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Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli LE PROMESSE DELLA DEMOCRAZIA E LE MINACCE DELLA GUERRA UN DIALOGO FRA NORBERTO BOBBIO E DANILO ZOLO Pietro Costa L'ultimo libro di Danilo Zolo (L'alito della libertà. Su Bobbio, Feltrinelli, Milano 2008) ha la struttura di un dialogo; non un dialogo virtuale con centinaia di autori (come sempre avviene), ma un dialogo reale fra due persone: Norberto Bobbio e Danilo Zolo. È innanzitutto Zolo a parlarci di Bobbio: le prime 98 pagine del libro ospitano saggi dedicati da Zolo a vari aspetti del pensiero bobbiano. A queste pagine seguono però i testi di due interviste di Zolo a Bobbio: la prima è stata portata a termine, mentre la seconda è rimasta incompiuta. Bobbio parla dunque nel libro anche in prima persona: parla con Zolo, nelle interviste; e infine parla a Zolo nelle 25 lettere, edite in appendice, indirizzategli nell'arco di 23 anni. Entriamo così in contatto con un doppio registro di immagini: il Bobbio di Zolo, ma anche lo Zolo di Bobbio, a conferma del carattere dialogico del libro. Il dialogo che il libro mette in scena è un dialogo autentico, in due sensi: è uno scambio di opinioni che non camuffa o minimizza, ma al contrario evidenzia le diversità (sono differenti l'appartenenza generazionale, la formazione, gli orientamenti culturali dei due protagonisti); ed è al contempo un confronto fondato sulla comprensione e sul rispetto del punto di vista dell'interlocutore. I temi del confronto sono numerosi: ne ricorderò solo alcuni, tentando di offrire un riassunto schematico delle argomentazioni volta a volta sviluppate. In primo luogo, il problema della democrazia. È un problema sul quale Zolo ha lavorato intensamente, soprattutto nel periodo a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta (il frutto principale di questa fase della sua attività di ricerca è Il principato democratico, pubblicato nel 1992). E alla democrazia Bobbio ha dedicato un'attenzione costante in tutto l'arco della sua produzione: da Politica e cultura a Quale socialismo?, a Il futuro della democrazia. È comprensibile quindi che proprio la democrazia sia stato il tema della seconda intervista, rimasta incompiuta. Sono comunque presenti nel libro almeno due saggi nei quali Zolo fa i conti con la riflessione bobbiana sulla democrazia: un saggio del 1997, che commenta Politica e cultura prendendo lo spunto da una sua recente riedizione, e un intervento del 2004, pubblicato su «Iride». Zolo si sofferma su due aspetti centrali: la concezione proceduralista della democrazia e il divario fra i principî democratici e la loro 1 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli realizzazione (le «promesse mancate della democrazia», secondo la famosa espressione bobbiana). Nell'interpretazione di Zolo, Bobbio non è affatto un proceduralista: si preoccupa di definire i requisiti minimi della democrazia, ma non per questo trascura il loro nesso con le libertà fondamentali, con lo Stato di diritto e con i loro soggiacenti valori. La visione bobbiana della democrazia non è dominata dagli ideali neopositivistici e dalle pretese avalutative imperanti nella scienza politica degli anni Cinquanta, ma risente piuttosto della sua intensa frequentazione della tradizione filosofico-politica sette-ottocentesca, refrattaria a separare la democrazia dai suoi presupposti etico-antropologici. Zolo si trova in sintonia con Bobbio su questo terreno perché è convinto, con buone ragioni, che la grande sensibilità e cultura storiografica del suo interlocutore lo abbiano preservato, nell'analisi della politica, dall'aderire senza riserve all'epistemologia neopositivistica: per Bobbio, come per Zolo, è indispensabile prendere sul serio, al di fuori di qualsiasi riduzionismo, la dimensione simbolica, ideologica e teleologica dell'azione sociale. È dunque sul terreno di un'analisi disincantata e realistica della politica che Zolo incontra Bobbio e raccoglie la denuncia delle 'promesse mancate' della democrazia; una democrazia, secondo Bobbio, che ha promesso, ma non ha realizzato, la sovranità del popolo, la partecipazione eguale, il rafforzamento del potere decisionale dei cittadini, la trasparenza del potere. Zolo concorda con questa denuncia, ma ritiene che Bobbio non abbia colto tutte le conseguenze delle trasformazioni in atto. Sono cambiate, o stanno cambiando, le principali caratteristiche del contesto storico-sociale entro il quale ha preso forma la democrazia. La polis statual-nazionale, la comunità politica entro la quale si è sviluppata l'intera parabola della democrazia moderna, vede ridursi il suo potere a vantaggio di organismi sovrastatuali, appare sempre meno capace di garantire i suoi membri nei confronti dei rischi dell'economia globalizzata e vede cambiare la sua composizione interna sotto la crescente pressione delle ondate migratorie. Al contempo, aumenta l'incidenza della macchina multimediale sul processo decisionale dei cittadini, sempre più lontani dall'immagine idealizzata di soggetti compiutamente autonomi e razionali. È cambiato infine il profilo generale della società, dal momento che la crisi del modello fordista e la rivoluzione informatica mettono in crescente difficoltà lo Stato sociale e con esso quella democrazia costituzionale che, a partire dal secondo dopoguerra, aveva fatto dei diritti sociali un proprio essenziale contrassegno. Se queste sono le premesse, la conseguenza che Zolo ritiene di doverne trarre è il congedo da una cultura etico-politica che egli potrebbe chiamare 'vetero-europea' (ricorrendo a un'espressione usata da uno dei 2 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli suoi autori di riferimento, Luhmann); una cultura per la quale la democrazia è parte di un progetto di emancipazione fondato sul nesso fra eguaglianza e libertà. È questa la cultura da cui Bobbio non intende separarsi. È la cultura che alimenta la sua formazione, emerge nitidamente già nelle sue opere giovanili e resta un suo costante punto di riferimento: la cultura del liberalsocialismo, che da Rosselli a Calogero, a Capitini, 'scommette' sulla possibilità di coniugare libertà ed eguaglianza, libertà e giustizia. Proprio per questo la democrazia di Bobbio è, sì, una democrazia minima (e minima deve essere per non generare la delusione indotta da un eccesso di aspettative); è, sì, una democrazia che non ha mantenuto le sue promesse, ma è pur sempre l'unica eredità di cui disponiamo. Essa non appartiene solo al passato, ma riguarda, deve riguardare, anche il nostro futuro. Bobbio non si è mai rassegnato – come riconosce Zolo – «ad ammainare la bandiera della cittadinanza democratica come eguale partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica […]» (p. 20). La prospettiva di Zolo è diversa. La sua analisi delle recenti trasformazioni del sistema politico lo conduce ben oltre la denuncia delle inadempienze della democrazia; lo conduce a dubitare che le promesse della democrazia non siano semplicemente inevase, ma siano, come egli scrive efficacemente, «promesse da marinaio» (p. 18): promesse impossibili, pronte a trasformarsi in strumenti di legittimazione del dominio delle élites. I progetti otto-novecenteschi di emancipazione collettiva sembrano ormai svuotati di senso, le potenzialità rappresentative e partecipative del sistema dei partiti cedono alla logica autoreferenziale del sottosistema politico, il welfarismo è entrato in una crisi verticale: il nostro possibile futuro non è allora, per Zolo, l'inveramento della democrazia, sia pure 'minima', ma la diffusione di ciò che egli chiama il modello Singapore; un tipo di società dove la centralità del mercato e l'incremento della produttività coesistono con un sistema politico autoritario, quali che siano le foglie di fico democraticorappresentative di cui esso voglia eventualmente adornarsi. E la stessa eguaglianza, che Bobbio continua a presentare come il principio che rende ancora attuale la distinzione fra 'destra' e 'sinistra', appare a Zolo ormai difficilmente riproponibile 'come tale' in una società dove si moltiplicano progetti di vita che si vogliono o si immaginano personali, originali, inconfondibili e, in questo senso peculiare, liberi. Se Bobbio è insomma ancora un testimone della modernità, Zolo sottolinea le fratture che ci separano ormai da una storia che viene esaurendosi nel secondo dopoguerra. Le differenze di prospettiva che dividono i due interlocutori non sono dunque marginali e investono i principali problemi discussi nel libro. La democrazia è uno di questi. Un altro tema, dove il confronto fra i due interlocutori è forse ancora più serrato, è il tema della guerra e dell'ordine internazionale. 3 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli Questo tema, cui Zolo si sta dedicando con grande impegno ormai da molti anni, è esso pure 'bobbiano'. Bobbio aveva affrontato il problema della guerra in numerosi saggi degli anni Sessanta-Settanta giungendo a una condanna senza appello della guerra stessa. Questa condanna traeva però senso e forza dal contesto storico in cui era stata pronunciata: gli anni della guerra fredda, dominati dal senso dell'imminente minaccia di un'apocalisse nucleare. È appunto la distruttività smisurata e incontrollabile della guerra atomica che aveva indotto Bobbio (e molti altri intellettuali in quel periodo: si pensi solo a Günther Anders) a sostenere che le categorie classiche (e fra queste anche il concetto di guerra giusta) erano ormai improponibili. Con la fine della guerra fredda, però, l'incubo nucleare sembra allontanarsi e si apre di conseguenza un varco per il ritorno di concetti che la guerra nucleare aveva reso inservibili. L'occasione è offerta dalla prima guerra del Golfo. La reazione di Bobbio è semplice e nitida; se ci sono un aggredito (il Kuwait) e un aggressore (l'Iraq), sono possibili due ordini di considerazioni: in primo luogo, è ipotizzabile una guerra difensiva, una guerra che voglia difendere l'agnello dal lupo, il debole dal «prepotente»; in secondo luogo, prende forza l'esigenza di poter ricorrere, di fronte a un conflitto internazionale, a un Terzo capace di intervenire per ristabilire l'ordine violato. Nella misura in cui la guerra del Golfo ha avuto l'avallo delle Nazioni Unite, essa può essere definita 'giusta' nel modesto significato di 'legale', conforme a una norma dell'ordinamento internazionale. Sulla guerra del golfo Zolo difende una tesi esattamente opposta; la difende pubblicamente, anche contro Bobbio, e continua a difenderla nella corrispondenza privata con il filosofo torinese; il quale si mantiene a sua volta fedele alla sua posizione, ma al contempo è disposto a ripensarla, attenuarla, complicarla, con la sua consueta (e straordinaria) umiltà autocritica, onestà intellettuale e apertura dialogica. La materia del contendere è complessa: sono due opposte filosofie dell'ordine internazionale a confronto. Riducendo ai minimi termini le rispettive argomentazioni (di cui il nostro libro offre spezzoni efficaci) potremmo presentare il seguente quadro sinottico. Per Bobbio, è estensibile all'ordine internazionale il processo che ha condotto ad accentrare tutti i poteri nel vertice sovrano dando luogo alla creazione di quel tipo di organizzazione politica che chiamiamo 'Stato'. Finiscono l'anarchia dei poteri intermedi e il bellum omnium perché una medesima legge vincola tutti e un medesimo giudice decide delle ragioni e dei torti dei cittadini. Vale per i rapporti internazionali la medesima logica: il lento passaggio, appena iniziato, dall'anarchia dei poteri a una società organizzata. Dal pactum unionis fra gli Stati (Bobbio non esita a ricorrere a questa terminologia giusnaturalistica) sono nate le Nazioni Unite, che appaiono il nucleo germinale di un futuro ordine mondiale finalmente 4 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli dotato di un centro. Bobbio accoglie le obiezioni che insistono sulle profonde asimmetrie potestative che affliggono oggi le istituzioni internazionali, ma le considera un difetto congiunturale, più che una disfunzione strutturale. Egli resta quindi fedele al suo 'pacifismo istituzionale': alla convinzione che solo un ordine giuridico mondiale possa mettere al bando la guerra. Ciascuno di questi assunti è stato oggetto di reiterati attacchi da parte di Danilo Zolo, a partire dal suo libro Cosmopolis, del 1995. Non è a suo avviso sostenibile l'analogia fra il processo di creazione dello Stato e la formazione di un futuro ordine internazionale, perché sono troppo diverse le realtà di partenza (la Francia o l'Inghilterra tardo-medievali e l'attuale 'società civile' mondiale). È anzi da mettere in dubbio l'esistenza stessa di una 'società-mondo', dati le forti, e crescenti, disuguaglianze fra gli Stati e il ruolo svolto, nell'arena internazionale, dalle grandi potenze. Sono gli interessi egemonici che incidono sulla composizione e sul funzionamento degli organismi internazionali, sulle Nazioni Unite come sui recenti Tribunali internazionali, vanificando la loro presunta 'terzietà'. L'eventuale successo di queste istituzioni contribuirebbe quindi a quella occidentalizzazione del mondo che sta compromettendo la varietà e la ricchezza delle differenti culture. Infine, dato e non concesso che un qualche ordine mondiale venga ad affermarsi, esso non produrrebbe automaticamente l'effetto, auspicato da Kelsen e da Bobbio, della 'pace attraverso il diritto'. Esso piuttosto, da un lato, aggraverebbe il rischio del dirigismo burocratico (una sorta di 'modello Singapore' ad estensione planetaria), mentre, dall'altro lato, fallirebbe anche nella messa al bando della guerra. La guerra infatti, per Zolo, ha profonde radici antropologiche (o addirittura etologiche) e non bastano moralistiche sconfessioni, interdetti normativi e interventi repressivi per esorcizzarla. Serve piuttosto abbandonare il sogno o l'incubo di un ordine monocentrico, valorizzare le diversità fra le culture, promuovere intese locali, favorire le strategie di pacificazione dei popoli e degli Stati concretamente operanti in un'area determinata. Mi sono limitato a uno scheletrico riassunto delle rispettive posizioni, ma spero che anche da queste poche battute appaia evidente la radicale diversità delle conclusioni cui giungono Bobbio e Zolo pur all'interno di un dialogo che non conosce battute di arresto. Conviene allora proporre a questo proposito un'ultima domanda. Che cosa ha reso possibile e fecondo questo dialogo, se è vero, come a me sembra, che i punti di partenza e di arrivo dei due interlocutori sono e restano distanti? Il dialogo è stato soltanto un confronto fra diversi oppure è stato sorretto anche dall'esistenza di convergenze, meno evidenti ma non meno rilevanti delle differenze? Vorrei avventurarmi in un'ipotetica risposta servendomi del profilo di Bobbio disegnato da Zolo. Commemorando nel 2004 il filosofo torinese, 5 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli Zolo ce lo presenta come oscillante fra Machiavelli e Kant, fra 'realismo' e 'normativismo': da un lato, c'è il filosofo politico che da Pareto e da Mosca (e, da un altro punto di vista, da Cattaneo) accoglie l'invito all'analisi disincantata e concreta della politica, degli interessi, dei conflitti e delle aspettative che la innervano; dall'altro lato, c'è il teorico della norma, uno dei padri del kelsenismo italiano, simpatetico – come scrive Zolo – «con l'universalismo e il razionalismo etico-giuridico di Kant e di Kelsen» (p. 15). Zolo parla di una tensione non risolta. Io mi limiterei a rilevare la molteplicità delle dimensioni compresenti nella riflessione di Bobbio. Al contrario, la prospettiva di Zolo è univoca e compatta, caratterizzata come è dall'insistita denuncia di qualsiasi cedimento 'normativistico'; e tuttavia anche nella riflessione di Zolo sono percepibili a mio avviso le tracce di una qualche tensione. Si leggano, nel nostro libro, le pagine dedicate da Zolo a Politica e cultura. Vengono ribadite, in nome del realismo, la tesi dello svuotamento della democrazia nelle società complesse e la probabile distopia del 'modello Singapore'. E tuttavia nella parte conclusiva dell'argomentazione interviene un brusco scarto: il timbro del discorso evoca non la rassegnazione ma la resistenza; e prende forma l'immagine di un intellettuale che denuncia le promesse non mantenute della democrazia, la corruzione e l'inefficienza dei poteri pubblici, invita a lottare per il diritto e per i diritti (delle donne, degli stranieri) e auspica addirittura (in un altro passo del libro) la difesa dello Stato sociale. Il realismo di Zolo non ha a niente a che fare con il quietismo, così come il normativismo di Bobbio non ha niente di consolatorio o di evanescente. Forse il più solido punto di convergenza dei due interlocutori è allora l'immagine (il modello) dell'intellettuale come di un cittadino – come scrive Zolo – «spiritualmente inquieto, insofferente verso l'ordine costituito, spregiudicato e anticonformista» (p. 40): insomma, un signore della critica, piuttosto che un dispensatore di certezze. Credo in effetti che molti di noi sentano il bisogno di poter contare sulla presenza di alcuni Neinsagern, sull'intervento di uomini e donne che sanno dire di no, in un mondo dove gli Jasagern aumentano con impressionante rapidità. È però anche vero che se l'unica possibile azione politica dovesse coincidere con la testimonianza impolitica di alcuni maestri del dubbio, allora davvero il 'modello Singapore' occuperebbe per intero l'orizzonte del nostro futuro. 6
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