Etica Nicomachea - Sebastiano Inturri

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Etica Nicomachea - Sebastiano Inturri
L’Etica Nicomachea
di Aristotele
così come riassunta
da Sebastiano Inturri
Introduzione
L’Etica Nicomachea è un’opera in dieci libri scritta da Aristotele, il grande filosofo vissuto
in Grecia nel IV secolo a.C.
Probabilmente venne così intitolata perché fu suo figlio Nicomaco a raccogliere e
divulgare le lezioni tenute dal padre.
Il famoso proverbio Una rondine non fa primavera è tratto dal primo libro di quest’opera.
Ma, a parte questa curiosità, questi dieci libri sono veramente molto interessanti, perché
contengono un concentrato di validi insegnamenti morali. Consiglio a tutti di leggerli e,
se qualche concetto non risulterà del tutto chiaro, invito a non scoraggiarsi e a proseguire
ciononostante la loro lettura, in quanto i concetti che saranno invece capiti costituiranno
comunque un bene prezioso non solo per chi li leggerà, ma per l’intera società, la quale
potrà così avvantaggiarsi della crescita morale degli individui che la compongono.
Roma, 27 giugno 2014
S. I.
Libro I
Ogni azione umana mira a raggiungere un bene. Ciascun bene aspira a un bene di grado
superiore, cioè ciascun bene viene scelto in funzione di un bene più elevato. Ciascun
bene superiore, a sua volta, punta a un bene di livello ancora più alto. E siccome non si
può procedere all’infinito, si giungerà al bene supremo, cui quindi tutte le azioni umane,
più o meno direttamente, sono indirizzate. Conoscere questo bene supremo è
fondamentale, perché, quando si ha chiaro il bersaglio, questo diventa più facile da
centrare. È innegabile che questo bene supremo apparterrà alla scienza più importante, la
quale è, manifestamente, la politica. A questa, infatti, sono subordinate le più apprezzate
capacità, come la strategia, l’economia, la retorica. Inoltre la politica ha il merito di curare
il bene di un intero popolo, e il bene di un intero popolo è evidente che sia più nobile e
grande di quello relativo a un singolo individuo.
Le persone più adatte a occuparsi di politica sono, a prescindere dall’età, quelle
mentalmente mature. Infatti le persone immature mancano della necessaria esperienza e
sono troppo inclini alle passioni mondane.
Il bene cui tende la politica, ossia il più alto dei beni, dalla gran parte della gente è
ritenuto che sia la felicità. Ma non tutti intendono la felicità allo stesso modo. Anzi
spesso il medesimo individuo muta il proprio concetto di felicità in base al mutare degli
eventi: quando egli è ammalato, la felicità per lui è la salute; quando è povero, la felicità è
la ricchezza; e così via.
Se qualcuno ha dei dubbi sulla strada migliore da percorrere per la ricerca della felicità, è
giusto che chieda consiglio alle persone più sapienti di lui. A tal proposito una massima
di Esiodo dice: “L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé; buono è
pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia: ma chi non è in grado di pensare da sé,
né ciò che sente da un altro sa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla”.
Gli uomini della massa, i più rozzi, identificano la felicità con il piacere, e per questo
amano la vita di godimento, la lussuria, il lusso sfrenato, l’eccessiva comodità. Essi sono
dei veri e propri schiavi, scegliendosi la vita da bestie.
Le persone distinte e predisposte all’azione pongono il bene nell’onore: per questo esse
scelgono la vita politica. Ma anche la vita politica non può considerarsi perfetta, in
quanto non è esente dalle disgrazie, e nessuno si sognerebbe di chiamare felice chi
subisce disgrazie.
Vi sono infine persone che seguono una vita contemplativa; su questo tipo di vita
svolgeremo la nostra indagine in seguito.
La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, non può considerarsi diretta alla felicità,
perché il denaro ha valore solo in quanto “strumento” per raggiungere altre mete.
Infatti un bene può definirsi perfetto quando lo si sceglie per sé stesso e mai in vista di
un altro. Di tale natura è la felicità. Onore, piacere, intelligenza e le altre virtù li
scegliamo invece, sì, per sé stessi, ma anche in vista della felicità.
Un bene quindi è perfetto quando è autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza
non in relazione a un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce vita solitaria, ma
in relazione anche ai genitori, ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai
concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità.
La felicità inoltre deve riferirsi all’intero arco della vita di un uomo, e non a un solo
giorno o comunque a poco tempo. Infatti una rondine non fa primavera, e non può
considerarsi felice una persona solo perché ha vissuto un breve periodo felice.
Bisogna ammettere che sulla felicità dell’anima influiscono inesorabilmente anche
circostanze esterne. Ad esempio, una persona non può essere completamente felice se
manca di nobiltà di natali, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto
felice chi è molto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali o chi è solo e senza figli; e certo
lo è ancora meno chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli
buoni, li ha visti morire. Tuttavia la persona di animo nobile riesce a sopportare bene la
sorte sfavorevole e le disgrazie, anche quelle grandi.
Libro II
La virtù può essere di due tipi, dianoetica ed etica.
La virtù dianoetica trae in buona parte la propria origine e la propria crescita
dall’insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo.
Invece la virtù etica si acquisisce con l’abitudine. Ad esempio, compiendo azioni giuste si
diventa giusti, compiendo azioni temperate si diventa temperanti, compiendo azioni
coraggiose si diventa coraggiosi, ecc.
Da ciò risulta chiaro che non è per un fatto naturale che nascono le virtù etiche. Infatti
ciò che avviene per natura non può essere modificato dalle abitudini. Per esempio, la
pietra per natura è portata a cadere verso il basso, e, anche se la lanciassimo in alto
infinite volte, non potrebbe mai acquisire l’abitudine di cadere verso l’alto. Tuttavia
ognuno di noi ha una propria predisposizione, più o meno accentuata, a ricevere
determinate virtù etiche; queste virtù quindi le possediamo solo in “potenza”, e con
l’abitudine le sviluppiamo, cioè le traduciamo in “atto”. Infatti per diventare uomini di
valore non basta avere dei buoni propositi, ma occorre metterli in pratica; coloro che
non li mettono in pratica assomigliano a quei malati che ascoltano, sì, attentamente i
medici, ma non fanno nulla di quanto viene loro prescritto. Ma se una certa persona non
ha la predisposizione a ricevere una data virtù, l’abitudine potrà fare ben poco per
fargliela sviluppare.
Compito dei legislatori quindi sarà quello di suscitare abitudini adatte a favorire lo
sviluppo delle virtù etiche in quei cittadini che sembrano avere l’attitudine a riceverle, in
quanto, come abbiamo detto, solo l’abitudine è in grado di accrescere le virtù etiche che
si possiedono in potenza.
Per vivere secondo virtù occorre rifuggire sia dagli eccessi sia dai difetti. La via della virtù
sta quindi nel giusto mezzo, nella “medietà” tra gli estremi opposti.
Ma centrare il bersaglio, vivere cioè nel giusto mezzo, è difficile; mentre è facile
mancarlo. Infatti si è buoni in un solo modo, cattivi in molte e svariate maniere. Perciò le
persone virtuose sono poche, e quelle non virtuose sono molte.
Non tutte le passioni e azioni però ammettono la medietà. Alcune infatti sono di per sé
malvagie in qualunque misura vengano messe in atto, come la malevolenza, l’impudenza,
l’invidia, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Dunque non è mai possibile, riguardo a esse,
agire correttamente.
Libro III
Bisogna poi considerare i casi in cui non si agisce completamente liberi, bensì si è
costretti a comportarsi in un certo modo per motivi di forza maggiore; per esempio, un
evento naturale (terremoto, uragano, ecc.) o compiuto da altri (es. un gruppo di uomini
che ci trascina contro la nostra volontà). In questi e in casi simili la persona che ha
compiuto una determinata azione o passione non può essere né lodata né biasimata,
perché non ha agito in piena libertà.
Ciò che si compie per ignoranza è considerato involontario. Esempio, quando a
qualcuno scappa di bocca una parola sbagliata nell’impeto del discorso, o rivela ad altri
qualcosa che non sapeva si dovesse mantenere segreta, oppure quando qualcuno,
durante le esercitazioni di tiro al bersaglio, colpisce per errore una persona, oppure
quando qualcuno uccide una persona che aveva scambiata per un nemico, oppure ancora
quando qualcuno propina ad altri una bevanda che non sapeva essere avvelenata.
Ma non si può giustificare chi è causa della propria ignoranza. Per esempio, se qualcuno
compie un’azione sbagliata sotto l’effetto dell’alcol, costui è giusto che sia disprezzato,
perché il suo stato di ignoranza dipende da lui, che era libero di non ubriacarsi. Allo
stesso modo non sono da giustificare coloro che ignorano cose che sarebbero tenuti a
sapere, in quanto non difficili.
Fatta questa premessa, passiamo ora ad esaminare, una per una, le diverse virtù.
Il coraggio
Esistono dei mali degni di essere temuti, come il disonore; altri invece che non bisogna
temere, come la povertà e la malattia, giacché non intaccano il valore morale di una
persona.
La cosa che tutti temono maggiormente è la morte. Ma non tutti coloro che affrontano
la morte possono considerarsi coraggiosi. Bisogna vedere infatti il motivo per il quale si è
scelto il rischio di morire. Ad esempio, colui che per sua natura è spericolato, è vero che
non ha paura della morte, ma il fine non è onorevole. Né può considerarsi coraggioso
chi si toglie la vita perché malato o per sfuggire ad altre sofferenze; piuttosto costui è
meglio chiamarlo vile.
La morte più onorevole è quella che si ha in guerra; perciò il vero coraggioso è colui che
affronta senza paura il pericolo di morire in guerra.
Chi pecca per eccesso di coraggio è il temerario, il quale spesso è solo un millantatore:
prima che i pericoli si presentino, li cerca con ansia; ma quando i pericoli sono attuali, si
tira indietro.
Coloro che agiscono per impulsività o sotto la spinta delle passioni, pur compiendo
azioni audaci, non agiscono per fini onorevoli; per esempio, chi sotto l’effetto dell’ira per
un torto subìto non ha paura di vendicarsi; oppure gli adulteri, che per il forte desiderio
sessuale affrontano audacemente il rischio di essere scoperti.
Chi invece eccede nel temere è chiamato vile.
La temperanza
Si può godere dei piaceri dell’anima e di quelli del corpo. Tra i primi rientrano l’amore
degli onori e l’amore del sapere: in questi casi non è il corpo a godere, ma la mente.
Quelli che passano le loro giornate a raccontare favole o i fatti che capitano non li
chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni.
La temperanza però riguarda i piaceri del corpo, e nemmeno tutti; per esempio, coloro
che godono dei piaceri della vista (per esempio, delle opere pittoriche) non vengono
chiamati né temperanti né intemperanti. Lo stesso vale nel campo dell’udito: quelli che
esagerano nell’ascoltare la musica nessuno li chiama intemperanti.
Godere troppo degli odori invece può essere indice di intemperanza, ma solo se riguarda
desideri viziosi, come gli unguenti e i cibi raffinati; invece non lo è se riguarda desideri
più nobili, come il profumo dei fiori o della frutta.
Il tatto e il gusto infine sono i due sensi in cui più si manifesta la temperanza o
l’intemperanza. Chi gode in maniera esagerata del gusto e riempie il ventre più del
dovuto ha il vizio della gola, che è uno dei più bestiali. Il desiderio del cibo è naturale; e
chi è giovane e nel pieno delle forze desidera, giustamente, i piaceri del letto. Ma
mangiare o bere tutto quello che capita fino a essere troppo pieni significa superare il
necessario, e per questo coloro che lo fanno sono chiamati golosi.
L’uomo temperante invece aspira solo a ciò che fa bene alla propria salute e al proprio
benessere fisico; inoltre egli non soffre eccessivamente per il fatto di doversi astenere dai
piaceri materiali.
Libro IV
La liberalità
La liberalità è il giusto mezzo che concerne l’atteggiamento che si assume rispetto ai beni
materiali. Per beni materiali si intendono le cose il cui valore si misura in denaro.
L’eccesso consiste nella prodigalità, mentre il difetto nell’avarizia.
La persona liberale dona con piacere alle persone giuste, nella quantità giusta, nel
momento giusto e in vista di un fine onorevole; inoltre prende dove è giusto prendere, e
non prende dove è ingiusto prendere.
La liberalità si misura in proporzione al patrimonio di chi dona. Infatti un uomo povero,
anche se dona meno di uno ricco, si può considerare più liberale di costui se il rapporto
tra ciò che dona e il proprio patrimonio è maggiore di quello del ricco.
Si ritiene comunemente che siano più liberali coloro che non si sono procurati da sé il
patrimonio, ma lo hanno ereditato. Questo soprattutto perché per l’uomo liberale è
difficile arricchirsi, poiché è portato più a donare che a prendere e accumulare; d’altra
parte egli non vede la ricchezza come fine a se stessa, ma come un mezzo per poter
beneficare gli altri.
Chi dona o spende una parte eccessiva della propria ricchezza è definito prodigo.
Il prodigo eccede nel donare o difetta nel prendere, o fa entrambe le cose; al contrario,
l’avaro eccede nel prendere o difetta nel donare, o fa entrambe le cose.
Tra prodigo e avaro è meglio il primo: l’avaro infatti non arreca beneficio a nessuno,
nemmeno a sé stesso; il prodigo invece più che da malvagio si comporta da stupido.
Il prodigo, diversamente dal liberale, può sbagliare o la fonte da cui attinge la propria
ricchezza o le persone cui fa i propri doni; oppure ancora sbaglia il motivo per cui dona,
che non è nobile come quello per cui lo fa il liberale.
Il prodigo inoltre a lungo andare sperpera tutto il proprio patrimonio, e ciò lo costringe
poi a procurarsi le proprie sostanze in modo indiscriminato.
Se però il prodigo corregge i suddetti errori, può diventare liberale. L’avarizia invece è
incorreggibile, perché fa parte della natura dell’uomo (la gente ama più possedere beni
materiali che donarli) e perché con l’avanzare dell’età si è constatato che peggiora.
La magnificenza
Anche la magnificenza, come la liberalità, ha come oggetto beni materiali, ma si distingue
da questa per due motivi: 1) non tutti i beni materiali formano l’oggetto della
magnificenza, ma solo le spese in denaro; 2) le spese che sono frutto della magnificenza
sono di entità nettamente più rilevante di quelle frutto della liberalità. Ne consegue che
l’uomo magnifico è sempre liberale, ma l’uomo liberale non necessariamente è
magnifico.
L’uomo magnifico sostiene spese ingenti in vista di un obiettivo moralmente degno.
Esempi di obiettivi moralmente degni sono: finanziare la costruzione di templi,
sovvenzionare sacrifici per gli dèi, equipaggiare navi, offrire banchetti pubblici.
Un povero non può essere magnifico, perché non può sopportare le spese cospicue che
la magnificenza comporta. Un uomo povero quindi può essere liberale ma non
magnifico.
L’uomo magnifico non spende per apportare piacere o vantaggi a sé stesso, ma lo fa per
pubblico interesse.
La magnificenza è il giusto mezzo tra meschinità e volgarità.
Chi ostenta ricchezza nelle piccole occasioni non è magnifico ma volgare; esempio,
quando si eccede nella spesa per una colazione tra amici.
L’uomo meschino invece è portato sempre a effettuare le spese con troppa parsimonia.
La magnanimità
L’uomo magnanimo è colui che si stima degno di grande considerazione e lo è
realmente.
La magnanimità implica grandezza d’animo. Se un uomo è mediocre e si ritiene tale, non
per questa sua sincerità egli è magnanimo; tuttavia è da apprezzare la sua modestia.
Volendo fare un paragone riguardo alla bellezza fisica, gli uomini di non eccelsa statura
possono sì essere aggraziati e proporzionati, ma non possono definirsi belli.
I magnanimi basano la loro grandezza d’animo sull’onore, perché esso è certamente il
più nobile dei beni esteriori.
Per diventare magnanimi non bastano i meriti acquisiti per fortuna: sono necessarie
anche le virtù. Infatti chi ottiene le cose solo grazie alla fortuna diventa arrogante e
superbo.
L’uomo magnanimo ama solo i grandi rischi e, quando è in pericolo, non risparmia
neppure la propria vita, perché pensa che la vita meriti di essere vissuta solo in maniera
onorata. Inoltre egli è capace di beneficare, ma si vergogna di essere beneficato, giacché
beneficare è proprio della persona superiore, mentre essere beneficato lo è di quella
inferiore. Per tale motivo il magnanimo è portato a dare più di quanto riceve.
I magnanimi si ricordano coloro che hanno beneficato, ma non coloro da cui hanno
ricevuto benefici; questo perché chi riceve un beneficio è inferiore a chi lo fa, e l’uomo
magnanimo vuole essere superiore. Il magnanimo inoltre gradisce sentire parlare dei
benefici che lui ha concesso agli altri, mentre prova dispiacere nell’ascoltare i benefici
che ha ricevuto.
Tipico del magnanimo è il non chiedere nulla a nessuno, oppure di farlo controvoglia; di
contro, egli si rende utile agli altri prontamente. Con le persone autorevoli il magnanimo
dimostra tutto il suo valore; con quelle mediocri invece fa il modesto per non umiliarli.
La persona magnanima mostra apertamente i propri sentimenti e le proprie amicizie; chi
invece non è magnanimo si preoccupa solo di ciò che pensano gli altri di lui e delle cose
che pensa o fa.
Il magnanimo non si abbandona facilmente a rivolgere lodi alle altre persone, perché per
lui nulla è grande. Né egli cova rancore per un torto subìto: piuttosto preferisce
sorvolare. Non è pettegolo: non parla né di sé stesso né degli altri, giacché non gli
importa né di essere lodato né di criticare o lodare gli altri. Infine il suo passo è lento, la
voce grave, il modo di esprimersi pacato.
Colui che si stima degno di grandi cose, ma non lo è, è vanitoso. I vanitosi si
comportano da sciocchi perché, pur non essendone degni, si cimentano in imprese
onorevoli, per poi essere smentiti dai fatti. Essi curano molto l’aspetto esteriore, si
vestono con eccessiva ricercatezza, si preoccupano di esibire a tutti le loro fortune e
mostrano di aspettarsi per esse che gli altri tributino loro degli onori.
Chi invece si ritiene inferiore a quanto merita è pusillanime.
La bonarietà
La bonarietà è la medietà che riguarda i sentimenti d’ira.
Colui che si adira per le cose giuste, con le persone giuste, nei momenti giusti e per il
tempo giusto è da ammirare: questi è l’uomo bonario.
Il bonario è più portato al difetto che all’eccesso d’ira; egli infatti non è vendicativo ed è
propenso al perdono.
Coloro che eccedono nei sentimenti d’ira si distinguono in due categorie:
a) gli irascibili, i quali si adirano rapidamente e in modo incontrollato, con le persone
con cui non dovrebbero e per motivi sbagliati. Il lato positivo degli irascibili è che
la loro ira dura poco tempo, dopo di che passa;
b) i rancorosi, i quali covano a lungo e silenziosamente la loro ira, in quanto non la
sfogano. Essi si quietano solo dopo essersi vendicati. Poiché la loro ira non è
manifesta, nessuno cerca di calmarli, e questo può prolungare il tempo durante il
quale l’ira si annida nel loro animo.
Coloro invece che non si adirano quando dovrebbero passano per sciocchi.
L’affabilità
Chi nei rapporti con gli altri per far loro piacere loda tutto quello che dicono e non li
contraddice mai è chiamato compiacente; chi invece ha l’abitudine di contraddire è
chiamato scorbutico o litigioso.
Anche in questo caso il comportamento giusto da seguire è quello che sta in mezzo tra
gli estremi opposti. Chi segue tale giusto mezzo si potrebbe chiamare “buon amico”.
Egli approva un discorso altrui quando è giusto approvarlo e lo biasima quando invece
merita di essere biasimato, evita le compagnie poco raccomandabili, sa come trattare la
gente e sa in quale modo deve comportarsi a seconda delle persone che ha davanti.
Tra coloro che esagerano nell’affabilità, coloro che lo sono senza altro scopo sono i
compiacenti (di cui abbiamo già detto sopra); coloro invece che sono affabili solo per
procurarsi qualche vantaggio sono detti adulatori.
La sincerità
Coloro che senza una motivazione valida pretendono di avere dei meriti che non
competono loro dimostrano di essere persone dappoco (altrimenti non godrebbero del
falso), e sono più fatue che cattive. Coloro che invece gonfiano i propri meriti in vista
della gloria o dell’onore sono detti millantatori, e non sono troppo biasimevoli; ma
coloro che lo fanno per denaro o per altri vantaggi materiali (per esempio indovini e
medici) tengono un comportamento più criticabile.
Gli ironici (tra cui Socrate), al contrario, negano i titoli di merito che hanno oppure, pur
riconoscendo di avere tali meriti, li fanno apparire più piccoli. Costoro sono meno
biasimevoli dei millantatori.
Coloro che però negano di possedere anche meriti piccoli ed evidenti sono chiamati
impostori e sono più spregevoli. Costoro dimostrano di essere in realtà dei millantatori,
perché esibiscono la loro umiltà.
Tra i due estremi, il giusto mezzo è rappresentato dalle persone sincere.
Il garbo
Coloro che esagerano nel cercare di stimolare il riso sono ritenuti buffoni e volgari,
perché si affannano nel tentativo di fare ridere ad ogni costo e trascurano di dire cose
decorose e di non offendere colui che viene preso in giro.
Coloro che invece non scherzano mai e non sanno stare allo scherzo sono giudicati rozzi
e duri.
Infine coloro che scherzano con gusto sono chiamati spiritosi o garbati.
Siccome il piacere di ridere è diffuso, e la maggior parte della gente si diverte a scherzare
e a motteggiare più del dovuto, anche i buffoni vengono chiamati spiritosi, perché sono
divertenti.
Il pudore
Il pudore viene definito come una specie di paura del disonore, e produce effetti molto
simili a quelli della paura di fronte ai pericoli: infatti coloro che si vergognano
arrossiscono, mentre quelli che temono la morte impallidiscono. Dunque sia pudore sia
paura hanno carattere fisico e non spirituale, in quanto si manifestano con cambiamenti
del fisico.
Il pudore è tipico della giovinezza. Si è soliti lodare i giovani pudichi, mentre nessuno
loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile alla vergogna: infatti un uomo
virtuoso non dovrebbe vergognarsi di nulla.
Libro V
La giustizia
Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi cerca di ottenere per se stesso, a danno degli
altri, più di quanto gli competa; pertanto egli non rispetta l’uguaglianza di trattamento
che la legge stabilisce. Di conseguenza il giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza.
Ora, obbiettivo delle leggi sono il benessere collettivo e il premio per i più meritevoli.
Ma le leggi prescrivono anche le regole etiche del buon vivere in comunità, obbligando a
compiere le azioni virtuose e vietando di compiere quelle viziose. Per questo motivo la
giustizia è considerata la più importante delle virtù. Inoltre essa è perfetta, perché chi la
possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso. Per questa
ragione la giustizia è l’unica virtù che costituisce un bene non solo per chi la esercita, ma
anche per coloro a vantaggio dei quali essa è esercitata.
Quando due litigano, si rivolgono al giudice, il quale fungerà da “termine medio” tra i
due contendenti; è per questo che i giudici vengono anche chiamati “mediatori”.
Compito del giudice è quello di ristabilire l’uguaglianza; per far ciò egli sottrae al
colpevole la parte ingiustamente conseguita e la restituisce al legittimo possessore.
Da quanto suddetto, risulta chiaro che l’agire giustamente è una via di mezzo tra
commettere e subire ingiustizia: commettere ingiustizia significa avere più del lecito,
subirla averne meno.
Chi esercita pubblici poteri deve comportarsi in maniera onesta. Pertanto egli deve
prendere per sé solo la parte che gli spetta di diritto per il lavoro che fa, e nello stesso
tempo deve concedere agli altri ciò che ciascuno merita: è per questo che, come detto
prima, la giustizia è un bene che chi lo possiede lo amministra anche a favore degli altri.
A chi esercita pubblici poteri con onestà i cittadini coscienziosi devono elargire delle
ricompense morali, come per esempio la concessione di onori. I governatori che non si
accontentano di tali onori e si concedono ulteriori favori diventano dei tiranni.
I tipi di danno che si possono verificare nella società sono tre:
a) quando il danno si produce per caso fortuito o per costrizione, e quindi contro
ogni ragionevole previsione, esso si chiama “disgrazia”. Per esempio, se qualcuno
afferra la mano di un altro e picchia un terzo, il secondo non è ingiusto, perché
l’atto non dipende da lui;
b) quando il danno è originato dall’ignoranza, esso si chiama “errore”, come quando
si agisce senza che la persona che subisce l’azione, l’azione che si compie, il mezzo
con cui l’azione si compie o il fine per cui essa si compie siano quelli che si
pensava che fossero. Per esempio, si è colpito qualcuno con l’intenzione di
pungerlo lievemente, ma senza volerlo lo si ferisce gravemente; oppure si è colpito
un uomo pensando che fosse un’altra persona. Nell’errore l’origine della colpa,
anche se involontaria, è in colui che agisce; invece nella disgrazia è al di fuori di
lui;
c) quando il danno è fatto volontariamente, ma senza una precedente
premeditazione, spinti solo dall’impulsività o da altre passioni, allora si compie sì
un atto ingiusto, ma chi lo compie non è considerato ingiusto. Infatti l’origine del
danno non è chi agisce per impulsività, ma colui che ne ha provocato l’ira. In
questi casi non si discute se il danno sia avvenuto o meno, ma se sia stata giusta o
meno la reazione alla provocazione: infatti spesso chi agisce con ira non lo fa per
cattiveria, ma per reagire a un evento che gli appare come ingiusto.
Invece quando il danno lo si fa volontariamente dopo una scelta consapevole e
premeditata, chi lo compie è il vero ingiusto e malvagio.
Infine l’ingiustizia si può commettere anche contro se stessi, e questo avviene quando
qualcuno, per un eccesso di sobrietà o umiltà, si attribuisce intenzionalmente meno di
quanto gli spetti.
Libro VI
Dopo aver trattato le virtù etiche, ora parliamo di quelle dianoetiche.
Nell’anima ci sono tre elementi che determinano l’azione e la verità: sensazione,
intelletto e desiderio.
La sensazione non è il principio di alcuna azione morale. Infatti anche le bestie possiedono
la sensazione, ma è chiaro che non possiedono la capacità di agire moralmente.
Principio dell’azione è la scelta, e principi della scelta sono il desiderio e il calcolo dei mezzi
per raggiungere il fine.
La scelta non può sussistere senza il pensiero. Il pensiero però di per sé non mette in moto
nulla; bensì ciò che spinge alla scelta è il pensiero che determina i mezzi per raggiungere
uno scopo; quindi ciò che spinge alla scelta è il pensiero pratico. Questo infatti presiede
anche alle attività produttive: infatti chiunque produca qualcosa la produce per un fine,
che è l’oggetto da produrre.
L’agire moralmente buono invece è fine a sé stesso, e il desiderio che anima le scelte
dell’uomo buono è quello di raggiungere questo fine. Ma non può essere oggetto di
scelta il passato (per esempio, nessuno può scegliere di avere saccheggiato Troia), bensì
solo il futuro; e non possono essere oggetto di scelta le cose necessarie, bensì solo quelle
contingenti (cioè quelle che possono mutare e che possono tanto accadere quanto non
accadere).
Le disposizioni per cui l’anima coglie la verità per mezzo di un’affermazione o una
negazione sono cinque: arte, scienza, saggezza, sapienza, intelletto; invece non possono
esserlo il giudizio e l’opinione, perché sono passibili di errore.
La scienza si basa su elementi certi e immutabili, e perciò necessari, eterni e incorruttibili.
Attraverso il ragionamento deduttivo chiamato sillogismo, partendo da due premesse vere
si può ricavare una conclusione, anch’essa vera, che ne deriva logicamente. Esempio:
tutti gli uomini sono mortali (prima premessa); Socrate è uomo (seconda premessa);
Socrate è mortale (conclusione). Tuttavia, salendo a ritroso, si arriva a dei principi che
sono indimostrabili, universali, e che quindi bisogna accettare per induzione. Pertanto la
scienza è una disposizione alla dimostrazione.
Invece ciò che è contingente (ossia non necessario) può essere oggetto o di produzione
o di azione (dove per “azione” s’intende l’agire umano). Nel primo caso, la disposizione
che se ne occupa è l’arte; nel secondo, la saggezza.
L’arte quindi è una disposizione, ragionata secondo verità, alla produzione.
Come detto, la saggezza ha per oggetto le azioni. Per comprendere il significato della
parola “saggezza”, definiamo la natura di coloro che chiamiamo “saggi”. Ebbene saggio
è colui che è capace di ben deliberare su ciò che è buono e vantaggioso ai fini del
raggiungimento di una vita felice per se stesso e per tutto il genere umano. Ne consegue
che in generale si definisce “saggio” colui che possiede la capacità di deliberare. La
saggezza non può essere né scienza né arte: non può essere scienza perché i principi di
questa, come detto in precedenza, sono necessari, e quindi non possono formare oggetto
di deliberazione; non può essere arte, perché questa ha per oggetto la produzione,
mentre la saggezza ha per oggetto l’azione. Infatti il fine della produzione è al di fuori
della produzione stessa, mentre il fine dell’azione risiede in se stessa: cioè l’agire
moralmente bene è fine a se stesso.
In generale quindi la saggezza si può definire come una disposizione vera e ragionata
all’azione avente per oggetto ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Persone sagge
sono, ad esempio, coloro che sanno amministrare una famiglia o uno Stato.
L’intelletto ricerca i principi universali e indimostrabili. Questi ultimi, come abbiamo visto,
non possono formare oggetto di scienza, perché la scienza può ricercare, attraverso il
ragionamento logico, solo le conclusioni dimostrabili; non possono formare oggetto
neanche di arte e saggezza, in quanto queste riguardano cose mutevoli e non necessarie,
mentre i principi, per definizione, sono certi e immutabili; né infine possono formare
oggetto della sapienza, poiché questa si serve anche di dimostrazioni. Ne consegue che i
principi possono formare solo oggetto di intelletto.
La sapienza è un’alta maestria che si estrinseca in senso onnicomprensivo e non in un
campo particolare o in una cosa determinata. Da ciò appare evidente che la sapienza è la
più perfetta delle scienze. Inoltre la sapienza si può considerare un insieme di scienza e
intelletto, in quanto è scienza, dotata di principi, delle realtà più sublimi, come, ad
esempio, i corpi celesti. Pertanto uomini come Anassagora e Talete sono chiamati
sapienti ma non saggi; essi infatti ignorano ciò che è vantaggioso per loro, ma conoscono
realtà straordinarie, meravigliose, difficili e divine, e nello stesso tempo inutili secondo la
maggior parte degli uomini.
La saggezza non ha come oggetto solo i principi universali, ma occorre che conosca
anche i particolari, giacché essa concerne l’azione, e l’azione riguarda le situazioni
particolari. Anzi la saggezza richiede più la conoscenza dei particolari che quella degli
universali. È per questa ragione che alcuni uomini, pur non conoscendo gli universali,
sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono. I particolari diventano noti con
l’esperienza, la quale cresce con il passare del tempo; è per questo motivo che un uomo
giovane può essere sapiente, ma non saggio.
La capacità di cogliere rapidamente i particolari deriva dall’intelletto. Infatti è dai
particolari che si risale agli universali, e l’intelletto, come detto, ricerca i principi
universali e indimostrabili. Questa capacità di apprendere immediatamente i particolari è
naturale; ne consegue che nessuno è sapiente per natura; è per natura invece che si
possiede l’intelletto.
Per quanto riguarda il rapporto tra saggezza e sapienza, possiamo affermare che, come la
medicina non comanda la salute, così la saggezza non comanda la sapienza. Pertanto la
saggezza, per raggiungere la felicità, non si serve della sapienza, bensì cerca di vedere
come in essa si possa produrre. Inoltre la sapienza non ha bisogno della saggezza; è vero,
infatti, che la saggezza ricerca la felicità dell’uomo, ma è anche vero che la sapienza
produce felicità nell’uomo che la possiede già per il solo fatto di essere posseduta.
Invece per quanto riguarda il rapporto tra saggezza e virtù etica, possiamo affermare che
la funzione propria dell’uomo si compie pienamente se si possiedono entrambe. Infatti la
virtù fa retto lo scopo, la saggezza fa retti i mezzi per raggiungerlo.
Differente dalla saggezza è l’abilità. Quest’ultima, come la saggezza, rende capace di
compiere azioni che raggiungono gli scopi prefissati; ma le azioni dei saggi sono rivolte
verso scopi buoni e lodevoli, mentre quelle degli abili (detti anche “furbi”) verso scopi
riprovevoli.
Per concludere il discorso sulle virtù dianoetiche, occorre dire che per natura ciascun
individuo possiede determinate disposizioni, ma è grazie all’intelletto che esse vengono
usate nella giusta direzione. Facendo un paragone, avere le buone disposizioni senza
possedere l’intelletto è come avere un corpo vigoroso ma privo della vista. Pertanto solo
con l’intelletto la disposizione naturale diventa propriamente virtù.
Libro VII
Tre sono le specie di comportamento da evitare: vizio, incontinenza, bestialità.
Il contrario del vizio è la virtù; il contrario dell’incontinenza è la continenza; il contrario
della bestialità è difficile da definire, ma si potrebbe chiamare “virtù sovrumana”, una
specie di virtù eroica e divina. E poiché è raro che un uomo sia divino, altrettanto raro è
un uomo bestiale. Uomini bestiali sono ad esempio i barbari oppure coloro che nascono
malati o crescono con dei difetti (come l’epilessia e la follia).
Incontinente è chi, pur sapendo di sbagliare, a causa della sua mollezza cede troppo
facilmente all’eccesso dell’impulsività o dei piaceri (onore, vittoria, denaro, sesso, gola,
ecc.) e rifugge eccessivamente dai dolori (fame, sete, caldo, freddo, ecc.). Ne consegue
che la continenza è la fermezza nel rimanere delle proprie opinioni; l’incontinenza, al
contrario, è la mollezza che si dimostra nel cambiare le proprie opinioni.
Quindi non è incontinente chi ricerca i piaceri e rifugge dai dolori, ma chi lo fa in
maniera eccessiva. C’è chi è tale da godere dei piaceri corporali meno di quanto si deve;
tra costui e l’incontinente sta il continente. La donna non può mai essere considerata
incontinente nei piaceri della carne, dal momento che nella copulazione non è attiva ma
passiva.
L’incontinenza dell’impulsività (tra cui quella dell’ira) è meno vergognosa di quella dei
piaceri. Sembra infatti che l’impulsività dia ascolto in un certo qual modo alla ragione,
ma la fraintenda, come i servi frettolosi che escono di corsa prima di aver sentito bene
l’ordine, e poi ne sbagliano l’esecuzione. Invece l’incontinenza dei piaceri soggiace solo
ed esclusivamente ai piaceri (e non alla ragione), e per questo è più vergognosa. Inoltre
nell’incontinenza dell’impulsività non c’è oltraggio; infatti chi agisce in preda all’ira lo fa
soffrendo, e nessuno commette oltraggio soffrendo.
Delle cose che producono piacere, alcune sono necessarie, altre meritevoli di scelta.
Sono necessarie quelle connesse col corpo, come per esempio il nutrimento e l’attività
sessuale. Le cose che pur non essendo necessarie sono meritevoli di scelta sono, per
esempio, la vittoria, l’onore e la ricchezza.
Secondo Socrate non esiste incontinenza; secondo lui infatti nessuno commette il male
volontariamente, ma lo commette solo per ignoranza di ciò che è bene. Io però non
sono d’accordo con questa teoria, e ribadisco che l’incontinente non sbaglia per
ignoranza, ma sbaglia sapendo di sbagliare.
Si potrebbe pensare che continenza e temperanza siano la stessa cosa, ma non è così: sia
l’uomo continente sia quello temperante seguono delle sagge condotte di vita; la
differenza tra i due è che il temperante non prova in maniera forte né desideri violenti né
desideri spregevoli, e perciò non ha necessità di resistervi, mentre il continente prova
molto tali desideri, e riesce a resistervi.
Pertanto l’incontinente, per debolezza di carattere, compie azioni contrarie a quelle che
egli stesso giudica buone; invece l’intemperante compie azioni cattive per sua scelta,
perché è convinto che esse siano buone. In altre parole, l’incontinente ha buoni
propositi, ma poi non li mette in pratica; al contrario l’intemperante ha dei cattivi
propositi e li mette in pratica.
Da ciò deriva che l’incontinente può facilmente essere persuaso a correggersi; viceversa
l’intemperante è incorreggibile, in quanto non è correggibile chi è convinto di ciò che fa.
Per questo motivo l’intemperanza è più grave dell’incontinenza.
Per quanto riguarda le bestialità, esempi ne sono: quella donna che, dicono, sventrava le
donne incinte e ne divorava i feti; o certi selvaggi delle coste del Ponto, alcuni dei quali,
dicono, mangiano carni crude, altri carni umane, altri ancora si scambiano
reciprocamente i figli per farne lauto pasto; oppure quel tale che offrì sua madre in
sacrificio e la divorò; oppure ancora quello schiavo che mangiò il fegato del suo
compagno. Alcuni comportamenti bestiali derivano dall’abitudine, come, per esempio, lo
strapparsi i capelli e il mangiare le unghie, il carbone e la terra; oppure fare l’amore tra
maschi.
Libro VIII
L’amicizia è una virtù o, comunque, è accompagnata da virtù; inoltre essa è radicalmente
necessaria alla vita. Infatti senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se
possedesse tutti gli altri beni. Anzi sono proprio i ricchi e i potenti ad aver maggiore
bisogno di amicizia, soprattutto perché, grazie alla loro prosperità, essi possono
compiere la lodevole azione di beneficare i loro amici; ma anche perché, avendo tanti
amici, possono difendere più facilmente le proprie grandi ricchezze. Ma ne hanno
bisogno anche i poveri e i disgraziati, perché per loro è l’unico rifugio; ne hanno bisogno
i vecchi, quale forma di assistenza per la loro diminuita autosufficienza; e ne hanno
bisogno i giovani, perché li aiuta a non commettere errori; infatti due che marciano
insieme hanno maggiore capacità sia di pensare sia di agire.
Sembra, poi, che sia proprio l’amicizia a tenere unite le città, e i legislatori si preoccupano
più di lei che della giustizia. Infatti l’amicizia assomiglia alla concordia che serve a creare
armonia tra i cittadini. Inoltre quando si è amici non c’è alcun bisogno di giustizia,
mentre quando si è giusti c’è ancora bisogno di amicizia.
Alcuni sostengono che poter essere amici bisogna assomigliarsi; altri, al contrario, che
bisogna essere diversi. A tal proposito, Euripide dice che “la terra inaridita ama la
pioggia”, Eraclito che “dai suoni differenti nasce la più bella armonia”.
Si può essere benevoli verso qualcuno, ma per poter diventare amici occorre che la
benevolenza sia reciproca.
Esistono tre specie di amicizia: quella basata sull’utilità, quella basata sul piacere e quella
basata sulla virtù.
Quelli che si amano reciprocamente per l’utilità non si amano per sé stessi, ma in quanto
ne deriva loro, reciprocamente, un qualche bene. Allo stesso modo, coloro che si amano
per il piacere non lo fanno per sé stessi, ma perché quelle date persone risultano loro
piacevoli. In queste due specie di amicizia non si ama l’amico per quello che è, ma per
ottenerne utilità o piacere. Di conseguenza queste due forme di amicizia sono
occasionali, e come tali si dissolvono facilmente, perché gli amici non rimangono sempre
uguali a sé stessi: se infatti uno non è più utile o piacevole, l’altro cessa di amarlo.
L’utile non è costante, ma è diverso di volta in volta; quindi, svanito il motivo per cui si
era amici, si scioglie anche l’amicizia, dal momento che essa sussiste in relazione a quei
fini. Pare che l’amicizia basata sull’utilità sorga maggiormente tra i vecchi, giacché gli
uomini di tale età non perseguono più il piacevole ma l’utile. Il motivo di ciò è che i
vecchi non provano molto piacere nel frequentarsi tra di loro; e perciò nella compagnia
più che il piacere ricercano l’utilità. L’amicizia fondata sull’utilità può dar luogo ad
accuse, in particolare quando ciascuno degli amici rinfaccia all’altro di non ottenere da lui
quanto gli ha chiesto.
Invece i giovani basano la loro amicizia sul piacere: essi infatti vivono sotto l’influsso della
passione, e perseguono soprattutto ciò che è per loro un piacere immediato. Ma con
l’avanzare dell’età i gusti cambiano. È per questo che i giovani rapidamente diventano
amici e altrettanto rapidamente cessano di esserlo: infatti l’amicizia muta insieme col
mutare di ciò che fa piacere. Inoltre i giovani sono inclini alla passione amorosa, e
s’innamorano e cessano d’amare rapidamente, mutando sentimento anche più volte nello
stesso giorno.
L’amicizia perfetta invece è quella degli uomini buoni e simili per virtù: questi infatti
vogliono il bene l’uno dell’altro. Coloro che vogliono il bene degli amici per come sono e
non per ricavarne utilità o piacere sono i più grandi amici. L’amicizia di questi perdura
finché essi sono buoni; il che significa che dura a lungo, poiché la virtù è qualcosa di
permanente. Inoltre essi ricavano anche piacere da questo tipo di amicizia, in quanto per
le persone buone sono fonte di piacere le azioni conformi alla propria natura. Ma questo
tipo di amicizie sono rare, giacché pochi sono gli uomini virtuosi. Inoltre l’amicizia
fondata sulla virtù richiede molto tempo e lunga frequentazione: secondo un noto
proverbio, infatti, per conoscere bene una persona devi prima mangiarci insieme un
quintale di sale.
Soltanto l’amicizia tra persone virtuose non può essere incrinata dalle maldicenze,
giacché la stima e la fiducia che si ha di un amico che si conosce bene non possono in
alcun modo essere messe in discussione malgrado i tentativi denigratori compiuti dalle
malelingue.
L’assenza non fa cessare l’amicizia, a patto che non sia troppo prolungata. Infatti
l’amicizia richiede necessariamente comunione di vita.
Non è, poi, possibile essere amici di molti in un’amicizia perfetta, come non è possibile
amare molte persone nello stesso tempo (giacché l’amore è simile a un eccesso, e un
sentimento di questo genere si rivolge, per sua natura, a una sola persona).
Esiste, poi, un’altra specie di amicizia, quella che implica una superiorità: per esempio,
quella del padre verso il figlio e in genere dell’uomo più anziano verso il più giovane, del
marito verso la moglie e di chiunque eserciti un’autorità verso chi vi è soggetto. Diversa
è la virtù di ciascuna di queste persone, diversa la funzione, diversi i motivi per cui
amano: diversi quindi anche gli affetti e le amicizie. Di conseguenza non è la stessa cosa
quella che uno riceve dall’altro: per esempio, l’amore che i genitori danno ai figli è
diverso da quello che i figli danno ai genitori. Nelle amicizie che implicano la superiorità
di uno dei due amici il superiore deve essere amato e onorato più di quanto ami, poiché
ciò che il superiore dà non può essere eguagliato da ciò che riceve dall’inferiore; per
esempio, il figlio non può in nessun caso eguagliare ciò che ha ricevuto dal padre, che è
l’esistenza. Quando c’è troppa differenza di valore tra due persone, non può instaurarsi
amicizia, in quanto è impossibile per l’inferiore poter ricambiare, nemmeno in parte, ciò
che riceve dal superiore; per esempio, non si può essere amici degli dèi, dei re e delle
persone molto sagge. Nelle amicizie tra persone disuguali per valore, chi ha ricevuto dei
vantaggi in denaro o in virtù, poiché non può fare nulla che uguagli il valore di ciò che
ha ricevuto, è doveroso che ricambi con ciò che egli può dare; la cosa che è più giusto
dare alle persone superiori è l’onore.
Gli uomini vivono in società in vista di qualche vantaggio, cioè per procurarsi qualcosa
che serve alla loro vita; anche la comunità politica si ritiene che si sia costituita fin da
principio e perduri in vista dell’utilità: è a questa infatti che mirano anche i legislatori, e
dicono che è giusto ciò che è di utilità generale.
Ci sono tre specie di costituzione, ma anche altrettante deviazioni, intese come
degenerazioni delle prime. Due delle tre specie di costituzione sono il regno e
l’aristocrazia. La terza specie di costituzione si basa sul censo, e perciò si potrebbe
chiamarla “costituzione timocratica”; ma i più sono soliti chiamarla semplicemente
“costituzione”. Delle tre, la migliore è il regno.
Deviazione del regno è la tirannide: tutt’e due infatti sono monarchie, ma c’è tra loro una
grandissima differenza, perché il tiranno mira al proprio interesse, il re a quello dei
sudditi. L’aristocrazia è il governo dei migliori. Sua deviazione è l’oligarchia, nella quale i
governanti distribuiscono i beni e i poteri pubblici non in base al merito, bensì li
assegnano a sé stessi o ai ricchi, anche se non possiedono alcun merito.
Nella timocrazia il potere è esercitato dai cittadini che possiedano tutti più o meno lo
stesso patrimonio economico. Tra le sue deviazioni la meno cattiva è la democrazia, in cui
il potere è retto dal popolo.
La tirannide è la costituzione peggiore, perché il contrario del migliore è il peggiore.
Si possono constatare delle analogie tra le costituzioni e le comunità familiari. Infatti la
comunità che c’è tra padre e figli ha la struttura di un regno, giacché il padre ha cura dei
figli. Tra i Persiani invece l’autorità del padre è tirannica: trattano i figli come schiavi. La
comunità tra marito e moglie è manifestamente di tipo aristocratico: il marito infatti
esercita l’autorità conformemente al suo merito, e nell’ambito in cui è il marito che deve
comandare; quanto invece si addice alla moglie, lo lascia a lei. Invece il marito che vuole
comandare su tutto trasforma la comunità matrimoniale in oligarchia, perché fa questo al
di là del proprio merito. Talvolta, poi, comandano le mogli, quando sono delle ereditiere;
quindi la loro autorità non deriva dal valore personale, ma si fonda sulla ricchezza e sul
potere, proprio come nelle oligarchie. La comunità dei fratelli assomiglia a quella
timocratica: essi infatti sono uguali, tranne che nella misura in cui differiscono per età;
perciò, se la differenza d’età è grande, non sorge l’amicizia fraterna. La democrazia infine
si trova soprattutto nelle case dove non c’è un padrone (giacché qui sono tutti su un
piano di uguaglianza) e in quelle in cui chi comanda è debole e ciascuno può fare quello
che vuole.
Libro IX
Chi stabilisce il valore di una cosa: colui che tale cosa la dà o colui che la riceve? La
risposta è che lo stabiliscono di comune accordo entrambe le parti; ma se l’accordo non
si raggiunge, il valore lo stabilisce chi riceve.
Bisogna attribuire a ciascuno i servigi che più gli si confanno. Per esempio: alle nozze e
ai funerali si invitano i parenti, perché questi hanno in comune la stirpe e, di
conseguenza, tutte le azioni che la riguardano; i figli devono provvedere alla sussistenza
dei genitori, poiché sono loro debitori; l’onore che si deve al padre è differente da quello
che si deve alla madre; a ogni anziano si deve rendere l’onore dovuto all’età, con l’alzarsi,
il cedere il posto e cose simili.
Come detto, le amicizie fondate sull’utilità o sul piacere si sciolgono quando finiscono
questi vantaggi; è dei vantaggi infatti che si era amici: venuti meno questi, è naturale che
non si ami più.
Quando si è amici con uno che era buono e che poi è diventato malvagio, oppure era
malvagio sin dall’inizio ma ce se ne accorge solo in un secondo momento, bisogna
continuare ad amarlo, o si deve troncare l’amicizia? Ebbene, se l’amico è correggibile, è
giusto che si provi a correggerlo, altrimenti è giusto sciogliere l’amicizia.
Ma può capitare anche il contrario, e cioè che l’amico acquisti molta virtù, e che pertanto
il nostro rapporto con lui diventi insostenibile, perché lui è diventato molto superiore a
noi. Anche in questo caso: è giusto proseguire l’amicizia con questi? Anche se la
differenza di valore tra noi è lui è diventata eccessiva, come si fa a dimenticare la passata
amicizia?
L’uomo virtuoso concorda con sé stesso e desidera sempre le stesse cose con tutta
l’anima. E quindi vuole per sé stesso ciò che è bene e tale gli appare, e lo fa a vantaggio
dell’elemento intellettivo che è in lui; e vuole vivere e conservarsi, e che viva e si conservi
soprattutto la parte con cui pensa. Infatti per l’uomo di valore è un bene esistere, e gli
piace essere quello che è; e ciascun uomo è, o è soprattutto, la propria parte pensante.
L’uomo virtuoso inoltre vuole passare la vita con sé stesso, giacché ciò gli fa piacere:
infatti il ricordo delle azioni che ha compiuto gli è gradito, e le sue aspettative per il
futuro sono buone. Egli è coerente con sé stesso e non si pente di quello che fa. Il
virtuoso prova questi sentimenti per l’amico come li prova per se stesso; infatti vede
nell’amico la proiezione di se stesso; e dato che il livello di amicizia più alto è quello
verso se stessi, l’amicizia tra virtuosi è la più alta forma di amicizia.
I malvagi invece cercano persone con cui passare il loro tempo; ma fuggono sé stessi,
giacché, se rimangono da soli, si ricordano delle loro molte cattive azioni e prevedono di
commetterne altre in futuro; mentre se ne dimenticano se sono in compagnia d’altri.
Non avendo nulla di amabile, non provano alcun sentimento amorevole verso se stessi.
Inoltre sono pieni di conflitti interiori e si pentono in continuazione di quello che fanno.
La benevolenza assomiglia a un sentimento di amicizia, ma non è amicizia: la benevolenza
infatti può nascere anche verso chi non si conosce, e può rimanere nascosta, l’amicizia
no. La benevolenza si può considerare l’inizio dell’amicizia, così come l’inizio dell’amore
è il piacere derivante dalla vista: nessuno ama infatti, se prima non ha provato piacere
per l’aspetto dell’altro, ma chi gode dell’aspetto di un altro non è detto che ami; ciò
avviene invece quando ne sente la mancanza, se è lontano, e ne desidera la presenza.
Provare benevolenza non significa ancora amare, giacché si vuole soltanto il bene di
coloro verso cui si è benevoli, ma non si sente il desiderio di frequentarli, che è un
requisito fondamentale dell’amicizia. Ma, se la benevolenza dura nel tempo e giunge
all’intimità, diventa amicizia, ma non il tipo di amicizia fondato sull’utilità, né quello
fondato sul piacere (giacché nemmeno la benevolenza si basa su essi), ma quello fondato
sulla virtù. Infatti chi vuole la buona riuscita di un altro allo scopo di trarne un proprio
vantaggio non prova benevolenza per quella persona ma per sé stesso. Invece la
benevolenza è rivolta verso chi appare in possesso di nobili sentimenti.
Anche la concordia è manifestamente un sentimento di amicizia. La concordia non è
identità di opinioni; quest’ultima infatti può esserci anche tra uomini che non si
conoscono fra di loro. Né si dice che sono concordi uomini che la pensano alla stessa
maniera su un argomento qualsiasi, per esempio sui fenomeni celesti (giacché non è un
fatto di amicizia l’essere d’accordo su queste cose). Nelle città si ritiene che vi sia
concordia quando i cittadini la pensano alla stessa maniera a proposito dei loro interessi,
e scelgono e mettono in pratica le stesse cose; sono concordi quindi sulle cose da farsi,
almeno su quelle importanti e che possono soddisfare le due parti o tutte le parti
interessate. Affinché ci sia concordia, poi, è necessario che ciascuno sia d’accordo sulle
persone che devono detenere il potere politico; altrimenti si instaura la guerra civile. Gli
uomini cattivi non sono in grado di essere concordi, se non per poco tempo, perché
tendono a prendersi più degli altri quando si tratta di vantaggi, ma a tirarsi indietro
quando si tratta di fatiche e servizi pubblici.
Si ritiene che i benefattori amino coloro che essi beneficano ― cioè i beneficati ― più di
quanto questi ultimi, che hanno ricevuto il beneficio, amino i benefattori, che il beneficio
l’hanno compiuto. Il che appare come una cosa innaturale, dal momento che alla
maggior parte delle persone piace più ricevere che dare. Coloro che fanno del bene (i
benefattori) amano profondamente i loro beneficati, anche se questi non sono loro di
alcuna utilità né potranno esserlo in futuro. Questo succede anche nel caso degli artisti:
ognuno infatti ama profondamente la propria opera, malgrado questa, ovviamente, non
possa ricambiare. E questo succede soprattutto nel caso dei poeti, i quali amano
profondamente le loro composizioni come si vuole bene a dei figli. La causa di ciò sta
nel fatto che l’esistere è per tutti meritevole di scelta e di amore, e noi esistiamo in virtù
di un’attività (in virtù cioè del vivere e dell’agire), e chi ha fatto l’opera, in un certo qual
modo, esiste in virtù della sua attività: ama quindi la propria opera perché ama la propria
esistenza. E nello stesso tempo il benefattore prova soddisfazione da ciò che deriva dalla
sua azione, cosicché egli gode di colui in cui questa si compie; invece chi riceve non
prova sentimenti particolari nei confronti di chi gli ha fatto il beneficio, ma tutt’al più vi
riscontra qualcosa di utile. Inoltre ciò che piace del presente è l’attività, del futuro la
speranza, del passato il ricordo: ma ciò che piace di più e di più si ama è l’attività. Ora,
per chi ha fatto il bene, l’opera rimane (giacché le azioni belle e nobili durano a lungo),
ma, per chi l’ha ricevuto, l’utilità passa presto. E il ricordo delle cose belle è piacevole,
mentre quello delle cose utili non lo è affatto, o lo è meno. E l’amare assomiglia a un
fare, l’essere amati a un subire.
Tutti gli uomini amano di più ciò che hanno ottenuto con fatica: per esempio, coloro che
hanno personalmente conquistato la ricchezza l’amano di più di quelli che l’hanno
ereditata. Inoltre ricevere del bene non costa fatica, mentre farlo comporta uno sforzo: è
per questo motivo, ad esempio, che sono le madri ad amare di più i figli, e non viceversa;
la generazione, infatti, è faticosa e dolorosa.
C’è poi un’altra questione: si deve amare soprattutto se stessi o un’altra persona?
Coloro che amano soprattutto se stessi sono da molti biasimati e sono chiamati, in senso
dispregiativo, egoisti.
Altri però pensano che è più giusto amare se stessi che gli altri. Costoro pensano che
occorra amare più di tutto chi ci è amico più di tutti, e più amico di tutti è colui il quale,
quando vuole il bene di qualcuno, lo vuole proprio per lui per ciò che egli è, e non per
l’utilità o il piacere che può dare, anche se nessuno lo verrà a sapere: ma questi
sentimenti si incontrano soprattutto nel rapporto dell’uomo con sé stesso. Quindi per
costoro si deve amare soprattutto sé stessi; di conseguenza secondo costoro è giusto
essere egoisti. Bisogna però vedere cosa si intende con il termine “egoista”. Ebbene,
coloro che usano il termine in senso dispregiativo, per “egoista” intendono chi vuole per
sé la parte maggiore in termini di ricchezza, onori e piaceri corporali, cioè chi è succube
dei desideri che derivano dall’elemento irrazionale dell’anima; e poiché la maggioranza
delle persone aspirano a questi desideri, in genere con il termine “egoista” si intende
qualcosa di riprovevole. Se invece l’egoista desidera per sé cose nobili e degne, come per
esempio compiere azioni temperanti e virtuose, nessuno lo chiamerà egoista e lo
biasimerà. Ma questi è il vero egoista, in quanto attribuisce a sé le cose più belle e i beni
più autentici, e compiace alla parte più autorevole di sé stesso, cioè all’intelletto. Pertanto
è “egoista” soprattutto chi ubbidisce al proprio intelletto; e poiché ciascun uomo è
principalmente il proprio intelletto, l’uomo virtuoso ama principalmente questa parte di
sé; ragion per cui sarà lui il vero egoista.
Da quanto suddetto, l’uomo buono è giusto che sia egoista: egli infatti, se compirà buone
azioni, ne trarranno vantaggio lui stesso e gli altri. Ma non può esserlo l’uomo malvagio,
giacché danneggerà sé stesso e il prossimo, perché segue passioni cattive. L’uomo
virtuoso compie molte azioni in favore dei suoi amici e della patria: a tutti donerà
ricchezza e altri beni materiali, mentre il suo egoismo, poiché è diretto verso cose alte e
nobili, lo porterà a riservare per sé appunto solo queste cose alte e nobili. Inoltre egli
preferirà godere intensamente per poco tempo piuttosto che debolmente per molto
tempo, e compiere una sola bella e grande azione piuttosto che tante piccole azioni; e
quest’atteggiamento è tipico di chi è disposto a sacrificare la propria vita per i propri
amici: riserverà infatti a se stesso l’azione più grande e nobile, cioè il sacrificio della
propria vita, e lascerà agli amici tutte le altre cose (ricchezze, onori, cariche, ecc.).
Si discute, poi, anche se l’uomo felice abbia o no bisogno di amici. Si dice infatti che gli
uomini felici non abbiano bisogno di amici, poiché possiedono già il bene e sono perciò
autosufficienti. Ma se è vero che è proprio dell’amico dare piuttosto che ricevere il bene,
e se è proprio dell’uomo buono e virtuoso il beneficare gli altri, l’uomo di valore, anche
se già felice, avrà bisogno di persone cui concedere i suoi benefici. Inoltre l’uomo,
perché sia felice, non può essere solitario: infatti nessuno sceglierebbe di possedere tutti i
beni, se non avesse qualcuno con cui condividerne il godimento, e l’uomo è un essere
che per natura è portato a vivere insieme con gli altri.
L’uomo felice dunque ha bisogno di amici. Ma non di amici per ricavarne utilità, dal
momento che i beni li ha già; né di amici per ricavarne piacere, dato che la sua vita è già
piacevole. Egli invece ricercherà amici virtuosi, ai quali donare i propri benefici e dei
quali ammirare le opere virtuose, dato che è più facile contemplare le opere degli altri
che quelle di se stessi. L’uomo di valore, infatti, gode delle azioni conformi a virtù e
soffre per quelle derivanti dal vizio, come il musicista gode delle belle melodie e prova
disgusto per quelle cattive.
Se la vita è desiderabile, lo è soprattutto per gli uomini buoni, perché per loro esistere è
una cosa buona e piacevole, dal momento che prendere coscienza di ciò che per natura è
buono e piacevole apporta godimento. Comunque bisogna prendere coscienza non solo
della nostra esistenza ma anche di quella degli amici, e questo può avvenire se si vive
insieme, cioè se si ha comunione di discorsi e di pensiero: infatti in questo consiste per
gli uomini il vivere insieme; per le bestie invece la vita in comune consiste nel cercare
insieme il cibo nello stesso luogo. Se quindi per l’uomo felice l’esistenza è desiderabile
per sé stessa, e lo è in modo pressoché uguale quella dell’amico, allora questi desidererà
frequentare l’amico; se non lo farà, la sua felicità sarà incompleta. Per essere
perfettamente felice quindi l’uomo di valore ha bisogno di amici di valore.
Ma quanti amici è meglio avere? È meglio averne il numero più alto possibile oppure è
meglio non averne troppi? A questo riguardo c’è un proverbio che dice “Non un uomo
dai molti ospiti, né un uomo senza ospiti”. Questo proverbio si adatta molto bene a
coloro che sono amici in vista dell’utilità, giacché contraccambiare servigi a molti è assai
faticoso, se non impossibile. Anche di quelli che sono amici in vista del piacere ne
bastano pochi, come poco è il condimento che serve sui cibi. Ma quanto agli amici di
valore, bisogna averne nel più gran numero possibile, o c’è un limite superato il quale
diventano troppi? La risposta è che bisogna averne tanti quanti sono quelli con cui è
possibile vivere insieme, giacché, come abbiamo detto, la frequentazione è un requisito
necessario dell’amicizia. D’altronde è impossibile dare vera amicizia a tante persone
contemporaneamente; e ciò si verifica maggiormente nel rapporto tra uomo e donna, nel
quale si può dare amore solo a una persona, giacché l’amore si può considerare una
forma di amicizia portata al massimo grado.
Coloro che pretendono di essere amici di tutti, in realtà non lo sono di nessuno; essi
sono chiamati “compiacenti”; diverso è il caso dell’amicizia tra concittadini, la quale può
essere rivolta anche a tante persone.
Gli amici servono sia nella buona sia nella cattiva sorte: coloro che si trovano in
difficoltà hanno bisogno di aiuto, mentre le persone virtuose che si trovano in un buon
momento hanno bisogno di persone con cui vivere assieme e alle quali fare del bene.
La maggior parte della gente avverte di più il bisogno degli amici quando si trova in
momenti di difficoltà, nel qual caso ricerca amici affinché dalla loro presenza possano
trarre consolazione per la propria sofferenza, ossia li ricerca in vista dell’utilità.
Ma più bella è l’amicizia degli uomini virtuosi che, vivendo periodi felici, preferiscono
beneficare uomini virtuosi come loro e vivere insieme con loro. D’altronde chi ha una
natura virile non riversa sugli amici il proprio dolore; sono le donnette, e gli uomini ad
esse simili, che hanno piacere se altre persone si lamentano con loro. Non è quindi
buona norma quella di far soffrire gli amici raccontando loro le proprie disgrazie; di qui il
detto: “Basto io a essere infelice!” Semmai sono gli amici che, accorgendosi delle
disgrazie dell’amico, lo soccorrono sollecitamente di propria iniziativa.
Amicizia significa comunione di sentimenti: è per questo che gli amici desiderano bere
insieme, giocare a dadi insieme, fare ginnastica e cacciare insieme, studiare filosofia
insieme; e ciascuno lo fa con le persone che sono più simili a lui e che hanno interessi
comuni a lui. Coltivare l’amicizia migliora la propria natura, in quanto ci si corregge a
vicenda e si prende esempio dalle cose positive riscontrate negli amici.
Libro X
Si pensa comunemente che il piacere sia strettissimamente connaturato al genere umano,
ed è per questo che si educano i giovani ricompensandoli con cose piacevoli e punendoli
con cose dolorose.
Alcuni pensano che il piacere è il bene, altri, al contrario, che è del tutto cattivo.
Eudosso pensava che il piacere è il bene per queste ragioni: 1) vediamo che tutti i viventi,
sia quelli razionali sia quelli irrazionali, tendono ad esso, e poiché si desidera il bene e ciò
che si desidera più di tutto è il massimo bene, allora il piacere è il sommo bene; 2) tutti
vedono il dolore come qualcosa da fuggire, e siccome il piacere è il contrario del dolore,
allora esso è desiderabile, ed è quindi un bene; 3) massimamente desiderabile è ciò che si
desidera per sé stesso, e non in vista di qualcos’altro; tale oggetto è, per unanime
consenso, il piacere: infatti nessuno chiede a che scopo si goda; 4) a qualunque bene il
piacere si aggiunga (per esempio all’agire con giustizia), il piacere lo rende più
desiderabile.
Platone invece dimostra che il piacere non è il bene. Infatti egli dice che la vita di piacere
è più desiderabile unita alla saggezza che non separata da essa, e se la vita mista di
saggezza e piacere è migliore di quella fatta di solo piacere, vuol dire che il piacere non è
il bene, giacché nessuna cosa aggiunta al bene può renderlo più desiderabile di quanto già
non sia.
A prescindere dalle varie teorie sul piacere, esso, per essere tale, deve possedere in sé
tutto ciò che gli serve per essere sempre perfetto; cioè il piacere non deve aver bisogno,
per essere completo in ogni sua parte, di alcuna cosa che gli si aggiunga successivamente.
Ad esempio, il tempio è un’opera perfetta (giacché è finita e non le serve altro per
terminare il progetto), mentre la costruzione della sua base e delle sue decorazioni sono
opere imperfette, perché rappresentano solo una parte dell’opera finita.
Il piacere non è possibile provarlo in continuazione, ma lo si prova solo nell’istante
presente. Alcune cose producono godimento quando sono nuove: all’inizio infatti il
pensiero resta eccitato, ma in seguito l’interesse per quelle cose cala, e quindi cala anche
il piacere. Ciascuno esercita la sua attività in relazione agli oggetti e con le facoltà che egli
ama di più: per esempio, il musicista con l’udito in relazione alle melodie, l’amante del
sapere con il pensiero in relazione agli oggetti della meditazione filosofica, ecc. Ma il
piacere perfeziona le attività, e quindi anche la vita; è naturale, quindi, che tutti tendano
al piacere: esso dà, infatti, perfezione alla propria vita.
L’attività è incrementata dal piacere che le è proprio, giacché in ogni campo chi agisce
con piacere si specializza e progredisce sempre più: così, per esempio, diventano veri
geometri coloro che provano piacere nella geometria, veri musicisti coloro che provano
piacere nella musica, veri architetti coloro che provano piacere nell’architettura, ecc.
Esiste un piacere connaturale a ciascun essere vivente: per esempio, un conto è il piacere
ricercato dal cavallo, un altro conto è quello ricercato dall’uomo. A tal proposito Eraclito
dice: “Gli asini preferirebbero la paglia all’oro”; infatti per gli asini il cibo è più piacevole
dell’oro. Nel caso degli uomini, non tutti ricercano gli stessi piaceri, e ciò che a qualcuno
diletta ad un altro lo affligge, e viceversa.
Dopo aver parlato delle virtù, dell’amicizia e del piacere, resta da definire la felicità, dato
che la poniamo come fine delle azioni umane.
La felicità è un’attività che basta a se stessa, cioè rientra tra le attività che meritano di
essere scelte per se stesse, in quanto non richiedono nulla oltre il proprio esercizio. Si
ritiene che siano tali le azioni conformi a virtù: compiere azioni belle e virtuose, infatti, è
una di quelle cose che meritano di essere scelte per se stesse e non in vista di altre cose.
Anche i divertimenti e i piaceri del corpo vengono scelti per se stessi dalla massa, ma da
essi si riceve più danno che vantaggio. D’altronde la felicità non può consistere nel
divertimento: infatti sarebbe strano che il fine dell’uomo fosse il divertimento, e che ci si
affaticasse e si soffrisse per tutta la vita al solo scopo di divertirsi. La vita felice invece è
quella conforme a virtù, e questa richiede seria applicazione. Darsi da fare per il
divertimento è manifestamente stupido ed infantile; semmai il divertimento è da scegliere
solo come svago e riposo, dato che non ci si può affaticare senza sosta nel
perseguimento dei valori più seri e nobili.
Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù
più alta: e quest’attività è quella contemplativa. L’attività contemplativa è la più alta per il
fatto che è compiuta dall’intelletto, che è la più alta parte che è in noi; inoltre essa è la più
continua tra le attività che può compiere l’uomo, in quanto l’uomo può contemplare in
maniera più continua di quanto possa fare tutte le altre cose.
La più piacevole delle attività conformi a virtù è quella conforme alla sapienza; la
filosofia possiede in sé dei piaceri meravigliosamente puri e stabili, ed è quindi naturale
che la vita di coloro che sanno proceda in modo più piacevole che non la vita di coloro
che ricercano. Nella vita contemplativa non si ha bisogno di altro per essere felici.
All’uomo sapiente non servono grandi ricchezze per essere felice; per lui è sufficiente
godere di buona salute e possedere le cose necessarie, come il cibo, i vestiti, la casa e un
sufficiente livello economico per far fronte a tutti gli altri bisogni primari. L’uomo
sapiente che possieda questi beni necessari è già felice, giacché lui è autosufficiente e non
ha bisogno di nient’altro, poiché anche quando è solo può dedicarsi alla vita
contemplativa, che come detto è quella che dona maggiore felicità.
Tutti gli altri uomini invece, anche quelli dotati delle virtù etiche (temperanza, coraggio,
giustizia, ecc.), per essere felici hanno anche bisogno di persone verso cui e con cui
esercitare tali virtù. Essi inoltre hanno bisogno, per esercitare le virtù etiche, di adeguati
mezzi: ad esempio, l’uomo liberale, per compiere atti di liberalità, ha bisogno di denaro;
l’uomo coraggioso ha bisogno di forza fisica; e così via. Il sapiente invece come detto
non ha bisogno di particolari beni economici, in quanto la vita contemplativa non li
richiede.
Un’altra considerazione che ci spinge a considerare la vita contemplativa come la più
perfetta è quella secondo cui a essa si immagina essere volta la vita degli dèi. Infatti non
si può certo immaginare che tali divinità compiano azioni tipiche degli uomini, come
quella di stipulare contratti, restituire depositi di denaro, ecc., perché sarebbe come
sminuirli e paragonarli agli uomini. Tuttavia tutti siamo consapevoli che gli dèi vivano e
quindi che siano attivi; ma se all’essere vivente si toglie l’agire, il produrre, e cose simili,
che cosa gli rimane se non la contemplazione? Quindi l’attività di Dio, che eccelle per
beatitudine, sarà contemplativa; e di conseguenza l’attività umana che le è più affine sarà
quella che produce la più grande felicità. Dato che il sapiente cura l’intelletto più di ogni
altra cosa, sarà ragionevole pensare che gli dèi ricompensino lui più degli altri uomini,
perché l’intelletto è l’elemento umano più affine a loro.
Un’altra prova del fatto che la vita contemplativa è quella che arreca più felicità è la
constatazione del fatto che gli animali non sono felici perché sono completamente privi
di tale attività.
Da quanto suddetto appare evidente che gli uomini sapienti e dotati di esperienza siano i
migliori cui affidare il governo delle città. La gente ha bisogno di essere educata alla
virtù, affinché si comporti bene spontaneamente. Infatti la massa, per sua natura, non si
comporta bene per una scelta coscienziosa, ma lo fa per timore delle punizioni. Se invece
le persone, sin da quando sono giovani, si educano e si abituano a coltivare le virtù
etiche, la società sarà migliore. Nello stesso tempo però le leggi devono prevedere pene
severe per le persone incorreggibili; per costoro infatti l’unica maniera di farsi sentire è
quella di minacciarli e costringerli a comportarsi bene.
Anche nell’ambito familiare sarà auspicabile che i genitori educhino al meglio i figli. Anzi
all’interno della famiglia è più facile esercitare tale opera educativa, in quanto si
conoscono bene le persone cui sono diretti gli insegnamenti; nella città invece si possono
solo emanare delle leggi generali, che come tali non possono avere la specificità del caso
singolo.