
pioggia il tetto della sua capanna si è sfasciato e le è caduto
addosso…”.
Cosa è successo dal 1939 in poi?
Anche dal Madagascar arrivano notizie sulla vita e sul
lavoro dei missionari. Qui vive e lavora Fratel Francesco delle
Cinque Piaghe.
Scoppiata la guerra, attraverso i giornali si seppe che
l’isola venne occupata dalle truppe americane. Dei nostri
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missionari più nulla. Ora siamo in grado di portare alla
conoscenza dei lettori una interessante lettera proveniente
dall’isola lontana.
“… Ci domandate: cosa è successo dal 1939 in qua, nel
Vicariato di Tamatave? Temo di non riempire queste quattro
pagine di lettera, perché la risposta è molto semplice: siamo
sempre qua, carissimi, al servizio del divin Maestro e della
amabile Signora; e per l’onore della cara Congregazione,
abbiamo tenuto sempre duro e terremo sempre più duro!
Nell’ottobre del 1941, per commemorare l’80°
anniversario della prima Messa celebrata a Tamatave, uno
splendido Congresso Eucaristico riunì nella grande città
dell’Est i Vescovi del Madagascar e un numero incalcolabile di
fedeli...
Chi avrebbe creduto in quei giorni di trionfo che,
neanche un anno dopo, le vie percorse dal Re della pace
sarebbero state squarciate dalle trincee, e che un feroce
bombardamento avrebbe fatto conoscere gli orrori della guerra
fino in quest’isola così lontana?...
Nel febbraio del 1943 ogni cosa rientrava, più o meno
nell’ordine, quando, la sera della Madonna di Lourdes, si
abbatteva sulla costa orientale, e più particolarmente su
Tamatave, un terribile ciclone. In quei momenti c’è solo da
abbandonarsi alla Provvidenza e implorarla d’aver la bontà di
risparmiarci un pezzo di muro per ricoverarci. L’indomani non
resta che calcolare i disastri e andare in cerca delle tegole del
tetto tra le macerie di alberi, foglie, travi e calcinacci!...
Ma se voi conosceste l’ingegnosità e l’abnegazione dei
nostri Fratelli Coadiutori non vi meravigliereste affatto che
solo pochi mesi dopo il disastro, chiese, residenze e scuole
abbiano ritrovato muri e tetto. E le costruzioni terranno duro,
speriamo, fino al prossimo ciclone!...
L’armistizio dell’8 maggio 1945 segnò la fine dell’incubo pauroso. Tutte le campane, anche le vecchie “latte”
arruginite e sbrecciate, che costituiscono le campane delle
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nostre cappelle della savana, hanno suonato per un’ora intera la
gioia della vittoria. Con la vittoria ritornarono lentamente i
contatti col mondo civile e con i nostri cari confratelli...”.
Dopo anni di tenebre Dio ci ridona la luce
In giugno scrive anche P. Giovanni Giovarini. “...Dopo
tanti anni di tenebre e di dolori fisici e morali, il buon Dio ci
ridona la luce e la gioia! Le giungerà questa lettera? Sì,
certamente. È finito il tempo delle incertezze. Caro Padre, forse
lei crede che io non abbia tentato di scriverle? Non solo lettere
ma anche telegrammi.. ma sempre inutilmente. Buio
completo!...”.
Quale balsamo sapere notizie sulle nostre famiglie
Al Superiore Provinciale scrive anche P. Mario Caccia:
“Una sua lettera tanto desiderata mi è arrivata finalmente alla
metà di maggio, portando la data del 1 dicembre 1945. Grazie
infinite! Non può immaginare quanto piacere mi ha recato e
quanto balsamo al cuore rivedere la sua scrittura, sapere notizie
delle nostre care famiglie e della nostra amata Provincia
Italiana, sentire il suo cuore di Padre che non ci ha
dimenticati...
I giornali e le riviste estere ci parlavano di terribili cose
in Italia, circa la carestia di cibo e di vestiario. Quali sono le
condizioni attuali? Qui l’abbiamo passata molto bene per tutto,
salvo qualche cosa che non vale la pena di ricordare al
confronto delle vostre sofferenze.
Quando si realizzerà il suo desiderio o di trovarci una
missione per noi soli Padri italiani? Il P. Remigio Villa s’è fatto
molti zii e zie d’America. Mi rincrescerebbe molto, però,
lasciare per sempre i cari negri del Nyasaland.
Lei forse aspetta in vacanza il P. Giavarini e il P. Villa...
Ma non so quando arriverà il loro turno. Molti altri Padri hanno
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finito i loro anni e attendono il fortunato giorno di tornare in
patria a riposare qualche mese. Anch’io, Padre, ho tanta voglia
di rimpatriare, non per restarci, ma per rivedere ancora una
volta la mia cara mamma... Quando essa mi scrive, mi chiede
sempre: Ho voglia di rivederti ancora una volta. Quando
vieni?”.
In questa lettera P. Caccia lascia intuire lo stato d’animo
di un missionario, felice di trovarsi in missione ma anche
giustamente desideroso di un breve rimpatrio per rivedere il
volto di familiari, amici, confratelli.
Interessante anche l’accenno al progetto di “una
missione per noi soli Padri italiani”. Quando e come è nato
questo progetto? Dalle parole di P. Mario Caccia risulta abbastanza chiaro che sul progetto esistono già delle ipotesi di
lavoro...
Mille auguri al carissimo “zio”!
In luglio P. Remigio Villa comunica una buona notizia:
“… II nostro carissimo P. G. Giavarini, uno dei primi due
missionari bergamaschi mandati in Africa dalla nostra.
Provincia, è salito di grado: dalla più bassa missione qual’è
Chikwawa, è asceso alla più alto locata missione di Molere, in
qualità di Superiore.
Questa missione era prima una succursale di Limbe,
quando il P. Giavarini ci venne come vicario, perciò ritrova
terre e gente conosciuta.
Mille auguri al carissimo “Zio”! Così saremo più vicini
ed ogni tanto una visitina rinfrescherà il cuore nei vecchi ed
indimenticabili ricordi di Villa S.Maria e della nostra
bergamasca”.
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Muore P. Gianbattista Garbottini
In settembre muore a Villa S. Maria P. Giovan Battista
Garbottini, primo fra gli italiani chiamati alla Compagnia di
Maria. Appresa la notizia, P. Villa scrive a P. Pasquale
Buondonno:
“... Con sommo dolore abbiamo appreso la morte
dell’amato P. G. B. Garbottini. Ci fosse stato concesso di
rivederlo almeno una volta ancora. Fiat! Non ci resta che
pregare per lui e, soprattutto, seguire i suoi esempi”.
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1947
Echi della canonizzazione del Montfort
Finalmente riprende la corrispondenza dei missionari
Con un significativo “finalmente!”, “L’Apostolino di
Maria” riprende a pubblicare la corrispondenza dei missionari.
S’incomincia con P. Tarcisio Betti che scrive al
Superiore di Villa S. Maria.
“… Di ritorno da un viaggio di 3 settimane fra monti e
valli ebbi una bella sorpresa, trovai sul mio tavolo il suo “Libro
di pietra”, magnifico mese di maggio, splendido commento dei
tesori d’arte che adornano la Cappella di Villa S. Maria, e
insieme anche un bel pacco di bollettini.
Rev.mo Padre, oltre a ringraziarla vivamente per la sua
opera che gustai tanto, e dell’«Apostolino di Maria», le
raccomando di spedirmelo ogni mese quest’ultimo, unico
conforto ch’io abbia qui, in lingua italiana; tutti gli altri libri
che avevo portato me li hanno rovinati i topi.
Curioso! Siamo in mezzo ai leoni, ai leopardi, alle iene,
eppure a questi quasi non ci pensiamo; i topi invece ti
rosicchiano le dita dei piedi e qualche volta sono tanto sfrontati
da tirarti i capelli mentre dormi, credendoli un commestibile...
Ma cambiamo discorso. Dopo l’indisposizione che ebbi
l'anno scorso, Monsignore pensò che mi avrebbero fatto bene le
arie fine di Nzama e mi mandò da quelle parti per riposarmi e
rimettermi in salute; ma quello che qui si guadagna per la
finezza delle arie lo si perde nei viaggi, generalmente a piedi,
su e giù per montagne e valli, innaffiate da frequenti
acquazzoni.
Nzama è una striscia di terra che si stende per circa 80
miglia lungo la colonia portoghese e i più vicini a noi sono i
Portoghesi e i Padri della Compagnia di Gesù che ne hanno
fondata un’altra l’anno scorso, a dieci miglia da Nzama”.
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Ora stiamo facendo i “sonkano”
Invia sue notizie anche P. Remigio Villa: “… Sono
impegnato nella preparazione alla Prima Comunione e per
darvene un’idea come capiscano a modo loro, sentite: “… Cosa
darete a Gesù Bambino quando verrà nei vostri cuori?”,
chiedevo durante il catechismo. Mi risposero: “… Mazira"
(uova)!”. Così infatti essi ricevono i missionari nei villaggi.
Vedendo che io non ero soddisfatto, alcuni tra i più grandicelli
pensarono di rispondere meglio dicendo. “… Tidzampatsa
Msima udi ukuku! (gli daremo la polenta col pollo!)”. Così essi
onorano un visitatore di grande importanza.
Dopo tutto, questi diavoletti ci aiutano. Ora, per esempio
che stiamo facendo il “sonkano” (cottura dei mattoni), sono
loro che ce li stanno portando. Tuttavia, bisogna essere sempre
con loro, altrimenti sanno ben presto tagliare la corda... “.
Grazie per le notizie sulla canonizzazione del Fondatore
In Italia, ma anche altrove in Europa e in tutti i Paesi
dove vivono e lavorano i Monfortani, fervono i preparativi per
la solenne cerimonia con la quale Pio XII, il 21 luglio,
proclamerà Santo il Beato Luigi Maria Grignion da Montfort.
L’eco di questi preparativi solenni lo troviamo nella
corrispondenza dei nostri missionari. Eccolo in una lettera di P.
Remigio Villa al Superiore Provinciale e ai Confratelli.
“... Prima di tutto grazie delle belle notizie per la
canonizzazione del Beato. Fa piacere nel prevedere i
grandissimi onori resi al nostro Santo Fondatore. Gli
Apostolini canteranno in San Pietro! “Oh! res miranda!”
Peccato che non sia del loro numero! Auguriamo un pieno
successo.
Noi pure stiamo preparandoci alla grande festa. Speriamo
che il Delegato Apostolico, S.E. David Mathew, possa
presiedere le solennità. Il Vescovo dei Padri Bianchi, della
parte nord del Nyasaland, sarà con noi con parecchi dei suoi
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missionari. Un Padre Bianco predicherà. Qualora le potesse
interessare, ecco il nostro programma:
Domenica 20 luglio: alle 2 p.m. processione con le
Reliquie del Beato, breve allocuzione in inglese e in cinianja,
Te Deum e Benedizione. In serata un intrattenimento per i
bianchi e gli indiani. Fuochi d’artificio (se giungeranno in
tempo dal Portogallo).
Lunedì 21: Corteo con il Delegato alla Cattedrale.
Pontificale di S.E. Seguiranno giochi, ginnastica, ed una
piccola rappresentazione su “Il Beato e la Legione di Maria”.
Tutte le nostre opere di formazione saranno presenti Il
Seminario di Nakunda eseguirà la musica. Alle 5 pomeridiane
solenne Benedizione Eucaristica e venerazione delle Reliquie.
In serata fuochi d’artificio. Seguiranno poi solennità nelle
diverse missioni: speriamo che tutto vada bene e che il nostro
Santo Fondatore sia sempre più amato e più imitato!”.
Una Generosa Iniziativa Missionaria
“Con vivo piacere apprendiamo e con cristiano orgoglio
a tutti i nostri cortesi lettori additiamo il mirabile esempio di
generosa carità dato dal gruppo missionario di Vimercate,
diretto dall’indefessa zelatrice Eugenia Bertoletti. Prendendo a
cuore le tristi condizioni di tanta povera gente nelle nostre terre
di missione, ha chiesto ed ottenuto dal Centro Missionario di
Roma di poter occuparsi d’una missione, e noi siamo lieti di
poter loro affidare la Missione dello Shirè.
Mentre questo eroico gruppo andrà in cerca di sacri
paramenti da inviare ai nostri Missionari dello Shirè e di stoffe
per coprire le nudità di quella povera gente, resteremo noi
semplicemente ammiratori? Nel campo missionario c’è posto
per tutti. Gesù che ha promesso il Regno dei Cieli a chi in suo
nome avrà dato un bicchiere d’acqua ai poveri non riserverà un
premio speciale a si generosa iniziativa?".
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I festeggiamenti per la canonizzazione del Montfort
In ottobre, P. Remigio Villa riferisce la cronaca dei
festeggiamenti in onore del Santo di Montfort precedentemente
programmati a Limbe nei giorni 20 e 21 luglio.
“… Vi avevo promesso di scrivere un resoconto delle
nostre feste in onore del Santo Fondatore; ma avvenne un po’
quel che si dice: Fatta la festa, gabbato lo Santo!... cioè tutto
passato, non ci fu verso di trovare qualche minuto per la
cronaca. Però prima di coricarmi stasera, voglio soddisfare il
mio impegno Dunque andiamo all’indimenticabile festa del 20
e 21 luglio.
Il tempo fu semplicemente bello; la vigilia temevamo una
pioggerella che noi chiamiamo 'mvumbi, e che vi fa gelare le
ossa (siamo nel nostro inverno) e che vi fa venire la voglia di
stare a letto e non di fare festa. No, il cielo si mise d’accordo
con noi.
Sin dal giovedì prima i Confratelli cominciarono a far
capolino. Trovammo il posto per dormire per oltre 30 Padri.
Naturalmente si domandò in prestito alle missioni vicine tutto
il necessario.
La facciata della chiesa tutta imbandierata, così pure la
casa. L’interno tutto rimesso a nuovo ed addobbato in maniera
non mai vista. La luce elettrica funzionò per la prima volta
nella sua forma definitiva.
Sei Padri Bianchi, assieme al Vescovo ed al Prefetto
Apostolico del Nord Rodesia, si unirono alla nostra gioia; gli
scolari si erano preparati da settimane per le cerimonie, il
Seminario per la musica, i futuri maestri indigeni per la parte di
teatro “Montfort e la Legione”.
20 luglio 1947. P. Giavarini canta la Messa in presenza
del Vescovo. La chiesa è affollatissima e per tutta la giornata i
cristiani riempiono la Missione. Alle 2 e mezzo la cerimonia
del “Te Deum”. Si incomincia con la processione delle
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Reliquie di S. Luigi di Montfort, nell’interno della Cattedrale.
Seguono due brevi discorsi spiegativi in inglese e in chinianja.
Alle 4.30 diamo un ricevimento per tutta la popolazione
di Limbe. Numerosi cristiani e conoscenti bianchi ed asiatici
sono presenti. Alle 6 le nostre Suore danno un trattenimento
nella scuola dei bambini europei, Dio solo può sapere quanta
pena si diedero per avere una si bella riuscita. Si cenò alle 9.30
di sera.
21 luglio 1947. Fu per noi la grandissima giornata.
Diversi altari portatili erano disposti in tutta la chiesa, di modo
che in tre turni i Sacerdoti ebbero l’agio di dire la S. Messa.
Alle 9 un corteo preceduto dalla Croce accompagnò il
Vescovo alla Cattedrale per il solenne pontificale. Tutto si
svolse perfettamente! La musica fece dimenticare l’Africa. Il
Rev. P. Daro dei PP. Bianchi tessè il panegirico del Santo di
Montfort essendo originario dello stesso paese. Anzi, detto
Padre, avendo quasi perso la voce di notte, mise un po’ il
nuovo Santo alla prova: “… Caro San Luigi Maria, se volete
che parli in vostro onore, ridatemi la voce”. E difatti senza
alcun sforzo parlò per oltre mezz’ora e fu inteso da tutti. La
Messa finì alle 12 meno un quarto.
Alle 12.30 tutti i Sacerdoti presenti a Limbe assieme ad
alcuni Sacerdoti indigeni fecero una bella corona al Vescovo
anche per l’agape fraterna. Le nostre brave Suore fecero
davvero delle meraviglie in questa occasione: vi era di tutto e
per tutti i gusti. Un Padre fece l’ufficio di diacono per la mensa
ed il servizio fu perfetto.
Sul termine del pranzo il P. Vicario Generale ringraziò il
Vescovo ed altri personaggi presenti. Il pensiero correva a
Roma, dove il nostro Vescovo, mons. Auneau, rappresentava
tutti noi. Rispose con parole delicate e sentite S. E. Mons.
Julien. Parlarono anche altri Padri tra cui un Sacerdote
indigeno, P. Harry Cikuse, il quale diceva come il Clero
africano del Nyassaland si crede a titolo speciale nipote del P.
di Montfort.
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Levata la mensa, si prese la foto dei Sacerdoti presenti e
subito dopo si diede inizio al teatrino: “Montfort e la Legione”,
trattenimento che venne dato all’aperto. Gli altoparlanti resero
intelligibile anche ai più lontani la minima parola. I neri
gustarono davvero quest’operetta soprattutto quando un
diavolo vestito di sacco, con coda e tutto il resto, faceva la sua
comparsa, ovvero sgridava i suoi diavoli subalterni... Ogni atto
fu intermezzato da giochi ginnici dati da diverse scuole.
Insomma tutto durò fino alle cinque pomeridiane.
Alle 5.30 rientrammo in chiesa per la Benedizione
Eucaristica. La musica stavolta venne dalla scuola dell’Istituto
Superiore di Blantyre: canti semplici, ma con cuore e
sentimento religioso, che sorpassò ogni aspettativa.
Il canto popolare trionfale chiuse l’indimenticabile
giornata. Peccato che i fuochi d’artificio non poterono essere
spediti dal Portogallo. Poco importa! La gioia di tutti era
completa, e credo, il nostro Santo Padre dal cielo doveva
volgere ogni tanto il suo sguardo, non solo in S. Pietro ed a S.
Teresa al Corso, ma anche qui a Limbe ed avrà dovuto dire:
Questi africani! non fanno troppo male… S. Luigi Maria,
benedite l'Africa!”.
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1948
Un più vasto orizzonte missionario
Già in precedenza “L'Apostolino di Maria” aveva
spaziato su orizzonti missionari monfortani non interessati da
una presenza di Padri italiani. Nel 1948 la rivista dedica ampio
spazio alla missione del Borneo e quella della Colombia:
“Paese dove si cuocciono le uova al sole”.
Le notizie sull’impegno missionario dei Padri italiani nel
Vicariato Apostolico dello Shirè riprendono a partire dal mese
di luglio, anche se le lettere portano date di mesi precedenti. Il
destinatario delle lettere è P. Pasquale Buondonno.
Interesse per le elezioni politiche italiane
Ecco uno stralcio di una lettera di P. Mario Caccia in cui
troviamo un accenno all’esito delle elezioni italiane:
“... Ho sentito, per mezzo dei giornali, che le elezioni del
18 aprile sono state abbastanza buone, ma, come dicono gli
stranieri, potevano essere migliori e non tutti i cattolici hanno
fatto il loro dovere. Continuiamo a pregare affinché il Papa e la
Chiesa siano sempre rispettati”.
Lezione sulla fauna africana
P. Tarcisio Betti, scrivendo a P. P. Buondonno preferisce
soffermarsi a parlare della fauna africana.
“... Nell’ultima sua mi domandava notizie sulla fauna
africana. Cercherò di darle qualche notizia, riservando per
un’altra volta di rispondere ad altre sue questioni.
Se vi domandassi: Chi è il re della foresta? Direste
subito: il leone, perché i libri dicono così. Ma stando in questi
paraggi incomincio a dubitare di questa asserzione.
Bisognerebbe dire che l’elefante è il re della foresta, perché è
certamente il più forte. Tutte le bestie se la danno a gambe
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quando sentono gli elefanti vicini. Nessuna bestia osa attaccare
questo mastodonte. E il leone allora? È forte, urla più forte e fa
salti da far invidia a tutti gli atleti d’Europa, ma... è cacciato e
sbranato spesse volte dai mimbulù: una specie di lupi africani,
che marciano sempre in branchi. Quando il leone li sente, se la
dà a gambe levate. Ma non pensate per questo che il leone sia
un buono a nulla...
Ecco per esempio, come va a caccia di vacche da queste
parti. Generalmente sono due o più leoni. Qui le stalle sono
degli steccati alti circa tre o quattro metri. Con un balzo uno
dei leoni salta lo steccato e cade tra le mucche. È strano, ma
l’esperienza prova che sceglie sempre delle bestie più grosse e
grasse. L’afferra, non importa dove, con le mascelle e, con un
mezzo giro di testa, la lancia fuori dello steccato al compagno
che aspetta dall’altra parte. Questi riceve il dono con entusiasmo, l’afferra lui pure e la lancia più lontano. Così, a forza di
balzi si ritirano con la loro preda in qualche luogo più sicuro
per prendere il loro pasto...
Lasciamo il leone per dire qualcosa di un altra bestia. I
negri del leone se ne infischiano, a parte quelli che hanno la
stalla da difendere. C’è un'altra bestia più maligna e pericolosa.
È il leopardo. Generalmente non attacca, a meno che non sia
preso all’improvviso e senta paura; ma se si accorge che viene
cacciato o se vede un braccio alzato... si salvi chi può! Quasi
nessuno, per non dire nessuno, arrischia la caccia al leopardo
qui. Se lo prendono, è sempre con le trappole. I negri, parlando
di caccia, dicono che il leone è “wopusa” (stupido), ma il
leopardo è “wocensera” (astuto e maligno). Lui si accontenta di
porcelli e di capre. Durante il giorno sta appollaiato su un
grande albero, e se le capre vengono vicine, guai a loro!
E le iene? Qui ce ne sono da vendere... Sono paurose
quanto mai. Scappano sempre quando sentono voce di uomo.
Ma di nascosto fanno scempio di capre, di maiali e di cani. Le
loro mascelle valgono più di tutte le tenaglie. Per le iene un
corno di bue è una polenta deliziosa.
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E i serpenti? Qui è un giardino zoologico. Per conto mio
ne ho ammazzato un buon numero; persino in chiesa e nel
confessionale! Ma ne restano ancora: grossi, velenosi, innocui.
Venite e vedrete!
Qui, caro Padre Buondonno, depongo la mia ingloriosa
penna. Scriverò ancora presto..”.
L'informazione missionaria della rivista allarga i suoi
orizzonti. Dal Madagascar arriva un aggiornamento sulla
situazione del Vicariato Apostolico di Tamatave, dopo la
sollevazione degli indigeni capitanati da Ravoan: chiese
rimaste in piedi o ricostruite dopo la bufera rivoluzionaria: 75;
chiese e cappelle incendiate o distrutte dai ribelli: 708.
Olanda: iniziativa per portare i missionari in Africa
Dall’Olanda arriva la notizia di una importante iniziativa
missionaria. Il 4 aprile, sul campo di aviazione dell’Aia, Mons.
Bekkers, presidente per l’Olanda dell’Unione Missionaria del
Clero, benediceva il primo aereo del “Charter-Comité”,
destinato a portare i missionari in Africa, e in seguito anche in
altre regioni.
L’aereo ha diminuito le distanze tra i continenti in lotta.
Non è giusto che se ne avvantaggino anche i missionari nella
guerra dell'errore? Per questo la M.I.V.A., interpellata a tale
proposito, ha affidato al P. Martino Schreurs, dei Missionari
della Compagnia di Maria, l’incarico di studiare un progetto in
seno ai “Missionari Riuniti” di Olanda, in cui sono
rappresentati trentadue Istituti missionari.
Dalla fase di semplice progetto si è subito passati alla sua
attuazione. Essendo deciso d’iniziare l’attività con viaggi nel
continente nero, sono stati convocati i procuratori di missione
aventi missioni in Africa, i quali hanno ben presto costituito un
comitato di cui P. Schreurs, anima del progetto, è stato eletto
presidente.
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Il Comitato si propone non solo di far giungere in pochi
giorni gli araldi del Vangelo fino agli estremi lembi africani.
ma anche di alleggerire le spese di viaggio, evitando che i
missionari siano costretti, prima di giungere in missione, a
rimanere quasi privi di mezzi spontaneamente offerti dalla
carità dei fedeli. A tale scopo il Comitato, coadiuvato dal
Signor Diepen, ha potuto concludere un vantaggioso accordo
con “Air Holland” per il trasporto delle persone, e con la
Società Olandese di Navigazione per il trasporto sollecito ed in
gran parte gratuito dei bagagli.
Morte di Fra Velsquez nello Shirè
In maggio, nell’ospedale di Salisbury, è deceduto quasi
improvvisamente, Fra Rodriguez, validissimo aiuto della
Missione dello Shirè, dove si era prodigato per 28 anni.
"… Dotato di buon talento, si era specializzato come
progettista e direttore delle più importanti costruzioni civili
della missione. A lui, fra le altre opere, si devono la Cattedrale,
davvero maestosa, di Limbe, il palazzo episcopale ed altre
chiese...
Fu anche paziente e fine scultore in legno, dedicandosi
alla lavorazione di altari; dalle sue mani è uscita una bella
statua della Madonna in legno duro, che testimonia i sui veri
talenti di artista. Di grande aiuto pure le sue capacità di
elettricista e di meccanico. Quando lo colse il male che lo portò
alla tomba, trovavasi a Zomba, capitale del Nyasaland,
occupato nell’istallazione di una turbina per la produzione di
elettricità”.
Richiesta di dimissione di Mons. Auneau
Dal Nyasaland giunge anche un’altra notizia: “S.E: mons.
Auneau ha creduto, per ragioni di salute, presentare al Santo
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Padre le dimissioni da Vicario Apostolico dello Shirè. Il
Sovrano Pontefice ha accettato le dimissioni, lasciando a sua
Eccellenza l’amministrazione del Vicariato Apostolico fino alla
nomina del successore.
Sua Santità Pio XII, volendo riconoscere i meriti di un
lungo e fruttuoso Episcopato, ha conferito a S.E. Mons. Luigi
Auneau i titoli di Conte Romano e Assistente al Soglio
Pontificio. Noi chiediamo a Maria, Regina delle Missioni,
d’elargire al Venerato Prelato numerosi anni di vita e ricolmi di
celesti benedizioni”.
P. Tarcisio Betti nella nuova missione di Nankwali
A novembre P. Tarcisio Betti scrive a P. Buondonno “…
quattro righe non in furia ma in fretta, dato che un postino è
pronto a fare 100 miglia per andare alla posta”. Scrive da
Nankwali, sua nuova residenza.
“... Come vede ho cambiato residenza. Mons. Vescovo
venne a Nzama per le Cresime il 1 agosto e mi domandò di
venire a Nankwali. Ai pezzi grossi non si possono fare rifiuti.
Ed eccomi qui fin dai primi di settembre. Tutto qui è
magnifico. La missione si trova sulle rive del lago Nyassa e
precisamente vicino alla punta della penisola che, al sud, divide
il Nyassa in due.
Qui è la vera Africa, come non l’ho mai vista in vita mia:
elefanti, a branchi, vengono ogni giorno ad abbeverarsi al lago,
leoni e leopardi, ippopotami, coccodrilli e tutto quanto si può
pensare della ricca fauna africana.
Benché il lago sia infestato dai coccodrilli, ciò non mi
impedisce di guazzare ogni giorno nell’acqua. Spesso qualcuno
è acchiappato dai coccodrilli: speriamo che non mi tocchi
simile sorte!
Ma se il paese è magnifico, non così la gente. Quasi tutti
i villaggi sono lungo la riva del lago. A loro piace stare distesi
sulla sabbia a prendere bagni tutto il giorno, ma lavorare... E
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con questo la morale è molto giù, e la religione ne soffre. In più
è una missione giovane.
I protestanti hanno lavorato qui molto e allora è una
confusione. E ancora le danze più immorali sono all’ordine del
giorno. Mi viene voglia di dire: Si salvi chi può! Ma ho fiducia
che Nostra Signora delle Vittorie, che è la Patrona delle
Missioni, saprà sempre acciuffare qualcuno per l’orecchio
(giacché i capelli li hanno corti) e farlo balzare in Paradiso a
tempo opportuno. E speriamo che uno di questi sia pure il
sottoscritto...”.
La visita di Mons. Giovanni Gunnarson a Redona
In novembre, ospite gradito di Villa S. Maria, è di
passaggio Mons. Giovanni Gunnarson, monfortano, Vescovo
titolare di Holar, Vicario Apostolico d’lslanda, con sede a
Reykjavik. Monsignore, figlio d’Islanda, è succeduto a Mons.
Meulemberg, deceduto il 15 agosto 1944, poco dopo lo sbarco
delle truppe anglo americane.
Lo zio missionario racconta
Il corrispondente più fedele dallo Shirè è senz’altro P.
Remigio Villa. Le sue sono corrispondenze sempre molto lunghe, colorite e ricche d’informazioni. Sono suoi anche i
racconti missionari, in parte raccolti dalla cronaca vera, in parte
frutto della sua vivace fantasia di “zio missionario”.
Nei primi mesi del nuovo anno 1949 invia notizie sulla
visita del Delegato Apostolico, rappresentante del Papa, visita
attesa da tempo e che ha suscitato molto interesse tra i cristiani.
“… Sua Eccellenza era già in visita dal Governatore del
Nyassaland. L’indomani venne a Limbe. Una folla di bambini
di tutte le scuole della Missione, assieme ad innumerevole
popolo, erano là dalla sera precedente, aspettando Sua
Eccellenza.
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Appena giunto sotto la veranda della casa, tutti fecero
corona al Delegato, il quale, dopo un benvenuto datogli da un
maestro indigeno, disse alcune parole di ringraziamento e diede
la benedizione papale. Tutta la giornata i ragazzi delle scuole
seguirono giochi di ginnastica con canti. Ma il grande trionfo
fu per cosi dire l’indomani con il solenne pontificale.
I neri non credono ai loro occhi: il Delegato Apostolico è
stato per loro davvero quel grande Capo che si erano
immaginati. Se un inviato del Papa è così grande, cosa sarà mai
il Papa stesso? Anzi alcuni protestanti dicevano tra loro: Ma
costui è il loro Papa, non lo vogliono dire, ma è lui in persona!
Immaginate poi il loro sbalordimento, quando al
Vangelo, Sua Eccellenza si mise a leggere un discorso in
chinianja. Dove ha imparato costui? I cristiani si sentono ancor
più fieri della loro Chiesa, perché ora hanno visto quali capi la
governano. I protestanti stessi furono decisamente convinti
della vitalità della Chiesa cattolica e della falsità di certe
opinioni sparse tra i loro correligionari che la Chiesa cattolica
stava per finire o era molto indebolita.
Il lunedì seguente il Delegato Apostolico visitò la nostra
missione madre, quella di Nguludi. La popolazione cristiana ed
anche quella non cattolica fece un ricevimento davvero regale.
Sua Eccellenza diede la Benedizione Eucaristica e disse
qualche parola in chinianja.
Nei giorni seguenti visitò altri posti di missione ed opere
di formazione: scuola normale delle ragazze, dei ragazzi,
secondarie e, soprattutto, il seminario dove pontificò la
domenica seguente. Una conferenza intervicariale degli
ordinari del Nyassaland chiuse la visita apostolica".
Nella stessa corrispondenza P. Remigio Villa torna a
parlare del lebbrosario di Utale, una istituzione originale a tutti
i livelli e un fiore all’occhiello del Vicariato.
“… Fu nella metà del 1929 che il nostro Vescovo mons.
Luigi Auneau decise di far della missione di Utale (missione
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fondata nel 1908 dallo stesso mons. Auneau) un centro di
rifugio per poveri lebbrosi. La Suora che sarebbe dovuta partire
in vacanza proprio quell’anno, dopo quasi 15 anni di vita
missionaria, rinunciò al suo viaggio per poter dar subito
principio a tale opera tanto pietosa.
Si iniziò con capanne di paglia. Poi si cominciò a
fabbricare. Ora il lebbrosario appare come una piccola cittadina
ideale africana. La chiesa nel centro, dedicata a Santa Teresina
è una delle chiese più belle del nostro Vicariato. Sui due lati,
due grandi ospedali. Tutt’intorno alla chiesa, delle case in
mattoni dove gli ammalati vivono come se fossero in una casa
del proprio villaggio. Per cui il lebbrosario non ha nulla del
campo di concentramento come si racconta di simili istituzioni
in altre località. Pace, serenità, lavoro e preghiera assieme a
liete ricreazioni: ecco la vita dell’ospedale.
La vita comincia al mattino con uno squillo di tromba.
Alle 5.15 comincia la S. Messa: quasi tutti sono presenti. Un
fratello (lebbroso guarito) accompagna all’armonio i canti,
dirige le preghiere ecc...
Dopo la Messa ciascuno va al proprio lavoro nel campo
(ogni paziente ha uno spazio a lui riservato per lavorare: i
prodotti sono suoi! Verso le 10 la Suora infermiera, coadiuvata
da due suore indigene, fa le medicazioni ed iniezioni; dopo,
tempo libero per prepararsi a mangiare (solo i più gravi hanno
la cucina in comune; gli altri ricevono di che cucinare per
conto proprio). Nel dopo pranzo ciascuno si dà a lavori speciali
o ritorna nel proprio campicello.
Come dissi, il lebbrosario non ha nulla di triste o di
recluso. L’ultima volta in cui feci visita fu il Natale scorso. Ora
i degenti all’ospedale sono oltre 350, senza contare gli esterni
dei villaggi vicini e i parenti che spesse volte vivono con gli
ammalati. Trovai un lebbroso musulmano: non aveva che un
mozzicone di mano; i piedi pure non avevano più un dito, era
quasi cieco. Eppure anch’egli ha il suo campicello. Un
secondo, lui pure con mezze dita, continua il suo mestiere di
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calzolaio: si è fatto due ciabatte per se stesso onde nascondere i
piedi... che non ci sono più! Altri lavorano facendo ceste o
stuoie. Nessuno sta con le mani in mano. Una volta alla settimana, a turno, una capanna può fare la “mowa” (birra
indigena). È un giorno di riposo, di allegro ritrovo.
La conversazione non è mai monotota tra i neri, specie
quando hanno una “cipanda” (zucca) di “mowa” tra le mani.
Uno spettacolo che ferisce il cuore, invece, sono i bambini dei
lebbrosi, già affetti dal terribile male. Finora non si è potuto
fare un asilo per loro. I piccoli corrono allegri; inconsci del loro
stato...
Da questo comprendete come il lebbrosario non e un
luogo di orrore, come potreste immaginare. Due anni fa, il
nostro Cappellano del lavoro, P. J. De Ponti, nel suo ministero
al Sud passò per un lebbrosario e tra gli altri vi trovò 3 lebbrosi
del Nyasaland (non cattolici). I poveretti s’attaccarono al Padre
perché ottenesse loro di far ritorno nella loro patria: Andremo
in un lebbrosario vostro del Nyasaland, ma noi non possiamo
più stare qui in prigione!. Questo il giudizio degli ammalati sul
nostro lebbrosario cattolico: si sentono liberi, si sentono amati
e non oggetto d’orrore.
Domandai alla giovane Suora americana, direttrice
dell'ospedale: “… Quante precauzioni prendere per non contrarre il germe?”. “Padre, a dirle il vero ci penso poco, non mi
sento per nulla impressionata!”. È un'autentica figlia del
Montfort, Suor Eustel Marie”.
Una carestia mai vista!
Più o meno nello stesso periodo P.Tarcisio Betti, invia
una lettera a P. P. Buondonno.
“… Ho gradito la sua lettera carica di saluti. Lei ama
sentire qualcosa dell’Africa. Scusi se non rispondo proprio alle
sue domande. La lingua batte dove il dente duole e anch’io
seguo un po’ i proverbi che sono la sapienza dei popoli. Qui
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non marcia proprio come dovrebbe. La natura e gli animali
ragionevoli e non ragionevoli hanno congiurato.
La stagione delle piogge non ha portato molta pioggia ed
il Nyasaland va incontro ad una carestia mai vista. Qui al lago,
grazie a Dio, un po’ di pioggia si è avuta e c’è qualcosa nei
campi, ma... Ecco entrare nel campo di congiura gli animali
irragionevoli. Da dicembre quasi più nessuno viene in chiesa.
Tutti nei campi a difendere il loro granoturco dalle scimmie.
Non potete immaginare quale flagello siano le scimmie nelle
piantagioni! Ammazzarle con i fucili? presto detto, ma quando
sono centinaia si perde anche il coraggio di andare a caccia...
Anche noi abbiamo preparato un grande campo di
granoturco; le scimmie vi si sono già introdotte una volta e ne
hanno fatto scempio. Abbiamo pure piantato riso, ma gli
ippopotami se lo pappano come se fosse loro. Avevamo pure
piantato molte patate dolci, ma ce ne hanno già alleggerita la
raccolta gli ippopotami e gli elefanti, che hanno ricevuto da
Dio la proboscide affinché potessero scavare meglio.
È una vera miseria. Peccato non sia qui il P. Cargnin con
la “sciòpa” che aveva a Loreto, farebbe delle ecatombi di
queste bestie. Qui il lago ci deve essere di aiuto per avere un
po’ di pesce, ma anche nel lago vi sono i bravi intoppi. Avevo
comperato, e costava!, una grande rete; si getta la sera e si ritira
al mattino. Andò bene alcune volte. Ma una bella mattina,
arrivando con la barca sul posto, ecco spuntare e uscire dal lago
due grosse teste di coccodrilli. Sentii un brivido; i coccodrilli
avevano fatto colazione con i pesci e mi lasciarono la rete a
brandelli.
Ed ecco ora gli animali ragionevoli entrare in lizza. Non
c’è che dire: finora qui non ne vogliono sapere di religione,
specie della religione cattolica che vorrebbe proibire le
diaboliche danze degli “Zingau”. Una lettera collettiva scritta
in gennaio a chi ha l’autorità, diceva: “Siamo stufi della
missione cattolica. I Padri devono essere spediti al più presto.
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Noi vogliamo danzare gli “zingau”. Li finiremo con del
veleno...”.
Ma bene, ma bravi, pensavo leggendo questa lettera;
vomitate un po’ di quel veleno che avete in corpo, sbottonatevi,
onde vi possiamo conoscere meglio. Ma il male si è che queste
notizie corrono e mantengono dell’odio e molta indifferenza
verso di noi.
E ancora. Nel mese scorso ad un funerale d’un cristiano
della Dutch R.M., il loro pastore, un nero predicava così: “… I
nostri Mafumu (capivillaggio) hanno fatto un enorme
sproposito permettendo alla belva delle dodici corna (la
chiesa!) di stabilirsi qui, e noi dobbiamo combatterla e
impedire con ogni sforzo (calunnie!) che si propaghi! E un
venditore, in una bottega qui alle porte della missione, aveva
cambiato la bottega in basilica e predicava, predicava a distesa
con la Bibbia protestante in mano: I Padri di Nanhwali sono dei
furfanti, dei ladri che vengono ad ingannarvi e a succhiare i
pochi quattrini che avete!”.
Cantava bene il gallo, ma razzolava male. Tre settimane
fa venne il padrone della bottega e... trovò un deficit di 200
sterline. E il Bourdalou di ieri sta ora in prigione a rinvigorire
la sua vita spirituale... nel silenzio, nella solitudine e ... nel
digiuno, poiché, a causa della carestia, ho inteso dire che anche
ai carcerati è stata dimezzata la razione.
E per finire, ancora una, se non ve l’ho raccontata. Qui
abbiamo un piccolo dispensario, cercando, con quale
medicinale, di ammansire un po’ questa gente. Macchè! Ho
inteso dire che nei villaggi, a chi vuole venire qui a prendere
una purga, si dice spesso: “Non andare alla missione a prendere
delle medicine perché dopo avervi dato la medicina, i Padri vi
angarieranno perché andiate in chiesa la domenica...”.
Tutti questi untorelli fanno ridere! La Patrona di
Nankwali è Nostra Signora delle Vittorie. Non potevamo
scegliere meglio. E dobbiamo avere la sicurezza che col tempo,
a poco a poco, la Madonna saprà ammansire queste bestie
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feroci e cambiarle in buoni cristiani. È per questo che chiedo a
lei, caro Padre, di pregare e fare qualche sacrificio per questa
povera missione. Anche per noi qui, la recita del nostro caro
Rosario è l’oasi in cui corriamo a rifugiarci. E lei faccia
coraggio ai piccoli Apostolini. Qui c'è posto anche per loro.
Troveranno sempre pane per i loro denti missionari...".
Aria di ritorno in patria
Il 7 luglio P. Pasquale Buondonno viene nominato
Vicario della Provincia Italiana Monfortana. Succede a P.
Ercole Germini che ha ricoperto la carica per 10 anni.
Verso la fine di maggio è tornata dal Nyasaland, dopo 18
anni di permanenza in terra di missione, Suor Maria Francesca
Tombini, Figlia della Sapienza, di Torre Boldone.
Godendosi un periodo di meritato riposo presso la
Comunità delle Suore annessa alla nostra Scuola Apostolica, ha
la possibilità di parlare con gli Apostolini della lunga
esperienza missionaria.
Muore la mamma di P. Remigio Villa
Muore la mamma di P. Remigio Villa. La notizia lo
raggiunge nella sua missione. Scrive una lettera al Provinciale.
“Mio caro Padre, la sua lettera del 22 maggio mi è giunta
tre giorni fa, con le care fotografie. Nel mio indicibile dolore
mi è di grande conforto quel che il P. Provinciale e i confratelli
tutti, assieme agli Apostolini, avete fatto in questa occasione.
Che la Madonna SS. benedica tutti per il vostro buon cuore!
Mio fratello Giulio mi ha raccontato tutto e mi disse
come i nostri cari Apostolini hanno cantato così bene da far
piangere! Dica loro il mio grazie commosso, come pure al caro
P. R. Omizzolo che vedo ben distintamente nella foto. Grazie
pure al P. C. Roberti: forse mia mamma ha avuto la dolce
illusione che io ero là all’ultimo istante...
82
Grazie infine alla Suore per le preghiere fatte. Mai come
in questa triste circostanza ho trovato vere quelle parole della
Scrittura: “Come è bello e giocondo stare in tanti fratelli
insieme”. Dunque dica il mio sentito grazie a tutti lontani e
vicini.
Quando mia mamma morì, io per tre notti non ho potuto
dormire. Eppure non avevo ricevuto nessun avviso, anzi,
l’ultima lettera mi diceva che stava meglio.. Il sangue non è
acqua! Io non facevo che chiamare mia madre...
Fiat! Nel mese e mezzo che ci separa dalla partenza
abbiamo ancora molto da fare: la preparazione ai Battesimi e
alle Prime Comunioni.
Accompagnai il Vescovo a Mpiri per le Cresime. Così
passai due giorni con P. Giovanni Giavarini. Il Vescovo felicitò
il Padre per l’andamento della sua missione. Certo che la lode
fu ben meritata. In tutto il nostro Vicariato non ho mai visto
pregare così bene in chiesa. Tutta la missione bellamente in
ordine ed attraente. Come dissi, Monsignore rimase proprio
soddisfatto per tutto.
Dopo la Pentecoste ebbi visita del caro P. Mario Caccia.
Fa tanto bene ritrovare amici d’infanzia e riandare sul passato
prossimo e... remoto.
Padre Tarcisio Betti si è annunciato per il mese prossimo,
cioè per la vigilia della nostra partenza: sembra che voglia
darmi un baule pieno di... lettere e commissioni. Dunque non
lamentatevi troppo del suo silenzio; solo abbiate pazienza e
vedrete!
Sono andato martedì scorso al lebbrosario di Utale e
celebrai una Messa colà; per dirvi la verità non mi è mai
sembrato di dirla così bene! Vedesse, caro Padre, quale
spettacolo commovente! Prego la Madonna perché faccia
prosperare la nostra Provincia e conceda santi sacerdoti con un
vero spirito missionario...”.
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Rientro in Italia P. Remigio Villa e P. Giovanni Giavarini
Nella sua lettera P. Remigio Villa accenna al suo ritorno
in Italia. Ecco come lo descrive il cronista de “L'Apostolino di
Maria”.
“… Dalla fine di giugno, data approssimativa annunziata
per l’imbarco da Beira sulla nave “Gerusalemme”, eravamo in
ansiosa attesa dei nostri primi due missionari bergamaschi, P.
Giovanni Giavarini e P. Remigio Villa, che da 12 anni
lavoravano
indefessamente
all’evangelizzazione
delle
popolazioni del Nyasaland. Dalle Agenzie di viaggi venimmo a
conoscenza che la nave era partita con qualche giorno di ritardo
dal capolinea: questa notizia scombussolò i nostri piani di un
ricevimento grandioso allo sbarco di Venezia. Quando
arriveranno esattamente? Non era possibile sapere con
precisione.
Il Rev.mo P. Provinciale la sera del 24 agosto partì per
Venezia presentendo che l’arrivo era imminente. Infatti arrivò
al mattino seguente, giusto in tempo, quando la
“Gerusalemme” attraccava alla banchina. Non si può
descrivere la commozione di quel primo abbraccio: giubilo del
cuore, lacrime di gioia dei reduci africani... Le noiose
operazioni di svincolo dei bagagli, un’oc-chiata ammirativa e
trasognata alle bellezze artistiche del centro cittadino, così
incantevole, unico al mondo, e un necessario riposo, fermarono
i nostri a Venezia tutta la giornata e la notte. Intanto, dalle
residenze di Redona e di Treviglio alcuni Padri e Fratelli partiti
dietro invito telegrafico del Provinciale, giungevano a Venezia
il 26 di buon mattino e si inoltrarono coi Missionari nella
grandiosità della Piazza S. Marco. Verso le 9 di sera di quello
stesso giorno arrivarono a Villa S. Maria, da dove erano partiti
nel lontano 1937, accolti da battimani e da evviva, fra le
luminarie e i guizzi di fuochi d’artificio.
Il giorno seguente quante cose non avevano da raccontare
e da far vedere agli avidi Apostolini! Vi lascio immaginare la
84
gioia estatica di questi nel vedersi porgere fra le mani pelli di
fieri leoni e leopardi... e serpenti; le zanne d’avorio d’elefante,
e vere opere d’arte in avorio, in ebano, eseguite con mezzi
rudimentali dalle pazienti mani di neri. Tutte cose che verranno
in seguito a far parte di un piccolo museo missionario che si
pensa di allestire a Villa S. Maria.
I missionari resteranno in patria circa un anno;
saltuariamente avremo il piacere di averli qui con noi. Quante
cose impareremo sullo sviluppo e sulle difficoltà delle nostre
missioni... in attesa di andare anche noi laggiù a lavorare con
soddisfazione immensa all’apostolato diretto”.
Riparte Suor Francesca
Missionari che ritornano in Italia ed altri che ripartono
per il Nyasaland. È il turno di Suor Francesca Tombini.
“ Giunse in mezzo a noi otto mesi or sono, in una festa
della Madonna. Silenziosa, ella visse la nostra vita,
prodigandosi con esemplare assiduità per i nostri Apostolini,
come se fosse in comunità. Nulla la distingueva dalle altre
Suore, nessun privilegio. Era missionaria anche qui, e collo
stesso sorriso di laggiù, tutti accoglieva per una buona parola.
Nel tramonto della festa di S. Francesco Saverio ricevette
l’annunzio della sua partenza. Gli Apostolini erano dispiaciuti
di non poter riudire i suoi racconti missionari...
La domenica 4 dicembre ci diede l’addio. Gli Apostolini
le improvvisarono una piccola festa, le dissero il loro desiderio
di poterla rivedere giù in Africa e le diedero l’arrivederci con il
canto “Gesù lo sguardo amabile”. Ha lasciato la vecchia
mamma, i suoi fratelli, ed è tornata al suo lebbrosario di Utale,
ove spese la maggior parte dei suoi 18 anni di missione. È
partita dicendo: “… torno volentieri, essi mi aspettano, però ho
bisogno di anime con me...Molto è il lavoro ma siamo poco,
troppo pochi...".
85
1949
Partenza di altri due nuovi missionari
L'annunzio della partenza di due nuovi missionari per la
missione delle Shirè è lo stesso P. Vicario Provinciale a darla
ufficialmente in occasione della solennità dell’Epifania:
“Col P. Giovanni Giavarini e col P. Remigio Villa
partiranno per le missioni altri due Padri: P. Antonio Marchesi
e P. Vittorio Crippa. Il silenzio profondo col quale erano state
ascoltate le nuove fu rotto da un fragoroso battimani. Era
l’esplosione di gioia degna dei nostri apostoli in erba. Era da
tempo che si aspettava una simile partenza. Essa sarà solo il
principio di una novella schiera di giovani missionari...
Preparatevi con generosità. Cosi terminava il P. Provinciale”.
Il cronista prosegue: “… Lascio a voi immaginare i
castelli in aria e i progetti dei nostri Apostolini. Vengo ad un
punto delicato. Essi partiranno per le missioni. Quando non ve
lo si dire. Ma presto! Solo vi dico: la vita di questi eroi, araldi
di Cristo, è esaltata da tutti, anche da coloro che si dicono
miscredenti. Ma come andranno in missione? A mani vuote? In
Africa, in Cina, dovunque, sono attesi con impazienza. I popoli
vogliono sentire parlare di Dio, vogliono conoscerlo, vogliono
pure la civiltà, quella millenaria della Chiesa? E per tutto
questo sono necessari dei mezzi economici.
Il loro viaggio s’aggira sulle 300.000 lire. Il loro
equipaggiamento ne richiede ancora di più. Chi ci penserà? Ho
pensato a voi tutti amici, benefattori, conoscenti. Hanno
bisogno di preghiere e di sacrifici: interessatene i malati, i
sofferenti. Hanno bisogno di denaro e d’ogni cosa: parlatene a
chi può, a chi sente il bisogno di fare del bene”.
E venne anche per loro il giorno della partenza
E venne anche per i due missionari il giorno della
partenza.
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“… P. Giovanni Giavarini e P. Remigio Villa, con due
giovani reclute, ci hanno dato l’arrivederci... quando?. Dopo
un’ultima visita a S. Maria, salutati i confratelli delle residenze
vicine, essi partirono per Venezia.
In questa città ebbero la gioia d’incontrasi con il P.
Provinciale Nella notte del 14 agosto, vigilia dell’Assunta,
lasciavano il suolo d’Italia per la loro missione dello Shirè. A
tutti, ma specialmente a P. Marchesi, che per un anno fu
professore a Villa S. Maria: “Ad multos annos!”
Notizie sul viaggio a bordo della nave “Gerusalemme”
Come già in occasione del primo viaggio sul “Duilio”, i
missionari a bordo della “Gerusalemme”, inviano al P.
Provinciale notizie e impressioni.
Scrive P. Vittorio Crippa. “… Avvicinandoci alla terra
africana, terra dei nostri sogni, il nostro pensiero vola a lei e a
tutti i nostri cari confratelli. È da cinque giorni che viaggiamo e
il mare è sempre stato calmo. Si temeva che all’incontro di due
navi italiane si fossero alquanto agitate le acque e invece nulla.
Così possiamo celebrare con gioia ogni mattina la S. Messa. Su
seicento passeggeri circa, siamo undici Sacerdoti e quattro
Suore della Consolata, e ci facciamo buona compagnia.
P. Giovanni Giavarini, da buon papà, fa da svegliarino,
perché le SS. Messe devono essere tutte terminate prima delle
sette. È un buon rifornimento spirituale per resistere al
demonio dell’impurità che qui si esibisce in maniera sfacciata
in un nudismo crudo e copioso.
Ieri P. Antonio Marchesi ed io abbiamo dovuto sottoporci
alla ispezione preventiva contro la febbre gialla e il vaiolo. Il
sottoscritto, al vedere la faccia burbera del medico di bordo e a
sentire un forte odore d’infermeria, stava per svenire sotto
l’ago. Fortunatamente il pronto soccorso di un buon
bicchierino di cognac, presentatomi da un bravo signore mi ha
rimesso subito in sesto...
87
Mi tocca sempre stare sopra coperta. In cabina, malgrado
il continuo funzionamento dei ventilatori, si respira fuoco. Le
giornate sono abbastanza monotone e noiose e per ammazzare
il tempo spesso ci intratteniamo a lungo con Morfeo.
L’altro giorno, con P. Villa, abbiamo fatta la meditazione
sulla mortificazione degli occhi. Gli argomenti dell’autore
erano tanto suasivi che in breve si siamo trovati tutti con le
palpebre calate a formulare propositi... russi.
Siamo pieni delle più belle speranze. Il nostro viaggio è
iniziato sotto auspici dell’Assunta e terminerà l’otto settembre,
festa della Natività della Regina degli Apostoli. Chiediamo
preghiere perché l’opera nostra sia benedetta dalla Madonna e
porti frutti copiosi..”.
Felice conclusione del viaggio.
“… Sono le 11 di notte, ma non voglio andare a letto
prima di averle dato qualche nostra notizia. Dopo un viaggio
ottimo, malgrado il calore cocente da Venezia fino ad Aden, e
malgrado la noia delle giornate monotone sulla nave, siamo
sbarcati 1’8 settembre a Beira. La Madonna ci fece trovare
pronto il treno per il Nyasaland, in maniera che siamo giunti il
9 settembre sera, oltre 24 ore di treno.
L’indomani mons. Theunissen celebrò il suo primo
Pontificale. Una trentina di Padri facevano corona a S.
Eccellenza. Nel pomeriggio ci fu assegnato il nostro posto di
lavoro. P. Giovanni Giavarini a Molere; P. Antonio Marchesi a
Mwanza: P. Vittorio Crippa e il sottoscritto a Cholo.
Monsignore mi manda a fondare una nuova missione:
compito assai arduo per me. Avremo attorno a cinquemila cristiani, più i bianchi e i lavoratori delle diverse aziende agricole.
Si tratterà di adattarsi a vivere in una capanna alla negra per
alcuni mesi, in attesa che facendo i mattoni possiamo tirar su
una casa un po’ più decente e salubre...”
88
1950/51
Arrivi e partenze
Nel 1939 il P. Mario Caccia e il P. Tarcisio Betti davano
il loro arrivederci ai confratelli e agli Apostolini di allora, che
essi hanno ritrovati Padri.
Sono dodici anni di lontananza. Allora i loro occhi
raggiavano la gioia segreta del loro ideale raggiunto, ora
tradivano la soddisfazione di rivedere i volti amici.
Sbarcati a Brindisi, risalirono lo stivale facendo tappa a
Roma, che già li vide studenti di filosofia, e poi a Loreto, dove
furono ordinati sacerdoti ed infine a Villa S. Maria, l’Alma
Mater, che li accolse ancor giovanissimi e li avviò verso la
fulgida mèta dell'apostolato missionario.
Le campane salutarono il loro arrivo e l’incontro fu
quanto mai cordiale. Gli Apostolini non si contenevano più
dalla gioia. I primi si erano letteralmente precipitati per le scale
ai primi tocchi argentini, ma rimasero alquanto interdetti,
quando dai mustacchi dei due Confratelli sentirono parole che
non comprendevano. Ma fu per poco, perché un grandicello
fugò l'imbarazzo dei compagni dichiarando agli ospiti che la
lingua del paese che li ospitava era l’italiano o al più il
bergamasco.
Si andò tutti insieme in Cappella, dove essi celebrarono
la S. Messa, al cui termine possente uscì dal petto l’inno di
ringraziamento. Mentre si scambiava i ricordi, le impressioni e
le notizie sopraggiunsero i parenti, tempestivamente avvertiti
per telefono del loro arrivo. Vennero a portarceli via, perché a
casa mamme trepidanti attendevano.
Il chiostro, come in altre occasioni consimili, risuonò di
canti di festa, e delle parole di circostanza del Padre
Provinciale che rilevò lo scopo della visita: portare il bacillo
missionario in tutti i cuori. P. Mario Caccia ringraziò, anche a
nome di P. Tarcisio Betti, per la cordiale accoglienza ricevuta.
Anche se la visita fu una fugace apparizione, pure noi li
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sentiamo vicini. Li attendiamo ansiosi per ascoltare dalla loro
viva voce ricordi lontani e vicini ed entusiasmarci di quella vita
che fu la passione del grande missionario: S. Luigi da
Montfort”.
Mi trovo nella missione di Mwanza
Dalla sua missione di Mwanza P. Antonio Marchesi invia
notizie e impressioni sull’avvio della sua attività missionaria.
“… Ho tardato un po’ a dare mie notizie perché ero certo
che le avrebbero date gli altri Padri. Ora invece sono solo. Mi
trovo nella missione di Mwanza, lontana da Limbe 90 Km.
Venendo qui in camion gustai le prime delizie del viaggiare
africano.
Una delle strade migliori è contorta e polverosa. In cento
metri, alle volte s’incontravano quattro curve, tre salite cinque
discese. Guidava la macchina un nero frettoloso di tornarsene a
casa. Lanciava quindi la macchina alla massima velocità. I salti
fatti in quel giorno non si possono contare. Cercavo di stare
ben aggrappato al sedile, ma di tanto in tanto facevo dei salti
tali da battere la testa sotto il soffitto della cabina. Non potevo
dirgli niente perché non mi capiva. Perciò mi rassegnai a
prendere delle zuccate ad ogni buca.
Giunti alla missione trovammo il ponte rotto, o meglio, il
ponte non c’era più, perché portato via dalle acque. Scendemmo quindi dalla macchina e continuammo la strada a piedi.
Al suono della campana di mezzogiorno giungevamo in
casa. Mi piace rilevare una circostanza: partivo dal mio paese
al suono della campana di mezzogiorno e arrivai alla mia
missione accolto dallo stesso suono. Questo particolare mi ha
commosso tanto.
Mi hanno detto che la missione di Mwanza è una delle
migliori. E infatti è molto bella. Ci troviamo qui all’altezza di
quasi mille metri. Il clima e ottimo, anche se a mezzogiorno il
termometro segna 33 gradi all’ombra. È conosciuto come il
90
paese delle arance. Sono arrivato un po’ tardi, ma ancora in
tempo per gustarne alcune.
La chiesa è bella; mancano però tante cose per non dire
tutto. Vi ho trovato un armonium, ma in che stato! Le formiche
hanno mangiato tutto il mobile e hanno riempito il mantice di
terra. Riuscii tuttavia a farlo funzionare. Mi sedetti e cercai di
schiacciare qualche nota alla meno peggio. Quando mi alzai mi
trovai circondato da neri, grandi e piccoli. Alcuni azzardarono
qualche parola, ma non seppi rispondere, non avendo
compreso.
Il Superiore mi ha dato un mese di vacanza ed io
naturalmente lo passo curvo sulla grammatica o nel giardino
con i neretti ad imparare il nome delle piante e delle cose...”.
Ancora notizie dalle missioni
A fine anno abbiamo una fitta corrispondenza dallo
Shirè. Dalla missione di Molere, P. Giovanni Giavarini scrive:
“... Il Vescovo mi ha bombardato quassù tra le montagne.
Il lavoro non manca, ma non so se rimarrò per lungo tempo.
Molere era una succursale di Limbe e la conoscevo bene nei
primi anni della mia vita missionaria: era una missione
fervente. Ora invece fa spavento! I primi cristiani non si
vedono più; la guerra e il conseguente difetto di personale
hanno nociuto assai. Si aggiungeva l’opera nefasta delle due
potenti sette protestanti, che da qualche anno lavorano
diabolicamente per pervertire i cattolici. Carissimo Padre,
raddoppiamo i nostri sforzi per sconfiggere il demonio!...”.
Da Cholo, P. Remigio Villa fa sapere: “… Io sarei
l’uomo più felice se non fossi Superiore. Speriamo che non mi
lascino molto in carica. Che la Madonna mi tenga la mano sulla
testa!.
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Il mio primo Natale africano
P. Antonio Marchesi scrive da Mwanza per comunicare
le impressioni del suo primo Natale africano.
“Debbo fare uno sforzo continuo per persuadermi che ci
avviciniamo al Santo Natale. Finora concepivo questa cara
festa con la neve e il freddo. E invece qui il termometro segna
oggi 38 gradi all’ombra! Ma come mi sono abituato a tener
sempre la sinistra nei viaggi e non la destra, a chiamare muoio
la vita, mano i denti..., così mi abituerò a trascorrere il Santo
Natale sudando...
Del resto a Mwanza il caldo non è eccessivo e di solito la
notte si può dormire. La mia principale occupazione è ancora
quella di approfondire la lingua. Non è difficile, ma richiede
molta memoria che in me non è molto felice. Tuttavia,
comincio a comprendere la parlata di questi poveri neri e a
farmi comprendere aiutandomi con i segni...”.
Le mie prime esperienze missionarie
Da Cholo anche P. Vittorio Crippa scrive per comunicare
le sue prime esperienze missionarie.
“Pian piano mi sto abituando, ma questi benedetti neri
non vogliono ancora decidersi a capirmi e a farsi capire.
Trascorro la maggior parte della giornata curvo sulla
grammatica e continuo a masticare chinianja.
Per la festa di Cristo Re mi sono azzardato ad ascoltare le
prime confessioni. Mi sorprendevo a dire ai poveri penitenti, in
italiano: ma spiegatevi meglio!...
La nostra vita qui, pur nella più squallida povertà, è
sempre serena e sentiamo effettivamente che la Madonna è con
noi. Come lei sa, viviamo sempre in compagnia del Signore,
poiché per mancanza di casa, ci siamo sistemati dietro l’altare
della nostra chiesa e a forza di inchiodare assi e stendere
stracci, ci siamo creati un posticino abbastanza cristiano.
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Ci sono però quelle benedette formiche che non sono mai
sazie e si attaccano a tutto. È una vera invasione! Ce ne sono di
quelle piccole e di quelle grosse; di quelle nere e di quelle rosse
e tutte fanno a gara per dare l’assalto a quella poca roba che
abbiamo in quella che vorrebbe essere la nostra credenza.
Tentare di distruggerle è come tentare di asciugare l’oceano,
impresa ridicola!
Il lavoro nella missione è molto. P. Remigio Villa non sa
da che parte voltarsi, e in più c’è l’opera dei mattoni che non
gli dà pace, specie con questi neri che hanno la poltronite
acuta. Giorni fa ci è toccato anche coprire tutti i mattoni già
fatti, per impedire che il temporale ci distruggesse il lavoro di
tutto un mese.
Sono rimasto a casa qualche giorno da solo. Il Superiore,
era andato per i villaggi a caccia di cristiani. Una notte mi
sveglio di soprassalto. Che c’è? Un muggito forte e
prolungato... La mia immaginazione cominciò a lavorare forte.
Un leopardo? Un leone?... Strinsi la corona in mano e andai a
poggiare la sedia contro la porta priva di serratura. La mattina
chiesi spiegazioni; mi dissero che a muggire erano state le
mucche perché avevano avvertito la presenza di un grosso
leopardo...”.
P. Vittorio Crippa scrive nuovamente verso la fine di
febbraio 1951, dilungandosi su alcuni episodi che hanno
segnato la sua prima esperienza missionaria. Annuncia anche
che “…finalmente inauguriamo la nostra casetta provvisoria.
L’abbiamo intitolata alla Madonna Addolorata. È proprio
costata sei mesi di dolori! Se tutto andava bene l’abitazione
avrebbe dovuto essere pronta in due. Intanto però, il protrarsi
dei lavori ha fatto... fiorire i muri! Tutta una vegetazione si è
insinuata fra mattone e mattone.
È una delizia per la vista di un esteta, ma noi che siamo
pratici ce ne rammarichiamo: i fiori da una parte e le formiche
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dall’altra accorceranno la durata della costruzione che tanto ci è
costata”.
Nozze d’oro del Vicariato dello Shirè
Il Vicariato Apostolico dello Shirè nel 1951 celebra il 50°
anniversario di fondazione. “L'Apostolino di Maria” ospita un
lungo articolo di P. M. Nicolas che ricostruisce la storia di
questi 50 anni con un titolo significativo: “Con la Croce e la
Vergine”. Ecco il testo integrale.
“… Quest’anno i RR. Padri Monfortani celebrano le
nozze d’oro della fondazione del Vicariato dello Shirè e noi
con loro ringraziamo Dio per aver così segnalatamente
benedetto il loro lavoro apostolico. Se non ci fosse stata infatti
la sua abbondante grazia, vano sarebbe stato il sangue, il
sudore e le lacrime di questi cinquant’anni! Ringraziamo
quindi Dio e la sua SS.ma Madre per questa così ricca messe di
250.000 cristiani, per questa “perla della cristianità” (Pio XI)
con le sue ricche chiese, conventi, scuole e seminari. Un grazie
speciale sia reso a Dio soprattutto per i 20 Preti indigeni e le
100 Suore indigene. I mezzi per i quali tali segnalate
benedizioni discesero sulla nostra missione, sono mirabilmente
riassunte nel motto del Vescovo, recentemente nominato,
mons. G. B. Theunissen: “Cruce et Virgine” (Con la Croce e la
Vergine).
Le prime difficoltà incontrate dai nostri Missionari al
loro arrivo sul suolo africano non furono tanto quelle di
adattarsi ad una regione sconosciuta, alla sua lingua, ai suoi
strani costumi e alle condizioni di clima; queste cose sono
comuni a tutti i pionieri. Nyasaland è un paese di leoni, qualche
volta ostili e mangiatori di uomini, ma questo può essere
rimediato per mezzo di abili cacciatori, non così però del leone
che bloccò il sentiero ai nostri primi Missionari.
Ve n’era uno che aveva diritto di possesso, non
consentendo rivale e obbligando cosi i nostri Missionari
94
Monfortani all’inazione per molti anni. Il suo nome era John
Knox, della chiesa protestante scozzese, che vi si era stabilita
vent’anni prima.
Fortemente trincerati i Missionari scozzesi risentirono
amaramente dell’istruzione dei papisti. Non era forse questo
paese del Nyasaland scoperto dal loro compatriota e
correligionario David Livingstone, la cui memoria essi
onoravano col chiamare il loro centro di operazione “Blantyre”,
dal nome del suo villaggio nativo? Non era forse questo
magnifico paese “L'Africa più nera nella visione più bella” con
i suoi altipiani e laghi, destinato ad essere un’altra Scozia, nello
splendore dei Tropici?
La pratica della cosiddetta “sfera d’influenza” che
prevaleva allora dev’essere sembrato un espediente mandato
dal cielo per fermare l’invasione romana nella sua baia.
Secondo questa perniciosa pratica, nessuna denominazione
poteva fondare scuola o chiesa alla distanza di almeno 5 Km di
raggio da un’altra. Che di più facile ai protestanti se non di
costruire una rete di scuole per bloccare il progresso dei
detestati papisti!
Così, con questa astuta e coperta opposizione, gli sforzi
dei nostri ardenti Missionari erano paralizzati e frustati per
ogni tentativo di conversione, e l’essenziale lavoro per arrivare
al piccolo popolo per mezzo delle scuole cattoliche, era quasi
annullato.
Nel 1915, durante la prima guerra mondiale, una
ribellione, istigata da un capo africano di una setta protestante,
sembrò estinguere ogni barlume di speranza. La chiesa madre
della missione venne bruciata e rasa al suolo dai fanatici ribelli,
e uno dei missionari gravemente ferito.
Fu questo il momento nero della storia della missione.
Ma ciò che era ancor più una ferita al cuore fu il triste risultato
delle futilità dei loro sforzi. Non sembrava loro di fare alcun
progresso, di lavorare contro una grossa muraglia. Tuttavia,
come sempre, l’ora nera precede l’aurora, e fu proprio in
95
questo momento che la Provvidenza divina rivelò se stessa e
fece tornare l’alta marea ponendo la barca di Pietro in un
viaggio di avventurose conquiste.
Dalla data di queste ribellioni prevalse un più grande
spirito di tolleranza, la pratica della “sfera d'influenza” era
sempre meno invocata e i nostri missionari cattolici, avendo un
posto al sole, avanzarono con gioia ed andarono a quella
conquista “che ebbe raramente un qualcosa di simile nella
storia della Chiesa”, come diceva il nostro Delegato Apostolico
l’Arcivescovo D. Matthews.
Dal primo momento del loro arrivo nel 1901 i missionari,
quali degni figli del Montfort, consacrarono il futuro campo di
lavoro apostolico alla Madonna. Era a capo di quei 3
missionari il compianto Vicario Apostolico Mons. A. Préseau,
l’intrepido ed ardente pioniere. Il Padre Superiore della
missione di Port Herald, sentendo la completa impotenza del
solo sforzo umano nel lavoro tremendo che gli stava davanti,
cavò dalla tasca una medaglia miracolosa, e con la punta del
temperino la inserì nella corteccia di uno di quegli enormi
alberi chiamati “baobab” che sono la gloria del Nyasaland.
Questo gesto pieno di fede e confidenza doveva avere la
sua ricompensa. I missionari dovevano trovare il futuro suolo
del loro apostolato già arato e pronto. Lo specialissimo affetto
degli africani per la mamma e la profonda venerazione nella
quale tengono la madre del capo tribù, diede ai missionari
cattolici un piede fermo ed un decisivo vantaggio nei loro
incontri contro i freddi Presbiteriani avversi a!la Madonna.
Nelle ore più oscure i Padri Monfortani guardarono la
Stella del Mare, alla Vergine guerriera che infondeva loro fede
e coraggio. Quando mons. Auneau fu nominato vescovo nel
1910, succedendo a Mons. Préseau, conservò questa
confidenza nella Madonna prendendo come divisa: “Respice
stellam, voca Mariam”. Sotto la guida intelligente e tenace di
questo Vescovo il piccolo gregge da alcune centinaia
96
di.cristiani nel 1910, crebbe in un grande esercito di 250.000
anime.
Una delle tante glorie del suo fruttuoso episcopato fu
certamente quella di aver fondato molti nuovi posti di missione
nei punti più strategici del territorio.
Per finire basta dire che ciascun posto di missione è come
una piccola diocesi con numerosissime chiese succursali,
cappelle e scuole di villaggi. Con 18 posti di missione come
questo in un territorio di 16.000 kmq possiamo giustamente
concludere che il Vescovo, con i suoi valorosi missionari,
hanno fondato uno dei centri più ferventi del Cattolicesimo".
L'articolo commemorativo termina con un breve
prospetto statistico, eloquente testimonianza di quanto detto
dall'articolista.
1901: Primo arrivo dei 3 Missionari Monfortani: Nessun
cattolico indigeno
1905: Arrivo delle Suore Figlie della Sapienza: Alcuni cattolici
1912: 12 Missionari, 2 Fratelli coadiutori, 9 Suore, 600
cattolici indigeni
1926: 29 Missionari, 2 Fratelli, coadiutori, 19 Suore, 21.652
cattolici
1935: 45 Padri Monfortani, 4 Fratelli, 25 Suore della Sapienza,
80.670 cattolici
1951: 80 Missionari, 20 Preti africani, 8 Fratelli indigeni, 25
Suore della Sapienza, 100 Suore indigene, 250.000 cattolici,
totale popolazione: 1.120.0000
L'eco delle celebrazioni giubilari
P. Antonio Marchesi, riferendo qualche eco delle
celebrazioni, scrive:
“... Non credo di averle parlato delle feste giubilari
celebrate in questa missione nel mese di giugno. Si trattava del
97
50° della venuta dei primi Missionari a Nzama. L’avvenimento
meritava quindi un festone.
Quel che si e fatto. Alla presenza di due Vescovi: Mons.
Auenau e Mons. Theunissen, circondati da 25 Missionari, una
folla di cristiani si è raccolta nella nostra vasta chiesa per
esprimere riconoscenza al Signore e anche ai suoi inviati.
La Messa pontificale nella festa di SS. Pietro e Paolo fu
seguita dalla consacrazione alla Madonna sul piazzale della
chiesa. Quello però che ha attirato la più viva attenzione di
molti - si comprende il perché - fu la danza guerriera per
eseguire la quale ci vuole il permesso del Governo. A dire la
verità ero già stanco fin dalle prime battute. Urla, salti, polvere
in quantità, ecco le sue caratteristiche, ma era tutto voluto.
Veramente impressionante fu la dimostrazione dei
ragazzi delle scuole, che ha avuto luogo il giorno dopo. Neretti
e nerette, in divisa, fecero il loro ingresso solenne nel campo di
calcio. Erano più di mille.
Alle nove del mattino incominciarono i loro giochi: canti
e ginnastica. Vedere per credere! Un signore olandese, venuto
espressamente girò un film a colori. Poi li fece cantare. E qui
viene il fatto strabiliante per loro. Cantato che ebbero, impose
il silenzio a tutta la folla. Dall’alto della sua macchina un
altoparlante ripeté i loro canti. Visibilio! Le grida raggiunsero
le stelle.
Così gloriosamente si chiuserò le feste giubilari. Molti
ricordi sono rimasti nel loro cuore. Quello però che amano
ripetere più spesso è che quel signore, in questi giorni, l’han
visto inginocchiato in mezzo a loro a fare la Comunione al loro
fianco. Cosa mai vista a Nzama. Un corso di missioni non
avrebbe ottenuto tanto!
98
Salve, Africa nera!
Dopo la sua vacanza in Italia P. Tarcisio Betti riparte per
lo Shirè.
“E’ più di un anno che sono lontano da te, mia seconda
diletta patria! Il mio cuore soffre e sanguina, poiché tu sei il
dolce sogno di tutta la mia vita, l’unico oggetto del mio amore.
Ora vengo a rivederti per non lasciarti mai più. Per te voglio
consumare tutte le mie forze e un giorno morire nel tuo soave
amplesso”. Cosi il simpatico P Tarcisio Betti, il dì della sua
partenza saluta la sua terra dl missione.
Tornato in Italia l’anno scorso per riprendere nuove
energie e rivedere ancora i suoi cari, è ripartito una seconda
volta il 21 novembre. Questa volta però era solo, poveretto! Il
suo vecchio collega, il P. Mario Caccia, non ha fatto in tempo a
prendere il treno e la nave, sventolando la bandiera tricolore ha
solcato il mare senza di lui. Ora il caro Confratello si trova a
Redona in qualità di Professore e di Direttore Spirituale dei
nostri piccoli studenti e con nostalgia pensa a P. Tarcisio Betti.
Hanno accompagnato il Missionario a Venezia il P.
Superiore, sua anima gemella, il P. R. Omizzolo, come fac
totum dell’Agenzia viaggi, e Fra Tracisio per fotografare il
partente.
Zomba: la nuova missione di P. Remigio Villa
In dicembre P. Vittorio Crippa scrive al P. Provinciale:
“… Saprà già che il P. Remigio Villa ha lasciato Cholo perché
promosso dal vescovo alla missione più grande di Zomba.
Giusto; ai pezzi grossi s’addicono missione grosse. Al Padre,
penso, è dispiaciuto un pochino, perché Cholo è stata un po’ la
sua creazione; aveva fatto tanto e così bene che in poco tempo
aveva dato a questa missione la tonalità di una missione
anziana. Avevamo impastato anche più di trecentomila mattoni
pronti per casa e scuola; così un altro verrà a raccogliere ciò
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che il buon P. Remigio Villa ha seminato. A me dispiace ancor
di più perché la posso assicurare di aver trovato in lui
un’ottima guida nelle mie prime imprese missionarie e adesso
c’eravamo messi di lena a controllare i nostri cristiani…”.
Utale: un piccolo seme trasformato in un albero gigantesco
A distanza di tre anni P. Remigio Villa rivisita il
lebbrosario di Utale: “un Cottolengo africano”.
“… Ritrovai parecchi ammalati che lasciai tre anni fa.
Con piacere ne rividi uno cieco, senza mani né piedi. Da
maomettano s’era convertito prendendo il nome di Abraham!
Tre anni fa sembrava tutt’altro che vicino alla conversione!
Immaginate la mia commozione quando alla domenica gli diedi
la S. Comunione. Si fece fotografare ma a condizione di averne
una copia. Che ne fai, gli chiedi, dato che sei cieco? Per i miei
parenti, mi rispose. L’apostolo delle conversioni fra i
musulmani del lebbrosario è un certo Enock, lui pure
convertito. Al vederlo fa spavento! Eppure ottiene miracoli di
conversione!
Oltre al lebbrosario, la missione di Utale raccoglie ogni
specie di derelitti. Ho visto ciechi, storpi, sordomuti e
mentecatti. Un ragazzo ha tutto il corpo così storpiato che
cammina con le mani, senza appoggiare per nulla né piedi, né
ginocchi… Ogni giorno accompagna una povera vecchia cieca,
guidandola ora con la voce, ora soffermandosi e dandole la
mano.
Questo è l'ambiente scelto dal vecchio vescovo
dimissionario Mons. L. Auneau per prepararsi al Paradiso. Non
poteva scegliere meglio! Il piccolo seme piantato da S.
Eccellenza 44 anni fa tra febbri malariche e sacrifici d’ogni
sorta, oggi si è davvero trasformato in albero gigantesco di
carità cristiana, dove gli uccelli dell’aria, i poveri senza tetto,
trovano asilo sicuro”.
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1952
Il lavoro continua
In gennaio scrive anche Suor Francesca. In una
corrispondenza da Limbe comunica diverse notizie, prima fra
tutte:
“...Il Padre Betti è arrivato sano e salvo dopo il lungo
viaggio sul “Gerusalemme”. Il padre è molto contento perché
ritorna a Nankwali, al suo posto di prima.Là starà bene e potrà
correre a suo piacere nei villaggi in cerca di anime sperdute e
condurle all’ovile”.
Sulla stessa lettera si accenna anche a P. Remigio Villa
che “… si trova già da un mese nella sua nuova residenza di
Zomba. Anche lui è contento; è sempre nei villaggi; viene a
casa per un giorno e poi di nuovo in cerca di anime”.
Degli altri missionari scrive che “… stanno tutti bene,
anche la sottoscritta che si trova sempre a Limbe e continua
ogni giorno a prendersi cura degli ammalati”.
In febbraio P. G. Giovanni Giavarini scrive alla sorella
con una raccomandazione:
“… Per la motocicletta non ti ammalare.. Con il tempo e
la calma qualche cosa verrà alla luce! In questi momenti di
pioggia e di fango va molto bene la motocicletta di S.
Francesco”.
E ancora: “… Sappi che tutto è utile alla missione,
specialmente grandi medaglie e crocifissi di ogni grandezza per
distribuire come premio a coloro che daranno ottimi risultati
alla fine dell’anno scolastico. Questo puoi dirlo a tutte quelle
ottime persone che mi hanno aiutato e che continuano ad
aiutarmi”.
101
Oggi mi ha preso il ticchio di scrivere
A maggio invia notizie P. Tarcisio Betti: “...E’ da Pasqua
che sono assente dalla missione e non so quando ci ritornerò.
Oggi mi ha preso il ticchio di scrivere dall’interno di una
capannuccia di paglia, un po’ seduto, un po’ inginocchiato e
curvo sulla cassetta dell’altare portatile che mi serve da tavolo,
mentre attingo l’inchiostro da un boccettino che ho mezzo
sepolto nella polvere perché non abbia a spandersi.
Le vacanze sono veramente passate e ho ripreso a vivere
la vita africana, sempre in giro, sempre su una bicicletta. È una
canonica speciale la nostra, sempre sotto la volta del cielo, in
mezzo a immense foreste dove abbondano i giganteschi baobab
e le palme. Quando ci penso mi sembra che questa nostra
canonica, per vastità e bellezza, deve fa crepare d’invidia o
almeno arrossire di vergogna tante pur belle canoniche delle
valli bergamasche. Il lavoro qui è sempre quello: confessare,
visitare ammalati, battezzare, fare ispezioni di scuole, ascoltare
e cercare di ricomporre un sacco di difficoltà che sorgono tra
cristiani o tra cristiani e pagani…”.
Mi sento confusa di fronte a tanta generosità
Suor Francesca dalla “Limbe Providence” comunica
l’arrivo di una cassa con medicinali ed altro materiale:
“...Quanto avrei voluto che foste presenti all’apertura della
cassa e a vedere la gioia e la felicità che, al par di noi, ebbero
tutte le nostre sisters indigene, e i neri e le nostre figliole; a
sentire le esclamazioni di gioia. Non avevano abbastanza occhi
per vedere tutti i giocattoli, palle, piccoli strumenti di musica;
se li rubavano l’un l’altro per poter suonarli o giocarvi, ma
invano; tutto era nuovo per loro..
Che dirò delle medicine? Mi sento confusa dinnanzi a
tanta ricchezza e non trovo parole per esprimere tutta la mia
riconoscenza. Lasciatemi dire che con queste medicine non
102
solo guarirò i corpi ma salverò tante e tante anime; è proprio
con queste che il missionario può avvicinare ogni sorta di
persone: musulmani, pagani e protestanti…”.
103
1953
Notizie di disordini in Nyasaland
A rompere una lunga pausa di silenzio dei missionari ci
pensa P. Remigio Villa:
“...Prima di entrare nel silenzio della S. Quaresima mi
faccio vivo con voi. La mia vita qui a Limbe, come quella dei
confratelli, è sempre la medesima. Però, viaggiando nei
villaggi, c’è sempre qualcosa di nuovo. Solo si dimentica di
notarlo, quindi viene dimenticato…
Nelle mie visite parlo un po’ a tutti, ed è per questo che
preferisco andare a piedi. Un giorno m’imbattei con un nero
che aveva fatto parte di diverse sette religiose, ultima la più
accanita contro a chiesa cattolica e la più spregiudicata nelle
sue asserzioni. Il povero uomo n’era nauseato e mi confessò:
“Padre, è meglio che noi neri ritorniamo ai nostri sacrifici
pagani. Quante chiese ci avete portato voi bianchi! Cosa
dobbiamo credere?”.
Gli diedi dei libri. E quante anime sono semplicemente
disgustate dal protestantesimo! “
Ah, se avessi avuto una moto!
Scrive anche P. Vittorio Crippa per esprimere un suo
desiderio:
“...Una moto! Sono tre anni che la bramo! Non è, no, un
capriccio, ma una brama ardente che mi consuma ogni giorno
più, di salvare tante anime di questa terra d’Africa.
Il mio raggio d’azione si estende fino a trenta chilometri
quadrati entro i quali vivono in misere capanne le cinque mila
mie pecorelle...nere, e tante altre migliaia abbandonate che non
sono ancora del nostro ovile.
Se poi si pensa che queste povere anime sono del primo
venuto, sia egli un attivista comunista o pastore protestante...se
si riflette al sole bruciante che ti mozza il fiato e ti accelera il
104
cuore fuor di misura...se si considera la frequente ed urgente
chiamata al capezzale dei morenti… hai voglia allora a
percorrere decine e decine di chilometri con il cavallo di S.
Francesco o anche con la bici! Ci vuole altro se si vuole
arrivare in tempo!
Giorni or sono, celebrata la S. Messa un giovane viene ad
avvertirmi che la mamma sta male. Prendo tutto l’occorrente
per l'amministrazione dei SS. Sacramenti, inforco la bicicletta e
brucio, sotto un sole cocente, i 15 chilometri che mi separano
dalla moribonda. Le amministro gli ultimi Sacramenti… e
ritorno alla missione. Qui trovo un vecchietto che mi prega di
correre presto a casa sua perché c’è il nipote che sta per spirare.
Bevo un bicchiere d’acqua fresca e… via di nuovo, stavolta a
piedi perché la strada è impraticabile con la bici: altri 10
chilometri.
Volevo buttarmi a letto per riposare, ma stavano ad
attendere i miei negretti per la lezione di catechismo.
Comincio… ed ecco un altro a chiamarmi al capezzale di una
vecchia! Interrompo la lezione, monto ancora in sella e…
desidero diventare Gino Bartali! Ma ahimè!, le mie gambe
sono stanche e pedalano lentamente… Ho un presentimento di
non arrivare in tempo…! Infatti ad un centinaio di metri odo un
vociare confuso e strano. La vecchietta è morta. Tutta la
stanchezza e il caldo e la fame li ho sentiti cadermi addosso
tutti insieme. Ah, se avessi avuto una moto!!..”.
Nuovo vescovo monfortano in Haiti
“L'Osservatore Romano” del 12 aprile riporta la seguente
notizia:
“… La Santità di nostro Signore si è benignamente
degnata di nominare il Reverendissimo Padre Remy Augustin,
della Compagnia di Maria, Monfortani, alla Chiesa vescovile
titolare di Turuzi, deputandolo Ausiliare di sua Eccellenza
105
Reverendissima Monsignor Le Gouaze, Arcivescovo di Portau-Prince (Haiti).
Verso la fine del mese dalla missione di Cholo scrive P.
Vittorio Crippa:
“...Domenica prossima benediremo e inaugureremo una
nuova scuola che ci è costata lavoro, sudore e...quattrini non
pochi, tanto da svuotare al completo la nostra borsa, sempre
vuota del resto. La scuola è molto bella e grande e s’impone
soprattutto per cicatrizzare un pochino il lavoro feroce delle
sette protestanti che sempre si vantano di avere magnifiche
scuole. Ma stavolta gliel’abbiamo… fatta, e come si deve”.
Dall’ospedale di Blantyre P. Remigio Villa racconta la
sua disavventura:
“...Ritornavo da Cholo ove ero andato a salutare P.
Vittorio Crippa, quando fui investito da un’auto che mi veniva
incontro ad un’andatura da pazzi. Data la nebbia e la
pioggerella mi videro all’ultimo momento e mi colpirono
soltanto con il lato sinistro dell’auto, altrimenti dovrei essere al
cimitero. Porto sempre in tasca la statuetta dell’Immacolata:
ebbene fu Lei a salvarmi dalla morte, poiché l’urto venne alla
sua altezza.
Mi trovai per terra, la moto a due metri a sinistra, il nero
che era con me oltre la moto e con la faccia piena di sangue, ed
i due autisti portoghesi con l’auto rovesciata a dieci metri a
destra, essi pure pieni di sangue ed uno con il braccio rotto.
Dopo il primo intontimento ripresi conoscenza per terra e mi
trovai una forte ferita all’orecchio destro. Venne l’ambulanza,
preceduta dal medico di Cholo.
Ora sono qui: Dio sa quando uscirò. Sento dolori al
torace e al dorso, ma la gamba dal ginocchio in giù è quella che
mi da più fastidio essendo tutta contusa; non l’hanno ancora
ingessata perché troppo gonfia. Nessuna rottura e perciò
ringraziai la Madonna di avermi salvata la vita. Per la moto…
106
sarà un’altra faccenda. Chi l’ha vista si domanda ancora oggi
come io abbia potuto cavarmela.
Notizie di disordini
P. Remigio Villa da Limbe invia notizie sui disordini
scoppiati nel Nyasaland del Sud.
“… I leaders dell’African Congress avevano promesso
dimostrazioni contro la Federazione del Nyassaland con le due
Rhodesie. Ora sembrano effettuare tali minacce. Dal 19 agosto
cominciarono disordini nel distretto di Cholo: la polizia dovette
intervenire e si ebbero a lamentare un morto e parecchi feriti.
I disordini non sono affatto locali ma si sono estesi a
parecchi distretti del Sud, anche se per ora sembra si limitino a
semplici atti di vandalismo o a semplici dispetti.
Ci sono scioperi generali nelle aziende di thè, nella zona
di Cholo, ma la maggioranza stanno lontani dal lavoro per
paura dei leaders. Una parte della zona di Cholo è stata
evacuata dai bianchi.
Giovedì il Governatore lanciò un messaggio alla
popolazione bianca, soprattutto ai piantatori della zona di
Cholo, affinché cerchino di mantenere le aziende aperte al
lavoro; di non farsi giustizia da soli, ma prendere tutte le
precauzioni possibili contro i sobillatori… Speriamo che le
cose si calmino presto perché stanno prendendo una piega
inquietante…”.
Mi servirebbe tanto una vespa...
Suor Francesca da Utale scrive: “… Desidero sempre una
vespa. Mi renderebbe immenso servizio anche per avere più
tempo per andare nei villaggi, ove qualche ammalato aspetta la
suora; invece devo servirmi del cavallo di S. Francesco.
Pazienza!
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V’invito a fare con me una visitina al lebbrosario. Non
abbiate paura, non sarete contaminati, prenderemo tutte le
precauzioni e misure di igiene italiana; sarà prudente,
seguitemi…
Vedete quella estensione di campi con delle capanne in
giro?… E’ il lebbrosario. I lebbrosi meno malandati lavorano il
loro pezzo di terreno seminando fagioli, mais e tutto ciò che
può servire di nutrimento. Guadagnano anche qualche cosa per
coprirsi, e nel medesimo tempo, essendo occupati, non pensano
tanto al loro male.
In mezzo a tutte queste capanne c’è la chiesa; per il
catechismo vi sono i Fratelli Oblati: sono dei lebbrosi che
vogliono essere religiosi…
Chi abita in case separate sta meno peggio. Ci sono delle
famiglie intere colpite dalla lebbra; si trovano tutti riuniti in
una stessa famiglia, come in un villaggio e sono contenti
perché non sono a contatto con i più contagiosi. I bambini sono
trattenuti in reparti speciali.
Il lebbrosario è immenso e c’è posto per tutto un popolo.
Nella sala ci sono lebbrosi di ogni grado. A questo la lebbra gli
ha roso gli occhi e i piedi, cadono le falangi dalle dita e il corpo
si stacca a pezzi; in quest’altro i vermi sono come in casa loro;
quest’altro è mangiato vivo dalla testa ai piedi, ad ogni
medicazione cadono lembi di carne… Guardate questi come
sono sfigurati, senza naso e senza bocca, con due buchi al
posto degli occhi. E questo? Le braccia e le gambe sono tenute
con la pelle, ogni volta che mi avvicino mi dice: Suora me li
tagli perché sono troppo pesanti…
Come vedete sono tutti su per giù ben malati. Sono 600,
internati nella sale, gli altri vivono in famiglia nel villaggio dei
lebbrosi, costruito dai nostri Padri Missionari. Per curare tutti
questi poveretti siamo in quattro: due suore indigene e due
europee. Quando qualche buon’anima si deciderà a venirci in
aiuto?”.
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Partenze per gli Stati Uniti d’America
Viene resa pubblica la notizia della partenza per gli Stati
Uniti di P. Giacchino Sangiorgio, Fra Alfonso e Fra
Gabriele:”...Sono tre come i moschettieri del Dumas: cuore
ardente, occhi limpidi, energia a volontà. Partono per
l’America del Nord condotti dall’obbedienza. D’ora in poi la
loro attività si svolgerà a favore del nostro Studentato
Americano a Lirchfield, Connecticut”.
Port Herald: nuova residenza di P. Remigio Villa
In dicembre da Port Herald, sua nuova residenza, scrive
P. Remigio Villa:
“...La mia nuova missione è assai estesa, soprattutto è
popolatissima. I villaggi si estendono ininterrottamente lungo
le sponde dello Shiré. È una missione con parecchie scuole, ma
non possiamo tenerle aperte tutte. Anche quelle che funzionano
sono aperte al massimo quattro mesi all’anno. Da qui i risultati
piuttosto scarsi finora ottenuti, anche per mancanza di suore.
Mentre nella sola diocesi di Bergamo ci sono oltre 2000 suore,
qui invece… solo 18!”.
109
1954
L’anno mariano nelle missioni
Nel nuovo anno la prima posta africana proviene da
Nankwali. P. Tarcisio Betti scrive a P. Omizzolo:
“...Nello scorso anno Nostra Signora delle Vittorie si
sarà molto compiaciuta nel vedere la sua bella chiesa coperta di
luccicanti lamiere anziché di povere erbe. Si sarà pure
rallegrata nel vedere entrare in chiesa il bell’armonium che ci
hai mandato. E cosa dirà mai quando sentirà il tintinnio di una
bella campana che la saluta tre volte al giorno all’Angelus?
Spero quindi che le tue premure siano state coronate.
Come promettesti fa in modo che la campana arrivi nel
Nyasaland verso la fine di febbraio o in marzo, di modo che si
possa avere a Nankwali, prima di Pasqua, così comincerà a
suonare per l’alleluia della Risurrezione. Non si potrebbe avere
un’occasione migliore! E allora sì che i protestanti di Yesaia
rimarranno di stucco!
È un villaggio vicinissimo alla nostra missione e nel
quale c’è un solo cattolico in mezzo a tutta la popolazione
protestante. Hanno appena una chiesetta di terra e paglia ed
hanno pure una campanella appesa ad un ramo d’albero. Di
questa sono fieri! Talvolta si permettono pure di burlarsi di noi
cattolici: Cosa credete di essere voi?… Non avete neppure una
campana!
Ti assicuro quindi che la tua campana è tanto desiderata:
i protestanti devono rimanere a bocca aperta almeno per 15
giorni! E il nostro prestigio aumenterà, perché nella mentalità
dei neri una campana più grossa è anche un argomento di
dottrina più elevata. Se puoi… mandamene una... da un
quintale! P. Marchesi, mio fedele compagno di lavoro
apostolico, sta già facendo i piani per il campanile”.
In occasione della Pasqua P. Vittorio Crippa scrive agli
amici e benefattori:
110
“...Dopo essermi sepolto in un lungo silenzio sento il
dovere di uscirne per esprimervi con tutta riconoscenza i più
cari e lieti auguri assicurando a tutti un costante e affettuoso
ricordo.
Durante il periodo di preparazione alla Pasqua ho trottato
un po’ dappertutto, raggiungendo i più remoti villaggi,
rimettendoci perfino un paio di scarpe. Poverette, dopo aver
tenuto duro per tanti mesi e con tanta buona volontà, hanno
pensato di dire basta a tutti gli spaghi e fili… Il bello arrivò il
mattino seguente, quando si trattò di celebrare la S. Messa a
piedi nudi. Fin là non ero mai arrivato! Povero Signore,
pensavo, ti devi adattare anche a questa mancanza di galateo.
La colpa è tutta delle scarpe…
Un bilancio dell'anno mariano in Africa
La lunga parentesi della “Posta Africana” si chiude con
un bilancio dell’anno mariano in Africa tracciato da P. Remigio
Villa. “...L'Anno della Madonna, come in altri continenti, è
stato davvero anno di grazie e di misericordia per tante anime
africane. Pur non potendosi effettuare come altrove, con
solennità e preparazione esterna, si cercò tuttavia di dare ogni
apparato possibile, conforme allo straordinario avvenimento.
Alcuni mesi prima, si annunziava alle cristianità la data
del passaggio della statua della Vergine Immacolata. Per
meglio disporre le anime si preparava il grande evento con un
triduo di predicazione e di penitenza. Il simulacro della
Madonna, giunto nella missione, restava per tre giorni,
occupati da turni di preghiera da parte dei cristiani.
Nel nostro Vicariato la prima missione ad avere la visita
della Madre di Dio fu Limbe. Dopo un triduo la statua fu
accolta da una folla immensa ed entusiasta di cristiani e di
curiosi. Maria ali kufika ( Maria sta per venire) era la frase che
in quei giorni era sulla bocca di tutti. Ognuno voleva godere e
contemplare la faccia della Vergine SS.
111
Ovunque fu un succedersi di manifestazioni grandiose,
almeno per noi africani. Non c’erano illuminazioni o addobbi,
ma molto coraggio nel camminare per lunghi chilometri, nello
stare digiuni fino a tarda ora per poter ricevere la S.
Comunione… Credo che la manifestazione più grande sia stata
quella che si svolse a Nguludi, chiesa madre del Vicariato.
Una moltitudine di fedeli assistette alla S. Messa, cantata
dal Vicario Apostolico, e prese parte alla processione finale.
Dalle otto del mattino fino all’una del pomeriggio fu tutta una
dimostrazione religiosa ardente e sentita. Non un ragazzo che
dicesse una sola parola durante quel tempo, ma tutti cantavano
e pregavano con devozione.
Naturalmente i curiosi che assistettero alla “Peregrinatio”
erano pagani e, soprattutto protestanti neri. Alcuni volevano
vedere cosa fosse questa “Vergine Maria” che i cattolici
nominavano sempre…”.
Il 12 novembre P. Antonio Marchesi scrive a P. Serafino
Corali:
“… La mia vita da ormai due mesi scorre in mezzo ai
mattoni. Ho cambiato residenza ed ora mi trovo a Zomba, la
capitale del Nyasaland. È una bella città, posta sul fianco di
una montagna. A due chilometri da casa nostra c’è la casa del
vescovo.La nostra abitazione è nuova, bella, ma anche l’unica
costruzione della zona. Mancano tante e tante cose. Adesso ho
incominciato la procura, dove si raccoglie tutto il necessario
per le altre missioni. Nello stesso tempo devo finire un grande
canale che porta l’acqua a casa nostra. La cascata dovrebbe
azionare diverse macchine, come il mulino, la sega, la pialla…
Poi dovrò costruire tante casette per i lavoratori.
Non abbiamo la chiesa. Per il momento serve ancora la
vecchia, ma questa, oltre ad essere piccola, è anche molto
lontana e perciò scomoda. Come vedi il lavoro non manca.
Potessimo avere dei Fratelli coadiutori! I Padri sarebbero molto
più liberi di occuparsi dei cristiani, che sono molti, circa
112
20.000. Una vera folla di pecore senza pastore, sperdute. Pensa
che per tutta questa gente non ci sono che tre Padri, uno dei
quali è P. Betti. Il sabato e la domenica cerco di aiutarli
anch’io, ma ci vuole altro! Si fa quello che si può!
La “Peregrinatio Mariae” nei villaggi
P. Vittorio Crippa torna sulla “Peregrinatio Mariae” .
Scrive:
“… Pochi giorni or sono tornato dal ministero di più
settimane durante le quali ebbi la gioia di accompagnare la
Madonna Pellegrina in tanti villaggi della nostra missione
africana del Nyasaland. Non vi sto a dire quanto mi sia piaciuto
questo lavoro, ricco di soavi consolazioni spirituali.
Quanto bene ha operato la Madonna in mezzo a codesti
negretti cristiani! In verità è molto facile attirare il negro al
Signore attraverso la devozione alla Madonna, presentata quale
Madre. In loro più che in ogni altro è profondamente radicato
l’affetto verso la madre. Per essi è come un dio.
Impressionante la devozione alla Madonna che i poveri
lebbrosi vollero manifestare alla Regina del Cielo, loro cara
Madre e Consolatrice. Per potere facilitare a tutti
l’avvicinamento alla Madonna Pellegrina, il missionario
credette bene di scegliere, a trono della Madonna, un grosso
baobab, che apriva ai suoi fianchi una grossa fessura, quasi a
forma di nicchia. Qui venne adagiata la statua della Madonna
al principio del villaggio dei lebbrosi.
Il santo simulacro della Vergine venne portato in
processione dagli stessi lebbrosi, attraverso le vie del villaggio.
Commovente il vedere la povera gente ammalata uscire dalle
loro capanne e farsi incontro alla Madonna e recitare l’Ave
Maria, per poi infilarsi anch’essi in processione come
potevano, uomini e donne, unendo al coro degli oranti la loro
debole voce: “Santa Maria, prega per noi, poveri peccatori”.
Coro di 800 ammalati che in quell’istante sentivano tanto
113
conforto, pensando che in cielo una mamma tanto buona
pregava per essi. L’Immacolata, dall’alto trono che la natura
stessa le volle erigere, stende le sua braccia materne sopra tanti
afflitti…
I Protestanti stessi accorrevano in massa alle sante
funzioni e ne rimanevano sbalorditi. Sentendo le prediche che
si facevano all’aperto, hanno potuto ben capire cosa
intendiamo noi cattolici e cosa vogliamo quando veneriamo la
Madonna. Per i protestanti la “Peregrinatio Mariae” è stata
veramente un colpo mortale. Venivano per curiosare e criticare,
come fanno sempre, ma quando avevano sentito spiegare chi è
la Madonna e perché la si venera, si allontanavano sconcertati e
umiliati.
Se si potesse lavorare come si deve, se fossimo in più, in
breve tempo tutto il Nyasaland diventerebbe il vero regno di
Maria. Abbiamo ora estremo bisogno di scuole. Più di 300
ragazzi sono ammucchiati sotto un tetto di erbe e due mura di
fango; fanno veramente pietà! Non potremo mai sviluppare le
nostre attività se non potremo fare funzionare le scuole. Qui
l’unico e quasi esclusivo mezzo di apostolato e di reclutamento
cattolico sono le scuole. Che la Madonna, Regina delle
Missioni, ci mandi bravi e santi missionari e ci benedica nelle
nostre fatiche”.
114
1955
Missionari in Madagascar
All’inizio dell’anno un orrendo ciclone si abbatte sulla
missione del Nyasaland. Ne da notizia Suor Francesca
Tombini:
“… Dio sia benedetto! Proprio il 9 gennaio il Signore
visitò i suoi missionari di Utale con una pesante croce,
inviando uno spaventoso ciclone che al dire dei più anziani
missionari del luogo non si era mai visto nel Nyassaland.
Tutto quanto lo zelo e la carità cristiana aveva costruito
in molti anni e con tanti sacrifici, improvvisamente, nel giro di
dieci minuti, fu distrutto dalla bufera: due chiese, il lebbrosario,
l’ospedale, varie case dei negri, tutto ridotto ad un mucchio di
rovine.
Una gran moltitudine di animali di ogni sorta circolavano
nella zona, vennero travolti e sepolti dal ciclone. Altissimi e
grossi alberi che formavano una vera meraviglia nel luogo
vennero sradicati, tra questi anche quello che conteneva in una
nicchia la bella statua della Madonna Immacolata, ivi deposta a
ricordo della “Peregrinatio Mariae” dello scorso anno.
Tra tanta desolazione e miseria potemmo ammirare la
grande bontà del Signore e della Madonna che ci vollero
risparmiare almeno la casa dei PP. Missionari; essa sola restò
in piedi in mezzo a tante rovine. Tremò la casa, come scossa da
un tremendo terremoto, ci parve di sentircela crollare addosso.
Sulla forza incontrollata della natura vigilava la Madonna. La
casa fu salva.
C’è ora il grande problema di rialzare tutte queste
macerie. Come fare? I missionari di Utale sono nella vera
miseria. Tutto di spera dalla Divina Provvidenza e dalla carità
dei buoni cattolici”.
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Invio di tre missionari in Madagascar
Il 21 aprile il P. Provinciale comunica a P. Rizzardo
Omizzolo, e ai PP. Alessandro Assolari e Emilio Nozza la loro
destinazione nella lontana isola del Madagascar.
“… La notizia ha fatto esultare i tre fortunati prescelti ed
ha messo in tutti i componenti della nostra famiglia religiosa un
nuovo entusiastico slancio di apostolato missionario.
La partenza è prevista per metà di ottobre; intanto
fervono i preparativi per allestire il copioso bagaglio personale
e comune, ricco di tutto ciò che maggiormente occorre per
fondare una nuova missione. Per questo i nostri tre bravi
missionari si raccomandano anche alla generosità degli
amici…”.
Un caldo saluto d’addio
Prima di salpare per la nuova destinazione P. Rizzardo
Omizzolo, anche a nome degli altri due missionari, dalle
pagine de “L'Apostolo di Maria”, invia un saluto e un appello:
“… A voi tutti, dilettissimi lettori del nostro bollettino, il
sottoscritto, a nome suo e dei confratelli P. Assolari Alessandro
e P. Nozza Emilio, rivolge un caldo saluto d’addio ed un
appassionato appello. Salutiamo con profonda commozione i
nostri cari familiari che, vincendo ogni più tenero affetto, ci
hanno lasciti partire nel nome benedetto di Gesù e di Maria,
verso il nostro lontano destino.
Salutiamo i confratelli di religione che ci accompagnano
con una santa invidia, gli apostolini di Villa Santa Maria, i
novizi di Castiglione Torinese e i cari studenti di Loreto, i quali
tutti ci seguono e forse già ci precedono col fervido desiderio
della loro balda giovinezza.
Salutiamo i benefattori e gli amici noti e ignoti, che con
la loro stupenda generosità, ci hanno fornito dell’indispensabile
occorrente. A tutti il grazie più sincero e profondo.
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Non dimenticateci! Non lasciateci soli! Fate che quando
saremo laggiù, sperduti nell’isola immensa del Madagascar, tra
gli inevitabili stenti e pericoli d’ogni opera del genere che
comincia, ci sentiamo circondati dal caldo alone della vostra
simpatia cristiana. Una simpatia fatta di preghiere e di opere.
La nuova missione che il Santo Padre ci ha incaricati di
fondare deve essere non solo l’opera delle nostre povere
braccia e del nostro cuore, ma l’opera di tutti voi, benefattori
ed amici delle missioni monfortane.
State sicuri che noi vi terremo costantemente informati su
quanto andremo facendo attraverso le pagine de “L'Apostolo di
Maria”: a voi di aiutarci efficacemente in tutte le nostre sante
iniziative.
Lavoreremo insieme, soffriremo insieme, costruiremo
insieme, salveremo tutte le anime che ci sarà possibile, con la
grazia del Dio e la materna assistenza di Maria.
Carissimi, ricordatevi sempre che chi aiuta il missionario
avrà la ricompensa del missionario”.
La consegna del crocifisso ai tre partenti avvenne in
forma solenne il 26 novembre.
“...Nel pomeriggio giunse e si radunò una folla di
familiari, amici e invitati, i quali, unitisi alla turba di padri,
fratelli coadiutori e apostolini, improvvisarono un’accoglienza
festosa e devota a S.E. Rev.ma Mons. Giuseppe Piazzi,
vescovo di Bergamo. L’Ecc.mo Vescovo, nello splendore degli
abiti pontificali, consegnò, in nome di Gesù e di S. Luigi di
Montfort, i tre crocifissi ai missionari partenti. Poi, con una
parola semplice, disse cose divine, spiegò cioè il significato
della consegna”.
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P. Remigio Villa riparte per le missioni
Pochi giorni dopo la partenza per il Madagascar dei tre
missionari, riparte per l’Africa anche P. Remigio Villa. P.
Alberto Scotton, gli dedica un ricordo:
“...Quando tornasti fra noi, circa due anni fa disfatto e
sofferente, appoggiato a due stampelle...credevano di dover
assistere al tuo lungo e penoso tramonto… E invece sei
risorto!… E sei ripartito forte, sereno, allegro ed entusiasta
come la prima volta. Il mal d’Africa è inguaribile, specialmente
per un missionario monfortano...Addio, caro P. Remigio!
T’accompagni nel viaggio e nella tua lontana missione l’affetto
e la preghiera dei nostri cuori: ti vogliamo tanto bene!”.
Il 7 dicembre P. Remigio Villa salpa con la nave dal
porto di Venezia. Scrive al Padre Superiore di Redona:
“...Le scrivo mentre la nave costeggia la Grecia. Ho
ancora il cuore pieno di riconoscenza e di commozione
pensando all’ospitalità veramente squisita che il Card. Patriarca
di Venezia, l'Em.mo Roncalli, usò a me ed ai miei compagni.
Penso che Pio X doveva essere così.
Ieri, festa dell’Immacolata, celebrai la prima Messa a
bordo… il mare finora si conserva calmo; si vede che la luna fa
giudizio. Andiamo verso il caldo e la luce. La vita a bordo?
Finora è calma. Il Cappellano non c’è ed io parlo or con l’uno
or con l’altro…”.
Diario di bordo in viaggio verso il Madagascar
Dalla nave scrive P. Rizzardo Omizzolo: “… Avevamo
promesso di scrivervi quanto prima.. Eccoci qui a mantenere la
promessa. Immaginiamo la vostra curiosità e pertanto torniamo
indietro per farvi la cronistoria da momento che abbiamo
lasciato Redona, il mattino del 27 novembre.
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Abbracciati i nostri cari siamo partiti per Parigi. Il nostro
soggiorno parigino è stato necessariamente un po’
movimentato per via del famoso visto che ancora non avevamo
potuto apporre ai nostri passaporti per l’entrata in
Madagascar…
Da Parigi siamo partiti alla volta di Saint-Laurent-surSèvre e da qui per Marsiglia. Finalmente, il mattino del 3
dicembre, festa liturgica del grande missionario S. Francesco
Saverio, ci siamo diretti al porto per l’imbarco sulla nave
“Ferdinand Lesseps”. A mezzogiorno in punto, un colpo di
sirena ha annunziato che stavamo staccandoci dal molo per
prendere il largo…
Al mattino seguente ci svegliammo un po’ prima del
solito per un certo dondolio imprevisto, che non era certamente
adatto a cullare dolci sonni...Un forte vento che agitava le onde
in modo alquanto impressionante, dava alla nave movimenti
alterni di beccheggio e rollio che ci fecero da insolito
svegliarino…
Mentre si stava a pranzando, ecco una mareggiata più
forte che mai da sinistra a destra, con conseguente rotolio di
bottiglie e rovinio di piatti… Nel tardo pomeriggio il vento
diminuì gradatamente.
Abbiamo navigato ancora tutta la notte e al mattino
giungemmo a Port-Said sotto una pioggia da diluvio e un vento
da bufera. Ci affrettammo a celebrare la S. Messa per poter
scendere a terra e visitare la terra d’Egitto. Alla 10 la nostra
nave si allineava al convoglio predisposto per infilare il famoso
Canale di Suez..
Qui, cari parenti, amici e benefattori è necessario fare il
punto. Dispiace anche a noi di dover rimandare ad un’altra
volta la cronaca del resto del nostro viaggio…”.
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Notizie da P. Remigio Villa in viaggio per lo Shirè
Da Port-Said transita anche P. Remigio Villa; ne
approfitta per spedire una lettera:
“… Siamo a Porto Said, prima città africana. Quasi tutti
si scende a toccare la terra ferma… A tarda notte la nave
riprese il viaggio ed entrammo nel Canale di Suez. Navi di ogni
dimensione s’incrociavano e lo sfolgorio delle loro luci che
andavano e venivano dava la gioconda impressione di una
festa. Mandai un’ultima invocazione alla Regina Mundi che
domina la cattedrale di Porto Said, pensando ai milioni di
infedeli che popolano l’immenso continente nero”.
Il Diario di viaggio di P. Remigio Villa continua in altre
lettere: “...Siamo nel Mar Rosso. Il mare è ottimo e la
temperatura è primaverile. Alcuni vogliono cercare il punto
preciso ove gli Ebrei passarono a piedi asciutti...Il tempo vola:
pregando, chiacchierando, guardando, giocando arriva sera
senza che ce ne accorgiamo”.
Giunto a destinazione scrive: “… Vi scrivo queste ultime
notizie dalla mia residenza provvisoria di Limbe. Ho trascorso
felicemente il Santo Natale a Beira. Dico felicemente per lo
spirito, perché quanto al corpo...faceva un caldo. Un caldo!
Pensate che a mezzanotte fui costretto a prendere una doccia
fredda per trovare un po’ di riposo!
I RR. PP. Betti e Marchesi vennero a Limbe e
trascorremmo insieme due belle giornate. Poi mi recai con P.
Crippa a Cholo, dove celebrai il primo dell’anno. Ho già avuto
modo di visitare parecchie missioni. Sono stato ad Utale dove
trovai l’amatissimo Vescovo Mons. Auneau e Suor Francesca.
Bisogna vederla volare in vespa…”.
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Scriviamo dalla terra malgascia dove siamo sbarcati
Dal Madagascar arriva una lunga corrispondenza dei tre
nuovi missionari:
“… Questa volta vi scriviamo dalla terra malgascia della
quale abbiamo già toccato tre porti, in attesa di toccare domani
sera il quarto ed ultimo del nostro viaggio, quello di Tamatave,
dove ha sede il centro della missione monfortana”.
Fedeli alle promesse fatte alla partenza dall’Italia i tre
missionari inviano informazioni sul seguito del viaggio.
“...Al passaggio dell’Equatore, gran festa a bordo per il
battesimo dei neofiti, quelli che passavano per la prima volta la
linea dell’Equatore: fra questi eravamo inclusi anche noi, che
essendo persone troppo serie ci siamo tappati in camera per
tutta la mattinata, sicuri della validità del nostro vero ed
efficace battesimo che ci ha fatti figli di Dio. A sera però ci fu
un po’ di festa nella grande famiglia navigante, ed a questa
partecipammo in parte anche noi, poiché qui non si trattava più
di parodie, sia pure giustificate dalle tradizioni marinare. E vi
partecipammo attivamente, a richiesta di molti, cantando al
microfono alcune belle canzoni italiane che P. Assolari ha
pensato bene portare con sé dall'Italia…
Il 20 dicembre, alle prime luci dell'alba, abbiamo
finalmente toccato l’isola di Madagascar nella rada di
Majunga. Se l’Africa si è presentata a noi come una terra di
fate, il Madagascar ci è apparso subito come la terra dei sogni:
e questo doppiamente per noi. Una vegetazione lussureggiante
quanto mai, una visuale fantastica in qualsiasi direzione si
voltasse lo sguardo nostro estasiato… Siamo scesi a terra per
prendere una prima cognizione della terra che sarà la nostra
terra d’apostolato
L’ingresso nel porto di Tamatave fu per noi emozionante:
stava davvero incominciando la nostra nuova vita apostolica.
La residenza dei Padri non era tanto lontana dal porto tant’è
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vero che potemmo scorgere dalla nave un confratello che stava
scrutando il nostro arrivo dalla balconata superiore. Con lui
scambiammo i primi saluti con lo sventolio di fazzoletti.
Finalmente, espletate tutte le pratiche burocratiche
potemmo iniziare lo scarico dei nostri bagagli, passare la
dogana ed abbracciare i confratelli accorsi, baciare l’anello a
Mons. Vescovo e ricevere la benedizione che rendesse fecondo
fin dall’inizio il nostro apostolato in terra malgascia.
La mattina seguente, vigilia del S. Natale, la passammo a
svincolare i bagagli più voluminosi. A Natale...ci sembrava di
essere a Redona, con la differenza che qui non c’era bisogno di
caloriferi, ma di fazzoletti per asciugarsi il copioso e continuo
sudore, pur essendo di notte…
Domani, 27 dicembre, col camioncino della Procura delle
nostre missioni ci avvieremo verso Mahanoro, a 247 chilometri
a sud di Tamatave, dove per tre mesi avremo il piacere di
ridiventare scolaretti per imparare la lingua malgascia.
30 dicembre. Siamo giunti a destinazione da 2 giorni.
Resteremo per tre mesi coi confratelli anziani in attesa che ci
venga assegnato il posto di lavoro definitivo Siamo partiti da
Tamatave il 27 dicembre. Fu davvero un viaggio pieno di
emozioni a non finire. Dopo alcuni chilometri di strada
asfaltata eccoci sulla strada di terra battuta e molto in
disordine. E dovevamo percorrere 250 chilometri…
La prima novità del viaggio ci fu offerta da un grosso
serpente, lungo circa due metri, che si godeva beatamente il
sole nel bel mezzo della strada. Ci siamo passati gentilmente
addosso con le ruote di sinistra e credo abbia fatta una ben
triste fine...Abbiamo dovuto attraversare due grossi fiumi: per
questo vi è un buon servizio di grossi zatteroni spinti da motori
a scoppio e capaci di portare fino a tre macchine alla volta.
Verso le 17 siamo giunti a Brikaville, dove abbiamo fatto
visita ai confratelli di quella residenza. La posizione è
bellissima, proprio in riva al fiume, dal quale affiorano di
quando in quando coccodrilli, ragion per cui è sconsigliato
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prendervi il bagno. Abbiamo poi proseguito per Aniverana,
dove ha sede il piccolo seminario del Vicariato per il clero
indigeno. Vi giungemmo al calar del sole accolto con gran
festa dai buoni confratelli. Abbiamo anche pernottato in questa
residenza e non abbiamo per nulla sofferto il caldo durante la
notte, dormendo pacificamente…
Al mattino seguente, ricorrendo la festa dei Santi
Innocenti, v’è stata una buona frequenza alle Messe e alla
Comunione: era commovente sentire il popolo cantare bei
cantici a più voci, senza affatto scomporsi, restando ciascuno
devotamente inginocchiato a proprio posto…
Ripartiti, dopo più di quattro ore di corsa per una strada
impossibile, che ci faceva sobbalzare tremendamente,
giungemmo a Vatomandry, capoluogo del distretto, ospiti dei
confratelli di quella residenza. Nel pomeriggio continuammo il
nostro viaggio, passando ancora tre volte i fiumi sul solito
zatterone: l’ultima volta, attendendo l’imbarco, mi sono
aggirato un po’ sulla riva ed ho scorto fra l’erba una mandibola
di coccodrillo, ridotta ormai alle sole ossa spolpate, ma munita
ancora di alcuni denti. Naturalmente non ho mancato la bella
occasione e li ho estratti per portarli, a suo ,tempo, ad arricchire
il piccolo museo di Redona…
L’ultima parte del viaggio fu oltremodo scabrosa, poiché
la cosiddetta strada si ridusse in una semplice pista tracciata
attraverso una steppa desertica molto sabbiosa, che impediva
talvolta di avanzare per lo slittamento delle ruote nelle cunette
si sabbia…
Finalmente (è il caso di dirlo con tutta sincerità!) verso le
18 arrivammo a destinazione: Mahanoro. I confratelli ci
accolsero con grandi segni di giubilo, tra la meravigliata
curiosità dei fedeli, molti dei quali vennero subito a darci il
loro benvenuto con calorose strette di mano.
Mahanoro è un piccolo centro che conta circa tremila
abitanti, di cui 1200 cattolici. La piccola proprietà della
missione confina con la riva dell’Oceano Indiano, le cui acque
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lambiscono rumorosamente il lido, non praticabile per i bagni a
causa dei pescecani.
Passeggiando all’ombra del colonnato superiore vediamo
l’estesa azzurra delle acque e ne udiamo l’infrangersi delle
onde sulla riva. Qualche volta, dopo cena, passiamo l’ora di
ricreazione in riva al mare, al chiaro di luna, godendoci la
brezza marina; ciò è molto bello e poetico...ma soprattutto
utile, e direi necessario, dopo una giornata di solleone.
Questa mattina abbiamo avuto la prima lezione
grammaticale della lingua malgascia: sarà un ossicino
abbastanza duro...Bisogna imparare bene questa lingua se si
vuole fare dell’apostolato nei villaggi ancora pagani e per
confessare i già convertiti, predicare, fare il catechismo…
Speriamo di non essere da meno degli altri che ci hanno
preceduto e di riuscire a masticare presto il malgascio”.
Pensate: ho una magnifica vespa!
Da Utale Suor Francesca scrive alla consorelle di Villa S.
Maria.
“...Mie care sorelle, adesso non vado più a piedi. Pensate:
ho una magnifica vespa! Mi è stata regalata dai nostri studenti
monfortani di Loreto. Quanto li ringrazio. Viva la Madonna! E
viva i nostri generosi studenti!
Il nostro ospedale vecchio è ormai troppo piccolo ed è
con vera pena che siamo costretti a rifiutare tanti poveretti che
vengono a chiederci ricovero piangendo…
Ho appreso con la più viva commozione la notizia che
ora anche la nostra Provincia Italiana avrà una missione tutta
propria nell’isola di Madagascar.
Sono ormai più di 25 anni che mi trovo in Africa. Come
vola il tempo! Mi pare d’essere arrivata ieri e di avere appena
lasciata la nostra bella Italia! In realtà quante peripezie in 25
anni! Un romanzo! Quante anime il Signore mi ha dato la
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grazia e la gioia di battezzare in punto di morte e di farle volare
in Paradiso! Pregate per me, ne ho tanto bisogno”.
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1956
Godiamo nel sentirci missionari
I più fedeli nella corrispondenza sono i Missionari del
Madagascar, P. Rizzardo Omizzolo su tutti.
A fine gennaio scrive da Mahanoro: “...Da due mesi
siamo partiti dall’Italia e da trenta giorni ci troviamo in questa
residenza missionaria, alle prese con la lingua malgascia. Il
ricordo della patria e dei nostri cari è sempre, e più che mai,
vivo. Ma se noi ricordiamo tutti con affetto, abbiamo avuto
modo di constatate che anche tanti buoni amici si ricordano di
noi.
Noi siamo attualmente a Mahanoro. A proposito, volete
sapere cosa significa questo nome? Sì? Mahanoro significa
“che rende felice, che dà gioia”. In una località che porta un
nome così significativo, potete immaginare se non siamo pieni
di felicità e di gioia!
Oltre a godere tutti e tre di ottima salute, godiamo del
paesaggio così denso di vegetazione tropicale, godiamo della
brezza dell’Oceano Indiano che spira ininterrottamente a
refrigerarci, godiamo dello spumeggiare delle onde che
possiamo vedere e sentire dalla nostra casa… ma godiamo
soprattutto nel sentirci missionari veri in terra di missione.
Tutti assorti ancora nello studio della lingua, non
abbiamo occasione di fare delle puntate apostoliche
nell’interno, e non possiamo quindi descrivervi con cognizione
di causa gli usi e costumi delle nostre future pecorelle…
Il Madagascar è chiamata spesso, e, purtroppo,
giustamente, l’isola dei cicloni. Benché senza tristi
conseguenze ce ne siamo accorti un po’ anche noi. Nel mese di
gennaio ne sono passati già due attraverso la grande isola.
Del primo abbiamo sentito parlare solo alla radio; è
passato lontano da qui ed ha interessato soprattutto la costa
ovest. Il secondo, proveniente dall’Oceano Indiano, era diretto
verso la costa orientale. Quando si annunzia dai lontani posti di
126
avvistamento, collocati nelle piccole isole, Sechelles e
Rèunione, che un ciclone è in formazione al largo, la radio
nazionale di Tananarive lancia subito i primi allarmi sul
pericolo incombente, dando ad ogni ora i comunicati
interessanti lo sviluppo e la direzione della tromba d’aria.
Anche noi, quindi, seguivamo fedelmente i comunicati
con grande apprensione. Abbiamo temuto un po’ per i nostri
confratelli più a nord, quando abbiamo appreso che il vento
catastrofico, a 200 km l’ora, si dirigeva verso la fascia costiera
fra l’isola Santa Maria e la città di Tamatave.
Il ciclone ha toccato le coste di Madagascar verso le 5.30
del 26 gennaio, asportando, come venimmo a sapere dai
comunicati, gli impianti elettrici e telefonici della zona colpita,
senza per altro fare gravissimi danni. Noi, da qui, benché a 250
km dall’epicentro, avemmo le prove evidenti che il ciclone era
giunto sulle coste, poiché un vento violentissimo che faceva
piegare fino a terra i rami di grossi alberi, cominciò
improvvisamente a soffiare dal mare, accompagnato da un
acquazzone da diluvio. Un momento di panico, pochi minuti di
apprensione… e poi tutto era già passato.
Sapemmo che anche nella regione di Tamatave i guasti
non erano stati gravi. Deo gratias per lo scampato pericolo!
Piena fiducia nella Provvidenza divina e nell’intercessione
della Madonna per il futuro”.
Avete fatto strabiliare i postini di quaggiù!
Durante la Settimana Santa scrive P. Alessandro
Assolari.
“...Con i vostri auguri pasquali avete fatto strabiliare i
postini di quaggiù! Ma se i postini restarono a bocca aperta a
vedere tante lettere, letterine, carte e cartoline, noi eravamo
felici come tanti scolaretti messi in vacanza. Mi capirete... Uno
prende una letterina dalla mamma e per cinque minuti non
capisce più niente! L’altro riceve una consistente epistola dal
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papà. E via, si parte per Verdello. Sopra il terzo cadde una vera
pioggia di lettere: sono i fratelli e i cugini, sparsi per l’universo
orbe terrarum, i quali si ritrovano tutti qui per la circostanza. E
poi ci sono le zie e gli zii, gli amici, i quali vogliano dirti che
pur essendo lontani pensano sempre a te. Quindi vengono le
epistole comunitarie. Loreto è in testa. I compagni di ventura,
coloro assieme ai quali avevamo percorso la via che porta al
sacerdozio, ti mandano letterine dissolventi. Gli scolastici te li
vedi sognare a occhi aperti. E bruciano dalla voglia di venire
qui…
Passata l’ebbrezza del momento… Bisogna pensare a
rispondere. Alla mamma bisogna dire che dopo tutto i
coccodrilli non sono poi tanto frequenti e che non si va a
mettere loro un dito in bocca per tastarne i denti! Al papà si
risponde affermativamente: sì, una buona pipa e un gocciolo di
acqua calda combattono magnificamente la malaria, purché si
abbia cura di non dimenticare la chinina o la nivachina. Agli
scolastici dico: venite pure. Qui non ci si pesta i piedi: parola
d’onore! Volete un pezzo di mondo? Sono felicissimo di
darvelo…
A tutti gli amici e conoscenti che mi hanno scritto parole
tanto belle e affettuose mando un cordialissimo grazie e
rinnovo la mia più calda raccomandazione: ricordatevi sempre
dei mie poveri neri. Devo andare in Paradiso io e tirami dietro
tutte queste anime che mi stanno intorno e ricevono dal mio
sacerdozio la vita soprannaturale.
Ai carissimi benefattori mando tante benedizioni quanto
sono i centesimi che mi avete dato e mi darete. Continuate a
mettere da parte le vostre piccole offerte, mandatele al
Procuratore delle missioni che risiede a Redona e poi lasciate
fare a me che le metterò a frutto il cento per uno nella Banca
del Signore, l’unica che rende bene e non fallisce mai, Amen!”.
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Sono ancora qui a Mahanoro
Continua la sua corrispondenza P. Rizzardo Omizzolo.
“…Sono ancora qui a Mahanoro, capoluogo di un
distretto amministrativo esteso più di tutta la provincia di
Bergamo. P. E. Nozza, lui, felice e contento ha raggiunto la sua
destinazione a circa 140 Km più a sud, su per i monti, in mezzo
a foreste vergini, abitate da un infinità di scimmie, d’ogni
specie e dimensione, tutte del resto innocue. P. A. Assolari è
stato destinato qui a Mahanoro, come secondo curato. Quando
incomincerà le sue corse apostoliche in piroga e a cavallo, avrà
da correre parecchio: pensate che dipendono da questa
parrocchia ben 155 chiese e cappelle sparse in territorio di circa
120 Km di costa e per 50/60 Km verso l’interno. Quante
diocesi d’Italia hanno una simile estensione? Forse solo quella
di Milano, con la differenza che per tale immenso territorio qui
non si dispone che di tre sacerdoti.
Io sono per il momento ancora in aspettativa di
destinazione. Fin dopo Pasqua Mons. Vescovo mi lascia qui
per aiutare i confratelli nelle solenni cerimonie della Settimana
Santa. Tanto per non perdere la ventennale abitudine, mi sono
occupato del settore musicale-liturgico. I malgasci amano il
canto a più voci ed è un vero piacere, a chiesa stipata, sentirli
cantare con tanto gusto e devozione”.
Marolambo: la mia nuova missione
Verso metà maggio P. Rizzardo Omizzolo invia notizie
da Marolambo, la sua nuova missione.
“...Esattamente un mese fa, è cominciata per me una
nuova vita. Terminato lo studio teorico della lingua malgascia
ho ricevuto il momentaneo incarico di accompagnare S. E.
Mons. Le Breton, nostro Vescovo, in un lungo viaggio
apostolico per l’amministrazione della Cresima nel Distretto di
Marolambo.
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Il centro del Distretto dista esattamente 130 Km da
Mahanoro. Nel percorso dei primi 25 Km dovemmo
attraversare due grossi fiumi. A questo scopo fanno servizio fra
le due sponde delle piroghe per i pedoni e dei grossi zatteroni,
su barconi di ferro abbinati e spinti a motore, per il trasbordo
delle autovetture.
Noi siamo ormai abituati a questo sistema: ma la prima
volta sembra una cosa tanto curiosa il non trovare dei ponti
come in Europa. Che volete, non è facile gettare dei ponti su
dei fiumi così larghi da sembrare lagune, con sponde basse, di
argilla friabilissima, e che nell’epoca della grandi piogge
vengono spazzate via dalla forza delle acque, che dilagano su
territori immensi, asportando alberi colossali e case intere. I
ponti non resisterebbero molto a lungo o bisognerebbe farli
sospesi, ad arco superiore, fissandoli alle sponde ad enormi
montagne di cemento armato.. Con relativa spesa di centinaia
di milioni, se non di miliardi… quasi come il progettato ponte
attraverso lo Stretto di Messina.
Ma lasciamo andare i progetti e passiamo il fiume sullo
zatterone a motore. È quanto mai interessante osservare al
lavoro gli uomini addetti all’abbordaggio e all’imbarco.
Saltano nell’acqua come ranocchie, immersi talvolta fino alla
cintola…
Superato l’ostacolo delle acque, ecco quello non meno
difficile dei monti. Inoltrandosi verso l’interno dell’isola non
avremmo trovato che dei monti senza fine. Nel primo tratto il
tracciato della strada era discreto, ma poi, man mano si
avanzava, il fondo si faceva sempre più scabroso, seminato di
grosse pietre, di buche impantanate che facevano slittare la
macchina a destra e a sinistra. Per fortuna la vegetazione della
foresta dalla parte del pendio era così fitta che sarebbe stato
molto difficile andare lontano se per disgrazia la macchina
fosse scivolata verso valle…
Controllando la scorta di benzina mi accorsi che era
calata non poco su quelle terribili salite, ed ebbi il timore che
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con quanto ce ne restava non saremmo probabilmente arrivati
fino alla meta. Ce la faremo? Non ce la faremo? Dilemma
grave in mezzo a monti e foreste… Così, col cuore sospeso,
continuammo il nostro viaggio, inerpicandoci fino a 900 metri
di altitudine, al valico più elevato del nostro tragitto. La strada,
a partire da qui, accennava a scendere verso valle. Meno male!
Ma venne a mancare la benzina a soli 18 Km dalla meta…
A Marolambo ricevo la conferma che sono destinato
definitivamente a questa residenza missionaria. Mentre la
“tournée” del Vescovo, accompagnato dal Superiore locale,
continuava senza sosta, io sono sceso con la jeep a Mahanoro a
prendere definitivamente i miei bagagli, e sono risalito quassù
dove si sta veramente bene. L’aria è fresca e pura: le zanzare
sono quasi del tutto sconosciute. Mi sembra di essere tornato in
quel di Bergamo a predicare in una della magnifiche valli
orobiche. Dalla mia finestra godo un panorama che mi fa
pensare alla Valle Imagna o Brembana: manca però la visione
dei paesi sparsi numerosi sul pendio dei monti o sulle cime, e
non vedo che monti coperti da foreste; mancano le belle chiese
bergamasche, gli alti campanili e i rintocchi maestosi si
numerose campane…
Alla fine del mese di maggio, o ai primi di giugno,
inizierò una lunga perlustrazione nella parte più selvaggia ed
impervia del distretto. Sarà per me una magnifica iniziazione
apostolica nel più autentico senso della parola, e una splendida
occasione per apprendere la lingua viva degli indigeni, che
differisce non poco da quella appresa stentatamente sui libri…
Cavaliere errante per Cristo per monti e foreste
Dopo questa esperienza di “cavaliere errante di Cristo per
monti e foreste” P. Rizzardo Omizzolo riprende la sua
corrispondenza.
“...Ora posso dire d’aver vissuto veramente un mese di
piena vita apostolica, con le sue fatiche, le sue emozioni e le
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sue consolazioni. Partito l’8 giugno, festa del Sacro Cuore,
sono rientrato alla base solo ieri, 9 luglio: trenta giorni esatti di
scorribanda a cavallo e a piedi, in continui saliscendi su per i
monti, in fondo alle valli, sugli altipiani e attraverso foreste
vergini, con un percorso di circa 500 chilometri. Non si
dimentichi che in questi territori di missione una residenza
missionaria abbraccia l’estensione di un’intera diocesi italiana..
moltiplicata due o tre volte. È già bello se, con tutta la buona
volontà, possiamo visitare tre o quattro volte all’anno ogni
piccolo centro di culto cattolico. Contiamo infatti, alle
dipendenze di questa residenza missionaria, ben 147 fra chiese,
cappelle e centri di preghiera.
Ma veniamo a noi. Innanzitutto è necessario che vi
presenti i componenti della spedizione apostolica: due
sacerdoti missionari, due accompagnatori, quattro robusti
portatori per i nostri pesanti bagagli e infine tre personaggi
molto importanti, benché appartengono al regno animale: due
magnifici cavalli e “Boby”, il fido cagnolino, compagno di
tutte le nostre avventure e disavventure, cacciatore di faraone
selvatiche, all’occorrenza anche di galline domestiche, ma
soprattutto dei molesti topacci notturni che infestano tutti i
villaggi.
L’8 giugno, sellati i cavalli e disposti i bagagli, la
colonna si mosse col saluto e la benedizione del Superiore. Ma
dopo breve percorso, eccoci dinanzi ad un grande fiume. Gli
uomini ed i bagagli passano in piroghe ed i cavalli, liberati
della sella e tenuti a briglia allungata a fianco delle
imbarcazioni, passano felicemente a nuoto..
Risellati i cavalli, incominciamo l’irta salita dei monti.
Dopo due ore di marcia giungiamo in vista del primo villaggio:
Ambalaherana. Una deputazione di fedeli ci corre incontro per
darci il benvenuto tradizionale e ci accompagna cantando fino
alla capanna che ci è stata assegnata per abitazione.
I due missionari e gli accompagnatori sono invitati a
consumare il frugale pasto serale consistente in riso bollito
132
senza sale e qualche pezzetto di pollo semplicemente bollito in
acqua salata. Come bevanda acqua di riso, ottenuta gettando
dell’acqua nel recipiente ancora rovente in cui è stato cotto il
riso. La parca cenetta è consumata per terra, seduti a gambe
incrociate sulla stuoia che ricopre tutto il pavimento.
…E giunse anche per noi, dopo la prima faticosa
giornata, l’ora di un meritato riposo. Adattati i nostri giacigli
non ci restò che stenderci sopra e avvoltolarci nelle due coperte
di lana portate ad seguito col bagaglio”.
La storia di Vincenzo. Ragazzo handicappato
P. Alessandro Assolari chiede una carrozzella per
Vincenzo, un ragazzo handicappato. Quella di Vincenzo è una
storia commovente. Frequenta la scuola maschile della
missione con una novantina di altri alunni, pagani nella
stragrande maggioranza.
“… Se non frequentassero la scuola cattolica, con tutta
probabilità non verrebbero mai a conoscenza della nostra
religione. Così, mentre imparano a leggere, scrivere e fare i
conti, hanno modo di conoscere Gesù. A scuola si prega e si fa
un’ora di catechismo ogni giorno. Dovreste vedere come sono
simpatici questi monelli indiavolati. Tra essi ci è anche
Sambany. Ogni mattina arriva a scuola. Ma lui non può correre
come gli altri perché una terribile malattia infantile gli ha
deformato i piedi e gli ha tolto la possibilità di reggersi dritto.
Viene a scuola carponi.
Piova o faccia sole, Sambany non manca una sola volta
in classe. È intelligente. Legge e scrive correntemente. Quando
si tratta di fare i conti bagna il naso a tutti i compagni. A scuola
ha fatto il più bell’incontro di tutta la sua vita: ha incontrato
Gesù. Ha imparato a pregare ed ha potuto apprendere il
catechismo. All’esame si è fatto onore ed è stato ammesso al
Battesimo”.
133
Sono sottoposto a continue marce forzate
P. Emilio Nozza. “… Vi scrivo questa lettera in una casa
di Ambinaninandrano, in alta montagna. La scrivo sdraiato per
terra, accanto al fuoco che i malgasci tengono acceso per
riscaldarmi. Domani proseguirò la salita fino alle sorgenti del
fiume Sakaleone che voglio visitare perché presentano alla
vista una grande cascata di 300 metri. La cascata è la più
grande del Madagascar.
Sono arrivato qui, ultimo paese della vallata del
Sakaleone, dopo un giro contorto, attraverso i monti che
separano la mia missione da quella di Marolambo. Sono
continue marce forzate che mi danno la gioia grande di far
nascere nuove cristianità. Ci sono molti paesi sperduti su questi
monti, paesi di 60/100 abitanti, distanti dalle due alle quattro
ore di marcia, collegati da sentieri poco battuti che passano tra
foreste e rocce, quindi non praticabili a cavallo.
Questi paesi attendono da anni il missionario senza mai
averlo. Il paese di Abelanbinana che ieri si è aperto al
cristianesimo, da tre anni non vedeva transitare il missionario.
Il paese di Ambinaninandrano, dove mi trovo, ha visto passare
due missionari nel 1949: li ha visti solo passare, perché si
recavano alle sorgenti del fiume per visitare le cascate. Questo
dimostra il bisogno che abbiamo di missionari. Certo, non si
può pretendere una mentalità cristiana in questa buona
popolazione.
È gente semplice che si aggira contenta e libera tra queste
foreste. Un pugno di riso a mezzogiorno e a sera, uno straccio
unto e bisunto che li ricopra: tutto questo li rende superiori a
qualunque ricchezza, anche all’oro che qui vicino si nasconde
in quantità. Se è gente semplice e quasi primitiva è anche gente
eminentemente tradizionalista, attaccata al culto degli avi, al
sacrificio che compiono per chiamare a raccolta tutti gli spiriti
dei trapassati, erranti lontano dal loro paese. Per un po’ di anni
mischieranno tutto assieme, cristianesimo e culto pagano.
134
Pazienza! Ma poi, con le nuove generazioni è lecito sperare
anche una mentalità veramente cristiana.
Per ora mi posso dire soddisfatto, perché alla base di
questa ricerca ed accettazione che fanno del missionario c’è un
atto di amore alla nostra religione e quindi l’inizio della vera
amicizia con Dio. Ho l’impressione che questi paesi si aprano
al regno di Gesù perché c’è la Vergine SS. che vi prepara i
cuori. Non sarò un monfortano esemplare ma cerco di invocare
la nostra Madre nell’avvicinarmi a questi villaggi, affinché
Essa prepari i cuori al regno di Gesù che vi penetra per opera
del missionario.
Attendo i nuovi missionari, sperando di averne uno con
me. Speriamo ne vengano anche l’anno prossimo, perché noi
italiani saremo grandemente utili alla Chiesa del Madagascar
nel prossimo avvenire…”.
Nuovi arrivi dall’Italia
I nuovi missionari attesi da P. Emilio Nozza sono P. Carlo
Berton e P. Pietro Valsecchi. In ottobre ricevono il Crocifisso
dalle mani di Mons. Maggi.
“...Durante il discorso anche gli occhi dei due missionari
s’imperlarono di lacrime… non di dolore, ma di gioia.
Finalmente il sogno di tanti anni si era avverato!”
Imbarcati sulla nave “La Bourdonais”, a Marsiglia,
inviano notizie sul loro viaggio.
“...Nel pomeriggio del 15 ottobre, a Redona, come
sapete, davanti a quella stessa Regina dei Cuori che ci vide
apostolini, abbiamo ricevuto dalle mani di Mons. Maggi il
Crocifisso, simbolo e strumento del nostro apostolato.
Nell’abbraccio di addio ai confratelli ci siamo sentiti degli
onorati prescelti dalla Regina delle missioni per essere i
testimoni del suo Divin Figlio fino agli estremi confini della
terra.
135
Nella mattinata della Commemorazione di tutti i defunti
saliamo a bordo della “Bourdonnais”. Siamo nella cabina 231,
a 4 posti, ma la occupiamo in 3.
Dovremo fare il periplo dell’Africa a motivo della guerra
sul Canale di Suez. Per fortuna la Compagnia Marittima non ha
chiesto il supplemento al prezzo del biglietto, altrimenti…
poveri noi! A pochi chilometri da Marsiglia il mare, già mosso,
cominciò a fare il matto. Una vera tempesta! Cominciò il mal
di mare. Povero stomaco! A cena la sala è deserta. Neanche a
letto si aveva pace. Si ruzzolava picchiando ora la testa ora i
piedi contro le sponde del lettino. Così tutta la notte.
Naturalmente il giorno 3 niente Messa. Per fortuna verso
mezzogiorno tutto tornò calmo.
Il pomeriggio del giorno 4 urlano le sirene. Ci si raduna
sul ponte per pericolo di naufragio:… è solo una prova! Alla
sera si passa lo Stretto di Gibilterra e si entra nell’Atlantico
perfettamente calmo…”.
Magomero: mia nuova missione
In questo stesso periodo scrive P. Tarcisio Betti. “...Tre
anni fa dovetti lasciare ippopotami e coccodrilli del lago
Nyassa per venire a Zomba e l’anno scorso, in ottobre ho
lasciato Zomba per Magomero, lungo le rive del fiume
Namadzi, che fa confine col vicariato di Blantyre. La missione
di Magomero è iniziata per alleggerire un po’ la missione di
Zomba. I cristiani sono circa diecimila, distribuiti in mezzo a
pagani e protestanti di parecchie denominazioni”.
Diario di viaggio a bordo della nave
Arrivano nuove notizie del viaggio in nave di P. Carlo
Berton e di P. Pietro Valsecchi:
“...Stiamo viaggiando con una nave di recente
costruzione. Ha 150 m. di lunghezza e 20 di larghezza. In una
giornata può percorrere 408 miglia, cioè 775 chilometri; supera
136
di poco la mezza velocità della nostra scomparsa “Andrea
Doria”. Tutti i passeggeri, con il personale, raggiungeranno le
500 persone. Vi sono tutte razze. Un vera arca di Noè. C’è
stato riferito esserci a bordo un pastore protestante, ma non
siamo riusciti ad individuarlo.
Credevamo che il caldo andasse aumentando
gradualmente mentre scendevamo i paralleli, invece ci fu un
continuo aumentare del freddo. Tirava un vento fortissimo dal
Sud. Grazie a Dio il nostro stomaco è allenato e non soffre
alcun disturbo…
Al mattino, sempre molto presto, celebriamo la S. Messa
nel salone del bridge, dove, aprendo un armadio, appare un
altare. La domenica, invece, si celebra nel più grande salone
per i passeggeri. I missionari qui sulla nave sono benvoluti. Il
P. Carlo Berton è scambiato per un originario francese ed il P.
Pietro Valsecchi per un oriundo polacco, così che il suo nome
varia tra Wanski e Walenski. Chi sa poi come lo chiameranno i
malgasci!
Superiamo il Capo di Buona Speranza con un
tranquillissimo “mare delle tempeste”. Dal Capo fino a Durban
s’incomincia finalmente a sentire il caldo sole africano. Persino
i pesci se la godono. Qualche pescecane mostra la sua testa
poco rassicurante. Più simpatici i delfini ed i caratteristici
piccoli pesci volanti che nella mattinata escono a frotte
dall’acqua.
L’alba del 24 novembre illuminava la costa verdeggiante
della “grande isola”. Il cielo tersissimo e il mare di un azzurro
intenso palpitavano della stessa gioia del nostro cuore fremente
di commozione nel porre piede sulla terra del nostro apostolato,
nella patria elezione: il Madagascar
Il 27 novembre, festa della Medaglia miracolosa, a tarda
sera, sotto un diluvio d’acqua, sbarchiamo a Tamatave. I
confratelli francesi che ci aspettavano al porto ci accolgono
fraternamente nelle residenze di S. Joseph, accanto alla
137
cattedrale. Un incontro assai gradito è quello con le tre suore
italiane qui a Tamatave: Sr. Ernestina, Sr. Rosa e Sr. Agnese.
Altrettanto quello con il simpaticissimo Fr. Francesco.
Il 5 dicembre sera siamo finalmente a Mahanoro. Ci sono
i padri ad aspettarci, e particolarmente gradito un padre
italiano, P. Alessandro Assolari. Abbracci ed esclamazioni in
tutte le lingue. Finalmente siamo arrivati alla casa che ci sarà di
dolce dimora sicuramente per almeno tre mesi, finché saremo
padroni della lingua malgascia e spiccheremo il volo verso la
foresta”.
138
1957
Le difficoltà degli inizi
P. Rizzardo Omizzolo racconta il suo primo Natale
missionario.
“...Sarebbe perlomeno strano se nelle grandi solennità
liturgiche i Padri missionari se ne stessero pacificamente al
centro residenziale a godersi le belle cerimonie in una grande
chiesa, che darebbe l’illusione di essere in Europa, con grande
soddisfazione personale e direi quasi egoistica… benché di
ordine spirituale. Vi pare? Quando vi sono tante cristianità
sparse fra le foreste dei monti, che attendono la gioia d’avere il
Padre fra loro per accostarsi ai Sacramenti e cantare le lodi del
Signore…
Fu per questo che a me venne assegnato il capoluogo di
Cantone di Ambohimilanja, a circa quaranta Km. da
Marolambo. La partenza avvenne il 22 dicembre. La giornata
era splendida e il sole dardeggiava come si conviene in questa
estate sub tropicale. Niente paura: ormai sono abituato a queste
faticose cavalcate, che hanno del resto sempre un’attrattiva
speciale…
Come Dio volle, cotto dal sole e madido di sudore giunsi
a destinazione. I cristiani del luogo mi attendevano sulla
piazzetta del villaggio, assieme ai mie due portatori, che
presero subito in consegna la cavalcatura. Alla capanna
riservata agli ospiti di passaggio mi fu servito un frugale pasto,
tanto più delizioso in quanto condito… da ottimo appetito. Un
discreto pagliericcio steso sul pavimento accolse le mie stanche
membra per un meritato riposo. E poi incominciò il lavoro
missionario: le confessioni dei cattolici del luogo, desiderosi di
fare la comunione fin dall’antivigilia di Natale.
Coi mezzi più semplici mi sono messo all’opera per
l’allestimento del presepio. Alla vigilia del Natale, prima di
mezzogiorno tutto era terminato, con grande meraviglia di una
frotta di piccoli e grandi che non si stancavano di ammirare le
139
belle statuine, soprattutto i Re Magi di color cioccolato… che
potevano benissimo passare per malgasci.
Ero felice della mia opera, destinata a far colpo a
mezzanotte, al fioco chiarore dei moccoletti di cera vergine.
Ma ohimè! Non ero stato abbastanza previdente. Ma chi poteva
prevedere ciò che sto per dirvi?… Sono cose che capitano
davvero solo qui in terra di missione.
Dovete sapere che, come fondo sul piano del tavolo su
cui era disposto il presepio, avevo steso uno strato di pula di
riso in sostituzione della paglia. Non l’avessi mai fatto! La
baracca di legno a giunchi sconnessi che serve di chiesa, aperta
a tutti i venti, senza porta… fu invasa da una frotta di galline,
attirate senza dubbio dall’odore della pula. Quelle bestie
maleducate saltarono sul presepio e, razzolando allegramente
fra i minuscoli personaggi di gesso, mi combinarono un mezzo
disastro: tanto che la Madonna ne uscì addirittura decapitata!
Fu una buona donna che venne a darmene il triste annunzio,
esterefatta.
Corsi subito alla chiesetta, in compagnia del cane lupo,
deciso ad acchiappare almeno una delle colpevoli e farla finire
in pentola. Ma le male bestie, appena videro apparire il cane al
loro inseguimento, se la svignarono lestamente per gli
innumerevoli pertugi delle pareti di giunchi.. La lezione mi
servì e pensai cosa prudente avvolgere tutto il presepio con
tovaglie e lenzuoli, fino all’ora dello scoprimento alla Messa di
mezzanotte. Ma i guai del presepio non erano ancora cessati…
All’ora stabilita per la celebrazione vennero a chiamarmi.
Al chiarore di lumini a petrolio raggiungemmo la chiesetta
stipata all’inverosimile. Confessai gli ultimi arrivati e diedi gli
ultimi ritocchi alla povera decorazione dell’altare. Quando,
cinque minuti prima della mezzanotte scoprii il presepio
m’accorsi che nuovi devastatori lo avevano invaso: i topi, dei
quali le tracce erano inconfondibili. Questa volta si trattava di
semplici spostamenti e rovesciamenti di statuine senza alcuna
rottura. Tutto fu ben preso riordinato, ad allo scoccare della
140
mezzanotte si diede inizio alla devota cerimonia con un canto
natalizio…
Alla Messa di mezzanotte seguì quella dell’aurora,
seguita con la preghiera e con canti natalizi. Quando uscimmo
di chiesa avevamo tutti un’aria commossa e una grande gioia
nell’anima: la pace annunziata a Betlemme dal coro degli
angeli. Il cielo s’era intanto rischiarato dai nuvoloni e
splendevano magnifiche le stelle: e credo che fra quelle più
rilucenti fosse davvero riapparsa quella meravigliosa che
condusse i Magi alla culla del Dio Bambino…”.
Stiamo a vedere cosa succede…
Dalla loro nuova patria si rifanno vivi P. Carlo Berton e
P. Pietro Valsecchi. Parlano dell’accoglienza avuta dalle gente
di Mahanoro.
“...Un po’ perplessi stiamo a vedere cosa succede. Inizia
un bel coro… un canto malgascio eseguito a chissà quante
voci. Terminato, avanza un catechista che ci legge un
complimento. Ecco qualche pensiero: Siate i benvenuti a
Mahanoro, rev. Padri. Noi sappiamo che è per nostro amore
che voi non avete esitato ad abbandonare il vostro caro paese
natale, i vostri genitori, i vostri amici, per venire a soccorrerci.
Vi auguriamo che vi adattiate bene al clima malgascio e che il
vostro stomaco delicato non abbia a rifiutare né la maioca, né il
bredes, né le cavallette.
La nostra risposta fu tradotta poi dal francese in
malgascio dallo stesso catechista che era un fedele interprete.
Ma non è finita: dopo i soliti battimani che coronano ogni
discorso, ecco un altro cristiano farsi avanti con nelle mani una
busta: “Accogliete questa piccola offerta come omaggio del
nostro profondo rispetto”. Era il frutto di una colletta
organizzata e compiuta spontaneamente da loro.
Ci sentiamo sinceramente commossi. Vedere davanti a
noi quei poveri malgasci con dei sentimenti così delicati e
141
ripieni di amore; quelle facce patite, con i segni della
sottoalimentazione sul viso, che, spinti da nessuno preparano e
presentano una offerta ai nuovi missionari, come primo segno
di una preziosa ospitalità. Tutto ciò ci ha colpito...
I festeggiamenti non sono ancora finiti: è il turno dei
ragazzi della scuola della missione. Quando ci vengono a
chiamare i ragazzi sono già schierato sul prato. In testa portano
un turbante di cartone, nella destra una piccola lancia e nella
sinistra un minuscolo scudo. Iniziano con i canti… seguono le
danze,,, completano le marce al ritmo di un tamburo
improvvisato: un bidoncino vuoto su cui si legge distintamente
“Mobil Oil”. Ma non è finita. Da veri e autentici ragazzi, essi ci
hanno preparato su un bella tavola ciò che essi apprezzano di
più: riso, uova, banane, due lunghe canne da zucchero, mango,
lecci, ananas.
Nella lingua malgascia, Mahanoro significa “che rende
felice”… e noi siamo felici non solo di portare a questi popoli
la luce della Verità e della Vita, ma di trovarci tra un popolo
tanto vicino al regno dei cieli, perché piccolo, semplice e
spontaneo”.
Non possiamo che essere riconoscenti...
P. Alessandro Assolari scrive ai lettori de “L’Apostolo
di Maria”:
“… Se è vero quanto si dice, parrebbe che le lettrici e i
lettori de “L’Apostolo” s’interessano visibilmente alla sorte dei
monfortani italiani in terra malgascia. E noi non possiamo che
esservi riconoscenti. P. Omizzolo vi ha spedito ogni sorta
d’informazioni concernenti il viaggio, prime e seconde
impressioni, costumi e lingua malgascia, ecc. Finché siamo
stati assieme qui a Mahanoro noi, P. Nozza ed io, l’avevamo
eletto deputato per queste faccende. Poi venne l’esame di
qualificazione malgascia e con esso la diaspora: come sapete,
142
uno ad ovest, uno a sud ed uno in loco. Ad ognuno una bella
porzione di vigna.
Dunque oggi dovrei raccontare quanto ho fatto e tutto ciò
che mi è capitato dal momento della diaspora in poi. È una
faccenda seria e un tantino complessa, anche perché io non ho
la stoffa del regista che sa cogliere e filmare solo quanto è
meritevole d’essere visto. Ma non voglio andare per le lunghe,
per cui, attenti, si gira e si parte.
Non sto a dire la trepidazione e la commozione che
avevo in cuore al momento della partenza per il primo viaggio
missionario. Avevo cercato di pensare a tutto. Il mio Superiore,
buon papà, mi aveva ben provvisto di consigli altamente
pratici. Aveva messo a mia disposizione i suoi 23 anni di vita
in terra malgascia.
Dovevo recarmi ad una quarantina di chilometri da
Mahanoro. I cristiani stavano ad attendere da un paio d’ore.
Saluti, canti e grida di gioia. Ero proprio commosso. Il
programma della giornata si svolse regolarmente Non ci
sarebbe proprio nulla da notare per i primi giorni. Vi dirò solo
che quando si trattò di conversare con i cristiani e con i
catecumeni, vi assicuro che sentivo un frescolino giù per la
schiena… Ci capivo ben poco! Giunto a sera avevo una voglia
d’imprecare contro qui tali della torre di Babele…
Questa è la storia degli inizi. So bene che sono cose
noiose, ma che ci potevo fare io? Dopo tutto sono stato io ad
avere la peggio. Il mio primo viaggio missionario durò
precisamente 15 giorni. Avevo visitato 15 cristianità.
Risultato? Se qualcosa di bene è stato fatto, è scritto nel diario
del buon Dio. Tradotta in cifre questa tournée non sfigura
troppo: una quarantina di battesimi, parecchie confessioni e
comunioni. Soprattutto ho potuto constatare con i miei occhi
quanto sia urgente il problema del personale missionario, e
come restino paurosamente attuali le parole di Gesù: “La messe
è molta e gli operai sono pochi”.
143
Potremmo raddoppiare con molta facilità il numero dei
cristiani. Potremmo dare una formazione molto più profonda ai
nostri battezzati, se fossimo più numerosi. Vi rendete conto che
due missionari e due cavalli devono percorrere un territorio
che, in estensione, dovrebbe essere il doppio della Provincia di
Novara?
Noi missionari forse abbiamo la faccia dura e il cuore di
pietra. Eppure non so dire quanto dolore provai allorché,
passando per un villaggio, vidi venirmi incontro gli anziani per
chiedermi che mi fermassi tra loro tutto il giorno. Non potevo.
Ero atteso in un altro villaggi, ad un’ora di viaggio. “Prendi
almeno questa pollastrella e questo riso, e non dimenticarti di
noi. Iddio ti protegga sempre”. Ringraziai. Strinsi la mano ai
grandi e ai piccini e ripresi la strada. Avevo un nodo alla gola”.
La mia prima tournée missionaria
P. Emilio Nozza invia notizie sulla sua prima tournée
missionaria.
“… Voi sapete che lo scopo del missionario è di portare
Gesù in tutto il mondo, in tutti i villaggi, in tutte le capanne, in
tutti i cuori ancora pagani: ebbene la missione di Ambodilafa si
presenta dinnanzi alla penetrazione missionaria come una terra
ancora vergine. È un grosso paese di 4000 abitanti, 300 dei
quali cattolici, dista 400 Km. da Tamatave ed è posta a 400 me
di altitudine. È la punta estrema del nostro Vicariato, verso il
sud-ovest dell’isola.
Giunto ad Ambodilafa a piedi, trascorsi i primi 10 giorni
a vangare, piantare fagioli e pomodori, perché altrimenti si è
costretti a tirare la cinghia. Poi col Superiore partii per la visita
ai villaggi cristiani: scarpe a spalla e via, su e giù per colline e
montagne, attraverso risaie, foreste e torrenti. Ogni quarto
d’ora ce n’era uno da attraversare.
144
Dopo una settimana tornammo alla base, poi, trascorsi
due o tre giorni, ci separammo: “P. Nozza, parti, arrangiati e
cerca di combinare qualcosa per il Signore!”.
Così ci separammo: il P. Superiore a Soavina ed io ad
Ampasinambo. Feci sellare il cavallo e via… per la prima volta
solo, per la prima volta a cavallo, per la prima volta verso una
regione ed una popolazione che non conoscevo, senza neppure
possedere la lingua…
Passo attraverso montagne, foreste, abitate solo da tre o
quattro piccoli villaggi. Io amo molto la poesia e vi assicuro
che quando mi sento stanco, il passaggio nelle foreste tra il
gorgoglio dei torrenti è per me un riposo ed una gioia. Si può
essere missionari e poeti? Altroché!
Dopo 33 Km. Arrivai a destinazione, accolto dai cristiani
e dal Governatore. Tutti cantavano a squarciagola. Visitai la
chiesa, assai bella, anche se costruita con nervature di foglie
d’albero.
Due giorni dopo incominciai a piedi la visita dei villaggi
per l’esame di catechismo, prima della Cresima. Venti giorni di
marcia, durante i quali non ho visto che riso, riso, sempre
riso… per una decina di giorni ebbi in attivo sulla schiena
molti acquazzoni. Vi assicuro che su questi sentieri ci si può
sentire felicissimi, durante la marcia, pur tenendo nella destra
la corona del Rosario e nella sinistra una foglia di banana per
proteggere la testa dalla pioggia. Comunque sia, con questa
prima visita alle cristianità, alle quali parlavo in francese e il
mio catechista traduceva in malgascio, ebbi una prima visione
del mio campo di apostolato…”.
Non ci sono notizie allarmanti sulla mia salute
A metà aprile P. Remigio Villa invia notizie dalla
missione di Limbe:
“… Buona e Santa Pasqua a tutti! Prendo un minuto di
respiro tra due ritiri pasquali, per mandarvi i miei auguri e per
145
darvi qualche notizia del nostro ministero missionario e della
vita ordinaria. Giacché qualcuno ha sentito notizie allarmanti
sulla mia salute, posso tranquillizzarvi dicendo che se anche
non ho più vent’anni, pure penso che faccio il lavoro di
quell’età e senza troppo stancarmi. Comunque, conto sempre
sulle vostre preghiere indirizzate alla Madonna della salute. Ne
abbiamo un po’ tutti bisogno.
La Quaresima è la stagione più bella, non solo
liturgicamente, ma anche per la natura e il clima nel Nyasaland.
Ma soprattutto, bisogna ammetterlo, i nostri cristiani la sentono
nel profondo del cuore. Fanno dei bei chilometri per assistere
alla Messa, e fanno dei veri sacrifici per partecipare alla
Settimana Santa.
Se avessimo sacerdoti in numero sufficiente, potremmo
riempire la Cattedrale e le chiese succursali a parecchie riprese.
Il giorno delle Ceneri la folla era tanta che dovetti fare la
cerimonia all’aperto, e, naturalmente non ho potuto confessare
tutti.
In questi giorni di fervore generale siamo presi dalla
mattina fino a tardi. La Messa termina verso le 9 e mezza. Alle
dieci: Via Crucis e predica. A mezzogiorno: predica ad una
parte dei ragazzi. Alle 13 altra predica e benedizione. Poi si
continua a sistemare i casi dei cristiani o pagani che si
presentano. Alle 17: Rosario, predica e preghiera della sera.
Insomma, si è presi davvero tutta la giornata. Alla sera il tempo
per il breviario.
Pregate tanto e poi tanto per me e per la mia missione.
C’è tanto da fare che non si sa come fare tutto lo stretto
necessario…”.
In Madagascar squilli di risurrezione!
Arrivano “squilli di Resurrezione” anche dal
Madagascar. Ad inviarli dalla foresta malgascia è P. Carlo
Berton.
146
“...Terminato il breve corso di lingua malgascia a
Mahanoro, ai primi di aprile partii per la mia prima missione.
S.E. Mons. Le Breton mi destinò ad Ilaka. Mi trovo, quindi, a
nord, rispetto ai confratelli italiani ed a circa 250 Km. da P. E.
Nozza, internato tra le montagne del sud.
Qui, dicono i vecchi missionari barbuti come
Matusalemme, i giovani non hanno diritto di parlare di
cavalcate, finché non abbiano superato i 100 Km.. Avendoli
abbondantemente superati, posso scrivere anche su questo
argomento.
Assieme ad un altro missionario dovevo internarmi nel
territorio per raggiungere un villaggio tra le montagne, posto
all’incrocio di due vallate. Partimmo il Venerdì Santo.
Attraversammo luoghi splendidi e pittoreschi. I cristiani del
villaggio non erano molti al nostro arrivo. Motivo: la fame. Il
riso dell’ultimo raccolto era finito e adesso non c’era più nulla
da mangiare. Come avrebbero potuto venire le famiglie più
lontane, senza un chicco di riso per sfamarsi? La mancanza
periodica del riso è una delle piaghe più visibili del
Madagascar. Un territorio grande due volte l’Italia non sfama i
soli 4 milioni e mezzo di abitanti…
Il mio primo lavoro fu quello di ordinare la chiesa, per
renderla il meno indecente possibile, onde celebrare la sacre
funzioni. Si aggiustò la tavola che fungeva da altare e presi tutti
i moccoletti di cera, e fusili insieme se ne fece un candelotto
che nelle intenzioni doveva essere il cero pasquale.
Cominciammo, poi, a preparare le anime. Mentre il mio
confratello faceva gli esami di catechismo ai catecumeni, io
ascoltai le confessioni dei fedeli. Seduti sopra un’assicella, in
un angolo della chiesa, una piccola parte di giunchi mi
separava dai penitenti. Ogni tanto, non so se dipendesse dal
fervore del penitente, dovevo appoggiarmi forte con la spalla
alla piccola parete per non vedermi venire addosso e la parete e
il penitente.
147
Quando scesero le tenebre, iniziammo la funzione.
Alcune candele e una lampada a petrolio illuminavano la
chiesa. Mentre io celebravo, l’altro padre dava ogni
spiegazione in malgascio. L’assemblea, in un silenzio
impressionante, seguiva ogni cerimonia: la benedizione del
fuoco, del cero, i battesimi ed anche un matrimonio. Lo sposo,
essendo l’unico che sapesse servire la Messa, lasciò la sposa e
venne all’altare ad aiutarmi, vestito da chierichetto…
Conclusa la celebrazione, usciti di chiesa, i cristiani si
disponevano a gruppi, fuori della capanne e continuavano ad
eseguire le arie di Pasqua. Nel buio della notte lungo la vallata
echeggiavano gli squilli della campanella ed i canti dei
cristiani…”.
Come si fa ad avere pace quando...
Continua la corrispondenza di P. Alessandro Assolari.
“...La nostra vita di missionari è caratterizzata da continui
viaggi, sempre interessanti, perché solo così si possono
raggiungere delle anime, le quali, diversamente non verrebbero
mai a contatto con la fede cristiana.
La frequenza dei passaggi del missionario dipende dalla
vastità del territorio e dal numero dei padri. Noi qui a
Mahanoro possiamo sì e no vedere 3/4 volte l’anno le nostre
cristianità. È durante questi viaggi che proviamo le gioie più
intime e i dolori più profondi. Si viene a sapere di certi
catecumeni morti senza il battesimo. Come si fa ad avere pace
quando si viene a sapere che due, tre, quattro bambini sono
stati portati via dalla morte senza essere stati lavati dall’acqua
rigeneratrice! Poveri frugoletti, non avranno mai la gioia del
Paradiso! E allora noi missionari siamo presi da tanta tristezza
e proviamo tanta invidia per le cristianità europee, le quali
hanno la grazia di Dio a portata di mano e non se ne rendono
conto e non l’apprezzano in tutto il suo valore. Quanti sacerdoti
in Italia! Se noi avessimo potuto passare solo una o due volte in
148
più, penso che a questo momento ci sarebbero tanti angioletti
in più in Paradiso…”.
Notizie sulla storia della missione di Ilaka
P. Carlo Berton racconta come è nata la sua missione di
Ilaka.
“…A circa 180 Km. a sud di Tamatave e a 6 Km. dalla
costa dell’Oceano Indiano, sorge Ilaka. Le capanne e alcune
costruzioni europee si allineano sulla sponda sinistra del fiume
Manampontsy. Per gli amanti di filologia, Ilaka è il nome di un
albero malgascio e la denominazione Est è posta per
distinguere il villaggio da un altro omonimo situato nel
territorio dei Retsilao.
L’evangelizzazione di Ilaka non è tanto lontana nel
tempo. La prima S. Messa fu celebrata qui 36 anni fa,
precisamente il 14 agosto 1921 dal P. Vincent Cotte,
premostratense. Questo padre, sceso da Vatomandry, si fermò a
lavorare assai in questo paese. Con l’aiuto dei primi
catecumeni portò a termine la costruzione di una chiesa in
legno con accanto una baracca per il missionario di passaggio.
L’opposizione dei pagani, specie all’inizio, fu tenace.
Proprio nel prato accanto alla chiesa, venivano a eseguire balli
e gazzarre indiavolate. Queste piccole scaramucce di Satana
non impedirono la crescita dei numero dei cristiani. Costoro
seppero mostrasi generosi nelle necessità del missionario.
Nei primi mesi del 1947 scoppiò la rivolta malgascia. Il
movimento era in tutta l’isola, ma si manifestò apertamente
solo nella costa orientale e quasi esclusivamente nella grande
tribù Ritsimisaraka. Il movimento d’insurrezione era analogo a
quello dei Mau Mau: cacciata dei bianchi e ritorno alle pratiche
ancestrali. Il periodo cruciale si ebbe da aprile a luglio 1947.
Orde selvagge, aizzate dagli stregoni, scorrazzavano un po’
ovunque sulla costa, dando la caccia al bianco. Già erano state
le liste dei missionari condannati a morte. Le residenze
149
missionarie isolate vennero abbandonate e i missionari si
rifugiarono nei grandi centri protetti dalle forze dell’ordine.
Ilaka era uno dei centri dei capi ribelli. Della chiesa e
della baracca dei missionario non rimase che un cumulo di
cenere. C’è stata la caccia ai cattolici e fu vietata qualsiasi
manifestazione religiosa.
Spento il fuoco della persecuzione e scossa la cenere
della paura, i cristiani rifecero la loro comparsa. I Padri
Monfortani ritornarono a visitare la popolazione e ad
incoraggiare i fedeli. Il numero crescente dei cattolici e dei
catecumeni impose una residenza fissa di missionari. Così nel
1950 i cristiani di Ilaka ebbero la gioia di avere nel loro
villaggio in maniera stabile i missionari”.
Storie di avventure missionarie
Di avventure missionarie parla anche P. Alessandro
Assolari:
“...Non molto tempo fa, alla fine di un lungo viaggio
missionario, mi fermai a Masomeloka, da dove avrei dovuto
proseguire alla volta di Mahanoro. In seguito ad un
contrattempo dovetti restare due giorni ad attendere insieme ad
un confratello. La casa (!) di Masomeloka è abbastanza famosa
per i suoi topi. Anche i più abituati devono aspettarsi ogni notte
qualche ora di sonno persa.
Giunta la sera, feci sistemare il mio lettuccio: un
materassino, un lenzuolo ed una coperta. Siccome la
stanchezza era molta contai di prendere sonno con una relativa
facilità. E così fu. Se non che ad un certo punto la corsa di un
topo impazzito mi richiama alla realtà. Non dissi nulla, anche
perché ero al corrente della faccenda. Mi abbandonai
tranquillamente al sonno. Ma non ero ancora entrato nel mondo
dei sogni quando sento strisciare vicino a me qualcosa di
strano. Non fanno così i topi, pensai. Proprio non avevo l’idea
di che si trattasse.
150
Al mattino, dopo la celebrazione della S. Messa,
rientrando in stanza volli rendermi conto un po’ della faccenda.
Guardai dietro l’armadio. Brrr! C’era un serpente che mi stava
fissando con occhi impauriti…”.
Quando la gente perde la fiducia
P. Remigio Villa scrive per lanciare un appello: “...La
gente perde fiducia. Non c’è la Chiesa Cattolica, allora
pregheranno in quella Protestante che è vicina e va avanti bene.
C’è di peggio: dei bambini cattolici, non avendo altra
possibilità, sono entrati nella scuola protestante per imparare a
leggere e scrivere. Potete immaginare con quale danno
spirituale. E chi più li afferra in seguito? Ci sono anche le
scuole senza religione alcuna e in esse le menti dei piccoli
vengono avvelenate da idee politiche false ed esaltate…
Amici cari, rispondete voi a questo appello accorato che
un povero missionario vi lancia dall’Africa? Sono sicuro che
farete qualcosa.!”
Perché preferisco il “cavallo di San Francesco”
P. Rizzardo Omizzolo ci aggiorna sul suo ultimo viaggio
apostolico “sul cavallo di S. Francesco”.
“...Debbo spiegarvi perché ho preferito andare a piedi:
per guadagnare tempo! Sembrerà un paradosso, ma per il
missionario, come nel caso mio, è verità dimostrabile a fil di
logica.
Quando vado a piedi, ho tutto il tempo di seminare le
“Ave Maria” del mio Rosario intero quotidiano per tutti i
sentieri, in fondo alla valli o in cima ai monti, o nel folto delle
foreste. Ho tutto il tempo di recitare il mio Breviario, che in
queste circostanze trovo più sostanzioso che mai. Quante
espressioni dei Salmi s’inquadrano a meraviglia nel nostro
ambiente malgascio! Ogni giorno ci trovo nuove idee
151
profondissime che altre volte mi passavano quasi inosservate.
Così, quando giungo al seguente villaggio ho tutto il tempo per
intrattenermi con la gente, studiare il malgascio e imparare la
lezione catechistica e il sermoncino per la riunione della
sera…”.
Ancora notizie sulla missione di Ilaka Est inviate da P.
Carlo Berton.
“… Il territorio dipendente da questa residenza
comprende, secondo la divisione francese, 6 Cantoni,
corrispondenti a circa 6 Province Italiane. Non so ancora quanti
Kmq. comprenda, pur chiedendolo ai funzionari. Conoscono il
territorio meno dei missionari.
La popolazione è di 35.000 anime. Sparsa in piccoli
villaggi, spesso staccati d’una decina di chilometri tra loro.
Questo territorio si può dire ancora vergine per il Vangelo. La
popolazione è quasi tutta pagana.Oltre ad alcuni centri di
protestanti di varie denominazioni, vi sono 3.000 cattolici.
Finora i missionari sono riusciti a penetrare in 120 villaggi; non
perché sia difficile penetrarvi, ma solo perché insufficiente il
numero dei missionari.
In ognuna di queste 120 cristianità sorge una chiesetta,
spesso una semplice capanna, dove i cristiani si radunano
settimanalmente. In ogni villaggio v’è un presidente della
cristianità ed un catechista. Viene eletto catechista colui che nel
villaggio sa leggere, essendo molti coloro che sanno leggere
nella “brousse”, in alcune comunità abbiamo per catechisti
delle donne e non mancano dei catechisti ancora pagani!
In questo vasto territorio il missionario deve
continuamente girare per visitare le cristianità. Il mezzo
principale: il cavallo. Uno dei più grandi amici del missionario
è appunto il cavallo. Con lui il missionario condivide fatiche e
sudori. Questo bravo animale deve trottare, sotto il sole o sotto
la pioggia, salire le forti rampe delle montagne e passare a
nuoto o a guado i fiumi ed i torrenti che sbarrano la via. Alcune
152
volte, per raggiungere una regione da visitare, occorrono due
giornate di marcia, ed il cavallo deve sorbirsele senza fiatare,
per non assaggiare il frustino del cavaliere. Per un posto
missionario, già 120 villaggi sono molti: si riesce a visitare il
territorio tre o quattro volte l’anno. Potete immaginare in quale
stato si possono trovare i cristiani con delle visite così
distanziate!
Il Santo Curato d’Ars diceva: “Lasciate un paese senza
sacerdote per 10 anni e sarà pagano”. Si può quindi
immaginare come sia lenta l’evoluzione e la trasformazione di
queste masse pagane, con delle visite fugaci ed a lunga
scadenza. Alle volte ci si domanda come non diventino di
nuovo pagani queste piccole comunità di cristiani, viventi in
una società pagana!
Qui tutto è pagano e intessuto di riti pagani: la vita in
tutto il suo svolgersi dalla vita alla morte, il lavoro, i viaggi ed
ogni manifestazione di gioia o di dolore. Bisogna riconoscerlo:
più che il lavoro del missionario vi è la grande opera della
grazia. Lo Spirito Santo, disceso col battesimo nel cuore di
questi neofiti, non vi dimora inoperoso: lavora infinitamente
più del missionario.
In ogni villaggio ci si ferma una sola giornata, ed in
questo brevissimo tempo bisogna fare entrare il viaggio spesso
di varie ore, istruzioni, esami di catechismo, battesimi,
matrimoni da preparare, confessioni, soluzioni dei problemi
della comunità cristiana. Non si è ancora finito che bisogna
ripartire e di ritornerà fra tre o quattro mesi! Senza l’opera della
grazia non rimarrebbe nulla…
Alle volte arriva alla missione una delegazione di un
villaggio pagano: Noi vogliamo pregare con i cattolici.
Desideriamo la chiesa, un catechista, la visita e l’istruzione del
missionario e, se possibile, una scuola. Se non venite voi
andiamo dai protestanti!”.
Se è uno strazio per il cuore di un padre sentire la voce del
figlio chiedergli il pane e non poterlo accontentare, cosa deve
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provare il missionario, quando tanti figli gli chiedono il pane
della luce e della verità e non può esaudirli?”.
154
1958
L’arrivo del missionario è sempre atteso
Verso la fine dell’anno giunge la notizia della nomina a
vescovo di Tamatave di Mons. Giulio Puset.
Consacrazione di Mons. Giulio Puset
P. Rizzardo Omizzolo scrive: “...Ho avuto il piacere di
assistere alla consacrazione episcopale di S.E. Mons. Giulio
Puset, Vescovo di Tamatave, avvenuta il 26 gennaio, nella
grande chiesa parrocchiale di N. S.di Lourdes, dove l’eletto
aveva esplicato per tanti anni il suo apostolato.
Da tutti gli angoli dell’immensa diocesi, Padri, Fratelli e
Suore della Sapienza affluirono alla Capitale della costa
orientale, unitamente a rappresentanze di fedeli dei singoli
distretti. Credo che Tamatave non abbia mai registrato in
passato una simile affluenza di folla estranea.
Già una settimana prima della data della consacrazione,
gli alberghi e le pensioni tutte accusavano il tutto esaurito e
non era facile trovare una sistemazione per dormire, neppure
nelle case d'amici. Molti pellegrini dovettero essere alloggiati
nelle scuole e nelle sale delle opere parrocchiali. Del resto,
essendo qui il pieno dell’estate, anche la previsione di dormire
sotto le tende o all’aria aperta, non avrebbe spaventato alcuno.
Per la città di Tamatave, la data del 26 gennaio
rappresentava un avvenimento eccezionale ed unico: la prima
consacrazione episcopale sul posto. S. E. Mons. Le Breton,
predecessore di Mons. Puset, era stato consacrato in Francia
come Vicario Apostolico di Vatomandry, con residenza
abituale a Mahanoro. Solo in seguito si trasferì a Tamatave, che
venne poi eletta sede episcopale residenziale, quando venne
istituita la gerarchia ecclesiastica nella Grande Isola, nel 1956.
Ma solo pochi mesi dopo la sua presa di possesso, Mons. Le
155
Breton, a causa della sua malferma salute, chiedeva al Papa di
venire esonerato dalla gravosa carica.
Le sue dimissioni furono accettate, a patto che rimanesse
in luogo come Amministratore Apostolico, fino alla nomina del
successore. Nel Concistoro del 7 dicembre 1957, il Sommo
Pontefice fece annunciare la nomina a Vescovo di Tamatave di
Mons. Puset, già Vicario Generale della medesima Diocesi.
La nomina fu accolta con grande giubilo da tutti i fedeli,
che ben conoscevano l’eletto, avendo egli per quasi vent’anni
percorso tutti i luoghi della Diocesi come semplice
missionario, come direttore delle scuole cattoliche, come
Superiore Regionale e poi come Vicario Generale. Tutti
conoscevano quindi il suo carattere gioviale, l’andatura
giovanile e la sua perfetta padronanza della lingua malgascia. I
giornali, a nomina avvenuta, si prodigarono in felicitazioni e in
elogi.
La grande cerimonia della consacrazione si svolse nella
chiesa parrocchiale di N.S. di Lourdes, prevedendo che la
Cattedrale di S. Giuseppe, che pure è una grande chiesa a tre
navate, non avrebbe potuto ricevere che una parte delle
Autorità e degli invitati muniti di biglietto speciale...Ma
bisognava pensare ai fedeli ed ai pellegrini venuti da lontano.
La chiesa di Lourdes si prestava a ricevere più di duemila
persone nel banchi e molte altre sulla tribuna o lungo le
navate…
Vescovo Consacrante fu lo stesso Mons. Le Breton,
mentre come vescovi Assistenti funzionarono Mons. David e
Mons. Rolland. La cerimonia si svolse in modo impeccabile e
veramente grandioso: tutti erano visibilmente commossi nel
fondo dell’animo. La commozione giunse al suo culmine
quando, alla fine della concelebrazione della S. Messa, il nuovo
Vescovo, rivestito di tutte le insegne episcopali, percorse la
grande navata impartendo ripetutamente la benedizione alle
due fitte ali di popolo, che si riversò poi nel grande viale per
assistere al corteo dei Vescovi e delle Autorità che
156
accompagnarono il Neo Consacrato fino al grande cortile del
Collegio femminile diretto dalle benemerite Suore di S.
Giuseppe di Cluny..
Per la terza volta, il 2 aprile, da Venezia, parte per il
Nyasaland P. Giovanni Giavarini. Lo accompagna P. Francesco
Valdameri, alla sua prima esperienza missionaria .
Vincenzo ha finalmente la sua carrozzella
Ricordate l'appello lanciato da P. Alessandro Assolari per
una carrozzella da regalare al povero Vincenzo? Il miracolo si
è avverato. È arrivata finalmente dall’Italia, regalo di alcuni
benefattori.
“...Nel pomeriggio di domenica, Vincenzo si presentò
pulito e vestito meglio che poteva. E dopo la Messa Cantata ci
fu la benedizione della carrozzella e… seduto comodo e felice
sulla sua nuova macchina, Vincenzo sorrise ai suoi cari
benefattori.
Lasciai per quel giorno a Vincenzo la gioia di provare la
sua nuova macchina perché non si trovasse troppo impacciato
nel giorno della consegna fissata per la prossima domenica.
Non vi sto a dire la meraviglia che produsse nel villaggio
l’apparizione di quella bella carrozzella, mai vista prima di
allora… e anche Vincenzo non riusciva a star quieto, avanti e
indietro tre o quattro volte per la medesima strada…”.
Sempre gradito ed atteso l’arrivo del missionario
P. Tarcisio Betti c’informa sulla sua vita missionaria.
“...Ciò che in Europa si chiama parrocchia, in Africa si chiama
missione. È un territorio con la residenza missionari al centro e
un raggio di venti, trenta o quaranta chilometri. I neri non
vivono in grossi aggruppamenti, sparpagliati un po’ ovunque in
piccoli villaggi che possono variare da una decina di capanne a
157
venti o trenta. La residenza missionaria comporta una casa, una
chiesa, una scuola.
Qui si fa una specie di vita parrocchiale, con la Messa
ogni domenica e altre celebrazioni come Benedizione, Primo
Venerdì e Sabato del mese ecc..
Il missionario in residenza fa il catechismo, visita gli
ammalati dei dintorni, riceve i cristiani che vengono a
lamentarsi di difficoltà di famiglia, visita le scuole, fa il lavoro
di ufficio che non è mai finito, dato il gran numero dei cristiani
che nascono e muoiono e la cattiva abitudine che i neri hanno
di cambiare il nome.
Se i missionari potessero restare sempre alla missione le
cose sarebbero piuttosto facili, ma si deve girare in lunghi
viaggi in villaggi sperduti. Non potendo i cristiani venire tutti
alla missione per i Sacramenti, bisogna andare a trovarli nei
loro villaggi e così l’uno dopo l’altro i Padri devono prendere
l’altare portatile su una moto o bicicletta o sulla testa di un
nero, e andare di villaggio in villaggio per celebrare,
amministrare i sacramenti, visitare gli infermi e le scuole e
cercare di rimettere pace nelle famiglie dove è entrato il
disaccordo.
L'arrivo del missionario è sempre atteso e accolto con
grande giubilo. È il più grande avvenimento per il villaggio.
L’arrivo del missionario bianco è quasi sempre festeggiato con
canti e danze, non solo da parte dei cattolici ma anche dai
pagani.
I cristiani sono preparati a ricevere la confessione e
comunione. Viene loro impartita una lunga istruzione, specie
per aiutarli a sbarazzarsi di tanti costumi e credenze pagane,
Tante volte un buon tamburo serve da tribunale di penitenza.
Delle buone vecchiette vengono a confessarsi facendo
grandi inchini e genuflessioni e poi annunciano che non sono
più capaci di peccare e aspettano solo di essere chiamate per
andare a stare con Amai Maria, la madre Maria, su in Paradiso.
158
Un grande mortaio con sopra l’altare portatile serve da
altare, che si erige nella scuola se è abbastanza vasta, o sotto
una grande pianta. Tutto il villaggio assiste alla Messa; anche i
pagani e i protestanti per curiosità.
Dopo la S. Messa parecchie volte i cristiani hanno delle
domande da fare. Un giorno, un tale, essendo morto un uomo,
era preoccupato della forma dell’anima; sapendo che in morte
il corpo resta nella tomba e l’anima se ne va a Dio, domandò
molto innocentemente come in Paradiso si potrà distinguere le
anime degli uomini da quelle delle donne.
Un altro mi presentò un’immaginetta dell’Annunciazione
e volle delle spiegazioni sull’Angelo alato che portava il
messaggio celeste alla Madonna. Perché quell’Angelo aveva
delle ali come le galline? E non è venuto in aeroplano? E
voleva assolutamente sapere il nome e cognome dell’uomo che
aveva visto quell’Angelo per descriverlo così bene…
Per capire un po’ la ragione di queste domande bisogna
notare che i nostri cristiani vivono in mezzo ai protestanti, per i
quali la Bibbia è il solo libro al quale fanno dire tutto quello
che passa per la loro testa.
Dopo la Messa nei villaggi si passa ai battesimi dei nuovi
arrivati, e qui è tutto un affare. C’è anzitutto la scelta del nome.
Una dice: mio figlio si chiamerà Gologolio: Mai incontrato
questo nome, ma dopo un po’ di discussioni vengo a sapere che
vogliono dire Gregorio. Un’altra dice: mia figlia si chiamerà
Malata. Io dico che non c’è una Malata in Paradiso. Alla fine
vengo a sapere che significa Marta.
Non avendo poi nessuna assistenza medica, le povere
madri devono affidarsi agli stregoni per proteggere la vita dei
loro bambini, e gli stregoni sono generosi in medicine da legare
alla gambe, alla vita e al collo dei morettini.
Generalmente lasciano fare ai missionari e col coltello si
tagliano via tutte queste medicine, ma qualche madre vuol
protestare, fa gli occhiacci, piange, strepita, vuole scappare e
bisogna ritenerla con la forza. Se la cristiana torna a casa, dove
159
l’aspettano i parenti pagani, col bimbo senza medicine, sono
guai per la povera madre…
Terminato tutto questo, si porta la Comunione ai malati
che non hanno potuto venire alla Messa. Poi si torna al
villaggio. Sono le dieci o anche le dodici, ora del pasto che vale
per la colazione del mattino e il pranzo di mezzogiorno. Spesse
volte un piccolo tavolo, sul quale è deposta una fumante
polenta bianca che si mangia senza intralci di forchetta,
cucchiai e coltelli. Le dita sono le migliori posate e costano
poco!
Infine si va a fare un’ispezione alla scuola, dove il
catechista sta insegnando. Bisogna vedere se i ragazzi
frequentano la scuola, se imparano il catechismo, specialmente
i catecumeni. Questi ultimi sono sempre i più fedeli alla scuola,
perché sanno che senza questo non saranno ammessi al
battesimo.
I più benestanti e i più furbi scrivono servendosi di
lavagnette che hanno comperato alla missione; altri usano
mezzi più rudimentali: accoccolati per terra si fanno un piccolo
quadrato liscio con della polvere fine e lì risolvono i problemi
di aritmetica e stampano le lettere dell’alfabeto.
Visitata così la scuola e fatte le debite osservazioni e
raccomandazioni sono canti e grida di saluti e auguri di presto
arrivederci ancora… Si parte per un altro villaggio, e poi un
altro ancora per giorni finché si ritorna alla missione da dove si
ripartirà poco dopo per altri villaggi. Così il buon seme è
gettato nel solchi, la guerra contro Satana è combattuta e i
poveri selvaggi dell’Africa sono indirizzati verso la casa del
Padre Celeste”.
A caccia di animali e di… anime!
P. Rizzardo Omizzolo parla di caccia di animali e di…
anime.
160
“… La storia della caccia al serpente mi ha fatto perdere
il filo del discorso che iniziava col titolo “Alla caccia di anime
fedeli”. Scusate! Giovedì 2 luglio, mentre i nostri Apostolini a
Redona sciamavano dalla Scuola Apostolica per andare a
godere le vacanze in famiglia, il sottoscritto accompagnato dal
fido accompagnatore si metteva in marcia per una passeggiata
di soli 10 giorni, per visitare altrettanti villaggi nella brousse.
Io, come d’abitudine, ho marciato quasi sempre a piedi:
arcicontento il mio piccolo compagno di viaggio, fiero in
arcione sul bel cavallo come un imperatore.
I due portatori, legata la mia cassetta nel bel mezzo di un
grosso e lungo bambù, e appoggiato questo sulle loro spalle,
trotterellando allegramente malgrado la pioggia intermittente e
la pista viscida di fango. Dopo due ore e mezzo di marcia, tra
due fitte ali di foresta vergine, la prima mèta è raggiunta: 13
chilometri. Per le mie snelle gambette rimaste agili e robuste
come quelle di un giovanotto ventenne, quella distanza non
rappresenta che una passeggiata di piacere.
I pochi cristiani del villaggio erano già adunati accanto
alla chiesetta di legno e giunchi, e al mio arrivo mi hanno
accolto col loro festoso canto. Una breve visitina alla cappella,
una corta preghiera seguita dalle prime parole di saluto ai fedeli
e disposizioni per l’adunata della sera. Poi conducono il Padre
e il suo seguito alla capanna destinata alla sua abitazione
momentanea, e servono un fumante e squisito caffè, tanto più
gradito in quanto il tempo è piuttosto freddo e gli abiti
inzuppati d’acqua e inzaccherati di fango.
Alle 17.00, recita del S. Rosario, con l’annunciazione dei
misteri in canto. Segue la predica del Padre, ordinariamente
una lezione pratica di catechismo e lettura e commento di
qualche pagina evangelica. Dopo di che, quelli già ammessi
alla Comunione e che non ne sono esclusi per cattiva condotta
palese, si preparano alla Confessione e ricevono l’assoluzione.
Al mattino seguente si celebra la S. Messa e si distribuisce la S.
Comunione seguita da convenienti preghiere di ringraziamento.
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La visita alla cristianità e virtualmente finita. Si
esaminano casi speciali, talvolta delicati; si controllano le liste
dei fedeli, rimasti veramente fedeli, e dei catecumeni. Un sorso
di caffè, qualche cucchiaio di riso bollito in acqua insipida, si
dispongono i bagagli e ci si rimette in marcia. Ogni tragitto e
ogni permanenza hanno più o meno la stessa storia. Perciò vi
faccio grazie dei dettagli singoli, che pur danno un colorito ad
ogni circostanza, almeno per noi che siamo sul posto”.
Uno era il mio amato Giorgio...
P. Vittorio Crippa parla delle sue disavventure: una
passeggiata notturna.
“...Un caldo da crepare questa notte! Dopo cena, mi
riposavo un po’, fuori casa, contemplando il cielo e riandando
con il pensiero alle due persone cui avevo amministrato gli
ultimi sacramenti durante il giorno. Uno era il mio amato
Giorgio.
Veramente bravo e ottimo ragazzo che fino a due giorni
prima giocava e saltava come un agnellino.
All’ospedale, dove venne ricoverato per un forte colpo di
sole, insistette presso la mamma per essere portato a spalle fino
alla missione perché diceva: ho bisogno di Gesù! La buona
donna si caricò il suo amore sulle spalle e faticosamente divorò
sette chilometri. Giorgio stette a lungo davanti al tabernacolo,
tutto assorto nella preghiera. Io non ero ancora tornato dalla
visita ad un’ammalata. Rientrando mi trovai una donna
accoccolata sulla porta di casa, piena di tristezza. “Moni
Bambo, il mio Giorgio ha bisogno di te”.
Lo trovai in un angolo della chiesa oppresso dal male,
con il respiro affannoso, con gli occhi estatici, fissi al
tabernacolo, le labbra atteggiate a sorriso. Non osavo toccarlo,
era così bello!
- Giorgio, che fai qui? Sei molto malato? Che cosa vuoi?
- Che il Signore mi prenda con sé! Mi confessa, Padre?
162
A stento potei ascoltare la sua confessione. Che occhi! Che
Angelo!
- Adesso, Padre, sono contento, posso partire…
- Sì, ti porto pian piano all’ospedale con la mia moto.
La madre ci seguiva a piedi, assorta nel suo dolore e con
un triste presentimento nel cuore. All’ospedale gli feci fare
delle applicazioni d’acqua fredda e somministrare sulfamidici,
ma lui continuava a ripetermi: Bambo, non mi lasciare, tu mi
devi accompagnare da Gesù. Mi chiese parecchie volte la
benedizione mentre la mamma recitava il Rosario. Alla
quattordicesima posta, il mistero dell’Assunta, Giorgio con
voce angelica esclamava: “Santa Maria, prega per noi, adesso e
nell’ora della nostra morte”. Era l’appuntamento. Giorgio
sorrise e stringendo il Crocifisso della mia corona, spirò. Era
andato a far corona alla Regina degli Angeli...
Consegna del Crocifisso a due nuovi missionari
Nel santuario di Maria Regina dei Cuori, S.E. Mons.
Giuseppe Piazzi il 7 ottobre, ha consegnato il Crocifisso a due
giovani missionari monfortani: P. Francesco Valdameri e Fra
Paolo Pesenti, partenti per l’Africa. P. Valdameri, giovane
sacerdote di Pieranica (Cremona), è partito il 15 ottobre per il
Vicariato Apostolico di Zomba. Più tardi Fra Paolo Pesenti,
Fratello coadiutore di Laxolo, partirà per l’isola di Madagascar
Dopo un periodo di vacanze operose in Italia, per la
seconda volta P. Vittorio Crippa riparte per la sua missione di
Cholo (Nyassaland).
Sua maestà il riso
P. Carlo Berton, in una corrispondenza dalla sua
missione, invia preziose informazioni su “Sua maestà il riso”.
“… Se per caso qualcuno non ama il riso, che non gli
venga l’idea di venire a fare il missionario nel Madagascar. I
163
malgasci non possono pensare ad un pasto senza il riso; senza
il riso non possono vivere e non c’è alcun altro cibo capace di
sostituirlo. Ricordo ancora come a bordo del “Labourdonnais”
dei malgasci assai evoluti, finito il pasto all’europea,
chiedevano il riso, perché non si sentivano sazi.
Il riso bollito nell’acqua e senza sale, viene posto su una
piccola stuoia al centro della capanna.In un altro piccolo
tegame vi è il condimento fatto di erbe più o meno amare e
piccanti.
Accoccolata per terra, accanto alla stuoia, tutta la
famiglia mangia in silenzio. Ognuno è munito di una foglia di
ravenale o di banana, piegata a forma di cono. Riempita di riso
si porta alla bocca, rivolta al soffitto e non si ribassa la testa
finché tutto il riso è sparito. Per il missionario tutto è lo stesso,
solo che come segno di civiltà porta il cucchiaio.
Finito il riso, con una foglia un po’ più allungata, si beve
l’acqua versata nella pentola ancora calda dov’è stato bollito il
riso. Quest’acqua poi prende tutti i colori, a seconda dello stato
di pulizia della pentola.
A colazione, non essendovi condimento, il riso è cotto
con molta acqua e così rimane più tenero e non si rimane
ingozzati. Caffè, tè, e tutti i frutti non vengono mai consumati
durante i pasti dai malgasci. Ogni malgascio prende il caffè in
media 2 volte al giorno, al mattino e nel pomeriggio. In tournée
lo si beve almeno tre volte al giorno.
Quando manca lo zucchero, pestano in un piccolo
mortaio le canne da zucchero ed il caffè è zuccherato. Portando
il caffè al missionario, spesso, la vecchia che lo porta beve
prima di voi, alle volte nella stessa tazza, per assicurarvi
dell’assenza di veleno nella bevanda. Altre volte per
dimostrarvi che la tazza è pulita, vi versano alcune gocce
d’acqua e poi vengono a lavarla davanti a voi, introducendovi
le dita e strofinando l’interno, piene di soddisfazione. L’acqua
che ne esce pare già del caffè. Per fortuna quella non si beve.
164
Non vi parlo dei magnifici frutti propri dei tropici, quali
ananas, banane, papaie, mango e non continuo la lista perché
avete già l’acquolina in bocca. Grazie a Dio ve ne sono in
abbondanza. Vi sono però delle leccornie proprie dei malgasci.
Un giorno vengono dei ragazzi a portarmi un piatto
prelibato: delle cicale arrostite. Non so cosa inventai per
scusarmi di non prenderle, ma ricordo il loro sorriso, mentre le
facevano croccare sotto i denti, con lo stesso piacere dei
ragazzi europei quando mangiano il torrone.
Altre cose prelibate sono una specie di ghiri che
arrostiscono con la pelle, una specie di cavallette e delle larve
di vespe.
Tenuti ad un sì perfetto regime nessun missionario è
ancor morto di fame, come pure nessuno ha raggiunto le
dimensioni dell’uomo cannone, il ché sarebbe un guaio per il
povero cavallo che lo dovrebbe portare…”.
P. Vittorio Crippa, ripartito per la sua missione, scrive:
“...Da Venezia abbiamo avuto un viaggio buonissimo. Un mare
molto giudizioso, specie il Mar Rosso. A Port Said, nostro
primo dovere fu quello di andare a rendere omaggio alla
“Regina Mondi”, nel suo splendido santuario voluto dal grande
Papa delle missioni, Pio XI, che volle collocare la Madonna
all’inizio del continente nero, quale Padrona e Regina. Ai suoi
piedi pregammo a lungo e consacrammo tutti i nostri apostolici
ideali.
Accanto a quella maestosa cattedrale mariana, per
dispetto, fu costruita una bellissima moschea, che ha impedito
ai cattolici di collocare la bella statua della “Regina Mundi”
sulla torre campanaria, perché avrebbe sorpassato il minareto.
Un giorno, però, la Madonna vincerà, poiché, mi diceva un
buon padre francescano, i Maomettani nel loro fanatismo
temono i cattolici proprio per la loro grande devozione alla
Madonna.
165
Sulla nave viviamo da veri signori. Qui abbiamo fatto
molti amici e la maggior parte di questi sono ebrei… Al
mattino presto la nave si trasforma in una piccola cattedrale, ci
sono una trentina di messe…”
Prime impressioni di un nuovo missionario
P. Francesco Valdameri
racconta le sue prime
impressioni missionarie.
“...Il viaggio è riuscito benissimo, con novità e bellezze
indimenticabili. Il mio Vicario Apostolico mi ha inviato nella
missione di Mpiri, dove ci sono due missionari: uno inglese e
uno americano: ci manca poco per formare l’ONU.
Questa missione ha quasi 30 Km. di estensione nella
lunghezza, ancora tutta boscaglia, in mezzo alla quale si
trovano qua e là i villaggi dei neri. Per raggiungere questi
villaggi non ci sono che sentieri, molti dei quali inaccessibili
con la moto. Non so ancora di preciso quanti neri ci sono in
questa missione, circa 100.000, mussulmani la maggior parte e
solo 5.000 cristiani.
Sparse qua e là ci sono chiese e scuole succursali, molte
delle quali sono ancora di fango e paglia. Come si vede, per tre
missionari, in una parrocchietta come questa, il lavoro non
manca…
Ecco la mia prima avvenuta. Portavo a Mpiri, con un
camion, i miei bauli, avevo con me due neri, uno guidava e
l’altro se ne stava seduto sui bauli. A metà strada ci ha sorpreso
un temporale numero uno. Fulmini, vento fortissimo, pioggia
torrenziale.. Erano le tre del pomeriggio e non ci si vedeva più
niente. Ad un certo punto un gigantesco albero si rovesciò sulla
strada. Per poco non ci ha schiacciati: il nero aveva fatto
appena in tempo a frenare la macchina. Intanto si aspettava che
cessasse il temporale per rimuovete l’albero. Ho potuto
assistere ad un’altra scena molto più divertente. Si vedevano i
tetti delle capanne svolazzare qua e là, portati dal vento.
166
Terminato il temporale abbiamo dovuto lavorare più di
due ore per liberare la strada. Con l’aiuto del camion al quale
avevamo legato l’albero e dei neri, venuti da un villaggio
vicino, riuscimmo a superare l’ostacolo. Un’avventura come
questa ci voleva come ricordo della mia entrata nella missione
di Mpiri”.
Masanjala: la mia nuova missione
P. Vittorio Crippa presenta la sua “nuova” missione .
“..Masanjala: ecco la mia nuova missione. Sono tutto solo. Ho
appena terminato di sistemare una capanna in attesa di mettere
mano ad altre opere quale la casa, soprattutto la chiesa che già
esiste, ma a dire il vero avrei preferito che non ci fosse stata,
tanto è malandata e pericolante. Ogni volta che entriamo
dobbiamo fare un atto di contrizione perfetta per la paura di
essere sorpresi da qualche mattone o palo.
Questa nuova missione non è altro che la divisione della
vastissima missione di Nguludi. La parte affidatami si
circoscrive in un raggio di una trentina di chilometri. Vi sono
più di 10.000 cristiani e circa 80.000 tra pagani e protestanti.
Come di vede non c’è da dormire!…
L’8 dicembre ho cercato di solennizzare la festa
dell’Immacolata nel miglior modo possibile. Ho dedicato la
missione all’Immacolata, consacrandola tutta a Lei. Subito
dopo la funzione mi si è presentato un grande capo della setta
scozzese, dicendomi che da tempo voleva farsi cattolico e che
dopo aver sentito parlare così bene della Madonna non aveva
più nessuna titubanza. Volle assolutamente essere iscritto tra i
catecumeni che entreranno fra qualche mese nella Chiesa
cattolica. Si può immaginare la mia gioia nel constatare una
vittoria della Madonna così bella, proprio all’inizio di questa
nuova missione a Lei dedicata…”.
167
Aiuto! Aiuto!
P. Antonio Marchesi dal Madagascar va gridando: Aiuto!
Aiuto!:
“...Da pochi mesi sono diventato Direttore della Missione
di Ambinanindrano. Sono in mezzo a mille difficoltà. Ho
bisogno di tutto. Perciò vado gridando a tutti: aiuto! aiuto! Lo
so che neppure voi nuotate nell’abbondanza, ma la vostra
situazione sarà sempre migliore della mia che nuoto nella
miseria. Pensate: devo rifare tutti i tetti della chiesa, della casa
e adiacenze. Tutti quest’anno.
In mancanza di meglio debbo rifarli in foglie, le foglie di
palma. Qualcosa come 100.000 foglie, lunghe da 2 a 3 metri. E
poi… ho già radunato dei ragazzi e ne cerco ancora. Li tengo a
mie spese, preparandoli per il seminario. Ho solo un po’ di riso,
ma i vestititi...sono quasi in costume adamitico… Qui ho
bisogno estremo di ogni genere di stoffa…”.
168
1959
Quando sorgerà una missione tutta italiana?
Il 13 febbraio è partito da Marsiglia per il Madagascar
Fratel Paolo, primo tra i fratelli coadiutori italiani a partire per
le terre di missione.
Ci si interroga: quando sorgerà una missione italiana
monfortana?
“… Era l'aprile del 1955. S. E. Mons. Alano Le Breton,
l’allora Vescovo di Tamatave era a Roma per la sua visita
ufficiale al Santo Padre. In seguito, in un suo colloquio con il
rev.mo P. Generale, dove esponeva lo stato attuale della
missione, mise in chiaro l’urgente bisogno di personale.
Rivoltosi in un primo tempo al P. Provinciale di Francia,
il Generale ricevette una risposta negativa. Essendovi però
necessità urgente, decise di rivolgersi al nostro P. Provinciale,
esponendogli il desiderio del Vescovo missionario. Fu così che,
d’accordo con la Sacra Congregazione De propaganda Fide il
R.P. Provinciale decise d’inviare tre Padri italiani nella lontana
isola del Madagascar, con l’intenzione di fondarvi più tardi la
prima missione monfortana esclusivamente italiana.
Per questo, il 3 dicembre dello stesso anno, festa del
Protettore delle missioni, a bordo della “Fernando Lesseps”,
partirono i nostri cari Padri Rizzardo Omizzolo, Alessandro
Assolari ed Emilio Nozza, verso l’Isola Rossa.
Arrivati il 23 dicembre a Tamatave, furono cordialmente
accolti dal Vescovo e dai confratelli francesi e nella medesima
città trascorsero le feste natalizie.
Il 27 dello stesso mese, poi, a bordo di una jeep partirono
per Mahanoro, dove giunsero accolti dalle grida di giubilo della
popolazione e dagli affettuosi abbracci dei confratelli francesi:
accoglienza che 23 anni prima aveva fatto ai primi Padri
francesi, capitanati da Mons. Le Breton, allora semplice
missionario.
169
Ad essi furono affidate tre diverse missioni: a P.
Rizzardo Omizzolo Marolambo, a P. Alessandro Assolari
Mahanoro, a P. Emilio Nozza un villaggio sperduto in mezzo ai
monti, a circa 140 Km. più a sud, Ambolilafa.
Ai primi di novembre 1956, P. Pietro Valsecchi e P.
Carlo Berton, pure loro, partirono per il Madagascar. A P.
Pietro Valsecchi fu affidata la missione di Mahanoro e a P.
Carlo Berton quella di Ilaka Est.
P. Antonio Marchesi, il 31 maggio 1957, s’aggiunse ai
nostri missionari italiani nel Madagascar ed ora è Direttore
della missione di Ambinanindrano.
Quando i missionari monfortani d’Italia avranno una
missione esclusivamente italiana? E' il solito assillante
problema evangelico: “La messe è molta ma gli operai sono
pochi”.
Ho visto un lebbroso...
In attesa che si realizzi il progetto, P. Carlo Berton parla
di un incontro che lo ha particolarmente colpito:
“...Stavo facendo l’esame di catechismo ad alcuni neofiti,
quando il catechista mi chiama: Padre, un malato vuole
parlarti. Interrompo immediatamente ogni esame e parto con il
catechista, mia guida. Tutto un codazzo di ragazzi mi segue,
fino ad un villaggetto di una decina di capanne. Domando al
catechista di che malattia si trattasse. Mi disse qualcosa
d’impreciso, poi soggiunse: malato in tutto il corpo.
Arrivai presso la capanna; alcune persone uscirono
immediatamente per darmi il passaggio. Entrai e vidi accanto al
fuoco un vecchio avvolto in un lenzuolo. Quando il vecchio si
accorse della mia presenza, cercò di mettersi seduto ed aprendo
il lenzuolo mi allungò la sua mano priva delle dita.
Un forte odore di pus e di marcio mi investì. Oltre il
lenzuolo non aveva più nulla quel vecchio ridotto a pelle ed
170
ossa. Ritirando la mia mano dalla stretta del saluto la sentii
inumidita. Non volli neanche guadare. Avevo capito: un vero
lebbroso con iniziata putrefazione.
Qui nel Madagascar i lebbrosi non sono numerosi; una
buona parte, specialmente all’inizio, viene curata a domicilio.
Quando sono ancora forti vanno a trovare il medico per avere i
medicinali per una quindicina di giorni, ma se la malattia
progredisce restano nella loro capanna ad attendere qualche
rara visita del dottore e aspettano la morte.
Era la prima volta che mi capitava di vedere la lebbra
nella sua vera faccia e vi assicuro che non ero fiero. Ad
aumentare il senso di asfissia prodotto dal fetore, un mugolo di
mosche girava ronzando intorno al malato per succhiargli il
resto del sangue. Sudavo. Oltre al calore del giorno vi era il
fuoco che ardeva e tutti i curiosi che si stringevano sulla porta,
togliendo ogni filo d’aria. Il fumo che riempiva la casetta mi
faceva lacrimare ed allora mi sedetti con coraggio presso il
vecchio lebbroso…”.
Un ennesimo, catastrofico ciclone
Una lettera commovente, diretta al P. Provinciale, arriva
dal Madagascar, l’isola dei cicloni. Porta la firma di P.
Alessandro Assolari.
“… Rev.mo P. Provinciale, le dirò subito che ho il cuore
grosso. Avrà forse saputo dai giornali le notizie raccapriccianti
provenienti dal Madagascar. La radio non fa che emettere
notizie e comunicati uno più spaventoso dell’altro. Ho atteso
fino all’ultimo momento prima di spedire la presente, perché
avrei voluto avere notizie interessanti direttamente i nostri posti
di missione. Cercherò ora di ordinare un po’ la cronaca degli
avvenimenti di questi ultimi quindici giorni.
La domenica delle Palme trovava quasi tutti i Padri del
sud, francesi e italiani, riuniti a Marolambo per festeggiare le
nozze d’argento di P. Rizzardo Omizzolo. Monsignore e il
171
Superiore Regionale erano pure intervenuti. Di noi italiani era
assente solo P. Carlo Berton, trattenuto ad Ilaka da impegni di
ministero. Malgrado l’inclemenza del tempo, la festa si svolse
in un’atmosfera di gioia. Fra Paolo, che per la circostanza era
venuto da Tamatave, ci portò notizie dall’Italia. Penso che da
Marolambo le sia giunta relazione recante lo svolgimento della
festa.
L'indomani mattina gli ospiti riprendevano la via del
ritorno. Un viaggio del genere, durante il periodo delle grandi
piogge, ha qualcosa di epico, causa lo stato del tracciato
stradale: non può chiamarsi strada un tracciato che può essere
transitabile impunemente alla sola condizione d’essere assistiti
in modo speciale da S. Cristoforo.
Fummo presi dal temporale ancora prima di giungere a
Mahanoro. Colà sapemmo che v’era un ciclone in formazione
diretto verso la provincia di Tamatave. Durante la notte tra
lunedì e martedì, tutti i fiumi ingrossarono: impossibile ogni
traghettamento.
Avrei voluto rientrare a Masomeloka, ma fui costretto dal
Vescovo a venire a Tamatave per sottomettermi ad una cura,
dato che il mio stato di salute non era dei più floridi. Ogni
comunicazione via terra era interrotta. Per cui non restava che
l’apparecchio. Le dirò subito che non mi dice gran cosa un
viaggio in aereo.
L’ultimo bollettino meteorologico annunziava che il
ciclone stava dirigendosi verso la regione di Tamatave nord, e
l’apparecchio era in ritardo di alcune ore. Per amore di brevità
non sto a descrivere i sentimenti che mi animavano allorché mi
accingevo al battesimo dell’aria. In certe circostanze ci si sente
più portati alla devozione. In un quarto d’ora si fece il
tragitto Mahanoro-Vatomandry. La sapemmo che la pressione
atmosferica abbassava ad un ritmo impressionante. L’operatore
radio ci disse che, in caso disperato, invece di atterrare a
Tamatave, saremmo sbarcati a Tananarive, se le condizioni
atmosferiche fossero peggiorate.
172
Si riprese il volo. Ogni tanto l’aereo era scosso dal vento.
Io cercavo di mostrare più coraggio di quanto non ne avessi in
realtà. Fra Paolo, da parte sua, era troppo fiero. Il peggio fu
allorché ci trovammo in vista di Tamatave. Il tempo si fece
pessimo. Un vento sempre più forte rese problematico
l’atterraggio. Potemmo mettere i piedi a terra sani e salvi.
A Tamatave potevamo farci un’idea più precisa della
situazione a mezzo del bollettino radio trasmesso ogni ora. Da
ogni parte si segnalavano inondazioni, slittamenti di terreno,
ponti portati via dalle acque.
Nel frattempo il ciclone stava avvicinandosi a terra
peggiorando lo stato del tempo. Le navi giunte nella baia di
Tamatave non poterono accostare e fuggirono in direzione
opposta al ciclone. Altoparlanti circolavano per la città
allertando tutti: ognuno doveva prendere le massime
precauzioni perché il ciclone era uno dei più violenti. Nel
frattempo la pioggia continuava a cadere in modo
impressionante. Ma in compenso il ciclone cambiava un po’
direzione, evitando d’investire Tamatave. Si dirigeva verso il
nord aumentando di velocità.
Qui, lungo la costa, ogni ruscello diventava un torrente.
Vi sono fiumi dove l’acqua aumentava fino a dieci metri sopra
il livello normale. Tutta la fascia costiera prendeva l’aspetto di
un mare che sommergeva villaggi e risaie. La gente si rifugiava
sui tetti, sugli alberi, sulle colline circostanti.
Il ciclone investì la zona che si trova ad un centinaio di
chilometri, a nord di Tamatave, distruggendo tutti i villaggi che
trovava al suo passaggio. Questo ciclone entrava all’interno
dirigendosi verso occidente, piegava quindi a sud per poi
riprendere ad oriente. Durante questo tragitto la violenza del
vento diminuiva. Ma quanto non era distrutto dal vento era
preda delle inondazioni. Nel frattempo un altro ciclone si
formava sull’oceano dirigendosi verso la costa malgascia, a sud
di Tamatave.
173
Sapevamo dalla radio che ben sei cicloni dovevano
abbattersi quasi contemporaneamente su questa povera isola
che non a torto è detta l’isola dei cicloni. Da qui di faceva il
possibile per mettersi in comunicazione coi posti del sud.
Abbiamo saputo che il villaggio di Ilaka, residenza di P. Carlo
Berton, era stato evacuato e in seguito inondato dalle acque.
Abbiamo saputo dalla radio che vi sono otto persone annegate
nella zona di Mahanoro. Ma penso che ci vorranno dei giorni
prima di mettersi in comunicazione con Masomeloka. Anche
questa zona deve essere stata toccata dal ciclone del sud.
Cosa ne sarà della mia povera chiesetta? Stava in piedi
per pura misericordia in tempi normali. E la casa? Cosa resterà
del mio posto di missione? Avevamo circa cinque tonnellate di
cemento per i lavori della nuova chiesa. È proprio brutto non
sapere assolutamente nulla. Spero di poter rientrare alla
missione tra alcuni giorni, ma non so come potrò farlo. Da ieri
una buona parte della città di Tamatave è sommersa dalle
acque. Sono già state evacuate oltre 40.000 persone. E le acque
continuano a crescere…
Per il momento è assolutamente impossibile farsi un’idea
di questo cataclisma. Si ha paura di una carestia e delle
epidemie. Si tratta di una vera catastrofe nazionale: a parte una
sola provincia, tutte le altre sono state colpite. Non si sa quanti
villaggi siano stati distrutti. Ci vorranno delle settimane prima
di poter venire a conoscenza di tutti questi disastri. E se lei
conosce l’economia non certo rosea malgascia, mi dica cosa si
può sperare per il prossimo avvenire…
Sono arrivato sano e salvo, ma cosa farò?
Dal Madagascar scrive il nuovo arrivato, Fratel Paolo
Pesenti:
“Sono arrivato sano e salvo a Tamatave dopo un discreto
viaggio ed una prolungata cura di silenzio, a causa del francese
che non riesco ancora a parlare. A ricevermi al porto c’erano il
174
Padre Procuratore delle Missioni e Fratel Francesco. Forse
vedrò i nostri Padri alla festa di P. Omizzolo, se andrò anch’io
a parteciparvi.
Ancora non vedo Mons. Vescovo. Mi pesa molto il non
potermi esprimere in francese. Il mio esempio valga di lezione
per gli altri. Devo intanto imparare i mestieri. Per fortuna Fratel
Francesco è un tecnico e un costruttore in gamba. Con la grazia
di Dio spero d’imparare qualcosa anch’io. Anche se il mestiere
non mi piace troppo cercherò di fare onore alla Provincia.
Il lavoro dei Fratelli è di muratore, di tecnico e
soprattutto di falegname. Anche se non sono ancora pratico in
questi mestieri, non mi scoraggio. Fratel Francesco mi ha detto
che quando arrivò qui sapeva fare solo un po’ il falegname; il
resto lo ha imparato sul posto. Se non si sa, non bisogna
mostrarlo. Questa, dicono i Fratelli, è la massima coi neri di
qui”.
A distanza di poco tempo, Fratel Paolo scrive un’altra
lettera con altre informazioni.
“...Qui nulla di nuovo all’infuori di un forte ciclone nella
regione di Tananarive e dintorni. Le nostre missioni credo
abbiano avuto pochi disastri. Per la festa di P. Omizzolo ci
siamo trovati tutti, eccetto P. Carlo Berton che però avevo visto
a Marolambo. I Padri italiani li ho trovati discretamente bene,
più di quel che credevo; sono però magri come melgàs.
Godono di tanta stima qui. Sono giovani e forse il loro ardore li
ha spinti troppo in la, ma non fino a rovinarsi la salute come si
era detto da qualcuno.
I Superiori sono buoni e gentili. Il Vescovo è un perfetto
autista malgascio lui pure; come questi non teme ostacoli con
la sua jeep e la lancia a piena velocità.
In Italia non si ha un’idea esatta di quel che può essere la
vita qui. Le distanze, per esempio, sono enormi. Mancano vie
di comunicazione; si devono attraversare diversi fiumi che, se
175
piove molto per due o tre giorni, diventano assai pericolosi. Il
tempo qui non conta, tutti me lo dicono e me lo ripetono…”.
Notizie di turbamenti politici nel Nyasaland
Dal Nyasaland scrive P. Francesco Valdameri: “...Avete
sentito per radio o visto per televisione i turbamenti politici del
Nyasaland. Ora tutto è in pace. Nessun danno ha subito la mia
missione. Si trattava di una rivoluzione interna, capeggiata da
un certo Banda che aveva sognato con alcuni aderenti
l’indipendenza del Nyasaland.
Banda è un nero del Nyasaland, ma ha vissuto per più di
40 anni in Inghilterra: ha dimenticato persino la sua lingua
madre e parla solo l’inglese. Ed ora si è sognato di diventare il
salvatore del suo popolo. Quello che è peggio è un anticattolico
e un mangiatore di missionari più che un rivoluzionario
politico. È evidente in lui il veleno del comunismo. Adesso è in
prigione con 700 suoi seguaci ed ogni cosa prosegue
normalmente”.
Grazie per aver risposto al mio appello!
P. Antonio Marchesi ringrazia tutti coloro che hanno
risposto alla sua richiesta di aiuto. Lo fa attraverso
“L'Apostolo di Mara”.
“… Caro “Apostolo di Maria”, le mie più vive
congratulazioni per il tuo magnifico lavoro svolto a favore dei
missionari. A te tutto il merito di aver portato un po’ ovunque
il nostro grido invocante aiuto e di aver risvegliato in tanti
cuori i sentimenti della più squisita generosità.
A ora il dovere di dire a tutti la nostra commossa
riconoscenza. Era forte il tuo grido, forse un po’ troppo, mi ha
detto qualcuno. Io non so, ma tu ascolta e giudica. Avrai già
sentito parlare radio e giornali, delle alluvioni avvenute qui nel
Madagascar durante la Settimana Santa. La notte del Venerdì
176
Santo ci fu un vero diluvio. Ore di angoscia per tutti. Mentre
voi cantavate le lamentazioni di Geremia Profeta, noi le
vivevamo in pieno.
L’acqua scendeva a catinelle e la piena del fiume saliva
in modo impressionante. Fortunatamente che la nostra casa si
trova su un’altura ma non tutti erano tranquilli e al sicuro.
Verso l’una dopo mezzanotte avreste sentito le grida e i pianti
lacerare le tenebre e non solo quelle… Erano i bambini del
pastore protestante. Era il pastore stesso che invocava aiuto.
Ti assicuro, caro “Apostolo”, che non si preoccupava
molto di modulare la sua voce e non temeva di importunare gli
altri. E a nessuno di noi, del resto, veniva in mente di dirgli di
non gridare così forte e che non si addicevano alla sua dignità
di Pastore quella grida scomposte! L’unico nostro desiderio in
quel momento era di accorrere in aiuto e l'unica nostra
preoccupazione era quella di come salvarli!
Era notte e pioveva a dirotto e l’acqua del fiume era
cresciuta di ben nove metri. Ti rendi conto che cosa vuol dire
l’aumento di nove metri? Fu improvvisata una zattera con
foglie di ravenale: bene impacchettate e legate queste foglie
formano una solida imbarcazione. Però ti dico la verità che non
si era troppo fieri su quel coso… Lo scopo fu raggiunto e le
persone tratte in salvo. Nel frattempo venne inondata la nostra
chiesa. Feci appena in tempo a mettere al sicuro il SS.
Sacramento. Poi nel santuario si avverarono le parole del
Profeta: “desolatio desolationis”.
Un grande tonfo ci avvertì che qualcosa era caduta:
nientemeno che l’Altare maggiore, tutto in legno, veniva
rovesciato e il tabernacolo già aperto dopo la funzione del
Venerdì Santo, riempito d’acqua e fango. I banchi
galleggiavano e l’armonio. Delizia e orgoglio dei miei cristiani,
ha trovato la via del presbiterio e si è posato sulla predella
dell’Altare, ormai inservibile. E i paramenti? Ti lascio
immaginare! Non ci resta che in colore unico: il giallo rosso
del fango. Poi l’acqua si è ritirata, in fretta, quasi paventando
177
un rimprovero. Ma il ricordo è rimasto: dieci centimetri di
poltiglia.
Abbiamo trascorso tutto il Sabato Santo, in otto, a lavare
e scopare. Malgrado i nostri sforzi, il giorno di Pasqua, i pochi
cristiani che hanno coraggiosamente affrontato le ire del fiume,
passando su un minuscolo tronco d’albero, si sono
inginocchiati in mezzo al fango e nel fango abbiamo cantato
l’Alleluia pasquale.
Nei giorni seguenti sono giunte le prime notizie
provenienti dai diversi punti della nostra missione. Le sorprese
non erano finite! Mi limiterò al bilancio riassuntivo: una
quindicina di villaggi sono andati completamente distrutti, da
cancellarsi sulla carta geografica; una decina di chiesette hanno
preso la via del mare. Molte risaie letteralmente ricoperte di
sabbia. Le strade impraticabili e dei numerosi ponti di legno
non esiste se non il ricordo…
Forse è meglio non continuare l’enumerazione. Mi
diranno ancora che grido troppo forte! E d’altra parte mi fa
troppo male il ricordo…
Tu, caro “Apostolo”, hai ben compreso il tuo dovere: dì
un bel grazie a tutti i nostri benefattori, dillo forte, soprattutto
che il loro soccorso ci giunge proprio in un momento tragico.
Se qualcuno tra i buoni lettori volesse aggiungere un’Ave
Maria alle loro preghiere giornaliere per il missionario che ti
scrive, ti assicuro che non sarà insensibile al loro atto di carità.
A tutti il mio saluto e a te, caro “Apostolo”, buon lavoro… e
grida ancora forte: Aiuto! Aiuto! Aiuto!”
Drammatiche notizie sui danni prodotti dal ciclone
Anche P. Carlo Berton scrive agli studenti monfortani
di Loreto fornendo notizie sul ciclone:
“...Avrete saputo dai giornali la tragedia che ha vissuto il
Madagascar verso Pasqua. Qui a Ilaka la Messa di Pasqua fu
178
celebrata su di una collina dove c’è un posto di gendarmeria:
seicento persone, da parecchi giorni, vi erano rifugiate in
alcune baracche. Per fortuna da noi ci fu solo l’acqua, perché se
fosse giunto anche il ciclone saremmo morti. La metà del
villaggio era sotto l’acqua. Bisognerebbe venire qui per capire
il Diluvio universale! Strade scomparse, ponti tagliati, barconi
partiti con le acque, mandrie di zebù annegate, partite in mare,
risaie e piantagioni di caffè più o meno distrutte.
La mia residenza non fu toccata, perciò è piena di gente
rifugiata. Quest’anno non potrò cavalcare molto il cavallo,
perché le frane hanno distrutto le piste...Non ci perdiamo mai
di coraggio noi; prima di tutto perché crediamo nella
Provvidenza ed anche nella generosità dei benefattori…”.
Una Pasqua davvero malinconica
Stesse notizie arrivano da P. Pietro Valsecchi: “… La
festa di Pasqua è stata veramente malinconica. Pensate a tre
missionari obbligati a star rifugiati in casa durante tutte le feste
pasquali, senza poter fare un po’ di ministero. I cristiani poi,
distanti solo due chilometri dalla chiesa di Marolambo, non
potevano partecipare alle sacre celebrazioni e neanche alla
Messa di Pasqua, date le devastazioni causate dall’acqua.
Il fiume in piena è salito de sei o sette metri sopra il
livello normale ed ha scavato in nuovo letto che minaccia il
villaggio di Marolambo.
Oggi come oggi è il terzo giorno di bel tempo, ma il
fiume è sceso di livello solo tre metri e le sue acque sono
ancora torbide. Sono isolato e per rimettere a posto la via di
comunicazione che ci collega con Mahanoro ci vorranno
almeno tre mesi di lavoro.
Per il primo anno d’indipendenza del Madagascar questi
cicloni sono veramente la prova del fuoco. Il coraggio non
manca per rimettere a posto le cose, ma continuate a pregare
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affinché i miei malgasci non perdano la confidenza nel
Signore”.
Sei cicloni in venticinque giorni
“Sei cicloni in venticinque giorni”: così la rivista
“L’Apostolo di Maria” riassume la lunga lettera di P. Rizzardo
Omizzolo dove racconta della festa del suo XXV di Sacerdozio
e le drammatiche giornate dei cicloni. Il suo rammarico:
“…Ci dispiace che il maltempo ci impedirà per settimane
di fare le visite pasquali nelle foreste. Le vallette sono laghi, le
piste sono sparite nel fango e si rischierebbe di fare perire
cavalli e cavalieri nei gorghi della melma. Meglio attendere!”
Scrive anche P. Alessandro Assolari: “...Nella missione
abbiamo avuto perdite per un mezzo milione, almeno: abbiamo
avuto perdite anche alla nuova costruzione. L’acqua è salita a
circa 120 centimetri. Parte del legname andò a finire in mare.
Circa quattro tonnellate di cemento andò a farsi friggere. Se
pensate cosa era costato tutto ciò, potete facilmente
immaginare la tristezza da cui eravamo presi all’indomani delle
inondazioni. Ma oggi stesso abbiamo ripreso i lavori.
Per quanto riguarda l’avvenire, vi assicuro che le
prospettive sono lontane dall’essere rosee. Se la nostra
missione ha sofferto bisogna pur dire che il nostro territorio ha
sofferto ancora di più. Quanti cristiani si trovano sul lastrico:
c’è chi ha perduto la casa, c’è chi ha perduto le risaie, c’è chi
ha perso il campo, c’è chi ha perso tutto.
Nella nostra missione ci sono ventidue villaggi
completamente portati via dalle acque: si trovavano tutti in riva
ai numerosi fiumi che in passato avevano reso fertile questa
zona…”.
180
Ho visto il diluvio!
Sulla situazione della missione di Ilaka torna ad
informare P. Carlo Berton. Lo fa con una lettera a “L’Apostolo
di Maria”:
“Ho visto il diluvio!” Una lunga relazione con dovizia di
dettagli sulla tragedia causata dai cicloni nella sua missione. A
conclusione, come al solito, un appello:
“Qui non si fa che parlare di cicloni, costatando le
devastazioni enormi accadute. Il più grave danno è la quasi
totale perdita del riso, unica risorsa malgascia, per cui c’è la
fame, sempre fame…
Ho lanciato vari appelli… Qualcosa è arrivato, ma è
quasi nulla di fronte alle enormi necessità. Pensate, certi hanno
perduto tutto nelle acque e non è loro rimasto che quello
straccio di cui erano ricoperti al momento delle inondazioni.
Sono bimbi, sono mamme e papà di famiglia che mi
chiedono un po' di cibo, che mi chiedono qualche straccio per
coprirsi. Non dimentichiamo che in Madagascar ora è
inverno... Perciò ho pensato di lanciare a voi un appello:
Aiutatemi! Aiutatemi! Con amore e generosità, guardando le
vostre possibilità frugate nei vostri armadi e sono sicuro che
troverete indumenti, panni, stoffe di qualsiasi specie per i miei
poveri negri; frugate anche nel vostro portafoglio e,
sacrificando magari qualche piacere lecito, ci sarà anche
qualche soldo per la mia povera missione. Pensate: mi è morto
anche il cavallo, mio compagno di viaggio. Questo è meno
male perché tutte le piste di viaggio sono state distrutte e
quindi anche il cavallo non mi servirebbe più..
Cari lettori, vi chiedo con il cuore in mano un po’ di soldi
per sfamare tanti affamati e un po’ d’indumenti per vestire i
miei negri. Aiutatemi!”.
P. Tarcisio Betti parla del suo viaggio di ritorno in
Africa. “…Il mio viaggio di ritorno in Africa andò abbastanza
181
bene, salvo venti freddi nel Mediterraneo e mare grosso un po’
ovunque fino a Beira…
Una sera, dopo il passaggio di un’onda, la poppa della
neve si ingolfò al punto che strappò un urlo generale, credendo
si andasse a finire in acqua… Ma come Dio volle si arrivò sani
e salvi a destinazione il sabato 18 aprile”.
Mpiri fu la sua nuova missione. “… Il giorno fissato per
la partenza l’Africa mi venne incontro col suo benvenuto: un
attacco di febbre di malaria mi tenne a letto per tre giorni.
Passata la bufera presi la strada per Mpiri. Sono qui con il P.
Valdameri, un canadese e un inglese”.
Trionfo della fede cattolica nel Nyasaland
In occasione della Pentecoste P. Remigio Villa annuncia
un “...Trionfo di fede cattolica nel Nyassaland”. L’occasione è
data dall’erezione in questa regione dell’Africa Centrale
Inglese della Gerarchia Ecclesiastica.. Mons. Theunissen fu
nominato primo Arcivescovo del Nyassaland.
“… La notizia suscitò una grandissima gioia non soltanto
fra i cattolici, ma in tutta la popolazione di ogni religione e
razza. Incominciarono subito i preparativi per solennizzare
l’avvenimento fissato per il 19 luglio dal Delegato Apostolico e
la municipalità di Limbe-Blantyre considerò onore altissimo
essere stata scelta a sede metropolitana.
Il Nyasaland mai vide nella sua storia una folla così
numerosa ed entusiasta come quella di domenica 19 luglio.
Migliaia di africani si affollavano intorno alla cattedrale per
vedere la processione dei Vescovi e del clero. Tutti sentivano
che quel giorno doveva essere veramente straordinario. Infatti
la Chiesa Cattolica del Nyasaland diventava, per così dire,
maggiorenne con esistenza piena e giuridica.
182
Tutto il Nyasaland era presente, dal Commissario del
provincia all’ultimo africano giunto a piedi dal suo
villaggio…”.
Le statistiche, pur nella loro aridità, sono eloquenti: dallo
zero del 1901, siamo ora nel Nyasaland ad una cristianità di
oltre 444.000 cristiani. Delle 2284 scuole 1249 sono cattoliche.
Come pure 13 delle 24 scuole superiori e normali. In queste
scuole 140.000 ragazzi ricevono la loro educazione. Il trionfo
del 19 luglio non fu dunque che il premio di un lavoro duro e
paziente di molti anni di sacrificio…”.
Un missionario bergamasco simpaticissimo
In questo periodo il più attivo a corrispondere con
“L’Apostolo di Maria” è ancora P. Remigio Villa che il gesuita
P. Ilario Rudez, dopo averlo conosciuto in occasione di un
viaggio attraverso le missioni del Nyasaland, definisce
amichevolmente “un missionario bergamasco simpaticissimo”.
Ecco la sua testimonianza:
“...Non posso tralasciare un cenno all’incontro con un
simpaticissimo bergamasco, il P. Remigio Villa, Superiore dei
Monfortani di Limbe, che mi ospitò con tanta cordialità e mi
fece visitare tutto il vasto territorio dove i suoi missionari
svolgono un’attività incredibile.
Visitai tutte le missioni, entrai in tutte le scuole e in tutte
le classi, accolto con vero entusiasmo, meravigliato nel
sentirmi cantare quelle canzoni genuinamente africane che in
breve tempo avevo imparato e sapevo ormai accompagnare con
la mia inseparabile fisarmonica.
Se ce ne fosse qualche decina in più di questi missionari,
il Nyasaland diventerebbe ben presto cristiano: si tratta soltanto
di mietere. Mons. Knox, già Delegato Apostolico, diceva:
“Non basteranno cent’anni per ricuperare l’eventuale ritardo di
questi dieci anni”. Io vorrei aggiungere per tutti coloro che
183
hanno un cuore giovane e generoso: “Venite quaggiù soltanto
per qualche anno; poi andremo in India, in Giappone o dove
vorrete”.
Il Superiore Provinciale in visita nel Madagascar
In luglio “…per la prima volta nella storia della Provincia
Italiana un Padre Provinciale ha visitato i suoi missionari sul
loro campo di lavoro”.
Le notizie di questo importante avvenimento sono fornite
da P. Pietro Valsecchi:
“…Con l’auto concessagli gentilmente dal P. Méar,
Vicario Generale, il Provinciale ha potuto venire a visitarci egli
stesso nelle nostre diverse residenze. Fra Paolo fu il primo ad
essere pescato… E poi, dopo una corsa di 90 Km. ecco
l’incontro con P. Berton nella sua isolata e silenziosa residenza
di Ilaka… Altri 40 Km. ed ecco Mahanoro: lì c’è P. Assolari
che l’attende con ansia speciale…
Lasciando le costruzioni in cemento, l’auto condusse il P.
Provinciale nell’interno delle foreste di ravenale, di rafia e di
eucalipti. Dopo 70 Km. poté incontrare P. Marchesi nella sua
casa di legno col tetto di foglie di ravenale…
Il giorno dopo, l’auto lo portò ancora più nell’interno e
dopo una gimkana di 60 Km. poté arrivare a Marolambo dove
trovò il solo P. Omizzolo…
Il 25 ottobre il Padre partì per visitare l’ultima residenza,
la più a sud: Ambodilafa, casa di P. Nozza. Dovette fare un
giro di almeno 200 Km. per poterla raggiungere in auto…
Per ben chiudere questa visita, purtroppo assai veloce, ci
si riunì tutti a Mahanoro per uno scambio di idee, di vedute e di
propositi…”.
184
I miei quattro anni di missione
Agli amici de “L’Apostolo di Maria” e delle missioni
scrive P. Emilio Nozza per tracciare un bilancio del suo quarto
anno di missione.
“… Con la fine del prossimo mese saranno ormai quattro
anni che mi trovo qui in Madagascar. Mi trovo sperduto tra le
montagne e trascorro la mia vita marciando più volte da
mattina a sera attraverso queste foreste in cerca di sordi, ciechi
e zoppi nello spirito.
La mia casa abituale è ormai la strada: compio
regolarmente ogni mese tra i trecento e i cinquecento
chilometri a piedi e mi è difficile fare una sosta superiore ai
cinque giorni. Il male della strada è il male di ogni missionario
qui nel mio Distretto. Realizzare il mio ideale missionario mi è
impossibile senza una continua marcia. Quindi continuo e
continuerò fino al giorno che mi si dirà di arrestarmi!
Farvi il bilancio del mio lavoro missionario non è cosa né
difficile né lunga. Parlarvi poi dei miei progetti, delle mie
chiese di prossima costruzione mi è molto più facile…
Per incoraggiare i miei cristiani per rendere più grande la
Chiesa Cattolica agli occhi di questi indigeni, ho progettato la
costruzione di due piccole chiese in mattoni. Saranno le prime
del genere in tutto il Sud della Diocesi di Tamatave. Qui, solo
ora, si sta incominciando a costruire con i mattoni. Finora non
si costruiva che il legno e foglie. Arriverò al termine di questo
mio sogno?… Spero nell’aiuto del Cielo e nel vostro aiuto, cari
lettori”.
Un telegramma dal Nyasaland del 7 novembre annunzia
la morte di Mons. Luigi Auneau, vescovo monfortano della
missione dello Shiré. Una lettera successiva di P. R. Villa
comunicava i particolari di questo grande lutto. P. P.
Buondonno, in un articolo commemorativo sulle pagine de
“L’Apostolo di Maria” lo descrive come “…un condottiero
185
degno di un poema: il poema di una cristianità che sotto la sua
guida è passata dai mille cristiani di cinquant’anni fa ai
trecento mila di oggi…”.
Pagine di diario del Provinciale
A partire dal secondo numero del 1960, “L’Apostolo di
Maria” inizia la pubblicazione di “Pagine di Diario”, resoconto
dettagliato del viaggio nel Continente Nero di P. Pasquale
Buondonno, iniziato il 5 agosto 1959:
“… Se lo scrittore francese Saverio de Maistre ha potuto
comporre un discreto, interessante volume per narrare di un suo
viaggio intorno alla propria camera, penso di poter destare io
pure un qualche interesse sfogliando il diario di un viaggio
compiuto nel Continente Nero e che mi ha fatto percorrere più
di 35.000 chilometri. Mi sono arricchito di una nuova
bellissima esperienza; ho preso il “Mal d'Africa”, quel male
che caratterizza i nostri cari missionari. Un male che fu messo
addosso agli Apostoli da Gesù stesso, quando disse loro:
“Andate, insegnate a tutte le genti…”.
P. Vittorio Crippa e P. Giovanni Giavarini informano
che stanno per fondare una nuova missione.
“...Siamo qui a Masanjala per dare inizio alla missione
della fame. Difatti il significato etimologico di Masanjala è
“occhi della fame”. Si può così immaginare tutte le
conseguenze di questo nome.
Tra i significati di miseria che può avere Masanjala, uno
è abbastanza consolante: vedere i nostri neri affamati di
Eucaristia. Circa mille sono le SS. Comunioni settimanali.
Il giorno dell’Immacolata, poi, è stato un assalto alle
balaustre e con nostra sorpresa e soddisfazione abbiamo
svuotato due grossi pissidi. Si noti che qui non è festa di
precetto. È la Madonna che attira a Gesù.
186
Veramente suggestiva fu la consacrazione degli scolari
all’Immacolata. È un grande conforto per noi missionari. Ma
quante anime ci attendono ancora. Nella nostra missione
contiamo solo 10.000 cristiani su una popolazione di 80.000
abitanti… e siamo solo due missionari.
Se spiritualmente possiamo chiamare Masanjala la
missione che ha fame di bene, materialmente va chiamata la
missione della fame e della miseria. Noi missionari siamo
sistemati in un vero buco. La chiesa sta per cadere. Scuole da
costruire, opere da sviluppare. Al solo pensarci si diventerebbe
matti!
Sentite. Con fatica abbiamo scavato un pozzo… Scava
che ti scavo, speravamo di trovare un filone d’oro… Macché!
Solo acqua e poca anche quella! La provvidenza di Dio ci
aiuterà sempre…”.
187
1960
Nuove partenze per le missioni
“Vi siete mai chiesto come possa nascere una
cristianità?” Se lo chiede P. Alessandro Assolari. E risponde:
“...Le vie del Signore sono infinite. E come tutte le strade
conducono a Roma, così tutti i mezzi possono essere impiegati
da Cristo per penetrare là dove prima non c’era la preghiera.
Spesso qui la gente viene alla chiesa tramite la parentela.
Un membro della famiglia si fa cristiano, e come una ciliegia
tira l’altra e via di seguito. Vi dirò pure che qui i legami della
parentela sono assai sentiti. Questo fatto, in se stesso positivo,
può avere effetti negativi, perché capita di frequente che la
famiglia pagana influisca sul neoconvertito, soprattutto in
alcune circostanze particolari, e tenti di assorbirlo per
ricondurlo alle pratiche pagane: sortilegi, sacrifici,
concubinaggio, ecc..
Le cristianità ferventi riescono ordinariamente a far
pregare i villaggi circonvicini. Se pescano qualche
simpatizzante lo entusiasmano, lo convincono e li abituano a
poco a poco alla vita cristiana. Un gruppo di fervorosi si
recherà ogni domenica nel villaggio ove si vuol pregare per
insegnare canti e catechismo e organizzare, se le cose vanno
per il meglio, la riunione per la santificazione della domenica.
Da noi qui c’è un altro fenomeno che si verifica in
seguito alla inondazioni. La gente della pianura tende a
spostarsi verso l’interno collinoso per trovare terreno
interessante le colture ricche: caffè, garofano, pepe, vaniglia.
Possono arrivare in una zona dove “lo straniero della barba”
non sia passato. Se tali individui non cristiani poco ferventi
finiscono col ricadere in pieno nelle abitudini pagane e si
perdono. Ma ve ne sono pure di bravi, soprattutto coloro che
sono in regola con la Chiesa in fatto di matrimonio. Costoro
frequentano la cristianità più vicina, la domenica. Però, presto,
188
a causa del maltempo o dei figli numerosi, finiscono per restare
a pregare sul posto: là una nuova cristianità nasce…”
Con il numero di Aprile 1960 parte su “L’Apostolo di
Maria” la rubrica “Pagine di Diario”: Il mio viaggio nel
Continente nero, di P. Pasquale Buondonno. E' una ricca fonte
d'informazioni, di ricordi e di riflessioni sulla realtà incontrate
in questo primo contato con le missioni del Nyasaland prima e
con il Madagascar, subito dopo.
Anivorano: Una serra di fiori assortiti
P. Rizzardo Omizzolo informa sul seminario di
Anivorano: una serra di fiori assortiti.
“… L’Isola di Madagascar conta già circa venti preti
indigeni, appartenenti sia al Clero secolare che a differenti
Congregazioni religiose. Tutti lavorano in Patria, nella Grande
Isola, dediti al ministero parrocchiale o all’evangelizzazione
diretta dei connazionali ancora pagani o aderenti a diverse sette
protestanti. Ma quando si pensi ai cinque milioni e più
d’abitanti dei quali solo un milione sono cattolici, si può farsi
un’idea dell’immenso lavoro che resta ancora da compiere in
questa porzione della Vigna del Signore.
Da parecchie decine d’anni già, molto tempo prima che si
potesse sperare l’istituzione della gerarchia ecclesiastica nel
Madagascar, ma indubbiamente in vista di questa possibilità
per il futuro, i Vicari Apostolici e i missionari tutti si erano
preoccupati della formazione del Clero indigeno.
Ora, nelle 14 Arcidiocesi e Diocesi in cui è stata divisa
l’isola, si è intensificato lo sforzo nella fondazione e nello
sviluppo dei Seminari Diocesani, per formare un clero
sufficiente e sempre più abbondante alla Patria, divenuta ormai
maggiorenne e Stato indipendente.
Nella Diocesi di Tamatave, il Seminario di Anivorano fu
fondato in sede propria nel 1951 da Mons. Alano Le Breton.
189
Da principio era stato sistemato alla meglio in ampie baracche
costruite col sistema locale d’ossatura in legno e pareti in
traliccio di giunchi e bambù, con tetto di foglie di ravenale.
Il luogo scelto era incantevole: alla confluenza di due
fiumi, sulle collinette sovrastanti il centro abitato del cantone di
Anivorano, e in buona parte ricoperte da simmetriche
piantagioni di eucaliptus. Aria, sole e solitudine ideale.
A motivo dell’aumento di aspiranti e della conseguente
insufficienza di spazio il vescovo, il dinamico Mons. Puset
pensò a nuovi progetti. Sua Eccellenza è pieno di fiducia nella
Divina Provvidenza, la quale non mancherà certo di venire in
aiuto.
I fiori del nostro giardino sono svariati, poiché qui in
Madagascar non v’è mai stata discriminazione razziale e di
colore. Il colore della pelle può essere vario, ma l’ideale è
unico: divenire degli zelanti sacerdoti nel clero diocesano…”.
Vado dove ci sono lavori più urgenti
Si fa vivo anche Fratel Paolo. “… Non ho ancora
residenza fissa. Vado dove ci sono i lavori più urgenti. Ora mi
trovo ad Ambinanindrano con P. Marchesi per coprire con tetto
di legno la chiesa, per rifare la cucina che è un vero porcile…
La sporcizia e la miseria regnano ovunque in questa baracca,
come sono in generale tutte le altre capanne.
In compenso della miseria c’è tanta fede nei cristiani. Ho
avuto la fortuna in questi giorni di assistere ad un piccolo
teatrino dato all’aperto dai negri. Vedeste come recitano bene,
anche se molti non sanno né scrivere né leggere. Recitare è la
loro arte! Lavorare… non troppo!
Ambinanindrano è un piccolo paese sperduto nella
foresta. Conta 150 cristiani, 100 anglicani, 50 protestanti, gli
altri tutti pagani. In tutto 700 abitanti.
È proprio vero che i soldi non rendono felici. Questa
gente è sempre allegra. I negri qui non sanno cosa significhi
190
arrabbiarsi o non essere contenti della vita povera. Mangiano
un po’ di riso insieme con qualche.
In paese la posta arriva due volte la settimana e così
parte… sempre portata a piedi fino a Mahanoro, che dista 70
chilometri.
Luce, acqua, radio, giornale qui non esistono. Eppure voi
vedete la gente sempre disposta a ridere, a scherzare, poco
preoccupata della vita d’affari. Si può dire che vivono proprio
il Vangelo alla lettera. Pensano a vivere giorno per giorno…
Anche noi abbiamo qualcosa da imparare da questi negri…”.
Pasqua di Risurrezione a Masomeloka.
Ne parla P. Alessandro Assolari in una lettera. “...Da
tanto tempo volevo indirizzarmi a voi per darvi la bella notizia:
abbiamo vissuto a Masomeloka un giorno splendido, un giorno
che ne vale cento, secondo un modo di dire malgascio.
A Masomeloka è stata celebrata una prima S. Messa. No,
non vi sono state ordinazioni. Supposto che tutto vada bene, ce
ne sarà una di qui a quindici anni. Non v’era nemmeno un
sacerdote novello. Eppure abbiamo festeggiato una prima S.
Messa: la Santa notte di Pasqua ho potuto celebrare la prima S.
Messa nella nuova chiesa.
Non pensavamo di farcela. La domenica delle Palme il
tetto non era stato posto. Ma fra Henri, il quale era venuto da
Anivorano con tutta una squadra di falegnami e carpentieri, ce
la mise tutta. E la sera del Giovedì Santo era tutto radioso
quando poté dirmi: “Sabato sera, Padre, potremo pregare nella
nuova chiesa”. Difatti, negli ultimi giorni disparve da tutti noi
qui quella specie di pigrizia che patina l’esistenza di chi vive
sotto i tropici.
Il tetto non era stato messo, ma la nostra chiesa aveva
l’aspetto d’un capannone e bisognava far lavorare la fantasia
per vedervi una… basilica. Uomini e donne, grandi e piccoli:
tutti ci mettemmo all’opera. Io mi riservai il coro: una
191
sessantina di metri quadrati di pavimento. Non v’era altro. Due
fusti di benzina vuoti, quattro tavole, alcuni metri di stoffa: e
l’altare era fatto.
Un fusto di benzina vuoto ed un coperchio di cassa
furono tramutati in tavolo per le cerimonie. Quattro prisme
disposte con gusto e simmetria ci diedero lo sgabello per gli
inservienti.
La nostra Pasqua è un passaggio. Ce lo spiegò lo stesso
S. Paolo, il quale se n’intendeva di queste cose. Lo ripetei io
pure ai miei cristiani riunitisi il Sabato Santo alle dieci di sera
nella vecchia cappella. Dissi loro: “Volete sapere che cosa vuol
dire celebrare la S. Pasqua? Vuol dire passare da ciò che è
vecchio ad uno stato nuovo. In questa povera e cara chiesa
abbiamo pregato tanto in questi anni, eppure ora non ci
restiamo più. Sapete perché? Gesù l’ha abbandonata. Anche
noi l’abbandoniamo perché vogliamo celebrare la S. Pasqua
nella nuova chiesa. È là che Gesù ci attende…
Accanto alla nuova chiesa c’è un’altra costruzione. È Fra
Paolo che lavora e vi fa lavorare: stiamo costruendo la casa. Ed
è logico: non pretenderete che abbiamo ad abitare nella foresta.
La nuova casa sarà una costruzione che concilierà l’eleganza e
la semplicità estrema…
Alcuni lettori de “L’Apostolo” mi hanno scritto
lamentandosi perché sulle foto pubblicate nella rivista ho
l’aspetto troppo serio. I motivi? Sono le preoccupazioni di
ordine economico, che in parole povere si chiamano debiti. Vi
assicuro che ne ho tanti. I miei cristiani sono poveri, per di più
soffrono ancora le conseguenze delle gravi inondazioni e
cicloni che funestarono tutto il Madagascar lo scorso anno. Da
soli non potremo mai e poi mai sbarazzarci di questi parassiti
noiosissimi. Volete che io sorrida d’un sorriso aperto e sereno?
Se tutti i lettori de “L’Apostolo” si privassero d’un solo
gelato a beneficio della mia missione, avrei il cemento
necessario per portare a termine i lavori. Se tutti i lettori mi
192
dessero cento lire vi assicuro che su “L’Apostolo” apparirebbe
la foto d’un Padre Assolari sorridente…”.
Due Padri di “prima barba missionaria” in Madagascar
Nella ricorrenza della Madonna del Rosario Mons. G.
Piazzi, vescovo di Bergamo, consegna il Crocifisso a due
giovani missionari “di prima barba missionaria”: P. Angelo
Rota di Torre Boldone e P. Achille Valsecchi di Sant’Antonio
d’Adda. “Sacerdoti da pochi anni, sono stati destinati alle
missioni estere.
È sembrato più che naturale, nel ricordo e sull’esempio di
Luigi di Montfort, consegnare loro il Crocifisso di missione nel
nostro Santuario, nel centro di quella casa in cui le missioni si
vivono con il cuore e con la fantasia prima che nella realtà.
S. E. Mons. Piazzi vedeva nella presenza di questi due
giovani un motivo di gaudio. Seguiti dagli sguardi dei loro cari
accorsi come per un’altra prima Messa, si sono inginocchiati
dinanzi all’altare ricevendo insieme con il Crocifisso
l’abbraccio fraterno del Vescovo. Per essi Mons. Piazzi ebbe
commosse parole di saluto e di augurio. Si dà loro un
Crocifisso - diceva - perché tutto il lavoro missionario è
incentrato in N. S. Gesù Cristo. Comincia con Gesù, viene
condotto con Gesù e per Gesù e termina con Gesù. Ecco perché
giustamente al missionario che parte si dona il Crocifisso…”.
Inquilini indesiderati nelle residenze missionarie
Nella residenze missionarie spesso s’incontrano
“inquilini indesiderati”. Ne parla P. Carlo Berton scrivendo
dalla sua missione di Ilaka.
“Il posto missionario di Ilaka ha ormai 15 anni di vita,
anche se non è ancora missione... La costruzione si trova
alquanto separata dal villaggio. La chiesa e la casa dei
193
missionari sorgono circondate dagli alti eucaliptus che danno
un senso di pace e di frescura anche nelle giornate più torride.
Se tutte le missioni sono povere, Ilaka non nuota certo
nell’abbondanza. La chiesa è costruita con lo stesso materiale
delle capanne malgasce. Lo scheletro in legno, il tetto coperto
dalle foglie di ravenale la cui durata è assai effimera e le pareti
di falafa intessuta con il gambo delle foglie di ravenale. Da
qualche mese la parete sinistra è inclinata di qualche spanna,
ma pare non abbia intenzione di cadere.
Banchi non ce ne sono troppi e quindi arrivano solo fino
a metà chiesa. Il motivo è semplice: se c’è molto legno
mancano gli attrezzi per lavorarlo. Nel Madagascar, isola ricca
di foreste, arriva del legname lavorato dalla Francia. La chiesa
è dedicata al nostro Fondatore, San Luigi Maria.
L’interno, specie nelle grandi feste, viene ornato con ogni
cura per infondere negli indigeni il rispetto per la Casa di Dio.
Non manca il campanile. Vi è un’autentica campana la
cui grandezza richiama alla mente la campanella che i
contadini italiani appendono al collo delle mucche. I suoi
sostegni sono gli eucaliptus. Quando la si suona, bisogna stare
a rispettabile distanza per non riceverla addosso. L’eucaliptus
infatti dondola come un elastico. Quando poi piove molto,
l’acqua ingrossa la corteccia e allora la povera campanella non
vuole più girare nei cardini.
Se la chiesa è povera, la casa del missionario non è
migliore. Costruita con lo stesso materiale della chiesa, ha però
una variante. Il pavimento è in rapaca, è fatto cioè in corteccia
dell’ormai noto ravenale. Questo pavimento ha molte qualità,
non escluso qualche difetto. Per chi cammina la prima volta,
pare di mettere i piedi su delle molle che si abbassano e
rialzano a scatti. Dalle ampie fessure passa aria refrigerante che
rende ottima la temperatura.
L’unico difetto è questo: dalle fessure, purtroppo, entrano
tanti ospiti indesiderati: lucertole, scarabei, formiche, topi.
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Entrano ed escono a loro piacimento, passeggiando
beatamente. Qualche volta entrano pure dei serpenti…
Ogni missione ha i suoi dolori più o meno varianti, più o
meno acuti. Ad Ilaka la mancanza più avvertita è questa: la
scuola e le Suore.
Mancare una scuola per una missione è quasi un suicidio.
Senza la scuola non si hanno i fanciulli e senza gioventù non si
ha una cristianità domani. È nei giovani che penetra più
facilmente la formazione e la mentalità cristiana. Provo quasi
vergogna scrivere che la mia missione non ha la scuola, ma la
colpa non è dei missionari, la colpa è dei soldi che mancano.
Da un sasso non si spreme acqua. E così si resta ad attendere.
La seconda mancanza è quella delle Suore. Tutto il
mondo femminile è più facile avvicinarlo con le Suore. La
Suora è il vero braccio destro del missionario. Quando vedo
passare le fanciulle pagane con appesa al collo una collana di
amuleti donati loro, quale protezione dallo stregone, allora
penso sempre agli angeli bianchi che mancano alla missione e
penso alle migliaia di Suore disseminate in tutta Italia.
In certi paesi anche piccoli ve ne sono parecchie e qui in
un territorio abitato da 35.000 anime non ve n’è una sola.
Quando si pensa a ciò, vi assicuro che nel fondo dell’anima ci
resta qualcosa di strano che opprime e vi sorregge solo la
speranza che qualche anima generosa abbia ad aiutarvi…”.
Il lebbrosario di Utale: la perla della missione
Nel suo “Diario Africano” P. Pasquale Buodonno
descrive la sua visita ad Utale e il suo lebbrosario, “perla della
missione”.
“...Utale è la località dove i Monfortani hanno sistemato
da più di trent’anni la perla della missione del Nyasaland, il
Lebbrosario.
195
In quel luogo di pianura, in mezzo ad una fitta foresta,
già dal 1908 il Vescovo Mons. Luigi Auneau aveva costruito
un posto di missione. Il passare degli anni gli fece notare una
categoria particolarmente infelice e bisognosa, quella dei
poveri lebbrosi.
In Africa la malattia è allo stato endemico e miete
numerose vittime. Il primo rimedio che viene applicato ai
poveri lebbrosi è ancora quello di cui parla il Vangelo: una
segregazione spietata che butta il povero malato in braccio alla
desolazione più amara. Il cuore del nostro grande Vescovo si
commosse allo spettacolo di questa desolazione disperata e
creò il 1929 il lebbrosario...
Gli angeli del lebbrosario sono le Figlie della Sapienza e
le Suore indigene Serve della Santissima Vergine. Per poter
essere più sollecite nei loro movimenti non solo di casetta in
casetta nel villaggio, ma anche nella vasta periferia, esse
adoperano delle motorette abbastanza veloci e poco rumorose.
Peccato non abbia incontrato qui nel suo luogo di lavoro la
nostra Suor Francesca. Proprio in questi giorni essa era
rientrata in Patria per un periodo di riposo…”.
.
196
1961
Nuovi disordini in Nyasaland
Haiti: espulsi un vescovo e quattro Missionari Monfortani
Il nuovo anno si apre con la notizia che il vescovo Mons.
Remy Augustin e quattro missionari monfortani sono stati
espulsi dalla missione di Haiti.
“...Il Governo di Haiti ha sospeso un giornale cattolico,
espulso il più alto dignitario della Chiesa cattolica e ordinato
l’allontanamento dall’isola di quattro sacerdoti.
Mons. Remy Augustin è stato fatto salire su un
apparecchio in partenza per l’Argentina, dopo quattordici ore
di arresto domiciliare. La Polizia aveva fatto irruzione nella sua
camera mentre egli si trovava a letto e non gli aveva permesso
nemmeno di prendere con sé la protesi dentaria.
In seguito è stata decretata l’espulsione di quattro
sacerdoti fermati in giornata: il Vicario Generale
dell’arcivescovado, il suo Segretario Generale, il Rettore della
maggiore scuola superiore cattolica di Port au Prince e un altro
sacerdote. In precedenza il Governo aveva preso altri duri
provvedimenti contro la Chiesa, espellendo dall’isola il primate
Farancois Poirier”.
Immediata e dura la reazione della Santa Sede che
commina ai responsabili la scomunica “latae sententiae”
riservata in special modo alla Sede Apostolica.
Un forte appello alla collaborazione
Dal Madagascar P. Emilio Nozza “rilancia un appello
ancora più forte”.
“… E’ notte ed i miei cristiani stanno cuocendo i
centomila mattoni terminati dopo tre lunghi mesi. È ora il
bello: i mattoni stanno diventando rossi nella fornace,
mentre… le mie tasche stanno diventando verdi, sempre più
197
verdi. Alcuni mesi or sono ho lanciato un appello alla gente
generosa: a che punto siamo? Nel caso che non ci fossero
risultati rilanciamo l’appello ancora più forte nella speranza
che possa essere accolto. Dovrei in principio iniziare la mia
chiesa il mese prossimo e mi trovo già in fastidio per
comprarmi un poco di cemento. Spero sempre nella Divina
Provvidenza e nell’aiuto di tante persone buone e generose…”.
Ho pensato di procurarmi una moto
Scrive anche P. Carlo Berton per annunciare che da
cavaliere sfortunato è diventato cittadino.
“...La proclamazione dell’indipendenza malgascia si è
svolta nella calma e nell’ordine più perfetto. Ne sia ringraziato
Iddio. In quei giorni nessun disordine all’infuori degli
ubriaconi. I malgasci amano l’alcool ed è una delle piaghe che
affligge il popolo già povero. Quando sono brilli parlano tutti il
francese. Pare che il vino dia loro il dono delle lingue.
Il mio cavallo, dapprima ammalato al piede, ha tirato le
cuoia già da parecchi mesi, e siccome non ero in residenza non
potei vederne neppure la carcassa…
Visto che sono un cavaliere sfortunato, ho pensato di
procurarmi una moto. Chi me la pagherà? Mi è proprio
necessaria, giacché da alcune settimane ho cambiato residenza
e il Vescovo mi ha chiamato a Tamatave nella chiesa di Notre
Dame di Lourdes, in veste di vicario, per aiutare il Curato della
più grande parrocchia della città.
Un grande cambiamento per me. Sono diventato
cittadino! Celebrato il Natale nella brousse ho dovuto partire
per la città. Addio cavallo, corse alla cow-boys, la semplicità
della gente della foresta, addio al bel dialetto Betsimisaraka.
Ora si apre per me una nuova vita: apprendere la lingua
merina ed esercitarmi nella predicazione in francese. La
parrocchia infatti è mista: vi sono creoli francesi e malgasci di
198
tutte le tribù dell’isola, spinti qui dal fenomeno
dell’urbanizzazione. Un lavoro assorbente: 11.000 battezzati
dei 25.000 abitanti della nostra parrocchia. Accanto a noi una
scuola di Fratelli delle Scuole Cristiane con 500 alunni e le
Suore con non so ancora con quante ragazze. Per ora non riesco
ancora ad ambientarmi; spero però che lo farò presto dato che
le persone qui hanno l’aria assai simpatica”.
Notizie frammentarie giungono anche da altri missionari.
Scrive P. Remigio Villa:
“...Le cose vanno malissimo nel Nyasaland. Il partito di
Banda si è scatenato furioso contro la Chiesa perché la si
accusa di aver formato il Partito Democratico Cristiano.
I Vescovi, riuniti, hanno fatto una dichiarazione. Anche il
giornale locale ha riportato la risposta del Vescovo. Ma il passo
del giornale del partito è velenoso e se la prende con il Papa,
con il Vescovo e con il capo del nuovo partito. La gente tira
avanti sempre più povera e miserabile”.
Nonostante i disordini c'è ovunque un fervore cristiano
P. Vittorio Crippa aggiunge: “...Qui da noi, nonostante
gli strombazzamenti dei seguaci di Banda, c’è dovunque un
consolante fervore cristiano. Trecentocinquanta furono i
battesimi e quattrocento le Prime Comunioni.
Il giorno delle Cresime il Vescovo, mentre stava
cresimando, di tanto in tanto mi guardava con due occhi che in
fondo esprimevano la sua soddisfazione, ma come per dire...qui
non finisce più. Ed aveva ragione, perché per arrivare ad
amministrare la Cresima a ottocento cristiani c’era da sudare.
80 matrimoni in un sol colpo. C’era da imparare a
memoria senza sforzo le parole della formula, senza tutto il
resto. Infatti, qui il rituale del sacramento del Matrimonio è
molto bello, ma abbastanza lungo con i suoi salmi e relative
numerose benedizioni…”.
199
Ulteriori informazioni sulla reale situazione del Paese
P. Vittorio Crippa invia ulteriori informazioni sulla
situazione politica del Paese.
“...Da parecchi giorni sono passato dalla diocesi di
Blantyre a quella di Zomba. Da Masanjala, paese della fame,
sono arrivato a Namitendo, paese della miseria. Qui fa molto
caldo e ci sono le zanzare.
A qualche chilometro scorre il fiume Shirè, lungo il quale
si trovano delle scritte: “Attenti ai coccodrilli!”, ma questi che
sanno ben leggere, in barba ai cartelli, mettono la loro pancia al
sole là dove non ci sono scritte, per restare più tranquilli.
Questa mia nuova missione si trova in pieno bosco.
Conta circa 7.000 cristiani che vivono tra molti musulmani. .
Per fortuna ci sono una bella scuola e una modesta casa di
residenza. La cappella fa veramente pietà. Manca tutto.
Sull’altare ci sono due canne di bambù che funzionano da
candelieri. Qualche straccio bianco per tovaglia. Una grossa
scatola per tabernacolo. Signore, abbi pietà di noi!
La missione è tutta da organizzare con chiese e scuole
succursali. In questo tempo il nostro apostolato si fa più
difficile a causa dei movimenti politici. Il famoso dott. Banda
con i suoi seguaci vuole introdurre il comunismo e ne ha già
dato prova lampante attaccando apertamente l’imperialismo del
Vaticano, per cui ha intenzione di organizzare una chiesa
nazionale.
Il suo partito ha ormai conquistato quasi tutti i neri, i
quali aderiscono perché intimoriti con frasi di questo tipo: “Se
non vuoi appartenere al partito, segno che sei con i bianchi”.
Bruciano case, mollano manganellate. Così, anche i
cristiani si lasciano prendere dalla paura e mandano al diavolo
il loro cristianesimo. Ora noi missionari combattiamo
accanitamente e incoraggiamo i fedeli a mantenersi forti.
Grazie a Dio, parecchi comprendono bene che si può
ottenere l’indipendenza senza rinnegare la propria fede… e ci
200
aiutano nella lotta. Vi chiedo una preghiera per me e per i miei
cristiani. È l’unica arma che ci fa forti e, speriamo, vittoriosi!”
Notizie sulla sorte di Mons. Augustin
“L’Apostolo di Maria” informa anche circa il seguito
dell’espulsione di Mons. R. Augustin da Haiti. Le notizie
giungono dagli Stati Uniti a firma di P. Pasquale Buondonno.
“...A trovarmi qui a New York, a contatto di un mondo
nuovo, con la possibilità di rendere più ricca la mia esperienza,
mi ha permesso di assistere pure al penultimo atto di un
dramma della Chiesa Cattolica nella Perla delle Antille: l’isola
di Haiti.
Avevamo appena terminato la Santa Messa il mercoledì
11 gennaio, quando il Padre Generale, qui di passaggio, mi
fece segno di avvicinarmi. Mi mostrò sul giornale: “New York
Times” la notizia dell’espulsione di Mons. Remigio Augustin,
Amministratore Apostolico della capitale di Haiti, Port au
Prince.
Il giornale diceva che al Vescovo era stata data una
direzione obbligata per il suo esilio. Buenos Aires, ci
chiedevamo, cosa andrà a fare lì il povero Vescovo?
Monfortani in Argentina ancora non ce ne sono. Nulla di
improbabile che egli riesca a cambiare rotta e a venire qui negli
Stati Uniti. Infatti, il giorno dopo un telegramma ci avvertiva
che Monsignore sarebbe arrivato all’aeroporto di New York la
sera seguente…
Il motivo ufficiale dell’arresto e dell’ordine di esilio?
Monsignore, in occasione di un suo viaggio nell’America
Latina aveva parlato con un nemico dell’attuale Governo del
Presidente Duvalier.
Intanto noi Monfortani siamo in trepidazione per la più
antica delle nostre missioni: vi lavorano da quasi cent’anni e vi
siamo bonificando, Padri e Suore, la terra e le anime.
201
Come andrà a finire? La Santa Sede ha detto la parola
ufficiale per interpretare i fatti: si tratta di una vera
persecuzione e i responsabili della medesima sono incorsi nella
scomunica riservata al Papa “speciali modo”.
. Dalla missione di Mpiri P. Tarcisio Betti scrive a
“L’Apostolo di Maria” per rompere un lungo periodo di
silenzio.
“Caro Apostolo di Maria, mi sia permesso di rompere il
muro di silenzio pere inviare a te a ai tuoi cari lettori qualche
notizia dalla missione di Mpiri. Pensavo di dover scrivere, in
questo mese, dagli inferi o dal profondo di qualche carcere
Mamertino.
La ragione è semplice. Tre mesi fa, un grosso esponente
del partito nazionale “Malawi Congress Party” fece grandi giri
di propaganda attorno alla missione di Mpiri, e, tra le altre
belle cose, predicava: ancora tre mesi e la missione di Mpiri
diventerà Quartiere Generale e Uffici del Malawi Party…
Quel tribuno non ha mai detto cosa ne avrebbe fatto di
quelli che abitavano a Mpiri… Di più, una quarantina di
camice rosse, delle quali si vestono uomini e donne del partito,
invece di salutare come nei vecchi tempi, alzavano il braccio
destro, chiudevano il pugno, lasciando il pollice in aria, e vi
gridavano: Kwacia, AAzungu! ( S’è fatto giorno, Europei!)
A mettere il formaggio sulla minestra venne un giorno il
commissario del distretto a domandarci che mezzi avevamo di
tagliare la corda in caso di… Allora erano tempi un po’ tirati.
Ascoltando la prediche del tribuno di cui sopra, che la Chiesa
Romana è diventata cattiva, causa la fondazione del “Christian
Democratic Party” da parte di un cattolico, alcuni capi hanno
dato anche fuoco alla chiesa-cappella innalzata nel loro
villaggio; altri proibivano ai ragazzi di frequentare la nostra
scuola.
Tutto questo è stato un temporale che per il momento
almeno si è calmato. Poi non tutti i Malawiani sono degli
202
sfegatati. Per esempio: il predicatore suddetto aveva ordinato di
boicottare i mulini appartenenti ai bianchi, agli indiani. Ciò fu
fatto.
Un maomettano che abita alle porte di Mpiri ed il
capoccia del “Mpiri Branch of Malawi Congress Party”
ricevette l’ordine di venire alla missione per ordinare la
chiusura del mulino che ci aiuta a spingere avanti le scuole.
Qui alla missione non si è mai fatto vedere per dare comandi.
Per ora il mulino continua allegramente a funzionare
richiamando cristiani, maomettani e pagani a portare il loro
contributo alla missione.
Ciò che consola il missionario è che in mezzo a questo
trambusto politico il Signore continua la sua opera salvatrice.
L’anno scorso circa 400 furono i nuovi battezzati tra adulti e
bambini. Tra gli altri convertiti c’è da ricordare una famiglia
della chiesa scozzese, passata alla religione cattolica. Il padre
della famiglia era stato pastore della setta nel suo villaggio per
molti anni.
Nei giorni che passò qui alla missione per prepararsi ad
essere ricevuto nella Chiesa cattolica, uscì con queste parole
che non si possono dimenticare: “Padre, io ho letto e spiegato il
Vangelo e la Bibbia, per molti anni, la domenica, ma devo
confessare che soltanto quando ho cominciato a leggere e
imparare il vostro catechismo ho incominciato a capire il
vangelo…”.
L'anno scorso, in ottobre, con gioia generale si celebrò il
25° della missione di Mpiri. Tutti i Padri che hanno lavorato
qui erano stati invitati con i piccoli e i grandi capi. Qualche
membro sfegatato del “Malawi Party” cercò di mettere un po’
di subbuglio, di disordine e di timore nella grande folla dei
convenuti, ma i grandi e piccoli capi, riconoscenti, vennero a
ringraziare tutti i missionari per il bene operato in questi 25
anni. Dicevano: senza la missione di Mpiri saremmo ancora
nelle tenebre; grazie alla missione di Mpiri tanti dei nostri
sudditi sanno leggere e scrivere e parecchi occupano dei buoni
203
impieghi nel governo. Ma la cosa più sensazionale fu di poter
dire: 25 anni fa la missione di Mpiri si separava dalla
Missione-Madre di Zomba, per cominciare a vivere di vita
propria; e proprio in questo anno giubilare Mpiri sta
diventando madre anch’essa, dando alla luce una sua figlia, la
nuova missione di Namwera…”.
Piccoli e grandi oranti oltre oceano
P. Antonio Marchesi scrive di aver scoperto dei “Piccoli
e Grandi Oranti oltre Oceano”. Rispondendo ad una loro lettera
scrive:
“...Voi mi avete scritto per la Pasqua del 1960 ed io vi
rispondo per quella del 1961. Sono in ritardo? I miei negretti
direbbero di no. Meglio tardi che mai!
Grazie delle preghiere e delle belle notizie. Vi dirò che
mi sono accorto di avere dei “piccoli e grandi oranti” dall’altra
parte dell’oceano, perché qualche volta la scampiamo proprio
bella. Si sente che la mano di un angioletto ci preserva da tanti
e tanti pericoli.
Una volta, per esempio, stavo cadendo nelle sabbie
mobili… Un piede vi era già entrato e stava per entrare il
secondo. Chi mi ha trattenuto in tempo? Non mi sono neppure
reso conto sul momento. Mi sono accorto quando i cristiani
m’hanno detto che l’avevo scampata bella.
E chi mi ha fatto deviare quel toro infuriato che
procedeva contro di me a testa bassa, sbuffando come una
locomotiva, su di un sentiero in mezzo alla foresta? Il mio
catechista che ha visto la scena non esita più un istante a dire
che chi fa muovere gli angeli custodi ci sono proprio e potenti!
Ma io sono convinto che chi fa muovere gli angeli del cielo
sono le invocazioni di voi, fratellini qui in terra. Ecco perché
ho tanta fiducia nelle preghiere di tutti i buoni, ma
specialmente nelle vostre, che ancora conservano il profumo
dell’innocenza.
204
Sono trascorse le feste pasquali. La gente partecipò a
tutte le celebrazioni. Arrivarono per il Giovedì Santo e il
Venerdì Santo i più lontani non fecero ritorno che il lunedì
dopo Pasqua!
I più non portarono con sé che il riso, accontentandosi di
far bollire delle foglie come pietanza. Se alcuni non vennero
era proprio perché erano impediti, dovendo in questa stagione
difendere il loro raccolto dalla voracità degli uccelli e dei
cinghiali. Infatti, quando il riso sta per mettere la spiga è
assalito da orme di uccelli rossi, i cosiddetti cardinali, che se
lasciati liberi distruggerebbero l'intera piantagione. Di notte,
poi, è la volta dei cinghiali o maiali selvatici. Anche loro
vengono a frotte per assaggiare il frutto proibito, ma qualche
volta ci lasciano la pelle cadendo in trappola o in buche
profonde ricoperte con foglie.
Quest’anno si è messa anche la siccità. Gennaio e
febbraio sono i mesi delle grandi piogge, e ordinariamente se
ne ha fino alla gola. Quest’anno invece i campi sono rimasti
asciutti in modo che si stava per perdere l’ultima speranza di
una possibile raccolta di riso.
Gli stregoni hanno sfoderato tutte le loro stregonerie,
cercando le cause prossime e remote di un simile flagello,
accusando un po’ tutto e un po’ tutti, come presunti
responsabili, dimenticando, o piuttosto non sapendo trovare un
rimedio che facesse aprire i cieli.
Noi abbiamo preferito l’arma classica e infallibile: ogni
mattina si cantavano le Litanie dei santi. Però la nostra fede è
stata messa a dura prova e i miei stavano per scoraggiarsi,
quando il cielo ha avuto pietà, lasciando cadere quel liquido
che in poche ore ha rinverdito tutti i campi, riaccendendo la
speranza e ridonando quel sorriso aperto che è la caratteristica
della gente semplice, facile ad accontentarsi di poco. Così
abbiamo forse evitato la carestia, parola brutta in tutti i
continenti e sotto tutti i cieli.
205
Ora gli stregoni pretendono di aver ottenuto la pioggia e
obbligano la gente ad uccidere un bue rosso per ogni villaggio,
minacciando castighi ben più terribili qualora non si
eseguissero gli ordini di Dio, manifestati per bocca di una
pitone. Si ha un ben dire alla gente che i serpenti non parlano e
che il Signore ha ben altre cose per manifestare la sua volontà e
che non ha bisogno dei buoi rossi… Sono ancora troppi coloro
che considerano la parola dello stregone come parola del
Vangelo, per potersi liberare della loro tirannia. E così in questi
giorni mangiano il bue rosso!
Vedete che le superstizioni sono ancora di moda e non
accennano a scomparire. Ne sono immersi fino alla gola…
Fino a quando? Lo sa il Signore. A noi pregare…”.
Ennesimo appello ai commercianti di Verdello (BG)
Ennesimo appello di P. Emilio Nozza ai commercianti di
Verdello:
“...Rivolgermi a voi dalla mia lontana foresta, non credo
sia cosa superflua né inutile. Dalla mia lontana isola del
Madagascar guardo molte volte a Verdello, penso molte volte
ai cari compagni di Verdello.
Sono ormai sei anni che ho lasciato il paese natio per
consacrarmi alla evangelizzazione della Grande Isola Rossa.
Riassumervi in qualche riga il mio lavoro di contatto con questi
indigeni, dispersi tra i monti e foreste è abbastanza difficile.
Essendo vicina la data del mio congedo per l’Italia, invio
ai nostri prossimi incontri il resoconto del mio povero lavoro
apostolico e un giro d’orizzonte illustrativo circa queste
popolazioni e regioni che piangono miseria, nonostante
l'indipendenza politica della Repubblica del Madagascar.
Tutti i subbugli, tutte le rivoluzioni, tutti i rovesci della
politica e dei governi d’Africa, anche se mettono la vostra
anima nell’apprensione per tanti massacri e per tante
206
ingiustizie, spero non vi facciano dimenticare che solamente
l’idea cristiana può e deve portare la pace e l’equilibrio fra
tribù e tribù, tra casta e casta, tra nazione e nazione. Per questo
noi missionari dobbiamo continuare il nostro lavoro.
L’evangelizzazione del mondo in profondità o in
estensione è in ordine del Cristo, perché è il mistero della sua
redenzione che si comunica all’umanità. Perciò anche noi
missionari del Madagascar, benché sia evidente l’instabilità
politica della nostra cara isola, continuiamo nel lavoro di
evangelizzazione e di aiuto a queste popolazioni che guardano
alla Chiesa Cattolica con sempre maggiore ansia e interesse.
Quanto alla mia missione, priva di comunicazioni e
sperduta tra foreste e montagne, dove povera gente vive
continuamente del passato attorno alle tombe dei loro antenati,
senza gioia e senza fede, non posso lasciarla abbandonata.
Miei cari compaesani, non credo sia uno sbaglio di
rivolgermi a voi per domandarvi di aiutarmi nella risurrezione
spirituale di questi nostri fratelli. Il Signore vi ha aiutato e vi
aiuterà in tutto ciò che vi è di più caro e di bisognoso nella
vostra casa e nei vostri affari, se voi aiuterete i vostri fratelli.
Ho deciso di costruire una chiesa in mattoni nel centro
della mia zona missionaria. Voglio rinnovare il loro paese,
distruggendo le loro baite e le loro capanne di foglie e
costruendone delle nuove in mattoni. Sarà una piccola
rivoluzione che non sarà da tutti forse bene accetta per tante
ragioni. Ma bisognerà arrivare là. Conto sul vostro aiuto.
Ho incominciato con la chiesa. È la prima chiesa che non
sia di foglie, in una zona di 150 Kmq. Ho finito tutti i mattoni
che c’erano… e sono solo alla base. Ora bisognerà innalzare i
muri. La costruzione di questa chiesa spero possa portare a tutti
questi poveri indigeni un po’ più di unione, un po’ più di
amore, spero sia l’inizio della loro risurrezione…”.
207
Inizi di una nuova missione… tra i leoni
“Inizi di una missione… tra i leoni”: è il titolo di una
corrispondenza di P. Francesco Valdameri dalla missione di
Mpiri.
“...Anticamente, quando l’Africa era conosciuta solo
lungo le coste, i geografi lasciavano un grande spazio vuoto nel
mezzo di questo immenso continente, e vi si poteva leggere
questa iscrizione latina: “Ibi sunti leones”, qui ci sono leoni.
Ai nostri giorni la carta geografica dell’Africa non porta
più questa segnalazione. Si è popolata di nomi più o meno noti,
ma i leoni ci sono rimasti. Esistono tuttora zone in cui, a notte
inoltrata, i vecchi padroni del paese fanno udire la loro potente
voce e fanno valere l’indiscutibile loro autorità. È in questo
ambiente che stiamo lavorando per iniziare una nuova
missione.
Partendo da Mpiri in direzione nord dell’Africa, sulla
strada che porta al lago Nyassa, a circa 60 Km., lasciati i
villaggi che costeggiano la strada, ci si inoltra per un
chilometro in una zona disabitata.
Tra erbacce alte e sempre fitta boscaglia, si scende in una
vallata fino a raggiungere un torrente. È qui che il Vescovo di
Zomba ha acquistato un appezzamento di terreno per la nuova
missione. Al di là del torrente si ergono alte montagne che
formano una lunga catena fino a raggiungere il lago Nyassa. Su
questi monti mai persona umana osò mettere piede.
Il primo giorno in cui P. Tarcisio Betti arrivò sul posto,
ebbe non poche difficoltà per trovare in mezzo alla boscaglia
una posizione dove iniziare una casa. Era scortato da un
gruppetto di uomini armati e scuri, picconi, zappe e badili.
Seguendo piccoli sentieri aperti tra le erbe dalle gazzelle,
cinghiali, maiali selvatici e compagnia del genere, studiò la
topografia del luogo. Un po’ ovunque vi si notarono per terra le
tracce fresche di bestie selvagge. Caratteristiche e molto
visibili quelle delle scimmie, delle gazzelle e dei cinghiali. Più
208
rare quelle dei leopardi. Qua e là non mancavano quelle del re
della foresta. Di tanto in tanto un fruscio tra le erbe metteva in
allarme la comitiva: nulla da temere; erano gazzelle o scimmie
che fuggivano udendo la voce degli uomini..
Più di un mese di lavoro per abbattere piante e far luce su
un promontorio roccioso, avvistato come una delle migliori
posizioni per una casa. Nel frattempo si costruì in lungo
capannone che servì da rifugio per la notte.
In pieno giorno, mentre gli uomini lavoravano, si
vedevano di tanto in tanto truppe di piccole e grosse scimmie
saltellare sulla spianata, libera da piante. In mattinata vi
facevano regolare apparizione i maiali selvatici e i cinghiali.
Ritornavano dalle loro scorrerie notturne nei campi di mais e
andavano a rintanarsi giù al torrente. Queste visite erano di un
gusto selvaggio, ma gradevole. Si aveva l’impressione d’essere
lontani mille secoli dal mondo attuale. Si era a contatto con la
natura come fu nella fase primitiva.
Di notte però, altri visitatori, benché anch’essi di stampo
primitivo, erano quanto mai indesiderabili. Vi basti dire che P.
Betti, dopo alcune settimane di soggiorno si sentì costretto a
ritornare a Mpiri per rifarsi del sonno perduto. I leoni non
avevano un po’ di ritegno nei loro potenti ruggiti notturni…
Così iniziò la nuova missione per la tribù degli Aiao. I leoni
sono solo un accidente….
Di buon mattino parto da Mpiri con P. Betti, alla volta di
Namwera, dove già da circa un mese si sono iniziati i lavori per
la nuova missione. È la mia prima visita a quel luogo.
Giungendo non vedo che un grande piazzale in mezzo alla
foresta ed una capannone di paglia. I lavoratori non fanno che
portare pietre. Scegliamo la posizione migliore e tracciamo su
carta il piano regolatore… Alcuni uomini accendono un fuoco,
prendono le loro pentole di terracotta e si preparano un
meritato pranzetto. Avevano fatto portare dalla missione di
Mpiri un sacco di farina di mais ed un altro di fagioli. Tutti
trovano così di che sfamarsi.
209
Dopo il frugale pasto P. Betti ed io visitiamo i dintorni
della missione. Scendiamo giù al torrente, lo attraversiamo e ci
arrampichiamo per un tratto sul dorso della montagna fino a
che possiamo contemplare in basso tutta la vallata. Scorgiamo
lo spiazzale in cui si sono iniziati i lavori. Più lontano si vede
l’altipiano con la strada che conduce al lago Nyassa. Qua e là,
in lontananza, si vedono gruppi di capanne e appezzamenti di
terreno coltivati dai neri.Ci sediamo su una grossa roccia e
fumiamo alcune sigarette. Nel frattempo P. Betti mi indica le
località nelle quali fece visita ai diversi capi villaggi per
avviare qualche scuola. La prudenza però ci suggerisce di
scendere presto al torrente e raggiungere il capannone, perché
al tramonto del sole si sarebbe potuto avere qualche incontro
indesiderato.
Sono le 18 e già si fa buio. Stiamo seduti fuori del
capannone. Si parla del più e del meno con i lavoratori, quando
sentiamo un primo ruggito di leone: un roboante urlo che
risuona nella vallata, seguito da una serie di sbuffate che
diminuiscono in potenza fino a spegnersi tra le montagne.
Dalla direzione nella quale giungono a noi i ruggiti possiamo
accertarci che il leone sta scendendo pian piano dalla
montagna. A più riprese ripete la sua vecchia canzone che si fa
assordante e mette brividi nelle vene.
I lavoratori per primi si ritirano nel capannone, sbarrano
la porta di canne con grossi pali. Anche noi due ci rassegniamo
alla gloriosa ritirata. C’è uno scompartimento per noi.
Aggiustiamo i letti da campo e cerchiamo di fissare la porta
con un bastone. I ruggiti ci fanno sempre più vicini. La cosa
sembra diventi seria. Prendo il sacco di farina, il tavolo e la
sedia.. E li appoggio alla porta.
P. Betti, per incoraggiarmi, scherza e ride delle mie
precauzioni, ma neppure lui è del tutto tranquillo. Se quella
belva avesse voluto prendere qualcuno di noi tra le sue
mandibole e divorarci come se si trattasse di un pollastrello, le
sarebbe bastata una zampata alla porta o un piccolo salto sul
210
tetto di paglia e scendere nel bel mezzo della capanna. In
genere, però, non è sua abitudine agire in tal modo con gli
uomini. Si accontenta di dare lezioni indimenticabili soltanto a
chi osa, nottetempo, competergli la libertà di girare…
Sono le ore 22… è vicino. Si vorrebbe trattenere il
respiro per non far notare la nostra presenza. Ci consola solo il
pensiero che non è la prima notte che i leoni passano di qui, da
quando gli uomini pernottano nel capannone. Difatti si odono i
ruggiti che si allontanano in direzione dei villaggi. Il cuore
rallenta i suoi battiti. Ci si può abbandonare al sonno. Verso
l’una e le due sarà di ritorno con una capra o una bestia
selvaggia in bocca. Ma il suo ritorno non ci farà più paura,
poiché avrà di che sfamarsi.
Salutiamo l’alba con grande gioia. I nostri lavoratori,
ormai abituati, trovano interessante fare subito visita giù al
torrente, nel luogo dove il leone è solito divorare la sua preda.
Sono curiosi di sapere che cosa abbia divorato; soprattutto
sperano di trovarvi qualche cosa anche per loro. Infatti, i leoni
sono molto delicati di stomaco: scelgono solo i pezzi
migliori… del grasso non se ne curano…”.
Nell’Isola Rossa
Nel mese di luglio P. Pasquale Buondonno pubblica una
sorta di “Diaro” del suo viaggio in Madagascar, seguito a
quello nel Nyasaland. Ecco alcuni stralci.
“...il Supercostellation atterra nel campo di aviazione di
Arivonimano, a 70 Km. da Tananarive. Dall’alto intanto ho già
potuto contemplare il vascello gigante nel fianco dell’Africa:
così è stato definito il Madagascar. È, per grandezza, la terza
isola del mondo subito dopo la Nuova Guinea e il Borneo. Ha
una superficie di 490.000 chilometri quadrati, due volte quella
dell’Italia, ma una popolazione di soli 5 milioni di abitanti.
È un crocevia di continenti. A girare per le strade della
grande città, si dà subito ragione a colui che dal punto di vista
211
della popolazione ha dato questo nome al Madagascar. Se
volete offendere un malgascio non avete che a dirgli ch’egli è
un africano. Niente Africa qui, dice egli. Qui siamo un popolo
tutto speciale e se proprio volete classificarci dovete metterci
piuttosto con l’Asia e con l’Australia…
Il lato più simpatico di questa grande isola è proprio il
miscuglio e la parità di diritti di tutte le razze. In Africa, con
tutta la buona volontà e con tutto lo spirito cattolico un bianco
si sentirà portato a tenersi un po’ distante dal nero e il nero dal
bianco. Nelle chiese la navata centrale è riservata ai neri e i lati
del presbiterio ai bianchi. Un nero non oserà mettersi alla
stessa tavola del bianco e così in quasi tutte le manifestazioni
della vita civile. Solo i sacerdoti africani cominciano, aiutati
dai nostri padri, a rompere questo rigoroso e a volte spietata e
urlante barriera del colore.
Qui in Madagascar vi è la perfetta fusione e la perfetta
parità delle razze. Nel Nyasaland il meticcio è considerato un
povero paria, mentre nell’Isola Rossa nessuno si sente di dover
arrossire se è nato da due genitori che non hanno lo stesso
colore della pelle. Nelle chiese vedrete fianco a fianco in
perfetta fraternità un nero, un bianco, un giallo, un olivastro, un
vero arcobaleno di facce.
L’Isola Rossa: il nome se lo merita assai bene,
specialmente per chi guarda la terra della capitale. Il rosso,
scrive il Launois, s’impone ai nostri occhi quando la nave entra
nella rada di Majunga: rosso cupo e sporco del fiume, rosso
vivo e sostenuto delle rocce, rosso ocra della Punta di Sabbia
sulla quale si erge la città, rosso violaceo degli altipiani. È
giustificato quindi il nome di Isola Rossa, almeno per la
maggior parte del territorio.
Attorno alla Capitale anche le casette contribuiscono a
dare questa impressione: sono costruite di mattoni di una rosso
molto carico. Purtroppo c’è la minaccia che questo rosso del
suolo e delle case si trasformi in rosso politico. I comunisti
lavorano accanitamente e i capoccioni sono ben foraggiati da
212
Mosca. Nelle ultime elezioni proprio a Tananarive hanno vinto
i marxisti. Qui, come altrove, la barriera anticomunista è
costituita unicamente dal Cristianesimo…”.
Qui, attualmente, c’è calma
Dal Nyasaland P. Vittorio Crippa fa sapere che “il denaro
è un grande tiranno ma anche un ottimo servitore…”. Accenna
anche alla situazione politica del paese:
“… Qui nel Nyasaland, al presente, c’è calma…, però
anche sforzandoci di essere ottimisti si teme sempre, perché il
partito di massa, di tinta comunista, accortosi degli sbagli fatti
con un attacco terribile e aperto alla Chiesa cattolica, sta
camuffando il rosso per non perdere compagni tra i nostri
cristiani. Nonostante ciò noi lavoriamo sempre e con frutti
sorprendenti. Il numero dei nuovi battezzati, adulti e neonati, è
altissimo, ancor più degli anni scorsi. A Namitembo, la mia
missione, i nuovi cristiani sono stati duecento, mentre l’anno
scorso solo ottanta.
Quello che più preoccupa è la situazione finanziaria. In
quasi dodici anni di Africa non mi sono mai trovato in una
situazione così spaventosa. Non si può fare niente con tutto
quello che si dovrebbe fare… In certi momenti mi dispero
proprio… e se non ci fosse la fede nella Divina Provvidenza ci
sarebbe da diventare matti.
A fine mese mi occorrono cento sterline per pagare i
maestri di catechismo e non ho un becco di un quattrino. Se ti
presenti al Vescovo ti mostra la sua borsa vuota e ti licenzia
con una bella benedizione che apprezzo molto, ma che in verità
non basta...Perdonate, cari lettori, questo sfogo un po’
materiale, ma ricordo le parole di Pio XI: “Il denaro è un gran
tiranno, ma anche un ottimo servitore” e… quindi potrebbe
servire benissimo alla causa dell’estensione del Regno di Dio e
della Madonna.
213
Vedendomi le mani legate davanti a tanto bene che si
potrebbe fare, mi sento stringere il cuore e calar un pochino
le… braghe! Dico a tutti quelli che possono fare qualcosa per
la causa missionaria: aiutatemi! Aiutatemi! Aiutatemi!”
Notizie dei due nuovi missionari giunti in Madagascar
Dal Madagascar, sbarcati da poco, i due nuovi
missionari, P. Angelo Rota e P. Achille Valsecchi scrivono:
“… Finalmente siamo giunti nell’Isola Rossa tanto
sospirata dai nostri ardori missionari. Proprio così! Abbiamo
preso la terza classe, che sconsigliamo ai futuri missionari,
perché le cabine erano vere topaie e insetti di ogni genere
formavano un battaglione di prima linea. Hanno rosicchiato
abiti e valige, perfino la barba e i baffi. Basti dire che P.
Achille Valsecchi un mattino si svegliò senza la punta dei baffi
dal lato sinistro. Fu una cosa terribile per lui guardarsi allo
specchio e vedersi mutilato di ciò che aveva di più caro e che
non avrebbe sacrificato per nessun motivo. Noi parliamo poi
degli sballottamenti, delle paure di un mare in tempesta. Non
sappiamo le volte che abbiamo recitato “l’Atto di dolore”!
Abbiamo sofferto il mal di mare per parecchi giorni… Tutto è
iniziato a Marsiglia il 5 settembre.
Le prime impressioni qui in Madagascar furono ottime.
Simpaticissimi i Padri, educatissimi i malgasci. Nei nostri
primi giorni di permanenza a Tamatave abbiamo visitato le
nostre cinque parrocchie.
Le chiese non le possiamo paragonare alle nostre
cattedrali italiane e nemmeno alle nostre parrocchie con
pavimenti in marmo, con finestre istoriate, con pareti affrescate
e con tendaggi ricercati. Le chiese di Tamatave hanno il loro
bel tetto in lamiera, i muri più o meno bianchi, il pavimento in
cemento livellato, i banchi decenti, l’altare in muratura e anche
il campanile dal quale partono rintocchi stonati, ma sempre
invitanti alla preghiera.
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La meraviglia delle chiese malgasce è la folla dei fedeli
in preghiera, una preghiera comune, raccolta, sincera,
fervorosa, vibrante di fede e di amore. E questa preghiera ha un
accento possente con il canto corale. Sono centinaia e centinaia
di uomini e donne, giovani e fanciulli che innalzano le loro
orazioni al Signore e alla Vergine Santa con una varietà di toni
alti e bassi possenti e sussurranti, misti e drammatici, melodici
e sincopati, sotto la direzione di un catechista. Cantare a più
voci e sempre a contrappunto è connaturale all’animo
malgascio; ed è vera l’espressione dei nostri missionari che qui
si nasce musicisti.
I malgasci sono nobili per sentimenti e per
comportamento. Mai si contraddicono tra di loro. Mai diranno
al compagno di conversazione che ha torto. Sempre uno loderà
l’altro per la proprietà del parlare, per la profondità e
assennatezza del discorso e per la pacatezza dei gesti.
Quando incontrano un sacerdote si inchinano con rispetto
e vi salutano porgendovi le due mani per stringere la vostra. Si
sentono onorati se date loro una sigaretta o se chiedete notizie
dei parenti. Il malgascio, tuttavia, è suscettibile. L’ingiuria più
grave sarebbe di chiamarli neri o africani. La lode più ambita è
di osservare la loro pelle e dire che è quasi bianca. Siete sicuri
che in questo modo vi renderete simpatici e vi fate degli amici.
Nella città di Tamatave vi sono rappresentate diverse
razze e tribù. Vi sono i bianchi, i creoli, i cinesi, e veri africani,
i malesi, il tipo malgascio con la sua capigliatura liscia e di
color ebano. Sembra di assistere allo spettacolo pentecostale
annotato dagli evangeli. Non c’è divisione; ma si ammira la
carità di Cristo che unisce popoli e abitudini diverse. Queste le
nostre prime impressioni.
Attualmente siamo a Brickaville per imparare la lingua
malgascia. Speriamo, dopo tre mesi, di farci comprendere...e
incominciare la nostra vita missionaria…”.
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Con il suo diario africano P. Pasquale Buondonno
riprende le notizie sul Madagascar.
“Per deserti e per foreste”. Così titola il suo nuovo
articolo dove racconta il suo itinerario verso il Sud della grande
Isola Rossa. Nessuna novità rispetto a quello già descritto dai
missionari residenti. Parlando di “ricchezza e di miseria”
commenta: “...Se la gente lavorasse di più, quanta ricchezza
potrebbe ricavare dal suolo! E invece spesso si contentano di
vivere solo alla giornata, senza nessun senso di risparmio per
l'avvenire”.
Una nota curiosa di questo “Diario” è riferita alla
missione di P. E. Nozza, Ambodilafa.
“… E’ il regno del P. E. Nozza. Lo abbiamo raggiunto
dopo un altro lungo viaggio verso l’estremo sud. Che fatica per
arrivarci! Ma una volta lì si trova come un piccolo paradiso
terrestre. Una collinetta tutta circondata da cime più alte. Ai
piedi scorre un fiume che sembra fermo nel proposito di non
voler fare scherzi.
Ho dormito nella casetta del Superiore, separata dalla
casa comune dei missionari. La prima notte ho avuto un
mistero sotto il pavimento: un continuo raspare con guaiti
intermittenti. Che bestie saranno? La mattina seguente ho avuta
la spiegazione: il cane dei missionari e le loro galline che
trovano lì sotto rifugio durante la notte. Niente paura, allora!
Il Superiore la mattina mi accompagna con la macchina
su per i monti: tre ragazzi vengono con noi per raccogliere
foglie di palma nel bosco fittissimo di questa zona; serviranno
per fare cappellini e cesti.
Attorno alla missione di Ambodilafa vi è una bella
piantagione di caffè, proprietà dei missionari. All’ingresso del
viale che dalla missione conduce al villaggio c’è l’Immacolata
di Verdello. È il P. Nozza che ne racconta la storia. La bella
statua proviene dal suo paese nativo. Dove metterla? Egli
aveva trovata una sede naturale lì vicino. È credenza dei pagani
malgasci che quando si trova una grossa pietra prismoidale,
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ritta su una delle basi, dentro ci sia l’anima di un defunto. E in
omaggio a quell’anima prigioniera e… forse affamata mettono
sulla base superiore del riso e anche delle monete,
Padre E. Nozza vi ha messo l’Immacolata e l’ha voluta
con la faccia verso il villaggio di Ambodilafa perché Essa
guardi pietosa quei suoi poveri figli smarriti e li attiri alla vera
fede…”.
Il Superiore Generale visita il Madagascar
Anche P. Cornelio Heligers, Superiore Generale, visita il
Madagascar:
“… Era venuto nell’Isola Rossa perché il Padre voleva
incontrasi con i figli e desiderava vederli sul campo di lavoro.
Perciò non è rimasto solo a Tamatave, sede e centro della
diocesi affidata ai Monfortani. Non ha voluto visitare
solamente le cinque parrocchie della città, ma si è recato nelle
più lontane cristianità.
È un avvenimento eccezionale per la Congregazione,
perché registra nelle sue cronache la prima visita di un
Superiore Maggiore nell’Isola Rossa.
I viaggi nella regione di Tamatave sono tutti interessanti
per la diversità dei paesaggi. Vi sono colline sempre verdi,
montagne brulle, pianure coltivate a riso e a canna da zucchero,
deserti aridi e assolati, fiumi sempre pieni d’acqua. Oltre
all’aspetto pittoresco, il viaggiatore vi trova anche l’avventura.
Una escursione in jeep in queste regioni quasi disabitate
ha le sue incognite. Se si rompesse la vettura, si aspetta anche
per più giorni l’occasione propizia per continuare il viaggio. E
nel frattempo si invoca da Dio la rassegnazione e la pace
interiore
Il Padre Generale è rimasto incantato nell’attraversare i
fiumi sulle zattere. L’incanto viene dalla riviere sempre
sorridenti di fiori, sulle quali Dio ha profuso a piene mani
l’opera della sua fantasia. Ma l’incanto svanisce quando si
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scorge un certo animaletto affiorare dall’acqua, che vi guarda
con occhi sornioni di innamorato e invita a tuffarsi nel fiume.
Questo animale si chiama coccodrillo. Bocca immensa, denti
acuminati, corpo squamato, coda agilissima. E allora i minuti
diventano ore e i metri diventano chilometri. E si giunge alla
riva con il singulto e madidi di sudore. Il nostro Padre Generale
fu più volte preso da questa sensazione. Ed allora chiudeva gli
occhi per meditare sulla Sapienza del Creatore e si sforzava di
ripetere le parole di San Francesco: “Laudato sii, mi Signore
per frate coccodrillo”. Ma li riapriva subito per la stranezza di
chiamare un animale tanto inquietante con il dolce nome di
fratello.
Ed ecco il Padre Generale giungere nelle diverse
residenze dei Padri Monfortani. Ci sembrava strano baciare la
sua mano, salutarlo, parlare con lui, ridere con lui, sedersi alla
stessa mensa. Ci pareva di toccare il cielo con il dito. Il Padre
parlava con tutti. Ascoltava tutti, rispondeva a tutti,
incoraggiava ognuno con amore e comprensione. Era felice
perché condivideva la stessa vita dei figli. “Quando terminerò
la mia carica di Superiore, tornerò nel Madagascar come
missionario”. Spesso ripeteva questa frase. Perché? Non disse
il motivo, ma è facile pensarlo. Perché è rimasto entusiasta del
lavoro missionario svolto dai suoi figli; perché ha costatato che
qui c’è bisogno di sacerdoti; perché ha preso conoscenza che il
popolo malgascio è meritevole di attenzione per la signorilità
del parlare, per la delicatezza del trattare, per la dolcezza del
carattere e per la devozione ai padri.
Il Padre Generale ha scoperto nell’animo malgascio la
nobiltà dei sentimenti espressi nel canto in una melodia varia.
Sentire mille voci di uomini, donne, giovani, fanciulli è
impressionante e suscita meraviglia e l’ascoltatore esclama:
Qui nel Madagascar si nasce veramente musicisti! E il nostro
Padre Generale, che ha ottenuto dalla madre natura la
sensibilità vibrante di intendere la musica, ha voluto risentire
gli inni religiosi che i fedeli malgasci innalzano a Dio e alla
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Vergine nel raccoglimento della Chiesa e del tempio familiare.
Eravamo noi, nel silenzio della sera, sotto lo sguardo trepido
delle stelle, che cantavamo in malgascio. E fissavamo lo
sguardo nel volto del Padre trasfigurato dall’espressività delle
melodie ed illuminato dalla tiepida luce degli astri.
Se il Padre Generale fu bene impressionato dei
Monfortani che lavorano nel Madagascar per estendere la
Chiesa di Dio, noi missionari non abbiamo parole capaci di
esprimere la nostra riconoscenza per la sua visita. A lungo
rimarrà nel ricordo.
Quando saremo attanagliati dalla sofferenza e dallo
sconforto, penseremo alla giocondità del Padre. Quando nel
nostro animo canterà la gioia di avere conquistato un altro
figlio di Dio, noi penseremo al Padre. Quando saremo stanchi
per i lunghi viaggi sotto la pioggia e sotto il sole bruciante,
penseremo al Padre che ci addita il Cielo. Quando le nostre
forze diminuiranno, pregheremo Iddio di realizzare la parola
del nostro Padre Generale: Quando terminerò la carica di
Superiore, tornerò nel Madagascar come missionario”.
Come si sposano i malgasci?
Su “come si sposano nel Madagascar” interviene P.
Alessandro Assolari.
“Giungendo un giorno in un villaggio dove di straniero
non era passato che il missionario, trovai tutti gli abitanti
dinanzi alla casa del sacrificatore di buoi. Chiesi di che si
trattasse. C'era uno sposalizio.
Non entrai nemmeno nella capanna riservatami. Mi
frammischiai tra la gente appoggiandomi all’angolo della
capanna ove si trovavano le due colombelle, centro della festa,
e una piccola folla di parenti ed amici. Una grande tazza di
bevanda alcolica, estratta dalla canna da zucchero, fa il giro tra
la gente: ognuno ne beve a sazietà. Stanco del viaggio ed
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assetato, non lascio certo passare il mio turno e ne bevo una
buona sorsata. La gente è contenta e ride. Anch’io sorrido,
assorbendo la bevanda rimasta tra i baffi…”.
P. Angelo Rota invia notizie sul suo primo viaggio
missionario.
“Arrivando in Madagascar il nostro più grande desiderio
era quello di incontraci con i confratelli italiani che vivono
nelle più lontane residenze, a 350 Km. L’occasione della visita
del Padre Generale, che si trovava a Mahanoro, fu ottima.
Decidemmo sui due piedi e partimmo di buon mattino con un
trenino locale per Ambila, a 10 Km. da Brickaville.
Fuori dalla stazione erano allineati grossi camion più o
meno in efficienza, che sembravano tornare da mille battaglie.
Smaliziati da Fra Paolo ci precipitammo per avere un posto in
cabina, onde evitare qualche scossone, ed eccoci sulla strada di
Vatomandry. Un centinaio di chilometri su una strada che per il
paese è una vera grazia di Dio, mentre da noi potrebbe
gareggiare solo con le stradine in mezzo ai campi, come quelle
che percorrevo io da ragazzo con la mia vecchia e bolsa Balilla.
Attraversammo due grandi fiumi su grossi zatteroni,
spinti a motore, e a mezzogiorno eravamo a Vatomandry, dove
il buon Superiore ci trattenne fino all’indomani per farci
visitare il cantiere di Fra Paolo e il grosso villaggio destinato in
un lontano domani ad essere una delle città della giovane
Repubblica Malgascia.
Il giorno dopo, un altro camion, il postale, ci portava a
destinazione, Mahanoro. Fu il tratto per così dire il più
interessante del nostro primo viaggio nell’Isola Rossa.
Appollaiati nella cabina ci studiavamo di prendere la posizione
migliore anche per poter gustare la meravigliosa vegetazione
della foresta.
Di tanto in tanto gli occhi di P. A. Valsecchi si
incontravano con i miei e a stento si conteneva la voglia matta
di ridere per i sobbalzi dovuti alle irregolarità del fondo
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stradale. Se l’autista cercava di evitare una buca ne trovava
altre tre o quattro delle quali non poteva affatto salvarsi. Che
volte, quando si ha un fondo stradale fatto di sabbia non si può
pretendere molto.. e bisogna vedere come ci camminano veloci
gli autisti malgasci: certo i meno fortunati sono i passeggeri.
Arrivati al primo fiume da attraversare con il traghetto
fummo costretti ad una sosta forzata di due ore e mezzo.
Cos’era accaduto? Dei due zatteroni uno era rotto e l’altro
tornando dalla sponda opposta aveva sul suo groppone un
camion rimasto giustamente con il motore spento dal momento
che vi era salito per traghettamento. Era interessante vedere i
buoni malgasci cercare il mezzo per farlo scendere a terra.
Dopo una mezz’ora di sforzi per accendere il motore si
accorsero che il difetto stava nel serbatoio: non c’era più
benzina.
Fu allora che un tipo venne a domandarmi in un francese
che per la verità non faceva invidia al mio, cosa avrei
consigliato di fare. Dissi che bisognava spingere il camion a
forza di braccia e rimorchiarlo.
Al sentire che proponevo di spingere il camino carico di
riso, mi guardarono e nei loro sguardi non mi fu difficile
leggere una parola che non mi dissero solo per rispetto alla mia
veste: pazzo! Consigliai di rimorchiare, ma i proprietari del
camion, in attesa di passare, fecero orecchio da mercante. Non
c’era mezzo di uscire da tale penosa situazione. Pensai che
l’esempio pratico avrebbe forse potuto rompere l’incanto a con
P. A. Valsecchi cominciai a spingere. Un fulmine a ciel sereno:
in un istante uomini, donne e bambini si attaccarono al camion
e persino un autista si decise a prestare la sua opera,
rimorchiando.
Quando il camion fu a terra erano trascorse due ore e
mezzo. Si partì di corsa. Il conduttore del postale mi pregò che
all’arrivo a Mahanoro gli facessi da testimone per dire al Capo
che il ritardo non era dovuto a lui. Benissimo!
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Facemmo pochi chilometri e di nuovo dovemmo
fermarci: stavolta era il postale che non poteva continuare:
aveva una balestra che non funzionava a dovere. Fu qui che
potei ammirare l’ingegno e la sveltezza dell’autista. Levò la
balestra rotta, la girò nel senso contrario e, un quanto d’ora
dopo potemmo riprendere il viaggio.
Toccammo Ilaka, l’antica missione di P. Carlo Berton, ne
salutammo i confratelli mentre il postale faceva il giro del
villaggio e poi via decisi.
Arrivammo a Mahanoro che faceva già buio; otto ore per
un totale di 120/130 chilometri, ma infine ci arrivammo! Alle
nostre espressioni di meraviglia i confratelli anziani del luogo
ci dissero di ritenerci fortunati, poiché se invece del postale
avessimo preso un taxi qualunque saremmo certamente rimasti
per strada…
Per i malgasci il tempo non conta: passato un giorno ne
verrà un altro. Alla fine dei conti il tempo è tutto attaccato. Essi
sanno che ovunque si trovino avranno un pugno di riso e un
buco per trascorrere la notte e per loro questo è tutto. Ma a noi
che viaggiamo per la prima volta in questa terra riusciva strano
di vedere la calma e la pacatezza dei malgasci. Ci abitueremo
anche noi!
A Mahanoro trovammo il Padre Generale, circondato dai
confratelli della residenza e dei dintorni. Anche P. A. Marchesi
e P. P. Valsecchi erano scesi dai loro altipiani, mentre P. A.
Assolari e P. E. Nozza arrivarono soltanto due giorni dopo.
Restammo assieme una settimana e vi assicuro, furono giorni
pieni di allegria…”.
Brevi “cosucce” provengono da vari missionari. P.
Emilio Nozza fa sapere:
“… I Confratelli mi hanno chiamato il 'marciatore di Dio
e della Madonna'. È proprio vero. I miei piedi non sanno più
contare i chilometri percorsi su e giù per i monti e in mezzo
alle foreste, in cerca di anime. Dopo l’incontro a Tamatave con
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i due nuovi missionari arrivati dall’Italia, ripresi il mio
cammino, dove la chiesa in costruzione mi aspettava. Fra
poche settimane spero di aver tirato su i muri. Non mi resterà
che il grattacapo delle lamiere di zinco per il tetto.
Come farò a procurale se sono senza soldi? Mi
occorrerebbero 100.000 lire. Che cosa sarebbe per un
milionario! Ma sono sicuro che i poveri, e sono sempre i poveri
che danno con il cuore, mi aiuteranno a terminare la prima
chiesa in questa mia missione, sperduta tra le foreste e i
monti…”
Anche P. Remigio Villa chiede aiuto: “...Le costruzioni
vanno avanti così così. Una chiesa è stata coperta con tegole…
Per i neri è più bella di una basilica. Ho altre due chiese senza
tetto! Non so come fare… Intanto si dice la Messa all’aria
aperta e in questo modo bisogna fare il parroco di 14.000
fedeli! Il buon Dio e le buone persone mi aiuteranno, come
sempre mi hanno aiutato…”.
Scrive anche P. Francesco Valdameri. “… La vita
missionaria a Mpiri continua più o meno con il medesimo
ritmo di viaggi a mai finire, di villaggio in villaggio. Però se le
gambe si stancano il cuore si consola. Sono stati già battezzati
in due mesi 200 adulti. Alla fine dell’anno raggiungeremo
ancora 500 battesimi.
Abbiamo qui la Legione di Maria che fa miracoli. Sono
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soldati sotto il vessillo dell’Immacolata. Così, gran parte del
lavoro missionario è in mano alla Madonna e ai suoi legionari.
Solo mancano i sacerdoti per amministrare i Sacramenti. Siamo
in due soli...aspettiamo rinforzi e aiuti. C’è posto e lavoro per
tutti… Dio lo vuole! … E' un ambiente ostile, è un mondo
chiuso dinnanzi a noi missionari.
Anche per la missione di Mpiri dovremmo fare la
medesima constatazione a proposito di conversioni
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musulmane. Comunque non abbiamo diritto di scoraggiarci e
tanto meno di alzare le mani in segno di resa. P. Betti e P.
Valdameri lavorano da anni in questa missione: un lavoro duro,
penoso, in mezzo ad una grande povertà. Pur proferendo le loro
migliori energie nel penetrare nella popolazione pagana hanno
saputo creare le premesse di un dialogo con i maomettani del
luogo. In meno di due anni di lavoro hanno costruito una casa
moderna per le Suore indigene, un Dispensario ed una Casa di
Maternità.
Queste opere incidono profondamente nei due ambienti.
Soprattutto i musulmani vedono e sentono aumentare sempre
più l’ascendente del cattolicesimo nei loro villaggi. Sapere
creare quelle condizioni umane che permettano il disgelo del
mondo musulmano verso i cattolici, è il primo dovere per noi
missionari se vogliamo penetrare in questo mondo chiuso.
Anche nel Nyasaland l’evangelizzazione dell’Islam è
condizionata da questo metodo. Il cammino sarà lungo prima di
giungere ad un’apertura di un vero dialogo con le tribù degli
Aiao. Un giorno però anche su questa terra a nord-est di Mpiri
splenderà il sole. Colui che ha vinto il mondo estenderà il suo
regno anche nei villaggi maomettani”.
Due leoni nel villaggio
P. Francesco Valdameri racconta le sue disavventure
missionarie.
“… Sono le due di sera. Nel camioncino che lasciai
pochi minuti fa all’entrata della casa vi è ancora adagiato un
materasso impregnato di sangue. Vorrei distendermi nel letto
per attendere il sonno, ma non riesco. Meglio che prenda la
penna in mano per ricostruirvi le vicende che ho vissuto in
questi giorni.
Da una settimana due leoni avevano messo in subbuglio
tutti i villaggi circostanti la missione di Mpiri. Usciti dalla
foresta, ad una ventina di chilometri da qui, avevano stabilito la
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loro dimora su una collinetta situata in zona abitata. Ogni sera,
fino a notte tarda, facevano udire i loro terrificanti ruggiti e
nelle tenebre scendevano ai villaggi in cerca di preda…
La gente aveva prudentemente rinchiuso nelle proprie
capanne capre, polli, maiali e cani. Da un giorno all’altro ci si
augurava che i due disturbatori della quiete pubblica
ritornassero nella foresta.
Improvvisamente ieri sera, mentre si faceva buio, si sono
udite grida disperate. Uno dei leoni si era avventato su un
gruppo di donne che stavano ritornando al villaggio. La belva
ne aveva azzannata una e se l’era trascinata a poca distanza in
mezzo alle erbacce alte.
La notizia si sparge subito nei villaggi vicini. Gli uomini
più coraggiosi escono con lance, coltellacci, bastoni e fiaccole.
Tutti incominciarono a urlare e a vociare per impaurire il leone,
con la speranza che abbandonasse la povera donna. Difatti la
belva se ne fugge, ma sul luogo della disgrazia si sono potuti
trovare solo la testa e due mozziconi di gamba, orribilmente
maciullati. I parenti raccolgono pietosamente questi resti umani
e se li portano al villaggio. Li depongono in mezzo al piazzale,
accendono il fuoco: tutti gli anziani del villaggio si riuniscono
per la veglia mortuaria e giurano vendetta.
Stamattina in ogni villaggio circostante è giunto un
avviso del capo: tutti devo riunirsi per dare la caccia e uccidere
la belva! In poche ore la collina, dove si sono rifugiati i due
leoni è letteralmente circondata da uomini armati fino ai denti.
Uno di loro ha un fucile da caccia. Accompagnato dal
gruppetto dei più coraggiosi avanza quatto quatto tra le erbe e
si spinge verso la cima della collina, mentre gli altri salgono
contemporaneamente da tutte le parti per stringere l'assedio.
La belva incomincia ad agitarsi. La si vide da lontano,
ora ritta su una roccia, ora saltare improvvisamente dietro i
cespugli.. La lenta avanzata d’assedio dura da una paio d’ore. Il
cacciatore provvisto di fucile si trova ormai ad una ventina di
metri, nascosto dietro una roccia, col fucile spianato, in attesa
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del momento favorevole. Il leone dimenandosi qua a e là si
accorge della vicinanza di quel gruppo di uomini e, con uno
scatto rabbioso, si avventa su uno di loro. Il cacciatore tira un
colpo e lo ferisce al petto. La belva inferocita non dà a vedere
di essere stata ferita a morte e si getta sul più vicino facendolo
stramazzare a terra. Con gli artigli gli straccia letteralmente la
pelle e i muscoli delle braccia e delle gambe e con un morso
tremendo gli frattura il bacino. Poi, improvvisamente, si
avventa contro il cacciatore che, per istinto di difesa, gli mette
le mani nelle fauci.
Fortunatamente il colpo è stato mortale.La belva gli stava
maciullando le mani quando cade sfinita. Il tutto è avvenuto nel
giro di pochi secondi, dopo la fucilata. È stata l’ultima prova di
forza e ferocia prima della morte.
Nel frattempo giunge tutta una folla di gente. Chi
s’avventa sul leone ancora rantolante, chi si prende cura pietosa
dei due feriti. È a questo punto che entro in scena anch’io. Un
gruppo di uomini è venuto a chiedermi un pronto soccorso per i
due feriti. Prendo il camioncino e corro sul posto. Trovo i due
feriti sanguinanti. Fascio strettamente le enormi ferite per
impedire ulteriori perdite di sangue, e parto per Zomba
portando i due feriti gravi all’ospedale, a circa 100 Km. da
Mpiri.
Mentre fasciavo i feriti, osservano con interesse un’altra
scena. Era la gente che sfogava sulla belva il desiderio di
vendetta. Erano intenti soprattutto a strappargli i denti e degli
artigli, perché, così pensano i neri secondo le loro vecchie
credenze, questi denti e questi artigli appesi ad una pianta nel
villaggio impediranno ad altri leoni di ritornarvi”.
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Indice
Due parole di presentazione.................................................. p. 2
1905: Padre Giovan Battista Garbottini negli USA .............. p. 3
1930/1936: missioni monfortane .......................................... p. 6
1937: missionari monfortani italiani in Nyasaland ............... p. 17
1938: primi impegni dei nostri missionari .............................p. 29
1939: partono due nuovi missionari.......................................p. 40
1940/1945: il lungo silenzio...................................................p. 56
1946: a quando una missione tutta italiana? ..........................p. 60
1947: echi della canonizzazione del Montfort .......................p. 65
1948: un più vasto orizzonte missionario ..............................p. 71
1949: partenza di altri due nuovi missionari..........................p. 86
1950/1951: arrivi e partenze ..................................................p. 89
1952: il lavoro continua .........................................................p. 101
1953: notizie di disordini in Nyasaland .................................p. 104
1954: l’anno mariano nelle missioni...................................... p. 110
1955: missionari in Madagascar ............................................p. 115
1956: godiamo nel sentirci missionari ................................... p. 126
1957: le difficoltà degli inizi..................................................p. 139
1958: l’arrivo del missionario è sempre atteso ......................p. 155
1959: quando sorgerà una missione tutta italiana? ................ p. 169
1960: nuove partenze per le missioni.....................................p. 188
1961: nuovi disordini in Nyasaland .......................................p. 197
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