Seguendo i passi di Pedro Arrupe

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Seguendo i passi di Pedro Arrupe
Seguendo i passi di
Pedro Arrupe
Vivere la spiritualità ignaziana nel
servizio per i rifugiati
accompagnare, servire, difendere
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati
Seguendo i passi di Pedro Arrupe
Vivere la spiritualità ignaziana nel servizio per i rifugiati
Novembre 2007
Introduzione
Il centenario della nascita di Pedro Arrupe costituisce un'occasione
ideale per ricordare la sua visione del JRS e assicurarci che, nonostante l'organizzazione cresca e il mondo cambi, la sua vitalità venga
conservata e proiettata nel futuro.
Le riflessioni dei gesuiti condivise in questa pubblicazione testimoniano il perdurare dell'eredità della sua visione. Dimostrano l'esattezza delle sue speranze profetiche sul ruolo dei gesuiti nel dare
risposta ai bisogni più drammaticamente urgenti dei rifugiati e degli
sfollati, e riguardo ai benefici spirituali che possono essere colti da
questo importante apostolato moderno.
A ventisette anni dalla fondazione del JRS, la magnifica risposta alla
sua prima chiamata non è diminuita e l'impatto di questo apostolato
sulle Province che mettono a disposizione i loro uomini resta concreto e profondo. La visione di Arrupe è stata fonte di ispirazione per
molti, gesuiti, laici e religiosi che hanno lavorato con il JRS e continuerà ad esserne la guida anche in futuro.
Roma 1° Novembre 2007
Lluís Magriñà SJ
Peter Balleis SJ
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La Compagnia di Gesù e il problema dei rifugiati
Lo scorso anno, durante il periodo natalizio, colpito e scioccato dalla difficile situazione in cui versavano migliaia di boat people e rifugiati, ho sentito il dovere di inviare un messaggio a una ventina di Padri Superiori sparsi in tutto il mondo. Ho condiviso con essi la mia angoscia e chiesto loro
cosa potessero fare essi stessi e la Compagnia tutta per poter almeno
apportare sollievo a una situazione così tragica.
La loro risposta è stata magnifica. Vennero forniti immediatamente aiuti,
sia in termini di risorse umane, che di conoscenza e di materiale; venne
inviato denaro, cibo e medicine; vennero coinvolti i mass media per fare
pressione sui governi e le agenzie private; vennero organizzati dei servizi
di volontariato, sia in ambito pastorale che organizzativo.
Considero ciò come un moderno apostolato per la Società tutta, di
grande importanza per oggi e per il futuro, e di grande beneficio spirituale per la Compagnia stessa.
Come diretto risultato di queste prime azioni indissi una Consulta presso
la Curia, al fine di individuare le risposte che la Compagnia poteva dare
al sempre più serio problema dei rifugiati nel mondo […].
Sin dall'inizio spiegai che tale situazione rappresentava una sfida che la
Compagnia non poteva ignorare in quanto fedele all'insegnamento di S.
Ignazio, in relazione al nostro lavoro apostolico e alle recenti
Congregazioni Generali XXXI e XXXII. Nelle Costituzioni S. Ignazio parla
del più grande bene universale, un'urgenza sempre in crescita, della difficoltà e complessità del problema umano che ci preoccupa e la mancanza
di altre persone che si occupino di tale necessità (cfr Cost. VII, 2, n. 623).
Grazie al nostro ideale di disponibilità e universalità, al numero di istituzioni che gestiamo e alla collaborazione attiva dei molti laici che lavorano
con noi, siamo particolarmente adatti ad affrontare questa sfida e fornire
servizi aggiuntivi a quelli offerti da altre organizzazioni e gruppi. […]
Inoltre l'aiuto di cui vi è bisogno non è solo materiale: in un modo speciale la Compagnia è chiamata a rendere un servizio che sia al contempo
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umano, pedagogico e spirituale. È una sfida complessa e difficile; il bisogno è decisamente urgente. Non ho esitazioni a ripetere quanto già affermato in occasione della Consulta: Considero ciò come un moderno apostolato per la Società tutta, di grande importanza per oggi e per il futuro, e di
grande beneficio spirituale per la Compagnia stessa. […]
Alla luce della nostra Consulta e a seguito di ulteriori discussioni con i
miei Consiglieri Generali, ho deciso di fondare nell'ambito della Curia un
servizio per coordinare il lavoro dei gesuiti per i rifugiati, che da ora in
poi sarà chiamato Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (Jesuit Refugee
Service - JRS). […]
Spero che accettiate tale lettera e la richiesta che rappresenta con spirito di
disponibilità e alacrità. S. Ignazio ci ha invitati ad andare ovunque vi sia
bisogno di noi per rendere un più grande servizio a Dio. I bisogni spirituali e materiali dei quasi sedici milioni di rifugiati che ci sono oggi nel
mondo, non potrebbero essere maggiori. Dio ci sta chiamando attraverso
queste persone indifese. Dovremmo considerare l'opportunità di poterli
assistere come un privilegio che restituirà grandi benedizioni a noi stessi
e alla Compagnia.
Pedro Arrupe SJ, 14 Novembre 1980
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Un 'canto del cigno' per la Compagnia
[…] È naturale per chi lavora con i rifugiati avere reazioni e punti di vista
differenti. Il servizio ai rifugiati aggiunge una nuova dimensione al vostro
lavoro come gesuiti qui in Thailandia. La Compagnia universale può aiutare, ma questo nuovo sviluppo presenta per voi speciali implicazioni.
[…] State facendo uno splendido lavoro, sebbene difficile. È un lavoro
importante. In un paese che è principalmente buddista e in cui vi sono così
pochi cattolici voi potete solo vedere una parte minima del vostro successo.
Questa è la forma più dura di apostolato missionario. Penso di poter parlare alla luce dell'esperienza. In Giappone vi sono parroci che battezzano
anche solo due persone in dieci anni. Ciò che qui conta veramente non è il
successo esteriore, ma l'impegno. Dobbiamo lavorare nel migliore dei modi
- come ho sempre esortato la Compagnia a fare in tutto il mondo.
State facendo uno splendido lavoro, sebbene difficile.
La Compagnia ha iniziativa e creatività. Alcune volte, tuttavia, le ha utilizzate scegliendo gli apostolati più semplici. Dubito che quello più facile sia
il vero apostolato!
L'apostolato in Thailandia è uno dei più difficili della Compagnia a causa
delle condizioni culturali, climatiche, politiche e via dicendo. Per questo
avete bisogno di uno spirito forte per dedicarvi con entusiasmo ad un lavoro i cui risultati non vedete. Chi verrà dopo però dirà: "Che lavoro meraviglioso stiamo facendo!". E i molti uomini che sono venuti prima, a preparare il cammino, non verranno dimenticati.
Non fraintendetemi: posso vedere che siete felici. Ma vedo anche che il
vostro è un lavoro duro. Alcune volte, quando parlate con il cuore, emergono sentimenti, non proprio amari, ma che derivano dal gravoso fardello del vostro lavoro - un lavoro veramente duro. E forse non sempre riconosciuto dagli altri come tale.
È ora il momento di considerare che tipo di aiuto la Compagnia possa dare
ai rifugiati. Per prima cosa ciò ha implicazioni sul lavoro che la Compagnia
svolge qui in Thailandia, poiché quella che io chiamo la nuova dimensione
richiede la collaborazione dei padri che già lavorano in Thailandia. Come
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il vostro Padre Superiore mi ha indicato, ciò significherà un ulteriore fardello per tutti. Significherà rimuovere qualcuno dai suoi attuali compiti
per destinarlo ad un nuovo lavoro praticamente a tempo pieno - mentre
già siete così a corto di persone.
Vedo il mio impegno, quindi, non solo nell'apostolato thailandese com'è
attualmente, ma anche nel nuovo apostolato thailandese con i rifugiati. In
virtù di tale nuova dimensione, la Compagnia tutta dovrebbe incoraggiare
il lavoro che i gesuiti conducono in Thailandia.
L'altra questione concerne questa nuova possibile apertura. Il lavoro per i
rifugiati può e dovrebbe avere un grande effetto sull'immagine della
Compagnia in Thailandia. E voi dovreste trarne grandi benefici. Ma se ciò
accadrà, la decisione resta entro il contesto della Compagnia qui in
Thailandia. Possiamo avviare questo enorme lavoro passo dopo passo,
guardando avanti e cercando la via. Probabilmente dovremo ricercarla
ogni giorno.
Il mondo oggi sta cambiando molto. È quindi difficile mantenere un programma. Un piano decennale? Oh no, per favore! Un programma biennale
sarebbe probabilmente già abbastanza, o persino uno quotidiano, perché la
situazione cambia in continuazione e voi siete ancora in una fase sperimentale. Qui subentra la prudenza, la prudenza nel calcolare il rischio. Non
dovete essere certi al cento per cento. Nel mondo d'oggi nessuno può essere mai sicuro al cento per cento.
Per questa ragione a fortiori devono essere affrontati rischi maggiori in differenti luoghi. "Ho commesso uno sbaglio!" Bene, ciò significa che operiamo un discernimento comune in quanto gruppo e solo poi stabiliamo una
linea di azione. E tale linea dovrebbe essere flessibile al punto di lasciarci
sperimentare ulteriormente. In tutto ciò dovete pensare e pregare come un
gruppo, al fine di individuare una linea d'azione generale e dei princìpi
che tutti accetteranno. L''elasticità' di tale sperimentazione e rischio
dovrebbe andare tutta in un'unica direzione - quella indicataci dallo
Spirito Santo. […]
E l'unità? Si, è importante. Condividiamo la stessa spiritualità e lo stesso
impegno in Cristo. L'eccellenza, come ci dice S. Ignazio, non è quella scolastica, sebbene possa includerla. La vera eccellenza risiede nell'impegno in
Cristo. Dobbiamo eccellere nel nostro impegno.
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Padre Ando (Isamu) la considerava un'utopia, ma sarebbe meraviglioso
per la Compagnia se un non cristiano venisse a lavorare per i poveri nei villaggi, motivato da sentimenti filantropici. Se potessimo creare una situazione di questo tipo, il nostro lavoro in Thailandia avrebbe grandi possibilità.
Collaboreremmo ottenendo effetti di gran lunga maggiori di quelli ottenuti attraverso i così pochi cattolici presenti in oriente. E attraverso i media
possiamo presentare tali problematiche in una prospettiva più umana,
moltiplicando così il lavoro fatto e i suoi effetti. In questo modo possiamo
contribuire indirettamente alla costruzione del paese.
Ciò significherebbe una pre-evangelizzazione effettuata da non cristiani!
Per definizione, infatti, non parliamo di Cristo nella pre-evangelizzazione.
Non possiamo parlare di Cristo, ma vi sono dei non cristiani che per buona
volontà fanno ciò che noi dovremmo fare. Vedo un'apertura nel lavoro con
i rifugiati per un apostolato di questo tipo. Penso valga la pena di riflettere in questo senso. […]
Dirò ancora una cosa e vi prego di non dimenticarla. Pregare. Pregare
molto. Gli sforzi umani non risolvono tali problemi. Vi dico cose che reputo importanti, un messaggio - forse il mio 'canto del cigno' per la
Compagnia. Preghiamo all'inizio e alla fine - siamo buoni cristiani! Se nel
nostro incontro di tre giorni passeremo mezza giornata pregando sulle conclusioni che auspichiamo o i sui nostri punti di vista, otterremo davvero
una 'luce' diversa. E giungeremo a sintesi abbastanza differenti - nonostante i diversi punti di vista - che non potremo mai trovare nei libri o raggiungere semplicemente discutendo.
Ci troviamo di fronte un caso classico: Se davvero siamo davanti ad un
nuovo apostolato della Compagnia, lo Spirito Santo dovrà illuminarci.
Queste non sono le pie parole di un maestro di novizi. Ciò che dico proviene al cento per cento da S. Ignazio. Quando decisi di venire in Thailandia,
dissero che potevo visitare i campi dei rifugiati. Sono già stato in luoghi
simili. Ciò che abbiamo fatto qui è molto più importante. Sono così felice e
credo che la mia visita sia provvidenziale.
Dobbiamo essere mentalmente uniti per gettare le fondamenta di questo
nuovo apostolato. Ciò che stiamo affrontando qui e ora è il dolor partus che
ne precede la nascita. E con tale commento di natura medica, concludo il
mio discorso!
Pedro Arrupe SJ, 6 August 1981
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Due Padri Generali nel servizio dei rifugiati
Fondato da Padre Arrupe e consolidato da Padre Kolvenbach
Lavorando con i rifugiati ho imparato che è meglio rinunciare ad aiutare se non si
è pronti a donare tutto di sé. Le persone che muoiono di fame, che non hanno casa
né amici, perdono facilmente la loro dignità. Non basta dare loro ciò di cui hanno
bisogno. Bisogna fare in modo che il nostro gesto ripristini autostima e dignità,
affinché la speranza e la fiducia nell'umanità rinascano in loro.
La visione condivisa da Bill Yeomans, un gesuita australiano che ha accompagnato i rifugiati nel sud est asiatico per diversi anni prima della sua
morte nel 1989, coglie lo spirito del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS)
così come era inteso dal suo fondatore Pedro Arrupe. A cento anni dalla
sua nascita ci sembra giunto il momento per ricordare la particolare visione di Padre Arrupe riguardo al servizio per i rifugiati da lui fondato il 14
novembre 1980, una visione adottata fedelmente ed elaborata da migliaia
di gesuiti e dai loro collaboratori nel corso degli anni.
Il JRS fu l'ultimo progetto ideato da Padre Arrupe come Superiore Generale
della Compagnia di Gesù. Il suo appello, Dio ci sta chiamando attraverso queste persone indifese, fu ispirato dalla terribile situazione in cui versavano i
rifugiati vietnamiti e fu raccolto da molti gesuiti. Le priorità di questi pionieri si esprimevano semplicemente attraverso la presenza nei campi: il
loro era un approccio personale che considerava il problema dei rifugiati
nel mondo come la storia di milioni di singole vite. Pierre Ceyrac, un gesuita francese, trascorreva ogni giorno circa due o tre ore camminando e
incontrando le persone, tanto che uno dei suoi compagni John Bingham, un
gesuita americano, lo chiamava 'il sacerdozio a passeggio'. Siamo continuamente avvicinati da rifugiati che ci chiedono di ascoltare i loro problemi, hanno
bisogno di aiuto per riempire moduli e ci confidano i loro segreti.
Padre Arrupe era così felice del modo in cui il JRS si stava sviluppando:
Vedo una grandiosa apertura per la Compagnia e non solo rispetto al lavoro con i
rifugiati. Questa attività sarà una scuola dalla quale imparare tanto. Pronunciò
tali parole il 6 agosto del 1981, durante un incontro in Thailandia con 16
gesuiti coinvolti nell'apostolato e nel corso del quale si decise che la via era
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quella di essere con piuttosto che fare per. Tale discorso di Padre Arrupe
sarebbe stato il suo canto del cigno per la Compagnia; il giorno successivo,
rientrando a Roma, fu colpito da un ictus che lo lasciò parzialmente paralizzato e con difficoltà di linguaggio.
Espandendosi rapidamente in diverse regioni del mondo, il JRS ha continuato a svilupparsi sotto la guida del Padre Generale Peter HansKolvenbach. Quest'ultimo fece propria la vocazione del suo predecessore e
la estese a tutti i gesuiti: Il nostro servizio ai rifugiati rappresenta un impegno
apostolico per tutta la Compagnia… una vera prova della nostra odierna disponibilità. I gesuiti coinvolsero nel JRS membri di altre congregazioni e laici che
da quel momento entrarono a far parte dell'organizzazione. La loro presenza nei campi condusse presto all'organizzazione di servizi concreti di assistenza, istruzione e advocacy. In quanto testimoni dell'ingiustizia, i membri del JRS avvertirono la necessità di denunciare le violazioni dei diritti
fondamentali dei rifugiati. Negli anni '90, l'estensione sul territorio fu
accompagnata dall'inaugurazione degli uffici di Washington, Ginevra e
Bruxelles, al fine di sensibilizzare l'attenzione di chi ha poteri decisionali a
livello internazionale sulle questioni relative a queste realtà.
Dopo aver preso forma nel corso degli anni, la missione del JRS fu ufficialmente enunciata e sancita nel 1995 nel corso della Congregazione
Generale XXXIV: Oggi nel mondo vi sono oltre 45 milioni di rifugiati e profughi … Il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati accompagna molti di questi nostri
fratelli e sorelle, servendo la loro causa in un mondo indifferente. La
Congregazione Generale fa appello a tutte le Province affinché sostengano il JRS
in ogni modo possibile.
Il fine ultimo della missione del JRS è quello di difendere ciò che Padre
Mateo Aguirre, un veterano del JRS, definisce come dignità della speranza
nel suo contributo a questa pubblicazione. Padre Kolvenbach ha più volte
ricordato in cosa consiste il JRS: Ciò che è molto chiaro è che il JRS porta speranza. I rifugiati capiscono che voi siete interessati a loro, che credete realmente
che essi abbiano un futuro. Il JRS agisce con grazia. Si fa coinvolgere dalle persone che sono vittime di ingiustizie, violenze e disordini e da' il meglio affinché i
rifugiati possano uscire dalla loro disperazione.
I tre pilastri del JRS: accompagnare, servire e difendere, si combinano per
generare speranza. Il semplice fatto che il JRS esista, e sia presente in determinati luoghi, rappresenta un segno di speranza per i rifugiati. Ma il JRS non con15
sidererà mai se stesso come un'istituzione che si limita ad accompagnare persone
in situazioni disperate. Se il JRS è presente, si occupa anche di advocacy. Ciò è di
cruciale importanza, é una questione di giustizia. Riecheggiando le parole di
Padre Arrupe, Padre Kolvenbach descrive la giustizia come il cammino concreto dell'amore, ed aggiunge: Ciò significa che dovremmo riportare i poveri e i
rifugiati nella società. Essi ne hanno il diritto. Sono molto grato per il lavoro che
è stato fatto nei campi, non solo per aiutare i rifugiati a passare il tempo, ma per
aiutarli a preparare il loro futuro.
Tale obiettivo è inoltre raggiunto grazie a un'attenzione tipicamente ignaziana all'istruzione e la formazione, che va al di là della mera sopravvivenza e mira allo sviluppo della persona, alla vita piena. Attraverso la loro presenza i membri del JRS possono imparare dai rifugiati i loro bisogni e le
loro speranze e disegnare progetti adeguati.
Attraverso la sua presenza e le sue attività, il JRS si sente sempre più chiamato a promuovere la pace e la riconciliazione. Sradicare l'odio e l'antagonismo, evitare il conflitto etnico, religioso o di altra natura, gestire le incomprensioni tra la popolazione ospite e rifugiati, rappresentano sfide costanti in questo lavoro. Parlando specificamente di riconciliazione, Padre
Kolvenbach ha assicurato ai direttori regionali che la Compagnia è orgogliosa del lavoro del JRS, il cui concreto coinvolgimento parla più forte delle parole.
Per realizzare la missione del JRS i gesuiti sono impegnati in una collaborazione dinamica con i non gesuiti. Del resto il JRS non esisterebbe senza
l'aiuto di così tante altre persone. Allo stesso tempo, il JRS trova la sua fonte
e motivazione nello spirito e nel modo d'agire ignaziani, e confida molto
sul supporto, le risorse e le istituzioni della Compagnia di Gesù. Il ruolo dei
gesuiti nel JRS resta cruciale e catalizzatore, nelle parole di Padre
Kolvenbach: Credo fortemente che la presenza dei gesuiti nel JRS dovrebbe essere una presenza catalizzatrice. Assicura che tutto si muova anche se il movimento stesso sarà condiviso dagli altri.
Durante il suo mandato, il messaggio chiave di Padre Kolvenbach per il
JRS è stato molto semplice: Restate fedeli alla visione di Padre Arrupe,
occupandovi di persone che altrimenti sarebbero completamente abbandonate e dimenticate. Al giorno d'oggi il sempre più complesso fenomeno
della migrazione forzata invita il personale del JRS ad accompagnare i profughi non solo all'interno dei campi, ma anche nei centri di detenzione per
richiedenti asilo, nelle aree per gli sfollati interni in zone di confitto o nei
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centri urbani dove lottano per sopravvivere. In diverse occasioni Padre
Kolvenbach ha dichiarato: Sono veramente grato che il JRS resti fedele all'ideale di Arrupe, anche se ha dovuto confrontarsi con l'importanza delle attività di
advocacy, del lavoro strutturale e di un miglior livello organizzativo.
Oggi il JRS conta oltre 1.000 membri in più di 50 paesi; un'organizzazione
di queste dimensioni richiede strutture amministrative e di coordinamento, oltre che strategie di gestione appropriate, tuttavia il JRS non si è trasformato in un'organizzazione complessa e iperburocratica. Il JRS resta una
struttura leggera e, come voluto sia da Padre Arrupe che da Padre
Kolvenbach, un'organizzazione pellegrina pronta a muoversi con la gente,
ad andare dove vi è bisogno. Questa flessibilità è di grande importanza per
il JRS, che opera, secondo priorità ignaziane, dove vi è maggiore necessità,
terminando i progetti non più necessari e iniziandone di nuovi altrove. La
missione del JRS è di restare in movimento, per essere sempre pronti a rispondere con alacrità, ha dichiarato Padre Kolvenbach. Non siamo chiamati a restare
per sempre in un luogo con le stesse persone, ma a essere come S. Paolo, iniziare
qualcosa e ripartire quando il nostro lavoro è finito, costantemente alla ricerca di
bisogni dei quali nessuno si occupa.
Recarsi in luoghi dove altri per diverse ragioni non vanno, cercare i più
dimenticati tra i rifugiati e restare con loro, non sono compiti facili. Padre
Arrupe lo sapeva bene. Il 6 agosto 1981, disse ai gesuiti che lavoravano nei
campi: State portando avanti un lavoro importante, sebbene difficile. Anni dopo,
nel 2006, Padre Kolvenbach disse: È molto più facile […] dare il proprio aiuto
in modo che non ci provochi sofferenza. Fare solamente il proprio lavoro. Ma questa non sarà la strada per chi lavora nella struttura del JRS.
Sono veramente grato che il JRS resti fedele all'ideale di Arrupe
Katrine Camilleri, avvocato del JRS Malta per oltre 10 anni e vincitrice del
Premio Nansen 2007 delle Nazioni Unite, ha ricordato queste parole. Nel
suo discorso di ringraziamento, riferendosi alla propria esperienza a contatto con la realtà della detenzione, ha dichiarato: Accompagnare richiedenti
asilo e rifugiati non è sempre facile… non solo perché dobbiamo condividere la
loro impopolarità, ma anche perchè alla fine questo lavoro consiste nell'incontrare ogni giorno grandi sofferenze e provare un senso di impotenza dato dal fatto che
non possiamo aiutare come desideriamo.
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Questo lavoro è costato alcune vite umane. Il 26 settembre 2007, a meno di
una settimana dalla premiazione di Katrine, il coordinatore del JRS Mannar
è stato ucciso dall'esplosione di una mina claymore mentre forniva assistenza a orfani e sfollati dello Sri Lanka settentrionale, un paese dilaniato
dalla guerra. In una lettera di condoglianze al JRS Asia Meridionale, Padre
Kolvenbach ha scritto: Le vite di Padre Ranjith e Katrine, così come quella di
tanti membri del JRS nel mondo, rappresentano il profondo significato della tripla missione del JRS.
Le sfide inerenti al lavoro con i rifugiati non hanno mai impedito che un
numero sostenuto di volontari continui ad unirsi al JRS. Oltre ai gesuiti,
sono in molti a dedicare se stessi, il proprio tempo, talento e professionalità, per vivere la missione del JRS in un modo che avrebbe di certo reso fiero
Padre Arrupe.
Danielle Vella, Responsabile della Comunicazione, JRS Ufficio Internazionale,
1999 - 2002
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Una fede che dona frutti
Il carisma di Padre Arrupe è ancora vivo e valido dopo tutti questi anni.
La missione del JRS si riafferma ogni qualvolta un gran numero di persone provenienti da parti diverse del mondo si dimostra pronto ad
accompagnare, servire e difendere la causa dei rifugiati, rispettando con
serietà la dignità di ogni essere umano.
Le numerose équipe del JRS sono restate fedeli alla visione di Padre
Arrupe. Ricordo ad esempio come la priorità del JRS Bukavu (ex Zaire)
fosse quella di trascorrere del tempo con i rifugiati e ascoltarli. Molti
progetti partirono da questa forma di accompagnamento, ad esempio
l'attività di assistenza alle vittime di traumi. La cosa importante non era
il programma in sé, ma il fatto di stare con i rifugiati traumatizzati. La
nostra risposta non era preparata, ma spontanea. Partivamo alle otto del
mattino e rientravamo alle sei del pomeriggio. I rifugiati capivano veramente quanto fossimo loro vicini e la nostra dedizione era sinceramente
apprezzata.
Il carisma di Padre Arrupe è ancora vivo e valido dopo tutti
questi anni.
Ricordo anche il nostro lavoro nel campo rifugiati di Lainé, in Guinea. La
struttura doveva ospitare 6.000 persone ma, a causa delle pericolose condizioni della Liberia, la popolazione aveva raggiunto le 30.000 unità. Nel
ruolo di partner per i programmi di istruzione informale dell'Agenzia delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il JRS ha imparato una lezione
importante: erano i rifugiati stessi a chiederci cosa desideravano imparare.
Il discernimento e la conseguente definizione del progetto arrivarono direttamente dai rifugiati, non dal JRS. Essi richiesero attività che potessero
favorire l'autosufficienza sia nel campo che in Liberia, una volta rientrati.
Data la ricchezza di olio di palma nella zona, ci dissero di voler imparare a
produrre sapone e tingere i tessuti, attività tradizionali di quella regione. Il
direttore del progetto del JRS, Suor Covadonga Orejas delle Carmelitane di
Vedruna, si occupò della realizzazione dei desideri espressi dai rifugiati,
chiari segni di dignità e speranza.
Mateo Aguirre SJ, Direttore Regionale, JRS Africa Occidentale, 2001 - 2007
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La storia di Taona
Taona è nato in Monzambico quando l'insurrezione del movimento anticomunista Renamo aveva già devastato gran parte del paese. A dieci
anni sapeva molto più della morte che della vita. Poi suo padre rimase
ucciso da una mina e alcuni giorni dopo il suo villaggio venne incendiato. Sua madre decise che la fuga era l'unica possibilità di salvezza, per
cui fuggirono in Zimbabwe. Taona trascorse i tre anni successivi nel
campo di Mazowe River Bridge, che ospitava circa 30.000 rifugiati, dietro ad un recinto di filo spinato. Ciò che ricordava di casa sua era: fuoco,
pistole, fame e morte.
Quando ricevette il sapone e l'asciugamano Taona decise che erano
troppo preziosi per un uso quotidiano.
Taona si ammalò e si recò in ospedale. Gli venne diagnosticato un cancro. Quando lo incontrai per la prima volta, il suo ventre era già piuttosto gonfio e aveva perso molto peso, così che non poteva più camminare da solo. In più insisteva a voler sedere fuori nella veranda per guardare le infermiere e gli altri pazienti.
Taona è stato coraggioso. Non l'ho mai visto piangere. Anche se ad ogni
spasmo di dolore, la sua espressione cambiava ed il suo volto sembrava
trasformarsi in quello di un vecchio. Ogni volta che lo andavo a trovare,
mi chiedeva se potevo somministrargli un farmaco per il suo ventre.
Ogni volta dovevo ammettere di non poterlo aiutare.
Un giorno chiesi a Taona se ci fosse qualcos'altro che potevo fare per lui.
Esitò, ma poi con una voce ancora più flebile del solito mi chiese del
sapone. Aggiunse che non ne aveva mai avuto uno tutto per sè, nè nella
sua casa in Mozambico, nè nel campo e nemmeno in ospedale. Il mio
accompagnatore era già alla porta del reparto di rianimazione quando
Taona mi fece cenno di tornare da lui. Aveva un altro desiderio. Un
asciugamano. Un'altra cosa che non aveva mai posseduto.
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Quando ricevette il sapone e l'asciugamano Taona decise che erano troppo preziosi per un uso quotidiano. Conservò l'asciugamano giallo e
rosso vivo piegato con cura sotto il suo cuscino e sotto il sapone.
Dopo ogni somministrazione di antidolorifico e prima di scivolare nel
sonno per alcune ore, tirava via il sapone da sotto l'asciugamano, lo
avvicinava al naso, lo annusava con gli occhi chiusi e poi lo riponeva
nuovamente al suo posto.
Un sabato sera tardi fui chiamato in ospedale. Taona stava per morire. Il
suo volto era sereno ora e per la prima volta da quando lo conoscevo
sembrava proprio un ragazzino di quattordici anni. L'asciugamano era
riposto con cura sotto il suo cuscino.
Seppellimmo Taona il mattino seguente nel piccolo cimitero dietro
l'ospedale. La sua tomba fu scavata in un angolo lontano, riservato ai
rifugiati mozambicani deceduti in ospedale. I funzionari del governo ci
avevano chiesto di tenerli separati. Forse un giorno le autorità mozambicane li avrebbero reclamati. Taona fu coperto con un lenzuolo candido e
avvolto in una stuoia di paglia, allacciata a piedi, vita e collo. Quando
venne calato nella fossa, una donna anziana si fece avanti e depose delicatamente l'asciugamano ed il sapone sul suo capo. Il sapone era ancora
nel suo involucro.
Dieter B. Scholz SJ, Direttore Internazionale del JRS, 1984 - 1990
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Ti ho chiamato per nome
Quando da novizio nel 1995 cominciai a lavorare con i rifugiati, una delle
prime cose che feci fu di girare a piedi ogni giorno nel campo con il mio
compagno Jacob Okumu, ed imparare i nomi dei giovani. Più li chiamavamo per nome, più l'etichetta di 'rifugiati' svaniva dalle nostre menti e più
velocemente consolidavamo il nostro rapporto con loro. La percezione che
avevamo dell'altro cambiò. Ogni nome ci rivelava un individuo da amare,
con cui relazionarsi, identificarsi e da cui imparare. Le persone delle quali
ignoravamo il nome rimasero collettivamente 'rifugiati' fino alla nostra
partenza. Quando arrivò il momento di tornare al noviziato i nostri nuovi
amici ci chiesero come mai ci eravamo recati lì se non potevamo restare. Si
era stabilito un legame, ma per un periodo di tempo troppo breve, appena
pochi mesi.
Qui non si trattava semplicemente del JRS che accompagnava
i rifugiati, ci si accompagnava l'un l'altro.
Nel 2000 tornai in Tanzania per il mio magistero. Lavorai per due anni a
Radio Kwizera (RK), nel distretto di Ngara e nei campi del distretto di
Kibondo. Non ho mai pensato alle persone con cui lavoravo in radio
come a dei 'rifugiati'. In un generale spirito di collaborazione ci si riferiva spesso a loro come all'équipe Kirundi, poichè si occupavano di programmi in lingua Kirundi. Ma la maggior parte del tempo li chiamavamo
per nome. Si respirava un'atmosfera di condivisione, interazione, rispetto e comune senso di responsabilità nella creazione dell'ethos di RK, seminando semi di speranza promuovendo la pace e la riconciliazione e trasmettendo notiziari e programmi che trattavano di ambiente, salute, istruzione e intrattenimento. Tanzaniani o burundesi, i membri di RK avevano
instaurato un clima di amicizia. Eravamo una squadra.
Lo stesso è successo con i giovani burundesi nei campi. Qui non si trattava
semplicemente del JRS che accompagnava i rifugiati, ci si accompagnava
l'un l'altro. L'obiettivo e la visione che avevamo era costruire una comunità di speranza attraverso la preghiera, il culto, la riconciliazione, l'attenzione ai più poveri, le visite e le cure agli ammalati e, soprattutto, celebrando
la vita insieme. Non offrivamo servizi ai rifugiati, ma rispondevamo, insie25
me, alle loro esigenze. Abbiamo costruito un luogo di preghiera e delle
aule, organizzato laboratori e seminari su leadership e istruzione, servizi
sociali e pastorali e abbiamo valutato le nostre attività. Vivendo insieme
tale esperienza, abbiamo individuato a vicenda i nostri punti di forza e le
nostre debolezze. Abbiamo creato un ambiente che stimolava il servizio e
le attività advocacy. I rifugiati hanno potuto identificarsi con il JRS divenendo parte della nostra missione e della nostra famiglia.
Il periodo di tempo trascorso tra le persone costrette all'esilio mi ha convinto che essi hanno tanto da offrire, quanto coloro i quali li assistono
hanno da ricevere. Pur vivendo in realtà difficili e incerte i rifugiati serbano spesso speranza, felicità, talento e lavorano duramente, soprattutto
quando vengono offerti loro sostegno e opportunità nuove. Non dobbiamo vederli come dei semplici utenti delle agenzie umanitarie nazionali,
non governative o internazionali. Se li consideriamo e li trattiamo semplicemente come persone che si trovano in circostanze difficili, cambiamo il
nostro modo di vedere i rifugiati e i loro diritti e doveri. Per questo in
Tanzania si dava la possibilità di coltivare aree designate per poi venderne i frutti: per far sì che i rifugiati potessero provvedere ai propri bisogni.
Incoraggiarli a piantare i propri alberi e tagliarne altri per l'uso domestico
riduceva il rischio che potessero essere visti come una minaccia per l'ambiente e la sicurezza.
Rivolgersi ai rifugiati chiamandoli per nome rappresenta un potente
mezzo per riconoscere come ognuno di noi sia una persona valida, dotata
e con dei diritti. Insieme, i rifugiati hanno molto da condividere e da offrire ai paesi che li ospitano nell'attesa di un ritorno sicuro e dignitoso nella
propria terra d'origine.
Deogratias M. Rwezaura SJ, Direttore del Progetto Kibondo, JRS Tanzania,
2001 - 2002
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Un mondo invisibile
Nell'autunno del 1998 svolgevo il mio terzo anno di formazione a Berlino.
In 16 anni di vita nella Compagnia non mi ero mai realmente spostato dal
settore dell'istruzione e del lavoro con i giovani. Quando dovetti pensare
ad un esperimento, sentii di dover fare qualcosa di diverso, in cui la
dimensione del servire la giustizia fosse più estesa e forte che in qualsiasi altra attività precedentemente intrapresa. Decisi inoltre di viaggiare al
di là dei confini del cosiddetto mondo sviluppato per recarmi in Africa. Il
JRS sembrava offrirmi esattamente questa opportunità.
All'inizio fui deluso. Non riuscii a partire. Non è semplice mandare qualcuno in un campo di rifugiati senza un ruolo ben preciso, uno status o un
servizio da fornire. Iniziai così a lavorare per il JRS Berlino con Bernd
Günther e Stefan Taeubner. Tale esperienza rappresentò un'introduzione
straordinaria ad un mondo che, fino a quel momento, era stato per me
invisibile. A dieci anni dalla riunificazione della Germania l'impatto della
caduta delle frontiere era probabilmente più visibile a Berlino che a
Londra. Visitavo due centri di detenzione per giovani. Le autorità sostenevano di avere 'sospetti ragionevoli' circa il fatto che se non fossero stati
detenuti, sarebbero fuggiti.
Percepii allora cos'era quello strano limbo in cui finiscono i
rifugiati a lungo termine
A parte il faticoso lavoro di Bernd con i richiedenti asilo e quello di Stefan
con la comunità vietnamita, ricordo molto di quel periodo, ad esempio l'ingiustizia delle politiche sulla detenzione. Diffusesi in eguale maniera in
tutta Europa, cercavano di combinare il rispetto per i diritti dei richiedenti
asilo con la necessità di inviare chiari messaggi a coloro i quali potevano
approfittarsi e abusare del sistema, spesso senza concludere niente. Fede e
preghiera erano di fondamentale importanza per le molte persone detenute in quei centri, nell'area metropolitana di Berlino, così profondamente
secolarizzata. Pregavano e cantavano col cuore. Ricordo quei piccoli atti
deumanizzanti inflitti nel nome della preservazione del nostro stile di vita.
Un giorno comprai del pollo per un africano che andavo a trovare. Al mio
ingresso consegnai il pollo integro e, a causa di un'ispezione, lo ripresi dall'altra parte del vetro completamente schiacciato e sicuramente meno
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appetitoso di prima. Rimasi colpito dalla realtà in cui vivono queste persone che, pur desiderando disperatamente di rimanere in Europa, ne ignoravano le leggi e non possedevano che le proprie storie personali. Ancora
non sono sicuro se le storie che un giovane mi raccontava, spesso tra le
lacrime, fossero vere o no, o se ci credesse così appassionatamente solo
perchè voleva fuggire dalle circostanze disperate in cui si trovava. C'era
poi l'ipocrisia dei governi che deportavano, spesso con la forza, quelli che
venivano presi scaricandoli senza troppe cerimonie negli aeroporti di città
in via di sviluppo, e al contempo costruivano ed organizzavano i servizi
nelle proprie città usando eserciti di lavoratori invisibili, spesso privi di
diritti a causa del proprio status di migranti irregolari.
Alla fine fui inviato in Kenya per due mesi. Rimasi a Nairobi per oltre tre
settimane visitando non solo i progetti del JRS, ma anche le parrocchie
dei gesuiti della bidonville di Kangemi. Non dimenticherò mai una bambina che viveva con sua madre e i suoi fratelli e sorelle in una costruzione di legno della misura di un minuscolo capanno da giardino: piangeva
perché aveva pensato che io fossi lì per pagare i suoi studi, ma non era
così. Come non dimenticherò un'ancor più piccola capanna piena di bambini ed al centro una donna affetta dal virus dell'HIV, intrappolata tra
povertà e prostituzione per poter pagare l'istruzione per i suoi figli. In
questo contesto, dove le risorse per i cittadini sono così scarse, capivo
perchè migliaia di rifugiati provenienti dai tanti conflitti nella regione
erano in un certo senso più protetti dalla povertà di altri, ma anche che
devono affrontare il risentimento e le inefficienze simili a quelle provate
dai loro omologhi in Europa. Studiando le notizie diffuse a Nairobi, realizzai quante guerre ci fossero in Africa. In Inghilterra non potevi aspettarti più di un articolo dedicato all'Africa nel Guardian nel corso di una
settimana e, escluso lo Zimbabw e in alcune occasioni il Sudafrica, il continente ed i suoi problemi erano praticamente invisibili. L'imponente cifra
di rifugiati e sfollati interni proietta un giudizio molto severo sulle politiche europee di controllo dei rifugiati.
Alla fine trascorsi poco più di un mese al campo per rifugiati di Kakuma,
gestito per conto dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
dalla Lutheran World Federation (Federazione Luterana Mondiale); è stato
questo forse il mese più interessante di tutta la mia vita. Nell'équipe del
JRS, Maureen e Diane erano le responsabili dei progetti di istruzione, mentre Dorothy si occupava dei servizi sociali di assistenza psicologica.
Percepii allora cos'era quello strano limbo in cui finiscono i rifugiati a lungo
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termine, intrappolati nei campi di questa zona semidesertica donata
all'UNHCR dal governo del Kenya senza previa consultazione dei
Turkana, la tribù nomade locale. Le tensioni tra i due gruppi erano sempre sul punto di esplodere. L'importanza dell'istruzione e l'efficacia della
missione di responsabilizzazione (empowerment) del JRS erano evidenti.
Il principale compito di Maureen consisteva nell'assegnare borse di studio affinché i rifugiati sudanesi potessero frequentare scuole keniote, gettando le basi per una classe istruita che una volta rientrata in Sudan,
avrebbe potuto ricostruire il proprio paese; il grande progetto di Diane
era quello di avviare un programma di apprendimento a distanza per
l'istruzione superiore. Il progetto di Dorothy era dedicato alle categorie
più vulnerabili, soprattutto le donne, offrendo loro uno spazio adatto a
guarire dalle proprie ferite.
Cosa potevo fare io lì? Forse non molto, ma qualcosa di certo. Potevo insegnare, trascorrere del tempo con le persone e dare una mano nei lavori di
edilizia. Mentre ero lì, i preti responsabili delle diverse comunità cattoliche tribali del campo erano partiti per un convegno in Tanzania. Fu così
che lavorai da parrocchiano per quasi tutto il mese, trasportato in bicicletta. Quando scoppiarono degli scontri tra gruppi di tribù rivali, che causarono alcune morti e l'incendio di un'intera area del campo, capii quanto
siano importanti i leader religiosi, in questo caso i catechisti, nel processo di riconciliazione. Conobbi persone meravigliose, di grande fede e
generosità, che sopravvivono e crescono insieme in una realtà sorprendentemente bella quanto dura.
La ricchezza di questa esperienza con il JRS mi affascina ancora oggi che ne
scrivo dopo otto anni. Sono tornato al mio lavoro nelle scuole superiori, ma
quei mesi hanno cambiato la mia coscienza. Vi è un sentimento di unione
globale che prima non conoscevo, la consapevolezza di questa quasi invisibile presenza per le strade di Londra. Conservo ancora la mia pietra
rossa, raccolta dal letto di un fiume in secca nei pressi del campo e la utilizzo durante gli incontri e le presentazioni. Anche se non posso fare molto,
posso almeno fare in modo che le loro voci vengano ascoltate e, grazie al
continuo contatto attraverso altri gesuiti che lavorano con il JRS, far conoscere persone e storie e incoraggiare la generosità verso coloro i quali furono tanto generosi nei miei confronti.
John Moffat SJ, operatore pastorale, Berlino, JRS Germania; Kakuma, JRS Kenya,
1998 - 1999
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La specificità dell'identità ignaziana del JRS
Un Corps pour l'Esprit
Dominique Bertrand SJ, nel suo libro Un Corps pour l'Esprit, parla delle
Costituzioni come del corpo dato allo spirito dell'appena nata Compagnia
di Gesù. Le Costituzioni riflettono molte questioni e problemi associati alla
rapida crescita iniziale della Compagnia e hanno raggiunto una forma
matura solo 18 anni dopo la sua fondazione. […]
Similmente il JRS è nato dall'ispirazione del Padre Generale Pedro Arrupe.
Dieci anni dopo Padre Kolvenbach ha ulteriormente specificato l'enunciazione iniziale della sua missione nella lettera sul JRS. Paragonando i due
procedimenti, vediamo come per primi siano arrivati l'ispirazione e l'impegno iniziale e una breve enunciazione sulla missione, mentre il consolidamento e la creazione di un corpo istituzionale vengono dopo, in quanto
esse non sono un fine in sè, ma un semplice sostegno alla missione. In altre
parole, lo spirito si incarna in un corpo al fine di divenire effettivo. [...]
Promozione integrale della persona
[…] una delle maggiori preoccupazioni di Padre Arrupe era l'assistenza
pastorale per i rifugiati. Egli voleva il personale del JRS insieme a loro. Da
questo accompagnamento emergono diverse attività finalizzate a dare
risposta a bisogni specifici. Non è una questione di scelta tra lavoro pastorale, educativo o di altra natura, sono tutti elementi complementari.
Un apostolato in prima linea
Abbastanza spesso il lavoro con i rifugiati si traduce in un apostolato in
prima linea. A volte chi vi lavora è a rischio. Spesso i rifugiati vivono in
zone di conflitto, in aree remote di confine, povere di infrastrutture o in circostanze difficili. Il JRS confida sui criteri delle Costituzioni per individuare i destinatari del proprio servizio: dove vi è maggior bisogno, dove i frutti del nostro lavoro sono maggiori e i suoi effetti maggiormente "moltiplicati" (Cost. 622). In caso di dubbio, le Costituzioni suggeriscono che la preferenza venga data ai benefici spirituali piuttosto che fisici; che venga scelta la situazione più urgente; che si lavori dove non v'è nessun altro e dove
si arrechi beneficio al maggior numero di persone possibile e che si scelgano i lavori più brevi (Cost. 623). […]
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L'emergere del mercato globale e di sistemi di comunicazione e culturali
dominanti ha prodotto molte vittime e perdenti. I rifugiati sono la punta
dell'iceberg di un fenomeno globale di migrazione in costante aumento, sia
volontaria che, nella maggior parte dei casi, forzata. Le possibilità di conflitto, se non vengono gestite accuratamente, sono molte. […]. Si presentano allora due scelte: restarne fuori o farsi coinvolgere prendendo la parte
delle vittime. Insieme ad altre organizzazioni ecclesiastiche come la
Caritas, il JRS rappresenta uno dei maggiori apostolati in prima linea.
Spesso scelte come quelle del JRS fanno guadagnare alla Chiesa il rispetto
di altre organizzazioni. […]
Un'attenzione particolare all'istruzione
Pur nella grande diversificazione delle sue attività, l'istruzione merita di
essere definita come componente principale del lavoro del JRS. La maggior parte delle ONG si occupa di necessità più immediate come il cibo, il
riparo, l'acqua, gli abiti e l'assistenza medica; l'istruzione non è inclusa
nella lista delle priorità dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(UNHCR). Essa è inoltre molto importante per la vita nei campi stessi e
per il futuro dei bambini rifugiati. Il JRS ha attuato un discreto numero di
programmi educativi per la scuola primaria, secondaria e, in misura minore, universitaria. […]. Il servizio del JRS rispetta la tradizione della
Compagnia di Gesù. […]
Mobilità
Con la creazione di molte università e collegi, la vecchia Compagnia di
Gesù ha decisamente perso molta della sua iniziale mobilità. […] Il JRS
gliel'ha restituita. Padre Arrupe ha invitato i gesuiti a rendersi disponibili
ai rifugiati lasciando il proprio lavoro per raggiungere paesi sconosciuti e
conoscerne le culture. Sebbene il JRS non metta mai radici, accompagnerà
sempre i rifugiati fino a casa. Quando emergono nuovi bisogni si riparte. Si
potrebbe dire che il JRS stia fornendo ai gesuiti nuove opportunità di attività missionaria. […]
Collaborazione con i laici
Il documento sulla Collaborazione con i Laici nella Missione della XXXIV
Congregazione Generale cita il JRS come esempio. L'importanza data alla
collaborazione sembra una novità, ma in realtà non lo è. Ignazio cercò il
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supporto e la collaborazione degli altri per molte delle sue iniziative apostoliche, per esempio la Casa di S. Marta per Ragazze. Dopo essersi occupato personalmente della Casa per alcuni anni, Ignazio passò il testimone
alle donne laiche coinvolte nella gestione. Al fine di finanziare le università, Ignazio invitò principi, vescovi ed altri patrocinatori. È una caratteristica dei gesuiti quella di invitare gli altri a partecipare ad un buon lavoro,
portarli a fare del bene o consegnare nelle loro mani la gestione di un'attività di beneficenza. Il JRS dipende dall'impegno di volontari laici e religiosi di altre congregazioni, così come dalla generosità di privati e organizzazioni. Fornisce tuttavia la struttura organizzativa ed il supporto e soprattutto una visione spirituale. […]
Uno stile di vita semplice
Secondo Ignazio la povertà costituisce una corazza che protegge gli istituti
religiosi nella loro esistenza e disciplina e li difende dai molti nemici (Cost.
816). […] Di certo le risorse sono necessarie al lavoro e in molti casi sono
fondamentali: sostenere un'équipe in zone particolarmente remote ha sempre un costo. Per questo il JRS deve stare attento a non agire mai in funzione dei fondi, lasciando decidere al denaro se restare o no in una particolare situazione. La semplicità dello stile di vita, oltre che delle nostre attività,
è la corazza che protegge lo spirito ignaziano del JRS.
Mezzi spirituali
La Compagnia non è stata fondata con mezzi umani, per questo non può essere
preservata e sviluppata attraverso di essi, bensì attraverso l'onnipotente mano di
Cristo, Dio e nostro Signore (Cost. 812). […]
[…]. La miseria e le necessità dei rifugiati sono talmente imponenti che
non potremmo mai rispondere adeguatamente solo attraverso i nostri
mezzi umani. I mezzi spirituali costituiscono la forma di supporto più
importante e ci consentono di affrontare queste situazioni disperate senza
perdere forza e speranza.
Peter Balleis SJ, Direttore Internazionale del JRS, 2007 -
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I Fratelli gesuiti e il JRS
La maggior parte delle attività del JRS hanno un fratello gesuita all'origine
e nel cuore. I fratelli sono stati coinvolti nella missione del JRS sin dalla sua
fondazione. Non appena Padre Arrupe lanciò il suo primo appello nel
1980, Bob Maat (ex-Detroit), Noel Oliver (Pune) e Paul Macwan (Gujarat) si
recarono in Thailandia.
L'impegno di tutti questi fratelli nel servire i rifugiati risponde alla chiamata [...] di accompagnare i profughi forzati che fuggono da esperienze di discriminazione, e che sono privati di dignità, voce e potere.
Altri seguirono il loro esempio. Tom Williams (Maryland) fu uno dei primi
ad occuparsi del laboratorio per le vittime delle mine nel campo di Ampil,
al confine con la Cambogia, un'iniziativa che si sviluppò nell'ambito delle
attività missionarie dei gesuiti in Cambogia. Molti altri in quegli anni si
offrirono di recarsi nel sud est asiatico come Lionel Tremblay per esempio,
un canadese della Provincia cinese. Da Hong Kong, per tutti gli anni ottanta, sostenne direttamente i rifugiati ed aiutò molti membri del JRS giunti
per lavorare con i rifugiati indocinesi. Dinh Ngoc Tinh, della Provincia
australiana, lavorò con il JRS nei campi per rifugiati di Hong Kong. Due
fratelli australiani, Renato Zecchin (che si recò poi in Pakistan come missionario, studiò teologia e fu ordinato) e Ian Cribb, iniziarono un progetto per
il JRS a Pulau Bidong, un campo per rifugiati vietnamiti in Malesia. In
Canada John Masterson si occupó per molti anni di una casa di accoglienza per rifugiati (Toronto).
Man mano che il JRS cresceva, i fratelli venivano sempre più a costituire
una parte integrante della sua espansione nel mondo. Jan Caers, un belga,
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(già della Provincia dell'Africa Orientale) si recò in Etiopia nel 1984 per
aiutare le vittime della carestia del Wallega. Michael Bennett (Oregon),
fornì il suo aiuto nell'amministrazione della Regione dell'Africa
Orientale per diverso tempo alla fine degli anni ottanta. Non pochi servirono in più di un paese, Fernando Breilh della Provincia dell'Ecuador ad
esempio, si recò prima in Thailandia e poi in Malawi per aiutare i rifugiati mozambicani con un programma d'istruzione. Accompagnando i
rifugiati a casa, trascorse tre anni a Vichinga, nel Mozambico settentrionale, seguendo la ricostruzione della diocesi dopo la guerra e aiutando
chi rientrava a reintegrarsi nelle comunità locali. Nick Johannesma
(Canada) veterano del Bhutan e di numerose altre situazioni difficili, si
recò in Etiopia nei primi anni novanta per avviare un progetto di sviluppo agrario del JRS nel nord del paese.
Herbert Liebl, un gesuita austriaco appartenente alla Provincia della
Germania Superiore, si unì al JRS nel 1990 in Malaysia, dove si occupò
dei minori vietnamiti non accompagnati. Poi fu rappresentante del JRS
in Svezia e lavorò con la Caritas locale per il reinsediamento dei rifugiati. Herbert lavorò poi per alcuni anni in Zambia, diventando il referente
del JRS nella remota Cazombo, in Angola, finché la guerra non lo
costrinse ad un doloroso ritorno. Il suo delicato ruolo di supervisione dei
contatti tra Angola e Zambia terminò bruscamente con la ripresa della
guerra in Angola. Dopo essersi dedicato anima e corpo al rafforzamento
dell'équipe e della comunità locale, Herbert dovette adattarsi a una
nuova realtà di conflitto ed esclusione. Lavorò in seguito per il JRS
Liberia, dove entrò a far parte dell'équipe che comprendeva già Domino
Frank, un fratello nigeriano.
Joe Shubitowski (Detroit) e Martin Murphy (Irlanda) furono entrambi abili
costruttori edili. Joe aiutò a erigere costruzioni belle e solide nei campi
ruandesi della Tanzania nel 1995 e 1996. Pochi anni prima Martin aveva
aiutato a ricostruire la missione Angonia nella provincia del Tete, nel
Mozambico settentrionale, facilitando così il rientro dei rifugiati dal
Malawi.
Alcuni fratelli hanno ricoperto il ruolo di direttori, tra loro il venezuelano
Raúl Gonzalez, alla guida del JRS America Latina e poi direttore del JRS
Zambia. Dopo aver lavorato con i rifugiati sudanesi a Port Sudan per cinque anni, Stephen Power fu uno dei due fondatori del JRS Gran Bretagna.
Fu in seguito nominato Direttore della Regione dell'Africa Orientale,
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Direttore del JRS Etiopia ed infine assistente al Direttore Internazionale
del JRS. L'altro fondatore del JRS Gran Bretagna, Bernard Elliott, è stato un
pioniere nell'assistenza dei richiedenti asilo. Bernard iniziò nei primi anni
ottanta mentre era ministro a Heythrop College, prestando accoglienza ed
assistenza ai rifugiati vietnamiti. In seguito si occupò di cambogiani, etiopi, angolani e chiunque fuggisse dai conflitti in corso al momento. Bernard
è considerato uno dei maggiori conoscitori delle modalità e politiche di
detenzione di immigrati in Gran Bretagna.
Il JRS non avrebbe avuto una base così forte in Germania senza il prezioso aiuto di Michael Hainz, con una parola di ispirazione e incoraggiamento per tutti, anche quando era impegnato nei suoi studi di dottorato in
sociologia rurale e nei suoi doveri di insegnante presso la facoltà di scienze sociali di Monaco. Un fratello francese, Jean-Paul Wihlm, nonostante
non facesse ufficialmente parte del JRS, ha collaborato sia come infermiere che nell'amministrazione della Croce Rossa francese, accogliendo i
rifugiati in Francia per molti anni ed aiutandoli a inserirsi. Alessandro
Brusacoram, che morì improvvisamente alla fine del 1998, trascorreva
ogni settimana diverse notti al Centro Astalli del JRS della Provincia italiana fondato da Pedro Arrupe stesso. René Maurage di Verviers
(Provincia del Belgio Meridionale), ha prestato per molti anni consulenza
e assistenza ai richiedenti asilo. Grazie a Saviour Mifsud, che ha collaborato con il JRS Malta sin dalla sua apertura, e Paul Spiteri, il ministro della
casa Loyola a Naxxar, Malta ha potuto dare un grande contributo nell'accoglienza dei rifugiati.
L'impegno di tutti questi fratelli nel servire i rifugiati risponde alla chiamata del Decreto 7 della Congregazione Generale XXXIV: […] essere profondamente coinvolti nella battaglia per la fede e la giustizia, laddove si include
il contribuire ad ogni tipo di lavoro, materiale e tecnico, al servizio dell'apostolato e del corpo della Compagnia. In molti si sono offerti volontariamente di
accompagnare i profughi forzati che fuggono da esperienze di discriminazione, e che sono privati di dignità, voce e potere.
Mark Raper SJ, Direttore Internazionale del JRS, 1990 - 2000
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Ero uno straniero e tu mi hai accolto
Dei quasi 50 milioni di sfollati nel mondo, l'ottanta per cento sono donne
e bambini. Il problema dei rifugiati inoltre non sembra diminuire. La
popolazione mondiale dei rifugiati è passata dai cinque milioni del 1980
ai quindici milioni di oggi: tutte persone che sono fuggite dal proprio
paese d'origine.
Troppo spesso queste persone vengono rinchiuse in centri di detenzione
per immigrati. Tale situazione è sintomatica della mancanza di capacità o
di volontà da parte della comunità internazionale di gestire i flussi migratori e per questo i rifugiati sono costretti a pagare un altissimo prezzo: la
loro stessa libertà.
Anche il numero di sfollati interni (IDP), che non lasciano il proprio paese,
è aumentato in maniera esponenziale. Nel 1999 sono stati registrati IDP in
40 paesi, mentre negli anni settanta se ne contavano solo in cinque paesi.
Attualmente vi sono circa 24 milioni di sfollati interni nel mondo, soprattutto in Colombia e Sudan. Spesso è più difficile assistere gli IDP che i rifugiati, soprattutto quando i loro movimenti sono continui a causa di conflitti prolungati, dell'aggressione perpetrata dalle forze governative o quando
il conflitto è teatro di scontri tra diversi gruppi armati.
La vera storia delle guerre nel mondo può essere letta sui volti dei rifugiati. Intere generazioni in Africa, Medio Oriente, Asia ed Europa non hanno
conosciuto che la vita dentro un campo profughi. Le comunità dipendono
dagli aiuti, le loro radici e culture vengono sgretolate e l'istruzione viene
meno. Si instaura allora un sentimento di disperazione e la dignità umana
viene messa a dura prova. Essere rifugiato significa vivere ai margini della
società, socialmente e politicamente isolati.
L'esperienza del JRS rivela chiaramente quanto abbiamo da imparare
dai rifugiati
Vi è il desiderio di tornare a casa, ma non c'è mai nulla da fare nell'attesa.
Come possiamo accompagnare i rifugiati ed aiutarli a ricostruire le proprie
vite? La sfida è creare un rapporto senza creare dipendenza.
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Dio in esilio
Questa sofferenza può minare la nostra fede nella misericordia e compassione di Dio. Vedere e conoscere il male colpisce profondamente. Per questo ci chiediamo: dov'è Dio in tutto questo?
La Bibbia ci racconta che uomini e donne si ponevano tale domanda già
oltre 2.500 anni fa,. Gli israeliti hanno sofferto la guerra, la violenza, la
fame, la persecuzione e l'esilio. Oltre all'esodo dall'Egitto verso la Terra
Promessa, il popolo di Israele è stato esiliato ancora due volte. In esilio,
Israele ha approfondito la sua conoscenza di Dio ed è proprio tale esperienza che può ispirare chi lavora con i rifugiati oggi.
Non possiamo restare indifferenti alla drammatica condizione dei rifugiati. Il profeta Isaia ha parlato alla comunità degli esiliati ebrei di Babilonia:
"Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si
dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio
delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non mi dimenticherò mai di te. Ecco ti ho disegnato sul palmo delle mie mani" (Is 49:14-16).
Questa è l'esperienza chiave che deve alimentare la nostra vita spirituale:
Dio è con noi. Una vedova burundese del campo di Lukole (Tanzania occidentale) una volta disse: Dio ci capisce perché anch'Egli ha perso un figlio.
Aprire i nostri cuori
"Venite benedetti dal Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi
fin dalla fondazione del mondo. Perché io avevo fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e
mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi..."
(Mt 25:34-35).
L'ostilità deriva dall'ignoranza, l'ospitalità dall'apertura mentale. L'ostilità
nei confronti dello straniero nasce in un cuore che ha delle barriere, è
insensibile e incapace di vedere la ricchezza che risiede nella diversità.
L'ostilità collettiva del mondo occidentale si può guarire imparando dall'ospitalità propria di altre culture. Il passaggio dall'ostilità all'ospitalità si
compie quando veniamo accolti, ciò rappresenta il dono di aprire se stessi ad un singolo o ad una famiglia di rifugiati.
Giovanni Paolo II, nel suo messaggio per la quaresima del 1998, ricorda che
dove vi è una grande ostilità, qui vi è la maggior necessità di accogliere:
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Questo clima di accoglienza è ora più necessario perché oggigiorno siamo testimoni di molte più forme di rifiuto dell'altro. Questo rappresenta uno dei problemi che si trovano ad affrontare milioni di rifugiati ed esiliati che si traduce in
fenomeni di intolleranza razziale rivolta a chi ha l'unica 'colpa' di cercare un
lavoro, o di voler migliorare le proprie condizioni di vita al di fuori del proprio
paese d'origine, nella paura di chiunque sia considerato diverso e, in quanto tale,
percepito come minaccia.
Accompagnare i rifugiati offre a noi cristiani un'opportunità speciale di
raggiungere persone che appartengono ad altre religioni. Più della metà
dei rifugiati oggi è musulmana. L'accoglienza che gli dimostriamo è la
misura della nostra fede.
La persona al centro
Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu
l'amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto.
(Levitico 19:33-34)
Non v'è nulla di più impersonale che le masse di immigrati e rifugiati di
cui tanto si parla. Dietro tali fredde statistiche si celano individui con le
loro storie personali. È facile lasciarsi scoraggiare alla vista di enormi
campi che ospitano fino anche a 200.000 rifugiati, come accade in Tanzania
occidentale. Ma poi, parlando con un rifugiato che condivide la sua storia
ed i suoi sentimenti con te, diventa facile far emergere la speranza e la solidarietà. Un membro del JRS descrisse l'accompagnamento come un tesoro
pieno di sorprese.
Il servizio della Chiesa per i rifugiati affonda le sue radici in una sacra
realtà: ogni uomo è creato ad immagine di Dio e merita di essere trattato
come tale. La percezione pubblica è spesso diametralmente opposta. I
nostri media parlano in continuazione di invasioni migratorie. Sta diventando sempre più difficile distinguere tra migrazione volontaria e forzata,
tra chi fugge da morte e persecuzioni e chi da miseria e ingiustizia sociale. L'Europa sta costruendo una fortezza e i governi sono scettici sulle
richieste di asilo.
Abbiamo la responsabilità di scoprire cosa sta accadendo in altre parti del
mondo.Sui nostri schermi televisivi ben poco si dice sui conflitti armati e
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le relative situazioni di sfollamento in tutto il mondo. Forse se cercassimo di comprenderne le cause, la paura irrazionale di queste invasioni di
massa potrebbe diminuire.
Imparare dai rifugiati
Avevamo una casa, della terra, un'auto […] Hanno bruciato le nostre case perché eravamo Tamil. Siamo fuggiti nel nord dello Sri Lanka. Ho venduto tutti i
miei gioielli. Saremmo impazziti senza la fede e l'Eucarestia. Ora non abbiamo
molto, ma almeno siamo vivi.
La donna che ci ha detto questo ci ha insegnato molto sulla speranza e il
coraggio e ciò viene da una profonda esperienza di Dio. L'esperienza del
JRS rivela chiaramente quanto abbiamo da imparare dai rifugiati, dalla loro
solidarietà e generosità. Nonostante abbiano perso quasi tutto, sono determinati a vivere e a recuperare la loro dignità. Secondo Padre Mateo
Aguirre, Direttore Regionale del JRS Africa Occidentale: Nel nostro lavoro
vediamo sia il lato migliore che il lato peggiore dell'uomo, ma la vita è più forte
della morte.
Sperare contro ogni speranza
Io so i pensieri che medito per voi, dice l'Eterno: pensieri di pace e non di male,
per darvi un avvenire e una speranza. Voi m'invocherete, verrete a pregarmi e io
vi esaudirò. Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il
vostro cuore; e io mi lascerò trovare da voi, dice l'Eterno, e vi farò tornare dalla
vostra cattività. (Ger. 29:11-14)
Miriam, una rifugiata africana, ha scritto che non c'è miglior regalo per le
persone in esilio della speranza nella pace. Privare della speranza è un'azione
orribile perché senza speranza lo spirito umano muore. Fare il possibile
affinché la speranza resti viva, essere grati dei doni che riceviamo ogni
giorno, aggiungere alla vita in esilio il sale della gioia: questi sono i compiti che Dio ci ha affidato.
Le persone scelte da Dio vollero seguirlo mentre si trovavano nel deserto in
cerca della Terra Promessa. Il lavoro con i rifugiati rappresenta un viaggio
spirituale parallelo, di rifugiati ed altri che cercano la terra della pace e della
giustizia, e chiunque si unisca a loro nella missione di ricostruire l'umanità.
Lluís Magriñà SJ, Direttore Internazionale del JRS, 2000 - 2007
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Editore: Lluís Magriñà SJ
Redattore: Danielle Vella
Foto di Copertina: Italfoto, Roma
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati
Novembre 2007
accompagnare
servire
difendere