Dispensa per il corso di Analisi Competitiva

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Dispensa per il corso di Analisi Competitiva
Concetti e strumenti per l’analisi competitiva internazionale
Giuseppe Volpato
Dispense per la prima parte del corso:
Analisi competitiva internazionale e gestione delle reti
Anno Accademico 2010-11
Indice
1. Riflessioni per un approccio critico nello studio dell’economia
e delle scienze manageriali
1.1. Cosa si intende per atteggiamento critico
1.2. L’atteggiamento critico nello studio dell’economia e delle scienze manageriali
1.3. I fattori che giocano contro lo sviluppo di un atteggiamento critico
1.4. Il prevalere dell’economia neoclassica e lo scomparire dell’approccio critico
1.5. La scuola neoclassica come espressione di una epistemologia empirista
1.6. Due approcci alternativi all’economia ortodossa: la scuola storica e
l’Istituzionalismo americano
1.7. Ulteriori critiche all’approccio nomotetico nell’economia ortodossa
1.8. Dalla perfetta razionalità alla razionalità limitata
1.9. Teoria neoclassica e teoria behaviorista dell’impresa
1.10. L’approccio cognitivo
1.11. La teoria dell’impresa basta su un approccio competence-based
1.12. Per l’elaborazione di una dimensione storica nell’economia
1.13. Razionalità e approccio normativo nelle scienze manageriali
1.14. Knowledge Management e razionalità storico-sociale
1.15. Implicazioni operative di una razionalità storico-sociale
1.16. Alcuni casi di carente teorizzazione in chiave storica
1.17. Bibliografia
2. L’evoluzione dei modelli d’impresa nelle scienze manageriali
2.1. Il modello microeconomico di concorrenza perfetta
1
2.2. Gli effetti distorcenti dell’applicazione del modello di concorrenza perfetta
2.3. Il modello taylorista-fordista.
2.4. Il modello dell’impresa sistemica.
2.5. Il modello della specializzazione flessibile.
2.6. Il modello della Lean Production.
2.7. Il modello basato sulla conoscenza
2.8. La cultura come conoscenza aggiuntiva di scenario.
2.9. Bibliografia consigliata
3. La globalizzazione competitiva
3.1. Nuove aree di integrazione economica
3.2. Nuove opportunità e nuovi modelli di business
3.3. La non convergenza delle preferenze di consumo
3.4. Elasticità della domanda e tecnologie flessibili
3.5. L’importanza di essere competitor globali
3.6. Gestire le forme di coordinamento internazionale
3.7. Analisi competitiva e nuovi modelli di business
3.9. Letture consigliate
4. Rapporto ICE 2007-2008
4.1. Auto: le fabbriche risorgono ad Est
5. Rapporto ICE 2009-2010
5.1. Mezzi di trasporto
5.2. L’auto italiana parlerà anche serbo
6. Osservatorio Componentistica Autoveicolare 2010
6.1. Il contesto internazionale
6.2. Il mercato e l'industria autoveicolare Nordamericani
6.3. La filiera italiana
2
6.4. L'indagine conoscitiva sul campo - Dopo la crisi
7. Le fonti statistiche
7.1. Enti statistici, Istituzioni nazionali e internazionali, Associazioni
7.2. La classificazione Ateco 2007
7.3. La classificazione degli Stati Uniti
7.4. Scambi di beni e servizi
8. La misura della attrattività di un mercato
8.1. Le informazioni socio-economiche di base
8.2. La penetrabilità e l’accessibilità di un mercato
8.3. L’attrattività di un mercato
8.4. La struttura concorrenziale del mercato (Concentrazione)
9. La misura della competitività di una impresa
9.1. Introduzione
9.2. Il Benchmarking e Business Intelligence
9.3. Le economie di scala
9.4. Le economie di apprendimento
9.5. Le economie di scopo
9.6. La diversificazione prodotti/mercati
9.7. L’integrazione verticale
9.8. L’innovazione di prodotto e di processo
9.9. La misura della velocità di reazione dell’impresa (Time-to-market)
9.10. Il potere monopolistico dell’impresa
9.11. La competitività sulla differenziazione e sulla qualità - Il modello SimCop
9.12. La misura dei vantaggi competitivi di ordine economico-finanziario
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Riflessioni per un approccio critico nello studio
dell’economia e delle scienze manageriali
Giuseppe Volpato
Dispensa per la prima parte del corso:
Analisi competitiva internazionale e gestione delle reti
1. Cosa si intende per atteggiamento critico
È molto frequente sentir dire a proposito dello studio delle scienze, sia di quelle naturali come
la fisica, la chimica, la biologia, sia di quelle sociali come l’economia e la sociologia, che occorre un
atteggiamento critico. Per atteggiamento critico non si intende l’atteggiamento di chi nega la validità
delle conoscenze costruite attraverso queste discipline, ma il fatto che queste conoscenze non devono
essere accettate in modo indiscriminato sempre e comunque (acritico appunto). Queste conoscenze
devono essere valutate nella loro adeguatezza alla situazione reale nella quale si intende applicarle.
Solitamente una conoscenza di carattere scientifico è costruita attraverso una prima fase nella quale si
formula una ipotesi interpretativa di una certa realtà, solitamente questa ipotesi esprime una relazione
causale: se si produce l’evento A, mi aspetto che ne derivi l’effetto B. Dopodiché si passa a un
tentativo di verifica di questa ipotesi cercando di controllare con delle osservazioni mirate se al manifestarsi di A segue sistematicamente l’effetto B. Qualora questa connessione ci sembri puntualmente
confermata potremmo dire di aver acquisito una conoscenza di carattere scientifico.
In quale caso potremmo considerare la conoscenza in questione come una conoscenza certa e
assoluta e quindi si renderebbe superfluo l’atteggiamento critico? Occorrerebbe avere l’assoluta
certezza che il legame di causa-effetto tra A e B si manifesti in ogni situazione, senza eccezione e a
prescindere del momento e del luogo nel quale si manifesta l’evento A. Ebbene è ormai accettato da
tutti gli studiosi di epistemologia della scienza, vale a dire della disciplina che studia il metodo e i
limiti della conoscenza scientifica, che la prova assoluta dell’esistenza del legame di necessario tra i
due eventi A e B non è ottenibile, di qui appunto la necessità di mantenere un atteggiamento critico
con il quale interrogarci sulla applicabilità di una certa teoria alla situazione reale che stiamo
esaminando. Inutile sottolineare che questo atteggiamento di cautela è tanto più necessario nelle
scienze sociali dal momento che la realtà sociale non si presta ad essere prodotta o controllata da
parte del soggetto ricercatore. In fisica posso attuare e replicare una quantità di volte lo stesso esperimento in situazione controllata per testare il legame tra due eventi. In economia ciò non è possibile e
le verifiche si fanno necessariamente in modo indiretto ed è quindi tanto più necessario mantenere
l’atteggiamento critico.
2. L’atteggiamento critico nello studio dell’economia e delle scienze manageriali
Sulla base di queste considerazioni sarebbe lecito aspettarsi, in tutti i manuali di economia,
una parte introduttiva nella quale si sottolinea l’esigenza di un atteggiamento critico verso questa
disciplina e una presentazione dei limiti o delle critiche che possono essere fatte alle conoscenze
(teorie) presentate nei diversi argomenti: il funzionamento dei mercati, il comportamento del
consumatore, e così via. In realtà questi tipi di caveat nell’uso delle teorie economiche sono assenti
1
anche se la tesi di validità assoluta delle teorie presentate non è dichiarata in modo esplicito. Spesso il
lettore ha l’impressione che gli vengano presentate delle vere e proprie “leggi scientifiche certe e
indiscutibili” invece che teorie, in parte verificate e quindi solo parzialmente giustificate,
ragionevolmente applicabili ma solo dopo un esame della loro adeguatezza alla realtà nella quale il
lettore pensa di applicare la conoscenza acquisita. Questo modo di presentare le teorie economiche
come leggi universali è un grave errore, sia dal punto di vista del lettore (uno studente, un manager,
un amministratore) in quanto si attribuisce alla teoria una validità assolutamente sproporzionata alla
sua effettiva portata, sia dal punto di vista della ricerca scientifica, che può svilupparsi e progredire
solo attraverso la continua applicazione di un atteggiamento critico che costituisce la premessa per lo
studio dei modi con i quali verificare ulteriormente, modificare o sostituire la teoria in questione.
Potremmo anzi dire che l’atteggiamento critico è il modo giusto di studiare una qualsiasi disciplina e
le sue teorie in quanto l’aver capito la validità di una certa teoria dipende proprio dall’essere in grado
di discriminare se essa sia più o meno applicabile ad una certa situazione data. Il vero apprendimento
scientifico consiste proprio nel cercare di capire l’ambito di applicabilità di una certa teoria. In altre
parole l’atteggiamento critico non è affatto un modo di svilire la conoscenza scientifica, ma anzi
rappresenta il modo corretto con il quale valorizzarla, tracciando i limiti di applicabilità delle teorie.
Il ruolo essenziale dell’atteggiamento critico diventa ancora più evidente nel campo delle
discipline manageriali. Infatti la specificità di queste discipline sta proprio nell’assumere l’obiettivo
di costruire teorie di tipo normativo. Una teoria normativa ha il compito di dichiarare quale iniziativa
si deve assumere qualora si voglia ottenere un certo risultato. Gli studi a carattere economico
generale hanno inizio attraverso una analisi di tipo positivo, vale a dire che lo studio è centrato
sull’obiettivo di costruire delle teorie interpretative del funzionamento di una certa realtà economica.
Tradizionalmente lo studio dell’economia politica consiste nello studio e nella comprensione di come
funziona il sistema economico o una sua parte. Una volta acquisite delle conoscenze positive posso
propormi di utilizzarle in modo normativo. Ad esempio se ho potuto verificare (parte positiva) che
una politica di aumento della spesa pubblica riduce il livello di disoccupazione, la politica
economica, avendo un indirizzo tipicamente normativo, suggerirà ad esempio un programma
aggiuntivo di opere pubbliche nel caso si voglia favorire un assorbimento di personale disoccupato.
Ebbene le discipline manageriali hanno appunto un indirizzo normativo: il marketing studia le
modalità più efficaci ed efficienti che un’impresa può attivare per servire il mercato e conseguire un
profitto, l’organizzazione studia il modo migliore di utilizzare le proprie risorse umane, la finanza
studia il modo migliore per mantenere in equilibrio la dinamica di entrate ed uscite, e così via. Il
punto è però che un approccio normativo, tipico delle discipline manageriali, implica l’applicazione
di teorie economiche rispetto ad una realtà futura. Di conseguenza l’uso di una certa teoria o regola
economica risulterà efficace ed efficiente solo se essa risulterà coerente con l’ambiente economicocompetitivo futuro nel quale essa troverà applicazione, ambiente sul quale inevitabilmente si dispone
solamente di informazioni problematiche ed incerte circa la sua prossima evoluzione. Negli studi a
carattere normativo la necessità di sviluppare un atteggiamento critico è quindi ancora più importante
in quanto è programmaticamente necessario interrogarsi sulle caratteristiche che il sistema
ambientale e competitivo assumerà nell’orizzonte temporale nel quale la disciplina manageriale
suggerisce le possibili modalità di intervento.
3. I fattori che giocano contro lo sviluppo di un atteggiamento critico
2
Il mancato sviluppo di un diffuso atteggiamento critico da parte degli studiosi di economia ha
radici storiche profonde che si radicano nel fatto che sia la nascita del pensiero scientifico in
generale, che ha in Francis Bacon (1561-1626) una delle figure più rappresentative, che le prime
ricerche scientifiche, alle quali diede un impulso potente Galileo Galilei (1564-1642), si rivolgono
sistematicamente allo studio dei fenomeni naturali e soprattutto all’astronomia. Un campo di
indagine nel quale sembra appropriato immaginare e testare teorie che, se convalidate
dall’osservazione, diventerebbero leggi universali di validità assoluta. La teoria della gravitazione
universale, elaborata da Isaac Newton (1642-1727), che tra l’altro consentiva di calcolare
anticipatamente la posizione dei pianeti, successivamente verificata anche attraverso i calcoli e le
osservazioni astronomiche di Pierre Simon Laplace (1749-1827), rappresentò il coronamento di
questa impostazione che vedeva nella matematica il linguaggio con il quale esprimere le leggi
scientifiche e l’universo rappresentato come un modello meccanico, eterno e immutabile e quindi
necessariamente esprimibile attraverso leggi di carattere assoluto e universale.
Gli studi di economia a carattere sistematico si sviluppano in concomitanza con l’espansione
economica registratasi nel XVIII secolo. Inizialmente questi studi hanno un carattere dichiaratamente
sociale, come testimonia anche la denominazione di Economia Politica e si dedicano allo studio di
come sia possibile organizzare la società in modo da favorire la creazione della ricchezza. Per alcuni
economisti dell’epoca la ricchezza di un paese è rappresentata dalle riserve di mezzi di pagamento
(oro e argento) e sono detti mercantilisti. Per altri la ricchezza deriva invece dall’agricoltura indicata
come l’unica realtà produttrice di valore netto e si chiamano fisiocratici. Nella seconda metà del
XVIII secolo il pensiero economico compie un altro grande balzo con l’opera di Adam Smith e
possiamo anzi dire che con l’opera di questo autore abbiamo il consolidamento del pensiero economico che, in parallelo alla rivoluzione industriale e alla affermazione di una classe di produttori
(borghesia), attrarrà sempre più l’attenzione degli studiosi e la formazione di un sistema di pensiero
economico sempre più articolato e complesso solitamente indicato come il “pensiero economico
classico”, che vede fra i suoi massimi esponenti, oltre a Adam Smith (1723-1790), anche David
Ricardo (1772-1823) e John Stuart Mill (1806-1873) 1. Con il XVIII secolo possiamo quindi dire che
l’economia si costituisce come una autonomo campo di studio, distinto dagli altri ambiti di ricerca.
Tuttavia solo un secolo più tardi l’economia entra a far parte degli insegnamenti impartititi nella
formazione universitaria ed è proprio con questa ulteriore fase che la nuova disciplina scientifica
deve affrontare il problema della validazione delle proprie basi scientifiche; in linguaggio attuale
diremmo: la costituzione della base epistemologica della nuova disciplina e la sua posizione rispetto
alle altre scienze già affermate.
É solo nella seconda metà del 1800 che cominciano a crescere di numero, e in modo
sistematico, le cattedre per l’insegnamento dell’economia. In precedenza sia lo statuto
epistemologico che i confini stessi della scienza economica risultavano alquanto nebulosi. Tuttavia
anche con le prime istituzioni di cattedre di Economia Politica, esse non sono ancora collocate in una
Facoltà di Economia, che ancora non esisteva, ma vengono attivate in prevalenza nelle Facoltà di
Giurisprudenza, la cui formazione è molto più antica e coincide con la stessa nascita delle Università
a Bologna e a Parigi 2. Ad esempio in Italia la prima cattedra di economia venne istituita a Napoli nel
1
Per una esposizione analitica dei contenuti dei primi sistemi di pensiero economico: mercantilismo, fisiocrazia e
pensiero economico “classico”, rimandiamo alle opere di Roll (1939), Schumpeter (1954), Blaugh (1968) e Dobb (1973).
2
Sulle prime costituzioni di sedi universitarie e sulla natura degli insegnamenti impartiti si veda: Haskins (1923) e
Verger (1999).
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1754 3 ma la prima costituzione di una Scuola Superiore di Commercio è del 1868 a Venezia presso
la sede di Ca’ Foscari. Questo genere di istituzione, la seconda in Europa, dopo quella di Anversa
attivata nel 1853, costituirà il nucleo di riferimento per la formazione in Italia delle Facoltà di
Economia e Commercio che si avrà con la riorganizzazione dell’insegnamento universitario posto in
essere nel 1919.
Dopo aver posto il problema della validità epistemologica della scienza economica in un
minimo di prospettiva storica siamo ora in grado di motivare l’affermazione relativa alle difficoltà
che incontra la nuova disciplina e come i “professionisti” di questa scienza, operanti in prevalenza
nell’insegnamento universitario, cercarono di validarne le basi teoriche. Innanzitutto va detto che le
discipline universitarie di allora si inquadravano tutte nell’ambito delle scienze naturali: fisica,
astronomia, chimica, botanica, ecc. o in quello delle scienze matematiche. Ovviamente anche gli
studi di diritto, di filosofia, di storia erano ritenuti particolarmente importanti, ma ad essi non veniva
attribuito lo status di scienza in senso stretto, che era riservato alle scienze naturali. Scienze che
ormai da oltre un secolo avevano conseguito straordinari successi teorici con la piena affermazione di
un approccio empirista e positivista che aveva definitivamente superato le precedenti impostazioni
metodologiche, che si riferivano alla tradizione aristotelica poi confluita nell’approccio dogmatico
tipico della filosofia scolastica 4. Anzi i successi conseguiti dalle scienze naturali erano stati così
rilevanti da far definire la scienza come un insieme di leggi aventi la natura di regole universalmente
valide in ogni momento e in ogni luogo, così come si riteneva fosse la natura delle legge della
gravitazione universale di Newton. Questa legge aveva permesso di calcolare in anticipo, e con
grande precisione rispetto alle conoscenze di allora, la posizione dei pianeti a una certa data e, fatto
ancora più eclatante, il ritorno nel 1758 della cometa di Halley, osservata per la prima volta nel 1681.
Con questi straordinari successi della fisica e dell’astronomia, ma anche delle scienze naturali in
genere come la chimica, l’ottica ecc., sembrava dimostrato una volta per tutte che la scienza poteva
essere definita come un insieme di leggi universalmente valide 5. Veniva così sancito l’orientamento
delle scienze naturali come ricerca di leggi universali ed eterne indicato come orientamento
nomotetico, in quanto costruito su leggi di natura accertate come vere.
Ai professionisti di una nuova scienza come l’economia sembrò quindi inevitabile che la
validazione epistemologica della loro disciplina derivasse dalla costruzione di leggi economiche
aventi la stessa valenza di quelle fisiche. Un obiettivo che a posteriori sappiamo irraggiungibile per
una molteplicità di ragioni. In primo luogo perché neppure le scienze naturali hanno questa natura
definitiva, in quanto anch’esse si basano su teorie semplificate rispetto alla complessità del reale. Ma
anche perché l’economia politica, in quanto scienza sociale, è priva delle condizioni che consentono
nei metodi di ricerca e validazione scientifica applicati nelle scienze naturali. Ad esempio nelle
scienze sociali esiste una forte interdipendenza fra i fenomeni costitutivi la realtà sociale, ma non
potendo studiare contemporaneamente tutti i fenomeni che risultano interdipendenti, in quanto
potenzialmente infiniti, è inevitabile trascurare una parte delle relazioni dei fenomeni che si
3
La cattedra di “Commercio e meccanica” venne attribuita all’abate Antonio Genovesi. Cfr. Faucci (2000).
4
Per una stringata sintesi della evoluzione del pensiero scientifico dall’approccio “dogmatico” tipico della filosofia
scolastica a quello “empirista” e “positivista” si veda Volpato (2006).
5
Oggi sappiamo che queste supposte leggi universali, per quanto costitutive di passi fondamentali nel progresso delle
conoscenza, vanno considerate come delle teorie capaci di interpretare solo in modo imperfetto e semplificato la realtà
analizzata e non possono quindi essere intese come leggi universali che secondo la più accreditata analisi epistemologica
restano un traguardo irraggiungibile.
4
intendono analizzare. Ciò comporta che qualsiasi teoria economica che riterremmo di trarre da questa
analisi risulterà comunque parzialmente inficiata dal fatto che in partenza si sono espunti dei
fenomeni e che pertanto la nostra analisi è inevitabilmente parziale. Naturalmente si cercherà di
espungere solo i fatti e i fenomeni ritenuti meno rilevanti per la realtà analizzata, ma ciò non toglie
che non sia possibile avere la certezza che nella semplificazione preliminare della realtà esaminata
non si siano eliminati dei fenomeni potenzialmente importanti. Un derivato di questa situazione, di
interdipendenza generalizzata dei fenomeni all’interno delle scienze sociali, è rappresentato dal fatto
che non è possibile effettuare esperimenti di laboratorio in condizioni controllate, come è invece
possibile svolgere, almeno in parte, nelle scienze naturali. Inoltre nelle scienze naturali è ragionevole
postulare una separazione tra il fenomeno osservato e l’osservatore, che rappresenta una delle
condizioni più importanti per poter effettuare un esame scientifico che non modifica la realtà
indagata nello stesso momento nel quale la analizza. Ciò invece risulta assai problematico in una
scienza sociale, sia sul piano dei comportamenti dei soggetti che in quello del condizionamento
ideologico del soggetto osservatore nella valutazione del significato dei fenomeni osservati. Infine
l’impossibilità di ripetere a discrezione l’esperimento con il quale si intende descrivere e interpretare
una certa regola economica e quindi validarne la teoria sovrastante fa sì che nessuna analisi, sia
qualitativa che quantitativa, sulle relazioni fra due variabili economiche possa essere assunta come
dimostrata e definitiva. In breve gli economisti, nel loro sforzo di imitare la struttura epistemologica
delle scienze naturali, finirono per infilarsi da soli in una serie di posizioni metodologicamente
insostenibili.
Sta di fatto che verso la fine del XIX secolo la legittimazione dell’economia in quanto scienza
passò attraverso un processo di astrazione dell’economia da “economia politica” a “economia pura” e
in termini anglosassoni da political economy a economics, attraverso l’assunzione di una
impostazione analitico-deduttiva che espungeva i riferimenti storici per cercare leggi “pure”,
“generali”, “universali”. Anche per la scienza economica veniva quindi assunto un programma di
tipo nomotetico 6.
6
Un approccio scientifico di tipo nomotetico può essere definito in opposizione all’approccio ideografico. Quello
nomotetico assume che una disciplina acquisisce validità scientifica nel momento in cui esprime una legge generale e
universale in grado di spiegare la relazione fra fenomeni. Le scienze naturali assumono normalmente una prospettiva
nomotetica. Al contrario l’approccio ideografico nasce marcando la differenza tra le scienze che presuppongono una netta
separazione tra il soggetto che indaga e l’oggetto indagato, e che sono rappresentate dalle scienze naturali, e quelle in cui
l’oggetto indagato coincide almeno in parte con il soggetto che indaga come nel caso delle scienze sociali in cui il
ricercatore fa parte della realtà sociale studiata. Realtà che muta nel tempo e che produce la singolarità dei fenomeni,
nella loro forma storicamente determinata, e nega la possibilità di individuare regole generalizzanti assolute. Questa
seconda impostazione, che dal punto di vista filosofico nasce in Germania con W. Dilthey (1883), W. Windelband (1894)
e R. Rickert (1898), è sostenuta in particolare da scienziati che operano nel campo delle scienze “non-naturali” che
assumono denominazioni diverse a seconda delle aree culturali: “scienze dello spirito” in Germania, ovvero “scienze
dell’uomo” in Francia, o “scienze sociali” nel mondo anglo-sassone. Inutile sottolineare che queste diverse etichette
indicano anche prospettive epistemologiche molto diverse. Tuttavia l’aspetto che le accomuna sta nel rifiuto di una
impostazione nomotetica per le scienze non-naturali. Come vedremo in seguito l’economia è una scienza che secondo
alcuni va inserita nella prospettiva nomotetica che è quella caratteristica dell’economia ortodossa o mainstream
economics. Per altri l’economia ricade necessariamente tra le scienze sociali e ad essa è preclusa la possibilità di attuare
un programma nomotetico, anche se ciò non implica automaticamente propendere per un approccio ideografico.
L’approccio che ci pare corretto e che si cercherà di presentare nel seguito è quello di una economia come scienza
storico-sociale che può pervenire a delle “regole” di funzionamento del sistema economico e delle imprese ma in
situazioni storicamente definite e quindi prendendo le distanze sia dall’approccio nomotetico che da quello ideografico.
5
4. Il prevalere dell’economia neoclassica e lo scomparire dell’approccio critico
Il passaggio da Political Economy a Economics segna un progressivo prevalere della scuola
neoclassica rispetto alle altre impostazioni e l’instaurarsi di una impostazione economica “ortodossa”
o “standard” che tende a prevalere sugli altri approcci. È proprio l’instaurarsi di questa supremazia
che si è accompagnata al progressivo decadimento dell’approccio critico. Esso invece dovrebbe
essere sempre mantenuto, sia nell’interesse di chi studia e applica le teorie economiche, che in quello
dell’economia in quanto scienza vitale che non deve cristallizzarsi in stereotipi, ma che invece è in
grado di evolvere con i cambiamenti che si manifestano nel sistema economico. Il prevalere di una
scuola rispetto alle altre di per sé non è affatto un aspetto negativo, a patto però che siano
salvaguardate due condizioni: a) si mantenga un atteggiamento critico che stimoli gli studiosi di
economia di continuare ad interrogarsi sulla validità delle proprie impostazioni; b) si mantenga vivo
un dibattito tra studiosi di impostazioni diverse allo scopo di mantenere un confronto vivo e
sistematico sui temi di una disciplina e di una realtà che evidentemente è sottoposta a continui
rilevanti cambiamenti. Purtroppo entrambe queste due condizioni si sono dissolte. Menzionavamo
prima il fatto che ormai i classici manuali di micro e macroeconomia non fanno nulla per
sensibilizzare gli studenti di economia (futuri ricercatori e futuri manager) al mantenimento di un
approccio critico 7. Nel contempo oggi assistiamo all’esistenza di un ampio ventaglio di approcci
metodologici differenziati che tuttavia non si confrontano, ma si ignorano in modo così marcato che
un aspirante economista (e a maggior ragione uno studente di scienze manageriali) potrebbe svolgere
tutta la sua carriera, leggendo migliaia di saggi, senza mai imbattersi in articoli e ricerche basate su
approcci metodologicamente diversi da quelli nel quale si riconosce la propria scuola. Quello che
voglio dire è che ormai abbiamo una molteplicità di filoni di studio, da quello marcatamente
positivista a quello tipicamente ermeneutico 8, passando per una molteplicità di posizioni diverse: da
quello behaviorista a quello istituzionalista, che tuttavia non si confrontano più. In sostanza si può
dire che si è compiuto il processo di specializzazione dei differenti approcci di ricerca che ormai non
dialogano più tra loro 9. Ciò è vero soprattutto per gli studiosi dell’approccio neoclassico 10, ormai
indicato anche come economia ortodossa o standard, che, vantando un più antico pedigree, tende a
snobbare le altre impostazioni, ritenute marginali ed anzi “non scientifiche”, ma mi pare che questo
processo di specializzazione abbia contagiato anche gli esponenti degli altri approcci. Questi da
7
Poiché in questa sede interessa trarre delle implicazioni di metodo per la teoria dell’impresa e le scienze manageriali
in generale, la nostra analisi si concentra sulla microeconomia. Tuttavia anche nella macroeconomia valgono sia le
critiche all’assioma della razionalità del comportamento dei soggetti, sia quelle alla razionalità del comportamento dei
mercati. Su questa problematica si veda il recentissimo articolo di Paul Krugman (2009), premio Nobel per l’economia
nel 2008, centrato sulle implicazioni metodologiche che sono suggerite dalla recente crisi internazionale.
8
L’approccio ermeneutico, a volte indicato anche come approccio interpretativo, adotta una prospettiva sensibilmente
diversa da quella dell’economia ortodossa, segnando una netta cesura tra scienze naturali e sociali. Madison (1990)
sottolinea che “The interpretative approach rejects the idea that the human sciences can or ought to be modelled on the
natural sciences. It rejects the very idea that the purpose of the human science is to explain (in the customary scientistic
sense) and predict human phenomena. Because the principal goal of human sciences is not to explain human affairs but to
understand them (giving them a social sense) formal scientific methodology and quantification techniques are ill-suited to
these disciplines, having at best a strictly limited usefulness”. Si veda anche Lavoie (1990). Per una presentazione
dell’impostazione ermeneutica si veda Gadamer (1983).
9 Sulla
babele dei linguaggi economici si veda Lawson (1997, 54) e Caldwell (1988).
10 Questa scuola si definisce “neoclassica” in quanto successiva e alternativa a quella “classica” basata sulla teoria
oggettivistica del valore-lavoro. Attualmente la teoria neoclassica viene molto spesso indicata anche come “orthodox
economics” e “mainstream economics”.
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sempre hanno criticato la visione specialistica e chiusa dell’economia marginalista, ma ora danno
l’impressione di tendere a replicare lo stesso atteggiamento privandosi del continuo confronto
dialogico tra scuole che invece dovrebbe esserci.
Il presente saggio cerca di aprire un dibattito perché si ritorni ad un approccio critico e ritengo
che il modo più adatto per farlo sia sintetizzare quelle che sono le ipotesi metodologiche di partenza
delle diverse impostazioni ai problemi economici. Pertanto in questo documento si cercherà
innanzitutto di tratteggiare le caratteristiche epistemologiche che stanno dietro alle differenti
impostazioni economiche.
5. La scuola neoclassica come espressione di una epistemologia empirista
In precedenza si è già segnalato il fatto che in tema di scienza economica vi sono differenti
schemi concettuali di riferimento: scuola neoclassica, scuola storica, scuola istituzionalista, scuola
cognitivista, ecc. Se si vuole analizzare in profondità le differenze di queste scuole occorre anche
risalire alla impostazione epistemologica dalla quale derivano. Il modo con il quale si cercherà di
arrivare a questo risultato consiste nella ricostruzione del significato del concetto di razionalità 11
nelle diverse impostazioni economiche a cominciare da quella neoclassica o “ortodossa”.
Il punto di partenza della nostra analisi è rappresentato dal seguente quesito: Perché
nell’impostazione ortodossa dell’economia, e soprattutto in quella centrata sui problemi di
microeconomia, si assume come assioma indiscutibile la razionalità strumentale del comportamento
dei soggetti? La risposta che anticipiamo, e che cercheremo subito dopo di corroborare con la
susseguente analisi, è la seguente. La razionalità del comportamento dei soggetti è necessaria qualora
si voglia caratterizzare l’economia in senso nomotetico assegnandole un programma che imiti la
scienza nomotetica per eccellenza: la fisica. L’assioma della razionalità strumentale (da ora indicata
per semplicità come razionalità tout court) è necessario solo se si intende assumere che la scienza
economica è una scienza autentica solo se perviene alla individuazione di leggi universali e
necessarie, valide ovunque e comunque, e quindi aventi la stessa valenza delle scienze naturali.
Alla fine del XIX secolo l’economia è ormai diventata una disciplina scientifica universitaria.
Si insegna in numerose università, inizialmente all’interno delle facoltà di scienze giuridiche, ma poi
in modo progressivamente allargato nelle facoltà di Economia istituite nei vari paesi. La costituzione
dell’insegnamento dell’economia come una professione scientifica si accompagna al problema del
riconoscimento della valenza scientifica della disciplina. È quindi naturale che l’affermazione
dell’economia come scienza passi attraverso l’imitazione dei modelli scientifici già affermati che
sono rappresentati dalle scienze naturali, anche perché l’economia è la prima delle scienze sociali e
quindi non si pone una effettiva alternativa di campo: se si vuole edificare una scienza questa deve
essere nomotetica. Se quindi si assume, come allora sembrava scontato, che le scienze naturali sono
rappresentate dall’insieme delle “leggi naturali”, il compito primario di ogni scienza diventa quello di
scoprire le proprie leggi universali. Questa impostazione comporta altre due assunzioni: una prima di
11 L’analisi proposta da Hargreaves Heap (1989) distingue tre concetti di razionalità: a) Instrumental rationality, b)
Procedural rationality, c) Expressive rationality. “Instrumental rationality equates the ‘rational’ action with the choice of
the means most likely to satisfy a given set of ends” (pag.39). “Procedural behavior is defined as action which emanates
from the use of procedures or rules of thumb” (pag. 116). “Expressive rationality stands for a universal human concern
with understanding the world in which we live” (pag.148). Instrumental rationality is the attitude considered by the
orthodox economics.
7
natura ontologica e una seconda di natura epistemologica. La prima consiste nella tesi che il mondo
(o quantomeno la problematica scientifica che si intende indagare) sia basato sull’esistenza di un
ordine, rappresentato appunto dall’azione di queste leggi, che pertanto sono oggettive e operano
imponendosi alla realtà, anzi strutturando la realtà. Di qui anche l’etichetta delle “scienze esatte” fra
le quali si intende inserire l’economia. La seconda assunzione, di natura epistemologica, assume che
queste leggi siano conoscibili dal soggetto indagatore attraverso i propri sensi o, in altre parole
attraverso l’esperienza 12. Questo aspetto è di particolare rilievo in quanto se si assume che
l’esperienza è in grado di cogliere perfettamente le manifestazioni del mondo reale (o perlomeno
delle manifestazioni positive del mondo reale) il ricercatore può affidarsi alla propria esperienza nel
valutare l’aderenza di una propria teoria alla realtà. In sostanza l’esperienza ci fornisce la possibilità
di controllare la teoria e se il controllo ha esito positivo di dichiararla una teoria verificata e quindi
una legge. La prima assunzione definisce quindi la scienza in senso nomotetico e trova inizialmente
importanti conferme nel campo della fisica e dell’astronomia, soprattutto attraverso le leggi di
Newton, e la successiva dimostrazione della possibilità di applicare queste leggi al calcolo delle
orbite dei pianeti e alla previsione delle loro posizioni riferite ad un momento futuro.
Lo straordinario successo conseguito dalla fisica e successivamente dalle altre scienze naturali
come la chimica, la botanica, ecc. e lo sviluppo delle tecniche ingegneristiche che queste conoscenze
consentono sono tali da fissare lo standard (individuazione della legge nomotetica) al quale ogni
ricercatore si deve orientare se intende effettuare un lavoro di ricerca autenticamente scientifico. La
prevalenza degli studiosi di economia ritiene che ciò debba valere anche per l’economia. In altre
parola la grande maggioranza degli studiosi, e di quelli anglosassoni in particolare, assume una
posizione monista: le scienze costituiscono un corpo unico e l’economia è una scienza nella misura
in cui riproduce gli schemi delle scienze per naturali.
Per la verità l’approccio nomotetico in economia non manca di sollevare aspre contestazioni
da parte di studiosi che invece sottolineano la natura sociale e storica dell’economia e la necessità di
separare le scienze naturali da quelle delle scienze sociali 13. In economia la critica più radicale al
programma nomotetico proviene da Karl Marx (1818-1883). Tuttavia da un lato le difficoltà di
concludere in modo soddisfacente l’elaborazione della teoria del valore-lavoro tentata da Marx,
dall’altro la coesistenza nella critica economica marxiana di una critica politica e sociale
rivoluzionaria (che agli economisti risulta estranea e non scientifica) gioca a sfavore di un
accoglimento della sua impostazione. Più tardi il fiorire di una approccio economico basato
sull’individuazione di una teoria del valore di tipo soggettivista, rappresentato appunto dalla scuola
12 Sulle
modalità con le quali il soggetto osservatore è in grado di riconoscere le leggi della natura si ha fin dall’inizio una
molteplicità di posizioni. Tra le più note abbiamo l’approccio empirista che si riferisce al procedimento induttivo e che
trova il proprio iniziatore in Francis Bacon (1561-1626), quello razionalista radicale, basato su un procedimento deduttivo
che può essere fatto risalire a René Descartes (1596-1650), quello razionalista critico, elaborato da Immanuel Kant (17241804) che elabora una posizione intermedia che intende valorizzare tanto la conoscenza a priori, basata sulla deduzione
che l’esperienza di matrice induttivista.
13
La critica più aspra all’applicazione dell’approccio nomotetico anche alle scienze sociali proviene innanzitutto dallo
storicismo tedesco. Lo storicismo rifiuta drasticamente un approccio monista e propone un approccio dualista che effettua
una netta distinzione tra scienze della natura (Naturwissenschaft) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaft) all’interno
delle quali lo storicismo colloca anche l’economia. In Francia si sviluppano posizioni ancora diverse riconoscendo la
specificità delle sciences humaines, come l’economia e la sociologia, ma ad esse si applica uno statuto epistemologico di
natura positivista, soprattutto da parte di August Comte (1798-1917), che rinvia alla ricerca di leggi nomotetiche. Sul
recente dibattito tra un approccio monista e un approccio dualista si veda Andler et al. (2002). Per una critica dell’approccio monista applicato all’economia, anche se da prospettive epistemologiche diverse, si vedano fra i tanti: Shackle
G.L.S. (1972), Hausman (1992), Lawson (1997). Hodgson (2001).
8
neoclassica, elaborato in Gran Bretagna alla fine del XVIII secolo e ulteriormente sviluppato in
Europa continentale, sembra in grado di fornire le generalizzazioni del comportamento umano,
orientato alla ricerca del tornaconto individuale, che una economia di indirizzo nomotetico richiede.
Questo nuovo orientamento trova una sorta di consacrazione scientifica attraverso la teoria
dell’equilibrio economico generale elaborata da Leon Walras (1834-1910) e successivamente
sviluppata da Vilfredo Pareto (1848-1923). Con la teorizzazione dell’equilibrio economico generale,
basato sull’applicazione del modello di concorrenza perfetta ad un intero sistema economico,
l’economia sembra aver raggiunto il traguardo della matematizzazione della propria impostazione
(quindi scienza esatta) e della individuazione di leggi universali applicate al comportamento
economico dell’uomo. Questa matematizzazione dell’economia, iniziata da Antoine A. Cournot
(1801-1977), diventava quindi il simbolo della compiutezza nomotetica tanto ricercata 14.
La coerenza e l’eleganza formale di questa impostazione, che rappresentava la base
dell’economia pura ricercata da Walras e Pareto, divenne ben presto il paradigma 15 dominante della
scienza economica. L’assunzione del comportamento umano come comportamento intrinsecamente
razionale consentiva di prescindere dall’analisi storica. L’economia non aveva bisogna di ancorarsi a
determinate caratterizzazioni storiche in quanto il suo funzionamento, in quanto basato su
comportamenti individuali di tipo razionale, poteva essere interpretato sulla base di regole generali ed
astratte, intrinseche alla scelta di ciascun soggetto di massimizzare la personale convenienza.
Razionalità, azione guidata dalla massimizzazione del proprio tornaconto e struttura economica
basata su mercati di concorrenza perfetta sono gli elementi che consentono di espungere la
dimensione temporale, e a maggior ragione quella storica, dall’analisi economica e dalle sue “leggi”.
Con questo passaggio l’economia diventa la scienza che applica i criteri della scelta razionale alle
azioni del soggetto. Dato un certo ambiente tecnologico e date le preferenze individuali dei soggetti,
che gli economisti non sentono il compito di spiegare e che vengono assunti come aspetti dati e
costitutivi della problematica da analizzare, l’economia diventa la scienza che individua la situazione
risultante dal comportamento razionale dei soggetti 16. L’economia è quindi in grado di assimilare il
proprio programma teorico a quello delle scienze naturali 17 e consiste nel produrre le leggi
dell’economia in modo simile a quello della fisica, della chimica, dell’astronomia 18. Se infatti si
rifiuta l’assioma del comportamento razionale e si ricerca la configurazione di equilibrio dei mercati
14 Si
veda Ménard (1978).
15
Usiamo in questa sede il termine paradigma nel senso definito da Kuhn (1962). Successivamente Kuhn nel 1970
sostituirà il termine paradigma con quello di matrice disciplinare (disciplinary matrix). Tuttavia in letteratura è rimasto
comune l’uso del termine originario.
16 “Since
the eighteenth century, for any explanation to be acceptable it must be ‘rational’ and thus it must be universal”,
Boland (1992, 148).
17
Ad esempio Auguste Walras, economista e padre di Leon Walras invita il figlio in questo senso: “bisogna dedicarsi
all’economia politica come ci si dedicherebbe all’acustica o alla meccanica, cfr. Leroy (1923). Tuttavia il figlio sente la
tensione che deriva tra la ricerca di leggi economiche universali e l’esigenza di mantenere viva la libertà di scelta (e
quindi anche la responsabilità etica) del soggetto, cfr. Baranzini (2006). Per contro Pareto sembra pienamente schierato
sul fronte nomotetico mentre un altro grande economista della scuola neoclassica come Alfred Marshall (1842-1924), non
appare intenzionato a muoversi verso i canoni della economia pura, preferendo un approccio molto più pragmatico e
applicativo, caratterizzato dall’analisi degli equilibri parziali, nel quale l’economia deve mostrarsi aderente alla realtà
concreta, rifuggendo dalle estreme semplificazioni dell’economia pura. Cfr. Marshall (1890). In proposito è anche stato
sottolineato come sia percepibile in Marshall un orientamento di tipo evoluzionista, reso evidente ad esempio dalla
concettualizzazione di “impresa rappresentativa”. Cfr. Hodgson (1993).
18 Cfr.
Salsano (1977), Zamagni (1987).
9
e del sistema economico occorre preliminarmente stabilire volta a volta quale comportamento verrà
assunto dai soggetti (egoista, altruista, più o meno avverso al rischio, ecc.). Ad esempio il
comportamento delle stesse persone può variare a seconda si sia in una fase di sviluppo o di
recessione economica (come del resto sembra ragionevole). Ciò esclude la certezza dell’esistenza di
una configurazione di equilibrio e comporta l’irrompere della storia nell’interpretazione del
funzionamento del singoli e del sistema economico.
Non è un caso che l’assunzione del comportamento razionale come chiave interpretativa delle
scelte degli agenti economici si unisca al modello di concorrenza perfetta nella sua forma più
generale, rappresentata dal modello dell’equilibrio economico generale di Walras. Il modello di
concorrenza perfetta infatti consente di determinare l’equilibrio del mercato e quindi sancisce la
convergenza dei comportamenti dei singoli verso una situazione particolare che determina
l’equilibrio del singolo mercato (prezzo e quantità scambiata) e nello stesso modo l’equilibrio
simultaneo di tutti i mercati. Ne deriva che qualsiasi sistema economico, caratterizzato da
comportamento razionale dei soggetti e da una struttura perfettamente concorrenziale dei mercati,
convergerà verso una particolare configurazione, quella dell’equilibrio economico generale. Di qui la
possibilità di assumere l’equilibrio di mercato come espressione di una legge in senso nomotetico, in
quanto di universale applicazione e validità. Date le leggi tecnologiche applicate dai produttori, le
preferenze dei consumatori tra i diversi beni e la loro capacità di spesa saremmo nelle condizioni
(almeno ipoteticamente) di calcolare la configurazione di equilibrio verso cui convergerebbe l’intero
sistema economico. Questo risultato assumeva un significato di estremo rilievo in quanto
rappresentava un risultato analogo a quello delle leggi della fisica. Infatti nei sistemi fisici di tipo
deterministico, è possibile calcolare la configurazione di equilibrio, una volte note tutte le condizioni
di partenza.
La resistenza ad abbandonare il modello di concorrenza perfetta, anche dopo il manifestarsi
della concentrazione industriale americana del XIX secolo, rappresenta proprio la resistenza ad
abbandonare un modello concettuale che sembrava la legittimazione di una visione nomotetica.
L’abbandono del modello di concorrenza perfetta e la necessità di misurarsi con modelli
oligopolistici mette gli economisti di fronte all’impossibilità di determinare un equilibrio di mercato
al di fuori di situazioni storicamente definite 19. Il ridimensionamento del ruolo del modello di
concorrenza perfetta avverrà solo negli anni ’30. Prima vi era stata la teorizzazione di Frank Knight
(1921), che aveva reso evidente l’improponibilità del modello di concorrenza perfetta, ma solo con
l’impostazione di Edward H. Chamberlin e Joan Robinson nel 1933 gli economisti iniziarono, sia
pure con riluttanza, a riconoscerne l’insostenibilità di questo modello quale rappresentazione
adeguata della realtà economica. Tuttavia il modello di concorrenza perfetta era una prima linea di
difesa di un approccio nomotetico. Il baluardo fondamentale era rappresentato dal comportamento
razionale dei soggetti, proprio perché come sottolineò anche Weber, “rational behavior is maximally
understandable because of the link between motive and action is transparent”. L’assioma della
19
La descrizione di un mercato secondo vincoli meno drastici di quelli richiesti dalle ipotesi concorrenziali perfette può
condurre a una definizione più realistica del mercato, ma comporta l’impossibilità di dedurre dalla struttura del mercato il
comportamento stesso degli operatori. Un mercato definito in termini non rigorosi è un mercato indeterminato. Ipotizzare
che il prodotto offerto da più produttori non sia perfettamente identico, senza ulteriori specificazioni, non significa dare
una definizione più realistica del mercato in quanto più prossima alla realtà che vediamo tutti i giorni, ma solo aprire una
situazione di indeterminatezza, dal momento che sarebbe privo di significato un comportamento «mediano» fra la concorrenza perfetta, in cui i prodotti sono identici, e il monopolio, in cui la differenza è tale che ogni prodotto configura un
mercato a sé stante, indipendente dalle politiche di prezzo praticate negli altri mercati. Cfr. Volpato (2008a, 65).
10
razionalità assicura infatti la prevedibilità del comportamento al di fuori di ogni referente storico e
pertanto costituisce la pietra angolare di un programma nomotetico.
Ovviamente se si analizzano in profondità le impostazioni dei maggiori autori esponenti della
scuola ortodossa non è difficile notare numerose sfumature diverse, tuttavia quello che conta ai fini
della nostra argomentazione è che il paradigma prevalente dell’economia assume una
caratterizzazione nomotetica che si basa su una serie di postulati generalizzabili ad ogni realtà e le
consente di prescindere dalla caratterizzazione storica che invece viene sostenuta dalla scuola storica
tedesca. Sono corollari di questa impostazione la teorizzazione dell’“uomo economico” 20, il ruolo
centrale del problema della allocazione delle risorse, il comportamento massimizzante dei soggetti e
la convergenza all’equilibrio dei mercati e del sistema economico nel suo complesso. La definizione
canonica dell’economia diventa quella sintetizzata da Lionel Robbins:
“Economics is a science which studies human behavior as a relationship between ends and
scarce means which have alternative uses.”
É interessante notare come in questa definizione l’obiettivo della generalizzazione è parte
integrante di questo approccio e la validità delle leggi economiche da esso derivate è data per
assolutamente condivisa e comprovata:
“The efforts of economics during the last thousand and fifty years have resulted in the
establishment of a body of generalization whose substantial accuracy and importance are
open to question only by the ignorant or the perverse.” 21
In realtà il quadro scientifico della disciplina era tutt’altro che conforme e soddisfacente come
cercheremo di esemplificare.
6. Due approcci alternativi all’economia
l’Istituzionalismo americano.
ortodossa:
la
scuola
storica
tedesca
e
Oltre alle critiche metodologiche avanzate da Marx, che per la verità si rivolgevano ancora
agli economisti “classici”, sono numerose le impostazioni divergenti dal paradigma ortodosso
neoclassico 22. Tra le più significative abbiamo la prima e la seconda scuola storica tedesca e
l’istituzionalismo americano entrambi schierati sulla necessità di riportare l’economia nell’ambito
delle scienze sociali, anche se con prospettive metodologiche abbastanza diverse fra loro. La scuola
storica tedesca nasce in un ambiente tipicamente caratterizzato da una cultura di tipo storicista nella
quale l’assunto di partenza è che:
“the nature of a thing can be understood only by tracing its position and role in the context of
historical development. It derives that historical development can only be assessed relative to
our outlooks or conceptual frameworks, and that these are historical in themselves. […]
20 Secondo
Persky (1995), il primo uso del termine economic man risale a una pubblicazione di J.K. Ingram, A History of
Political Economy del 1888, l’etichetta di homo economicus si diffonderà invece con l’uso fattone da Pareto nel 1906 nel
suo Manuale di economia politica.
21
Robbins (1935). La prima versione del saggio di Robbins è del 1932, tuttavia in letteratura si è soliti considerare la
versione rivista del 1935. Cfr. Caldwell (1982).
22
Si veda in proposito il saggio di Kapp (1976).
11
Consequently any ahistorical and objective standpoint in evaluating human history is
impossible. Thus historical development (and economy too) is viewed as objectively necessary
and governed by its own laws. […] For Hegel this objective process is the self-development of
the world spirit. For Marx this process is purely objective and independent of human agency.
This approach leads to claim that the historical approach is distinct from the naturalistic
approach” 23.
A questi critici era quindi evidente che il processo di enucleazione della scienza economica da
ogni riferimento storico, per farne una scienza nomotetica appariva assolutamente inaccettabile.
Tuttavia se la critica avanzata dalla scuola storica aveva elementi di rilievo, bisogna anche ammettere
che essa non arrivò a formulare una efficace alternativa metodologica, sia per quanto riguarda la
prima formulazione avanzata da Bruno Hildebrand, Wilhelm Roscher e Karl Knies, sia dalla seconda
rappresentata soprattutto da Gustav Schmoller 24. Se quindi la scuola storica poteva segnare con la
propria critica dei punti deboli dell’approccio neoclassico, essa non riuscì ad esprimere alcuna presa
scientifica al di fuori degli ambienti non permeati dalla cultura storicista, anche perché rinviava ad un
futuro imprecisato il momento in cui la conoscenza storica avrebbe prodotto i materiali empirici dai
quali si sarebbe potuto trarre delle valide generalizzazioni 25. Il programma storico avrebbe avuto
bisogno di una poderosa metodologia da contrapporre alla scuola marginalista, ma i suoi esponenti
non affrontarono il problema in modo convincente. Tra l’altro la scuola storica tendeva a rifiutare
l’approccio metodologico empirista dal momento che il modo di considerare la storia per questi
studiosi è rappresentato da una totalità. La realtà non è data da singoli fatti rilevabili attraverso
l’esperienza, come assume il modello empirista, ma da una totalità storica che è l’unica vera
espressione del reale e che rappresenta anche la totalità all’interno della quale acquistano significato i
singoli elementi storici. In sostanza la scuola storica tedesca mostrava che le proprie radici
metodologiche provenivano dall’idealismo. In questo modo però l’approccio storico creava un solco
profondo tra la propria impostazione e la possibilità di verifica empirica delle proprie teorie in quanto
questa verifica veniva rinviata ad una totalità che evidentemente non poteva essere analizzata e
controllata. Con l’approccio empirista vi era una eccessiva presunzione di poter verificare la realtà
come somma di singoli fatti. Con l’approccio idealista i singoli fatti perdono significato costitutivo
che viene rinviato alla totalità storica, che tuttavia risulta indimostrabile e quindi in balia dei
pregiudizi e delle ideologie di cui sono inevitabili portatori i singoli studiosi.
Anche la scuola storica prestava quindi il fianco a critiche rilevanti che non mancarono di
arrivare anche da economisti di cultura tedesca, che ritenevano di dover polemizzare con gli
economisti neoclassici su alcuni punti specifici, ma che si riconoscevano nella necessità di mantenere
uno statuto nomotetico per l’economia, come nel caso della scuola economica austriaca. Questa
scuola, rappresentata soprattutto da Carl Menger, Eugen von Böhm-Bawerk e Friedrich von Wieser,
23 Bunnin
and Yu (2004, 307),
24
Per la verità Schumpeter (1954) accredita l’ipotesi che la prima scuola storica tedesca si sia limitata a una sottolineatura dell’importanza dell’analisi storica, cosa che naturalmente Schumpeter non aveva difficoltà a riconoscere. Di
conseguenza una vera e propria critica all’indirizzo neoclassico deriverebbe solo dall’impostazione di Schmoller. La
“critica del metodo dell’isolamento” avanzata da Schmoller, contro il procedimento applicato tipicamente dalla scuola di
Losanna di Walras e Pareto, non veniva accompagnato da una convincente proposta in positivo. In sostanza la critica di
Schumpeter che classificava l’economista schmolleriano come un “sociologo dalla mentalità storicista” è severo ma non
del tutto ingiustificato.
25 Per
una valutazione diversa da quella data da Schumpeter sulla scuola storica si veda Gioia (2000).
12
apri un’aspra polemica metodologica con la seconda scuola storica tedesca, polemica nota come “la
battaglia dei metodi” (Methodenstreit) che non mancò di mettere in luce i limiti di un approccio
storicista, che rifiutava l’astrazione metodologica in quanto tale, e che ridusse sensibilmente, anche
all’interno dell’area culturale di lingua tedesca, l’attenzione verso la scuola storica 26.
È importante notare che si può parlare di una terza scuola storica, rappresentata soprattutto dal
contributo di Max Weber. L’impostazione di Max Weber è metodologicamente molto più profonda
ed equilibrata di quella degli altri esponenti della scuola storica precedente, alla quale Weber rivolge
numerose critiche 27, e rappresenta una posizione alternativa di alto livello a quella neoclassica. In
particolare Weber non trascura di sottolineare che la verifica di ogni teoria non può che passare
attraverso la verifica dei “fatti”, in questo modo egli prende le distanze da qualsiasi deriva idealista,
anche se tuttavia mette in luce come i “fatti”, specialmente nell’ambito delle scienze sociali come
l’economia e la sociologia, siano aspetti ben più problematici di quanto assuma la visione empirista.
Weber inoltre, criticando la scuola neoclassica che parte da una visione di convergenza all’equilibrio
del sistema economico, contrappose una visione orientata al disequilibrio e al cambiamento,
considerati come degli aspetti essenziali del funzionamento del sistema capitalista 28. Tuttavia la sua
impostazione, basata principalmente sulla teorizzazione del “tipo ideale” come strumento di
caratterizzazione in senso storico di una certa realtà indagata, non arrivò ad influenzare
significativamente il mondo di lingua anglosassone e l’economia in particolare, sia perché i suoi studi
vennero classificati come studi di sociologia o di storia, come ad esempio il suo saggio Die
protestantiche Ethik un der Geist des Kapitalismus, comparso in due parti nel 1904 e 1905, sia
perché la sua teorizzazione avvenne a cavallo della prima guerra mondiale in un momento in cui la
circolazione delle idee risultò sensibilmente ostacolata.
Per contro negli Stati Uniti si era formata un scuola metodologicamente assai lontana
dall’economia pura dell’Europa continentale ed essa, nelle sue prime fasi, venne significativamente
influenzata dallo storicismo tedesco di Schmoller. Siamo alla fine del XIX secolo e gli Stati Uniti
sono nella fase di completamento di una profonda trasformazione economica e sociale 29. Il paese,
dopo le distruzioni prodotte dalla Civil War e la vittoria del Nord, avvia una intensa fase di
industrializzazione guidata dalla espansione ferroviaria e dalla colonizzazione dei territori dell’Ovest.
Ciò porta ben presto ad un prevalere delle attività industriali su quelle agricole e a un processo di
concentrazione della popolazione in aree urbane. Ne deriva una forte polarizzazione del potere
26 Tra
l’altro il confronto tra la scuola tedesca e quella austriaca non aveva solamente come terreno di discussione quello
squisitamente metodologico, ma anche quello politico dal momento che la scuola austriaca era portatrice di una visione
tipicamente liberista, mentre quella tedesca si faceva paladina di un rilevante intervento pubblico orientato ad introdurre
elementi di welfare state all’interno della Germania bismarkiana attraverso un programma socialista riformista (non
marxiano). Con l’accentuarsi degli scontri politici e delle rivendicazioni sindacali prodottesi in Germania nella fase postbismarkiana si ebbe il dissolvimento del movimento dei “socialisti della cattedra” (Kathedersozialisten), movimento
politico socialista riformista nel quale era molto forte la componente rappresentata dai professori di economia politica.
All’interno di questo movimento Schmoller e l’impostazione della scuola storica avevano una posizione di spicco, anche
per il ruolo giocato dall’associazione di studi fondato da Schmoller: Verein für Socialpolitik, di conseguenza il venir
meno di questo movimento politico contribuì ulteriormente ad indebolire la posizione di Schmoller in patria e all’estero.
Cfr. Faucci (1983).
27 Gioia
28 Cfr.
(2000).
Ferrarotti (1965).
29
Dorfman (1955) fissa nel 1877 l’inizio del recepimento degli obiettivi analitici e descrittivi dello storicismo tedesco
con l’incarico conferito dal Trustees of Columbia “to the German-trained Richmond Mayo-Smith to develop economis on
an inductive basis. This was the formal acceptance of the German Historical School in the [American] academic world”.
13
economico in un numero ristretto di trust industriali e di istituzioni finanziarie private. Non occorre
sottolineare che a fronte di questa realtà gli schemi economici tipicamente proposti dall’analisi
neoclassica, basati sulla sovranità del consumatore e su modelli di concorrenza perfetta e di
equilibrio settoriale, appaiono assolutamente inadatti a fornire i riferimenti metodologici necessari
all’analisi della nuova tumultuosa realtà americana. Per contro vi sono fermenti culturali che
convergono verso una elaborazione connessa con la dimensione storica di questo processo 30. Si
segnala innanzitutto: la forte presa del darwinismo che viene coniugato in senso sociale 31, lo sviluppo
degli studi di psicologia sociale e la corrente filosofica del pragmatismo americano 32. Infine ha certamente svolto un ruolo non trascurabile il fatto che in quella porzione di fine secolo non era
infrequente che giovani economisti americani svolgessero una parte dei loro studi in una università
tedesca, alcuni a diretto contatto con Knies e Roscher, e fossero in grado di leggere in lingua
originale le pubblicazioni economiche e politiche del Verein für Socialpolitik.
Per questi giovani studiosi la tumultuosa crescita del capitalismo americano, spesso guidata
da imprenditori senza scrupoli, i cosiddetti robber barons, che non esitavano né di fronte a
spregiudicate operazioni finanziarie, né a ricorrere alla violenza per contrastare le associazioni
sindacali, richiedeva la presenza di uno Stato in grado di regolare lo sviluppo. Occorreva quindi una
economia basata su una analisi concreta della realtà economica americana, che privilegiasse un
approccio induttivo e le tematiche di economia applicata. Soprattutto l’accento venne messo sull’esigenza che la società si dotasse di una serie di meccanismi sociali (istituzioni) in grado: di evitare la
sopraffazione del più debole da parte del più forte e di convogliare le energie di una popolazione in
rapida crescita, anche per il forte flusso di immigrati, verso forme di integrazione sociale. La risposta
a questa esigenza politica e sociale, ma anche culturale, è rappresentata dall’istituzionalismo
americano. Un fenomeno che attinge dalla prospettiva storica dello storicismo tedesco, ma che si
sviluppa in modo autonomo e peculiare.
La prima fase dell’istituzionalismo americano è però tutta concentrata sulla analisi concreta
del divenire storico del paese e non si hanno contributi metodologicamente rilevanti in grado di dare
una ossatura unificante ai contributi dei vari studiosi. Ciò avverrà all’inizio del XX secolo soprattutto
per l’opera innovatrice di Thorstein Bunde Veblen e di John Rogers Commons. La formazione di
Veblen comprende anche degli studi di filosofia a Yale e il suo arrivo ritardato alla carriera
universitaria, peraltro molto contrastata anche per i suoi atteggiamenti personali, lo porta a vaste
letture che rappresentano la base dalla quale Veblen trae gli elementi per proporre una impostazione
radicalmente antitetica a quella degli economisti ortodossi. Da un lato egli non esita a criticare alcuni
aspetti della scuola storica tedesca 33, dall’altro però egli si pone in netta antitesi con l’individualismo
metodologico34, professato dall’economia ortodossa, e con la tesi del comportamento perfettamente
30 Ross
(1991).
31 L’autore
più influente in questo orientamento è William Graham Sumner (1840-1910).
32
Uno degli aspetti più qualificanti del pragmatismo di Charles Sanders Peirce, William James e John Dewey consiste
nella opposizione al razionalismo radicale di origine cartesiana, che da un lato ipotizza una ragione che ha in sé stessa il
meccanismo creativo della conoscenza e dall’altro un mondo materiale pienamente misurabile e conoscibile. Il pragmatismo si sforza invece di recepire la lezione metodologica del darwinismo e sottolinea l’operare delle forze della evoluzione in senso sociale attraverso un processo di sperimentazione pragmatica della realtà.
33 Veblen
(1891, 1901).
34 In economia per individualismo metodologico si intende l’impostazione che rifiuta ogni validità ai comportamenti
collettivi. Secondo questa impostazione abbiamo solo comportamenti individuali e gli asseriti comportamenti collettivi
vanno “smontati” per ricondurli ai comportamenti individuali che stanno alla base. Si veda in favore di questa
14
razionale dei soggetti. Il suo approccio è quello di una “economia evoluzionistica” che si caratterizza
per essere una teoria del processo di cambiamento evolutivo dei rapporti economici interni alla
società. La vita economica è un insieme di fatti rappresentati tanto dai comportamenti dei soggetti,
che sono profondamente influenzati dalle istituzioni (intese come abitudini mentali predominanti),
quanto dalle strutture economiche concrete. La realtà, e quindi anche la realtà economica, è un
processo di mutamento senza sosta, prodotto dal gioco di innumerevoli concause che portano ad una
evoluzione cumulativa irreversibile, opaca agli occhi dell’osservatore, ed endogena 35. Irreversibile
perché ogni nuovo elemento che si aggiunge alla catena causale è un fatto che si colloca in una realtà
peculiare e che produce effetti innovativi; opaca perché l’evoluzione non può essere perfettamente
prevista né spiegata da una razionalizzazione deterministica e teleologica; endogena in quanto
autonoma rispetto all’osservatore. Per Veblen l’attenzione va spostata sul processo di sviluppo
sequenziale e di aggiustamento che gli agenti effettuano di fronte alla sfide dell’ambiente:
“Evolutionary economics must be the theory of a process of cultural growth as determined by
the economic interest, a theory of a cumulative sequence of economic institutions stated in
terms of the process itself”36.
Nell’ottica di un approccio darwiniano l’attore economico è caratterizzato, secondo Veblen,
da un comportamento che è il frutto di un complesso di istinti che si sono sviluppati lungo il processo
evolutivo. Egli non adotta quindi una concezione apriorista e normativa fondata su dei postulati di
razionalità universale dell’azione, come fa l’approccio ortodosso. Egli addotta invece una concezione
pragmatista che assume gli istinti come degli strumenti di controllo e di regolazione messi al servizio
delle esigenze dei singoli:
“À cet égard le “postulat de rationalité” des économistes orthodoxes n’est rien d’autre qu’un
instinct universel postulé de la nature humaine. Il montre que toute hypothèse de travail sur
un élément constitutif de la nature humaine doit être soumise à l’épreuve des faits
anthropologiques et historiques”37.
L’agente vebleniano è influenzato da un instinct of workmansip, elaborato dall’evoluzione e
dalla lotta per la sopravvivenza, che lo spinge a una azione che sia diretta alla massimizzazione del
risultato e alla minimizzazione dello sforzo, ma questi obiettivi acquistano significato concreto solo
all’interno della prospettiva storica nella quale si collocano e non possono essere assunti come
elementi di portata universale né possono dare luogo a regolarità di comportamento di valore
nomotetico. Potremmo dire che in Veblen il processo non è a-razionale, esso ha una sua razionalità
nella misura in cui nella società prevale la capacità di adattamento alla scarsità delle risorse e ai
vincoli della natura attraverso un prevalere del “instinct of workmanship” rispetto a quello del
“conspicous comsumption”. La razionalità non è intrinseca all’azione degli individui ma il risultato
impostazione Hayek (1952). In questo modo un comportamento collettivo corrisponde ad una somma di comportamenti
individuali originari. In realtà la critica epistemologica più aggiornata critica questa impostazione perché se il
comportamento di un singolo è influenzato, come sembra ragionevole assumere, dalle regole sociali presenti in una
società, l’individualismo metodologico finisce per eliminare queste relazioni fra singoli soggetti.
35 Cfr.
Gislain (2000).
36 Veblen
(1891).
37 Gislain
(2000).
15
incerto e problematico del modo nel quale la società riesce a convogliare le azioni verso il lavoro
efficace, verso l’efficienza tecnica e le produzioni socialmente utili, restringendo invece gli spazi
dell’appropriazione guidata da interessi finanziari e da consumi ostentativi. Si tratta quindi di una
razionalità che va costruita e che, secondo Veblen, riesce ad affermarsi solo se nella società prevale
la classe dei tecnici su quella dei finanzieri.
Un secondo importante contributo all’istituzionalismo americano deriva da John Rogers
Commons che si distingue in parte da Veblen. Commons definisce le institutions secondo modalità
molto più vicine a quelle attualmente accolte non solo in economia, ma anche in sociologia e nelle
discipline giuridiche, ma anche nel suo caso la visione nomotetica è considerata fuorviante. Le
institutions sono il complesso di norme e di strumenti di regolazione sociale create dai soggetti per
regolare le reciproche transactions. In questo senso il motore del mutamento sociale non è
rappresentato da un processo di selezione darwiniana sostanzialmente impersonale, ma dal continuo
operare di un processo di negoziazione fra diversi interessi organizzati. Il centro della sua analisi è
quindi rappresentato dalla collective action. È la società che, attraverso l’azione collettiva 38, plasma
sé stessa attraverso la ricerca di successivi punti di temporaneo equilibrio tra gli interessi in gioco.
Dal punto di vista metodologico è interessante notare che Commons ribalta l’individualismo
metodologico privilegiato dall’economia ortodossa. La realtà non va interpretata attraverso una sua
scomposizione negli elementi singoli rappresentati dalle azioni individuali. Al contrario sono le
collective action che precisano il significato delle azioni individuali in quanto ne costituiscono la
cornice e danno ad esse un ruolo e un significato:
“We begin our investigation into economic problems through collective action. Our
experience and observations over sixty years teach us that collective action is inclusive. Other
persons may call this social. But collective action is the general and dominating fact of the
social life. Human beings are born into this process of collective action and become
individualized by the rules of collective action. Thus an institution is collective action in
control, liberation, and expansion of individual action” 39
Per Commons occorre uscire dal rapporto falsamente naturalistico dell’economia “edonistica”
tra l’uomo e la merce per realizzare il passaggio al rapporto sociale o, se si vuole istituzionale, tra
l’uomo e uomo:
“It is this shift from commodities and individuals to transactions and working rules of
collective action that marks the transition from the classical and hedonic schools to the
institutional schools of economic thinking. The shift is a change in the ultimate unit of
economic investigation. The classic and hedonic economists, with their communistic and
anarchistic offshoots, founded their theories on the relation of man to nature, but
institutionalism is a relation of man to man”40
38 Va
notato che anche Commons inizierà la sua maturazione scientifica nel filone dello storicismo tedesco di Schmoller,
ma anch’egli, come Veblen, non tarderà ad allontanarsene per impostare un proprio programma metodologico
caratterizzato molto più in senso sociologico, anche se all’interno di una ricerca estremamente ricca e puntuale sul piano
storico. Cfr. Commons (1950).
39 Commons
(1950, 21).
40 Commons
(1931).
16
Anche in Commons la razionalità sociale è un traguardo da conquistare. Egli attenua l’idea di
una selezione darwiniana nella società e dà una caratterizzazione più pragmatista all’evoluzione
storica la cui qualità è data dalla capacità che le azioni collettive esperite dai diversi gruppi di
interesse si mostrino in grado di creare consenso e di esplicitare soluzioni win-win per il complesso
dei soggetti collettivi. Sia per Veblen che per Commons vi è dunque un problema di adeguatezza
delle azioni sociali rispetto ai vincoli posti dall’ambiente, ma in Veblen l’ambiente ha una curvatura
più naturalistica e un orizzonte di lungo periodo, in Commons l’adeguatezza deve rispondere di più ai
vincoli dell’equilibrio sociale, al contenimento del conflitto in un orizzonte temporalmente meno
esteso.
Va notato che il filone degli studi di indirizzo istituzionale ebbero uno sviluppo assai ampio
negli Stati Uniti 41 e giocarono anche un ruolo politico di grande rilievo dopo la grande crisi del 1929
e durante il New Deal Rooseveltiano, ma dopo la seconda guerra mondiale l’attenzione degli
economisti americani verrà polarizzata dal grande dibattito tra micro-economia e macro-economia
keinesiana e anche al di là dell’atlantico si imporrà la visione tipica dell’economia ortodossa.
7. Ulteriori critiche all’approccio nomotetico dell’economia ortodossa
L’assioma della razionalità del comportamento umano iniziò a essere messo in discussione,
anche all’interno degli economisti di tradizione ortodossa, da qualche isolato contributo negli anni
’30. Il più noto è quello dell’indagine svolta dall’Oxford Economic Research Group e pubblicata da
Hall e Hitch nel 1939 42. Il contenuto del saggio è dedicato ad una indagine empirica sui metodi
seguiti dai dirigenti aziendali nella determinazione del prezzo dei loro prodotti. Secondo lo schema
razionalista il prezzo dovrebbe essere determinato dall’uguaglianza tra il costo marginale e il ricavo
marginale. Gli autori riscontrarono invece che la prassi applicava il metodo del full cost, aggiungendo ad esso un margine di utile. Attorno a questo problema ci fu un certo dibattito, ma l’approccio
nomotetico prevalse facilmente e la conclusione accettata dalla grande maggioranza degli economisti
fu che, come ricordava anche R.F. Harrod nell’articolo introduttivo al saggio di Hall e Hitch 43:
“What is validly vouchsafed by the deductive method is in no need of verification. […] The
theorist properly claims that on the assumption of the profit motive and knowledge on the part
of the entrepreneur the proper line of action is precisely determined. It would appear to him
naïve and otiose to ask an entrepreneur how he would behave in the event of an increase in
demand, since his proper course of action may be read off from the relevant cost and demand
curves which represent his circumstances”
Harrod non intendeva difendere questa impostazione, che veniva presentata proprio per far
emergere il potenziale critico del saggio di Hall e Hitch, ma di fatto fu questa la visione ritenuta e
accettata, da molti tacitamente, da altri in modo esplicito come da Fritz Machlup 44 nel 1946.
41 Hodgson
42 Hall
(2004).
e Hitch (1939).
43 Harrod
(1939).
44
Machlup (1946). Vale la pena di ricordare che la critica portata da Machlup alla superficialità dei dati collezionati da
Hall e Hitch verrà poi puntualmente smentita da ulteriori ricerche empiriche, ma tuttavia alla fine nel convegno del 1952,
dedicato al tema Business Concentration and Price Policy, un economista americano, Heflebower, incaricato di fare da
discussant delle tesi di Hall e Hitch sul full-cost pricing (FCP), sentenziò che nella situazione tipica dei mercati
17
All’inizio degli anni ’50 però la visione nomotetica dell’economia iniziò ad essere messa in dubbio
attraverso la critica derivante da posizioni epistemologicamente molto più solide di quelle implicite
nel lavoro di Hall e Hitch. Esse si basavano su studi che attaccavano direttamente la plausibilità del
comportamento razionale dei soggetti agenti. Dalla sponda europea dell’Atlantico la messa in
discussione della validità delle tesi sul comportamento ottimizzante “della scuola Americana”
derivarono da una ricerca di Maurice Allais presentata in due successivi convegni del 1951 e del
1952 e poi pubblicata l’anno successivo sulla rivista Econometrica 45. Per Allais la “scuola
americana” era tipicamente rappresentata dalla posizione espressa da Friedman e Savage in un saggio
del 1952, centrato sulla misura dell’utilità e sulla costruzione di una expected utility curve 46.
All’inizio le motivate critiche portate dallo studio di Allais non sembrarono produrre molta impressione tra gli economisti ortodossi, e quelli americani in particolare, forse perché presentate in lingua
francese. Tuttavia il seme del dubbio era stato seminato e la sfida verrà raccolta dalla figura più
rappresentativa della scuola dell’ortodossia economica, il professor Milton Friedman della Chicago
University. Il saggio di Friedman 47 può essere considerato una sorta di risposta, anche se indiretta, a
quanti sollevavano critiche all’approccio nomotetico in generale e apparve lo stesso anno di quello di
Allais e costituisce un documento peculiare per molti aspetti. Da un lato il saggio di Allais non viene
citato, né l’autore affronta una qualche confutazione di quella impostazione. In un certo senso si può
dire che Friedman tenti un rilancio a un livello superiore dell’approccio economico ortodosso
definendo i canoni epistemologici che a suo parere contraddistinguono la scienza economica. Gli
aspetti più rilevanti della sua impostazione, ai fini del dibattito circa la valenza nomotetica
dell’economia, sono due tesi fra loro concatenate: una prima, indicata come “tesi del as if”, e una
seconda che riconduce il grado di scientificità di una teoria alla sua capacità di effettuare previsioni
corrette. La tesi “as if” stabilisce che una legge economica per essere validata non deve essere vera,
nel senso di aderire perfettamente all’effettivo comportamento dei singoli soggetti e delle singole
situazioni, ma è sufficiente che sia rappresentativa del comportamento aggregato dei soggetti. La
validità in senso aggregato deriva dalla validità delle previsioni fatte sulla base di un modello che
viene definito a priori e che può essere anche assai lontano da una rappresentazione della realtà.
Inizialmente le tesi di Friedman sembrarono aver dettato l’ultima parola in termini di epistemologia
economica, in realtà l’approccio neoclassico sembrava mantenere una solida posizione per il
semplice fatto che: da un lato l’approccio istituzionalista sembrava ormai superato e, dall’altro, non
era disponibile un approccio alternativo con il quale sostituire il paradigma prevalente. Questa
situazione però maturò di lì a poco e con essa maturò anche una ampia critica metodologica
all’impostazione proposta da Friedman 48.
oligopolistici una scelta ispirata al FCP non è altro che una forma semplificata, ma equivalente, alla massimizzazione del
profitto. Cfr. Mongin (1997).
45 Allais
(1953).
46 Friedman
and Savage (1952).
47 Friedman
(1953).
48
Fra i molti contributi critici alle posizioni espresso da Friedman si vedano: Blaug (1980), Caldwell (1982); Boland
(1982, 1892); Pheby (1988); Guala (2002).
18
8. Dalla perfetta razionalità alla razionalità limitata
L’impostazione alternativa a quella della perfetta razionalità prese corpo dagli studi svolti da
un gruppo di studiosi operanti al Carnegie Mellon tra i quali la figura più rappresentativa è quella
Herbert A. Simon, ma che comprende anche Dick Cyert, Jim March e Harold Guetzkow 49.
L’approccio di Simon nasce dagli studi fatti sul comportamento dei soggetti all’interno delle
organizzazioni quando devono affrontare problematiche complesse aventi un elevato contenuto di
incertezza. In questo genere di realtà il soggetto, a differenza di quanto ipotizza l’impostazione
razionalista che presume una completa informazione 50, non solo non ha una conoscenza deterministica di alcuni elementi del suo problema decisionale, ma non dispone neppure di una distribuzione
di probabilità circa alcuni eventi costitutivi il suo scenario di scelta. In altre parole il soggetto non si
trova né in una situazione di certezza, ma nemmeno in una situazione di rischio (conoscenza della
distribuzione probabilistica degli eventi), ma in una situazione di “incertezza”, secondo la nota
definizione di Knight 51. Pertanto il problema, che secondo l’ortodossia economica consisterebbe nel
calcolo della alternativa ottimizzante, si trasforma in una ricerca delle informazioni utili ad estrarre
gli elementi necessari a calcolare un possibile risultato. Un processo che secondo Simon procederà
fino al punto in cui, sulla base delle informazioni raccolte, l’agente sarà in grado di prefigurare una
soluzione di portata soddisfacente. L’obiettivo non è più l’ottenimento della soluzione massimamente
conveniente, ma il raggiungimento di un livello ritenuto soddisfacente sulla base delle aspettative del
soggetto e sulla sua capacità di strutturazione e acquisizione di informazioni circa il problema da
affrontare. Condensando in una formula il programma simoniano si potrebbe dire che egli intende
sostituire l’economic man dell’impostazione ortodossa con il behavioral man: un soggetto che è
influenzato da una molteplicità di elementi fra cui: la propria esperienza psicologica circa il problema
da affrontare, le skill decisionali già acquisite, le esperienze maturate precedentemente (path
dependence) e i risultati conseguiti in situazioni precedenti che appaiono parzialmente analoghe a
quella da affrontare.
Simon rileva come non esistano le condizioni per un comportamento razionale da parte dei
soggetti che si muovono in una realtà caratterizzata da incertezza e da informazioni incomplete. Il
soggetto ha degli obiettivi di razionalità teleologica, delle personali capacità di lettura delle
caratteristiche dell’ambiente (cognitive limitations) ed ha maturato nel tempo, sulla base delle esperienze passate, delle aspettative (expectations) di carattere soggettivo sulla raggiungibilità dei suoi
obiettivi. Infatti il soggetto è sottoposto a una serie di vincoli e di stimoli da parte dell’ambiente nel
quale è immerso, e ad esso reagisce attraverso una ricerca iterativa di una soluzione (problem
solving) che soddisfi le sue aspettative. Si tratta di un comportamento euristico che prevede una
49 Cfr.
Egidi (2005).
50
Come sottolinea Simon la possibilità di una scelta razionale è condizionata da: a) la possibilità di individuare tutte le
alternative di scelta, b) la capacità di individuare tutte le fasi nelle quali ogni alternativa si articola, c) la conoscenza
puntuale di ciascun pay-off associato a ogni alternativa, d) un sistema di preferenze del soggetto decisore chiaramente
definito, che consenta di calcolare il saldo tra vantaggi e svantaggi derivanti dalla realizzazione di ciascuna alternativa, e)
la disponibilità di tutta la capacità di calcolo necessaria a selezionare la soluzione ottimale. Simon (1955), Cyert et al.
(1956).
51
In questa sede non si ritiene necessario considerare le molteplici configurazioni di incertezza che derivano dai diversi
gradi di ignoranza circa le possibili modalità di manifestazione degli eventi derivanti dalla decisione, in quanto tutte
queste diverse forme di incertezza precludono un comportamento perfettamente razionale. Ad esempio si può non
conoscere la probabilità degli eventi, ma può darsi che non si riesca neppure a prefigurare i possibili eventi. Su questa
problematica si veda oltre a Knight (1921), North (2005) e Langlois (2007).
19
revisione al ribasso o al rialzo delle aspettative in funzione dei risultati del processo di ricerca. La
ricerca ha termine quando le aspettative sono state raggiunte (satisficing attitude) senza raggiungere
una situazione di ottimizzazione della scelta, dal momento che non esistono le condizioni per farlo e
che comunque il soggetto non è in grado di sapere se ha raggiunto questo risultato ottimizzante né ex
ante, né ex post.
Come si comprende questa posizione dà una coloritura molto più sociale e psicologica al
comportamento economico dei soggetti e, pur muovendosi in un quadro che sottolinea l’esperienza,
sfuma la valenza nomotetica delle teorie e l’ambizione di trovare leggi “universali”, senza però per
questo entrare in una prospettiva da “scuola storica”. Il punto di attacco di Simon contro chi assume
di poter ragionare in termini di razionalità perfetta e di ottimizzazione delle scelte è rappresentato
dalla critica al “determinismo della situazione”:
“The classical theory of omniscient rationality is strikingly simple and beautiful. Moreover, it
allows us to predict (correctly or not) human behavior without stirring out of our armchairs
to observe what such behavior is like. All the predictive power comes from characterizing the
shape of the environment in which the behavior takes place. The environment, combined with
the assumptions of perfect rationality, fully determines the behavior”52.
In questo modo però, critica Simon, si trascura di considerare le diverse psicologie degli attori
e le loro capacità di analisi cognitiva. I soggetti possono avere diversi livelli di propensione al
rischio, diversi sistemi di raccolta delle informazioni, diversi livelli di aspettative. Non è quindi
possibile ragionare ancora in termini di leggi, ma piuttosto di regole che vanno articolate secondo le
concrete situazioni. Potremmo dire che con Simon, e con la grande maggioranza degli economisti
della seconda metà del XX secolo, prevale in economia una sorta di “pensiero debole” basato su
concatenazioni ipotetico-deduttive da validare attraverso i riscontri dell’esperienza 53, ma questa
impostazione di ricerca non produce “leggi” come in precedenza si ambiva, ma regole euristiche utili,
ancorché parziali e imperfette, che vanno affinate nel tempo anche per tener conto dell’evolvere delle
situazioni storiche. La storia centra, ma si rifiuta una visione storicista. Un altro aspetto di particolare
rilievo dell’impostazione di Simon riguarda il principio di razionalità che vale ancora ma che passa
dalla razionalità ottimizzante alla razionalità procedurale. Teleologicamente i soggetti cercano di approssimarsi alla razionalità, ma lo fanno applicando delle regole procedurali applicate all’obiettivo di
ottenere un risultato soddisfacente.
In questo senso mi pare si possa dire che l’approccio della bounded rationality rappresenti un
tentativo di individuare il massimo di razionalità che è possibile esperire in una realtà complessa,
caratterizzata da interazione fra soggetti aventi interessi anche divergenti e operanti in situazioni di
incertezza. In un certo senso l’analisi di Simon, e di chi si riconosce nella sua impostazione, è una
analisi che presenta una coloritura normativa. L’analisi parte in un ottica positiva, allo scopo di
comprendere come effettivamente si comportino i soggetti in situazioni realistiche, ma si tratta di
soggetti (o istituzioni come l’impresa) che hanno un marcato interesse a selezionare il comportamento più efficace ed efficiente, anche se se sono consapevoli che solo per un caso favorevole, da
loro non individuabile a priori, la loro linea d’azione risulterà ottimizzante. In questo senso lo schema
52 Simon
(1978).
53
In questa elaborazione resta fermo il punto che pretende di tener separati soggetto che analizza e oggetto analizzato,
vale a dire “teorie” e “fatti”.
20
Simoniano non può essere assimilato al calcolo di un ottimo vincolato (optimization under
constraints) come cercarono di accreditare alcuni studiosi interessati a ricondurre l’impostazione
della bounded rationality nell’ambito dell’economia ortodossa. Nel contempo però l’approccio di
Simon va anche tenuto nettamente distinto da certe posizioni espresse dall’approccio cognitivo come
è argomentato con chiarezza da Gigerenzer quando sottolinea che la “bounded rationality is not
represented by cognitive illusions and anomalies” 54.
9. Teoria neoclassica e teoria behaviorista dell’impresa
Il complesso dei postulati caratterizzanti l’approccio economico ortodosso configura una impresa che
si riduce a una funzione di produzione. Come sottolinea anche Latsis (1972) l’adesione ad una
configurazione di situational determinism elimina la possibilità che l’impresa esprima una propria
strategia competitiva: 55:
“The application of this approach to the theory of the firm resulted, after a series of
refinements, in the following set of assumptions which constitute the ‘hard core’ of the
neoclassical theory of the firm:
i. Profit Maximization.
ii. Perfect knowledge.
iii. Independence of decisions.
iv. Perfect market.
The simplest exemplification of situational determinism is the perfectly competitive situation.
The perfectly competitive model is characterized by the hard core postulates (i-iv) as well as
by several auxiliary assumptions, namely, product homogeneity, large numbers [of buyers
and suppliers] and free entry and exit. Under the conditions characterising perfect
competition the decision maker’s discretion in choosing among alternative courses of action
is reduced simply to whether or not to remain in business”.
La rilevanza del determinismo situazionale sta proprio nel fatto di eliminare l’impresa in
quanto realtà sociale complessa, composta al proprio interno da una pluralità di livelli decisionali e di
interessi distinti per ridursi ad una semplice funzione di produzione.
Come è noto larga parte degli studi di economia hanno accantonato l’impostazione tipica
derivante dalla scuola di Losanna di Walras e Pareto, ma si deve sottolineare che il riorientamento
che ne è derivato non ha intaccato né il postulato della razionalità né la prospettiva nomotetica che ne
deriva. Anche a seguito dei profondi mutamenti di impostazione questa base nomotetica resta,
implicitamente, ma metodologicamente presente ed attiva. Basti pensare come anche negli studi di
industrial organization sviluppati dalla Scuola di Harvard negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale da economisti come Edward S. Mason e da Joe S. Bain, il comportamento dell’impresa
risulta desumibile in misura assolutamente prevalente dal “determinismo della situazione”. Questa
54
Si veda Gigerenzer (2004) e la distanza che egli traccia tra l’approccio della bounded rationality e l’approccio
cognitivo espresso ad esempio da Camerer (1995), Rabin (1998), e Kaufman (1999). Gigerenzer sottolinea che con le
parole di Camerer: “the goal is to test whether normative rules are systematically violated and to propose alternative
theories to explain any observed violation” (Camerer 1995, 588) […] si vira la logica del comportamento umano verso
l’irrazionalità.
55 Latsis
(1972).
21
impostazione condurrà alla elaborazione del modello “Structure-Conduct-Performace” (SCP) che
ancora oggi caratterizza larga parte della produzione scientifica inerente alla Industrial Organization
e agli studi di strategia d’impresa. In quest’ultimo caso il riferimento più consueto riguarda l’analisi
svolta da Porter a partire dal 1980 in Competitive Strategy e anche recentemente riconfermata nel
recente saggio del 2008 The Five Competitive Forces That Shape Strategy. Come cercheremo di
motivare più ampiamente in seguito, il mantenimento di un determinismo situazionale, anche se
parzialmente attenuato come nel caso di Porter, produce l’effetto di espungere in prima battuta
l’esigenza di una analisi della dinamica interna all’impresa e della sua realtà organizzativa, intesa in
senso lato, e, in seconda battuta, l’esigenza di dare un referente storico determinato all’impresa.
L’esigenza di sostituire l’homo œconomicus con un homo heuristicus, o se si vuole:
l’economic man con il behavioral man porta con sé anche l’occasione per il passaggio dalla
neoclassical theory of the firm alla behavioral theory of the firm. Il programma scientifico del lavoro
di Richard M. Cyert e di James G. March del 1963 traspare nettamente fin dalla introduzione al loro
testo: 56
We believe that, in order to understand contemporary economic decision making, we need
to supplement the study of the market factors with an examination of the internal operation
of the firm – to study the effects of organizational structure and conventional practice on the
development of goals, the formation of expectations, and the execution of choices.
In sostanza i due autori, sviluppando quanto già indicato da Simon 57 con la sua critica alla
razionalità strumentale dell’economia ortodossa e l’elaborazione in positivo svolta in Administrative
Behavior, arrivano a proporre una teoria che cerchi di integrare sia la parte “esterna” che quella
“interna” dello scenario economico dell’impresa. Si tratta di un passo avanti di fondamentale
importanza, anche se mi pare evidente che il frutti di questo lavoro resteranno inutilizzati molto a
lungo e riemergeranno prima in una versione evoluzionista nella programma di ricerca di Richard R.
Nelson e Sidney G. Winter proposto in An Evolutionary Theory of Economic Change e ancora più
tardi nella teorizzazione applicata agli studi di strategia d’impresa indicati come resource-based
strategy 58.
Per la verità il tentativo mirato da Cyert e March di integrare studio dei fattori di mercato con
un esame delle attività operative interne all’impresa risulterà gravitare, anche nei contributi
successivi di questo filone, più sugli aspetti organizzativi interni dell’impresa che sulla integrazione
degli aspetti interni ed esterni all’impresa. La mia opinione è che questa limitazione di prospettiva sia
essenzialmente dovuta ad una sorta di preferenza per le teorie generali e a un senso di horror
historiae che ha molto in comune con l’antico horror vacui che risale ad Aristotele, ma che era
presente anche tra gli scienziati del XVII secolo. L’horror historiae deriva dal fatto che la
caratterizzazione storica di una teoria la declassa da “legge” comprovata, indiscutibile e universale a
“regola”, utile, ma imperfetta e provvisoria. L’horror historiae equivale a un orrore per
l’imperfezione delle nostre scienze (e per quelli sociali in particolare) che lo scienziato non intende
accettare. Inoltre il rifiuto della caratterizzazione storica ha anche un valore eminentemente pratico in
56 Cyert
and March (1963, 1-2).
57 Simon
(1957).
58
Questi studi, che si basano sulla teorizzazione iniziale di Edith Penrose (1959), verranno ripresi e sviluppati
ulteriormente nell’ambito dello strategic management. Si vedano fra gli altri: Prahalad and Hamel (1990), Barney (1991,
2001), Grant (1991, 2002), Mahoney and Pandian (1992), Peterlaf (1993).
22
quanto, se si entra nella dimensione storica, essa richiede una difficile e complessa integrazione
teorica che genera una molteplicità di difficoltà delle quali due mi sembrano le più rilevanti: una di
natura pratica, l’altra di natura metodologica. La difficoltà di natura pratica consiste nel fatto che se si
vuole dare una dimensione storica all’analisi che si intende svolgere occorre elaborare un modello
almeno descrittivo della realtà nella quale l’impresa si trova ad operare e ciò complica enormemente
il lavoro del ricercatore dal momento che occorre introdurre una sorta di nuova dimensione
rappresentata dall’evolvere nel tempo sia dell’assetto dei mercati, sia di quello delle aspettative, dei
valori, degli obiettivi dei singoli e dei gruppi che agiscono all’interno dell’impresa. Sul fronte
metodologico l’introduzione di un ulteriore asse di riferimento pone il problema di elaborare gli
strumenti teorici propri di altre discipline come la sociologia e la psicologia. In parte il fronte
sociologico può essere espresso dalla visione istituzionalista dell’impresa, soprattutto nell’approccio
elaborato da Commons e da altri economisti istituzionalisti come Douglass C. North, ma quello
psicologico richiede invece un ulteriore contributo che consenta di assumere oltre alla prospettiva
dell’homo euristicus anche quella dell’homo cogitans. Si tratta di un programma di ricerca che nasce
anch’esso, come quello behaviorista, in opposizione alla limitatezza del razionalismo strumentale e
che intendiamo sintetizzare brevemente per cercare di costruire uno scenario sufficientemente
esaustivo delle istanze metodologiche in campo.
10. L’approccio cognitivo
L’approccio cognitivo prende le mosse da una constatazione inoppugnabile. Se l’economia
tratta dei problemi concernenti il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo è improponibile che
l’economia non si rivolga a un polo fondamentale della concettualizzazione del bisogno umano che è
rappresentato dalla mente. L’economia ortodossa attraverso l’uso del concetto di razionalità,
trasforma i bisogni in un dato. Un dato che l’economia riceve dalla struttura dei prezzi che
caratterizzano le merci. I bisogni diventano qualcosa di facile lettura attraverso il sistema dei prezzi
come viene determinato dalla Teoria dell’equilibrio economico generale. Ed anche quando la Teoria
dell’equilibrio economico generale viene abbandonata, e con essa anche il modello di concorrenza
perfetta, ciò non comporta affatto uno sforzo di integrazione del comportamento dell’agente sul piano
psicologico.
È quindi giustificato lo stupore con il quale uno studioso dei processi mentali rivolti alle
scelte di natura economica, come Daniel Kahneman, guarda all’impostazione tipica dell’ortodossia
economica:
“My first exposure to the psychological assumptions of economics was in a report that Bruno
Frey wrote on that subject in the early 1970's. Its first or second sentence stated that the agent
of economic theory is rational and selfish, and that his tastes do not change. I found this list
quite startling, because I had been professionally trained as a psychologist not to believe a
word of it. The gap between the assumptions of our disciplines appeared very large indeed.
Has the gap been narrowed in the intervening 30 years? A search through some introductory
textbooks in economics indicates that if there has been any change, it has not yet filtered down
to that level: the same assumptions are still in place as the cornerstones of economic
analysis”.
23
La conseguenza posta in luce da Kahneman è che la “stabilità” della scienza economica
ortodossa nel restare aggrappata alle proprie premesse di fondo rende estremamente difficile un
processo di integrazione scientifica dei due punti di vista. Da un punto di vista psicologico le
tradizionali assunzioni dell’approccio ortodosso sembrano tanto semplicistiche quanto fuorvianti.
Secondo Kahneman esse appaiono motivate dall’esigenza di restare ancorate al nucleo centrale del
pensiero economico e a suo avviso ciò vale anche nel caso della behavioral economics.
“The models of behavioral economics cannot stray too far from the original set of
assumptions. Another consequence is that theoretical innovations in behavioral economics
may be destined to be noncumulative: when a new model is developed to account for an
anomaly of the basic theory, the parameters that were modified in earlier models will often be
restored to their original settings” 59.
La critica svolta da Kahneman è stata assai importante nello scalzare le basi teoriche del
modello della razionalità neoclassica, perché ha saputo scendere sul terreno proprio dell’economia
attraverso una serie di esperimenti controllati che hanno potuto mostrare come gli assunti di questa
razionalità, strenuamente difesi da Milton Friedman e dai suoi epigoni entrassero fra loro in
contraddizione e dovessero quindi essere abbandonati 60. Tuttavia a me pare che la critica dal punto
di vista cognitivo, di per sé utile e necessaria, non metta sufficientemente in luce il fatto che il terreno
dal quale la scienza economica, anche quella declinata in forma behaviorista, evita innanzitutto
l’esigenza di uno sviluppo in senso storicamente determinato della propria teorizzazione. Questa
esigenza ovviamente è molto meno sentita da un approccio cognitivista, dal momento che nella
teorizzazione degli autori che si riconoscono nell’indirizzo cognitivista è sempre presente una sorta
di riduzionismo psicologico. Se il comportamento dei soggetti dipende da un lato dai bisogni e dai
valori del soggetto e, dall’altro, dalla rappresentazione mentale con la quale l’agente struttura la
realtà che lo circonda, risulta abbastanza naturale che un approccio psicologico cerchi molto più
all’interno di sé stesso che all’esterno, e nella società in particolare, le determinanti del proprio
comportamento.
Per un verso è vero, come sottolinea Bertrand Walliser, che il termine “cognitif” suggella
l’alleanza del mentale e del temporale, ma è anche vero che in questo caso il termine temporale viene
assunto in una mera definizione di una distanza tra un prima e un dopo. Nell’approccio cognitivo non
abbiamo l’esigenza di introdurre la dimensione della storia quanto solamente l’esigenza di marcare
uno scorrere del tempo che consenta di temporizzare le trasformazioni che si manifestano nella
rappresentazione che il soggetto fa del proprio scenario di riferimento:
A l’ “homo œconomicus” succède l’”homo cogitans/adaptans” qui, par un cheminement
bouclé, ajuste ses croyances aux observations réalisées sur un contexte qui fluctue sous
l’influence de ses propres actions modulées par ses croyances. Le development du programme
de recherche cognitiviste s’est effectué […] par un déplacement de l’objet d’étude des
influences externes a l’acteur vers sa délibération interne” 61
59 Kahneman
60 Si
(2003).
veda in proposito l’analisi di Egidi e Rizzello (2003) e Egidi (2005).
61 Walliser
(2000, 8).
24
Nell’analisi cognitiva il rischio di un riduzionismo psicologico è marcato. Come ha
sottolineato Simon (1990):
Bounded rationality is like a pair of scissors: The mind is one blade, and the structure of the
environment is the other. To understand behavior, one has to look at both, at how they fit. In
other words, to evaluate cognitive strategies as rational or irrational, one also needs to
analyze the environment, because a strategy is rational or irrational only with respect to an
environment, physical or social”.
Invece, secondo l’analisi di Gigerenzer (2004), che mi pare corretta, l’analisi cognitiva si
concentra solo sul lato mentale del soggetto, trascurando la struttura dell’environment. Questo rischio
mi pare ancora più accentuato se ci si riferisce alla teoria dell’impresa. In quanto l’homo cogitans,
considerato esclusivamente nella sua dimensione cognitiva, rischia di trovarsi sostanzialmente
disallineato con le prospettive proprie di una organizzazione come l’impresa. L’homo heuristicus è
un soggetto certamente consapevole dei suoi limiti, e quindi lontano dallo schema astratto della
razionalità strumentale, ma che, soprattutto in una prospettiva normativa come quella assunta
nell’analisi del comportamento strategico della impresa, sviluppa un decision-making orientato
comunque ad una ricerca di razionalità anche se si tratta di una bounded rationality. I soggetti
dell’organizzazione sono portatori di propri interessi e hanno quindi comunque una tensione verso
l’esigenza di orientare la dinamica d’impresa verso una evoluzione a loro stessi favorevole e nel
contempo ciò vale anche per l’impresa nel suo complesso che deve comunque rispondere alla sfida
competitiva e può farlo solo nella misura in cui interpreta correttamente l’evoluzione dell’ambiente, e
le capacità proprie e della concorrenza di soddisfare le esigenze dei consumatori. Un approccio
cognitivo che si chiuda all’interno delle sole determinanti psicologiche della mente appare quindi
inadatto a consentire un significativo passo avanti rispetto alla razionalità strumentale, anche se è in
grado di svolgere una efficace critica nei suoi confronti. L’approccio cognitivo rischia di essere
altrettanto unilaterale di quanto non sia un approccio economicista come quello dell’economia
ortodossa. Ciò avviene nel momento in cui si sostenga che il comportamento dei soggetti non è
affatto ispirato dalla ricerca di criteri di razionalità ma sia totalmente rinchiudibile dentro delle scelte
ispirate da comportamenti irriflessivi o da un radical behaviorism alla Skinner. Pertanto mi pare più
corretto che l’approccio economico resti fondamentalmente ancorato a una ricerca avente un
obiettivo di ottimizzazione e di razionalità teleologica anche se parziale. Solo se si accetta l’interesse
del soggetto a cercare scelte razionali, anche sapendo che questa ricerca non potrà mai dirsi
completata, sia per carenze di informazioni, sia per la continua mutabilità delle condizioni di
mercato, sia per il gioco delle interdipendenze fra le scelte dei diversi attori sociali, l’economia
conserva una propria peculiarità che la caratterizza rispetto a tutte le altre discipline scientifiche.
Rinunciare all’economia, sostituendola con la psicologia, vorrebbe dire assumere una
impostazione secondo la quale i soggetti non possono nemmeno cercare di essere razionali rispetto ai
mezzi (le risorse disponibili). Ciò equivarrebbe a negare la possibilità di costruire una scienza del
comportamento economico: o perché non esiste alcun criterio di discriminazione fra comportamenti
“giusti” o “sbagliati” sul piano economico, o perché i soggetti in realtà non sono affatto liberi di
scegliere, ma si comportano come la loro matrice biologica impone (radical behaviorism) di fronte
agli stimoli dell’ambiente esterno. Al contrario se si assume che i soggetti abbiano dei margini di
scelta allora ha senso interrogarsi su come sia possibile costruire delle regole che migliorino la
qualità della scelta. L’economia è la scienza che cerca di elaborare regole in grado di giudicare la
25
qualità della scelta. In questo senso bisogna stare attenti che la critica al razionalismo, inteso come
critica dell’assunzione di un comportamento perfettamente razionale da parte del soggetto decisore
non si tramuti in una critica alla ricerca della razionalità. Poiché la perfetta razionalità è
irraggiungibile ciò non deve farci assumere che tutte le decisioni si equivalgono in quanto tutte
egualmente irrazionali.
Il passaggio da realizzare è rappresentato da una adeguata considerazione di ciò che è interno
ed esterno all’uomo, e nel contempo di ciò che è interno ed esterno all’impresa. Il concetto di
razionalità da costruire è quello di una razionalità euristica in quanto orientata da un approccio
teleologicamente razionale, un approccio che continuamente elabora nuove soluzioni in una continua
ricerca, anche se inesorabilmente imperfetta, di una razionalità irraggiungibile. In sostanza la piena
razionalità euristica mi pare l’unione della Procedural rationality con la Expressive rationality
definite da Shaun Hargreaves (1989).
In altre parole la bounded rationality di Simon non è ancora la piena razionalità euristica che
serve alla scienza economica e alla teoria dell’impresa 62 in quanto essa non viene ancora
storicamente situata. Il salto verso una piena razionalità euristica richiede una determinazione storica
dell’ambiente nel quale si colloca sia l’agente che l’impresa.
11. La teoria dell’impresa basata su un approccio competence-based
Già i modelli d’impresa successivi a quello taylorista-fordista avevano iniziato a mettere in
luce come il vantaggio competitivo derivasse in via generale da una capacità dell'impresa di mettersi
in relazione con il mercato e di controllare dei sistemi di organizzazione dei processi di produzione di
beni e servizi. Da allora è divenuto sempre più evidente che il vantaggio competitivo dell'impresa si
configura come la capacità di creare nuove conoscenze ed elaborare informazioni (sulla clientela, sui
concorrenti, sulle tecnologie, sulle risorse) e di tradurle in forme organizzate di produzione. Quindi la
competitività dell'impresa è il risultato della capacità di incorporare nelle proprie attività: scienza
(informazioni sulle regole di funzionamento dei sistemi fisici e sociali) e conoscenza (informazioni
sugli stati dei sistemi fisici e sociali, sulle esigenze dei soggetti, sulle modalità tecniche con le quali
produrre i beni richiesti). Molto spesso il risultato di queste attività è dato da un "prodotto", vale a
dire da un qualcosa di materiale. Ma questa circostanza non deve farci dimenticare che il "prodotto"
rappresenta il risultato di una "prestazione immateriale" dell'impresa rappresentata dalla sua capacità
di incorporare e produrre scienza e conoscenza. Quindi il vero differenziale competitivo fra imprese
si trova (e si produce nel tempo) a questo livello più che a quello della produzione di beni e servizi.
62
Mi sembra che lo Stesso Simon fosse convinto della necessità di fare un passo avanti rispetto alla bounded rationality
come risulta da una sua lettera riprodotta in Gigerenzer (2004): “I have never thought of either bounded rationality or
satisficing as precisely defined technical terms, but rather as signals to economists that they needed to pay attention to
reality, and a suggestion of some ways in which they might. But I do agree that I have used bounded rationality as the
generic term, to refer to all of the limits that make a human being’s problem spaces something quite different from the
corresponding task environments: knowledge limits, computational limits, incomparability of component goals. […]I
guess a major reason for my using somewhat vague terms—like bounded rationality—is that I did not want to give the
impression that I thought I had “solved” the problem of creating an empirically grounded theory of economic
phenomena. What I was trying to do was to call attention to the need for such a theory—and the accompanying body of
empirical work to establish it—and to provide some examples of a few mechanisms that might appear in it, which already
had some evidential base. There still lies before us an enormous job of studying the actual decision making processes that
take place in corporations and other economic settings”.
26
Sul piano dello sviluppo economico era inevitabile che il processo di industrializzazione
iniziato nel secolo XVIII si concentrasse prima in quelli che sono indicati come "bisogni primari",
bisogni che sono tipicamente soddisfatti da beni materiali: cibo, vestiario, abitazioni e arredi, ecc.,
per poi riservare sempre maggior attenzione alla produzione di servizi. Inoltre il processo di
industrializzazione, che portava fra l'altro alla formazione di sistemi organizzati per la produzione di
beni (le imprese) avvenne attraverso l'applicazione di un sistema di informazioni e conoscenze che
pre-esisteva rispetto alle imprese e che era maturato durante secoli di ricerche e di sperimentazioni
fatte al di fuori del sistema produttivo e delle imprese. Questa particolare evoluzione ha avuto
l'effetto di far percepire agli studiosi del processo di industrializzazione che la scarsità non
riguardava le conoscenze che stavano alla base del processo che stava realizzandosi, ma i beni che
provenivano dalle applicazioni di quelle conoscenze. In altre parole si consideravano scienza e
conoscenza come perfettamente distribuite e pienamente disponibili da parte di tutti 63.
Il passaggio alla concettualizzazione di un modello d’impresa, e più in generale di un sistema
economico in cui la conoscenza diviene il più importante fattore di sviluppo e di competitività, pone
però tutta una serie di problemi concettuali che sono tuttora in fase di esplorazione. Ciò deriva dal
fatto che la conoscenza, considerata sia nella sua dimensione scientifica (spiegazione dei fenomeni
ovvero know-why), che nella sua dimensione tecnica (conoscenza relativa al modo di operare per
ottenere un certo risultato, ovvero know-how), è una risorsa del tutto peculiare, che non rispetta le
regole dell’economia classica nel senso che essa ha un “costo di produzione” ma una volta prodotta
può essere “riprodotta” a costi molto bassi se non nulli e quindi condivisa senza che dia luogo al
meccanismo della scarsità che regola invece gli altri fattori produttivi (capitale, terra, lavoro). Inoltre,
poiché la nuova conoscenza in grado di creare valore è sempre più complessa e articolata, essa
sempre più difficilmente può essere acquisita da un solo soggetto o da una sola organizzazione, sia
che si tratti di un centro di ricerca o di un’impresa. Quindi la conoscenza è un qualcosa di distribuito
e non facilmente concentrabile. Tanto più che le conoscenze, sia quelle di tipo know-why che quelle
know-how si prestano molto spesso ad essere trasferite e moltiplicate in ambiti diversi da quelli nei
quali esse hanno avuto origine. Vi è quindi una elevata possibilità di trasferimento delle conoscenze,
soprattutto se gli operatori, nel nostro caso le imprese, hanno la capacità di costituire delle “filiere
cognitive” vale a dire delle reti di imprese in grado di dividersi il lavoro cognitivo e di comunicarsi
reciprocamente i risultati conseguiti, attraverso l’uso di linguaggi condivisi. Infine l’unione di due
conoscenze complementari può generare un valore nettamente superiore al valore somma delle due
conoscenze singole producendo delle sinergie di notevole importanza 64.
Il cambiamento di prospettiva per l’analisi economica, insito nel passaggio ad un modello
basato sulla conoscenza, è particolarmente elevato in quanto mutano profondamente le basi su cui in
precedenza si costruiva la competitività dell’impresa. Ad esempio il fattore dimensionale si riduce
considerevolmente d’importanza a favore della qualità dei processi di apprendimento, alla possibilità
di inserirsi in numerose filiere cognitive, alla capacità di propagare verso altri operatori (impreseclienti e consumatori) la conoscenza acquisita. Analogamente è sempre meno la proprietà delle
risorse a determinare le possibilità espansive dell’impresa quanto piuttosto la capacità di cogliere e
padroneggiare il complesso delle conoscenze che circolano nell’ambiente economico e sociale.
63
In proposito la prima analisi di Schumpeter del processo innovativo (il modello cosiddetto “paleo-schumpeteriano”) si
basava appunto sulla distinzione tra invenzione e innovazione proprio per poter presupporre un ruolo imprenditoriale
limitato alla innovazione. Cfr. Volpato (2008a).
64
Sull’argomento si veda Rullani (2004a, 2004b)
27
Queste considerazioni non vanno lette nel senso di togliere totalmente significato ai differenziali
competitivi tradizionali: economie di scala, economie di specializzazione, economie di scopo,
economie di apprendimento, quanto piuttosto in quello di reinterpretarle cogliendo il fatto, prima
trascurato, che si tratta di forme elaborate a partire da una risorsa base rappresentata da scienza e
conoscenza incorporate nell’impresa, ma anche nella rete di relazioni che una singola impresa riesce
ad instaurare sia a monte, verso i fornitori, sia a valle verso i clienti-utilizzatori.
Probabilmente il merito di aver sottolineato per prima l’importanza di questi fenomeni e di
averli inseriti nella teoria dell’impresa spetta a Edit Penrose (1959), ma Foss (1998) sottolinea come
anche in Veblen vi siano elementi che riconducono ad una analoga lettura del ruolo dell’impresa.
12. Per l’elaborazione di una dimensione storica nell’economia
Finora l’analisi proposta si è rivolta essenzialmente ad una ricostruzione storica e metodologica molto sintetica degli approcci economici allo scopo di metterne in luce gli aspetti
problematici. Con questo paragrafo si inizia a mettere a fuoco come l’evolvere del sistema
economico e l’affermarsi delle conoscenze d’impresa come fattore competitivo centrale impone una
più marcata caratterizzazione dell’economia in senso storico. Qui non si intende affatto entrare
nell’impostazione metodologica della scuola tedesca, piuttosto riconoscere le specificità
dell’economia in quanto scienza sociale che mira alla scoperta e interpretazione di regole prive di una
valenza nomotetica in quanto accettate come teorie giustificate solo all’interno dell’ambiente storico
che le caratterizza. È importante notare che questa impostazione non è originale, nel senso che sono
molti gli autori che si dichiarerebbero a favore della caratterizzazione dell’economia nel senso sopra
menzionato. Tuttavia, a mio avviso, l’accettazione di questo approccio non è accompagnato da una
metodologia che cerchi di mostrare il diverso modo di fare economia che dovrebbe essere assunto
coerentemente con queste premesse metodologiche. Infatti dovrebbe essere evidente che assumere
una prospettiva economica in chiave storica non può limitarsi ad inserire qua e là alcuni riferimenti
storici, occorre molto più. Il prosieguo del documento mirerà appunto ad elaborare alcuni degli
elementi di metodo necessari a caratterizzare l’approccio proposto e questo verrà fatto ha partire
proprio dall’esigenza di mutamento che ormai tutti avvertono nella teoria dell’impresa, vale a dire nel
nucleo centrale di ogni disciplina facente parte della Managerial Economics, che deve saper integrare
al proprio interno il ruolo delle competenze, ovvero quello delle competence-based theory.
Il punto centrale del passaggio da una teoria dell’impresa in cui la conoscenza è un fatto
esogeno e pre-esistente, a quello in cui la elaborazione di competenze è l’attività fulcro della
competitività delle imprese e, attraverso di esse dell’intera economia, è dato dal fatto che è difficile
immaginare qualcosa che sia in misura più marcata un prodotto storico e sociale di quanto siano le
competenze. Con l’approdo ad una teoria dell’impresa centrata sulle competenze cessa ogni
possibilità di restare all’interno di un paradigma nomotetico. Nulla è più sociale e storicamente
determinato della scienza e della conoscenza e di conseguenza la ricerca di leggi nomotetiche deve
essere definitivamente abbandonata e si pone l’esigenza di un nuovo programma di ricerca
focalizzato sulla individuazione di eventuali regole economiche imperfette e storicamente
determinate.
Con questo ulteriore passaggio la teoria dell’impresa di riferimento è diversa da quella
behaviorista alla Simon, in quanto la razionalità sottostante non è quella dell’individuo, ma richiede
una razionalità che sarà anch’essa limitata, ma socialmente (e quindi storicamente) determinata. I
28
limiti della bounded rationality di Simon ed anche le versioni di evolutionary rationality di Nelson e
Winter rappresentano un giusto distacco dalla razionalità assoluta del modello neoclassico, ma si
arrestano in anticipo rispetto all’esigenza di arrivare ad una elaborazione della razionalità economica
intesa in senso socialmente 65 e storicamente definito. Il nuovo approccio che si rende necessario
potrebbe anche essere indicato come istituzionalismo, ma deve essere chiaro che si tratta di un istituzionalismo nel quale la dimensione storico-sociale è assolutamente necessaria per dare un significato
specifico all’economia e alla teoria dell’impresa. Se l’indagine economica consente di trarre qualche
modesta generalizzazione la sua validità (limitata) è comunque confinata all’interno della
caratterizzazione storico-sociale in cui si colloca. Infatti come sarebbe possibile parlare di
competenze firm-specific se contemporaneamente non si accetta la dimensione history-specific.
Senza la dimensione history-specific non c’è nemmeno la dimensione di una qualità e un livello di
competence firm-specific.
Non c’è dubbio che questo programma scientifico è assai meno entusiasmante di quello
proposto da una normativa nomotetica, che presuppone di poter costruire una scienza con la esse
maiuscola, fatta di leggi immanenti e universali, ma si deve anche riconoscere che se l’economia è
una scienza sociale tale scienza non può sfuggire ai limiti del proprio oggetto di analisi. Per molti
economisti esiste una sorta di horror historiae determinato dal fatto che se si accetta la prospettiva
storica si mette in questione la stessa possibilità di definire l’economia come una scienza. Ma ciò è
vero solo secondo i canoni positivistici di un approccio nomotetico. Al di fuori di questa prospettiva
la scienza si qualifica non per il fatto di definire leggi universali, ma per il fatto di elaborare criteri di
ricerca adeguati all’oggetto di studio. In un certo senso si può dire che anche nell’impostazione
economica derivata dalla razionalità behaviorista o evoluzionista è ancora presente un horror
historiae perché si teme, più o meno consciamente, che l’assunzione di una razionalità storico-sociale
finisca col distruggere lo status scientifico dell’economia. Il fatto è che occorre prendere atto che una
scienza economica universalistica, una scienza economica pura, avente la stessa cogenza delle
scienze naturali non è mai esistita, né potrà mai esistere, anche per il non trascurabile motivo che
nemmeno le scienze naturali, nemmeno la fisica mostra la capacità di pervenire a risultati
perfettamente nomotetici 66.
Qui invece si vuole sostenere che se si vuole far entrare l’economia in una dimensione
autenticamente scientifica occorre elaborare teorie che siano storicamente determinate. L’uomo,
come sottolinea Hargreaves Heap (1989), è si portatore di una razionalità limitata, ma è anche un
insaziabile ricercatore di scienza e conoscenza. È la presenza di una expressive rationality a
rappresentare il meccanismo di ricerca della conoscenza che preme per un continuo superamento dei
propri limiti. Ed è proprio questa ricerca, anche se storicamente limitata, e quindi non assoluta e
imperfetta, ad assumere significato e a produrre risultati. Edgar Morin (1986) esprime lo stesso
concetto attraverso l’uso della pulsion cognitive 67Se quindi, da un lato, l’abbandono di una
65
Ovviamente è appena il caso di ricordare che quando si parla di razionalità socialmente definita non si intende
affatto assegnare all’impresa delle finalità sociali. L’impresa all’interno del sistema capitalista mantiene l’obiettivo di
riferimento tipicamente rappresentato dal profitto. Il profitto però va perseguito in una prospettiva di lungo periodo,
non è una grandezza certa e calcolabile e viene ricercata con modalità e tempi che sono definibili solo all’interno di una
dimensione sociale e storica.
66
Si veda ad esempio l’ampio dibattito che ha accompagnato la critica del determinismo nelle scienze naturali e in
particolare nella fisica.
67 “Cette pulsion cognitive est animé par un intérêt de connaître qui ne se peut être réduit à la connaissance intéressé.
Tout se passe comme si la curiosité comportait, outre ses finalité médiates (comme l’utilité d’apprendre son environnent
29
prospettiva nomotetica sembra un passo indietro (rinuncia al mito della scienza esatta) è in realtà un
passo avanti in quanto il superamento dell’horror historiae rappresenta il passaggio necessario non
solo ad abbandonare definitivamente una visione ideologica come quella del pensiero neoclassico,
ma anche ad andare oltre alla visione della behavioral and evolutive economics che introduce la
nozione del tempo (le trasformazioni sono necessariamente legate al trascorrere del tempo), ma non
accede ancora ad una dimensione storica in senso proprio, ovvero ad una realtà che viene definita
sulla base di specifici referenti storico-sociali.
In altre parole la strutturazione metodologica che qui si cerca di definire deve muoversi lungo
un crinale difficile che, da un lato, deve rinunciare a un concetto di scienza economica di tipo
nomotetico, ma che dall’altro non deve rinunciare allo statuto di scienza, anche se sociale e quindi
storicamente definita e limitata. Cosa che invece avverrebbe in una visione retorica dell’economia ed
anche in un riduzionismo psicologista dell’economia in versione cognitivista in quanto con essa
tende a sparire il concetto di razionalità (anche se limitata). Nell’ipotesi retorica 68 si perde la
validazione dell’economia in quanto tensione verso la razionalità e in quanto teoria che deve
comunque ricercare riscontri fattuali per quanto possibile obiettivi, in quanto la verifica della teoria si
basa, almeno come programma, su una verifica di natura intersoggettiva sulla coerenza fra tesi e
riscontri fattuali 69. Nell’ipotesi cognitivista, invece il rischio del dissolvimento dell’economia in
quanto scienza deriva dal fatto che l’agente è guidato dalla sua natura psicologica, pensa di scegliere
e quindi di essere libero, ma in realtà è agito dalla sua “natura” mentale e di conseguenza anche in
questo caso non vi è spazio per una ricerca della razionalità né per regole economiche imperfette ma
storicamente determinate.
13. Razionalità e approccio normativo nelle scienze manageriali
Quanto abbiamo cercato di sintetizzare nelle pagine precedenti ci serve ora per affrontare
adeguatamente il problema del knowledge management nella attuale teoria dell’impresa e in una
prospettiva strategica. Finora abbiamo analizzato la problematica economica da una prospettiva
positiva chiedendoci in che misura le diverse ipotesi di razionalità che si confrontano negli studi di
economia risultino adeguate a rappresentare la realtà della economia in quanto espressione
dell’evoluzione della società. Si è cercato di mostrare che la razionalità strumentale del modello
neoclassico è inadatta, anche perché essa elide la dimensione strategica per effetto dei postulati di
informazione totale e capacità ottimizzante dei soggetti. Tuttavia anche la forma della razionalità
comportamentale o behavioral rationality ci pare inadeguata in quanto non si inscrive in una realtà
storicizzata e quindi dotata di senso. La razionalità comportamentale, in quanto meccanismo, è
sempre uguale a sé stessa, è la selezione delle routine fatte dall’ambiente che fa sopravvivere questa
o quella singola espressione di razionalità procedurale. Di per sé questa razionalità non valorizza la
creatività attivabile dalla expressive rationality e quindi non valorizza adeguatamente il knowledge
management che è fatto di una instancabile ricerca di nuove opportunità e soluzioni. La behavioral
rationality non consente il pieno sviluppo di un pensiero strategico in quanto non sviluppa pienaet d’accumuler des connaissances au hasard), une finalité en elle-même, c’est-à-dire une satisfaction proprement
cognitive de découverte et d’examen, autrement dit le désir et le plaisir de connaître”.
68
Cfr. McCloskey (1985).
69
Per una critica all’impostazione di McCloskey si veda: Boylan and O’Gorman (1995).
30
mente la dimensione normativa dell’economia. Se si resta dentro uno schema behaviorista di tipo
classico non c’è ricerca del comportamento strategico più efficace ed efficiente per l’impresa 70.
L’impresa applica il proprio programma, la propria procedura ed è l’ambiente a selezionare la routine
migliore che però cessa di essere la soluzione corretta appena l’ambiente cambia la propria
configurazione, il che avviene in modo incessante. Nel sistema behaviorista non c’è l’apprendimento,
da parte del soggetto, che serve per rendere plausibile l’ipotesi di un knowledge management e in
senso generale di una normative economics. Il soggetto non opera attivamente per studiare nuove
soluzioni operative (expressive rationality). È l’evoluzione che genera l’adattamento, e quindi anche
il mutamento, attraverso una generazione di varietà casuali e non previste, anche se ci pare che esso
debba manifestarsi più in un’ottica Lamarckiana che Darwinista 71. Tuttavia è chiaro che i tempi per
queste forme di selezione-adattamento delle routine passano attraverso l’adattamento della specie
invece che con un cambiamento del comportamento del singolo che sperimenta e apprende nuove
soluzioni. Quindi gli adattamenti della specie hanno inevitabilmente tempi di attuazione lunghissimi
rispetto ai ritmi che invece si manifestano effettivamente nella odierna realtà economica. La
normative economics, e in particolare quella che si estrinseca nel pensiero manageriale, presuppone
necessariamente che vi sia un pensiero anticipativo: come sarà l’ambiente competitivo nell’orizzonte
di espletazione della strategia? Infatti solo in una dimensione anticipativa, che a sua volta presuppone
la capacità di leggere la storia e di immaginare la sua probabile evoluzione, è possibile individuare
ciò che rappresentano dei punti di forza o di debolezza dell’impresa, ciò che va rafforzato,
modificato, abbandonato o acquisito ex novo, nel ventaglio delle competenze disponibili o non
ancora disponibili. Senza una funzione di anticipazione non vi sono gli elementi per stabilire il
percorso competitivo da compiere e le priorità strategiche da assolvere. L’economia normativa, e il
pensiero manageriale in primo luogo, richiedono quindi che ci sia una razionalità che continuamente
cerca di interpretare la realtà storico-sociale con la capacità di apprendere e quindi di migliorare le
proprie prestazioni. Certamente l’attuazione della funzione anticipativa costituisce un compito
estremamente difficile, soggetto a frequenti errori, ma dal punto di vista dell’efficacia strategica la
funzione anticipativa assolve pienamente al proprio compito non attraverso la capacità di previsione
puntuale del futuro, che è assolutamente improbabile, quanto attraverso una capacità previsionale
migliore della concorrenza.
In chiave di knowledge management l’impresa esprimerà un comportamento strategico tanto
più adeguato quanto più saprà sviluppare delle capacità specifiche:
a. Capacità di dare una lettura sufficientemente adeguata della realtà competitiva nella quale si
colloca l’impresa al momento presente, ma anche nell’arco prospettico nel quale si manifesterà la
propria strategia. L’arena competitiva e l’ambiente economico generale sono degli elementi
70
In questa sede non è possibile distinguere le diverse prospettive in cui può collocarsi l’approccio behaviorista. È
chiaro infatti che vi è una notevole differenza fra un behaviorismo radicale alla Skinner e un behaviorismo alla Simon.
Qui per semplicità di esposizione ci riferiamo ad un behaviorismo di tipo classico.
71
L’ottica lamarkiana nel processo evolutivo della natura assume che sia la funzione a sviluppare l’organo: le giraffe
hanno il collo lungo perché per potersi nutrire si sono sforzate di arrivare anche alle foglie collocate più in alto e ciò
avrebbe modificato la loro morfologia. Invece la prospettiva darwinista spiega che è il successo conseguito dalle giraffe
dotate di un collo più lungo, in quanto beneficiate da un miglior nutrimento e quindi da vita più lunga e maggiori
opportunità di accoppiamenti, ha selezionare i soggetti dotati dei geni corrispondenti all’allungamento del collo. In campo
biologico è la soluzione darwinista ad essere quella corretta, ma in campo sociale, nel quale l’apprendimento gioca un
ruolo fondamentale, è quella lamarkista ad assicurare i migliori risultati, nel senso che è l’applicazione del soggetto ha
migliorare le sue performance. Su questa problematica si vedano: Hodgson (2001) and Knudsen (2001).
31
fondamentali che vanno analizzati in quanto essi danno i parametri esterni all’impresa con i quali
l’impresa stessa deve misurarsi. Tuttavia questo sforzo di comprensione deve essere molto più
pronunciato di quanto non sia fatto comunemente. Se le specificità settoriali sono diverse anche la
teoria interpretativa da elaborare deve essere altamente specifica. Mentre invece, come si cercherà di
evidenziare fra poco l’analisi dell’ambiente è generalmente assai generica e superficiale.
b. Capacità di dare una lettura delle potenzialità espresse dalle competenze a disposizione
dell’impresa e di quelle mancanti. L’insieme di questa competenze e carenze rappresentano la
dimensione interna all’impresa. La misura delle proprie competenze e potenzialità non è un fatto
banale, in quanto la complessità dell’impresa e l’opacità di certe competenze, che possono esistere
ma non essere adeguatamente valorizzate o che possono essere indebitamente sopravvalutate, non
derivano da una misura assoluta, ma da un criterio di adeguatezza all’evoluzione dell’ambiente.
c. Capacità di promuovere un processo organizzativo e sociale per una corretta lettura della
realtà “esterna” e “interna” all’impresa. Nella teoria neoclassica dell’impresa siamo abituati a
considerare la funzione cognitiva e soprattutto quella decisionale come il frutto di una funzione
imprenditoriale di per sé unitaria. C’è un solo soggetto decisore rappresentato dall’imprenditore.
Invece il riconoscimento tanto della specificità ambientale quanto della specificità delle competenze
dell’impresa considerata non può non essere che un processo che coinvolge l’organizzazione
dell’impresa. L’impresa conosce e valuta l’ambiente esterno e interno attraverso la propria struttura
organizzativa. L’aspetto che tuttavia la problematica del knowledge management ha
considerevolmente aiutato a mettere a fuoco è che l’impresa non compete mai da sola, ma compete
assieme alla propria supply-chain. Questo aspetto era già stato messo a fuoco dall’analisi fatta da
Porter (1985) sulla catena del valore, tuttavia esso assume il suo pieno rilievo a seguito dell’analisi
fatta a proposito della problematica del knowledge management. È infatti evidente che se un’impresa
non è mai esclusiva depositaria delle conoscenze delle quali si avvale, come è stato più volte
sottolineato dalle analisi su questa problematica, allora anche il processo di sviluppo delle
competenze necessaria ad attuare con successo la propria strategia implica la capacità di realizzare in
modo allargato queste tre capacità allargandole ad una dimensione che va oltre la singola impresa.
d. Quindi occorre una ulteriore capacità rispetto alle tre già evidenziate, che consiste nel saper
sviluppare comportamenti di relazione con altre imprese, clienti e fornitrici, in grado di far crescere
le relative competenze attraverso forme intelligenti di knowledge management. Il knowledge è una
risorsa distribuita e quindi anche il processo di creazione, sviluppo, diffusione della conoscenza deve
essere in grado di rispondere ad esigenze distribuite tra i diversi partner. In sostanza la capacità alla
quale ci si riferisce consiste nel saper ideare e realizzare forme di collective rationality attraverso
forme di collaborazione win-win con i partner dell’impresa 72. Senza la capacità di produrre soluzioni
win-win, attraverso un sapiente knowledge management, l’efficacia e l’efficienza della strategia di
una impresa sono a rischio perché vi possono essere imprese appartenenti alla stessa arena
competitiva in grado di esprimere una razionalità storico-sociale ancora imperfetta ma superiore a
quella della nostra impresa.
Una più adeguata teoria dell’impresa richiede una razionalità profondamente diversa da quella
che siamo abituati a considerare operante nell’economia. Non è una razionalità strumentale che nella
economia ortodossa è addirittura data per scontata, non è solamente una razionalità behaviorista
72 Sul
concetto di collective rationality e sulla sua valenza in termini di soluzioni win-win si veda Elster (1983).
32
perché priva dei meccanismi di auto-correzione e non è una razionalità evolutiva perché pur potendo
assumere forme di apprendimento intelligente i meccanismi con i quali questo apprendimento si
manifesterebbero sono troppo lenti per la realtà della dinamica economica dell’impresa 73. Occorre
una razionalità storico-sociale, imperfetta, ma adattiva e in grado di realizzare nel suo corso delle
modalità di progresso. Ovviamente un progresso contrastato, non lineare, che a volte deve patire
degli arretramenti ma che nel lungo corso starebbe ad indicare la natura scientifica degli studi di
economia.
14. Knowledge Management e razionalità storico-sociale
La problematica del Knowledge Management ha avuto un profondo effetto catalizzatore dal
momento che ponendo la conoscenza e la competenza al centro della teoria dell’impresa ha avuto
l’effetto di richiamare l’attenzione degli studiosi sul fatto che ciò che caratterizza la teoria
dell’impresa e la sua capacità competitiva è rappresentata da un qualcosa: conoscenza e competenza
che per sua natura non può che essere caratterizzata da una specifica cifra storica. Non esistono leggi
universali in economia perché il motore della competizione e della evoluzione economica è un tipico
prodotto della storia. Questo fatto è oggi probabilmente largamente condiviso dagli economisti, ma si
tratta di una accettazione “passiva” nel senso che non se ne ricavano tutte le conseguenze
metodologiche che invece dovrebbero essere tratte. La più importante conseguenza “congelata” è
rappresentata dal fatto che l’analisi positiva acquista senso solo se storicamente collocata. L’esigenza
di una collocazione storica diventa ancora più necessaria all’interno dell’economia normativa come il
management. Occorre avere il coraggio di compiere anche questo passo che consiste essenzialmente
nell’accettare i seguenti punti:
1. Ogni teoria economica (o qualsiasi altra scienza sociale) nasce da una astrazione rispetto alla
complessità della realtà. Il ricercatore ha di fronte una realtà che è troppo complessa e
quantitativamente inconoscibile nella sua totalità, quindi effettua una semplificazione di
questa realtà, selezionando ciò che gli sembra più rilevante. Ciò vuol dire che qualsiasi teoria
è una semplificazione della totalità e per ciò stesso gli eventuali segni di conferma che il
ricercatore riterrà di trovare portano nel migliore dei casi ad una “regola” necessariamente
imperfetta perché basata su una valutazione parziale della totalità del reale e necessariamente
storicamente determinata, in quanto riferita ad una particolare contingenza storica. Se si
accetta questa posizione si deve allora riconoscere che ogni ricercatore dovrebbe chiaramente
esplicitare le semplificazioni sulle quali basa la propria teoria e le specificità dell’ambiente
storico preso a riferimento. È inutile sottolineare come questa formale dichiarazione delle
semplificazioni assunte e della caratterizzazione storica non venga normalmente effettuata,
probabilmente per il timore di sminuire il valore della propria teoria. A mio avviso si tratta
ancora di un comportamento che deriva da un tipico pregiudizio di derivazione nomotetica.
2. Dal primo punto ne deriva un secondo rappresentato dal fatto che poiché il ricercatore non ha
una conoscenza diretta e immediata della realtà non può basarsi sulla sua esperienza, peraltro
73 In proposito qui si potrebbe immaginare una molteplicità di piani di adattamento intelligente. Quello delle strutture
sociali (le istituzioni) che si muovono con un ritmo che spesso è secolare e per il quale forme di adattamento Darwinista o
Lamarckista potrebbero essere adeguate e quello dei mercati nei quali i tempi di reazione sono evidentemente molto più
celeri.
33
a volte fallace, ma analizza il reale sulla base di una costruzione concettuale della quale la sua
teoria è parte integrante. In altre parole noi osserviamo la realtà 74 non attraverso l’esperienza
diretta, ma attraverso dei concetti che noi stessi elaboriamo. Possiamo dire che noi guardiamo
la realtà attraverso le teorie che costruiamo su di essa ed è proprio per questo motivo che la
falsificabilità ipotizzata da Popper risulta un miraggio 75.
3. Qualsiasi teoria emerga dalla nostra analisi del reale essa avrà, anche nella miglior
concordanza tra le ipotesi che stanno alla base delle nostre teorie e i riscontri fattuali che sarà
possibile raccogliere, una valenza limitata e indefinitamente perfettibile in quanto si
tratterebbe di cercare di progredire nella conoscenza attraverso la continua costruzione di
teorie meno semplificate e più complesse.
4. Il risultato della analisi teorica in chiave storico sociale non propone “leggi”, ma semmai
“regole” storicamente definite, e comunque imperfette, in quanto nate da un processo di
astrazione-semplificazione che riduce la complessità del reale soprattutto attraverso l’elisione
degli infiniti rapporti di interdipendenza che caratterizzano la realtà sociale.
5. Anche le “regole” proposte da una analisi storico-economica cercano di pervenire ad una
generalizzazione, tuttavia si tratta di una generalizzazione limitata che si giustifica, nella
misura in cui i riscontri fattuali sembrano convalidarla, con riferimento allo scenario storico
nella quale si colloca.
6. Il progresso della disciplina in questo senso non si produce attraverso un passaggio da leggi
particolare a leggi più generali, come presume l’approccio nomotetico, ma attraverso un
passaggio da regole semplici riferite ad una singola realtà a regole parametriche che declinano
una molteplicità di risultati in funzione del variare delle caratterizzazioni storiche
dell’ambiente considerato. Se ad esempio ricerchiamo una condotta strategica efficace ed
efficiente per una impresa grande e globalizzata e supponiamo di poterla condensare in una
certa regola di condotta, per una impresa piccola e locale la regola da proporre avrà contenuti
diversi con riferimento allo stesso scenario. Quello che si può sperare di realizzare è la
costruzione di una regola più complessa delle due singole regole prima ipotizzate, attraverso
la costruzione di un’unica regola declinabile però in senso parametrico. In funzione del dato
dimensionale delle due imprese (parametro con valori diversi) applico un criterio comune di
competitività riferito all’ambiente storico comune, da ottenersi però attraverso due percorsi
aziendali diversi, l’uno adatto alla grande impresa, l’altro alla piccola impresa.
7. Dal momento che la caratterizzazione storica dell’ambiente esercita una profonda influenza
sui comportamenti economici dei soggetti e delle istituzioni, fra le quali impresa e stato
rappresentano due fra le organizzazioni di maggior rilievo, il comportamento di soggetti e
organizzazioni è estremamente influenzato dalla precedente evoluzione storica. Soggetti e
istituzioni sono marcatamente path dependent 76. Il singolo soggetto dispone di una
74
Ovviamente in questo caso non mi riferisco ad una realtà elementare, come accertare la presenza di un tavolo in una
stanza, problema per il quale i miei sensi sono adeguati, ma a una realtà di natura economica, come potrebbe essere il
concetto di globalizzazione o di vantaggio competitivo. Questo genere di realtà non è direttamente percepibile se non
attraverso una loro concettualizzazione.
75
Sulla inapplicabilità del falsificazionismo popperiano si vedano fra gli altri: Caldwell (1982), Pheby (1988), Barrotta
(1992), Lawson (1997), Guala (2006).
76 Sulle implicazioni metodologiche della path dependance si vedano i saggi raccolti in Magnusson and Ottoson (1997).
34
complesso di skill e si caratterizza per un livello di aspettative che sono il retaggio delle sue
esperienze passate e altrettanto vale per la singola impresa. Ciò vuol dire che la dimensione
storica entra sia in senso sincronico, riferito alla particolarità dello scenario nel quale soggetti
e istituzioni manifestano le loro attività, fissano i propri obiettivi e valutano i modi e le risorse
per raggiungerli, sia in senso diacronico, in quanto la lettura cognitiva della realtà ad un certo
istante è profondamente influenzata dalla realtà vissuta e percepita da soggetti e dalle
istituzioni nelle rispettive fasi precedenti.
8. L’esistenza di un effetto path dependent nel comportamento di soggetti e istituzioni
comporta un aspetto di grande rilievo per l’analisi economica in generale, e per quella
normativa in particolare, ed è rappresentato dal fatto che l’assunzione di un legame di path
dependance rende non solo possibile la previsione circa lo scenario futuro nel quale si colloca
il comportamento di soggetti e imprese, ma anche necessaria. In questo caso possiamo
ripetere con Darwin e Marshall: natura non facit saltum e di conseguenza la storia
rappresenta la base sulla quale costruire delle previsioni o comunque delle anticipazioni sul
futuro. È chiaro che qui non stiamo parlando di previsioni puntuali e nemmeno di previsioni
probabilistiche che si possono porre solo per fenomeni molto specifici. Il futuro è solo
parzialmente condizionato dal passato, la libertà dei soggetti e delle istituzioni crea in ogni
momento un infinito spettro di possibilità. Pertanto parlando di previsioni mi riferisco alla
possibilità di costruire scenari, intesi come rappresentazioni imperfette e parzialmente
sfuocate del futuro, all’interno dei quali riteniamo si collocheranno le scelte di soggetti e
istituzioni esaminate. Per quanto attiene a teorizzazioni di tipo prescrittivo come nel caso
della formulazione di strategie d’impresa, e della business economics in generale, la definizione dello scenario è parte integrante della teoria proposta da uno studioso. In altre parole
qualsiasi soluzione strategica si rivelerà corretta o sbagliata non di per sé, ma solo in relazione
all’ambiente competitivo nel quale essa si svilupperà. Pertanto la previsione sulla struttura
dello scenario prossimo e del suo evolversi nel tempo all’interno del quale si colloca la
strategia è parte integrante della soluzione normativa. Non c’è strategia senza anticipazione
dello scenario previsionale. Va chiarito una volta per tutte che da un lato dobbiamo
considerare la path dependance come fattore influenzate (ovviamente in misura non
deterministica) le future opzioni e possibilità delle imprese e, dall’altro, abbiamo anche una
future dependance nel senso che è l’evolvere futuro del sistema a decretare selettivamente
efficacia ed efficienza delle scelte.
9. In stretto collegamento con il punto precedente si deve sottolineare che il successo di una
strategia d’impresa è dato dal mutuo interagire tra le leve interne e le risorse mobilitate
dall’impresa e l’ambiente competitivo rappresentato tanto dall’insieme dei concorrenti quanto
dal complesso della domanda del settore. Da un lato la path dependance vale per la singola
impresa che studia la propria strategia, ma da un altro vi è anche una path dependance per
tutte le altre concorrenti effettive e potenziali e per la domanda e l’ambiente socio-economico
in generale. Il risultato dell’azione competitiva della singola impresa è determinata da tutto il
complesso interagire del sistema socio-economico. L’errore del modello structure-conductperformace deriva dal fatto di immaginare che fosse la struttura a determinare la dinamica
della condotta e dei risultati. L’errore di un certo modo di intendere la strategia resourcebased sta nel ritenere che la condotta soggettiva dell’impresa abbia la prevalenza rispetto alle
35
condizioni oggettiva dell’ambiente competitivo. Secondo quest’ottica l’impresa sarebbe in
grado di strutturare autonomamente la propria realtà, in quanto è essa che crea e sviluppa le
proprie risorse. Ma questa diventa una visione unilaterale nel momento che non ci si rende
conto che il valore economico di una risorsa e perfino ciò che deve essere considerato o meno
una risorse dipende dalla strutturazione dell’ambiente. Una particolare competenza tecnica è
una risorsa di grande valore in una certa situazione, diventa una risorsa di secondaria
importanza in un ambiente differente. La standardizzazione, e in bassi costi che ne
derivavano, è stata la chiave del successo di Henry Ford in un preciso momento storico. La
stessa ostinazione a non investire nell’innovazione di prodotto e nella varietà della propria
gamma è stata una seria minaccia alla sopravvivenza della Ford meno di quindici anni dopo,
per effetto della strategia della General Motors guidata da Alfred P. Sloan e basata sullo sviluppo di una ampia gamma di offerta e sulla politica del rinnovo continuo dei modelli. Le
caratteristiche dell’impresa e le sue competenze sono delle potenzialità, è la strutturazione
dell’ambiente, all’interno del quale le esigenze della clientela giocano un ruolo primario, a
determinare la valorizzazione di caratteristiche e risorse. Non solo il successo di una impresa,
ma anche l’evolvere della storia è il risultato della dialettica tra le scelte soggettive degli attori
e il riflesso che l’ambiente produce su di esse: è una co-determinazione che ex ante può essere
solo congetturata in modo problematico, ma che ex post decreta il successo o l’insuccesso di
una impresa e l’evoluzione dell’ambiente sociale in un senso o nell’altro.
15. Implicazioni operative di una razionalità storico-sociale
In termini operativi l’accettazione dei punti indicati nel precedente paragrafo comporta che,
volendo sottoporre una propria teoria alla collettività scientifica occorre innanzitutto precisare
adeguatamente la collocazione e la caratterizzazione storica della nostra analisi. Operazioni che
vanno fatte in relazione alla specificità del tema affrontato. Se, ad esempio, volessi indagare e
proporre delle teorizzazioni concernenti il capitalismo della prima rivoluzione industriale e di quello
dell’attuale fase di globalizzazione avrei da elaborare una concettualizzazione di queste due fasi
ciascuna delle quali si allarga su un ampio orizzonte temporale. In questo caso potrebbe essere adatta
una metodologia basata su forme ideal-tipiche di stampo weberiano che rappresenterebbero appunto
la concettualizzazione che proponiamo come espressione del primo capitalismo industriale e del
capitalismo globalizzato. Se invece l’oggetto è l’individuazione di valide strategie competitive per
una particolare impresa la collocazione e la caratterizzazione storica deve essere molto più puntuale e
ristretta nel tempo. Lo scenario di riferimento in questo caso non è una generica economia capitalista
del XXI secolo, occorre essere molto più precisi e puntuali: sia in termini di caratterizzazione
settoriale, sia in termini di contenuti specifici della strategia. Ad esempio non avrebbe molto senso
parlare di strategie competitive con indicazioni di carattere normativo riferite genericamente a tutte
imprese senza ulteriori specificazioni. Ciò che potrebbe essere corretto per una grande impresa
americana potrebbe non esserlo altrettanto per un grande impresa giapponese o una piccola impresa
italiana. Ciò che potrebbe essere corretto nell’industria automobilistica in questa fase potrebbe non
esserlo in un diverso momento e altrettanto va detto se il settore fosse quello degli elettrodomestici o
delle macchine utensili.
Nelle teorizzazioni di tipo normativo, come accade tipicamente nel campo del business
management, la individuazione di regole decisionali proposte come efficaci ed efficienti possono
36
essere formulate solo all’interno di uno scenario che va opportunamente esplicitato. Senza la
proposta dello scenario che si assume a riferimento per la proposta di regole di comportamento che
vengono ritenute efficaci ed efficienti, le regole stesse sono prive di un chiaro significato.
L’accettazione di questo principio ci pare di fondamentale importanza. Senza la preventiva
definizione di uno scenario di riferimento le regole di comportamento sono prive di un preciso
significato e si pone la seguente alternativa: o l’autore si colloca scientemente nell’ambito di un
approccio nomotetico, in base al quale si pretende di esprimere una legge di comportamento valida
ovunque e comunque, oppure, se si accetta la prospettiva storica, si sta cercando di sottrarsi ad una
regola metodologica scomoda, ma necessaria. Esplicitare lo scenario futuro presta ovviamente il
fianco alla possibilità di criticare le regole di comportamento proposte in quanto e sufficiente modificare alcuni tratti salienti dello scenario proposto per legittimare regole di comportamento diverse.
Può quindi non destare meraviglia che numerosi studiosi evitino di esplicitare questo aspetto, ma si
deve essere coscienti che lo scenario di riferimento immaginato è parte integrante della teoria
utilizzata e delle regole che si vogliono proporre. Precisare lo scenario equivale strettamente alla
definizione della propria teoria, non esplicitarlo equivale a fornire una teoria incompleta, che a
qualcuno riuscirà più difficile criticare solo perché questi non conosce un corretto metodo di analisi.
Questi concetti potrebbero essere ulteriormente sviluppati ma spero che già a questo livello
emergano due aspetti:
a) Il passaggio da una prospettiva nomotetica ad una prospettiva storica è necessario per dare reale
dignità scientifica all’economia, ma si tratta anche di un passaggio molto impegnativo, la cui
validazione scientifica resta comunque inevitabilmente incerta e che, comunque, richiede un
grosso sforzo di specificazione dell’analisi teorica e della corrispondente concettualizzazione.
Non è difficile constatare che anche gli studiosi che si esprimerebbero a favore di un approccio
economico inscritto all’interno delle scienze sociali, e quindi della storia, ben raramente attuano
quanto questo approccio richiederebbe anche solo per dare chiarezza e compiutezza ai concetti
economici e alle teorie che si propongono, come cercheremo più avanti di esemplificare.
b) Se non si attua la definizione in senso storicamente determinato dei propri concetti i rischi che si
corrono sono essenzialmente di due tipi:
b.1. Il primo è rappresentato dal fatto che poiché non si è caratterizzato in senso storicamente definito il problema economico affrontato, i risultati proposti dalla propria teoria
finiranno inevitabilmente per essere intesi dal lettore come applicabili ad una realtà più
vasta da quella considerata dal proponente, anche se questo non è nelle sue intenzioni 77.
In altre parole è inevitabile che se non si delimita ex ante il campo dell’analisi, i risultati
ex post saranno letti come automaticamente privi di delimitazioni temporali.
Ovviamente la cosa sarà tanto più probabile qualora sia lo stesso ricercatore a cercare di
dare una valenza nomotetica (più o meno esplicita) alle proprie teorie. L’assenza di una
chiara autolimitazione storica del problema considerato comporta una sistematica ambiguità e una notevole confusione nella interpretazione delle teorie. Si tratta di un rischio
77
Gli esempi di questo genere di fraintendimento che si potrebbero fare sono innumerevoli. Valga per tutti il caso di
Leon Walras, egli si è sempre guardato dal dichiarare i risultati della sua analisi di equilibrio economico generale di
concorrenza perfetta come estendibili all’economia reale, ma di fatto ciò è quello che è accaduto, anche perché Walras
probabilmente non ha smentito questa erronea lettura con la determinazione che sarebbe stata necessaria.
37
presente soprattutto nelle analisi economiche di tipo positivo, sia applicate a
problematiche di micro-economia che sia di macro-economia.
b.2.
Il secondo rischio è particolarmente presente nelle teorizzazioni di tipo prescrittivo e
quindi tipicamente negli studi a carattere manageriale. Questo rischio è rappresentato da
affermazioni tautologiche proposte (più o meno consapevolmente) come affermazioni di
natura empirica. Ripartiamo dal principio che, se intendo esprimere una tesi di carattere
normativo (es.: la tal impresa, allo scopo di prevalere sulla concorrenza, avrebbe la
convenienza ad attuare una certa strategia), questa tesi va storicamente situata, cioè
devo dire in quale momento, in quale settore e quale tipo di impresa (grande, piccola,
dotata o meno di una forte brand identity, ecc.) avrebbe convenienza ad attuare la strategia indicata. Dove peraltro anche il contenuto della strategia dovrebbe essere preciso e
puntuale 78. Se non si compie questa operazione di specificazione la tesi resta generica
ed equivoca. La conseguenza sarebbe che è possibile indicare scelte strategiche valide
sempre, ma solo perché queste regole non sono altro che affermazioni tautologiche 79.
78
È frequente constatare che alcuni autori pensano di aver definito una strategia per il solo fatto di raccomandare una
scelta di diversificazione come scelta alternativa ad un di integrazione verticale. In realtà le modalità di diversificazione
sono innumerevoli e quindi dovrei almeno cercare di precisare quale modalità specifica di diversificazione, per quali
mercati, per quali segmenti, ecc.
79
Come è noto una tautologia è una affermazione vera per definizione e come tale non ha un significato empiricamente
rilevante. Se assumo che il fine dell’impresa è l’acquisizione di un vantaggio competitivo sulla concorrenza che si traduce
nel conseguimento di un profitto differenziale, ne deriva che se faccio l’affermazione: “la strategia conveniente per questa
particolare impresa consiste nel aumentare (o diminuire) il proprio grado di integrazione verticale” esprimo una tesi di
carattere empirico che ex post potrebbe essere analizzata per valutarne la correttezza ai fini dell’acquisizione del profitto.
Se invece la strategia proposta consistesse ad esempio nell’affermazione: “l’impresa faccia tutto ciò che aumenta il suo
profitto e non faccia nulla che possa farlo diminuire” esprimo una mera tautologia, logicamente corretta ma
empiricamente priva di contenuto. Cfr. Volpato (2008a). Ovviamente gli autori non utilizzano le tautologie in modo così
scoperto perché esse sarebbero facilmente individuate, descrivono pertanto la propria teoria in forma complessa e
articolata, ma ciò non toglie che sempre di una tautologia si tratti. Tuttavia esiste un metodo empirico, ma piuttosto
efficace, nello scovare le tautologie presenti nei contributi scientifici. Basta chiedersi, di fronte ad una certa affermazione
dell’autore, se questa tesi è contrastata (o potrebbe comunque essere contrastata) da qualche altro ricercatore. Se
riteniamo di no ciò vuol dire che molto probabilmente saremo di fronte ad una tautologia, dal momento che una tesi non
contrastabile neanche per ipotesi è una tesi che molto probabilmente nasconde una identità logica.
38
16. Alcuni casi di carente teorizzazione in chiave storica
L’irrompere del ruolo delle competenze e del knowledge management come variabili chiave
nel quadro di definizione della posizione competitiva di una impresa ha svolto un ruolo di
catalizzatore nel rendere evidente l’insostenibilità di un approccio nomotetico negli studi economici.
Non ha senso pensare a leggi economiche di valenza universale perché sempre più la base del
comportamento economico di successo è rappresentata dalla conoscenza, conoscenza che è al tempo
stesso un fatto storicamente determinato (l’evoluzione storica definisce continuamente nuovi
contenuti della conoscenza) e socialmente interconnesso (le conoscenze sono il prodotto in infiniti
contributi e interazioni di singoli individui che si scambiano conoscenze). Di conseguenza, anche se
ci accorgiamo di una nuova conoscenza solo quando essa ha percorso un iter lungo e complesso che
sfocia in applicazioni economicamente valorizzabili, non possiamo negare che senza i precedenti
contributi di conoscenza non avremmo (o avremmo solo in un momento diverso) anche l’ultima
nuova conoscenza. Tuttavia se da un lato l’esigenza di formulare l’ economia con un approccio da
scienza sociale è una necessità che mi pare assolutamente evidente è anche molto importante che
questa critica alla fine non si limiti alla semplice dichiarazione che “il re è nudo”. Certamente
l’approccio nomotetico è nudo di fronte alla critica che in questa sede abbiamo cercato di riassumere,
attingendo ad una pluralità di contributi. Il punto è però che se non si realizza un corretto approccio
storico nella scienza economica non si sarà fatto alcun passo avanti, da un lato perché sarà molto più
semplice e comodo non difendere l’approccio nomotetico, ma adagiarsi nella pratica concreta sulla
sua impostazione, dall’altro perché si finirebbe per annullare lo status dell’economia come scienza.
L’economia senza la ricerca della razionalità (imperfetta) e senza il lavoro di ricercare continue
verifiche fattuali, pur sapendo che esse non potranno mai essere compiute e definitive, non è più una
scienza ma semplicemente fiction o letteratura. Ci sarà la fiction più o meno buona, più o meno ben
costruita, più o meno ben espressa, con un linguaggio più o meno convincente, con l’uso di metafore
più o meno curiose e accattivanti, ma si tratterà sempre di fiction e non di una scienza economica. Si
consideri ad esempio l’astrologia, essa a mio avviso non è una scienza, ma non perché non dispone di
leggi nomotetiche, che abbiamo detto neppure le scienze naturali possono sfoggiare, ma perché essa
non si espone al continuo lavoro di costruzione e miglioramento delle proprie teorie e al continuo
processo di verifica critica. Una scienza non è data dalla somma delle sue leggi (che come tali non
esistono), ma come espressione di un metodo di ricerca che vuole progredire, ma disposto a
sottomettersi sempre e comunque alla critica.
È quindi venuto il momento di mostrare, con alcuni esempi la strada che resta ancora da
compiere per la valorizzazione dell’economia in quanto scienza sociale. Premettiamo subito che
questo obiettivo non è raggiungibile da nessun singolo ricercatore, ma solo attraverso il contributo e
la fertilizzazione incrociata di molti. E aggiungiamo che non c’è nessuno che possa dire di sfuggire
totalmente alle critiche che si cercherà di esemplificare. Con le critiche vogliamo solo cercare di dare
un contributo che indichi il cammino da percorrere, senza la minima pretesa di voler far credere che
si è già percorso questo cammino. In questo senso le opere degli autori analizzati non sono affatto
prive di valore perché criticate. Se si tiene presente il punto 1, esplicitato a pagina 31, si comprende
come nessuno possa dichiararsi esente da critiche se non altro perché tutti partiamo da astrazioni,
cioè semplificazioni del reale. Anzi in questa nostra esemplificazione si cercherà di scegliere proprio
contributi di alto profilo, da un lato perché più conosciuti, dall’altro perché è proprio con essi che ci
si deve misurare se si cerca di far progredire la solidità epistemologica della scienza economica.
Infine sottolineiamo che gli autori che valuteremo criticamente non sono affatto esponenti dichiarati
39
di un approccio nomotetico, anche se talune loro affermazioni potrebbero essere inquadrate in questo
contesto, ma sono piuttosto autori che si muovono nell’ambito delle teorie manageriali e assegnano
grande importanza alla competence-based strategy e al knowledge management e pertanto
dovrebbero essere abbastanza in linea con un approccio economico storicamente definito. Infatti non
avrebbe molto senso addebitare a qualcuno che ritiene corretto un approccio nomotetico di non
caratterizzare in senso storico la propria analisi e le proprie teorie, perché ciò significherebbe appunto
una contraddizione con l’impostazione epistemologica di partenza. Il primo testo che consideriamo è
un libro che ha ricevuto molta attenzione ed è stato giudicato come un importante contributo alla
disciplina del pensiero strategico: Gary Hamel e Coimbatore Krishnarao Prahalad (1994), Competing
for the Future. Da un punto di vista generale l’impostazione del testo sembra iscriversi in un’ottica
storico-sociale sottolineando nella prefazione che:
“Senior executive seemed to see competition as a race to build competencies, not
simply to gain immediate market share. What was the basis, we asked ourselves, for such
commitments? How could one write a business case for a market that might not emerge for a
decade or more? What was the logic behind the emotional and intellectual commitment so
much so much in evidence? How did executives select which to build for the future?
We had to conclude that some management teams were simply more “foresightful”
than others. Some were capable of imagining products, services, and entire industries that did
not yet exist and then giving them birth”
Mi pare corretto sostenere che il contenuto del testo, in quanto orientato a fornire le
indicazioni per realizzare un management previsionalmente orientato, dovrebbe mostrare in che
modo ciò può essere realizzato da parte dei manager. Inoltre mi pare evidente che, dal momento che
gli autori intendono sottolineare un certo cambiamento nell’ambiente competitivo internazionale 80,
prodotto dal boom tecnologico degli anni ’90, sembrano inscriversi all’interno di un orientamento
non-nomotetico. Tuttavia nello sviluppo del testo è agevole riconoscere le due tipiche limitazioni
precedentemente indicati ai punti b.1. e b.2. di pagina 35. Da un lato gli autori non declinano le loro
tesi circa le modalità di un comportamento autenticamente foresightful da parte dei manager a
seconda dei settori di riferimento, delle specificità delle imprese, del complesso delle competenze da
loro maturate, dal posizionamento di mercato da esse raggiunte per effetto della path dependance. Al
contrario gli autori sembrano cercare indicazioni di carattere molto generale. Applicabile da tutti i
manager per tutte le imprese, per tutti i settori. Ma esistono davvero leggi o regole aventi queste
caratteristiche. La mia risposta è certamente negativa. Quella dei due autori si basa invece sulla ricerca di regole che ha loro sembrano generali, ma che in realtà sono generiche, nel senso che rifiutando
la strada di entrare nello specifico finiscono per sfociare nel tautologico. Gli esempi che si possono
fare di questa involuzione nel testo sono molto numerosi. Si consideri un paragrafo del 7° capitolo
dedicato all’Achieving Resource Leverage. Cosa consigliano gli autori: iniziative che sono per
definizione convenienti. Per Concentrating resources occorre che “entire business converge on the
same goal”, ma anche che le iniziative siano focalizzate: “If convergence protects against the
divergence of goals over time, focus protect against the dilution of resources at a particular point in
time”, e ancora: “the goal is not just to focus on a few things at a time, but to focus on the right
80 “the emerging of a new competitive reality - a reality in which the goal is to transform industries, not just organizations; a reality in which being incrementally better is not enough; a reality in which any company that cannot imagine
the future won’t be around to enjoy it”
40
things”. Possiamo pensare che qualcuno raccomandi di concentrarsi sulle cose sbagliate? Certamente
no. Questa è l’evidente cartina di tornasole che l’impossibile ricerca di regole applicabili in modo
generale sfocia inevitabilmente nella tautologia. E altrettanto si può dire per le altre regole suggerite
dai due autori che raccomandano attività come: il mining per accumulare risorse, il borrowing per
assorbire risorse da altre imprese, il blending of different type of resources in ways that multiply the
value of each; il balancing of complementary resources , il recycling, il co-opting, il protecting. Il
trucco linguistico consiste nel fatto che il termine resources è assunto in un significato
intrinsecamente positivo. Le risorse sono un valore per l’impresa e quindi è automatico (ma scontato
fino alla tautologia) che occorre gestire al meglio queste risorse. Contro questo modo generico e
indeterminato va invece ribadito che ciò che è effettivamente una risorsa per l’impresa in un certo
momento storico può diventare una retaggio negativo per la stessa impresa in un diverso momento
storico. A maggior ragione ciò che è una risorse per una impresa in un particolare settore può invece
rappresentare un retaggio negativo per una impresa che operi in un settore diverso. Il vero quesito
che si pone il manager non concerne se realizzare o meno convergence, focusing, targeting, mining,
blending, balancing, recycling, co-opting, protecting, etc., ma come raggiungere questi obiettivi. Un
come che deve essere declinato in funzione delle diversità caratterizzante le diverse imprese e settori
e che è appunto quello che manca nella trattazione considerata.
Un altro aspetto che pare necessario, e che invece non compare nella trattazione, è
rappresentato dalla elaborazione dello scenario in via di formazione nell’ambiente competitivo.
Senza lo scenario che indichi le principali trasformazioni quantitative e qualitative dei diversi
ambienti competitivi (l’ambiente competitivo nel settore siderurgico ha importanti elementi distintivi
rispetto all’ambiente competitivo nel settore dell’elettronica di consumo o nel settore delle macchine
utensili) non è possibile esprimere teorie o regole di comportamento che si rivelino efficaci ed
efficienti. Concludendo non si vuole negare che la lettura del libro non possa fornire spunti
interessanti al lettore attento. Ma certamente non siamo in presenza di elaborazioni teoriche e
concettuali metodologicamente rigorose.
Analogamente il volume di Robert M. Grant, Contemporary Strategy Analysis 81, anche se non
presta il fianco alla critica di proporre tesi di tipo tautologico, tuttavia può essere utilizzato come utile
punto di riferimento per mostrare quale tipo di sentiero debba essere ancora percorso dagli studi di
economia per abbandonare definitivamente un approccio nomotetico e per contribuire ad elaborare
una metodologia economica autenticamente storico-sociale. Abbiamo scelto questo testo sia perché
l’autore è certamente uno dei più rappresentativi e affermati nel campo dell’applicazione della teoria
del competitive advantage, sia perché il testo in questione è certamente uno dei più noti e utilizzati
nei corsi di formazione universitaria e contribuisce quindi significativamente a formare la cultura
degli economisti e dei manager. Gli aspetti sui quale intendiamo richiamare l’attenzione del lettore
sono essenzialmente due. La insufficiente attenzione prestata dall’autore nella strutturazione
dell’analisi del futuro e il correlato basso profilo assunto dall’ambiente economico. Tutta l’analisi di
Grant è permeata di futuro, ma si tratta solo di un futuro evocato e non strutturato e analizzato in
rapporto a specifiche scelte strategiche. L’autore giustamente sottolinea e imposta l’analisi
dell’ambiente industriale, ma poi nelle parti successive l’analisi del vantaggio competitivo e la
business/corporate strategy vengono considerate senza una specifica teorizzazione storica
dell’ambiente. Certamente l’autore nel paragrafo dedicato alla strategia di diversificazione illustra i
81 Qui
si fa riferimento alla 4° edizione del 2002.
41
trend della diversificazione nel tempo, tuttavia quella che io considero una corretta impostazione
metodologica richiede molto di più. Richiede che si ipotizzi questa o quella strategia di
diversificazione in relazione ad uno specifico ambiente competitivo 82. Probabilmente se l’autore
dovesse definire una strategia per una specifica impresa partirebbe proprio dalla considerazione delle
caratteristiche dell’ambiente competitivo nel quale l’impresa è immersa, ma io sostengo che ciò
dovrebbe essere fatto anche in un testo universitario nel quale si spiega come si dovrebbe costruire
una strategia. Invece nel testo di Grant il lettore ricava l’impressione di una netta supremazia, ai fini
della determinazione del successo strategico di una impresa, del ruolo giocato dalle competenze e
quindi dall’interno dell’impresa rispetto all’esterno, rappresentato dall’ambiente competitivo. Contro
questa ottica va ricordato che non è la lama interna della forbice che taglia, né quella esterna, è il
gioco combinato dei movimenti delle due lame che tagliano.
Io giudico erronea questa supremazia delle competenze sull’ambiente in quanto va ribadito
che è l’ambiente competitivo, nella sua specifica determinazione storica, che assegna valore a questa
o quella caratteristica dell’impresa. Si consideri le competenze sviluppate nel tempo dalla casa
automobilistica Mazda nello sviluppo del motore rotativo. Queste competenze hanno un valore che
dipende dal tipo di evoluzione dell’ambiente e in particolare dal costo del carburante e dalla volontà
dei consumatori di ridurre l’emissione di CO2. Poiché questo tipo di motore si caratterizza proprio
per elevati consumi specifici e per rilevanti emissioni specifiche di CO2 il valore di queste
competenze è basso. In un futuro (purtroppo improbabile) nel quale la benzina avesse un costo
bassissimo e l’effetto serra non fosse un pericolo queste competenze potrebbero valere moltissimo.
Questa sottovalutazione del ruolo dell’ambiente competitivo è, a mio avviso, di più di una
semplice dimenticanza dell’autore. Si tratta di una esplicita posizione metodologica che io giudico
erronea. Per Grant 83:
In a world where customer preferences are volatile, the identity of customer is changing, and
the technologies for serving customer requirements are continually evolving, an externally
focused orientation does not provide a secure foundation for formulating long-term strategy.
When the external environment is in a state of flux, the firms’ own resources and capabilities
may be a much more stable basis on which to define its identity. Hence, a definition of a
business in terms of what it is capable of doing may offer a more durable basis for strategy
than a definition based upon the needs which the business seeks to satisfy”.
É evidente che qui la critica è soprattutto rivolta ad una impostazione da economia ortodossa,
che deriva meccanicamente la condotta delle imprese dalla struttura del settore, ma è altrettanto
evidente che si tende a svalutare eccessivamente il ruolo dell’ambiente competitivo. Se le preferenze
dei consumatori sono volatili e se le opportunità offerte dalla tecnologia evolvono continuamente è
del tutto illusorio aggrapparsi ad una supposta stabilità delle competenze perché, nello schema che
proponiamo, è proprio la determinazione dell’ambiente competitivo considerato nel suo complesso
che assegna valore alle competenze. Le caratteristiche dell’impresa non sono altro che competenze
potenziali, è l’ambiente competitivo che le tramuta, in una specifica determinazione storica, in
competenze effettive dotate di valore economico. Pertanto le determinanti dell’ambiente competitivo
82
Si è cercato di esemplificare questo modo di procedere in Volpato (2008a e 2008b).
83 Grant
(1991).
42
vanno studiate al pari delle caratterizzazione interne delle imprese, sia che le prime risultino più o
meno volatili delle seconde.
43
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48
Concetti e strumenti dell’analisi competitiva internazionale
Giuseppe Volpato
Dispensa per la prima parte del corso:
Analisi competitiva internazionale e gestione delle reti
2. L’evoluzione dei modelli d’impresa nelle scienze manageriali
2.1. Il modello microeconomico di concorrenza perfetta
Si è già detto in altra dispensa che tanto il ricercatore che il manager non sono in
grado di accedere attraverso la loro esperienza alla complessità del mondo reale. Esso di
per sé non è evidente e diretto. Il processo di acquisizione della conoscenza richiede
inevitabilmente un lavoro lungo e complesso di costruzione di un modello teorico (necessariamente semplificato) della situazione concreta da analizzare e nel quale prendere delle
decisioni e di successiva verifica: necessariamente imperfetta e incompleta, ma tuttavia
necessaria ed utile per raccogliere indicazioni sull’accuratezza del modello. Verifica da
realizzarsi attraverso un processo iterativo in cui: si analizza la propria e, se possibile
l’altrui esperienza, in casi ritenuti simili a quello in oggetto, si formulano ipotesi iniziali
che poi si scartano, si rivedono, si affinano, fino alla costruzione di un modello teorico di
riferimento che sembri aver superato un ragionevole standard di affidabilità in un ottica di
razionalità limitata.
Il primo modello interpretativo d’impresa elaborato dalla scienza economica è
rappresentato dal modello di concorrenza perfetta, esso ha trovato la sua prima completa
espressione nella teoria dell'equilibrio economico generale di Léon Walras (1834-1910).
Tale modello è costruito su una serie di condizioni dalla cui compresenza si perviene a
dedurre l'esatto funzionamento del modello di mercato. Dato per scontato che ogni
operatore agisce secondo una regola di razionalità economica, rappresentata dalla
massimizzazione del profitto d'impresa, nel caso del produttore, e dalla massimizzazione
della utilità soggettiva derivante dall'uso dei beni, nel caso del consumatore, come richiede
l’approccio utilitarista dell’economia ortodossa, le principali ipotesi corrispondenti al
modello concorrenziale sono le seguenti:
a) Ogni categoria di beni prodotta dalle imprese e utilizzata dai consumatori ha caratteristiche omogenee, ovvero tutte le imprese appartenenti allo stesso settore industriale, o
industria, producono prodotti assolutamente identici. Le differenze qualitative (reali o
presunte) sono quindi escluse. All’interno dello stesso mercato o industry non vi è motivo
per un acquirente di preferire la merce di un produttore a quella di un altro per ragioni
diverse dal prezzo.
b) Acquirenti e venditori sono così numerosi che, da un lato, si esclude la possibilità che
essi possano attuare politiche collusive, dall'altro, ogni operatore si presenta sul mercato
con una quantità di offerta o di acquisto così limitata, rispetto al totale della merce
scambiata, che nessuno è in grado di influenzare il prezzo di mercato attraverso variazioni
della propria quantità offerta o domandata. Il prezzo perciò è unico per tutti gli operatori
49
presenti sul mercato ed essi non possono fare nulla per modificarlo (atomismo del mercato).
c) Tutti gli operatori hanno una perfetta conoscenza delle leggi di trasformazione tecnologica necessarie alla produzione, dei rapporti di sostituibilità fra i bisogni dei consumatori,
del prezzo e delle quantità scambiate nel mercato, ecc. (conoscenza diffusa, trasparenza dei
mercati e perfetta imitabilità delle tecnologie).
d) Ogni operatore può trasformarsi in produttore qualora ciò gli appaia conveniente. Ogni
produttore esce dal mercato qualora consegua una perdita (assenza di barriere all'entrata e
all'uscita e perfetta mobilità dei fattori della produzione).
e) L'aggiustamento delle condizioni di mercato (verso l'equilibrio) avvengono in un periodo di tempo all'interno del quale non mutano le condizioni esogene rispetto al mercato
(costanza della tecnologia, delle preferenze e del reddito dei consumatori nel periodo considerato). In altre parole durante il periodo di tempo in cui un operatore esegue una azione
di aggiustamento della propria posizione rispetto al mercato non devono avvenire altri
mutamenti nel sistema tali da richiedere ulteriori adattamenti. Altrimenti non si arriverebbe
a completare un aggiustamento che già se ne dovrebbero realizzare degli altri. Nella
sostanza ciò significa supporre che gli aggiustamenti avvengano in un tempo praticamente
nullo.
Nella vigenza di queste condizioni, l'equilibrio del mercato si realizza in
corrispondenza di una uguaglianza fra domanda e offerta, all'interno della quale ciascun
produttore consegue un incasso marginale (dato dal prezzo unitario) identico al costo
marginale di produzione. Le circostanze che portano a questo risultato sono:
- la costanza del prezzo;
- la crescita del ricavo totale del produttore in misura direttamente proporzionale
alla quantità venduta;
- l'uguaglianza fra costo marginale e prezzo.
L’assetto di mercato che si viene a formare in un settore operante in condizioni di
concorrenza perfetta è contraddistinto da numerose, particolari, caratteristiche. Dal punto di
vista analitico, le proprietà di un sistema economico composto da tanti mercati funzionanti
in condizioni di concorrenza perfetta possono essere sintetizzate nell'esistenza di un
sistema di valorizzazione delle risorse tale da realizzarne l'allocazione ottimale. Tuttavia
appare opportuno considerare meglio le connotazioni implicite in questa configurazione.
Innanzitutto possiamo notare che tutte le imprese operano in condizioni di profitto nullo. I
ricavi coprono esattamente i costi, che sono rappresentati, oltre che dalle risorse acquistate
per la produzione, dall'apporto dei fattori produttivi: terra, capitale, lavoro e imprenditorialità. La remunerazione di questi fattori è rappresentata rispettivamente da:
rendita, interesse, salario e profitto. In sostanza il profitto, in questa particolare
configurazione di mercato, non ha la natura di valore residuale variabile da impresa a
impresa in funzione dell'efficienza dimostrata da ciascuna, ma corrisponde alla
remunerazione della prestazione imprenditoriale. Questa prestazione diventa, di conseguenza, un bene come un altro, avente un suo prezzo di mercato, che nella situazione di
equilibrio risulta livellato all'interno del settore (tutti gli imprenditori ricevono la stessa
remunerazione) e quindi direttamente inseribile nella funzione di costo delle imprese.
50
Un secondo aspetto assai interessante riguarda la perfetta corrispondenza fra
efficienza fisica ed efficienza economica di ciascuna impresa. Se un'impresa è efficiente
nella trasformazione fisica dei beni (rapporto fra la quantità dell'output e la quantità
dell'input), essa è necessariamente efficiente anche sul piano economico, dal momento che
nella configurazione di equilibrio ogni impresa acquista beni e fattori produttivi, e vende
prodotti, agli stessi prezzi della concorrenza. Direttamente connessa a questo aspetto appare
poi l'omogeneità delle tecnologie impiegate in ciascuna industria, dal momento che l'uso di
una tecnologia meno produttiva comporterebbe la estromissione del produttore dal mercato,
e una tecnologia più efficiente sarebbe immediatamente imitata da tutte le altre imprese. In
sostanza tutte le imprese appartenenti alla stessa industria hanno (nell'equilibrio di lungo
periodo) la stessa struttura dei costi. Infine, se si considera un sistema di economico
complessivo organizzato sulla base di mercati in concorrenza perfetta, abbiamo anche che
il profitto in quanto remunerazione di un fattore produttivo (l’imprenditorialità) è
assimilato ad una merce qualsiasi e quindi abbiamo anche un livellamento della redditività
fra settori in quanto una redditività superiore in una industria richiamerebbe imprenditori in
uscita da settori a redditività inferiore.
2.2. Gli effetti distorcenti dell’applicazione del modello di concorrenza perfetta
In precedenza si è sottolineato come l’utilizzo di un modello teorico eserciti una funzione
di selezione circa gli aspetti della realtà che vengono presi in considerazione. Una teoria
non ha solo la funzione di porre l’attenzione dell’analisti su un ventaglio specifico di
questioni considerate come rilevanti, ma esercita anche una selezione in senso inverso
cancellando dal quadro di riferimento altre variabili che il modello teorico
(necessariamente semplificato rispetto alla enorme complessità del reale) trascura di
analizzare e quindi elimina dal quadro di riferimento. Se questo processo di eliminazione
fosse ben presente sia ai ricercatori che agli operatori, che si avvalgono di quel particolare
modello teorico come schema di riferimento per le loro decisioni, si potrebbe sostenere che
non appena la realtà mostri che ciò che viene eliminato è troppo importante, nel
determinare la dinamica economica che si intende analizzare, perché possa essere trascurato, anche il modello teorico verrebbe immediatamente abbandonato o profondamente
rivisto per non incorrere negli errori generati dalla semplificazione assunta. In realtà le cose
non sono così semplici. Inevitabilmente i modelli teorici, specialmente se adottati in modo
diffuso e soprattutto se carichi di forti implicazioni politico-ideologiche, tendono a
rimanere in attività come paradigma concettuale di riferimento anche quando non
dovrebbero. Nel caso del modello di concorrenza perfetta, esso ha svolto un ruolo
ideologico di giustificazione non solo dell’efficienza, ma anche della equità ed eticità del
sistema liberista nei confronti di altri modelli economico-sociali in quanto avrebbe
assicurato l’eliminazione delle rendite e dei profitti monopolistici, la sovranità del
consumatore, l’ottimizzazione nella allocazione delle risorse, ecc. Pertanto si è verificata da
parte degli studiosi di stampo liberista una strenua difesa della sua validità ed applicabilità
anche quando la quotidiana realtà mostrava a tutti come, anche ammesso che fosse esistito
un periodo storico nel quale la realtà potesse essere in qualche modo assimilata ad un
modello di concorrenza perfetta, ormai il processo di industrializzazione e di
51
concentrazione oligopolistica prodottosi verso la fine del XIX secolo in tutti i maggiori
paesi industrializzati ne aveva ormai decretato l’inapplicabilità. Ebbene si consideri che già
in occasione della presentazione dell’opera di Walras: Éléments d’économie pure del 1874
il modello di concorrenza perfetta avrebbe dovuto essere dichiarato inapplicabile, in quanto
la rivoluzione industriale aveva già spazzato via in maniera eclatante ogni possibilità di
ritenere che la realtà economica fossa costituita sugli elementi tipici del suo quadro di
riferimento. Bisognerà aspettare 1930 perché tra gli studiosi inizi ad affermarsi l’idea che il
mondo non era fatto di tanti mercati atomizzati regolati dalla sovranità del consumatore in
cui vi era una informazione totale sulle caratteristiche economiche del sistema e un
aggiustamento istantaneo verso una configurazione di equilibrio.
Gli aspetti che la permanenza del modello di concorrenza perfetta aveva eliminato
dall’orizzonte teorico (ma anche pratico) di studiosi e di manager sono numerosi. Fra i più
importanti possiamo indicare il concetto di “differenziazione”. Poiché nel mercato
perfettamente concorrenziale il prodotto è omogeneo per definizione, solo con le
elaborazioni di E.H.Chamberlin: The Theory of Monopolistic Competition del 1933 e di
Joan Robinson: The Economic of Imperfect Competition dello stesso anno, si comincia a
teorizzare la coesistenza di una molteplicità di prodotti fra loro sostituibili, ma dotati di
caratteristiche proprie, riconoscibili dai consumatori, e quindi caratterizzati anche da prezzi
distinti, con l’insorgenza di posizioni di oligopolio e perfino di monopolio e con tutto ciò
che ciò comporta in termini di maggior potere contrattuale da parte dei produttori nei
confronti dei consumatori. Altrettanto vale per il concetto di innovazione che dentro il
modello di concorrenza perfetta è rappresentato come un dato esogeno al processo
economico. L’innovazione quando si produce è qualcosa che viene considerata alla portata
di tutti. Tutti ne se possono appropriare senza differenziali di costo e in tempi nulli. In
questo caso solo con le successive elaborazioni di Schumpeter (1883-1950) il concetto di
innovazione inizia ad essere oggetto dell’analisi economica in quanto tale. Oggi, che
sempre più comunemente di parla del ruolo crescente giocato dalla conoscenza nel
determinare le possibilità di crescita dei sistemi economici e delle imprese, non è difficile
rendersi conto come anche questo concetto sia stato in passato praticamente estromesso
dall’analisi economica per effetto dell’adozione del modello di riferimento strettamente
concorrenziale.
Anche il concetto di strategia d’impresa viene sostanzialmente eliminato dall’iniziale
orizzonte analitico dell’economia d’impresa in quanto il ruolo che all’interno del modello
di concorrenza perfetta viene riconosciuto alla singola impresa è rappresentato da un
semplice processo adattivo alle condizioni di mercato. Se l’assetto di una industria è
perfettamente concorrenziale, la singola impresa che vi opera non ha alcuna autonomia di
comportamento se non quella di produrre il bene in questione (che è omogeneo per tutti i
produttori) con il massimo livello di efficienza in modo tale da presentare un costo di
produzione, comprensivo di tutti i fattori utilizzati, perfettamente uguale al prezzo di mercato (che è unico per tutti gli operatori). Se il costo per una impresa fosse inferiore vorrebbe dire che essa utilizza una innovazione che sarebbe immediata imitata, ed annullata dal
punto di vista competitivo. Se essa ha un costo superiore dovrebbe immediatamente imitare
la soluzione applicata dalle altre imprese più efficienti, grazie alla disponibilità totale delle
informazioni di mercato, perché diversamente sarebbe immediatamente posta fuori
52
mercato. In altre parole non vi è spazio in questo sistema per una autonoma strategia
competitiva ed infatti tale concetto comincerà a prendere corpo solo dopo il 1960. Analogo
discorso può essere fatto per la natura organizzativa dell’impresa. Lo schema concorrenziale la trascura completamente dal momento che esso assume un unico soggetto decisionale, rappresentato dall’imprenditore. Non vi è spazio né per una gerarchia di centri
decisionali, né per una disparità di interessi all’interno della sua struttura. Ci potremmo
ancora dilungare a lungo su questo tipo di esemplificazione, ma ci sembra che quanto
esposto sia certamente sufficiente a mettere in luce la necessità di una continua valutazione
critica della validità dei modelli teorici di riferimento.
2.3. Il modello taylorista-fordista.
All’inizio del XX secolo prende corpo un modello interpretativo della realtà di una
impresa, che indicheremo come taylorista-fordista, che rappresenta la traduzione
concettuale di un lungo processo iniziato più di un secolo prima con la rivoluzione
industriale e che trova in Frederic Winslow Taylor (1856-1915) il suo massimo teorico e in
Henry Ford (1863-1947) il suo realizzatore più significativo. Come è noto la rivoluzione
industriale aveva iniziato a mettere in crisi il pre-esistente sistema di produzione artigianale
che era basato essenzialmente su una produzione su commessa, specificatamente
indirizzata ad un cliente che prefissava le caratteristiche che l’artigiano doveva conferire al
prodotto. Dal punto di vista dei rapporti mercantili la produzione di massa produce
innanzitutto una separazione fra il momento della produzione e il momento della vendita al
consumatore finale, dal momento che la produzione non è più diffusa come nella
produzione artigianale, ma tende a concentrarsi in specifici luoghi dove convergono le
risorse (terra, capitale, lavoro, energia) necessari ai nuovi metodi di produzione.
Poiché viene a mancare il collegamento con l’utilizzatore dei beni, questi devono
essere necessariamente standardizzati sulla base di una serie di parametri medi e resi
attrattivi per la clientela attraverso dei prezzi di vendita largamente inferiori a quelli
praticati da operatori artigianali. Tuttavia l’iniziale produzione industriale mantiene ancora
molti elementi tipici della produzione artigianale. I primi opifici si caratterizzano
essenzialmente per l’uso di energia di tipo idraulico o termico e per l’introduzione di
macchinario, ma l’organizzazione del lavoro è ancora quella artigianale, dove l’operaio
qualificato dirige e istruisce una squadra di apprendisti sulla base della esperienza
accumulata. La differenza è che i nuovi stabilimenti riuniscono sotto uno stesso tetto una
gran quantità di squadre di lavoro che si turnano nell’impiego dei macchinari. In sostanza si
produce un unico prodotto, ma ogni operaio qualificato tende a mantenere criteri di
organizzazione della propria squadra, di attuazione della lavorazione e di qualità
sostanzialmente soggettivi.
Il limite più evidente di questa prima lavorazione industriale è che i prodotti
complessi, realizzati per assemblaggio, utilizzano parti che non sono ancora intercambiabili. Ad esempio anche le armi leggere come pistole e fucili non potevano essere
assemblate direttamente attraverso il montaggio delle singole parti, perché queste dovevano
essere adattate attraverso un delicato lavoro di rifinitura realizzato da una élite operaia di
“aggiustatori”. Tra l’altro questa assenza di standardizzazione e la necessità dell’opera
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degli aggiustatori riduceva considerevolmente il potere contrattuale della direzione
aziendale (proprietario capitalista e management) nei confronti delle maestranze che
avevano tutto l’interesse a cercare di mantenere il controllo sulle modalità organizzative del
processo produttivo, sui ritmi di lavoro e sui meccanismi di apprendistato e formazione
degli operai. L’effetto più rilevante di questa situazione è l’ottenimento di livelli di
produttività (ma anche di produzione intesa in misura assoluta) nettamente inferiore a
quello teoricamente raggiungibile attraverso una razionalizzazione profonda del modo di
produrre: dalla progettazione del prodotto in sé, che non deve più essere ispirato dai
precedenti canoni della lavorazione artigianale, al layout della fabbrica, agli attrezzi da
utilizzare, alla divisione del lavoro tra le maestranze.
Alla fine del XIX secolo Taylor inizierà una serie di esperienze e di sperimentazioni
circa le modalità operative del lavoro di fabbrica che lo porteranno nel decennio successivo
a definire quello che lui stesso indicava come the one best way dell’organizzazione del
lavoro. In questa sede non è possibile ripercorrere i passaggi del suo lavoro teorico e
pratico. In sintesi egli si pose l’obiettivo di distillare delle regole, desunte da misure e
sperimentazioni pratiche, e quindi ispirate da criteri di natura scientifica, su come si
dovesse organizzare tutto il processo di fabbricazione di un bene, avendo come obiettivo
l’ottenimento della massima efficienza. Di qui il nome di Scientific Management che
Taylor diede alla sua impostazione. L’idea base era che attraverso la razionalizzazione
consentita da una produzione organizzata secondo criteri scientifici si sarebbe ottenuta una
produttività così elevata, e quindi dei costi di produzione così bassi, da realizzare
simultaneamente l’interesse del capitalista (alti profitti), del lavoratore (alti salari) e del
consumatore (bassi prezzi e alti consumi).
Come la critica successiva ha messo in luce l’impostazione taylorista non era esente
da punti deboli, ma non vi è dubbio che essa rappresentò un momento di scientificazione
delle attività produttive di grande significato. I principi di questa impostazione, qui riportati
con le tradizionali denominazioni anglosassoni, sono:
Time and Motion System: rappresentato dallo studio analitico dei movimenti
necessari ad effettuare una certa lavorazione (soprattutto in termini di montaggio di parti) e
dei tempi che ne derivavano;
American System: perfetta intercambiabilità delle parti ottenuta attraverso la
definizione di disegni rigorosi di ogni pezzo e la realizzazione con tolleranze molto limitate
rese possibili dall’uso di nuovi macchinari;
Jig System: produzione effettuata attraverso attrezzature specialistiche, rappresentate da maschere, calibri, dime, ecc., in grado di consentire un uso altamente specializzato
delle macchine utensili, l’intercambiabilità delle parti lavorate, e il sistematico controllo
delle misure del pezzo lungo la sequenza di operazioni e l’impiego di strumenti fool proof
in grado ridurre errori e comprimere i tempi di attrezzaggio;
Standardized and Syncronized System: connessione in sequenza coordinata
delle diverse operazioni di fabbricazione e di assemblaggio finale dei prodotti utilizzando,
ove possibile, un ciclo di lavorazione in continuo e nastri trasportatori per mantenere
postazioni di lavoro fisse. Henry Ford fu il primo imprenditore a realizzare, nel 1912 nella
sua grande fabbrica di Highland Park, l’applicazione in modo simultaneo e congiunto di
54
questi principi ottenendo risultati che rappresentarono una vera e propria rivoluzione del
modo di produrre.
Dal punto di vista della gestione d’impresa il modello taylorista-fordista rappresenta un
formidabile passo in avanti rispetto al modello neo-classico. In sostanza il modello
neoclassico annullava la gestione in senso proprio in quanto l’impresa era ridotta a un
centro decisionale, rappresentato dall’imprenditore. Dal punto di vista concettuale il suo
compito si riduceva ad un mero calcolo delle condizioni di convenienza e dal punto di vista
pratico la gestione era rappresentata dalla rilevazione (contabilità) dei fatti economici
rappresentati da costi e ricavi. In questa modellizzazione la gestione non aveva spessore, in
quanto si assumeva che la risposta al cosa, al come e al quanto produrre derivassero
direttamente dalle condizioni del mercato competitivo. Era la struttura di mercato a definire
gli spazi operativi assegnati ad ogni impresa e quindi anche a dare risposta ai tradizionali
quesiti della scelta imprenditoriale. Con il modello taylorista-fordista invece è
l’applicazione di criteri scientifici alla gestione ad indicare le modalità operative da attuare.
Il management nasce appunto come disciplina dotata delle conoscenze necessarie a dare
risposte efficaci ed efficienti ai quesiti imprenditoriali.
I limiti di questo modello sono riconducibili al fatto che le regole del taylorismofordismo sono produttrici di efficienza soprattutto nei settori industriali dove le economie
di scala sono effettivamente in grado di giocare un ruolo preminente, come nella
produzione di materiali di base attraverso impianti ad alta integrazione e a ciclo continuo
(acciaio, cemento, fibre tessili, prodotti petroliferi, ecc.) o nella produzione di prodotti
metalmeccanici ad ampia diffusione (automobili, elettrodomestici). In altri settori, più
legati alle esigenze della moda e alla differenziazione dei prodotti, le regole della
produzione standardizzata di massa rappresentano comunque un fattore di modernizzazione, ma che devono essere mediate con una pluralità di esigenze di mercato e con le
specificità nazionali dei singoli paesi e che quindi vedono ridursi in questo modo l’impatto
sui precedenti assetti economici.
In sostanza questo modello aveva assolutizzato delle ipotesi che risultavano ragionevolmente accettabili nella prima metà del XX secolo, ma che in seguito tendono a
mostrare la loro inadeguatezza. In particolare esse riguardavano sia la natura della domanda
sia le caratteristiche del processo produttivo qui sinteticamente riportate:
 l’ipotesi di una prevedibile e costante crescita della domanda di beni e servizi per effetto
dell’incremento di produttività del sistema economico complessivo;
 l’ipotesi che la domanda continuasse a richiedere beni standardizzati di massa con
l’attenzione del consumatore polarizzata sulla quantità anziché sulla qualità e sulla
personalizzazione dei beni (elevata elasticità della domanda rispetto al prezzo);
 l’ipotesi che, date le predette caratteristiche della domanda, il compito manageriale si
articolasse in una sequenza di azioni programmabili ex ante, senza l’esigenza di continui
adattamenti e revisioni;
 l’ipotesi che il processo di trasformazione fisica dei materiali in beni fosse
inevitabilmente la parte più importante del processo di creazione del valore per i
consumatori e che, di conseguenza, tutto il ciclo industriale dovesse essere organizzato
attorno ad una produzione uniforme nelle caratteristiche e costante nel tempo, lasciando al
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magazzino dei prodotti finiti il compito di elemento adattatore tra il ritmo costante della
produzione e l’eventuale stagionalità della domanda;
 l’ipotesi che la funzione della commercializzazione del prodotto assumesse un ruolo
secondario e tecnico, rappresentato da una funzione meramente logistica e con un ruolo
delle reti distributive necessario ma economicamente privo di rilievo.
2.4. Il modello dell’impresa sistemica.
I limiti del modello taylorista-fordista iniziano a manifestarsi già con la grande crisi
del 1929, ma la persistenza del paradigma fordista sembra superare questa fase per essere
nuovamente messo in discussione dopo il secondo conflitto mondiale. Abbiamo l’emergere
di trasformazioni nel tessuto industriale ed economico in generale connessi ad una pluralità
di fenomeni come: la crescente importanza del ruolo dei sindacati dei lavoratori, il
confronto fra i due blocchi contrapposti dell’area occidentale e dell’area orientale,
l’aumento degli scambi internazionali e il crescente ruolo dell’innovazione tecnologica. Di
qui l’affermarsi di una visione nuova dell’impresa definita come un sistema complesso che
opera all’interno di una rete di interdipendenze e che quindi tende ad assumere una natura
che si presta poco alla rigida pianificazione implicita del modello fordista. L’impresa
diventa una componente di un sistema economico in continua trasformazione e con il
quale ha un continuo interscambio di informazioni che a loro volta danno luogo a continui
processi di adattamento reciproco.
L’impresa cessa di essere rappresentata e immaginata come un sistema meccanico,
in cui ogni singola parte combacia con le altre sulla base di una scientificazione ex ante, per
lasciare il posto ad una immagine desunta da modelli biologici. Tra l’altro sempre maggior
rilievo assume la visione organizzativa dell’impresa. Nel modello marginalista questo
aspetto non era nemmeno menzionato in una visione che riassumeva tutto nella decisione
imprenditoriale. Nel modello taylorista invece abbiamo una esplicitazione organizzativa,
ma questa resta confinata in una espressione funzionale e gerarchizzata che sopprime la
dialettica tra i soggetti operanti all’interno dell’impresa (l’imprenditore, i manager delle
diverse funzioni aziendali, i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali) in quanto
l’adozione della one best way presuppone l’individuazione di comportamenti ispirati al
massimo dell’efficienza e quindi comunque in grado di ricomporre le disparità di vedute
attraverso forme di distribuzione del valore aggiunto prodotto.
L’impresa sistemica cerca quindi di proporsi come paradigma alternativo a quello
taylorista-fordista facendo leva soprattutto su una visione di tipo biologico in cui ogni
elemento e ogni soggetto operante nell’impresa, ma anche soggetti esterni all’impresa, ma
comunque influenzati dal suo operare e interessati alla sua evoluzione (i cosiddetti
stakeholder), sono portatori di interessi legittimi che in qualche modo vanno salvaguardati
attraverso nuovi meccanismi istituzionali. Questa visione è favorita sia dalla fase di
notevole espansione economica internazionale prodottasi con le esigenze di ricostruzione
successive al secondo conflitto mondiale, sia dalla realizzazione di importanti innovazioni
tecniche, spesso derivanti da sviluppi innovativi delle attività di ricerca poste in essere
durante il secondo conflitto mondiale, come l’elaboratore elettronico che inizia ad entrare
nelle imprese alla fine degli anni ’50. Questa fase espansiva, presente in modo marcato
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anche in Italia, suggerisce l’idea che la visione dura e pura dell’impresa capitalistica di
stampo taylorista possa essere emendata attraverso un processo di democratizzazione
dell’impresa. Di qui la crescente attenzione rivolta in questo modello “organicista” alle
dinamiche organizzative sia interne all’impresa che tra questa e le realtà esterne ad essa.
Un altro aspetto della revisione in senso sistemico dell’impresa è rappresentato
dall’emergere delle problematiche strategiche. L’impresa, non essendo più un qualcosa di
meramente adattivo rispetto agli equilibri di mercato, né potendo affidarsi alla semplicistica
adesione alla one best way fordista, deve iniziare a fare i conti con la propria specificità,
rappresentata dal patrimonio di risorse disponibili e dai vincoli di mercato in cui si trova ad
operare e quindi ad elaborare un proprio sentiero di sviluppo competitivo. Non è un caso
che in questa fase anche l’obiettivo dell’impresa, prima tipicamente rappresentato dal
perseguimento del profitto, tenda ad essere ridefinito in chiave di “sopravvivenza”. Anche
questo è un modo per sottolineare l’abbandono di schemi sostanzialmente deterministici,
che si cerca di sostituire con concetti che tengano conto della accresciuta aleatorietà delle
situazioni e della dialettica di posizioni e interessi manifestata dai soggetti presenti
nell’impresa.
2.5. Il modello della specializzazione flessibile.
Con il passare del tempo le critiche al modello taylorista-fordista si facevano
sempre più numerose, anche se è indubbio che questa impostazione poteva vantare alcuni
successi di grande rilievo, ma solo in alcuni settori. Un approccio critico prese quindi la
strada di individuare settori industriali nei quali il dinamismo delle imprese non derivasse
tanto da processi di concentrazione su grandi impianti, ma da forme di dinamismo meno
appariscenti, ma diffuse. Ne è derivata la teorizzazione della specializzazione flessibile, che
presenta un certo interesse anche per il fatto di rifarsi alla realtà dei distretti industriali che
proprio in Italia vanta notevoli esempi di successo. In sostanza il modello della
specializzazione flessibile si contrappone alla grande impresa oligopolistica ad alta
integrazione verticale, che rappresenta il frutto tipico di un approccio basato sulle grandi
economie di scala e sulla produzione standardizzata di massa, sottolineando che le piccole
imprese possono comunque mantenersi competitive qualora riescano a costruire un tessuto
industriale: il “distretto”, basato su una divisione del lavoro fra imprese nelle quali tutte
danno il loro contributo al dinamismo collettivo, mantenendo un alto tasso di innovazioni,
soprattutto del processo produttivo, e una accentuata capacità di reazione alle esigenze del
mercato.
In altre parole in questo approccio si sottolinea il fatto che esistono mercati nei
quali i contenuti di stile e di moda dei prodotti hanno un elevato livello di aleatorietà nel
tempo e spingono verso forme di differenziazione della domanda che mettono in difficoltà
la classica impresa fordista che è in grado di dare il meglio di sé solo in situazioni stabili e
prevedibili e con prodotti standardizzati. Di qui l’esigenza di forme organizzative molto
più articolate in cui non è la singola impresa a vincere la sfida del mercato e ad alimentare
in modo autonomo la propria crescita, quanto una costellazione di imprese che continuamente sondano il mercato con proposte alternative delle quali solo alcune ricevono
l’apprezzamento dei consumatori. In questa configurazione, in cui le imprese hanno
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difficoltà ad imporsi in modo duraturo sulle concorrenti, sia dello stesso distretto che di
altri distretti aventi la medesima vocazione industriale, ciò che tende a manifestarsi è più un
successo (o un insuccesso) complessivo che quello di singole imprese, in quanto la ragione
della competitività è il risultato di un apporto di tanti attori specializzati. Quindi è il
comparto distrettuale che cresce e si sviluppa come somma di tante entità specializzate, al
cui interno si mantiene un continuo processo di selezione delle realtà più pronte a recepire
le nuove tendenze del mercato e più rapide nell’imitare le soluzioni stilisticamente più
gradite ai consumatori. Dentro il distretto le singole imprese si alternano nel ruolo guida e
possono conoscere fasi di espansione o di recessione, ma questa alternanza di posizioni,
che comprende anche la formazione di nuove imprese e l’uscita di altre che hanno esaurito
la spinta imprenditoriale alla creatività e all’innovazione, rappresenta proprio il
fondamentale fattore di sopravvivenza del distretto nel suo complesso.
Del resto i distretti del Made in Italy esemplificano molto bene questa realtà in cui
operano imprese dell’abbigliamento, delle calzature, della gioielleria, dell’arredamento, in
cui è la stessa articolazione dei gusti di una clientela differenziata per età, reddito
spendibile, modelli culturali di riferimento e stili di vita, a impedire che singoli operatori,
anche se di grande successo, si mostrino in grado di acquisire quote di mercato
maggioritarie e di stabile durata. È la stessa articolazione delle collezioni di prodotti,
coniugate per serie stagionali, a decretare la provvisorietà dei risultati competitivi in cui
tutti occupano a turno il ruolo di imitati e imitatori delle idee migliori.
Ovvio che per questi settori, in cui il successo ha comunque una connotazione
abbastanza effimera, non siano le regole del taylorismo-fordismo a determinare i successo
delle imprese e che quindi le categorie concettuali che presiedono alla definizione delle
strategie debbano essere almeno in parte diverse. Tuttavia anche questa impostazione, che
appare abbastanza aderente ad alcune situazioni, non è immune da critiche e recentemente
mostra la necessità di essere rivisitata per tener conto dei processi di delocalizzazione che
stanno interessando anche le realtà distrettuali, che sono soggette a forme di destrutturazione e di ridefinizione della divisione del lavoro per la convenienza a spostare le attività
a più alto contenuto di lavoro manuale verso aree a basso costo della manodopera. Il
distretto industriale tende quindi a perdere il suo riferimento specificatamente geografico
per diventare un distretto virtuale basato su imprese anche spazialmente molto lontane,
ma capaci di intrattenere stretti rapporti di coordinamento progettuale, produttivo e
commerciale sulla base di reti informatiche.
2.6. Il modello della Lean Production.
Negli anni ’70 e ’80 si assiste alla straordinaria crescita industriale del Giappone e
al suo irrompere in settori un tempo appannaggio esclusivo delle imprese occidentali:
l’acciaio, la cantieristica, le motociclette, le automobili, le macchine fotografiche,
l’elettronica di consumo. Inizialmente questa crescita di competitività viene spiegata in
Occidente attraverso una serie di condizioni di favore dell’industria giapponese rispetto a
quella occidentale:
 la sottovalutazione dello Yen rispetto al dollaro;
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 la concentrazione dei grandi gruppi industriali in una serie di legami finanziari ed
economici denominati zaibatsu, formatisi sulla base degli accordi tra grandi famiglie
giapponesi emerse successivamente alla rivoluzione Meiji del 1868, nella fase nazionalistica antecedente alla seconda guerra mondiale, e poi trasformatisi in keiretsu (consorzi
volontari di imprese formalmente indipendenti, ma legate da consolidati rapporti di
fornitura), ma sostanzialmente con le stesse finalità di reciproca difesa contro i concorrenti
esterni al consorzio soprattutto se esteri;
 il basso costo del lavoro giapponese e la possibilità di un impiego del personale secondo
regole molto più favorevoli alla direzione d’impresa rispetto a quanto previsto dalla
legislazione del lavoro occidentale;
 la lunga tradizione di sostegno pubblico dello stato alle imprese e in particolare del
Ministry of International Trade and Industry (MITI).
Tuttavia agli osservatori più attenti dell’industria giapponese divenne ben presto evidente
che, soprattutto nel caso dell’industria automobilistica, la competitività aveva una
giustificazione intrinseca ai modelli manageriali adottati dalle imprese. In altre parole la
competitività della produzione automobilistica giapponese, anche se favorita dalle
condizioni sopra riportate, aveva un nocciolo duro rappresentato da uno standard
manageriale proprio, che risultava più adeguato alle esigenze dei consumatori a livello
internazionale di quello delle imprese occidentali, comprese quelle americane che, proprio
in forza del precedente paradigma fordista, venivano giudicate le più avanzate nel mondo.
I tratti salienti di questo approccio sono rappresentati da una serie di elementi fra i quali
sottolineiamo:
 una diversa divisione del lavoro tra vertice e base aziendale di quella prevista dal modello
taylorista-fordista. Quest’ultimo si basa sull’assunzione di una razionalità scientifica
definita ex ante e tutta centrata ai livelli superiori della struttura gerarchica d’impresa
mentre il modello della produzione snella assume l’inevitabile imperfezione della
pianificazione ex ante e la necessità che essa venga integrata e rifinita da una serie di
aggiustamenti ex post che devono derivare dalla conoscenza, intelligenza e creatività dei
soggetti operanti a tutti i livelli della struttura, anche da quelli più bassi. La ben nota
separazione taylorista fra chi decide e chi esegue si basa proprio sul fatto che chi decide
non ha bisogno del contributo di intelligenza decisionale di chi esegue. Al contrario la lean
organization mi mostra capace di riconoscere il valore delle competenze presenti a tutti i
livelli della struttura gerarchica e orientata a sviluppare le modalità organizzative in grado
di sfruttarne le potenzialità.
 L’impresa snella va concepita come una realtà in cui deve realizzarsi un apprendimento
continuo (learning organization) in cui la qualità operativa dei processi è influenzata in
misura determinante dai soggetti direttamente a contatto con le attività critiche.
 L’impresa non è un meccanismo ma un sistema socio-tecnico in cui l’efficienza è
raggiungibile solo con l’ampia collaborazione di tutti gli operatori, dal momento che
ognuno è depositario di conoscenza significative per il raggiungimento di standard di
eccellenza.
 Inoltre, se nell’approccio fordista il rapporto tra imprese e quello in particolare tra
fornitore e cliente industriale è basato su meccanismi di mercato di tipo prettamente
competitivo, nell’approccio di tipo lean sviluppato soprattutto dalla casa automobilistica
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Toyota, la logica è più sottile e si basa su una commistione di elementi di cooperazione e di
competizione fra imprese. Da un lato la grande impresa committente mantiene un ruolo di
guida e di supporto nei confronti del proprio “parco fornitori” (denominato kyoryokukai),
affinché sia il complesso di queste imprese a progredire tecnologicamente e a svilupparsi
economicamente, dall’altro però ogni singola azienda fornitrice deve mostrarsi degna di
questo rapporto privilegiato con l’impresa-cliente elevando sistematicamente la propria
efficienza e abbassando i prezzi della fornitura se non vuole essere estromessa dal
kyoryokukai.
Tra l’altro questo modello d’impresa si afferma in un momento in cui nei paesi più
industrializzati si è già manifestata la fase di prima dotazione dei principali beni di
consumo come l’automobile, gli elettrodomestici bianchi (lavatrice e lavastoviglie) e neri
(televisori, impianti stereofonici, ecc.), le macchine fotografiche, i personal computer, il
telefono fisso, ecc. Come mostrano le statistiche degli anni ‘90 quasi tutti i nuclei familiari
sono ormai dotati di questo genere di beni e pertanto la propensione all’acquisto di
sostituzione si manifesta solo in presenza del lancio di modelli aventi caratteristiche
nettamente innovative rispetto a quelle dei beni già posseduti. Ad esempio in Italia nel
1990 il numero dei veicoli circolanti supera già le 500 unità ogni 1.000 abitanti e nel 2009
questo indice di motorizzazione è pari a quasi 680 veicoli circolanti ogni 1.000 abitanti.
Ciò significa che in media ogni nucleo famigliare è dotato di almeno una automobile e che
anche la multimotorizzazione (possesso da parte di un nucleo familiare di due o più
vetture) è ormai un fatto comune.
L’effetto di questa saturazione degli acquisti di prima dotazione in una pluralità di mercati
di beni di consumo e l’interesse delle imprese a promuovere un processo di acquisto di
sostituzione ha profondamente mutato i parametri di scelta dei comportamenti d’acquisto e
di conseguenza delle politiche di marketing. Nella fase del fordismo, che ha accompagnato
l’acquisto di prima dotazione, le preferenze degli acquirenti alimentavano una marcata
elasticità della domanda rispetto al prezzo (a riduzioni di prezzo anche percentualmente
contenute corrispondevano significativi aumenti percentuali della domanda), che invece
nella fase dell’acquisto di sostituzione inizia a mutare in una elevata elasticità rispetto alla
qualità dei prodotti, alla loro affidabilità e al loro contenuto stilistico. Di qui l’esigenza di
accorciare il ciclo di vita dei modelli per poter offrire nuove soluzioni e di ridurre la durata
del time-to-market per non trovarsi in ritardo rispetto alle nuove e mutevoli tendenze di
mercato. Da un certo punto di vista, l’approccio della lean production introduce degli
elementi tratti dal modello di specializzazione flessibile anche nei settori che, durante la
fase dell’acquisto di prima dotazione, avevano creato la loro capacità di crescita e di
accumulazione su strategie di standardizzazione di massa.
 La produzione non si fa più privilegiando la linearità e la costanza del processo
produttivo, perché nella nuova situazione c’è un forte rischio che il mutamento delle
preferenze dei consumatori renda invendibili le scorte di prodotto finito accumulate nei
momenti in cui la produzione eccede la domanda corrente; in altre parole occorre
abbandonare la logica della produzione push per assumere la logica della produzione pull
in cui si cerca di produrre esattamente quanto richiede il mercato, sia sotto il profilo
quantitativo che qualitativo.
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 È chiaro che la rilevazione delle preferenze della domanda e del loro evolvere
quantitativo del tempo assume un ruolo di importanza molto maggiore di quella in cui le
caratteristiche del prodotto restano a lungo costanti nel tempo e l’aggiustamento,
meramente quantitativo, può essere fatto semplicemente attraverso la gestione del
magazzino dei prodotti finiti.
 Ma attuare una logica pull, nella quale il ritmo della produzione deve seguire nel modo
più aderente possibile il ritmo della domanda effettiva dei consumatori, richiede si dia una
soluzione soddisfacente anche alla rapidità di consegna del prodotto ordinato con
particolare specifiche distintive. Occorre quindi organizzare tutta una catena di fornitura
logistica di tipo just-in-time, nella quale i tempi di risposta del sistema produttivo, relativo
sia alle aziende produttrici delle parti del prodotto che a quelle che curano l’assemblaggio
finale, siano estremamente rapidi nel seguire una domanda che varia continuamente sia
sotto il profilo quantitativo che su quello della caratterizzazione dei prodotti. Ad esempio le
forniture di componenti non possono più essere testate dalle imprese di assemblaggio,
perché ciò allungherebbe enormemente i tempi di risposta, occorre invece che le forniture
siano direttamente avviate alle linee di montaggio senza ulteriori controlli.
 Inutile sottolineare che questa evoluzione risulta sostenibile solo a patto di elevare
enormemente la qualità delle singole componenti. Così come la produzione standardizzata
di massa aveva richiesto la perfetta intercambiabilità delle parti, ora l’assemblaggio “tirato”
dalla domanda e alimentato da un flusso di fornitura just-in-time presuppone una qualità
delle singole componenti così elevata da rendere superflui i controlli prima del montaggio.
In termini concreti questa trasformazione significa passare da livelli qualitativi in cui si
tollera uno scarto di qualche punto percentuale come accadeva nel modello fordista, a
livelli qualitativi misurati in poche decine di difetti su un milione di parti, vale a dire un
livello di scarto inferiore di circa 10.000 volte di quello precedente. Senza livelli di
affidabilità delle consegne di questo tipo la vendita tirata dalla domanda trasformerebbe
l’acquirente in una sorta di collaudatore e segnalatore di difetti, con effetti sulla
soddisfazione del cliente assai facili da immaginare e con costi aggiuntivi notevoli per
l’impresa produttrice, dato l’innalzamento della durata della garanzia che deve essere
assicurata ai prodotti. Di qui uno sforzo considerevole nell’elevare la qualità di ogni
operazione produttiva attraverso l’istituzione di circoli di qualità e di forme di continuo
miglioramento del prodotto (atteggiamento denominato kaizen in giapponese e continuousimprovement in inglese).
In sostanza il modello della lean production tenta un superamento simultaneo tanto del
modello della produzione standardizzata di massa del fordismo quanto del modello della
specializzazione flessibile introducendo ottiche di miglioramento più radicali su entrambi i
fronti. Da un lato nei paesi a più elevato sviluppo la preferenza per: la varietà, la
personalizzazione del prodotto e i contenuti di stile impatta ormai massicciamente su ogni
prodotto, attivando processi di differenziazione anche delle produzioni precedentemente
standardizzate. Dall’altro la programmazione delle attività e il coordinamento delle
operazioni produttive diviene un fatto che travalica la singole impresa per interessare tutta
la catena che unisce i diversi livelli di fornitura con le imprese di assemblaggio finale.
61
2.7. Il modello basato sulla conoscenza
Già i modelli successivi a quello taylorista-fordista avevano iniziato a mettere in
luce come il vantaggio competitivo derivasse in via generale da una capacità dell'impresa
di mettersi in relazione con il mercato e di controllare dei sistemi di organizzazione dei
processi e di produzione di beni e servizi. Da allora è divenuto sempre più evidente che il
vantaggio competitiva dell'impresa si configura come la capacità di cercare ed elaborare
informazioni (sulla clientela, sui concorrenti, sulle tecnologie produttive, sulle risorse
utilizzabili,) e di tradurle in forme organizzate di produzione. Quindi al massimo livello di
astrazione la competitività dell'impresa è il risultato della capacità di incorporare nelle
proprie attività: scienza (informazioni sulle regole di funzionamento dei sistemi fisici e
sociali) e conoscenza (informazioni sugli stati dei sistemi fisici e sociali, sulle esigenze dei
soggetti, sulle modalità tecniche con le quali produrre i beni richiesti). Molto spesso il
risultato di queste attività è dato da un "prodotto", vale a dire da un qualcosa di materiale.
Ma questa circostanza non deve farci dimenticare che il "prodotto" rappresenta il risultato
di una "prestazione immateriale" dell'impresa rappresentata dalla sua capacità di incorporare e produrre scienza e conoscenza. Quindi il vero differenziale competitivo fra imprese
si trova (e si produce nel tempo) a questo livello più che a quello della produzione di beni e
servizi.
Sul piano dello sviluppo economico era inevitabile che il processo di industrializzazione si concentrasse prima in quelli che sono indicati come "bisogni primari", bisogni
che sono tipicamente soddisfatti da beni materiali: cibo, vestiario, abitazioni e arredi, ecc.
Inoltre il processo di industrializzazione, che portava fra l'altro alla formazione di sistemi
organizzati per la produzione di beni (le imprese) avveniva attraverso l'applicazione di un
sistema di informazioni e conoscenze che pre-esisteva rispetto alle imprese e che era
maturato durante secoli di ricerche e di sperimentazioni fatte al di fuori del sistema
produttivo e delle imprese. Questa particolare evoluzione ha avuto l'effetto fuorviante di far
percepire agli studiosi del processo di industrializzazione che la scarsità non riguardava le
conoscenze che stavano alla base del processo che stava realizzandosi, ma i beni che
provenivano dalle applicazioni di quelle conoscenze. In altre parole si consideravano
scienza e conoscenza come perfettamente distribuite e pienamente disponibili da parte di
tutti.
Il passaggio alla concettualizzazione di un modello d’impresa, e più in generale di
un sistema economico, in cui la conoscenza diviene il più importante fattore di sviluppo e
di competitività pone però tutta una serie di problemi concettuali che sono tuttora in fase di
esplorazione. Ciò deriva dal fatto che la conoscenza, considerata sia nella sua dimensione
scientifica (spiegazione dei fenomeni ovvero know-why), che nella sua dimensione tecnica
(conoscenza relativa al modo di operare per ottenere un certo risultato, ovvero know-how),
è una risorsa del tutto peculiare che non rispetta le regole dell’economia classica nel senso
che essa ha un “costo di produzione” ma una volta prodotta può essere “riprodotta” a costi
molto bassi se non nulli e quindi condivisa senza che ciò dia luogo al meccanismo della
scarsità che regola invece gli altri fattori produttivi (capitale, terra, lavoro). L’impresa che
diffonde una certa competenza ad un’altra impresa resta comunque depositaria della stessa.
Inoltre poiché la nuova conoscenza in grado di creare valore è sempre più complessa e
articolata essa sempre più difficilmente può essere acquisita da un solo soggetto o da una
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sola organizzazione, sia che si tratti di un centro di ricerca o di un’impresa. Quindi la
conoscenza è un qualcosa di distribuito e non concentrabile. Tanto più che le conoscenze,
sia quelle di tipo know-why che quelle know-how si prestano molto spesso ad essere
trasferite e moltiplicate in ambiti diversi da quelli nei quali esse hanno avuto origine. Vi è
quindi una elevata possibilità di trasferimento delle conoscenze, soprattutto se gli operatori,
nel nostro caso le imprese, hanno la capacità di costituire delle “filiere cognitive” vale a
dire delle reti di imprese in grado di dividersi il lavoro cognitivo e di comunicarsi reciprocamente i risultati conseguiti, attraverso l’uso di linguaggi condivisi.
Il cambiamento di prospettiva, insito nel passaggio ad un modello basato sulla
conoscenza, è particolarmente elevato in quanto mutano profondamente le basi su cui in
precedenza si costruiva la competitività dell’impresa. Ad esempio il fattore dimensionale si
riduce considerevolmente d’importanza a favore della qualità dei processi di
apprendimento dell’impresa, alla sua possibilità di inserirsi in numerose filiere cognitive,
alla capacità di propagare verso altri operatori (imprese-clienti e consumatori) la
conoscenza acquisita. Analogamente è sempre meno la proprietà delle risorse a determinare
le possibilità espansive dell’impresa quanto piuttosto la capacità di cogliere e
padroneggiare il complesso delle conoscenze che circolano nell’ambiente economico e
sociale. Queste considerazioni non vanno lette nel senso di togliere totalmente significato ai
differenziali competitivi tradizionali: economie di scala, economie di specializzazione,
economie di scopo, economie di apprendimento, quanto piuttosto in quello di reinterpretarle, cogliendo il fatto prima trascurato che si tratta di forme elaborate a partire da una
risorsa base, rappresentata dalla scienza e conoscenza incorporata nell’impresa, ma anche
nella rete di relazioni che una singola impresa riesce ad instaurare sia a monte, verso i
fornitori, sia a valle verso i clienti-utilizzatori. Questa connessione può essere immediata
per le economie di apprendimento, in quanto esse si configurano in modo diretto come
espressione del bagaglio conoscitivo dell'impresa, ma questo vale anche per le altre forme.
Le economie di scala non sono un dato diretto e immediato. Ford le realizza perché prima
sviluppa tutto il know-how necessario a produrre la perfetta standardizzazione e
sostituibilità delle parti.
Ovviamente queste considerazioni valgono a maggior ragione per la grande varietà
di leve che possono essere utilizzate per creare dei differenziali di competitività in altre
aree. Qui citiamo solamente alcuni dei concetti recentemente sviluppati dalla letteratura
manageriale:
 maggior rapidità nel cogliere le nuove esigenze della clientela e nel proporre beni e
servizi appositamente ritagliati sui bisogni emergenti (differenziazione);
 maggior rapidità nel passare dalla fase di definizione del prodotto che si vuole ottenere
(concept) a quella di inizio della produzione e della commercializzazione (time-tomarket);
 maggior sensibilità nel valutare il grado di soddisfazione della clientela (customer satisfaction) e nell'approntare strumenti di gestione degli eventuali disservizi allo scopo di
massimizzare la fedeltà degli acquirenti (customer retention);
 maggior capacità di interagire efficacemente con i propri fornitori attraverso una reciproca diffusione di idee e di esperienze innovative, allo scopo di ottenere forme di
collaborazione anche in attività difficile e complesse come nel campo della progettazione
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di nuovi prodotti (codesign) e fluidificando al massimo la catena logistica dei rifornimenti
(kanban);
 maggior capacità di coinvolgere tutto il personale aziendale su obiettivi di qualità e di
miglioramento continuo (kaizen).
Tutte queste modalità di competere vanno ricondotte al complesso di conoscenze,
viste soprattutto in termini dinamici (apprendimento), che rappresentano le risorse
immateriali (o se si vuole la "cultura") dell'impresa. Ciascuno di questi fattori di competitività rappresenta una tematica complessa che in questa sede può essere solo richiamata.
L'insieme di questi fattori, anzi il particolare modo in cui essi vengono integrati all'interno
di un disegno strategico aziendale configura la capacità competitiva dell'impresa e va
progressivamente formandosi come nuovo paradigma teorico con cui interpretare
l’impresa.
2.8. La cultura come conoscenza aggiuntiva di scenario.
In precedenza si è cercato di mettere sull’avviso il lettore sul fatto che anche le
migliori teorie applicate alla gestione dell’impresa sono imperfette in quanto costruite su
delle semplificazioni, sulla scelta di alcuni elementi della realtà che pur essendo
presumibilmente i più importanti rappresentano comunque solo una parte di questa realtà.
Di conseguenza il soggetto che, nella gestione d’impresa, intende applicare la teoria più
accreditata, quella che alla prova dei fatti si è dimostrata la più corretta ed efficace (o se
preferite la meno erronea), non può comunque esimersi dal cercare di interpretare al meglio
questa teoria. Il suo caso particolare, ad esempio, potrebbe avere delle specificità peculiari
che riducono l’efficacia della teoria nella sua formulazione standard e potrebbe essere
conveniente applicare dei piccoli aggiustamenti alla teoria in modo da finalizzarla meglio
alla particolarità del contesto in cui si intende applicarla. Ipotizziamo che un imprenditore
desideri effettuare una valutazione del potere di mercato delle imprese operanti nel suo
settore. Egli sa che in generale la teoria economica propone di misurare il potere di mercato
delle imprese attraverso la misura del grado di concentrazione che si basa, nella sostanza,
in una valutazione delle quote di mercato controllate da ciascuna impresa. Tali quote di
mercato sono calcolate necessariamente sui dati storici delle imprese, tuttavia il nostro
imprenditore, poiché le sue decisioni d’investimento riguardano il futuro, sarebbe molto più
interessato ad avere una valutazione prospettica, più che storica, del potere di mercato.
Siamo quindi di fronte ad un caso in cui la misura storica della concentrazione dovrebbe
essere opportunamente modificata per tener conto di eventuali fenomeni che non si sono
ancora riflessi in una variazione delle quote di mercato, ma che lo saranno
successivamente.
Se, ad esempio, l’imprenditore sa che qualche impresa concorrente sta per
immettere sul mercato un prodotto innovativo è molto probabile che il prossimo lancio del
nuovo prodotto influenzi sensibilmente la distribuzione delle quote di mercato e quindi egli
dovrebbe prefigurare non le quote storiche, ma le quote prospettiche. Naturalmente gli
studi sulla concentrazione possono aiutarlo un poco, ma non c’è dubbio che egli debba
comunque assumersi in prima persona la responsabilità di stimare il futuro grado di
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concentrazione. A quali conoscenze affidarsi per questo difficile compito di adattamento
delle teorie?
La risposta che proponiamo è che egli si deve affidare alla “cultura” e in particolare
alla cultura d’impresa. Ovviamente siamo coscienti che il significato del termine cultura è
quanto mai vago. Il dizionario ci dice che la cultura è un complesso di cognizioni e di
tradizioni che caratterizza un gruppo sociale. In questo caso noi definiamo cultura
d’impresa un complesso di conoscenze relative alla storia e all’evoluzione dell’impresa e
dei sistemi economici. Aver cultura d’impresa significa aver capacità di relativizzare le
proprie conoscenze sull’impresa, sapere su quali ipotesi sono basate, sapere come ci si è
comportati in altre imprese, in altri tempi, in altri situazioni, in altri paesi. La cultura è un
qualcosa che ci informa sulla varietà del mondo e sulla singolarità della nostra esperienza e
quindi essa rappresenta un serbatoio di idee alternative e di possibilità da esplorare.
Ad esempio il nostro imprenditore potrebbe cercare di trarre ispirazione da situazioni similari già manifestatesi in settori diversi o in paesi diversi. La cultura è un complesso di informazioni che ci consente di relativizzare le nostre conoscenze e quindi ci aiuta
capire quando esse possano essere applicate o debbano essere modificate per renderle
idonee alla situazione specifica. La cultura ci mostra che esistono paesi in cui certi
fenomeni economici si sviluppano prima che in altri. Conoscere ed analizzare le vicende di
un paese, che possiamo considerare leader nella realizzazione di una certa trasformazione,
può aiutarci grandemente a focalizzare la stessa trasformazione per un paese che consideriamo follower. Analogamente per quanto riguarda i settori della moda giovanile:
dall’abbigliamento alle attività sportive, dai generi musicali alle bevande e all’alimentazione, non c’è dubbio che gli Stati Uniti esercitano un grande potere di suggestione sull’atteggiamento dei giovani dei paesi europei. Negli anni sessanta nei campus universitari
americani si era diffusa l’abitudine di usare lo zainetto invece della cartella, soprattutto
perché nei campus ci si muove in bicicletta e lo zainetto è molto più comodo da agganciare
alla bicicletta. Non era quindi difficile ipotizzare che in capo a qualche anno questi stili di
vita si sarebbero diffusi anche in Europa. Anzi degli imprenditori italiani fecero di più.
Valutarono che i prodotti realizzati dalle imprese americane di zainetti erano stati adottati
dai giovani per una scelta autonoma di praticità, senza che l’offerta avesse effettivamente
lanciato dei prodotti pensati apposta per questi nuovi usi non previsti.
Vi era quindi la possibilità di ripensare, ad esempio, la forma dello zainetto in modo
che fosse adattato al fatto che serviva sempre meno per fare una passeggiata in montagna e
sempre più per portare libri e penne. Qualche anno più tardi divenne evidente che sarebbe
servito uno zainetto progettato specificatamente per trasportare un personal computer e
magari dotato di tasche esterne dove alloggiare il telefono mobile e un sistema iPod. Quindi
si trattava di riprogettare la forma e la funzionalità di questi prodotti che dovevano essere
ripensati per l’uso e l’abbigliamento di tutti i giorni, dando loro un contenuto di moda
sintonizzato sullo stile di vita che essi simboleggiano. Naturalmente nessun paese riproduce
esattamente le stesse situazioni già verificatesi in altri, ma alcuni elementi di una
esperienza maturata in un altro paese possono essere utili per ipotizzare le forme di
sviluppo più probabili in altri paesi relativamente affini.
In alcuni casi l’esperienza maturata in altri paesi può essere particolarmente stimolante per la messa a fuoco della comprensione dei fatti economici non perché prefigura con
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anticipo ciò che accadrà in momenti successivi in altri contesti, ma perché può configurare
una diversa modalità organizzativa per svolgere la stessa funzione economica. In contesti
diversi, diverse organizzazioni economiche possono svolgere prestazioni equifinali (aventi
la stessa finalità o funzione). Il caso dei distretti industriali specializzati, così presenti in
Italia per certe produzioni (calzature, abbigliamento, piastrelle, mobilio, ecc.) rappresenta
una forma alternativa, ma equifinale, di organizzazione produttiva rispetto alla fabbrica
integrata. E analogamente le forme di organizzazione del lavoro realizzate da imprese
giapponesi, e tipicamente dalla Toyota per coinvolgere l’iniziativa personale degli operai
nella realizzazione di alti standard di qualità, sono forme equifinali rispetto allo “stile occidentale” basato su produzioni a maggior tasso di automazione e di controlli burocratici.
La curiosità di conoscere e di comprendere queste forme di organizzazione, alternative rispetto a quelle sviluppate generalmente nel proprio contesto, rappresentano un atteggiamento culturale di fondamentale importanza per sviluppare la capacità di riflettere
criticamente sulla idoneità degli schemi teorici e concettuali proposti dall’economia. Il
nostro cervello lavora creativamente scomponendo e ricomponendo idee, ricorrendo a
metafore, a similitudini, a combinazioni di elementi vecchi con elementi nuovi e così via.
La cultura è il serbatoio di questi informazioni che sono il carburante del nostro cervello.
Di seguito si cercherà di dare qualche elemento di prospettiva storica del sistema
economico e dell’impresa come stimolo mirato al lettore perché se senta invogliato a
sviluppare la sua cultura d’impresa.
1.9. Bibliografia consigliata
Gaio L., Zaninotto E. (1998), Standardizzazione e modelli di produzione post-fordisti,
Cedam, Padova.
Rullani E., Romano L, (1998), a cura di, Il postfordismo – Idee per il capitalismo prossimo
venturo, Etaslibri, Milano.
Rullani E. (2004), Economia della conoscenza, Carocci, Roma.
Rullani E. (2004), La fabbrica dell’immateriale, Carocci, Roma.
Volpato G. (2008), Concorrenza, impresa, strategie – Metodologia dell’analisi dei settori
industriali e della formulazione delle strategie, 2° ed., Il Mulino, Bologna.
Volpato G. (2000), Per una riconsiderazione critica del concetto di “settore” nella fase della
globalizzazione competitiva, in S.Podestà e F.Golfetto, a cura di, La nuova concorrenza,
Egea, Milano, 2000.
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3. La globalizzazione competitiva
3.1. Nuove aree di integrazione economica
L’elemento che caratterizzerà in maggior misura lo scenario economico dei prossimi
anni è rappresentato da sistematico processo di integrazione delle aree economiche. É importante sottolineare che questo processo, che viene solitamente indicato con il termine di
globalizzazione, si manifesta su una pluralità di piani: culturale, sociale, tecnologico ed
economico, ma naturalmente qui ci soffermeremo brevemente su quello economico i cui
riflessi sono più direttamente connessi con la materia di nostro interesse. Diciamo allora che
globalizzazione significa la progressiva integrazione fra le diverse economie nazionali in
regioni economiche più grandi, come l’Unione Europea, il NAFTA (tra Canada, Messico e
Stati Uniti) il Mercosur (tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) e l’entrata di un numero
sempre più ampio di paesi nel sistema della World Trade Organization (WTO). Questa
istituzione internazionale, che è subentrata nel 1995 al General Agreement on Tariffs and
Trade (GATT), ha il compito di favorire la liberalizzazione degli scambi internazionali, sia
influenzando l’armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali in tale materia, sia attraverso il
suo ruolo di corte arbitrale internazionale, competente a risolvere le dispute fra gli stati
aderenti in materia di commercio internazionale. La maggior integrazione che ne è derivata
significa innanzitutto la realizzazione di modalità di scambio più libere (riduzione delle
barriere tariffarie, maggior mobilità del lavoro e dei capitali, adozione di normative tecnicoeconomico omogenee), ma soprattutto la volontà dei singoli paesi di effettuare uno sforzo
verso l’armonizzazione delle diverse politiche (commerciali, fiscali, monetarie, ecc.).
Questa trasformazione presenta degli importanti vantaggi collettivi di lungo termini in
quanto favorisce una armonizzazione delle pratiche e degli standard commerciali allargando
il commercio internazionale ad aree e paesi prima esclusi, incentivando l’adozione di regole
che garantiscono la proprietà intellettuale e il riconoscimento dei marchi identificativi delle
imprese e ampliando le forme di garanzia internazionale a difesa del consumatore. Ma a
breve termine essa costituisce anche un fattore di squilibrio dei precedenti assetti economici e
competitivi in quanto produce la soppressione dei meccanismi protezionistici
precedentemente vigenti, rappresentati da barriere tariffarie fra paesi e da misure di
contingentamento dei flussi di import-export.
Si consideri ad esempio che il differenziale del costo del lavoro tra i paesi altamente
industrializzati e quelli in fase di prima industrializzazione (indicati come Newly
Industrialized Countries - NICs) può essere equivalente al rapporto di 10 a 1. Ciò significa
che se si raffronta il costo di produzione di uno stesso bene, immaginando di produrlo sia in
un paese industrializzato che in uno in fase di prima industrializzazione, e assumendo che
l’incidenza del costo del lavoro della filiera incorporato nel prodotto finale sia dell’ordine del
30%, ne deriverebbe un risparmio di costo e quindi un differenziale competitivo dell’ordine
del 27% del prezzo di vendita del prodotto a favore del paese in via di industrializzazione. In
passato si riteneva tuttavia che questo vantaggio sarebbe stato decisamente mitigato da altri
vantaggi detenuti dalle imprese operanti nei paesi più sviluppati e rappresentati da: maggiori
competenze manageriali, più approfondite conoscenze delle esigenze dei mercati di sbocco,
più elevate qualità intrinseche del prodotto, maggior facilità di ricorso al mercato dei capitali,
e così via.
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Tuttavia ci si è resi conto che in un numeroso ventaglio di settori tali meccanismi
equilibratori dello svantaggio rappresentato da un più elevato costo sono alquanto aleatori dal
momento che buona parte della maggior offerta manifestata dai paesi in via di sviluppo è
alimentata da un processo di delocalizzazione delle imprese appartenenti alle aree più industrializzate. Infatti nei paesi NICs, caratterizzati da un mercato interno potenzialmente
rilevante, si pensi ad esempio a paesi aventi una popolazione cospicua come la Cina, l’India,
il Brasile e il complesso dei paesi dell’Europa orientale, vi è una evidente convenienza da
parte delle imprese a sviluppare proprie filiali produttive e commerciali, allo scopo di poter
servire i consumatori di quei paesi in modo parallelo alla crescita interna del potere
d’acquisto. Senza contare che è uno specifico interesse di questi paesi acquisire i beni a
tecnologia sofisticata realizzati da imprese appartenenti a paesi ad alto costo di manodopera
attraverso un meccanismo diverso da quello delle importazioni. Infatti questa modalità
produce in generale uno sbilancio della bilancia dei pagamenti del NIC importatore per il
fatto che il pagamento non può essere fatto nella moneta nazionale, ma attraverso una moneta
a circolazione internazionale come dollaro o euro. Di qui la convenienza a favorire una
politica di investimenti diretti all’estero (IDE) da parte delle imprese ad alta tecnologia,
attraverso la costituzione di filiali produttive nel paese in via di sviluppo considerato. Ad
esempio se il paese in via di sviluppo consente la vendita dei prodotti delle imprese estere
solo a patto che questi prodotti abbiamo un certo grado di componenti di provenienza
domestica (imposizione di un local content come condizione per la commercializzazione), è
facile capire la spinta derivata per gli IDE e per una delocalizzazione almeno parziale nel
paese in fase di sviluppo.
Questa delocalizzazione ha quindi estremamente accelerato il processo di livellamento
delle risorse manageriali, tecnologiche, organizzative e di marketing, soprattutto nei paesi in
cui pre-esiste una consolidata tradizione nelle infrastrutture sociali e culturali e
nell’istruzione in particolare. Tanto più che in molti di questi paesi in via di sviluppo i
governi hanno operato in modo da favorire, se non imporre, che la delocalizzazione da parte
delle imprese appartenenti alle aree più industrializzate si manifestasse attraverso la
formazione di joint-venture con imprese locali. Un vincolo che in molti casi appare modesto
se si considerano le rilevanti differenze presenti in questi paesi in termini di lingua,
legislazione e tradizioni commerciali e distributive. Differenze che in molti casi avrebbero
reso comunque necessario un qualche meccanismo di collaborazione fra operatori esteri e
operatori domestici. Nel contempo però la presenza di capitale locale nel controllo societario
finisce per manifestarsi in un marcato orientamento delle nuove filiali delocalizzate verso una
strategia di affiancamento di produzioni dirette al mercato locale con altre produzioni mirate
sull’esportazione. L’obiettivo dell’esportazione è motivato sia dalla volontà di acquisire,
attraverso la vendita di prodotti la valuta pregiata necessaria ad acquistare macchinari ed
attrezzature moderne, sia perché questo genere di strategia, sulla base di quanto già
dimostrato in passato da paesi come il Giappone, la Corea del Sud, Singapore e Taiwan,
risulta la condizione necessaria per assumere in termini temporali piuttosto ristretti le
caratteristiche competitive utili alla affermazione non solo nei mercati esteri, ma anche nel
mercato interno.
Dal punto di vista della divisione internazionale del lavoro questa evoluzione significa
una marcata perdita di competitività del lavoro prevalentemente manuale svolto nelle
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imprese ubicate nei paesi più industrializzati a favore delle imprese localizzate nei NICs, sia
esse imprese domestiche o filiali di imprese ubicate in paesi ad alta industrializzazione.
Perdita di competitività che negli ultimi anni si è tradotta, particolarmente nei settori dei beni
di consumo a tecnologie medio-basse, in un flusso di esportazioni di merci verso i paesi
industrializzati che stanno creando notevoli difficoltà a questi paesi che presentano un
significativo grado di specializzazione in questi settori, come è il caso dell’Italia. Da più parti
viene sollecitata una risposta ritorsiva che blocchi o limiti questa minaccia competitiva e
purtroppo gli svariati interessi in campo rendono difficile fare chiarezza su una materia
indubbiamente complessa. Da un lato è indubbio che nei NICs sono spesso violate le regole
previste dal WTO, in termini di divieto di imitazione dei prodotti e di falsificazione dei
marchi, e che quindi sarebbe necessario organizzare forme di controllo in grado di eliminare
comportamenti chiaramente fraudolenti. Dall’altro però è altrettanto evidente agli occhi di un
osservatore imparziale che la limitazione quantitativa all’importazione dei beni provenienti
dai NICs possono essere prese in considerazione solo in casi di destabilizzazione economica
molto rilevante e per tempi contenuti. Infatti non si devono dimenticare due aspetti. Il primo
riguarda il fatto che buona parte dei paesi oggi considerati industrializzati, tra i quali
certamente anche l’Italia, hanno attuato in passato con successo la stessa strategia di
“invasione” dei mercati più ricchi, facendo leva su un costo del lavoro nettamente inferiore.
É quindi comprensibile che altri paesi cerchino di attuare la stessa politica. Il secondo
riguarda la constatazione che dietro ad una parte molto rilevante delle esportazioni effettuate
dai NICs troviamo l’intervento di imprese appartenenti alle aree più industrializzati, sia in
modo diretto che indiretto. In modo diretto attraverso la delocalizzazione in quei paesi di
capacità produttiva espressamente orientata a forme di esportazione di ritorno. In modo
indiretto attraverso la vendita di macchinari e attrezzature, la realizzazione di accordi basati
sulla cessione di licenze di produzione contro royalties, o con la concessione di brevetti. Di
conseguenza una parte significativa dei frutti di questo genere di esportazioni rientrano
comunque nei paesi delle aree più industrializzate.
Pertanto se si considera che la condivisione internazionale della ricchezza rappresenta
una condizione politica necessaria per l’instaurazione di rapporti di pace e di collaborazione
fra i popoli e per la realizzazione di accordi di portata mondiale in questioni di grande
importanza come le misure di difesa ecologica del pianeta, diviene evidente che la strada
dell’integrazione economica internazionale non presenta valide alternative. Sta quindi
soprattutto ai paesi industrializzati rispondere alla sfida portata dai NICs attraverso
meccanismi di maggior valorizzazione del lavoro delle loro imprese e attraverso il passaggio
da forme di lavoro prevalentemente manuale a forme di lavoro prevalentemente intellettuale.
Il modello dell’impresa basata sulla conoscenza è appunto l’evoluzione necessaria per
affrontare adeguatamente i processo di globalizzazione dell’economia.
3.2. Nuove opportunità e nuovi modelli di business
Il rilievo di questo progressivo processo di globalizzazione del sistema economico
internazionale è rappresentato dal fatto che esso crea minacce, ma anche opportunità
economiche completamente nuove per le imprese, dal momento che l’integrazione avviene
tra economie che presentano caratterizzazioni strutturali diverse. Ovviamente già all’interno
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delle stesse economie nazionali sussistono differenze socio-economiche spesso rilevanti,
basti pensare alle differenze fra il Nord e il Sud dell’Italia, tuttavia il lungo processo di
assestamento che si è già manifestato tra le regioni di uno stesso paese ha progressivamente
portato a forme di compensazioni fra le diverse situazioni. Al Nord il costo del lavoro è
mediamente più elevato rispetto al Sud, ma questo aspetto è controbilanciato da altri
fenomeni, ad esempio un più alto costo dei finanziamenti e così via, per cui all’interno dello
stesso paese permangono differenze anche rilevanti, ma che sono in qualche modo bilanciate
e che quindi danno luogo ad aggiustamenti relativamente lenti. Invece nel caso delle
integrazioni fra paesi diversi, ancorché confinanti, le condizioni di differenziazione delle
condizioni di operatività sono molto più marcate e soprattutto non controbilanciate. Il caso
più eclatante è probabilmente rappresentato dall’intensificazione dei rapporti economici fra
Stati Uniti e Messico, all’interno del NAFTA, ma non c’è dubbio che anche fra economie
nazionali relativamente più vicine (come fra Stati Uniti e Canada o fra Argentina e Brasile) i
divari esistenti nei prezzi e nelle modalità d’uso delle principali risorse economiche sono
decisamente consistenti.
Queste differenze creano opportunità nuove per una diversa articolazione degli
investimenti produttivi e della loro localizzazione. Tanto più che l’integrazione allarga in
modo considerevole la dimensione dei mercati da servire. É chiaro che fare degli
investimenti produttivi in Messico o in Argentina con la possibilità di servire non solo il
corrispondente mercato nazionale ma l’intera area economica del NAFTA o del Mercosur
rappresenta una possibilità di estremo rilievo che fa cambiare la stessa natura e portata
dell’investimento, almeno nei settori produttivi in cui gli investimenti sono molto rilevanti
ma, corrispettivamente, si ha la possibilità di godere di forti economie di scala.
Naturalmente non è un caso che questo processo di globalizzazione dell’economia
internazionale prenda quota in una fase in cui stiamo assistendo a una crescita particolarmente accentuata da parte di paesi che da anni siamo abituati a indicare come “in via di
sviluppo” e che ora finalmente sembrano aver imboccato la strada di una duratura
espansione. Si tratta di paesi spesso dotati di importanti risorse naturali e caratterizzati da una
popolazione molto elevata. Paesi quindi che sono in grado di esprimere una domanda di beni
di consumo e d’investimento di rilievo mondiale. Si consideri ad esempio il mercato degli
autoveicoli. Attualmente nel mondo circolano un po’ più di 800 milioni di vetture e di veicoli
da trasporto, ma questo parco di automezzi è fortemente concentrato nelle aree più ricche
(USA, Canada, Europa Occidentale, Giappone) dove il grado di diffusione degli automezzi è
di circa un veicolo ogni 1,2-2 abitanti. Invece in questi paesi in forte sviluppo il livello di
motorizzazione è ancora basso (un veicolo ogni 10-11 abitanti in Brasile) o bassissimo (un
veicolo ogni 160 abitanti in Cina e uno ogni 180 in India). Va da sé che lo sviluppo
economico di questi paesi non solo porrà le condizioni per un innalzamento dei consumi di
autovetture e di autocarri, ma anzi lo esigerà proprio per potersi consolidare, dal momento
che il trasporto di beni e persone è una condizione necessaria per la crescita economica.
Di conseguenza basta ipotizzare che in paesi come l’India e la Cina, la cui popolazione
riunita supera largamente i due miliardi di abitanti, il processo di crescita economica porti a
un livello di motorizzazione dell’ordine di un veicolo ogni 20 abitanti (un tasso che è pari a
meno di un decimo di quello presente attualmente nelle economie sviluppate), per
configurare una crescita di 100 milioni di veicoli pari a quasi il 13% dell’attuale parco
70
mondiale. Si tratta di cifre di estremo rilievo, che possono essere riproposte per la maggior
parte dei beni di consumo e di investimento e che presumibilmente si manifesteranno con un
ritmo ben più veloce di quello registrato dai paesi di prima industrializzazione, dal momento
che faranno leva sulle tecnologie attuali. Si tratta di una prospettiva al tempo stesso entusiasmante ed inquietante. Infatti se da un lato ciò sembra ipotizzare la possibilità di dare una
lavoro e una prospettiva di sviluppo a popolazioni che vivono a livelli di poco superiori a
quelli di sussistenza, dall’altro, se questo processo fosse accompagnato dalle stesse
distorsioni prodottesi nei paesi più industrializzati, il consumo di risorse naturali e i danni
all’ambiente sotto forma di emissioni nocive ed emissioni ad effetto serra potrebbero essere
irreversibili. Queste considerazioni rendono evidente che la globalizzazione dell’economia va
ben oltre l’aspetto economico per assumere anche una valenza direttamente politica. Senza la
realizzazione di regole internazionalmente concordate, e probabilmente senza una ridefinizione delle finalità dello sviluppo economico, la crescita industriale dei paesi emergenti
appare come un meccanismo potenzialmente destabilizzante dell’equilibrio ecologico del
pianeta.
In altre parole il tipo di sviluppo finora realizzato è apparso come qualcosa di
desiderabile ed ecologicamente sostenibile solo perché riservato ad una sezione elitaria della
popolazione mondiale, mentre l’estensione dello sviluppo attuale anche a quote considerevoli
dei NICs si presenta come altamente problematico in termini non solo di consumo delle
risorse energetiche, sulle quali si concentra l’attenzione dei paesi, ma anche su risorse ancora
più essenziali come l’aria e l’acqua. Inutile sottolineare che le risorse di acqua potabile
mondiale sono di gran lunga inferiori alla quelle che si dovrebbero consumare se si volesse
estendere il consumo quotidiani pro-capite dei paesi più industrializzati anche agli altri paesi.
Il tema delle misure da intraprendere per la realizzazione di uno sviluppo allargato che sia
anche eco-compatibile rappresenta una questione quanto mai complessa e delicata che non
può essere affrontata in questa sede, tuttavia non è inutile sottolineare che essa presuppone
anche e necessariamente la ricerca e la diffusione di nuovi modelli di sviluppo sociale.
Naturalmente le imprese possono darsi carico della ricerca di nuovi prodotti e nuovi
processi produttivi più rispettosi del nostro eco-sistema, e in parte lo stanno già facendo, ma
è evidente che questo riorientamento può essere fatto solo all’interno della logica d’impresa,
generalmente rappresentata dalla regola del ritorno degli investimenti tipica di un sistema
capitalista. Nessuna impresa potrebbe infatti spingersi oltre i limiti fissati da criteri
economici per il raggiungimento di obiettivi ecologici a pena di una rapida estromissione del
mercato. Nel contempo però è altrettanto evidente che si richiede un intervento pubblico
diretto in due direzioni. Una prima direzione riguarda la possibilità di controllare che le
imprese non sfruttino il loro potere monopolistico per sfavorire indirizzi tecnologici e produttivi che sarebbero economicamente compatibili con la gestione d’impresa, ma meno redditizi
rispetto ad altri aventi un più elevato tasso di inquinamento. Ad esempio molte imprese
produttrici di carburanti per autotrazione di tipo convenzionale di derivazione fossile
(benzina, gasolio, cherosene), sono anche fra i principali operatori impegnati nella messa a
punti di combustibili non convenzionali come l’etanolo, prodotto ad esempio dalle biomasse
e quindi con processi riciclabili. È chiaro che se una o più di queste imprese riuscisse a
sintetizzare i nuovi carburanti a costi economicamente sostenibili, anche se meno redditizi di
quelli dei carburanti convenzionali, l’interesse a sviluppare industrialmente questo tipo di
71
processo potrebbe non verificarsi con la celerità richiesta dalle attuali esigenze di natura
ecologica.
Di qui la necessità che i pubblici poteri si attrezzino per forme di controllo sui risultati
della ricerca scientifica e sulla eventualità di intervenire in modo sussidiario di fronte a
rallentamenti ingiustificati. Una seconda direzione riguarda la generazione di meccanismi di
incentivazione di soluzioni non ancora economicamente convenienti rispetto a quelli
convenzionali ma ecologicamente assai più convenienti. Sempre nell’ambito del carburanti è
noto che il loro costo alla pompa per il consumatore finale è profondamente influenzato dal
gravame fiscale che riguarda questi prodotti indicato come “accise”. Se si considera che il
gas metano produce inquinanti ed emissioni ad effetto serra largamente inferiori a quello di
benzina e gasolio la collettività ha interesse che venga praticata una accisa inferiore al
metano allo scopo di renderne conveniente l’uso nell’autotrazione. Lo stato rinuncia ad una
maggior entrata fiscale, ma beneficia su una pluralità di fonte, da quello ecologico a quello
sanitario a quello direttamente finanziario nel caso che non riesca a raggiungere gli obiettivi
di abbattimento del livelli di CO2 assegnatigli dalla Comunità Europea e venga quindi
multato dalla Commissione Europea.
3.3. La non convergenza delle preferenze di consumo
Circa un decennio fa, quando è divenuto evidente il processo di globalizzazione del
mercato internazionale, alcuni studiosi hanno proposto una lettura del processo di
integrazione internazionale, dal punto di vista dei bisogni dei consumatori, come una
tendenza verso forme di standardizzazione dei consumi. In altre parole la globalizzazione
significherebbe una forte assimilazione dei modelli di vita sia dei NICs verso i paesi più
industrializzati e a sua volta l’imitazione di questi degli standard assunti dagli Stati Uniti in
quanto paese che in forza di una egemonia economica e politica è in grado di manifestare un
forte meccanismo di attrazione emulativa da parte degli altri paesi, a cominciare da quelli
culturalmente più prossimi come l’Europa, l’America Latina, l’Australia, ecc. Sul piano della
manifestazione dei comportamenti di consumo la globalizzazione intesa come omogeneizzazione dei comportamenti d’acquisto significherebbe la possibilità di produrre e
commercializzare uno stesso prodotto su scala mondiale. Naturalmente il processo di
globalizzazione associato alle moderne forme di comunicazione, ormai organizzate su base
planetaria, agevolano i meccanismi di integrazione culturale e avvicinano i modelli di consumo, soprattutto per i consumatori appartenenti alle fasce di reddito più elevate. Ma
dobbiamo chiederci se il processo di massificazione della domanda rappresentato dal
consumo di Coca-Cola o dall’uso dei bleu-jeans possa essere effettivamente esteso alla
maggioranza dei beni.
Innanzitutto si deve rilevare che rispetto al momento in cui ha iniziato a porsi questo
genere di problematica vi è stato l’attentato terroristico alle torri gemelle di New York
dell’11 settembre del 2001 e la successiva guerra in Iraq che hanno mostrato come il
dissolvimento del precedente antagonismo fra sistema capitalista e sistema comunista sia
stato sostituito da altre forme di antagonismo su base religiosa ed etnica, che appare come un
elemento fortemente oppositore delle forme di assimilazione culturale implicite nella
omogeneizzazione dei consumi. Ad esempio a metà del 2009 la società coreana LG, specializzata nell’elettronica di consumo, ha messo in commercio un telefono cellulare dotato di
72
numerose applicazioni specializzate per un consumatore di religione mussulmana: un sistema
GPS in grado indicare l’orientamento alla Mecca, una suoneria automatica per segnalare
l’ora della preghiera, il testo del Corano in una molteplicità di lingue, ecc., conseguendo un
immediato e vistoso successo commerciale. Ma comunque, anche tralasciando questo aspetto
per concentrarsi sui soli paesi che attualmente non mostrano radicali divergenze di atteggiamento culturale e sociale, gli argomenti che fanno ritenere l’omogeneizzazione dei consumi
una semplificazione eccessiva sono numerosi.
L’opinione di chi scrive è che le differenziazioni nei modelli culturali di consumo siano
così profonde che la massificazione dei consumi è destinata a rimanere un’eccezione per la
parte di gran lunga prevalente dei prodotti. Certamente vi sono dei prodotti-simbolo che già
ora sono venduti in tutti i principali paesi del mondo, abbiamo già nominato la Coca-Cola e i
blue-jeans, e non è difficile aggiungere altre marche o categorie di prodotti come gli orologi
Rolex o Cartier, i profumi Chanel o l’abbigliamento di alta moda come Valentino o Armani.
Tuttavia il modo in cui impostare il problema economico fra massificazione o articolazione
dei bisogni, e quindi dei prodotti destinati a soddisfarli, non è quello di chiedersi se se ci sarà
o meno una maggior omogeneizzazione della domanda. Il vero problema, quello che
dovranno affrontare le imprese nelle loro strategie produttive e commerciali è di chiedersi se
i risparmi di costo (e quindi di prezzo) derivanti da una standardizzazione dei prodotti a
livello mondiale saranno in grado di attrarre una domanda in modo economicamente più
vantaggioso di una produzione più articolata, più vicina alle differenze dei consumatori dei
diversi paesi, delle diverse categorie etniche, sociali e religiose. Utilizziamo per comodità di
argomentazione l’esempio della vettura Ford modello “T” con la quale Henry Ford lanciò la
motorizzazione degli Stati Uniti e la organizzazione industriale di massa. Nel 1910 i risparmi
nei costi derivanti dalla produzione assolutamente standardizzata del modello fordista
presentava una formidabile elasticità della domanda rispetto al prezzo. Ne derivò un successo
commerciale senza precedenti che fece della Ford Motor Company la più grande impresa
manifatturiera del mondo. Ma dieci anni dopo l’ostinazione di Henry Ford nel riproporre lo
stesso prodotto senza significative modifiche e innovazioni minacciò la stessa sopravvivenza
della azienda automobilistica che dovette cedere il passo alla più duttile strategia della
General Motors guidata da Alfred P. Sloan.
Il vero problema su cui confrontarsi è ancora lo stesso: riteniamo che la globalizzazione
debba essere affrontata con la leva della standardizzazione o, al contrario, la capacità di
articolare la caratterizzazione dei prodotti in funzione delle diverse categorie di consumatori
rappresenterà una leva competitiva essenziale? La domanda non è da poco. Scusandoci per la
schematizzazione imposta dall’esigenza di essere sintetici, potremmo dire che, se dovesse
risultare vincente l’idea dei consumi standardizzati a basso costo, si configurerebbe una
specie di morte del marketing, almeno per quanto riguarda i paesi di nuova industrializzazione e di forte crescita dei consumi. Non vi sarebbe alcuna particolare esigenza
di studiare ed analizzare le esigenze di consumo delle nuove società coinvolte dal processo di
globalizzazione, per il fatto che tutta la domanda aggiuntiva in via di formazione verrebbe
assorbita dall’offerta basata sulla standardizzazione dei prodotti già esitati nei mercati più
avanzati e quindi da una maggior competitività dei costi e quindi dei prezzi. Se invece la
globalizzazione, pur rappresentando un formidabile processo di integrazione delle economie
soprattutto sul piano delle tecnologie utilizzate, lasciasse sul piano socio-culturale e quindi in
73
quello derivato dei comportamenti di consumo uno spazio competitivo a favore di quanti
sono in grado di cogliere e sfruttare l’articolazione delle soggettività dei consumatori, nei
diversi paesi e nelle diverse aree culturali, allora l’importanza del marketing come approfondimento delle esigenze dei consumatori resterebbe un elemento essenziale delle capacità
competitive delle imprese anche in uno scenario di globalizzazione totale.
3.4. Elasticità della domanda e tecnologie flessibili
Rispetto alla situazione di Ford la situazione attuale presenta delle omogeneità, ma
anche delle differenze di rilievo. L’omogeneità più rilevante è rappresentata dal fatto che
molte delle economie progressivamente investite dal processo di globalizzazione attraversano
delle fasi di generalizzazione dei consumi paragonabili a quella degli Stati Uniti all’inizio di
questo secolo. Tuttavia mi pare che le differenze in gioco abbiano un ruolo più rilevante. Una
prima differenza è rappresentata dal fatto che Ford operava all’interno di un singolo paese.
Ad esempio i suoi tentativi di competere in Europa con la Ford “T” che tanto interesse aveva
riscosso nel mercato americano per oltre una decina d’anni non furono accompagnati da
successo, proprio perché le condizioni d’uso dell’automobile (si pensi solo alle differenze nel
costo del carburante tra USA ed Europa) erano decisamente lontane da quelle presenti nel
mercato domestico. Pensare che l’articolazione culturale e sociale dentro i diversi mercati
nazionali e le differenze fra paesi diversi, ancorché smussate dal processo di integrazione,
possano essere superate da una manovra del prezzo appare eccessivo.
Inoltre non bisogna dimenticare che sono le stesse potenzialità tecnologiche ad essere
profondamente mutate rispetto al periodo fordista. La standardizzazione e la scientificazione
dei processi di fabbricazione, attuata attraverso i dettami del taylorismo-fordismo, consentì a
Henry Ford di comprimere il costo di fabbricazione delle sue vetture a circa un terzo di
quello consentito dalle forme tradizionali. Siamo quindi in presenza di variazione di costi di
assoluto rilievo, capaci quindi gettare un ponte verso categorie di consumatori che altrimenti
non sarebbero state in grado effettuare l’acquisto. Ma oggi, da un lato, la flessibilità dei
moderni sistemi di produzione hanno grandemente compresso i risparmi di costo associati
alla produzione standardizzata rispetto a produzioni più personalizzate, dall’altro, hanno
considerevolmente abbassato la potenzialità produttiva che è necessario acquisire per godere
delle economie di scala connesse alle attuali tecnologie. Anche perché l’articolazione del
prodotto che è opportuno realizzare allo scopo di puntare in modo mirato ai diversi segmenti
di domanda nei vari paesi non comporta una radicale differenza in tutte le componenti di un
prodotto, ma solo in una parte di esse, quelle percepibili ed effettivamente considerate dai
consumatori come fattori di personalizzazione. Nel caso delle autovetture o degli elettrodomestici la personalizzazione dei prodotti potrà riguardare, in misura quasi esclusiva, gli elementi stilistici, consentendo di mantenere inalterata buona parte degli organi meccanici ed
elettronici impiegati, nell’abbigliamento un ruolo importante potrebbe essere giocato
dall’abbinamento dei colori, pur in presenza di una costanza dei materiali impiegati e delle
modalità di lavorazione.
74
3.5. L’importanza di essere competitor globali
Se, come riteniamo, il quadro che abbiamo cercato di abbozzare dovesse rivelarsi
attendibile, possiamo ora passare ad interrogarci attorno a quali macro-strategie ruoteranno le
politiche competitive delle imprese. Al livello di sintesi a cui ci siamo posti, mi pare che il
processo di globalizzazione rappresenti una fase di profonda ridefinizione dei meccanismi
competitivi che possa essere opportunamente schematizzato attraverso una metafora di tipo
militare. Prima della globalizzazione, in una situazione in cui le imprese competono anche al
di fuori del mercato domestico, ma facendo soprattutto leva sulle specificità selezionate dal
meccanismo competitivo del proprio mercato domestico, possiamo pensare di raffigurare le
imprese come degli eserciti che si scontrano in un teatro di guerra limitato e sostanzialmente
omogeneo per i diversi contendenti. Ciò vorrebbe dire che sono le caratteristiche dei diversi
teatri di guerra a selezionare le tattiche e le strategie più opportune per vincere il confronto
con il nemico. Ad esempio se il teatro di guerra in un certo paese fosse rappresentato da un
profilo orografico pianeggiante è probabile che lo schieramento militare rappresentato da un
esercito moderno, basato su una grande mobilità delle truppe e sui meccanismi della
supremazia aerea, rappresenti una organizzazione bellica altamente efficace ed efficiente. Per
contro in un teatro di guerra montagnoso le tecniche della guerriglia sarebbero probabilmente
assai più convenienti.
Anche la tecnologia bellica sarà probabilmente evoluta in modo diverso in funzione del
tipo di battaglie nonché delle risorse utilizzabili per la produzione delle armi. In paesi
caratterizzati da valli profonde gli eserciti hanno cura di edificare delle strutture fortificate
che possano assicurare il controllo del territorio e dei grossi vantaggi in caso di assalto,
mentre in territori aperti questo genere di fortificazioni possono essere aggirate e risultano
scarsamente influenti per il controllo del territorio. Nel contempo la presenza di strutture
fortificate alimenta lo studio e la sperimentazione di macchine da assedio che rappresentano
un inutile ingombro in territorio aperto.
Quello che si vuole sostenere è che fintanto che il teatro di guerra resta chiuso e costante
il meccanismo di selezione delle strategie e delle organizzazioni militari più idonee finisce
per cercare ulteriori affinamenti della stessa tecnica militare: fortificazioni più alte, macchine
belliche più potenti, oppure corazze più robuste e così via. Ma se il teatro di guerra si amplia
allora è possibile che strategie e organizzazioni particolarmente efficaci in un certo teatro di
guerra si rivelino assolutamente inadatte in un ambiente diverso. Gli esempi storici in
proposito si sprecano. Basti pensare alle difficoltà incontrate dall’esercito di Napoleone nella
campagna di Russia al sopraggiungere della stagione invernale. In altri casi abbiamo che la
vittoria di un esercito su un’altro è assicurata dall’uso di un’arma sconosciuta agli avversari:
gli elefanti usati da Annibale contro l’esercito romano o la cavalleria impiegata da spagnoli e
portoghesi contro le popolazioni del Centro e del Sud America nel XVI secolo.
Uscendo dalla metafora, quello che si vuol dire è che la globalizzazione sovverte
completamente le forme con cui le imprese sono abituate a competere nei mercati domestici e
in quelli limitrofi. Imprese che sono abituate a economizzare al massimo il fattore lavoro, a
motivo del suo alto costo, si trovano a dover competere con imprese che utilizzano lavoro a
costi irrisori. Imprese altamente integrate nei processi di fabbricazione scoprono di non poter
competere efficacemente in paesi lontani, per i quali la riproduzione del modello produttivo
realizzato in patria non è proponibile per gli alti costi e i tempi eccessivi di realizzazione
75
degli impianti. Altre imprese, organizzate in modo rigidamente standardizzato in funzione
delle caratteristiche del mercato domestico, si trovano a lottare con meccanismi legislativi del
tutto diversi da quelli consueti, e così via.
Il punto fondamentale di questo scenario mi pare essere rappresentato dal fatto che la
competitività non si basa più sulla disponibilità di singoli elementi competitivi, ad esempio:
un processo produttivo molto efficiente, oppure un prodotto di ottima qualità, ovvero una rete
commerciale capillare, in quanto l’efficienza, la qualità e la capillarità acquistano un preciso
significato competitivo solo con riferimento ad uno specifico contesto. Ciò che risulta
competitivo in un mercato non lo è altrettanto, o diviene perfino un fattore di debolezza, in
un altro mercato. In altre parole ciò significa che la capacità competitiva deriva soprattutto da
una capacità di tipo relazionale e combinatoria. La globalizzazione apre la strada a
combinazioni produttive e commerciali del tutto nuove. Quello che conta e la capacità di
“vedere” le opportunità competitive derivanti da una ricombinazione del modo di impiegare i
fattori produttivi sfruttando le mille differenze presenti nei diversi paesi. La globalizzazione
richiede la capacità di riconsiderare in modo globale il posizionamento dell’impresa che non
è più unico, ma che assume caratterizzazioni distinte per i diversi mercati che saranno sempre
più aperti reciprocamente, ma che manterranno peculiarità importanti nella cultura dei
consumatori, nella presenza di infrastrutture, nella legislazione, nella ripartizione fra aree di
intervento dell’economia pubblica e di quella privata. Si tratta di una affermazione per certi
versi scontata, ma non per questo meno vera. Il problema naturalmente è che le imprese non
sono preparate a questa nuova situazione.
Ad esempio se la globalizzazione avverrà, come ci pare corretto sostenere, in un quadro
di mantenimento delle specificità culturali e di consumo dei diversi paesi è evidente che
un’impresa che voglia affermarsi in un nuovo mercato dovrà dimostrare la capacità di
analizzare correttamente le esigenze particolari dei consumi di quel mercato. Ma questa
capacità non si apprende in poco tempo ed è facile immaginare le difficoltà di un direttore
marketing formatosi in un certo paese ad interpretare correttamente i bisogni di un mercato
diverso per potere d’acquisto, clima, tradizioni, ecc. D’altra parte ipotizzare un lungo
soggiorno del direttore marketing nel nuovo paese prima del lancio commerciale vorrebbe
dire correre il rischio di un inserimento non tempestivo nel nuovo mercato. Di conseguenza
la capacità relazionale di interagire con operatori “autoctoni” per accorciare i tempi di
apprendimento e la flessibilità mentale per saper cogliere usi e costumi diversi dai propri
giocheranno un ruolo primario nella definizione di efficaci e tempestive politiche di
inserimento.
3.6. Gestire le forme di coordinamento internazionale
Un altro aspetto di questo stesso quadro è rappresentato da un capacità di coordinamento “logistico” su base globale delle opportunità di offerta delle risorse produttive:
beni, servizi, capitali, tecnologie. Nel nuovo gioco competitivo vinceranno le imprese capaci
di acquisire risorse a basso costo valutando le opportunità offerte da tutto lo scacchiere
internazionale e di portarle celermente là dove esse risultano più scarse. Ancor oggi se un
italiano si reca in Francia o in Svizzera per una visita di alcuni giorni non è infrequente
notare come i prezzi relativi di prodotti diversi si combinino in modo difforme da paese a
76
paese. Ad esempio in Francia l’offerta del caffè espresso nei bar è diventato un servizio
abbastanza comune, almeno nelle grandi città, e tuttavia il prezzo di questo servizio è almeno
doppio a quello praticato nei bar italiani, anche se non vi sono differenze di costo per
produrre il servizio. Il fatto è che in Francia il caffè espresso è ancora visto come un prodotto
un po’ speciale, diverso dal loro caffè tradizionale, e questo legittima agli occhi del
consumatore un differenziale di prezzo. Lo stesso avviene, ma con modalità rovesciate per il
foie gras che in Italia viene fatto pagare a prezzi unitari più elevati perché da noi non ha
l’immagine popolare che ha in Francia e richiama l’idea di un cibo sofisticato come ostriche
e champagne. Ben lo sanno gli abitanti “frontalieri” rispetto ad un paese estero, che
effettuano i loro acquisti scegliendo tra il proprio paese e quello estero in funzione della
convenienza: dalla benzina ai pezzi di ricambio per automobili, dai prodotti di abbigliamento
ai generi alimentari. Se queste differenze sono significative per paesi così vicini e così simili
nel costo delle risorse, pur in assenza di differenti imposizioni tariffarie, immaginiamoci le
opportunità di scambio e di inserimento commerciale presenti in mercati assai più lontani e
strutturalmente più disomogenei come quelli coinvolti dal processo di globalizzazione.
In una economia globalizzata su scala planetaria il vantaggio competitivo sarà sempre
meno affidato al controllo di un certo prodotto, di una certa risorsa, di una certa tecnologia
(almeno per quanto riguarda le tecnologie di non estrema sofisticazione), e sempre più
collegata ad aspetti smaterializzati. Più che saper produrre un certo prodotto conterà sapere
dove potrà essere adeguatamente commercializzato, più che controllare una certa tecnologia
servirà l’informazione di dove e come poter acquistare convenientemente quella tecnologia.
Si può esprimere lo stesso concetto dicendo che gli aspetti competitivi più rilevanti saranno
quelli in grado di stabilire forme di collegamento fra aree economiche diverse. Per ciò stesso
le competenze organizzative di base transnazionale assumeranno un rilievo del tutto
particolare.
La globalizzazione significa essenzialmente la rottura di equilibri consolidati e apre
rilevanti opportunità per chi saprà ricostruire nuovi equilibri su basi internazionali attraverso,
ad esempio, forme di organizzazione reticolare fra imprese. Nel nuovo quadro competitivo il
fattore “tempo” giocherà un ruolo di estremo rilievo e pertanto le soluzioni organizzative
basate su uno sforzo integrato di una singola impresa, per quanto grande e potente, rischiano
di essere lente e costose. Certamente si corrono rischi sia ad essere leader che follower, ma
nel mondo della globalizzazione progressiva il non essere fra i primi in una certa operazione
competitiva significherà rischiare di non riuscire ad inserirsi del tutto. Almeno questa sembra
essere la lezione da trarre dalla esperienza emergente nei paesi in via di sviluppo accelerato.
Pertanto la capacità di collaborare con altre imprese, ognuna in base a i propri fattori di
specializzazione, rappresenterà una qualità di assoluto rilievo.
Di qui, infine, il valore crescente che sarà assunto dai meccanismi di coordinamento a
livello internazionale e dagli strumenti di elaborazione e diffusione delle informazioni.
L’impresa “virtuale” intesa come una pseudo-impresa che si ordina e organizza attraverso la
collaborazione di una pluralità di imprese reali per obiettivi anche temporanei, attivando un
“gioco di squadra” mirato su specifiche strategie rappresenta un archetipo sempre più attuale.
Ovviamente non si tratta di ipotizzare un modo perfetto in cui il coordinamento e la
convergenza degli interessi si forma automaticamente, in quanto le singole imprese
continuano inevitabilmente a mantenere entità giuridiche e interessi distinti. Ma di
77
comprendere che la capacità di stabilire rapporti di collaborazione fra imprese può generare
risultati economici convenienti per tutte le imprese componenti la “squadra”. Si tratta di
capire che tra le molte competenze di cui un’impresa ha bisogno per operare efficacemente
deve essere elaborata anche una cultura della partnership fra imprese. Vale a dire una cultura
capace di affrontare le relazioni fra imprese con proposte organizzative di tipo win-win, cioè
proposte che, facendo leva su forme di collaborazione fra imprese e sul reciproco scambio di
informazioni, generano soluzioni più efficienti rispetto alle organizzazioni tradizionali basate
esclusivamente su meccanismi antagonistici e competitivi. Le soluzioni win-win, indicate
anche come “gioci a somma positiva” consentiranno di approntare soluzioni economicamente
più soddisfacenti rispetto alle precedenti anche se in proporzioni che alcune componenti della
squadra di imprese potranno giudicare non completamente eque in rapporto ai rischi e agli
oneri sostenuti.
Questa evoluzione caratterizzata da una dialettica multiforme di elementi di
cooperazione e di competizione, per la quale è stato anche coniato il nuovo termine di
coopetition, significa sviluppare le capacità che consentono a delle imprese economicamente
e giuridicamente distinte e quindi non-integrate di operare secondo modalità di quasiintegrazione verticale.
3.7. Analisi competitiva e nuovi modelli di business
Come abbiamo visto il processo di globalizzazione, la diffusione delle competenze e
degli strumenti dell’Information & Communication Technology (ICT), le forme di quasiintegrazione verticale delle imprese strutturate in forme reticolari, aprono un ampio ventaglio
di nuovi possibilità operative alle imprese. Mentre in passato le scelte delle imprese sul piano
strategico si restringevano alle scelte sul grado di diversificazione e differenziazione della
gamma dei prodotti offerti e sul grado di integrazione verticale, oggi le possibilità di
integrare attività specializzate in paesi diversi, collegandosi attraverso una rete di scambi
informativi, offrono un ventaglio molto più ampio di possibilità. La stessa impresa può avere
convenienza ad assumere modelli di business alternativi in funzione del particolare prodotto
considerato. Ad esempio una azienda di abbigliamento potrà decidere di operare su una
pluralità di segmenti di mercato: da quello delle confezioni griffate rivolte ad un pubblico
particolarmente facoltoso, a quello dell’abbigliamento casual per un pubblico giovane e
anticonformista, a quello dell’abbigliamento sportivo, e così via.
Per ciascuno di questi prodotti potrà quindi scegliere una particolare struttura di
business, legata al tipo di confronto competitivo e alle specificità della clientela di ciascun
segmento di mercato. Ad esempio per il prodotto griffato la scelta relativa all’organizzazione
aziendale potrebbe optare per un assetto integrato e localizzato nel paese industrializzato
dove la società ha la propria sede centrale: dalla progettazione stilistica, al confezionamento,
alle attività di marketing e di commercializzazione, attivando anche propri negozi di vendita
al dettaglio nelle città più importanti dal punto di vista della qualificazione dei prodotti di
abbigliamento, da usare come traino promozionale per la rete parallela di dettaglianti. La
logica di questa opzione si lega alla possibilità di valorizzare al massimo i contenuti di alta
moda insiti nel prodotto, di esercitare un controllo estremamente accurato sulla qualità finale
78
del prodotto, di utilizzare maestranze particolarmente addestrate il cui costo elevato è
bilanciato dal notevole valore aggiunto assicurato dal prodotto.
Nel caso invece del prodotto casual si potrebbe perseguire una logica di integrazione
limitata, mantenendo accentrate alcune operazioni, quelle che hanno maggior valenza
strategica (es.: design e marketing), e delocalizzando le altre, caratterizzate da una maggior
incidenza del costo del lavoro sulla fase considerata, in paesi in via di industrializzazione.
Infine per i prodotti sportivi si potrebbe scegliere un modello di business ancora più
decentrato, limitandosi ad esercitare internamente solo le fasi di progettazione dei prodotti e
di commercializzazione su base internazionale attivando parallelamente una rete di fornitori
indipendenti ai quali chiedere di produrre determinate quantità di prodotti secondo le
specifiche definite contrattualmente, lasciando a questi fornitori il compito di gestire tutta la
parte specificatamente produttiva, dagli acquisti dei materiali, al confezionamento, al
controllo di qualità, ecc.
Questi nuovi spazi di libertà strategica ed operativa richiedono una più ampia capacità
di analisi da parte delle imprese e una capacità di strutturarsi in forme più flessibili e questo
implica anche una nuova riflessione sulle modalità di concepire sia il mercato che la concorrenza. In proposito i modelli di analisi competitiva e di definizione delle strategie si rifanno
in prevalenza a due scuole di pensiero, una maggiormente focalizzata sull’analisi della
concorrenza e dei gruppi strategici in particolare, che viene frequentemente indicata come
“approccio a priori” e l’altra più centrata sulle analisi customer based e indicati anche come
“approcci a posteriori”.
L’approccio che si rifà all’analisi dei gruppi strategici guarda essenzialmente al
problema del posizionamento dell’impresa nell’ambito dell’arena competitiva (indicata come
Area Strategica d’Affari – ASA) rappresentata dalle imprese che sono considerate dirette
concorrenti dell’impresa considerata. Pertanto si presta grande attenzione: all’analisi dei
punti di forza e di debolezza dei diversi competitor, comparando la capacità innovativa che
sono in grado di esprimere, ricostruendo una misura delle loro quote di vendita in quanto
rappresentazione del rispettivo potere di mercato, analizzando per quanto possibile le
differenze reciproche nella struttura dei costi, nella qualificazione dell’immagine
commerciale e nell’articolazione dei loro canali distributivi. Ovviamente si tratta di un
campo di ricerca di importanza basilare, anche se a volte vi è il rischio che, anche per motivi
di tempo e di complessità dell’analisi, si tenda a privilegiare una analisi di breve periodo in
cui le imprese concorrenti effettivamente analizzate sono soprattutto quelle “percepite” dal
management come concorrenti. Se così fosse si avrebbe un’ottica prevalentemente soggettiva
e ristretta alla particolare ASA in cui l’impresa ritiene di collocarsi, e non si prenderebbero in
considerazione le minacce competitive che deriverebbero anche da imprese che in quel
particolare momento non fanno parte dell’ASA considerata, ma che appartengono comunque
al settore in questione. Basta considerare in chiave storica qualche settore per rendersi conto
che le maggiori sorprese strategiche sono derivate proprio da imprese che nel breve periodo
non apparivano come temibili concorrenti. In altri termini l’analisi dei gruppi strategici è
certamente fondamentale, ma andrebbe integrata da una più ampia prospettiva di settore in
cui sia possibile cercare di tener conto non solo delle minacce concorrenziali già operanti, ma
anche di quelle potenziali.
79
Nell’approccio customer-based l’attenzione converge innanzitutto sull’analisi del
comportamento del consumatore e sulla strutturazione della domanda, con l’obiettivo di
arrivare a formulare una strategia in termini di scelta dei segmenti da servire, di politiche di
prezzo, di pubblicità, di promozione e di distribuzione. Si tratta naturalmente di un aspetto
fondamentale dell’analisi competitiva, tuttavia anche in questo caso se ci si basasse
esclusivamente su questo tipo di approccio si correrebbe il rischio di trascurare aspetti di
grande importanza per una corretta valutazione delle opportunità strategiche di un’impresa.
In sostanza i due approcci dovrebbero essere necessariamente integrati allo scopo di dare una
visione la più completa possibile e simultanea delle minacce rappresentate dalla
strutturazione del quadro competitivo e delle opportunità da sfruttare derivanti dal quadro
delle esigenze e delle preferenze espresse dal mercato potenziale.
Infatti non basta aver individuato un’area di mercato, rappresentata da una certa quota di
domanda, priva di una offerta specifica per poter sancire la convenienza per una impresa ad
inserirsi. In quanto questo inserimento dovrebbe potersi basare su un vantaggio competitivo
sostenibile nel tempo. Diversamente l’inserimento potrebbe risultare in un primo momento
vantaggioso, ma in seguito vulnerabile rispetto a delle contromosse competitive attuate dalla
concorrenza. Ciò significa analizzare simultaneamente potenziali nicchie di mercato ed anche
rischi di potenziali concorrenti per individuare una combinazione interessante dal punto di
vista della domanda da servire però con modalità che minimizzino il rischio di essere imitati
da un concorrente che potrebbe avere maggiori opportunità di quante ne abbia il first mover.
Questa esigenza di esame integrato degli aspetti caratterizzanti della domanda e
dell’offerta risulta tanto più necessaria in una quadro di economia globalizzata in cui
ciascuna impresa non solo si trova davanti alla possibilità di elaborare un’ampia varietà di
modelli di business differenti, ma deve anche fronteggiare caratterizzazioni della domanda e
dell’offerta diverse da paese a paese. Infatti non c’è dubbio che, stanti i diversi modelli
culturali di riferimento e il diverso radicamento di una impresa al variare dei mercati, solo
una visione integrata dei due approcci è in grado di fornire gli elementi utili per cercare di
definire il corretto posizionamento dell’impresa in ciascuna delle principali realtà operative.
É solo abbinando l’analisi dal lato della concorrenza e dal lato della domanda che è possibile
esprimere un giudizio di validità sul modello di business di impresa declinato sulle diverse
minacce e opportunità presenti nei vari mercati.
3.8. Letture Consigliate
Doz Y., Santos J., Williamson P. (2001), From Global to Metanational. How Companies Win
in the Knowledge Economy, Harvard Business School Press, Boston, trad.it. Da
globale a metanazionale, Il Mulino, Bologna, 2004.
Micelli S., Di Maria E (2000), a cura di, Distretti industriali e tecnologie di rete: progettare
la convergenza, F.Angeli, Milano.
Podestà S, Golfetto F. (2000), a cura di, La nuova concorrenza, Egea, Milano, 2000.
Prencipe A. (2000), Competenze tecnologiche, divisione del lavoro e confini d’impresa,
F.Angeli, Milano.
80
Porter M.E. (1985), Competitive Advantage, The free Press, New York, trad. it., Il vantaggio
competitivo, Edizioni di Cominità, Milano, 1987.
Rullani E. (2004), Economia della conoscenza, Carocci, Roma.
Rullani E. (2004), La fabbrica dell’immateriale, Carocci, Roma.
Sirkin H.L., Hemerling J.W., Bhattacharya A.K. (2009), Globality, Boston Consulting
Group, Boston, trad. it., Globality – Competer con tutti in ogni luogo per ogni cosa,
RCS, Milano.
Valdani E. (1995), Marketing strategico, Etaslibri, Milano.
81
Dispensa per il corso di Analisi competitiva internazionale
Rapporto ICE 2007-2008
Capitolo 6
377
AUTO: LE FABBRICHE RISORGONO AD EST
di Matteo Ferrazzi e Debora Revoltella*
La geografia della produzione mondiale di auto sta cambiando rapidamente. I
maggiori produttori al mondo di automobili e veicoli commerciali sono principalmente imprese statunitensi, europee e giapponesi; eppure, la competizione proveniente dai
mercati emergenti sta lasciando profondamente il segno anche in questo settore. La
quota di automobili prodotte oggi nei paesi emergenti rappresenta quasi il 40 per
cento della produzione mondiale, una quota doppia rispetto a quella registrata nei
primi anni di questo decennio. Il baricentro della produzione di auto si sta spostando
verso Est, a livello mondiale verso l’Asia, a livello europeo verso i nuovi membri Ue.
Questa tendenza ha effetti rilevanti anche sui flussi di commercio estero.
1. Le scelte strategiche dei grandi produttori di auto spostano il baricentro della produzione e dei flussi di commercio estero
I paesi della “vecchia” Europa (l’Ue a 15) scambiano, rispetto al passato, una
quota sempre minore di beni tra di loro e sempre più con alcune aree emergenti, paesi
dell’Europa centro-orientale (PECO) e paesi asiatici in particolare (Cina, naturalmente, in primis). A livello settoriale, tale fenomeno è piuttosto diffuso a numerosi
comparti, ma non a tutti. Due sembrano i settori particolarmente colpiti da un calo di
quote di commercio intra-europeo, il tessile-abbigliamento ed il settore dell’auto e dei
beni di trasporto. Nel primo caso, l’erosione della quota imputabile alla concorrenza
dei paesi PECO non è particolarmente rilevante (sono i paesi asiatici a giocare la
parte del leone). Il settore dell’auto e dei beni di trasporto (che include anche treni,
navi, ecc.) è invece uno dei settori in cui si verifica una più evidente sostituzione tra
quote di commercio intra-Ue15 e quote di export dei paesi PECO. Cosa è accaduto?
Il settore dell’auto è caratterizzato da un’accesa competizione e deve fronteggiare alcuni fattori sfidanti, quali l’indebolimento della domanda nei mercati tradizionali, il rialzo dei prezzi delle materie prime, la sfida legata alle emissioni ed agli standard ecologici. Questi elementi si sommano ad una sovracapacità strutturale del settore. La sfida globale tra i produttori sta portando ad una sempre maggiore pressione al ribasso sui prezzi di vendita. I produttori giapponesi sono coloro che meglio si
sono adattati al nuovo ambiente competitivo. Quelli americani, ed in misura minore
quelli europei, hanno subito in anni recenti un calo sia delle unità vendute, che della
loro profittabilità.
Per fronteggiare le attuali sfide competitive, le scelte strategiche dei produttori
si sono orientate a (i) proseguire il processo di consolidamento e di ampliamento
dimensionale, non solo tramite fusioni ed acquisizioni, ma attraverso accordi e joint
ventures finalizzate a singoli progetti; (ii) trasferire verso i fornitori una parte sempre
più consistente di produzione, ed infine (iii) attuare politiche di riduzione dei costi.
Quest’ultimo aspetto ha implicato l’offshoring di una parte rilevante del processo
produttivo verso aree con costi di produzione più bassi. In ambito europeo, la regione dei paesi dell’Europa centro-orientale è stata tra i maggiori beneficiari di questo
processo.
*
UniCredit Group, CEE Economic Research (rispettivamente Economist e Chief Economist)
378
Capitolo 6
Variazione delle quote di export nel mercato dell'Ue-15 (%, 2000-07)
8%
PECO
INTRA-Ue
5%
3%
0%
-3%
-5%
-8%
hi
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Grafico 1
Fonte: elaborazione UniCredit CEE Research su dati Global Insight
2. I paesi dell’Europa centro-orientale come braccio produttivo dell’Ue
Se consideriamo i primi dieci produttori al mondo di automobili – i quali rappresentano ben tre quarti della produzione mondiale (il settore è infatti molto concentrato) - essi, senza eccezioni, hanno impianti produttivi nell’Europa centro-orientale,
nella gran parte dei casi costruiti o sviluppati nell’ultimo quindicennio. Non è infatti
solo la Fiat, che produce in Polonia anche la nuova 500, uno dei simboli della motorizzazione italiana nel mondo, a guardare a Est. In Polonia producono la Fiat appunto, ma anche la Volkswagen, l’Opel (oltre a Volvo, Man e Scania nel comparto dei veicoli pesanti); in Repubblica Ceca la Toyota, la PSA (Peugeot-Citroën), la Hyundai e,
la Volkswagen (anche attraverso il marchio locale Skoda); in Slovacchia la PSA, la
Volkswagen e la Kia; in Ungheria l’Audi e la Suzuki; in Slovenia la Renault, la quale
produce anche in Romania attraverso il marchio locale Dacia; in Russia la Ford, la
Volkswagen e la Renault1; in Turchia sono presenti Fiat, Ford, Renault, Hyundai e
Toyota.
Proprio grazie al contributo determinante degli stabilimenti dei player esteri,
nei paesi dell’Europa centro-orientale sono state prodotte nel corso del 2007 oltre sei
milioni di auto e veicoli commerciali, il doppio rispetto al 2000. La regione ha quindi prodotto nel 2007 quasi il 10 per cento dei veicoli prodotti a livello globale (mentre nel 2000 ne produceva poco più del 2.5 per cento).
1
Se in passato la politica industriale della Russia ha puntato a proteggere i produttori locali limitando
l’ingresso nel paese a produttori esteri, negli ultimi anni alcuni players stranieri sono entrati nel paese,
principalmente tramite joint ventures. I produttori esteri guardano quindi attualmente alla Russia con
molto interesse. A titolo di esempio, la Renault ha recentemente annunciato che il mercato russo
diverrà il suo più grande mercato al mondo nel giro di pochi anni (soppiantando la Francia).
Capitolo 6
379
Alcuni paesi della regione, in particolare quelli dell’Europa centrale, sono sempre più dedicati alla produzione di auto. Il peso dell’export di beni di trasporto della
Slovacchia, ad esempio, veleggia verso il 20 per cento del totale delle esportazioni di
beni del paese. La Slovacchia, un’economia piccola, molto aperta e competitiva, rappresenta attualmente il paese al mondo dove si producono più auto rispetto al numero di abitanti (seguono rispettivamente Slovenia, Giappone, Repubblica Ceca e
Corea). La produzione di auto in Slovacchia è cresciuta a tassi del 200 per cento
all’anno negli ultimi sette anni.
I paesi leader nella produzione di auto
SK
100
SI
JAP
CZ
KR
BE
Produzione di auto per 1000 abitanti
80
DE
CAN
ES
60
FR
SE
40
USA
IT
HU
AT
UK
TH
MEX
20
PL
MY
World
0
-0,5
0
0,5
1
1,5
2
2,5
Crescita della produzione 2000-'07
Fonte: ACEA, Eurostat
Grafico 2
Se ci poniamo nuovamente in un’ottica pan-europea, la regione PECO produce
oggi più di un quarto delle auto prodotte in Europa, cioè una quota doppia rispetto a
quella di inizio decennio. La regione, proprio per via delle scelte dei maggiori produttori di auto in termini di insediamenti produttivi, appare sempre più come il braccio
produttivo dei vecchi membri Ue.
Inoltre, la presenza di produttori esteri nella regione è in continua evoluzione:
nel marzo di quest’anno la Ford ha formalmente rilevato la fabbrica ex Daewoo in
Romania (dove produrrà 300 mila auto all’anno, dalle attuali 16 mila); ad aprile
2008 la Fiat ha annunciato l’acquisto del 70 per cento delle azioni della Zastava, il
produttore serbo con cui collabora già da parecchi anni; a maggio 2008 PSA
(Peugeot-Citroën) e Mitsubishi hanno annunciato piani di espansione per produrre in
Russia, dove apriranno una fabbrica nel 2011; a maggio 2008 Daimler ha annunciato che sta prendendo in considerazione l’apertura di una fabbrica di auto Mercedes
in Romania (che produrrebbe 350 mila auto l’anno dal 2011).
E’ bene ricordare che anche i principali fornitori delle grandi case automobilistiche, anch’essi player globali e soggetti a notevoli pressioni competitive, hanno
seguito un percorso simile. Bosch (Germania), Denso, Aisin Seiki (Giappone), Delphi,
380
Capitolo 6
Quota di produzione sul totale delle auto prodotte in Europa
100%
80%
60%
79%
85%
73%
Ue-15
84%
Russia
40%
7%
20%
6%
5%
6%
9%
10%
2000
2003
14%
PECO
excl.
Russia
20%
0%
Fonte: ACEA
2005
2007
Grafico 3
Johnson Controls Lear, Visteon, TRW (USA), Magna (Canada), Faurecia (Francia),
sono presenti in molti paesi della regione (ognuna di queste case è presente con insediamenti produttivi in almeno due paesi PECO). Poiché alcune fasi produttive in questi comparti sono a maggiore intensità di lavoro, la strategia di produrre nei mercati
emergenti è stata perseguita con ancor più decisione. Non è un caso che tra i paesi
con le quote di export più elevate nel segmento dei fornitori vi sono numerosi paesi
emergenti, quali il Messico, la Corea del Sud, la Cina, l’Ungheria, la Polonia, la
Repubblica Ceca, il Brasile, la Thailandia, la Turchia e l’India.
Il settore dell’auto ha spill-overs importanti anche su altri settori produttivi. Il
processo di cui si è parlato, e che potremmo definire di vera e propria sostituzione sul
fronte della produzione e dei flussi commerciali – si produce meno all’ovest e di più
all’est – sta quindi avvenendo anche in altri comparti, alcuni dei quali legati più o
meno direttamente alla produzione di auto. E’ il caso della “Gomma e plastica” (la
quasi totalità dei grandi produttori di pneumatici hanno anch’essi impianti produttivi nella regione dell’Europa centro-orientale, da dove vengono serviti sia i mercati
emergenti che quelli più sviluppati), della meccanica, dell’elettronica, ma anche del
tessile e pellame (questi ultimi per via delle finiture interne delle auto).
3. Più o meno Est nel futuro dell’auto?
I tassi di crescita dell’export sperimentati negli ultimi anni dai paesi PECO
hanno mostrano una dinamica sensibilmente più sostenuta rispetto a quella dei paesi
della “vecchia” Europa. Se teniamo conto della attuale capacità produttiva e degli
investimenti previsti, la quota prodotta dai paesi PECO è destinata ad aumentare ulteriormente; di conseguenza i flussi di export scaturiranno sempre più da Est verso
Ovest. Anche perché i paesi dell’Europa centrale formano ormai un mega-distretto,
ben collegato con il sistema produttivo tedesco, e autoalimentato dal continuo arrivo
di nuovi investitori.
Capitolo 6
381
Esportazione di auto e veicoli a motore
Crescita media annua
2002-07
Romania
Slovacchia
Polonia
Slovenia
Ungheria
Rep. Ceca
Germania
Ue-27
Area Euro
Italia
Francia
47,9%
25,1%
23,8%
22,6%
21,0%
14,5%
5,1%
4,9%
3,1%
2,0%
-0,7%
Fonte: Eurostat
Tavola 1
Il prossimo futuro potrebbe vedere quindi la continuazione degli attuali trend in
atto, con la possibilità, però, di assistere alla “migrazione” di alcune produzioni maggiormente labour intensive (specialmente nell’ambito della sub-fornitura) ancor più
verso est, cioè verso paesi caratterizzati da costi di produzione più bassi: Romania
innanzitutto, ma anche Ucraina e Bulgaria. La rapida crescita dei salari sperimentata dai paesi PECO in anni recenti, infatti, sebbene sia destinata a rallentare, potrebbe avere delle ripercussioni sulle scelte produttive di alcuni player e sul mix produttivo che caratterizzerà, in particolare, i paesi dell’Europa centrale. D’altro canto la
“vecchia” Europa continuerà a mantenere sul proprio territorio, così come oggi,
alcune fasi importanti di produzione, quelle più nobili, e sempre più “soft goods” e
idee: ricerca, brevetti e design (specializzandosi a monte del processo produttivo),
marketing e distribuzione (specializzandosi a valle del processo produttivo).
Infine, due altri aspetti sono da considerare: il graduale e per certi aspetti
“fisiologico” innalzamento qualitativo della produzione ed il crescente ruolo della
domanda locale. Riguardo al primo aspetto, in Europa occidentale, vengono prodotte sempre meno auto economiche, mentre i grandi marchi del lusso ancora non producono nell’Est europeo (lo fa la Mercedes, ma solo per quanto riguarda i camion).
Inoltre, i veicoli prodotti ed esportati subiscono un graduale innalzamento qualitativo: i principali investimenti nella regione PECO erano orientati, ed ancora oggi lo
sono, a produrre principalmente auto di dimensioni piccole e a prezzo contenuto
(quelle, insieme ai veicoli pesanti, con intensità di lavoro più elevata). Si producono
in Europa centro-orientale la Fiat Panda (Polonia), la Citroën C1, la Toyota Aygo, la
Peugeot 106, la Skoda (in Repubblica Ceca), la Renault Twingo (in Slovenia) e Clio
(Turchia), la Dacia Logan (in Romania). Le auto di piccola cilindrata sono tra l’altro
sempre più richieste dai mercati emergenti. Accanto a queste produzioni, però, si sono
affermate anche produzioni di veicoli di più alta gamma. In Slovacchia vengono prodotti i SUV dell’Audi e della Volkswagen, nonché quello della Porsche (Cayenne).
Inoltre, i paesi PECO ricevono gradualmente investimenti in fasi produttive a maggior valore aggiunto. Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia hanno attratto investimenti in funzioni terziarie quali ricerca e sviluppo (Volvo e Volkswagen in
Polonia, Bosh e Audi in Ungheria, PSA e Volkswagen in Slovacchia), finanza, contabilità (Fiat, Volvo, Man in Polonia, Johnson Controls in Repubblica ceca).
Riguardo poi alla decisione di molti player globali di produrre nella regione non
sono estranee considerazioni riguardanti il potenziale della domanda locale. La dinamica delle vendite di auto nell’area è stata però alquanto deludente negli ultimi anni.
Se da un lato la Russia ha visto raddoppiare le auto vendute ogni anno dal 2000 ad
382
Capitolo 6
oggi, gli altri paesi PECO hanno mostrato una sostanziale stagnazione nelle vendite
(principalmente dovuta alle importazioni di auto usate, specialmente dal 2004, anno
di accesso all’Ue per molti di questi paesi). Però il potenziale rimane molto elevato,
ed è determinato (i) dalla rapida crescita dei redditi, (ii) dalla bassa saturazione del
mercato, specialmente nei paesi più grandi (Russia, Turchia e Romania hanno meno
di 20 auto ogni 100 abitanti in età da patente, contro quasi 90 dell’Italia, che detiene
il livello più elevato in Europa) e (iii) dalla necessità di rinnovare il parco veicoli, che
è molto vecchio rispetto agli standard degli altri paesi europei. Il caso della Russia,
dove le decisioni riguardo gli insediamenti produttivi sono strettamente legate all’evoluzione della domanda locale di veicoli, è emblematico in questo senso.
In sintesi, dati questi elementi, il processo di ricomposizione di quote di export
a livello europeo tra Est e Ovest nel settore dell’auto è destinato a non esaurirsi nei
prossimi anni e continuerà ad avere effetti, seppur indiretti, su altri comparti. Tale
processo potrebbe addirittura accelerare nelle fasi, come quella attuale, in cui la
debolezza della domanda (in parte strutturale, in parte dovuta a fenomeni congiunturali, che colpiscono principalmente i beni durevoli) porta a maggiori pressioni competitive sia sui prezzi che sui volumi di vendita, e spinge quindi i produttori ad accelerare la ristrutturazione e graduale ricollocazione geografica dei propri impianti
produttivi.
Dispensa per il corso di Analisi competitiva internazionale
Rapporto ICE 2009-2010
209
Capitolo 6. I settori
6.15 Mezzi di trasporto
Le esportazioni dei mezzi di trasporto sono diminuite nel 2009 del 25,2 per cento, mentre la
riduzione delle importazioni è stata pari al 20,7 per cento. Il deficit, che era stato in calo dal
2006 al 2008, ha subito un deterioramento.
Questo risultato complessivo del settore scaturisce da un’evoluzione dell’interscambio
molto diversa nei due sottosettori che lo compongono.
Le esportazioni del sottosettore autoveicoli, rimorchi e semirimorchi sono scese del 33,9 per
cento a fronte di un calo delle importazioni del 18,1 per cento, portando ad un allargamento
del deficit di quasi 2800 milioni di euro. Questo peggioramento è solo in minima parte
dovuto alla crescita del disavanzo nel comparto autoveicoli, a pesare è soprattutto il crollo
delle esportazioni di parti ed accessori per autoveicoli e loro motori, il cui attivo si è ridotto
di oltre 2200 milioni di euro. Questo comparto aveva conosciuto nell’ultimo decennio una
sostenuta crescita dell’export: le imprese italiane, spinte a cercare nuovi mercati all’estero
dai processi di internazionalizzazione della filiera degli autoveicoli, avevano mostrato una
buona capacità di adeguamento alla nuova geografia produttiva mondiale, ma appaiono ora
sempre più esposte a una concorrenza che sta crescendo, specie nei nuovi paesi produttori di
auto.
L’indice della produzione industriale di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi è sceso di
quasi 40 punti, passando da 112,9 nel 2008 a 73,7 nel 2009.
Nel sottosettore altri mezzi di trasporto, storicamente in attivo, la limitata riduzione delle
esportazioni, pari al 5,0 per cento, insieme ad un calo del 32,3 per cento delle importazioni,
ha comportato un aumento di oltre 2000 milioni di euro dell’avanzo. Questo rilevante
miglioramento è dovuto in particolare al comparto navi e imbarcazioni, le cui esportazioni
hanno mostrato una certa tenuta (-3,5 per cento), mentre le importazioni sono diminuite del
57,8 per cento. Anche la riduzione dell’export di aeromobili, veicoli spaziali e relativi
dispositivi è stata modesta (-3,4 per cento) e ha permesso un leggero miglioramento
dell’attivo, mentre gli attivi di motocicli e biciclette hanno subito un’erosione.
Grafico 6.15.1
Mezzi di
trasporto
125
120
115
110
105
100
95
90
85
80
75
2000
(a) Dati provvisori
Fonte: elaborazioni ICE su dati Istat
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
Indice dei valori medi unitari all'esportazione
Indice dei valori medi unitari all'importazione
Indici dei volumi esportati
Indici dei volumi importati
Indici dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali sul mercato estero
Indici dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali
2009 (a)
210
Rapporto Ice 2009-2010. L’Italia nell’economia internazionale
La riduzione dell’interscambio di mezzi di trasporto nel 2009 è interamente dovuta alla
riduzione delle quantità scambiate. Sono cresciuti i valori medi unitari delle importazioni e
ancora di più quelli delle esportazioni. Nel sottosettore autoveicoli, rimorchi e semirimorchi,
l’aumento dei valori unitari è dovuto solo in minima parte alla crescita dei prezzi alla
produzione. Inoltre è da notare che i prezzi alla produzione sul mercato estero negli ultimi
anni sono cresciuti molto di meno dei prezzi sul mercato interno.13
Grafico 6.15.2
Autoveicoli,
rimorchi e
semirimorchi
120
115
110
105
100
95
90
85
80
75
70
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009 (a)
Indice dei valori medi unitari all'esportazione
Indice dei valori medi unitari all'importazione
Indici dei volumi esportati
Indici dei volumi importati
Indici dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali sul mercato estero
Indici dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali
(a) Dati provvisori
Fonte: elaborazioni ICE su dati Istat
Grafico 6.15.3
Altri mezzi di
trasporto
135
125
115
105
95
85
75
2000
(a) Dati provvisori
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009 (a)
Indice dei valori medi unitari all'esportazione
Indice dei valori medi unitari all'importazione
Indici dei volumi esportati
Indici dei volumi importati
Indici dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali sul mercato estero
Indici dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali
Fonte: elaborazioni ICE su dati Istat
13 Nel 2009 l’indice dei prezzi alla produzione sul mercato estero è risultato inferiore di 6 punti rispetto all’indice dei prezzi alla
produzione (entrambi, come già ricordato, a base 2005=100).
211
Capitolo 6. I settori
La quota italiana sulle esportazioni mondiali di autoveicoli non ha subito rilevanti variazioni
in tutto l’ultimo decennio ed è stata pari al 2,4 per cento nel 2009. L’Italia è retrocessa al
dodicesimo posto, superata dalla Polonia, la cui quota è cresciuta di 0,6 punti ed è giunta a
2,7. Guardando ai primi esportatori, la Germania è saldamente al primo posto, con una
quota del 21,4 per cento, ancora leggermente cresciuta, mentre il Giappone ha subito una
consistente perdita, passando da 15,9 a 13,2. Sono scesi gli Stati Uniti ed è aumentata la
Spagna. Considerando gli ultimi dieci anni, il guadagno cumulato della Germania è di oltre
3 punti, la perdita cumulata del Giappone è di 3,5 punti (a causa del cattivo risultato nel
2009); il Canada resta il paese che ha perso di più, passando dal 12 al 4,8 per cento; sono
cresciuti i numerosi paesi verso i quali le maggiori case automobilistiche hanno
delocalizzato le proprie produzioni, in primis, Polonia, Repubblica Ceca, Turchia, ciascuno
dei quali ha però ancora una quota modesta.
Tavola 6.15.1 - Quote di mercato dei principali esportatori (1) mondiali di autoveicoli
Paesi (2)
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
12
Germania
Giappone
Stati Uniti
Spagna
Francia
Canada
Belgio
Corea del Sud
Messico
Regno Unito
Totale principali esportatori
Italia
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
18,2
16,7
8,0
5,2
6,2
12,0
5,5
3,2
5,8
4,2
85,0
2,6
19,9
15,3
7,8
5,1
6,7
10,9
6,2
3,3
5,8
3,7
84,7
2,5
20,3
16,3
7,9
4,8
6,9
10,0
5,9
3,3
5,1
4,5
85,0
2,3
21,4
15,4
7,4
5,4
7,5
8,5
6,0
3,7
4,1
4,2
83,6
2,4
20,8
14,7
7,0
5,4
7,9
8,4
5,9
4,4
3,6
4,3
82,4
2,4
20,6
14,4
7,8
4,8
7,0
8,1
5,3
4,5
3,7
4,4
80,6
2,1
20,6
15,4
8,0
4,7
6,1
7,4
5,2
4,6
4,1
4,1
80,2
2,4
21,0
15,2
8,3
4,7
5,5
6,2
4,9
4,5
3,7
4,4
78,4
2,6
20,9
15,9
8,5
4,7
5,0
4,7
4,5
4,1
3,4
4,3
76,0
2,5
21,4
13,2
7,7
5,6
5,0
4,8
4,8
4,5
4,4
4,2
75,6
2,4
(1) Si veda nota 1 tavola 6.1.
(2) Principali paesi esportatori ordinati secondo l'ultimo anno della serie.
Fonte: elaborazioni ICE su dati Eurostat e Istituti nazionali di Statistica
La posizione competitiva dell’Italia nelle parti ed accessori per autoveicoli è rapidamente
peggiorata nel 2009: l’Italia è soltanto ottava, la sua quota si è ridotta di 0,8 punti ed è pari
al 4,4 per cento. Nel corso dell’ultimo decennio, fino al 2008, l’Italia aveva difeso bene la
propria quota a fronte di notevoli cambiamenti del quadro competitivo. Guardando ai
quattro principali esportatori, si evidenziano l’aumento della quota tedesca, che tra il 2000 e
il 2009 è passata dall’11 al 14,4 per cento, il crollo della quota statunitense, che ha perso
quasi 11 punti; il calo della quota giapponese e della quota francese. Si rilevano inoltre la
costante crescita della Cina, che nel 2000 aveva una quota dell’1 per cento ed è ora al quinto
posto con quasi il 6 per cento e della Corea del Sud, che ha guadagnato 3,5 punti, ed ha
superato l’Italia e l’affermarsi di nuovi fornitori quali la Polonia e la Repubblica Ceca, le
cui quote superano di poco il 3 per cento, ma sono in crescita.
Tavola 6.15.2 - Quote di mercato dei principali esportatori (1) mondiali di parti ed accessori di autoveicoli e loro motori
Paesi (2)
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Germania
Giappone
Stati Uniti
Francia
Cina
Messico
Corea del Sud
Italia
Spagna
Ceca, Repubblica
Totale principali esportatori
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
11,0
11,9
21,5
8,1
1,1
6,7
1,2
4,6
4,0
1,2
71,3
12,1
11,0
20,6
7,8
1,3
7,0
1,3
4,7
4,2
1,5
71,5
12,9
10,9
18,6
7,6
1,6
7,2
1,5
4,5
4,3
1,7
70,8
14,3
10,8
15,2
7,6
1,8
6,4
2,0
5,0
4,6
2,0
69,7
14,5
10,9
14,1
7,2
2,5
6,1
2,4
5,1
4,6
2,3
69,7
14,2
10,8
13,4
6,6
3,3
6,3
3,3
4,6
4,4
2,5
69,4
14,1
10,1
13,2
6,5
4,1
6,4
3,6
4,9
4,1
2,6
69,6
14,5
9,7
11,9
6,6
4,9
5,9
3,9
5,0
4,0
2,9
69,3
14,8
9,7
10,5
6,4
5,6
5,1
4,2
5,2
3,9
3,2
68,6
14,4
10,7
10,6
6,6
5,9
5,5
4,7
4,4
3,8
3,3
69,9
(1) Si veda nota 1 tavola 6.1.
(2) Principali paesi esportatori ordinati secondo l'ultimo anno della serie.
Fonte: elaborazioni ICE su dati Eurostat e Istituti nazionali di Statistica
212
Rapporto Ice 2009-2010. L’Italia nell’economia internazionale
Tavola 6.15.3 - Quote di mercato dei principali esportatori (1) mondiali di altri mezzi di trasporto
Paesi (2)
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Stati Uniti
Germania
Francia
Corea del Sud
Cina
Giappone
Italia
Regno Unito
Canada
Spagna
Totale principali esportatori
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
24,2
9,5
20,2
4,0
2,3
8,4
3,8
4,1
4,4
1,5
82,4
24,6
10,6
20,4
4,2
2,2
7,0
3,2
4,4
4,8
1,2
82,6
24,3
11,1
17,9
4,7
2,4
7,2
4,0
4,0
4,4
1,7
81,7
21,0
10,8
19,2
4,5
3,3
7,0
3,5
4,4
4,1
2,0
79,8
20,1
10,7
17,6
5,4
3,3
7,4
3,8
4,0
3,6
2,4
78,3
22,0
9,6
15,6
5,6
3,9
7,4
3,5
4,2
3,8
2,7
78,3
25,6
10,2
12,9
6,5
5,1
7,5
3,2
4,3
3,8
2,5
81,6
25,5
10,2
11,8
7,0
5,9
7,0
3,9
4,2
3,8
2,2
81,5
22,3
10,5
11,0
9,3
7,2
7,2
3,9
3,3
3,4
1,6
79,7
21,1
10,9
10,9
10,2
8,4
7,4
3,7
3,4
3,3
1,8
81,1
(1) Si veda nota 1 tavola 6.1.
(2) Principali paesi esportatori ordinati secondo l'ultimo anno della serie.
Fonte: elaborazioni ICE su dati Eurostat e Istituti nazionali di Statistica
Nel sottosettore altri mezzi di trasporto, l’Italia nel 2009 si è collocata al settimo posto nella
graduatoria mondiale, con una quota leggermente ridotta rispetto all’anno precedente e pari
al 3,7 per cento; le variazioni di maggiore rilievo per quanto riguarda i principali esportatori
sono state la diminuzione di 1,2 punti della quota degli Stati Uniti (il primo esportatore
mondiale, soprattutto grazie alla forte posizione nel comparto aeromobili e veicoli spaziali),
e gli aumenti di 1,2 punti della quota cinese e di 0,9 di quella della Corea del Sud.
Nell’ultimo decennio i cambiamenti di maggiore rilievo hanno riguardato proprio la quota
coreana e la quota cinese, entrambe cresciute di circa 6 punti, e la quota della Francia (terzo
esportatore mondiale), che ha subito un forte calo, passando da 20 a 11 punti.
Nel 2009 le esportazioni di autoveicoli verso Germania e Francia, che si sono confermati i
nostri due maggiori mercati, sono calate del 21 e del 26 per cento. Sono crollate le
esportazioni verso la Spagna (-47 per cento) e verso il Regno Unito (-54 per cento), che già
erano pesantemente diminuite nel 2008. Invece le esportazioni verso la Polonia, fortemente
cresciute nel 2008, hanno mostrato una maggiore tenuta (-7 per cento) e la Polonia è
diventata il nostro terzo mercato di sbocco.
Germania, Francia, Spagna e Regno Unito erano nell’ordine anche i principali mercati per
parti ed accessori per autoveicoli e verso tutti questi paesi le esportazioni hanno subito
pesanti cali, anche in questo caso sono crollati il mercato spagnolo (-50 per cento) e inglese
(-40,5 per cento); sono scese molto di meno le esportazioni verso la Polonia (-11 per cento),
che è diventata il nostro terzo mercato e verso la Turchia, mentre sono quasi triplicate le
esportazioni verso la Serbia14 (che al momento rivestono un ruolo marginale).
Si sono ridotte le importazioni di autoveicoli dalla Germania, dalla Francia e dal Regno
Unito, mentre sono cresciute, seppure in misura contenuta, le importazioni dalla Spagna,
dalla Polonia e dal Giappone. Anche le importazioni dai paesi europei e asiatici verso i quali
da alcuni anni le principali case automobilistiche mondiali stanno attuando imponenti
processi di offshoring15 sono in generale calate, mentre le importazioni da India e Romania
hanno mostrato aumenti eclatanti.
Le importazioni di parti ed accessori per autoveicoli dai principali fornitori hanno tutte
accusato pesanti riduzioni, dato il calo della produzione di autoveicoli in Italia. Tra i paesi
che hanno perso meno troviamo la Polonia (-16,4 per cento), che anche in questo comparto
è al terzo posto dopo Germania e Francia, e la Cina (-15,5 per cento), al quinto posto dopo
la Spagna.
14 Si veda il contributo “L’auto italiana parlerà anche serbo” pubblicato in questo Rapporto
15 Si veda il contributo “Auto: le fabbriche risorgono ad Est” pubblicato nel Rapporto ICE 2007-2008
Capitolo 6. I settori
213
Negli altri mezzi di trasporto, anche nel 2009 gli Stati Uniti si sono confermati il nostro
primo partner commerciale sia come paese fornitore sia come mercato di sbocco,
principalmente grazie agli scambi del comparto aeromobili e veicoli spaziali. Le
importazioni dagli Stati Uniti sono diminuite del 23,5 per cento, mentre si presentano in
crescita le importazioni dalla Germania e dalla Cina, secondo e terzo fornitore. Le
esportazioni verso gli Stati Uniti si sono ridotte del 12,6 per cento, quelle verso la Francia,
al secondo posto, del 7,4. Spiccano gli aumenti esponenziali verso il Portogallo, Panama e
le Bahamas, ma va ricordato che in questo sottosettore, caratterizzato da commesse di
notevole valore, le esportazioni verso singoli mercati possono presentare un grado molto
elevato di variabilità da un anno all’altro.
Nel primo trimestre 2010 l’interscambio dei mezzi di trasporto ha mostrato un rimbalzo
rispetto ai livelli molto depressi raggiunti nel corrispondente periodo del 2009 (quando le
esportazioni erano crollate del 35,6 per cento, mentre le importazioni si erano ridotte del
26,7 per cento). Le esportazioni sono salite del 17,1, le importazioni del 22,2 per cento.
Questo andamento complessivo nasconde risultati molto più negativi per gli autoveicoli (per
cui sono disponibili dati specifici) rispetto al settore nel suo complesso. Le esportazioni di
autoveicoli sono aumentate del 6,3 per cento, le importazioni del 28,5.
214
approfondimenti
Rapporto Ice 2009-2010. L’Italia nell’economia internazionale
L’auto italiana parlerà anche serbo
di Matteo Ferrazzi*
Introduzione
I paesi emergenti hanno prodotto nel corso del 2009 – ed è la prima volta
nella storia - più autoveicoli che Europa Occidentale, Nord America e
Giappone. Questi ultimi hanno lasciato sul campo – in termini di minore
produzione nel corso del 2009 rispetto l’anno precedente – ben 10 milioni
di veicoli, secondo i dati dell’OICA, l’Organizzazione mondiale dei
produttori. La produzione a livello mondiale è crollata nel suo complesso
dai 70,5 milioni di veicoli prodotti nel 2008 ai 61 milioni del 2009 ed il
commercio mondiale di auto è calato di oltre 180 miliardi di dollari. La crisi
finanziaria del 2008-2009 non ha frenato lo spostamento ad Est della
produzione di auto, tutt’altro. Nel corso del 2009, la Cina è divenuto il
primo produttore al mondo, scavalcando il Giappone. In ambito europeo,
sono i paesi dell’Europa dell’Est a fare la parte del leone, nonostante
abbiano anch’essi accusato un calo significativo della produzione durante
la crisi: i paesi oltrecortina hanno ulteriormente intaccato le quote di
produzione dell’Europa Occidentale.
In questo contesto, caratterizzato da un crollo dei volumi e dalle evidenti
difficoltà di numerosi players (due dei tre grandi produttori americani di
Detroit, sono finiti in bancarotta, ad esempio), il Gruppo Fiat è riuscito ad
attraversare la crisi meglio di altri, e anche a cogliere alcune opportunità, in
particolare tramite l’acquisizione dell’americana Chrisler. Un ulteriore
elemento importante, forse troppo trascurato dai media rispetto alla
“scalata” di Chrisler, è la crescente proiezione ad Est della casa italiana: da
un lato l’efficiente e moderna fabbrica polacca ha prodotto, già nel 2008,
tante auto a marchio Fiat di quante ne siano state prodotte in Italia.
Dall’altro, il futuro di Fiat parlerà anche serbo, a seguito della creazione
della joint venture con il governo serbo finalizzata all’acquisizione del
produttore locale Zastava. Tutto ciò è destinato a ridisegnare i rapporti
commerciali tra l’Italia e la Serbia, e più in generale con i Balcani.
1. Sempre più rilevante la proiezione estera dei produttori di auto
La presenza produttiva del Gruppo Fiat in Est Europa è di lunga data: già
negli anni ’30 del novecento fu creata la Polski Fiat, che produceva vetture
su licenza Fiat. Il marchio Polski Fiat scomparve negli anni ’90, quando la
Fiat comprò la fabbrica polacca. La fabbrica polacca della Fiat è divenuta
in anni recenti la più grande fabbrica di auto in Europa. Dal 2003 vi si
produce la Panda, dal 2007 anche uno dei simboli del Made in Italy in
campo automobilistico, cioè la nuova 500. Già nel corso del 2008 la
* Ufficio studi UniCredit Group
215
approfondimenti
Capitolo 6. I settori
produzione polacca di auto a marchio Fiat (escludendo quindi gli altri brand
del Gruppo, come Lancia ed Alfa Romeo, che comunque contribuiscono
per quasi un terzo sulla produzione italiana di auto del Gruppo Fiat) ha
superato la produzione italiana, mentre era meno di un terzo nel 2003. I
modelli Panda e 500 sono, infatti, quelli che negli ultimi anni hanno
incontrato il maggior successo: da un lato il pubblico si è orientato sempre
più verso modelli di auto compatte, più economiche e meno inquinanti;
dall’altro gli incentivi messi sul campo da numerosi paesi europei (quelli
tedeschi e quelli italiani sono stati i più rilevanti) favorivano anch’essi le
vetture di minor cilindrata e minor impatto ambientale. Ecco perché,
proprio nel bel mezzo della crisi, con numerosi produttori costretti a
chiudere o ridurre la manodopera impiegata, la fabbrica polacca della Fiat
reggeva meglio l’urto della crisi.
Tavola 1 - Produzione di auto a marchio Fiat nel mondo (1)
(unità)
America (Argentina e Brasile)
Asia (India)
Europa
Francia
Ungheria
Italia
Polonia
Turchia
Totale auto
2003
% su totale
(2003)
2008
% su totale
(2008
Delta 2003-08
(numero di auto)
309,520
44,646
24%
3%
631,891
5,089
39%
0%
322,371
-39,557
14,730
674,677
193,749
66,093
1,303,415
1%
52%
15%
5%
2,688
22,750
420,369
452,965
81,030
1,616,782
0%
1%
26%
28%
5%
-12,042
(1) Esclusi veicoli commerciali; esclusi i marchi non Fiat del Gruppo (Lancia, Alfa Romeo, Ferrari, Maserati).
Fonte: OICA
La Polonia è divenuta negli ultimi anni uno dei siti produttivi più importanti
per la produzione di auto in Europa, e non solo per la Fiat: numerosi
produttori esteri quali GM, Toyota, Ford, Volkswagen, Man e Scania
producono oggi nel paese di Chopin. E a sua volta, il fenomeno Polonia,
nell’ambito della produzione di auto, è un tassello importante di processi
rilevanti che interessano numerosi paesi dell’Est Europeo. Basti pensare
che Repubblica Ceca, Polonia e Turchia hanno già superato o sono vicine
alla soglia di un milione di veicoli prodotti ogni anno, ed hanno sorpassato
l’Italia in questo senso (che ha nel 2009 prodotto 840 mila veicoli sommando auto e veicoli commerciali - la metà di un decennio addietro). E
nel frattempo la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Slovenia sono divenuti
i tre paesi al mondo più “devoti” alla produzione di auto, producono cioè
più auto al mondo rispetto al numero di abitanti. E se consideriamo la
produzione complessiva europea di veicoli (escludendo la Russia), la quota
prodotta oltrecortina è aumentata dal 9 per cento del 1999 al 22 per cento
del 2008, ed è ulteriormente cresciuta oltre il 24 per cento nel corso del
2009. Anche l’import italiano di vetture ne ha risentito nel corso degli ultimi
anni: esso si rivolge in maniera crescente verso la Polonia e gli altri paesi
dell’Est Europa. La sostituzione produttiva Est-Ovest – si produce ad Est
ciò che una volta veniva prodotto all’Ovest – è continuata quindi a pieno
regime durante la crisi, nonostante i paesi dell’Est Europa siano stati tra
quelli più colpiti dal rallentamento e nonostante fino a pochi mesi fa venisse
messa seriamente in dubbio la loro capacità di poter continuare ad attrarre
investimenti dall’estero. La crisi ha quindi contribuito ad accelerare, in molti
casi, la ristrutturazione produttiva delle imprese della “Vecchia Europa”. Al
-254,308
259,216
14,937
313,367
216
approfondimenti
Rapporto Ice 2009-2010. L’Italia nell’economia internazionale
contrario, la Russia, quarta economia emergente al mondo, sembra
estranea a questi processi: nel 2009 la produzione russa di veicoli, ancora
per larga parte in mano a produttori locali, si è più che dimezzata.
Uno degli elementi più rilevanti, all’apparenza paradossale, è che
nonostante vi sia un eccesso alquanto significativo di capacità produttiva
installata a livello globale (la capacità produttiva utilizzata è stimata intorno
al 60-65 per cento rispetto all’80 per cento del 2007), in Est Europa si
continua ad installarne di nuova. La Mercedes, ad esempio, sta costruendo
una nuova fabbrica a Kecskemét, in Ungheria, dove produrrà i modelli
Classe A e B, ben 100-150 mila vetture all’anno. Volkswagen (in
Slovacchia), Bosch (in Ungheria, mentre al contempo chiuderà la propria
fabbrica gallese), Toyota e Renault (in Turchia) stanno altresì facendo
importanti investimenti nell’area. La Fiat ha invece scelto la Serbia come
meta produttiva, da affiancare a Italia, Polonia e Turchia (in Turchia la Fiat
produce in joint venture con il Gruppo Koc).
Grafico 1
Import italiano
di Vetture
(automobili,
motocicli ed
altri veicoli).
Milioni di euro
1.000
900
800
700
600
500
400
300
200
100
0
Francia
Germania
Gran Bretagna
Spagna
Media 2008-09
Polonia
Media 2002-03
Fonte: elaborazioni su dati Istat-Coeweb
2. Anche la Serbia e Balcani nel futuro della produzione di auto
Nel corso del biennio 2008-2009 il Gruppo Fiat ha posto le basi per
un’espansione produttiva e commerciale in Serbia, costituendo con il governo
serbo una joint venture, Fiat Automobili Srbija (67 per cento Fiat Group, 33 per
cento governo serbo). Il rapporto tra l’industria serba dell’auto e la Fiat risale a
decenni addietro. Dagli anni cinquanta (ben 12 anni prima che la Fiat iniziasse
la collaborazione in Unione Sovietica) la Zastava produce auto su licenza Fiat.
L’accordo di collaborazione fu siglato da Gianni Agnelli ed il Maresciallo Tito
nel 1954 e durò parecchi anni. Negli anni novanta le vicende dell’ex Jugoslavia
fecero sì che la fabbrica della Zastava, pur continuando a produrre la Yugo
(auto “nazionale” fin dal 1981), era ormai costretta a produrre un numero di
auto estremamente ridotto rispetto ai fasti degli anni ’80, quando più di 220
mila veicoli uscivano dalla fabbrica di Kragujevac ogni anno.
Nel 1999, con la guerra Nato, anche i rapporti tra Zastava e Fiat vennero
meno. Solo dal 2007, la Zastava riprese a produrre la Punto su licenza Fiat, e
assemblata con inputs importati, conosciuta in Serbia come “Zastava 10”. Nel
2008 arriva il nuovo accordo con la Fiat e la formazione della citata joint
Est Europa
(escl. PL, incl.
Turchia)
approfondimenti
Capitolo 6. I settori
venture, che va a sostituire la Zastava. Nell’arco di questi anni la Serbia è
passata per sorti alterne e dolorose vicende, in particolare per via della guerra
dell’ex Jugoslavia (1992-95) ed i bombardamenti della Nato (1999). Le
vicissitudini politico-istituzionali della Serbia spiegano in parte il suo ritardo
nell’aggregarsi al treno della crescita che ha coinvolto invece alcuni paesi
dell’Europa Centro Orientale. Negli anni 2000 però, si è materializzata per la
Serbia e per i paesi dei Balcani Occidentali la prospettiva tangibile di far parte
dell’Unione europea. Ancora nella seconda parte degli anni duemila l’integrità
territoriale serba viene scalfita, prima con l’indipendenza del Montenegro
(giugno 2006, a seguito di un referendum), poi con quella del Kossovo
(attraverso una dichiarazione unilaterale di indipendenza; il Kossovo non è
ancora riconosciuto da un numero consistente di paesi, alcuni dei quali
europei). Nell’aprile del 2008, la Serbia firma con l’Ue il Patto di Stabilizzazione
e Associazione ed il nuovo governo filoeuropeista pone le basi per ulteriori
avvicinamenti verso l’Unione europea. Il processo di transizione della seconda
metà degli anni duemila ha sicuramente contribuito a stimolare l’interesse
degli investitori per il paese: tra il 2006 ed il 2008 gli investimenti diretti esteri
hanno raggiunto mediamente il 9 per cento del Pil. La scelta del Gruppo Fiat
di puntare sulla Serbia e di avere un “interesse strategico” verso il paese non è
immune da queste considerazioni.
La tassazione vantaggiosa (solo del 10 per cento per le imprese), il basso costo
dei terreni, e la competenza e tradizione della Serbia nella produzione di auto
sono anch’essi elementi che hanno favorito la scelta della Fiat di produrre in
Serbia piuttosto che in altri paesi esteri. I salari dei lavoratori serbi, inoltre, sono
circa il 55 per cento-60 per cento di quelli dei lavoratori polacchi o cechi, il 65
per cento di quelli ungheresi e slovacchi, un terzo dei salari sloveni. Anche la
città di Kragujevac, allo scopo di favorire l’investimento Fiat, ha concesso delle
esenzioni e agevolazioni fiscali per dieci anni e ha garantito la possibilità di
utilizzare alcuni terreni, favorendo anche l’arrivo di alcuni fornitori di Fiat. La
scelta della Fiat è legata, seppur solo in parte, anche a considerazioni
riguardanti il mercato locale. Esso è relativamente piccolo, ma ha potenzialità di
sviluppo: il parco auto è molto vecchio e dovrà essere gradualmente sostituito;
inoltre il governo serbo ha messo in campo un programma di incentivi su
misura per sostenere la neonata joint venture con Fiat. Gli incentivi hanno
coinvolto anche la Republika Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina.
Altri marchi legati al settore auto quali Michelin, Dräxlmaier, Delphi e la
cinese DongFeng hanno sviluppato importanti investimenti in Serbia
durante gli anni duemila: l’industria serba dell’auto già conta circa 85
imprese (di cui un terzo estere) e occupa 150 mila lavoratori.
Lo scopo iniziale della collaborazione tra Fiat e governo serbo riguarda la
produzione della Punto, ma è stata annunciata anche la produzione per i
prossimi anni di nuovi modelli, anche nei segmenti B e C (medio).
L’investimento della Fiat è alquanto rilevante: l’obiettivo finale è quello di
arrivare a produrre dapprima 200 mila auto nei prossimi anni, poi 300 mila a
regime, sebbene questi obiettivi siano stati gradualmente posposti per via
della crisi. Questi numeri sono alquanto ingenti, ed il governo e la stampa
serba non perdono occasione per rimarcarlo: sono pari ad oltre metà delle
auto prodotte a marchio Fiat in Polonia, o in Italia, ad esempio (non si
tratterebbe comunque di sostituire produzione fatta altrove, ma di
produzione aggiuntiva). La produzione sarà orientata all’export, in
particolare verso i mercati dell’ex Jugoslavia, verso la Polonia, la Russia
(Serbia e Russia hanno accordi commerciali preferenziali) ed il Nord Africa.
E la produzione di quella che un tempo era la fabbrica Zastava, a
Kragujevac, è destinata a rappresentare un quinto di tutto l’export serbo.
Questo cambierà in maniera rilevante i rapporti commerciali tra l’Italia e la
Serbia e, più in generale, tra l’Italia e i Balcani Occidentali.
217
Dispensa per il corso di Analisi competitiva internazionale
LA CRISI E LA GLOBALIZZAZIONE IMPONGONO NUOVI
MODELLI DI IMPRESE MA PREPARANO ALLE PROSSIME
OPPORTUNITÀ
OSSERVATORIO DELLA FILIERA AUTOMOTIVE ITALIANA
2010
Torino, giugno 2010
In collaborazione con
La ricerca è stata realizzata da un Team di Step Ricerche Srl diretto da Filippo Chiesa e
Giuseppe Russo. Gli autori hanno lavorato a stretto contatto con l’Ufficio Studi della Cciaa di
Torino (Barbara Barazza e Silvia Depaoli), che ringraziano per i contributi di idee e
l’assistenza costante. I numerosi database impiegati sono stati organizzati da Lia Lagona
(Step Ricerche). Alla presente ricerca ha collaborato anche Sara Cassetta (Step Ricerche). La
rilevazione dei dati sul campo è stata curata dalla società Vivavoce Srl. Gli autori ringraziano
ancora i partecipanti al seminario intermedio di aprile e l’Anfia, per i contributi progettuali,
l’organizzazione di interviste sul campo e i dati forniti. Si ringraziano infine le 983 imprese
che hanno aderito all’indagine sul campo.
1
INDICE
INDICE ...................................................................................................................................... 2
CAPITOLO I.............................................................................................................................. 4
IL CONTESTO INTERNAZIONALE: LA CRISI ACCELERA IL PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE DEL
SETTORE, SEMPRE PIÙ COMPETITIVO E GLOBALIZZATO ................................................................ 4
1.1
Pur rimanendo nell’ambito di una crisi generalizzata, non mancano le dinamiche
positive all’interno del settore automotive............................................................................. 6
1.2 La flessione del mercato autoveicolare nel 2008 e il ritardo della ripresa si riflettono sui
livelli produttivi...................................................................................................................... 9
1.3 Le conseguenze della crisi: conti economici sotto pressione......................................... 12
1.4 Per avere successo occorrono taglia, carattere “glocale” e un portafoglio prodotti
articolato ma economicamente sostenibile .......................................................................... 15
1.5 Nessun gruppo potrà aspirare alle prime posizioni senza primeggiare nelle tecnologie
verdi ..................................................................................................................................... 18
CAPITOLO II .......................................................................................................................... 23
IL MERCATO E L’INDUSTRIA AUTOVEICOLARE NORDAMERICANI: NONOSTANTE LE RECENTI
DIFFICOLTÀ RESTA UNA DELLE AREE PIÙ RICCHE E DINAMICHE DEL MONDO ............................. 23
2.1 Pur avendo perso 5,8 milioni di autoveicoli in due anni, il mercato statunitense rimane
il secondo al mondo ed è pronto a ripartire dal 2010........................................................... 25
2.2 La crisi ha imposto alle imprese importati ristrutturazioni che potrebbero costituire un
vantaggio per il futuro.......................................................................................................... 29
2.3 Gli operatori: i player nazionali sono protagonisti di profonde ristrutturazioni che
offrono opportunità agli operatori esteri, non ultimo il Gruppo Fiat ................................... 31
2.4 Toyota: in un mercato sempre più esigente e competitivo gli ingredienti del successo
vanno rinnovati ogni anno e la crescita gestita al meglio .................................................... 36
2.6 Fiat ritrova un ruolo da protagonista in Nord America: un’opportunità per tutta la filiera
italiana.................................................................................................................................. 40
CAPITOLO III ......................................................................................................................... 43
LA FILIERA ITALIANA: LE CRITICITÀ SONO NUMEROSE, I MARGINI RIDOTTI, MA CHI PASSA LA
CRISI È PIÙ FORTE E PUÒ COGLIERE LE OPPORTUNITÀ FUTURE ................................................... 43
3.1 La produzione di autoveicoli in Italia negli ultimi due anni è calata più di quella in
Europa occidentale e nel mondo .......................................................................................... 46
3.2
Gruppo Fiat: i prossimi successi in Italia e nel mondo saranno essenziali per
rilanciare la filiera nazionale................................................................................................ 49
3.3 Il resto della filiera: il piano Fiat è un’opportunità da cogliere ..................................... 54
3.4
Il resto della filiera: pronta al rilancio dopo anni difficili........................................ 57
3.5
Dopo due anni difficili anche il Piemonte potrà tornare a giocare un ruolo da
protagonista grazie a export e produzioni locali .................................................................. 59
PARTE SECONDA: L’INDAGINE CONOSCITIVA SUL CAMPO..................................... 63
ANALISI DELLE RISPOSTE DI 983 AZIENDE DELLA FILIERA AUTOMOTIVE AL QUESTIONARIO
DELL’OSSERVATORIO................................................................................................................ 63
CAPITOLO IV......................................................................................................................... 63
DOPO LA CRISI, L’OPPORTUNITÀ DI UN RILANCIO DELL’INTERA FILIERA AUTOVEICOLARE
ITALIANA................................................................................................................................... 63
4.1
L’universo di riferimento, il campione intervistato e il metodo utilizzato per i dati
riportati e le stime ................................................................................................................ 67
4.1.2
La formazione dell’universo della filiera autoveicolare: più di 2.600 imprese
verificate e aggiornate ogni anno ......................................................................................... 67
4.1.3
L’universo come “arancia”: classificazione delle imprese in “spicchi” .............. 70
2
4.1.4
Il campione intervistato: 983 interviste forniscono un quadro rappresentativo
della filiera ........................................................................................................................... 72
4.1.5
La verifica del metodo utilizzato per stimare il fatturato: l’acquisizione dei dati
effettivi dai bilanci 2008 e il confronto con le stime della scorsa edizione dell’Osservatorio
basate su dati 2007 ............................................................................................................... 74
4.2
I risultati della filiera nel quadro di una crisi internazionale ................................... 76
4.2.1
Nel 2009 il fatturato totale della filiera diminuisce del 15,8% ............................ 76
4.2.2
Le direttrici del fatturato: l’ampiezza della crisi del 2009 riduce i margini di
manovra delle strategie di contrasto..................................................................................... 79
4.2.3
I clienti della filiera: l’importanza del Gruppo Fiat ............................................. 82
4.2.4
L’internazionalizzazione della filiera: riduzione dei volumi ma maggiore
presenza nei mercati esteri ................................................................................................... 84
4.3
I driver dei progetti di crescita ................................................................................. 88
4.3.1
Il portafoglio prodotti........................................................................................... 88
4.3.2
La spesa in ricerca e sviluppo: aumentano le collaborazioni con le altre imprese e
l’impegno nelle tecnologie verdi.......................................................................................... 89
4.4
Nuove strade: diversificazione di prodotti e clienti, in Italia e all’estero, grazie a
contenuti innovativi.............................................................................................................. 92
4.5
La dimensione delle imprese: la taglia aiuta a investire e a essere presenti nei
mercati emergenti................................................................................................................. 93
4.6
Le imprese Piemontesi: hanno sentito la crisi ma hanno mezzi e risorse per tornare a
crescere................................................................................................................................. 96
APPENDICE STATISTICA .................................................................................................. 100
3
CAPITOLO I
IL CONTESTO INTERNAZIONALE: LA CRISI ACCELERA IL PROCESSO
DI RISTRUTTURAZIONE DEL SETTORE, SEMPRE PIÙ COMPETITIVO E
GLOBALIZZATO
Dall’autunno del 2008 la crisi finanziaria ha contagiato i beni durevoli, raggiungendo ben
presto prodotti ciclici come l’auto. Dopo 6 anni di crescita del mercato mondiale, il trend si
è invertito e nell’arco di due anni le immatricolazioni di autoveicoli sono passate dagli
oltre 62 milioni registrati nel 2007 ai meno di 57 milioni del 2009. La produzione ha
accusato una battuta d’arresto ancora maggiore: dopo aver raggiunto la quota record di
73 milioni di autoveicoli nel 2007, è scesa a 61 milioni nel 2009 con una riduzione globale
di quasi 10 milioni di autoveicoli (-13,5%) rispetto al 2010.
Pur rientrando nel quadro di una crisi generalizzata, non tutti i mercati continentali e
nazionali hanno seguito il medesimo andamento. Tra i mercati maturi alcuni hanno
accusato perdite significative (-21,4% negli Stati Uniti) e altri hanno contenuto la flessione
(-3,4% in Europa occidentale) grazie agli incentivi governativi per l’acquisto di autoveicoli.
Al contrario i mercati emergenti più importanti – a eccezione della Russia (-48%) – hanno
continuato a registrare tassi di crescita in netta controtendenza (dal +11% di India e
Brasile al +45,5% della Cina), arrivando a incrementare il proprio peso sul totale delle
immatricolazioni nel mondo dal 29% al 36% nell’arco di dodici mesi.
4
E per il prossimo futuro? Nonostante il Fondo Monetario Internazionale preveda per l’anno
in corso una ripresa del PIL mondiale intorno al 4%, secondo la maggior parte degli
operatori il 2010 sarà per il settore automotive un anno di transizione, su cui peseranno il
progressivo esaurirsi degli incentivi governativi e l’effetto negativo dell’incertezza e degli
alti livelli di disoccupazione sulla fiducia dei consumatori. Si presume che non si tornerà ai
livelli di immatricolazione e produzione pre-crisi (2007) prima del periodo fra 2011 e
2012.
La frenata prolungata dei mercati ha fatto scendere la capacità produttiva impiegata a
tassi inferiori al 70%, ben al di sotto della soglia di redditività delle imprese (che si colloca
attorno all’80%), con inevitabili ripercussioni sui conti delle aziende assemblatrici e
produttrici di componenti. La crisi ha aggravato le situazioni di sofferenza, spingendole
fino alla richiesta di amministrazione controllata (Chrysler e General Motors) e
costringendo i principali operatori a importanti ristrutturazioni che si sono concretizzate
con la vendita di marchi storici (Volvo e Saab), la chiusura di stabilimenti produttivi (negli
Stati Uniti in particolare, ma anche in Europa) e un accentuato dinamismo sul fronte delle
alleanze (PSA-Mitsubishi, Renault-Daimler) e delle acquisizioni di quote di capitale
(Volkswagen-Porsche e Suzuki, Fiat-Chrysler). Sempre più stesso le protagoniste di
importanti operazioni sono state le imprese asiatiche, cinesi e indiane che, acquistando
marchi prestigiosi (MG Rover, Jaguar, Land Rover, Volvo), hanno ottenuto le leve
tecnologiche e produttive essenziali per aumentare la propria competitività e accedere ai
mercati occidentali.
Acquisizioni o alleanze strategiche permettono di colmare in poco tempo il gap di
tecnologie e mercati che ormai ogni operatore deve presidiare. I mercati emergenti da
presidiare non si riconducono esclusivamente a luoghi fisici ma anche a tendenze e
segmenti nuovi o rinnovati, il più importante dei quali è quello legato alle tecnologie
“pulite”, che emettono gas inquinanti in quantità ridotte o non ne emettono affatto.
Nel
secondo
capitolo
completeremo
il
quadro
internazionale,
dedicando
un
approfondimento alle vicende dell’industria automotive nordamericana. Vedremo come
nella corsa alla leadership di mercato Toyota sembri aver ripetuto parte degli errori
commessi da General Motors, vivendo un momento di difficoltà nel controllo di asset
strategici come la catena di fornitura, l’immagine di marca e l’appeal nei diversi mercati in
cui opera. Ma prima passiamo in rassegna i risultati economico-finanziari delle case e i
driver alla loro base, poiché per i prossimi anni è su questi che si baseranno i piani
industriali degli assemblatori.
5
1.1
Pur rimanendo nell’ambito di una crisi generalizzata, non mancano le
dinamiche positive all’interno del settore automotive
La crisi finanziaria che ha avuto origine negli Stati Uniti nella seconda metà del 2007 ha
iniziato a contagiare i mercati dei beni durevoli nell’autunno del 2008. Dopo anni di
crescita il PIL mondiale ha rallentato (+3%, contro il +5% del 2007) per poi fermarsi nel
2009 (-0,8%)1. La congiuntura internazionale sfavorevole non ha tardato a colpire un
prodotto ciclico come l’auto: dopo 6 anni di tassi positivi, il trend del mercato mondiale
ha invertito la rotta e, nell’arco di due anni, le immatricolazioni di autoveicoli sono
passate da un livello superiore ai 62 milioni (registrato nel 2007) a uno inferiore ai 57
milioni (nel 2009).
2
Figura 1.1
Immatricolazioni mondiali di autoveicoli , 2007-2009 (mln di unità, dati relativi ai
39 maggiori mercati).
64,0
+ 4,2
- 0,5
- 1,8
62,0
- 3,3
60,0
58,0
56,0
62,4
58,3
54,0
56,8
52,0
50,0
2007
2008
ASIA
UE 15
Centro Est
Europa
NAFTA
2009
Fonte: Associazioni nazionali dei fabbricanti di autoveicoli
In una situazione di crisi in cui disoccupati e sotto-occupati sono in continuo aumento, si
acuiscono le preoccupazioni rispetto ai redditi futuri e si abbassa il livello di fiducia dei
consumatori. Le famiglie iniziano a selezionare più attentamente le spese, posticipando
gli acquisti non urgenti (come quello per la sostituzione di un’auto) o limitando il budget
previsto. Le imprese – condizionate dall’incertezza delle entrate di cassa e dalla
1
2
Dati del Fondo Monetario Internazionale.
Gli autoveicoli comprendono: autovetture, veicoli industriali e commerciali, autobus.
6
congiuntura generale – si comportano allo stesso modo, rimandando gli investimenti in
veicoli commerciali o industriali.
3
Figura 1.2
Immatricolazioni (o *vendite ) di autoveicoli per paese, 2008 e 2009 (valori
assoluti e variazione 2009 su 2008).
16.000.000
14.000.000
45,5% -21,4%
2008
2009
12.000.000
10.000.000
8.000.000
-9,3%
6.000.000
18,2%
11,4%
4.000.000
-2,9% -10,6%
4,3%
-48,0%
10,9%
2.000.000
-11,4%
20,7%
-21,2% -26,4% 9,4%
AL
IA
BR
ET
AG
NA
IN
DI
A
*
RU
SS
IA
CA
N
CO
AD
RE
A
A
*
DE
LS
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*
SP
AG
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M
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SI
CO
*
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A
GR
AN
IT
AP
PO
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GE
RM
AN
IA
BR
AS
ILE
*
FR
AN
CI
A
S.
A.
*
GI
U.
CI
NA
0
Fonte: Associazioni nazionali dei fabbricanti di autoveicoli
Coerentemente con il quadro appena descritto, nei diversi paesi la domanda di
autoveicoli ha seguito l’andamento delle rispettive economie.
La classifica dei principali mercati dell’auto si apre con una novità: per la prima volta in
testa troviamo la Cina. Lo scorso anno il mercato cinese, sostenuto da una crescita del
PIL (+8,7%) mantenutasi su livelli pre-crisi e da incentivi governativi all’acquisto, ha
fatto segnare un +45,5%. Questo tasso di crescita forte, in netta controtendenza rispetto
ai maggiori mercati mondiali (i primi 39 registrano un complessivo -3,13% nel 2009
rispetto al 2008), ha permesso alla Cina di raggiungere i 13,6 milioni di autoveicoli
immatricolati: 3 milioni in più rispetto agli Stati Uniti (-2,5% di PIL nel 2009), che
detenevano il primato fino al 2008.
Gli incentivi governativi hanno giocato un ruolo importante anche in Europa
occidentale4. Qui, dopo il calo delle immatricolazioni superiore all’8% registrato alla
Per i paesi contrassegnati con asterisco il dato si riferisce alla vendite e non alle immatricolazioni.
La fonte dei dati relativi all’Europa riportati in seguito è ACEA (Association des Constructeurs Européens
d’Automobiles).
3
4
7
chiusura del 2008, nel 2009 il mercato dell’auto ha tenuto (+0,9%) nonostante la
riduzione del PIL dell’area Euro (-3,9%). Più difficile lo scenario per i veicoli industriali e
commerciali, colpiti per quasi un terzo (-30%) nell’arco dei 12 mesi. Nello stesso
periodo la flessione (-4,3%) del PIL dei paesi dell’Europa centrale e orientale – i nuovi
membri dell’Unione Europea – ha avuto forti ripercussioni sul mercato dell’auto della
regione: il -26,6% registrato si traduce in un valore assoluto annuo ben al di sotto del
milione di unità, pari a circa 848mila.
5
Figura 1.3
Immatricolazioni di autovetture in Europa (Unione Europea a 27 ed EFTA ), 2009
e primi mesi del 2010 (variazione percentuale rispetto all’anno precedente).
26,9%
11,6%
16,4%
10,8%
12,9%
6,3%
3,0%
3,1%
3,3%
3,0%
-9,1%
-11,9%
2009
Marzo
Febbraio
Gennaio
Dicembre
Novembre
Ottobre
Settembre
Agosto
Luglio
Giugno
Maggio
Aprile
Marzo
Febbraio
Gennaio
-4,4%
2010
-18,0%
-26,8%
Fonte: ACEA
In Europea occidentale gli incentivi governativi hanno frenato la caduta della domanda
che, dopo aver causato la perdita di 1,3 milioni di immatricolazioni nel 2008, rischiava di
aggravarsi nel 2009. Grazie agli stimoli all’acquisto di auto meno inquinanti il recupero è
5
Associazione europea di libero scambio fra Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera.
8
stato quasi completo: il 2009 si è chiuso per l’area con una perdita contenuta in 1,4 punti
percentuali. Tra le economie emergenti, invece, il bacino del Centro-Est Europa non ha
dimostrato di essere sufficientemente indipendente dalle sorti del resto del continente.
Completiamo il quadro con il caso della Russia, colpita dal calo della domanda e dei
prezzi degli idrocarburi (motore dell’export e di buona parte dei redditi nazionali) al
punto di registrare un -9% di PIL nel 2009. Risentendone, il mercato dell’auto russo è
passato dalle proiezioni che lo dipingevano come uno dei più promettenti degli ultimi
anni – prevedendo il rapido raggiungimento di quota 5 milioni di unità vendute – alla
drastica riduzione delle immatricolazioni che, nell’arco di 12 mesi, si sono dimezzate
passando da 3,9 a 1,45 milioni.
Per individuare dinamiche realmente positive occorre ancora una volta varcare i confini
dell’Europa e guardare agli altri paesi del gruppo BRIC6. In Brasile (-0,4% di PIL nel
2009) si sono vendute il 12,8% di auto in più rispetto al 2008, con una quota totale che
ha sfiorato i 2,5 milioni di immatricolazioni. Anche l’India (+5,6% di PIL) ha registrato
una crescita delle vendite di auto pari all’8%, superando gli 1,6 milioni di autovetture.
1.2 La flessione del mercato autoveicolare nel 2008 e il ritardo della ripresa si
riflettono sui livelli produttivi
L’onda lunga della frenata deimercati è iniziata nel 2008 eproseguita nel corso del 2009,
parzialmente attenuatada incentivi e da qualche piazza in controtendenza. Nel 2008 i
costruttori di autoveicoli avevano assorbito gli effetti del calo della domanda con
l’aumento degli stock, l’anticipazione delle ferie dei dipendenti e la conseguente
interruzione delle attività negli stabilimenti. Quando la crisi ha evidenziato caratteri
strutturali hanno però dovuto ricorrere ad altri ammortizzatori sociali, fino a varare
ristrutturazioni della produzione.
Se nel 2008 il calo della produzione si era limitato a 3,7 punti percentuali (2,7 milioni di
unità7prodotte in meno rispetto all’anno precedente), nel 2009 gli assemblatori hanno
dovuto ridurre i livelli di output in misura significativa: gli autoveicoli usciti dalle linee
produttive di tutto il mondo si sono fermati a quota 61 milioni di unità. Nell’arco di 12
mesi appena, si sono assemblati9,5 milioni di autoveicoli in meno (-13,5% rispetto al
6
7
Acronimo che designa Brasile, Russia, India e Cina.
Quando non diversamente specificato, la fonte dei dati riferiti alla produzione riportati in questo capitolo è OICA.
9
2008), di cui 5,5 milioni di auto (per una variazione anno su anno pari a -10,4%) e 4
milioni di veicoli industriali e commerciali (-22,7%).
Così come i mercati, anche le industrie nazionali hanno registrato andamenti diversi: la
produzione si è ridotta in misura significativa nelle piazze cosiddette “mature” mentre
ha continuato a crescere in quelle emergenti (ma non tutte).
Figura 1.4
Scomposizione della produzione mondiale 2009 per macro-aree (mln di
autoveicoli assemblati e variazione percentuale rispetto al 2008).
Russia
0,72mln,
-59,6%
Eu occ.
12,2mln
-19,4%
NAFTA 8,7mln
-32,3%
UE nuovi
membri.
3,0mln
-7,7%
Cina 13,8mln,
+48,3%
India 2,6mln,
+12,9%
Brasile
3,18mln
-1,0%
Fonte: OICA
In base all’andamento della produzione possiamo distinguere tre gruppi di paesi.
Nel primo rientrano le industrie emergenti che hanno continuato ad accrescere la
propria produzione a ritmi sostenuti – come l’India (+12,9%) e la Cina (48,3%) – o che
hanno momentaneamente rallentato, come il Brasile (-1,0%).
Nel secondo rientrano le industrie che, dopo aver conosciuto una crescita negli anni
passati (2008 compreso), nel 2009 hanno scontato il calo del mercato interno (come la
Russia,-59,6%) o dei mercati di esportazione (Centro-Est Europa, -7,7%).
Nel terzo infine rientrano le economie mature del cosiddetto “Occidente” (Nord America,
Unione Europea a 15 e Giappone), che negli ultimi 24 mesi hanno subito in toto, senza
eccezioni, gli effetti della crisi economico-finanziaria. Osservando le dinamiche
dell’output finale delle diverse industrie automotive negli ultimi due anni (2008-2009)
si nota come, mentre il blocco dei produttori ormai storici dell’Occidente registrava una
10
riduzione di quasi 15 milioni di unità, quello delle industrie emergenti (Cina, India e
Brasile) ne guadagnava 5,6. Nell’arco degli ultimi due anni, la quota dei BRIC è passata
da un quarto a un terzo del totale della produzione mondiale. Si tratta di dinamiche
importanti
perché
rappresentano
uno
dei
fattori
determinantinella
scelta
dell’allocazione degli investimenti da parte dei manager del settore.
Figura 1.5
Scomposizione della produzione mondiale 2009 per paese (mln di autoveicoli
8
assemblati e variazione percentuale rispetto al 2008) .
13.791
48,3%
12.238
12,9%
-1,0%
7.935
-13,8%
-17,6%
7.201
-14,6%
5.210
-31,5%
3.513
-33,9%
-20,2%
3.183
2.632
2.170
2.050
UK
Fr
an
cia
Sp
ag
na
In
di
a
e
Br
as
il
Ci
na
Eu
ro
pa
Oc
c
Gi
ap
po
ne
US
A
e
Ca
na
da
Ge
rm
an
ia
Su
d
Co
re
a
1.090
-59,6%
843
Ita
lia
-33,2%
722
Ru
ss
ia
-19,4%
-8,2%
Fonte: OICA
Fra le industrie emergenti la Cina merita una menzione speciale:è arrivata a produrre
più veicoli dell’Europa occidentale nel complesso. La rapida crescita dell’automotive ha
reso il paese leader mondiale sia in termini industriali sia di mercato, con inevitabili
conseguenze sull’intero scenario internazionale.
Oggi i costruttori di tutto il mondo (sia assemblatori sia fornitori di sistemi e
componenti) sanno che la presenza in Cina (o in India) è diventata una conditio sine qua
non per crescere; allo stesso tempo, anche i player locali stanno raggiungendo
dimensioni e qualità maggiori. Questi attori nazionali, indipendenti almeno in parte dalle
8 La linea tratteggiata nel grafico rappresenta la media delle variazioni percentuali mondiali riguardanti la produzione
dal 2008 al 2009 (-13,5%).
11
case straniere in termini di fatturato, tecnologia e capacità manageriali, presidiano
ormai più di due quinti del mercato locale: nel 2009 sono cresciuti più delle realtà
estere, portando la loro quota di mercato dal 38% al 42%. Grazie all’aumento della
domanda interna, essi hanno a disposizione quote crescenti di produzione e capitali da
investire
in
capacità
produttiva,
ricerca
e
sviluppo.
Il
loro
output
rispondeprevalentemente alla domanda del mercato nazionale ma, nel medio
periodo,potrebbe diventare oggetto di esportazioni verso l’estero, partendo dai paesi
dove le richieste dei clienti sono meno sofisticateper arrivare all’esigente mercato
occidentale. Per avvicinarsi a questo traguardo, le imprese cinesi e indiane ricorrono
sempre piùspesso all’acquisizione di marchi e stabilimenti occidentali: i casi sono in
costante aumento dal 2005, con accelerazioni dettate dalla crisi di alcuni gruppi
occidentali che hanno dovuto cedere marchi storici come MG (andanto nel 2005 alla
Nanjing Automobile Corporation, a sua volta incorporata dalla SAIC), Land Rover e
Jaguar (entrambi andati alla Tata nel 2008), e Volvo (andato a Geely fra il 2009 e il
2010).
1.3 Le conseguenze della crisi: conti economici sotto pressione
Il lungo periodo di contrazione dei mercati ha fatto scendere l’impiego della capacità
produttiva a tassi inferiori al 70%, ben al di sotto della soglia di redditività delle imprese
(che si colloca attorno all’80%), con inevitabili ripercussioni sui conti delle aziende
assemblatrici e produttrici di componenti. La crisi ha aggravato le situazioni di
sofferenza, spingendole fino alla richiesta di amministrazione controllata (Chrysler e
General Motors) e costringendo i governi nazionali a intervenire direttamente con
prestiti agevolati e iniezioni di capitale. Inoltre i principali operatori hanno varato
importanti ristrutturazioni che si sono concretizzate con la vendita di marchi storici, la
chiusura di stabilimenti produttivi (negli Stati Uniti in particolare, ma anche in Europa)
e un accentuato dinamismo sul fronte delle alleanze (PSA-Mitsubishi, Renault-Daimler) e
delle acquisizioni di quote di capitale (Volkswagen-Porsche e Suzuki, Fiat-Chrysler).
12
Tabella 1.1
Capitalizzazione borsistica dei maggiori gruppi produttori di autoveicoli, 20072009 (mln di euro e variazioni percentuali).
Capitalizzazion
e
(fine 2007)
mld €
Toyota Motor
(TOK)
Honda (TOK)
Capitalizzazion
e
(fine 2008)
mld €
variazione
%
2008/2007
Capitalizzazion
e
(fine 2009)
mld €
variazione
%
2009/2008
variazione
%
2009/2007
80
-53%
106
+33%
-37%
168
55
27
-51%
45
+68%
-18%
Daimler (FRK)
71
27
-62%
40
+47%
-44%
Nissan (TOK)
Volkswagen St.
(FRK)
BMW (FRK)
39
10
-74%
26
+150%
-35%
47
77
+62%
23
-70%
-52%
26
13
-50%
19
+50%
-24%
Fiat (ITA)
20
5
-74%
11
+121%
-43%
Renault (PAR)
Ford Motor
(NYSE)
Peugeot (PAR)
27
6
-79%
10
+85%
-62%
5
2
-64%
7
+316%
+51%
11
3
-76%
6
+106%
-51%
TOTALE
469
248
-47%
293
+18%
-38%
Fonte: Euroland.com
Nel prossimo capitolo, dedicato alle vicende dell’industria autoveicolare nordamericana,
vedremo come Toyota, nella corsa alla leadership di mercato, sembri aver ripetuto parte
degli errori commessi da General Motors,vivendo un momento di difficoltà nel controllo
di asset strategici come la catena di fornitura, l’immagine di marca e l’appeal nei diversi
mercati in cui opera. Per ora ci concentreremo su chi, nonostante la crisi, è riuscito a
mantenere i conti in positivo.
Nel complesso, dopo la flessione registrata nel 2008, le quotazioni delle imprese si sono
risollevate nel 2009. I primi dieci gruppi produttori di auto hanno registrato un
incremento totale pari al 18%, ma il bilancio dall’inizio della crisi è ancora negativo: il
valore totale della capitalizzazione di fine 2009 è di 38 punti percentuali inferiore
rispetto a quello di fine 2007. Solo il gruppo Ford (+51%) è in controtendenza: partendo
da una situazione di maggiore sofferenza rispetto ai principali concorrenti (2007), ha
beneficiato di una felice ristrutturazione dei conti e della gamma prodotti.
13
Tabella 1.2
Risultati finanziari dei maggiori gruppi produttori di autoveicoli, 2008-2009, in
ordine di fatturato 2009.
Dipendenti
2009
(migliaia)
Toyota
10
Ricavi
Ricavi
totali
totali 2008
2009
9
mln €
mln €
variazione %
ricavi
2009/2008
Utili/perdite
d’esercizio
2008
(mln €)
Utili/perdite
d’esercizio
2009
(mln €)
-7,7%
-3.351
1.607
321
157.472
145.360
VW
369
113.184
105.190
-7,1%
827
1.082
Ford
198
98.996
84.803
-14,3%
-10.970
2.000
Daimler
256
98.469
78.924
-19,8%
1.414
-2.640
GM
243
106.810
74.760
-30,0%
-22.259
Honda
182
76.707
65.807
-14,2%
1.051
2.059
Nissan
-22,1%
3.457
-1.675
12
-2.714
11
160
77.642
60.480
BMW
96
53.062
50.680
-4,5%
330
210
Fiat Group
190
59.380
50.102
-15,6%
1.721
-848
Peugeot
212
41.643
38.265
-8,1%
-225
-1.257
Renault
121
37.795
33.712
-10,8%
599
-3.068
Hyundai-Kia
125
27.411
28.372
3,5%
1.124
2.490
2.473
948.571
816.455
-13,90%
-26.282
-2.754
TOTALE
Fonte: Report finanziari e bilanci dei gruppi citati
L’andamento dei listini azionari riflette in gran parte, almeno nel medio periodo, le
fortune finanziarie delle aziende quotate sui mercati. Se prendiamo in considerazione i
risultati dei 12 maggiori gruppi produttori di auto, otteniamo una fotografia coerente
con l’analisi delineata finora: nel 2009 i ricavi totali sono scesi di 132 miliardi di euro,
pari a una perdita del 13,9%. Confrontando questa flessione con quella delle
immatricolazioni a livello mondiale (-2,58%) troviamo conferma del fatto che le vendite
non sono diminuite solo in quantità ma anche in valore, per effetto degli sconti praticati
nel tentativo di sostenere la domanda.
Nel complesso i diversi gruppi non sono riusciti a evitare la contrazione dei ricavi ma
hanno lavorato sul contenimento dei costi, arginando le perdite nette (che passano dai
26,2 miliardi circa del 2008 ai 2,7 miliardi del 2009). Sotto il profilo dei ricavi l’unica
eccezione è costituita dal gruppo Hyundai, che nel 2009 continua a crescere (+3,5% di
fatturato) ottenendo buoni risultati in tutto il mondo e, in particolare, nei mercati in più
forte sviluppo come Cina e India. Fra i soggetti che si sono mostrati capaci di contenere
Per la conversione delle valute estere in euro è stata usata la media dei tassi medi giornalieri nell’anno di riferimento.
Il bilancio si riferisce al periodo da aprile 2009 a marzo 2010.
11 Il dato è relativo al periodo luglio-dicembre 2009, dopo il termine delle procedure fallimentari.
12 Il bilancio si riferisce al periodo da aprile 2009 a marzo 2010.
9
10
14
la flessione si segnalano le tedesche BMW (-4,5%) e Volkswagen (-7,1%). Fiat (-15,6%) –
che analizzeremo in dettaglio nel Capitolo III del presente rapporto –ha registrato una
diminuzione dei ricavi in linea con la media del settore (-14,4%).Il gruppo che ha
accusato la flessione maggiore è stato senza dubbio General Motors (-30%). Il
ridimensionamento dell’assemblatore statunitense è stato principalmente dovuto a una
ristrutturazione significativa in regime di “Chapter 11”13, che tuttavia ha permesso di
ridurre le perdite nette dagli oltre 22 miliardi del 2008 ai 2,7 del 2009. Fra i gruppi che
nel 2009 sono tornati a conseguire un utile netto, oltre alle case tedesche appena citate,
si segnalano Ford (che sembra aver completato ilturnaround con successo) e le
giapponesi Honda e Toyota (i cui dati fanno però riferimento al periodo da aprile 2009 a
marzo 2010).
1.4 Per avere successo occorrono taglia, carattere “glocale” e un portafoglio
prodotti articolato ma economicamente sostenibile
Analizzando le performance dei gruppi che si sono dimostrati migliori in termini di
ricavi e profitti otteniamo importanti indicazioni riguardo ai driver sottostanti i loro
successi, ma anche segnali sulle future strategie della maggior parte delle case: tutti i
competitor si muovono per allinearsi alle best in class. Ford e General Motors sono
intervenute, con determinazione, sia nella riduzione della capacità produttiva impiegata
sia nella gestione dei marchi, cedendo quelli che generavano perdite (Jaguar, Land
Rover, Volvo, Saab, ecc.) nell’arco di pochi anni. Altri (Toyota e Volkswagen) hanno
invece fatto della gestione dei brand il loro punto di forza, integrandoli per creare
economie di scala e presidiare diversi segmenti del mercato.
Se guardiamo i trend di crescita (e decrescita) dei gruppi internazionali, sembrano
esistere due limiti: una soglia minima di produzione (fra i 5 e i 6 milioni di autoveicoli) al
di sotto della quale è difficile essere competitivi, e un tetto (intorno agli 8 milioni di
autoveicoli) superato il quale le economie di scala possono trasformarsi in diseconomie,
a causa della difficile gestione in termini sia produttivi sia commerciali. I casi di General
Motors e Toyota sembrano confermarlo.
Produrre fra i 5 e gli 8 milioni di autoveicoli, diminuendo il costo unitario di produzione
è un primo, difficile, traguardo. Il secondo è vendere quanto si è prodotto e, per riuscirci,
13
L’equivalente per gli Stati Uniti dell’amministrazione controllata italiana.
15
una presenza capillare in tutto il mondo è ormai un requisito necessario. Se fino a una
decina di anni fa era sufficiente essere presenti nei ricchi mercati occidentali (Stati Uniti
ed Europa su tutti), ora è indispensabile raggiungere anche i BRIC.
Questi paesi offrono oggi una domanda di autoveicoli in notevole aumento, e non a caso:
sono caratterizzati da una crescita della ricchezza procapite a tassi superiori alla media
mondiale, da un basso tasso di motorizzazione e da una popolazione vasta e in
espansione, ovvero tre degli elementi fondamentali che gli economisti considerano come
determinati della crescita della domanda.
Figura 1.6
Relazione fra la crescita percentuale del PIL procapite e quella della produzione
per paese, 2004-2009 (l’area delle ellissi è proporzionata alla dimensione della popolazione nei
diversi paesi).
Crescita del reddito pro-capite in % (2009/2004)
Russia
Cina
Sud Corea
Iran
India
Brasile
Tailandia
Stati Uniti
Turchia
Francia
Giappone
Indonesia
Sud Africa
Grandezza delle sfere
Germania
Crescita della produzione in % (2009/2004)
Fonte: Elaborazioni di Step Ricerche su dati OICA e Banca Mondiale
I maggiori istituti specializzati in previsioni sulla produzione considerano, infatti, queste
aree tra le più promettenti per il futuro. Anche se, per il 2010, l’FMI prevede una crescita
del PIL mondiale pari al 4% (ma bisognerà aspettare almeno fino al 2012 per tornare ai
livelli pre-crisi), per l’anno in corso è difficile ipotizzare come si svilupperà la ripresa; è
16
tuttavia ragionevole provare a individuare i paesi da dove avrà inizio (gli Stati Uniti,
dove si recupererà parte del terreno perso) o acquisirà forza (ancora una volta i BRIC).
Per quanto riguarda l’Europa, diversi fattori inducono a escludere una rapida ripresa: ci
limitiamo a citare in questa sede la fine degli incentivi governativi (che nel 2009 hanno
determinato l’anticipazione della domanda), il basso livello di fiducia riscontrato tra
consumatori e imprese, e la maggiore prudenza dei governi nelle politiche di
investimento (e spesa) a causa della crescente sensibilità di chi acquista titoli pubblici
rispetto allo stato di salute dell’economia nazionale.
Figura 1.7
Produzione mondiale di autoveicoli 2008-2010 e scomposizione per macro-aree
geografiche delle previsioni 2010(mln di autoveicoli assemblati).
68
66
2,4
0,64
0,274
0,143
0,123
64
4,2
62
60
66,0
65,0
58
56
57,2
54
52
2008
2009
ASIA (Paesi
emergenti)
NAFTA
CENTRO EST
SUD
EUROPA
AMERICA
UNIONE
EUROPEA
MEDIO
ORIENTE E
AFRICA
2010
Fonte: PWC
È evidente come, in uno scenario del genere, sarebbero pochi i costruttori in grado di
attuare in autonomia e in tempi rapidi piani di sviluppodi portata mondiale in termini di
prodotto e di mercato. Di solito quelli privi della taglia, delle competenze, delle quote di
mercato e del tempo necessari sembrano ricorrere o all’acquisizione o all’alleanza con
un competitor capace di colmare le eventuali lacune. Ne è un esempio la Fiat, che oltre
ad aver stretto alleanze strategiche per penetrare importanti mercati come Russia, India
e Cina, è riuscita nell’impresa di acquisire quote di capitale di Chrysler (più
17
precisamente il 20%) senza ricorrere né a un esborso di denaro né a uno scambio di
quote di capitale, ma mettendo a disposizione del turnaround del gruppo di Detroit le
proprie tecnologie “verdi” e le capacità manageriali.
1.5 Nessun gruppo potrà aspirare alle prime posizioni senza primeggiare nelle
tecnologie verdi
I mercati emergenti da presidiare non si riconducono esclusivamente a luoghi fisici ma
anche a tendenze e segmenti nuovi o rinnovati, il più importante dei quali è quello legato
alle tecnologie “pulite”, che emettono gas inquinanti in quantità ridotte o non ne
emettono affatto.
Negli ultimi anni le tematiche ambientali, primo fra tutti il riscaldamento globale, hanno
acquisito sempre più importanza sia per i singoli consumatori sia per i decisori pubblici.
I primi dimostrano un’aumentata sensibilità per consumi ed emissioni nella valutazione
di un veicolo da acquistare, mentre i secondi hanno varato norme sempre più rigorose
per limitare l’emissione di agenti inquinanti nell’ambiente. L’automotive è stato uno dei
settori maggiormente impattati da tale regolamentazione, con l’estensione dell’obbligo
di limitare le emissioni dei veicoli di nuova produzione prima in Europa, poi negli Stati
Uniti e infine nei paesi emergenti.
Nonostante questo trend, il mezzo di trasporto privato rimane una conquista
irrinunciabile per la grande maggioranza di chi abita nei paesi (da secoli, o da pochi
anni) industrializzati. Le fonti di energia pulita costituiscono, quindi, un percorso
obbligato e un banco di prova su cui si stanno confrontando le case automobilistiche di
tutto il mondo.
Come in tutti i mercati non ancora maturi, e soprattutto quando si ha a che fare con
nuove tecnologie, le idee e gli attori si moltiplicano. Qualche anno fa sembrava che
l’idrogeno potesse rappresentare la soluzione ideale, ma ormai l’iniziale ottimismo è
smorzato dagli interrogativi legati ai reali benefici per l’ambiente14 e ai prezzi delle
tecnologie disponibili. Nel frattempo è iniziata la commercializzazione di soluzioni
alternative: motori di dimensioni ridotte che garantiscono la stessa potenza di quelli
tradizionali (Fiat e Volkswagen), sistemi per il risparmio di carburante (stop and start),
sistemi e motori per il recupero e la generazione di energia elettrica da affiancare al
14
Se per produrre idrogeno di usano energie non “pulite” il problema dell’inquinamento persiste.
18
motore a scoppio tradizionale, motori e carburanti alternativi (biocarburanti, gpl,
metano).
Se la Toyota ha aperto la strada proponendo auto ibride (che abbinano un motore
elettrico a uno tradizionale), la prossima frontiera sembra essere quella dell’auto
completamente elettrica, passando per i range-extender plug-in15.
Agli automobilisti sarà quindi proposta un’offerta di vetture in grado di azzerare
l’inquinamento acustico e i gas di scarico emessi.
Ci saranno vantaggi anche per gli imprenditori: le tecnologie e i mercati non ancora
maturi sono, per definizione,caratterizzati da forti margini di crescita e opportunità di
guadagno.
I primi a varare progetti per modelli elettrici sono stati i piccoli e medi assemblatori:
alcuni sono produttori storici di auto elettriche, altri hanno convertito le produzioni
tradizionali con l’intenzione di intercettare la nuova domanda di mercato, giocando
d’anticipo rispetto alle grandi case automobilistiche.
Non è un caso che tutti i principali coach builder europei,di fronte alla riduzione delle
commesse, abbiano investito in progetti per l’auto elettrica (si veda il Capitolo II,
paragrafo 2.3 dell’edizione 2009 dell’Osservatorio). I piccoli assemblatori sono meno
capitalizzati, godono di una maggiore flessibilità e sono abituati a generare ricavi e
margini da piccole produzioni, come quelle che necessariamente caratterizzeranno il
mercato delle vetture elettriche nella fase iniziale. In un secondo momentol’aumento
della domanda e dei volumi produttivi potrebbe erodere il loro vantaggio, portando alla
ribalta i principali assemblatori a livello mondiale che, a parità di tecnologia offerta,
potrebbero offrire prezzi concorrenziali grazie alle economie di scala.
I costruttori minori possono quindi scegliere fra tre diverse soluzioni: continuare a
produrre per un mercato di nicchia facendo leva sull’innovazione (ad esempio in termini
di tecnologia o design), crescere, per sfruttare le economie di scala, o allearsi con un
carmaker globale (facendo però attenzione a mantenere il know-how strategico). È facile
dunque interpretare la notizia del maggio del 2009 secondo cui Tesla Motors, uno dei
costruttori di auto elettriche di lusso più noti, ha ceduto il 10% delle proprie azioni a
Daimler.
Modelli ibridi che usano il motore termico per caricare una batteria per il motore elettrico, con possibilità di
ricaricarla anche tramite una presa di corrente.
15
19
Tutti i principali assemblatori mondiali, intanto, hanno varato piani di ricerca e sviluppo
su sistemi di propulsione completamente elettrici grazie ai quali si impegnano a offrire
al pubblico almeno un modello di auto elettrica entro i prossimi 2-3 anni.
Non possiamo valutare quanto siano realistici i business plan che si prefiggono di
produrre e vendere migliaia di unità in pochi anni, ma annunciare il progetto di un’auto
elettrica rappresenta ormai un passaggioobbligato per le case costruttrici che vogliono
dare una connotazione innovativa alla propria immagine.
Al momento il mercato delle auto elettriche e ibride rappresenta l’1,5% circa del
mercato autoveicolaretotale: una quota molto limitata che, tuttavia, si traduce in circa
800mila unità l’anno. Deloitte stima che entro il 2020 i veicoli elettrici e ad
alimentazione alternativa rappresenteranno fino a un terzo delle vendite nei mercati
maturi e fino al 20% di quelle nelle aree urbane dei paesi emergenti. Accenture calcola
che nel 2015 il mercato statunitense assorbirà 1,5 milioni di auto elettriche l’anno
(meno del 15% delle immatricolazioni totali). L’IHS Global Insight’s Automotive Group
sposta l’orizzonte al 2030, prevedendo che per allora il 20% degli autoveicoli venduti
avrà un motore elettrico.
Anche i gruppi automobilistici hanno elaborato le loro stime. Volkswagen, tra i più
prudenti,prevede che entro il 2020 le auto elettriche saranno l’1,5-2% del totale del
venduto in Europa. Più ottimistaè Renault, che prevede un 5-10%: del resto il gruppo
parigino, il più convinto sostenitore di questa tecnologia, ha ottenuto dal governo
francese un prestito di 4 miliardi di euro per un progetto che coinvolge 2.000 ingeneri e
per il quale ha stretto un’alleanza con la Better Place, azienda internazionale fornitrice di
batterie e stazioni disostituzione. Grazie a questo enorme investimento Renault
presenterà al pubblico 4 modelli ad alimentazione esclusivamente elettrica tra il 2011 e
il 2012 ma, sebbene su scala diversa, tutti i maggiori assemblatori di autovetture stanno
partecpando alla corsa verso l’auto elettrica; anche quelli più prudenti stanno
accelerando i piani di sviluppo e anticipando le date previste per il lancio dei propri
modelli.
E, oltre ai coach builder storici, questa volta partecipano alla gara anche marchi legati a
mercati e industrie emergenti (la Byd ne è un esempio).
20
Tabella 1.3
Alcuni dei modelli di autoveicoli elettrici che saranno prodotti in serie nei
16
prossimi anni .
I-Miev
C-ZEro e iOn
Leaf
E6
Fluence
Kangoo
Twizy
Transit Connect
Classe A
Model-S
Zoe
Focus
FT-EV
500
E-Up
E-Golf
E-Jetta
Megacity
Tipologia
Marca
Multispazio compatto
Multispazio compatto
Berlina
Berlina
Berlina familiare
Multispazio compatto
Minicar
Veicolo commerciale
Multispazio compatto
Berlina 5+2
Berlina compatta
Berlina
Minicar
Minicar
Citycar
Berlina
Berlina compatta
Citycar
Mitsubishi
PSA-Mitsubishi
Nissan
Byd
Renault
Renault
Renault
Ford
Daimler
Tesla
Renault
Ford
Toyota
Fiat
Volkswagen
Volkswagen
Volkswagen
BMW
Anno
in cui sarà
disponibile
2010
2010
2010
2010
2011
2011
2011
2011
2012
2012
2012
2012
2012
2012 (NAFTA)
2013
2013
2013
2013
Fonte: Case costruttrici
Tutti i business plan relativi a scenari non ancora maturi devono considerare molteplici
fattori di rischio. La diffusione e la velocità di assorbimento delle vetture elettriche nel
mercatosaranno legate all’abbassamento della soglia di indifferenza dei consumatori
che, a sua volta, dipende da una serie di elementi: primo fra tutti il costo, sia di acquisto
sia di manutenzione e alimentazione.
Sarà poi determinante che le prestazioni (in termini di velocità, rifornimento e
autonomia) siano quanto più possibileparagonabili a quelle di un’autovettura
tradizionale;sotto questo aspetto la componente fondamentale sarà la batteria: il livello
di tecnologia, la possibilità (e il grado di flessibilità) della produzione in serie, il costo, la
capacità e i tempi di ricarica sono tutte caratteristiche che i consumatori valuteranno
attentamente e su cui sono impegnati i centri di ricerca e sviluppo. Occorre poi
considerare altre variabili, come ad esempio quelle legate alla rete di distribuzione
(capillarità, approvvigionamento, ecc.).
Tutti questi fattori possono incidere sulla velocità con cui si svilupperà l’auto elettrica. Al
momento, tuttavia, è questa la tecnologia – che sia applicata a modelli “puri” o abbinati a
L’elenco qui proposto non ha pretese di esaustività in merito alla produzione in serie – attuale e prevista per i
prossimi anni – di veicoli elettrici. Il suo unico intento è dare prova del crescente interesse delle case automobilistiche
per questo tipo di vetture.
16
21
motore termico – che sembra rappresentare la risposta più efficace alle note
problematiche su emissioni e consumi.
22
CAPITOLO II
IL MERCATO E L’INDUSTRIA AUTOVEICOLARE NORDAMERICANI:
NONOSTANTE LE RECENTI DIFFICOLTÀ RESTA UNA DELLE AREE PIÙ
RICCHE E DINAMICHE DEL MONDO
C’era una volta: potrebbe iniziare così il capitolo dedicato al settore automotive
statunitense. C’era una volta il mercato autoveicolare più importante e florido del mondo,
un’industria che vantava tre gruppi di imprese che producevano non solo auto, ma modelli
di business in grado di competere con successo con quelli giapponesi, tanto da ottenere la
leadership dei mercati mondiali e permettersi di fare shopping fra i brand del lusso europei
e quelli tecnologicamente avanzati dell’Asia. Ancora nel 2000 General Motors e Ford
occupavano rispettivamente la prima e la seconda posizione fra i maggiori produttori
mondiali di autoveicoli, grazie a 15,5 milioni di unità assemblate, pari a più di un quarto
della produzione mondiale totale. Nello stesso anno erano le fabbriche nordamericane dei
tre maggiori gruppi statunitensi (compresa anche Chrysler) a produrre i tre quarti della
produzione totale (13,2 milioni di veicoli).
Dall’inizio del nuovo millennio lo stato di salute dei gruppi americani e i rapporti di forza
con i concorrenti del settore sono rapidamente cambiati a vantaggio di questi ultimi.
Cos’è successo? I modelli di business statunitensi hanno cominciato a mostrare i loro limiti:
i costi sono aumentati, proprio mentre le quote di mercato diminuivano. Nuove esigenze di
flessibilità e diversificazione hanno reso inadeguata la catena di fornitura integrata
23
verticalmente. La produttività delle linee di montaggio e della forza lavoro si è allontanata
sempre di più da quella dei competitor e i marchi acquistati in giro per il mondo non si
sono dimostrati sufficientemente redditizi né in termini finanziari né in ritorni tecnologici
o di immagine. I clienti, un tempo fedeli, hanno iniziato a varcare la soglia di
concessionarie di altre case, preferendo prodotti giapponesi o europei che rispondevano
meglio e più rapidamente ai loro gusti.
La prima reazione dei big di Detroit è stata quella di difendere a ogni costo le quote di
mercato: sono state varate importanti promozioni facendo leva su prezzi di vendita e
finanziamenti. Queste politiche hanno peggiorato i conti delle società: General Motors e
Chrysler hanno presentato i libri in tribunale nel corso del 2009, Ford vi è andata molto
vicina. Dopo aver toccato il punto più basso della loro storia, fra il 2009 e il 2010 le case
statunitensi hanno dato inizio a profonde ristrutturazioni, tagliando capacità produttiva e
concentrandosi sui marchi più redditizi e su quelli che meglio corrispondono alle esigenze
dei piani di rilancio: General Motors è passata da 9 a 5 marchi, Chrysler ha visto l’ingresso
nel capitale sociale e nel consiglio di amministrazione del Gruppo Fiat, con il suo bagaglio
di esperienza manageriale e competenze tecniche nella concezione e ingegnerizzazione di
linee produttive per le auto piccole e compatte. Fiat Group Automobiles ritorna quindi in
un mercato nordamericano dinamico e ricettivo alle novità, dove la popolazione (456
milioni di persone) ha un reddito pro capite medio pari a 37.700 dollari (46.400 dollari
negli Stati Uniti); un mercato che, nonostante le difficoltà, rappresenta ancora più di un
quinto del mercato mondiale degli autoveicoli. Un’opportunità non solo per Fiat ma per
tutta la filiera, se si pensa che già oggi il gruppo del Lingotto condivide con Chrysler metà
del parco fornitori e ancora nel 2008 il cluster nazionale esportava nell’area NAFTA parti e
componenti per un valore di poco inferiore al miliardo di euro.
Dopo che la crisi ha toccato il culmine nel 2009 l’economia nordamericana sembra
ritrovare fiato, e la fiducia dei consumatori torna a spingere le quote di mercato delle case
nazionali. Queste ultime registrano una ripresa delle immatricolazioni e, all’inizio del
2010, sembrano aver ritrovato una migliore redditività: si preparano dunque a presentare
al mercato una gamma di prodotti rinnovata, alcuni dei quali proverranno – per
produzione o concezione – dall’Italia.
24
2.1 Pur avendo perso 5,8 milioni di autoveicoli in due anni, il mercato statunitense
rimane il secondo al mondo ed è pronto a ripartire dal 2010
Nel 2009, con 10,5 milioni di autoveicoli venduti, gli Stati Uniti sono scesi al secondo
posto nella classifica dei mercati nazionali dell’auto: il primato, detenuto fino al 2008, è
passato alla Cina. Questo sorpasso è il risultato di due dinamiche contrapposte: nell’arco
del biennio 2008-2009, mentre il mercato totale cinese è cresciuto da 8,7 a 13,6 milioni
di unità, con un incremento pari al 55%, gli Stati Uniti hanno compiuto il percorso
inverso, passando da 16,4 milioni di autoveicoli immatricolati nel 2007 a 10,5 nel 2009
(perdita totale di 5,8 milioni di unità, pari a una variazione di 36 punti percentuali).
La crisi economico-finanziaria che proprio negli Stati Uniti ha avuto il suo epicentro ha
colpito un settore che presentava una domanda stagnante già da diversi anni. Nel 2000 il
mercato americano aveva toccato il proprio massimo storico arrivando, dopo cinque
anni di crescita ininterrotta, a immatricolare 17,8 milioni di autoveicoli. In seguito però
il trend si è invertito, con 7 anni sugli ultimi 9 caratterizzati da una contrazione della
domanda. Il mercato si è prima stabilizzato attorno a quota 17 milioni, per poi cedere al
manifestarsi della crisi: nel 2007 le immatricolazioni erano già scese a 16,4 milioni di
unità, nel 2008 a 13,4, per finire a 10,5 milioni nel 2009. Il dato dell’anno scorso riporta
così la piazza statunitense indietro di 30 anni.
Tabella 2.1
Scomposizione del mercato nordamericano degli autoveicoli per paese, 20002009 (milioni di unità).
2000
2001
2005
2007
2008
2009
Var %
‘09/’08
Var %
‘09/’07
Stati Uniti
17.812
17.472
17.444
16.460
13.468
10.580
-21,4%
-35,7%
Canada
1.586
1.598
1.630
1.690
1.671
1.480
-11,4%
-12,5%
Messico
854
919
1.132
1.100
1.026
755
-26,4%
-31,4%
20.252
19.989
20.206
19.251
16.164
12.815
-20,7%
-33,4%
Totale
Fonte: ANFIA e associazioni nazionali relative
Se è vero che la domanda di auto è stata frenata in tutto il mondo, salvo rare eccezioni,
osservando il mercato nordamericano nel suo insieme si capisce come qui gli effetti della
crisi internazionale siano stati più importanti che in qualsiasi altro macrocontesto
internazionale. Negli ultimi due anni il peso delle immatricolazioni nordamericane sul
25
totale mondiale si è ridimensionato, perdendo 8 punti percentuali: dal 31% del 2007 è
passato al 23% del 200917.
Premesso così che la “torta” è sempre più piccola, possiamo addentrarci nell’analisi delle
sue dinamiche interne, iniziando dalla scomposizione del mercato in categorie
merceologiche: autovetture e altri veicoli commerciali e non. Fino ai primi anni Novanta
il comparto delle autovetture (che qui viene denominato “car”) valeva i due terzi del
totale del mercato. Le cose sono cambiate quando i marchi nazionali hanno cominciato a
proporre ai consumatori modelli SUV o ad adattare per i privati alcuni modelli prima
destinati principalmente alle attività delle imprese. In seguito alla risposta incoraggiante
degli acquirenti, tutte le case automobilistiche hanno moltiplicato l’offerta di SUV, CUV,
van e pick-up: tutti modelli appartenenti alla categoria dei “light truck”, superiore per
peso e volume a quella delle “car”. Lo sviluppo dei light truck nel corso degli anni
Novanta ha spinto la loro quota di mercato dal 30% registrato a fine anni Ottanta a oltre
il 50% dell’inizio dell’ultimo decennio, con ottimi dati in termini assoluti (più di 9
milioni di immatricolazioni l’anno). Il picco di questa crescita si è avuto nel 2004,
quando i light truck hanno raggiunto il 55% del mercato circa; in seguito il distacco
rispetto alle car è tornato a ridursi, fino a una nuova inversione dell’equilibrio a partire
dal 2007.
Tabella 2.2
Scomposizione per segmento di mercato delle vendite negli Stati Uniti 20062009 (dati in percentuale sul totale delle vendite).
Van
Totale
Veicoli
commerciali
Pick-up
leggeri
14,20% 13,10%
8,00%
17,30%
52,6%
47,4%
17,20% 11,90%
7,00%
16,60%
52,7%
51,6%
18,30%
8,80%
6,40%
14,80%
48,3%
2009
19,60% 22,20% 3,10% 7,50% 52,4%
Fonte: ANFIA e associazioni nazionali relative
21,90%
6,70%
5,60%
13,30%
47,5%
Lusso
Totale
Auto
CUV
4,80%
7,70%
47,4%
15,80% 19,70%
4,30%
7,60%
19,00% 21,30%
3,50%
7,80%
Piccole
Medie
Grandi
2006
15,30% 19,60%
2007
2008
18
SUV
Per l’inversione di tendenza a favore delle car è stata determinante la crisi economica
che, insieme all’aumento del prezzo dei carburanti (quasi triplicati fra il 2007 e il 2009),
ha modificato le scelte dei consumatori americani spingendoli a preferire vetture dai
17 Il confronto 2007-2009 si riferisce al totale dei 39 principali mercati mondiali, per i quali si disponeva di dati
aggiornati a maggio 2010.
18
CUV è l’acronimo di “Crossover Utility Vehicle”.
26
consumi e dai prezzi più contenuti. Nel corso degli ultimi 4 anni, le auto piccole e
compatte sono passate così da una quota totale del 35% a una del 42%, a danno non
tanto degli utility vehicle quanto di van e pick-up – che si sono ridotti di un quarto
rispetto alle altre categorie – e delle autovetture di grandi dimensioni, la cui quota di
mercato si è ridotta di un terzo. Gli ultimi dati su 2009 e primi mesi del 2010
confermano questi trend.
Un altro freno alle cilindrate dei veicoli e in generale ai loro consumi è giunto negli
ultimi anni dall’amministrazione centrale americana, che ha ripreso una normativa
emanata alla fine degli anni Settanta (denominata CAFE 19 ) sull’onda della crisi
petrolifera. Le nuove disposizioni del maggio 2009, infatti, impongono livelli minimi di
miglia percorse per gallone di benzina (mpg) più alti per le nuove auto, in base alla
media ponderata sul totale del venduto, per marca e per anno. Il livello minimo richiesto
nel 2011 è di 27,3 mpg, ma già nel 2016 le case produttrici dovranno garantire almeno
35,5 miglia per gallone di benzina (39 mpg le auto e 30 i light truck).
Dopo aver parlato del mercato nordamericano nel suo complesso e aver delineato i
trend di quello statunitense, volgiamo l’attenzione sugli altri due mercati nazionali che
fanno parte della zona del libero scambio nordamericana (NAFTA20): quello canadese e
quello messicano. Il primo presenta caratteristiche del tutto simili a quello statunitense.
È un mercato maturo che nell’ultimo decennio ha venduto un volume fra 1,5 e 1,7
milioni di autoveicoli, pari a un’incidenza sul mercato nordamericano fra l’8% e il 10%.
Anche il Canada ha subito le conseguenze della crisi, ma in ritardo rispetto agli altri due
mercati dell’area: ha superato indenne il 2008, per poi perdere l’11,4% nel solo 2009.
Diverso è il caso del Messico, la cui caratteristica principale è dimensione limitata
rispetto alla numerosità della popolazione e al livello del reddito pro capite, che nel
2008 era superiore ai 14mila dollari l’anno (più del doppio di quello cinese). Nel 2009 gli
autoveicoli venduti in Messico sono stati la metà rispetto al Canada (755mila) a fronte di
una popolazione grande il quadruplo (112 milioni di abitanti).
La crisi ha frenato il processo di espansione del mercato messicano che, dalle 853mila
immatricolazioni del 2000 aveva superato il tetto del milione nel 2004, fino a
raggiungere 1,14 milioni di unità vendute nel 2006, raggiungendo la quota del 6,3% sul
totale del mercato nordamericano. Qui le difficoltà congiunturali hanno inciso più
CAFE è l’acronimo di “Corporate Avarage Fuel Economy”.
Il NAFTA (North American Free Trade Agreement) è l’accordo che dal 1° gennaio 1994 ha abbattuto
progressivamente tutti gli ostacoli (dazi, diritti doganali e altre misure equivalenti) alla libera circolazione delle merci
fra Canada, Stati Uniti e Messico.
19
20
27
rapidamente e profondamente che altrove. Il mercato messicano ha perso quota fin dal
2007, tanto che nel 2009 le immatricolazioni erano inferiori di 380mila unità (-33,7%)
rispetto al 2006.
Sarebbe tuttavia sbagliato fermarsi all’analisi congiunturale del mercato autoveicolare
nordamericano senza ricordare la sua importanza a livello mondiale, in termini di
dimensioni e di potere d’acquisto dei suoi consumatori. Nonostante negli ultimi anni in
tutti e tre gli stati del NAFTA vi sia stata prima una frenata (2008) e poi una recessione
economica (2009), il Nord America rimane un’area dove vivono 456 milioni di persone
che, con un reddito pro capite medio pari a 37.700 dollari (46.400 dollari negli Stati
Uniti), sono ancora responsabili di più di un quinto della domanda mondiale di
autoveicoli.
Avendo registrato quanto avvenuto fino al 2009 concentriamoci ora sul prossimo futuro.
Le prospettive sono migliori rispetto ad altri mercati occidentali: secondo il Fondo
Monetario Internazionale l’economia statunitense dovrebbe ricominciare a crescere fin
dal 2010, in misura inferiore alla media mondiale (+3,9%) ma superiore ad altre
economie mature come l’area euro, per la quale è prevista una crescita del PIL pari
all’1%.
Gli ultimi dati congiunturali relativi alla disoccupazione statunitense sembrano indicare
un rientro sotto la soglia del 10%21 (livello massimo toccato negli ultimi tre mesi del
200922), e i consumatori sembrano credere nella ripresa, riacquistando fiducia e
aumentando la spesa. Anche il mercato dell’auto ha ripreso fiato: nei primi cinque mesi
dell’anno 1,5 milioni di autoveicoli hanno fatto crescere le vendite del 17% rispetto allo
stesso periodo dell’anno scorso. Le previsioni degli operatori e dei principali istituti
danno un mercato statunitense in ripresa che dovrebbe chiudere l’anno sopra la quota
dei 12 milioni di immatricolazioni. Rimangono ampi i margini di crescita per gli anni
successivi: basti pensare che nel periodo 2000-2007 il livello delle immatricolazioni non
era mai sceso sotto i 16,9 milioni di unità.
21 Dato ancor più significativo se si pensa che la media del tasso di disoccupazione statunitense dal 2000 al 2008
compreso è stato del 5,1%.
22 I dati relativi all’occupazione (e ai tassi di disoccupazione) sono dello United States Department of Labor, Bureau of
Labor Statistics.
28
2.2 La crisi ha imposto alle imprese importati ristrutturazioni che potrebbero
costituire un vantaggio per il futuro
Passiamo ora all’offerta, analizzando come questa si sia adeguata agli input del mercato.
È impossibile assistere a una contrazione di mercato pari a 6,4 milioni di autoveicoli
nell’arco di 24 mesi senza che ne risenta tutta la filiera produttiva. Nel 2008-2009 la
produzione nell’area NAFTA è diminuita del 43,2%, passando dai 15,4 milioni di unità
assemblate nel 2007 agli 8,7 milioni del 2009 (pari a metà di quanto prodotto nel 2000).
Nello stesso biennio la produzione mondiale complessiva è cresciuta (del 20% se ci
fermassimo al 2008, del 4,4% se comprendiamo anche il 2009) abbastanza da
ridimensionare decisamente il peso dell’area NAFTA sul totale globale: il nordamerica è
passato dal 30% del 2000 al 14,4% del 2009, mentre l’Europa occidentale è passata da
un terzo a un quinto della produzione mondiale e la Cina dal 3,5% al 22,6%23.
Figura 2.1
Serie storiche della produzione autoveicolare per area, 1999-2009 (in milioni di
unità assemblate).
20,0
18,0
NAFTA
16,0
14,0
UE 15
12,0
CINA
10,0
8,0
6,0
4,0
2,0
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fonte: OICA
Per trovare un dato congiunturale positivo relativo agli Stati Uniti bisogna osservare le
esportazioni. Nonostante gli autoveicoli assemblati sulle linee statunitensi siano
Ove non diversamente specificato, la fonte dei dati qui presentati è OICA se relativi alla produzione autoveicolare
fino al 2009 e Ward’s Auto se relativi a capacità produttiva e segmenti commerciali del mercato.
23
29
tradizionalmente destinati ai consumatori nazionali, negli ultimi anni la produzione
rivolta all’estero è cresciuta da 1,4 milioni (2000) a 1,9 milioni (2008), beneficiano della
svalutazione del dollaro.
Osservando le dinamiche interne all’area NAFTA si nota come nessuno dei tre paesi sia
stato immune al calo dell’output. Ha faticato a sviluppare la propria industria
automobilistica anche il Messico, colpito da dieci anni poco brillanti del mercato
continentale e investito dall’ultima crisi (-28% nel solo 2009 in termini di volumi
produttivi). L’industria dell’auto messicana dimostra dunque di essere dipendente
dall’andamento del mercato nordamericano, non essendo quello interno abbastanza
grande. Allo stesso tempo il Messico è indubbiamente il paese che negli ultimi anni ha
mostrato la maggiore tenuta e ha dato i maggiori segnali di dinamismo: nel 2006 aveva
nuovamente superato i livelli produttivi antecedenti alla crisi del 2000 (con 2 milioni di
unità assemblate), fino a toccare nel 2008 i 2,16 milioni di autoveicoli prodotti. Un dato
che valeva il 17% della produzione totale nordamericana, contro il 11-10% di inizio
decennio: si può quindi affermare che l’industria automotive messicana sia stata
risparmiata dalle importanti ristrutturazioni degli ultimi anni. Il Messico ha, dalla sua
parte, stabilimenti produttivi più moderni e contratti collettivi di lavoro meno onerosi
rispetto a quelli canadesi e statunitensi; inoltre, se la domanda delle car aumenta
rispetto a quella dei light truck questo va a vantaggio delle linee di montaggio messicane
dove, su 100 autoveicoli prodotti, solo 40 appartengono alla categoria dei light truck
(contro i 65 degli Stati Uniti).
La riduzione dei volumi ha abbattuto anche la capacità produttiva dell’area, che è scesa
fino a un minimo pari al 37,3% nel maggio del 2009 prima di risollevarsi; i dati di giugno
2010 rilevano che il Messico è ormai vicino a livelli di break-even (con il 78,1%) e gli
Stati Uniti hanno recuperato terreno (con il 65,4%).
L’incremento della percentuale di utilizzo degli impianti si deve in parte alla ripresa
della produzione (Ward’s Auto registra un aumento del 63% nel primo quadrimestre
dell’anno in corso, con 3,9 milioni di autoveicoli assemblati) e in parte al netto
ridimensionamento della capacità produttiva installata e della forza lavoro.
Considerando l’intero settore autoveicolare (assemblaggio, carrozzerie, produzione di
parti e componenti) questo fenomeno ha assunto caratteri strutturali: dal 2000 al 2009 i
posti di lavoro del comparto sono stati pressoché dimezzati, con la perdita di circa
650mila occupati solamente negli Stati Uniti.
30
Figura 2.2
Andamento
dell’occupazione
statunitense
nel
(assemblaggio, carrozzerie, parti e componenti) dal 1997 al 2009.
settore
autoveicolare
1.400
1.200
1.000
800
600
400
200
0
1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Fonte: United States Department of Labor
2.3 Gli operatori: i player nazionali sono protagonisti di profonde ristrutturazioni
che offrono opportunità agli operatori esteri, non ultimo il Gruppo Fiat
Fin qui si sono esaminate le dinamiche della domanda e dell’offerta aggregata, del
mercato nordamericano e più in particolare degli Stati Uniti. Ma come si sono mossi i
maggiori operatori in un contesto così difficile?
Osservando la classifica delle vendite degli autoveicoli negli Stati Uniti possiamo notare
come lo scorso anno solamente 2 fra i primi 12 gruppi (Hyundai e Subaru) siano riusciti
a incrementare le proprie immatricolazioni. Anche il gruppo Volkswagen ha battuto il
mercato contenendo le perdite al -4,7%, mentre tutte le altre case hanno accusato
flessioni che vanno dal -14,7% di Ford al -36% di Chrysler24 (che si è tradotto in 500mila
veicoli in meno).
La fonte dei dati è Ward’s Auto e può differire di qualche migliaio di unità nei totali delle vendite rispetto a quelle
riportate in precedenza. I database Ward’s Auto hanno però il vantaggio di fornire un ampio spettro di dati da
analizzare sul mercato e la produzione nordamericana.
24
31
Tabella 2.3
Vendite sul mercato americano di veicoli (car e light truck) scomposte per i
principali gruppi automotive. Confronto 2009 e 2008, con variazione percentuale e quota di
mercato.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
General Motors
Toyota
Ford
Honda
Chrysler
Nissan
Hyundai-Kia
Volkswagen
BMW
Subaru
Mazda
Daimler
Totale
Fonte: Ward’s Auto InfoBank
2009
2.072.237
1.770.149
1.656.119
1.150.784
927.200
770.103
735.127
296.170
241.727
216.652
207.767
205.401
2008
2.955.860
2.217.662
1.941.922
1.428.765
1.447.736
951.462
675.139
310.889
303.190
187.699
263.949
249.739
10.402.215
13.194.741
Quota di mercato
19,9
22,4
17,0
16,8
15,9
14,7
11,1
10,8
8,9
11,0
7,4
7,2
7,0
5,1
2,8
2,4
2,3
2,3
2,1
1,4
2,0
2,0
2,0
1,9
100,0
100,0
Δ%
‘09/’08
-29,9
-20,2
-14,7
-19,5
-36,0
-19,1
9,9
-4,7
-20,3
15,4
-21,3
-17,8
-21,2
La fotografia dell’ultimo anno non può rendere la portata dei cambiamenti strutturali
avvenuti nell’ultimo decennio. Ancora nel 2000 General Motors e Ford occupavano
rispettivamente la prima e la seconda posizione fra i maggiori produttori mondiali di
autoveicoli, grazie a 15,5 milioni di unità assemblate, pari a più di un quarto della
produzione mondiale totale. Nello stesso anno dalle fabbriche nordamericane dei “Big
Three25“ uscivano 13,2 milioni di veicoli, pari ai tre quarti della produzione totale, che
incontravano i gusti di due terzi degli acquirenti statunitensi.
Negli ultimi dieci anni lo stato di salute dei gruppi di Detroit e i rapporti di forza con i
concorrenti del settore sono rapidamente cambiati a vantaggio di questi ultimi: la quota
di mercato dei Big Three è scesa sotto il 50% nel corso del 2008 e sotto il 44% nel 2009.
Parallelamente i principali gruppi asiatici26 hanno guadagnato 20 punti percentuali,
intercettando il 47% della domanda e superando i produttori locali.
È lecito domandarsi che cosa sia successo in quest’arco di tempo. Gli ultimi due cicli
economici negativi (2001 e 2007-2009) hanno messo a nudo i limiti strutturali dei
modelli di business statunitensi. Le strutture di costo sono risultate insostenibili, e le
catene di fornitura integrate verticalmente inadeguate ai criteri di flessibilità e
diversificazione; la produttività delle linee di montaggio e della forza lavoro ha mostrato
un divario sempre più accentuato rispetto ai concorrenti e i marchi acquistati in giro per
È come venivano chiamati i tre costruttori con sede a Detroit: General Motors, Ford e Chrysler.
Nel calcolo qui presentato (e nel graffico corrispondente) sono stati imputati i dati dei seguenti gruppi: Toyota,
Nissan, Hyundai, Honda, Mazda, Mitsubishi, Subaru, Suzuky e Tata.
25
26
32
il mondo non hanno reso a sufficienza né in termini finanziari né di ritorni tecnologici o
di immagine. I clienti, un tempo fedeli, hanno iniziato a varcare la soglia di
concessionarie di altri brand, preferendo prodotti giapponesi o europei che
rispondessero meglio e più rapidamente ai loro gusti: così, dal 1998 in poi, i gruppi di
Detroit hanno iniziato a perdere terreno sul mercato conquistato per tutti gli anni
Ottanta e fino alla fine degli anni Novanta.
La loro prima reazione è stata difendere a ogni costo le quote di mercato e il livello della
produzione. A tal fine sono state varate importanti promozioni per far leva su prezzi di
vendita e finanziamenti, ma queste politiche hanno finito per peggiorare ulteriormente i
conti delle società, anche negli anni in cui il mercato statunitense cresceva. La General
Motors ha accumulato perdite per 80 miliardi di dollari in un decennio e, come la
Chrysler, ha presentato i libri in tribunale nel corso del 2009. Per poter sopravvivere,
entrambe le case hanno fatto ricorso a ingenti prestiti dello stato: 50 milioni di dollari
per General Motors e 16 per Chrysler. Ford ha perso 11 miliardi di dollari fra il 2004 e il
2007, quando la sua quota di mercato è scesa dai livelli storici del 25% sotto il 15%.
Ford è stata l’unica a non dover chiedere aiuti federali, avendo raccolto i 23,6 miliardi di
dollari (per un indebitamento totale che toccava i 34,3 miliardi di dollari) necessari alla
sua ristrutturazione sul mercato, prima della crisi (nel 2006).
Le ristrutturazioni hanno avuto gli stessi assi portanti per tutte e tre i gruppi. Il primo
asse è stato l’abbassamento dei costi fissi e variabili. Anche grazie al regime di Chapter
11 (una sorta di amministrazione controllata) General Motors e Chrysler hanno potuto
rinegoziare i debiti con i propri creditori. Si è quindi esercitata una maggior pressione
sui fornitori (a monte) e sui concessionari (a valle). La politica che privilegiava il
mantenimento degli alti livelli di produzione (e di vendite) è stata gradualmente
abbandonata, ridimensionando la capacità installata con la chiusura di stabilimenti e la
riduzione della manodopera. In Michigan, lo stato che ha visto nascere l’industria
automotive statunitense, gli occupati dell’intera filiera produttiva sono passati dai
98mila del 2000 ai 35mila del 2010. Infine, sul fronte dei costi si sono raggiunte
importanti intese con i sindacati per un significativo abbassamento dei salati lordi, per
allinearli a quelli della concorrenza estera, tradizionalmente meno sindacalizzati. Ancora
nel 2007, infatti, si calcola che, a causa dei maggiori contributi da versare in busta paga,
la General Motors spendesse 1.400 dollari in più per modello prodotto rispetto a Toyota.
33
Figura 2.3
Quote di mercato negli Stati Uniti dei principali operatori per nazionalità della
casa madre, 1999-2009 (quote in percentuale sul totale delle vendite).
70
60
50
40
Big three
30
Asiatiche
20
Europee
10
0
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fonte: Ward’s Auto InfoBank
Il secondo macro asse del rilancio si è concentrato sulla gestione del portafoglio marchi
e prodotti. I gruppi di Detroit hanno messo in vendita brand che, pure essendo
importanti, risultavano in perdita e non davano volumi soddisfacenti (Jaguar, Land
Rover, Volvo, Saab, Saturn) o non sembravano più apprezzati dai consumatori
(Hummer). General Motors nel corso di due anni ha dimezzato il proprio portafoglio,
concentrandosi su 5 marchi e affidando il rilancio a quelli in grado di stabilire una
presenza in piazze importanti e in segmenti dai volumi significativi. Nell’ambito di
questa logica non stupisce il dietrofront di General Motors rispetto alla vendita
annunciata e trattata per mesi di Opel-Vauxhall, che nonostante le perdite registrate
negli ultimi anni offre un accesso al ricco mercato europeo e i vantaggi competitivi delle
architetture piccole e compatte da far valere contro le altre case americane. Chrysler non
fa eccezione in quanto a strategie per il rilancio, se non per il fatto che (come si vedrà
anche nel Capitolo III) ha ceduto una parte del suo capitale e il controllo manageriale al
Gruppo Fiat, confidando sulle sue capacità gestionali, nelle conoscenze tecniche e
produttive, e nell’integrazione con architetture più adatte alle nuove esigenze del
mercato statunitense.
34
Queste profonde ristrutturazioni sembrano già dare i primi risultati. Nel primo trimestre
del 2010 General Motors ha registrato un fatturato di 31,5 miliardi di dollari ed è tornata
in utile (868 milioni di dollari contro i 6 miliardi di perdita generati nello stesso periodo
dello scorso anno). Ford ha annunciato ricavi per 28,1 miliardi di dollari (+15% su base
annua) e un utile netto pari a 2,1 miliardi di dollari. Anche Chrysler ha ritrovato l’utile
operativo (per 143 milioni di dollari contro una perdita di 297 milioni nell’ultimo
trimestre del 2009) ed è tornata a crescere in termini di vendite (334mila nel mondo,
con un +5% congiunturale), riducendo le perdite nette (da 2,7 miliardi a 197 milioni di
dollari) e arrivando a un flusso di cassa positivo per 1,4 miliari di dollari.
Tabella 2.4
Vendite sul mercato americano di veicoli (car e light truck) scomposte per
principali gruppi automotive: confronto tra i primi cinque mesi del 2010 e 2009. Variazione
percentuale e quota di mercato.
Mese di maggio
maggio
2010
Primi cinque mesi
Quote di mercato
2009
2010
2009
gennaio – maggio
Δ%
2010
2009
Δ%
Chrysler
104.651
78.777
9,5
8,5
32,8
433.289
401.215
8,0
Ford
195.132
159.651
17,7
17,3
22,2
797.766
610.197
30,7
GM
223.430
190.147
20,3
20,6
17,5
882.385
768.353
14,8
29
13
0,0
0,0
123,1
113
39
189,7
Totale Nord America
523.242
428.588
47,5
46,4
22,1
2.113.553
1.779.804
18,8
Honda
117.173
98.344
10,6
10,6
19,1
487.282
430.358
13,2
80.476
62.997
7,3
6,8
27,7
342.741
287.302
19,3
172
130
0,0
0,0
32,3
760
720
5,6
22.605
16.718
2,1
1,8
35,2
97.481
86.652
12,5
4.737
4.352
0,4
0,5
8,8
22.292
22.105
0,8
Nissan
83.764
67.489
7,6
7,3
24,1
375.762
289.446
29,8
Subaru
23.667
17.505
2,1
1,9
35,2
104.359
74.686
39,7
Suzuki
1.903
2.585
0,2
0,3
-26,4
9.514
20.259
-53,0
International (Navistar)
Hyundai Group
Isuzu
Mazda
Mitsubishi
Tata
3.671
3.391
0,3
0,4
8,3
16.407
15.311
7,2
Toyota
162.813
152.583
14,8
16,5
6,7
705.938
638.795
10,5
Totale Asia
15,9
500.981
426.094
45,5
46,1
17,6
2.162.536
1.865.634
BMW
22.092
22.993
2,0
2,5
-3,9
98.254
93.599
5,0
Daimler
19.907
16.322
1,8
1,8
22,0
90.886
77.474
17,3
Porsche
1.873
1.979
0,2
0,2
-5,4
8.842
8.757
1,0
Saab Spyker
174
783
0,0
0,1
-77,8
1.130
4.607
-75,5
Volkswagen
32.748
27.071
3,0
2,9
21,0
144.800
108.302
33,7
Totale Europa
76.794
69.148
7,0
7,5
11,1
343.912
292.739
17,5
Totale veicoli
1.101.017
923.830
100,0
100,0
19,2
4.620.001
3.938.177
17,3
Fonte: Ward’s Auto InfoBank
35
Come si intuisce i risultati non sono da attribuirsi solo al contenimento dei costi ma
anche alla rinnovata fiducia dei consumatori. Nei primi cinque mesi dell’anno i Big Three
hanno visto aumentare le vendite del 18,8%, tanto che a maggio la quota di mercato dei
gruppi nordamericani era del 47,5%, superiore a quella delle case asiatiche (45,5%).
Questi primi successi hanno avuto un riflesso positivo anche sull’occupazione della
filiera produttiva automotive. Se nel primo quadrimestre dell’anno l’occupazione
nazionale del settore è ancora scesa di 10mila unità, in Michigan è aumentata dell’8,2%,
pari a circa 3.000 occupati in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
2.4 Toyota: in un mercato sempre più esigente e competitivo gli ingredienti del
successo vanno rinnovati ogni anno e la crescita gestita al meglio
Gli Stati Uniti da qualche anno rappresentano la maggiore fonte di ricavi per il gruppo
Toyota. Qui il gruppo giapponese vende più che in patria e ha guadagnato la seconda
posizione nelle vendite superando anche un marchio storico come Ford. Per Toyota gli
Stati Uniti sono stati il palcoscenico che ha preannunciato e certificato il successo
mondiale, ma anche il mercato dove la crisi ha determinato prove così dure da mettere a
nudo problemi che mai si sarebbe pensato avrebbero colpito quello che, fino a qualche
mese fa, era studiato in tutto il mondo come uno dei migliori casi industriali di successo.
Un manager americano, Jim Collins, nel 2009 ha descritto in un libro27 come il declino di
alcune grandi imprese abbia attraversato cinque fasi: tutto inizia con la nascita di un
atteggiamento arrogante dato dal successo; segue l’indisciplinata ricerca di risultati
migliori; nella terza fase si nega l’esistenza di rischi e pericoli; poi ci si adopera
affannosamente per rimediare a una situazione di crisi ormai palese, ma infine si subisce
il declino se non addirittura il fallimento.
A questa parabola rischia di non riuscire a sottrarsi neppure il gruppo Toyota.
Nel 2008, con vendite pari a poco meno di 9 milioni di autoveicoli28, la casa giapponese
aveva ottenuto la leadership mondiale ai danni di General Motors (che si era fermata a
8,2 milioni, e alla quale Toyota sottraeva un primato detenuto sin dal 1931, anno del
“sorpasso” rispetto a Ford). Tutto sembrava far presagire una leadership duratura e
ricca di successi futuri ma, proprio nel momento in cui Toyota raggiungeva l’apice,
sembrano essere venuti meno alcuni degli ingredienti che ne avevano determinato il
successo. Dopo 70 anni di bilanci costantemente positivi il gruppo di Tokyo ha iniziato a
27
28
How the mighty fall, and why some companies never give in (2009).
Nel 2008 la Toyota ha venduto nel mondo 8,87 milioni fra auto e veicoli commerciali leggeri (dati OICA).
36
perdere: 3,3 miliardi di euro nel 2008 e 8,6 miliardi di dollari nel primo trimestre del
2009 (più dei 6 di General Motors nello stesso periodo). Se l’anno 2009 (che Toyota
chiude fiscalmente nel primo trimestre del 2010) è positivo lo si deve in gran parte alla
ripresa del mercato nordamericano a cavallo fra la fine del 2009 e l’inizio del 2010. La
crisi del settore cominciata nel 2008 ha però investito il gruppo più pesantemente
rispetto a diversi dei suoi principali concorrenti: le vendite nel mondo sono calate dagli
8,87 milioni del 2008 ai 7,8 milioni del 2009, tanto che nel 2010 il gruppo Volkswagen
(che nel frattempo ha acquistato il 20% della Suzuky) ne insidia la leadership29.
Figura 2.4
Andamento delle quote di mercato mondiale dei maggiori gruppi automobilistici,
1999-2009 (valori espressi in percentuale sul mercato totale).
18
16
14
Toyota
12
General
Motors
Volkswagen
10
RenaultNissan
Ford
8
6
Hyundai Kia
4
2
0
1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Fonte: Morgan Stanley
Fatta eccezione per il mercato giapponese, dove vanta una storica posizione di forza,
negli altri maggiori mercati mondiali lo scorso anno Toyota ha accusato flessioni o
segnato risultati meno brillanti della concorrenza, con relative perdite di quote di
mercato.
29 Se sommiamo le vendite del gruppo Volkswagen e dei Suzuky,già nel 2009 il nuovo raggruppamento avrebbe
superato il gruppo Toyota: 8,6 milioni di autoveicoli venduti dal primo, contro i 7,8 del secondo.
37
Negli Stati Uniti i marchi del gruppo giapponese hanno perso poco meno di 450mila
immatricolazioni in un anno, pari a una flessione del 20%30. Pur sapendo che il mercato
statunitense ha vissuto un anno di crisi, sta di fatto che dopo anni di crescita la quota di
Toyota si è fermata a vantaggio di altri concorrenti come Volkswagen (-4,7%, sempre
anno su anno) e Hyundai (+9,9%). Le cose sono andate addirittura peggio nell’altro
mercato mondiale di riferimento, la Cina. Qui la Toyota ha fatto registrare la peggiore
performance percentuale dei 24 marchi presenti, perdendo 2 punti percentuali di quota
sul mercato totale e subendo il sorpasso da parte di GM e Hyundai31. Anche in Europa
occidentale, dove nel 2009 il mercato è stato sostanzialmente stabile (-1,6%), Toyota ha
fatto segnare una flessione peggiore della media (-4,7%).
Alla frenata delle vendite si è aggiunto un problema ancora più grave: su tutti i principali
mercati mondiali, da novembre 2009 Toyota si è vista costretta a richiamare diversi
modelli (alcuni dei quali appena prodotti, come la Prius di ultima generazione), per oltre
8 milioni di veicoli nel complesso. I problemi tecnici che hanno costretto così tanti
automobilisti a passare in officina riguardavano componenti importanti per la sicurezza
del conducente e dei passeggeri, come l’impianto frenante e il pedale dell’acceleratore
(che non tornava nella posizione iniziale dopo averlo rilasciato, impedendo la
decelarazione): i malfunzionamenti hanno determinato, solo negli Stati Uniti, migliaia di
incidenti e centinaia di feriti (e una ventina di decessi32). A turbare l’opinione pubblica e
a peggiorare sensibilmente l’immagine di Toyota – considerata azienda leader in termini
di qualità e affidabilità – non sono state solo la portata del richiamo (uno dei maggiori
nella storia dell’automobile) e la sua motivazione, ma la gestione della crisi da parte del
management. Se in un primo momento Toyota ha sottostimato il problema,
individuando poi un falso colpevole (il tappetino sottostante l’acceleratore), quando la
gravità della situazione è diventata di dominio pubblico il presidente del gruppo, Akio
Toyoda, si è rifiutato di fornire spiegazioni davanti al congresso degli Stati Uniti
d’America, accettando solo in seguito alle pressioni del governo nipponico.
Secondo le stime della stessa Toyota la campagna di richiamo degli ultimi mesi
comporterà spese contenute ma, se includiamo nel calcolo anche i rimborsi, le richieste
di danni dei consumatori, gli sconti praticati dai concessionari nei primi mesi del 2010 e
gli investimenti necessari in pubblicità per il rilancio dell’immagine, è più probabile che
la perdita finanziaria sia vicina ai 3,6 miliardi di euro stimati dagli analisti del “Wall
Fonte: Reuters.
Fonte: Morgan Stanley.
32 Fonte: “The Economist”.
30
31
38
Street Journal”. Intanto nei primi due mesi del 2010, mentre il mercato statunitense
recuperava 10 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, le
vendite Toyota subivano una frenata pari al 12,4% (corrispondente a quasi 30mila
veicoli immatricolati in meno33). Anche i mercati finanziari hanno penalizzato il gruppo
giapponese: la capitalizzazione borsistica è scesa dai circa 160 miliardi di euro del
periodo pre-natalizio ai 130 miliardi di inizio marzo.
Il periodo fra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 ha quindi messo in luce alcuni punti
deboli di Toyota. È come se la rincorsa (annunciata nel 2002) del primato delle vendite
l’avesse distratta dalla sua mission originaria: la soddisfazione del consumatore. In
questo Toyota eccelle grazie a un sistema di produzione (il Toyota Production System) e
a una filosofia improntata al miglioramento continuo (il kaisen), studiati e imitati da
brand automobilistici e non. Sembra che alcuni degli ingredienti del suo successo siano
venuti a mancare, come la circolazione delle informazioni (anche negative) bottom-up
(dal basso verso l’alto): questo sistema permetteva di venire a conoscenza dei problemi
riscontrati sulla linea di produzione da operai e ingeneri, e quindi di intervenire
tempestivamente per porre rimedio o praticare miglioramenti; allo stesso modo anche
le informazioni dall’esterno potevano raggiungere i vertici aziendali, tenendoli sempre
in contatto, ad esempio, con i gusti dei consumatori. Akio Toyoda ha ammesso che si è
smarrita la filosofia che imponeva a tecnici e ingegneri di “fermarsi, pensare e migliorare
le cose” senza pensare agli assillanti target di vendita ma alla qualità e alla redditività.
Il board, composto di 29 uomini tutti di nazionalità giapponese e interni all’azienda, ha
manifestato la propria impreparazione e mancanza di soluzioni alternative e efficaci sul
mercato globale. La corsa ai volumi e la rapidità con la quale questi si sono raggiunti ha
aumentato i margini di rischio in termini di qualità e invenduto. Basti pensare alla
necessità di sottoscrivere nuovi contratti con nuovi fornitori esterni al Giappone (con i
quali Toyota ha un rapporto storico che va al di là della normale relazione fornitorecliente) e al rischio rappresentato dal sole-sourcing (i rapporti privilegiati con uno solo o
pochi fornitori).
In diversi mercati i prodotti proposti non hanno più incontrato i favori dei consumatori:
negli Stati Uniti Toyota non è ancora riuscita a imporsi nel segmento dei minivan e dei
pick-up, mentre in India propone modelli obsoleti (a differenza della concorrenza,
Hyundai su tutte) e in Cina non ha saputo rispondere tempestivamente alla domanda,
più forte grazie agli incentivi, di modelli compatti e a basso costo. Anche in Europa, in un
33
Fonte: Ward’s Auto.
39
anno di incentivi governativi, non è riuscita a intercettare la domanda per via di una
gamma poco ampia, modelli poco rinnovati (Yaris) e politiche di prezzo non premianti
(iQ).
Intanto la concorrenza si è fatta più forte ovunque: i rivali hanno aumentato la presenza
sui mercati esteri e i modelli proposti (Volkswagen e Hyundai), la qualità (Ford),
recuperando terreno anche sul piano delle tecnologie ibride (Honda) e lanciando
politiche per le auto del futuro (Nissan, Renault e PSA per l’auto elettrica).
Il rischio che ora corre il gruppo Toyota non è da poco: quando la leva della qualità e
dell’innovazione perde forza nella percezione dei consumatori, le scelte d’acquisto
devono essere determinate da altri fattori più emozionali come le prestazioni di guida o
il design, non sempre punti di forza dei modelli del gruppo giapponese.
Se non mancano elementi di debolezza e di rischio che Toyota dovrà affrontare già dal
2010, sono numerosi anche i punti di forza e le opportunità che essa può sfruttare per
invertire la rotta e tornare a crescere: se il gruppo giapponese riuscirà a correggere gli
errori e prevenirne di nuovi senza smorzare i vantaggi del proprio modello, sarà
sicuramente in grado di raccogliere le opportunità che offrirà il prossimo futuro grazie a
una presenza radicata sui mercati internazionali e a investimenti in nuovi prodotti e
tecnologie maggiori di qualunque altro concorrente. Per il momento, tuttavia, le vicende
del gruppo giapponese sono un buon esempio di come la crescita e il successo possano
essere difficili da gestire, capaci di tramutarsi anche in problemi generatori di perdite
finanziarie.
2.6 Fiat ritrova un ruolo da protagonista in Nord America: un’opportunità per
tutta la filiera italiana
I marchi di Fiat Group Automobiles hanno conquistato un accesso al secondo mercato
del mondo. La sua importanza non si limita al livello dei volumi di vendita: è lì che si
trovano tutti i maggiori operatori mondiali, che si confrontano con consumatori attenti e
dinamici in grado di premiare proposte innovative nel giro di pochi anni (come nel caso
di Hyundai, che negli ultimi 12 anni è passata da una quota di mercato pari all’1% a poco
meno del 7%, con più di 700mila unità vendute nello scorso anno). Contando su un
mercato ricettivo alle novità, la maggior parte dei gruppi propone su questa piazza gli
ultimi ritrovati della tecnologia automobilistica. Toyota ha iniziato qui la sua fortunata
esperienza con i sistemi ibridi, che già nel 2008 avevano superato il tetto delle 300mila
40
unità vendute. Nell’anno in corso la Nissan ha proposto agli acquirenti statunitensi il suo
primo modello elettrico prodotto in serie (Leaf), riempiendo il portafoglio ordini di
13mila richieste e raggiungendo in pochi giorni il target produttivo annuale. Acquisendo
il 20% di capitale di Chrysler, Fiat si avvantaggia di un percorso sui motori ibridi già
iniziato dal gruppo americano: non è un caso se proprio all’ultimo salone di Detroit è
stata presentata una versione della Fiat 500 con motore alimentato esclusivamente da
batterie agli ioni di litio. Ma se dei vantaggi che Fiat ricava da questa acquisizione si
parlerà più diffusamente nel prossimo capitolo (dedicato alla filiera italiana), vediamo
ora quali possono essere le ricadute positive per il resto del cluster nordamericano.
Dall’indagine annuale del presente Osservatorio sulla filiera sappiamo che l’area NAFTA
è la zona extra-Europea che presenta il maggior numero di imprese italiane attive in
rapporti commerciali. All’inizio del 2010, su un totale di 602 imprese che dichiaravano
all’Osservatorio di esportare all’estero i propri prodotti, ben 96 rispondenti indicavano
l’area Nafta come una delle tre maggiori destinazioni delle proprie esportazioni (per fare
un confronto, l’Europa centrale è uno dei primi tre mercati per 116 rispondenti).
Tabella 2.5
Scambi commerciali di parti e componenti dall’Italia per area di destinazione
34
2008 e 2009. Confronto area NAFTA con il totale delle esportazioni (dati in migliaia di euro) .
Verso l’area NAFTA
2008
Verso il mondo
2009
2008
2009
MERCE
Motori
Pneumatici e
gomma pezzi
di gomma
Import.
Esport.
Import.
Esport.
Import.
Esport.
Import.
Esport.
69.007
195.127
34.078
114.869
2.401.275
3.301.031
1.697.577
2.354.788
7.858
54.550
7.739
30.935
1.305.614
1.080.087
1.413.115
882.900
Componenti
elettrici
Parti
meccaniche,
vetri, accessori
17.160
31.141
17.584
21.798
1.335.356
1.378.135
1.179.714
1.138.373
105.571
696.964
87.438
359.202
6.465.094
12.646.765
4.564.180
8.492.077
Radio lettori cd
202
978
149
527
11.509
18.406
8.855
12.868
199.797
978.760
146.987
527.331
11.518.848
18.424.425
8.863.442
12.881.007
Totale
Nel 2008, quando la crisi nordamericana era già in corso da oltre un anno, la filiera
fatturava a questo mercato quasi un miliardo di euro, pari al 5,3% del totale del valore
I dati sono estratti dai database ISTAT. Per la prima volta, quest’anno i dati relativi al commercio estero di parti e
componenti dall’Italia sono stati raccolti in collaborazione con ANFIA, usando la nomenclatura combinata fornita
dall’ISTAT. Questi codici permettono meglio di quelli ATECO di entrare nel dettaglio delle singole parti e componenti.
34
41
delle nostre esportazioni di parti e componenti. Nello stesso anno il saldo commerciale
era positivo per 800mila euro.
L’incremento dei volumi produttivi e di immatricolazioni previsto dai piani Fiat e
Chrysler potrà tradursi in benefici per la nostra filiera in termini di commesse sia negli
Stati Uniti sia in Italia. Se si pensa che già oggi le due case acquistano parti e componenti
per un totale di 40 miliardi di euro e che i rispettivi piani industriali prevedono un
raddoppio della produzione totale entro il 2014 si può avere un’idea della posta in palio.
Alcuni dei modelli destinati al mercato nordamericano saranno esportati dall’Italia e
dagli stabilimenti europei del gruppo, dai quali la filiera italiana ricava più di metà dei
propri ricavi. Dall’Italia, specie nel breve e medio periodo, i componentisti potranno
esportare servizi di ingegneria e design, necessari per ammodernare le linee di
produzione e rigenerare l’offerta di Chrysler, ma anche componenti che danno alle
nostre imprese un vantaggio competitivo rispetto all’area nordamericana (ad esempio
motori e loro parti).
L’aumento dei volumi previsto non sarà solamente in valore assoluto: grazie alla
razionalizzazione, ciascuna architettura35 dovrebbe prevedere la produzione di circa un
milione di unità l’anno. È chiaro quindi che qualsiasi società si aggiudichi una commessa
legata a un’architettura del gruppo godrà di progetti di grande importanza da portare
avanti per più anni.
I nostri componentisti partono in posizione di vantaggio: molti hanno rapporti storici
con Fiat (e il suo centro acquisti) e, tra di essi, un buon numero ha già rapporti
commerciali anche con Chrysler. Fiat ha infatti dichiarato che già all’anno zero
dell’alleanza condivide con il gruppo statunitense metà dei suoi fornitori, ma che entro il
2016 vuole arrivare al 65%. A un anno dall’acquisizione, sono già stati formati tavoli
comuni per l’acquisto di parti e componenti che serviranno alla produzione della 500 (in
Messico) e della nuova sedan tre volumi di Chrysler.
D’altra parte i fornitori piemontesi e italiani dovranno dimostrare di saper gestire
l’aumento della produzione, controllandone la qualità e rafforzando la filiera produttiva
all’estero dove – soprattutto quelli che per caratteristiche (pensiamo ai modulisti)
devono necessariamente collocarsi nei pressi delle linee produttive – dovranno spesso
seguire i fornitori di primo livello.
35 L’architettura di un’auto è la base, comune a più modelli (solitamente dello stesso segmento), su cui si montano il
30-35% delle componenti (chassis, sedili, sospensioni, sterzo, ecc.).
42
CAPITOLO III
LA FILIERA ITALIANA: LE CRITICITÀ SONO NUMEROSE, I MARGINI
RIDOTTI, MA CHI PASSA LA CRISI È PIÙ FORTE E PUÒ COGLIERE LE
OPPORTUNITÀ FUTURE
Il mercato italiano ha seguito le sorti del resto delle piazze dell’Europa occidentale: stabile
per quanto riguarda le immatricolazioni di autovetture, ma complessivamente in calo di
circa il 3% a causa della flessione delle vendite di veicoli industriali e commerciali (fra il 20
e il 40% in Italia come nel resto d’Europa). La produzione di autoveicoli è calata al
contempo di 17,6 punti percentuali (contro i 19,4 dell’Europa occidentale). Nell’arco degli
ultimi due anni la produzione nazionale è diminuita di un terzo, passando da 1,28 milioni
di autoveicoli assemblati nel 2007 a 843mila nel 2009. Per trovare un’altra riduzione di
pari portata occorre risalire fino al 1993, quando negli stabilimenti italiani si erano
assemblati meno di 1,3 milioni di autoveicoli.
Rispetto alla flessione generalizzata della produzione italiana, la disparità dei risultati
nelle diverse categorie di prodotto ne ha fatto mutare i pesi relativi: i veicoli industriali,
commerciali e gli autobus hanno rappresentato circa un quinto della produzione del 2009,
contro il 29% del 2007 (poco meno di un terzo).
43
In Italia, come nel resto del mondo, il settore automotive è sempre più caratterizzato da un
mercato con margini difficili da conquistare e difendere e da consumatori attenti alle
novità.
La dinamicità del comparto a livello mondiale rappresenta un vantaggio per quegli
operatori decisi ad aumentare le proprie quote di mercato come il Gruppo Fiat. Nel 2009 la
casa di Torino è stata una delle principali protagoniste con il riconoscimento da parte
dallo stesso presidente degli Stati Uniti dei risultati raggiunti negli ultimi anni in campo
tecnico e finanziario. Grazie alla gestione del turnaround il Lingotto si è visto affidare il
rilancio di Chrysler, con la possibilità di ritornare sul mercato nordamericano.
L’acquisizione di una quota di capitale di Chrysler non rappresenta però un punto di arrivo
ma l’inizio di un percorso il cui traguardo è stato fissato nella produzione (per Chrysler e
joint-venture internazionali nel complesso) di 5,5-6 milioni di autoveicoli entro il 2014,
grazie alle sinergie in termini di tecnologie e mercati con il gruppo americano. 1,4 milioni
di auto e 250mila veicoli commerciali dovrebbero essere prodotti in Italia, con un aumento
della capacità produttiva degli stabilimenti italiani fino ai livelli degli impianti esteri.
Ipotizzando il pieno successo del piano Fiat e il recupero degli altri operatori sui livelli precrisi entro il 2014, si arriverebbero a produrre in Italia 1,9 milioni di autoveicoli (il 36% in
più rispetto al 2007). Ipotizzando prudenzialmente una realizzazione del piano Fiat solo
per i tre quarti degli obiettivi relativi ai volumi produttivi, nel 2014 si avrebbe comunque
una produzione nazionale totale pari a poco meno di 1,5 milioni di mezzi: valore che non si
registra più dal 2002, superiore del 18% alla media della produzione degli ultimi dieci
anni.
Dunque il piano di FGA costituisce per l’intero settore un’opportunità di uscita dalla fase
congiunturale negativa degli ultimi anni, offrendo maggiori opportunità in termini di
commesse di parti e componenti ma anche investimenti aggiuntivi in servizi avanzati di
ingegnerizzazione di prodotto, processo e design, che la nostra filiera è in grado di
intercettare.
Ancora a febbraio 2010 secondo gli indici usati dall’ISTAT il saldo tendenziale del fatturato
dei componentisti era inferiore al 19,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente:
un risultato inferiore a quello registrato dai produttori di autoveicoli (-16,9% per lo stesso
periodo) e dal settore manifatturiero nel complesso (-15,5%).
Le esportazioni italiane nel 2009 (per la prima volta calcolate in collaborazione con ANFIA
e usando i codici della nomenclatura combinata ISTAT) si sono attestate su un livello
leggermente inferiore ai 13 miliardi di euro (12,9 per l’esattezza), rispetto ai 18,8 miliardi
44
del 2007 e ai 18,5 miliardi del 2008. Per effetto di una minore decelerazione delle
importazioni (-23%, rispetto al -30% delle esportazioni) il saldo commerciale si è
deteriorato del 42% passando dai 6,8 miliardi del 2008 ai 3,9 del 2009, anche a causa della
maggiore penetrazione di produzioni estere che fanno leva sul prezzo.
Il piano Fiat e il rilancio di Chrysler passano anche per il Piemonte e dovrebbero
interessare ben due dei suoi stabilimenti di assemblaggio: quello che era della Bertone a
Grugliasco e quello di Mirafiori a Torino. Nel primo dovrebbero essere allocati i modelli
Chrysler che fino a oggi sono stati prodotti in Austria (circa 69mila auto nel 2007), mentre
nel secondo è previsto che la produzione passi dalle 180mila auto prodotte nel 2009 a
300mila, con un incremento pari al 67%.
Per quanto riguarda il 2009, l’ISTAT stima per il Piemonte esportazioni di componenti pari
a 3,37 miliardi di euro (valore fortemente inferiore rispetto alle elaborazioni di STEP e
ANFIA, che prendono in considerazione tutta la filiera autoveicolare), accusando un calo
pari a 1,5 miliardi rispetto all’anno precedente. Anche il saldo commerciale si è deteriorato
passando dai 3,2 miliardi del 2008 ai 2,1 del 2009. Secondo l’ISTAT la flessione nelle
esportazioni piemontesi di parti e componenti (-30,9%) è stata superiore a quella delle
esportazioni regionali nel complesso (-22%) ma inferiore rispetto a quella del comparto a
livello nazionale (-33,4%). La quota dell’export regionale sul totale è quindi ancora
incrementata, arrivando al 42,2% (contro il 37,4% del 2000).
Scomponendo il dato dell’export piemontese per regione di destinazione, notiamo che
l’Europa da sola vale l’82,5% del totale (80,2% per l’Italia): quota superiore rispetto a
quella rilevata nel 2008, 80,5%, nonostante un andamento della produzione peggiore
rispetto alle altre aree del mondo.
Indipendentemente dall’andamento delle produzioni nazionali, sembra confermarsi la
formazione di tre principali macro-bacini continentali autosufficienti: in America, Europa
e Asia, i produttori tendono a rifornirsi all’interno del proprio bacino. L’Europa, in questo
senso, comprende anche i paesi del bacino del Mediterraneo come la Turchia e, in futuro,
abbraccerà sempre di più l’Africa settentrionale. La suddivisione dei paesi in bacini è tale
che persino la presenza all’estero di uno stabilimento produttivo della testa di filiera non
garantisce ai fornitori la penetrazione del mercato, se si esce dal limite del proprio
continente: così, nel 2009, si deve registrare un -36% delle esportazioni piemontesi verso il
Brasile. Al contrario la Serbia in un solo anno ha quadruplicato l’import dal Piemonte
facendo arrivare i suoi ordini a un totale di 88 milioni di euro, pari all’86% del dato
nazionale.
45
3.1 La produzione di autoveicoli in Italia negli ultimi due anni è calata più di
quella in Europa occidentale e nel mondo
Nel 2009 sono usciti dagli stabilimenti italiani poco più di 843mila autoveicoli, il 17,6%
in meno rispetto al 2008. Una flessione netta che si amplia se prendiamo come periodo
di riferimento il biennio successivo al 2007, durante il quale la produzione in Italia si è
ridotta di un terzo, perdendo 441mila autoveicoli. Per trovare un’altra riduzione di pari
portata dobbiamo risalire fino al 1993, quando negli stabilimenti italiani si erano
assemblati meno di 1,3 milioni di autovetture. All’epoca le unità perse in un biennio
erano state 600mila, e ci erano voluti 4 anni per recuperarle.
Migliaia
Figura 3.1
Produzione italiana mensile di autoveicoli da febbraio 2009 a marzo 2010 (valori
assoluti e variazione percentuale rispetto all’anno precedente).
120
119,5%
100
96,9%
80
56,9%
60
36,6%
10,6%
40
-7,4%
-23,7% -26,3%
20
-9,0%
-11,6%
-18,8%
-26,5%
-32,5%
-40,6%
2009/2008
Marzo
Febbraio
Gennaio
Dicembre
Novembre
Ottobre
Settembre
Agosto
Luglio
Giugno
Maggio
Aprile
Marzo
Febbraio
0
2010/2009
Fonte: ANFIA
Dopo questo salto nel tempo, facciamone uno nello spazio per mettere a confronto
l’andamento della produzione in Italia e all’estero. Notiamo come la flessione avvenuta
in Italia (-34,3% fra il 2007 e il 2009) sia leggermente più marcata rispetto al resto
dell’Europa occidentale (-27%), ma in linea con quanto avvenuto nel complesso nei
mercati maturi: Europa occidentale, Nord America e Giappone hanno registrato in media
46
un calo del 34%. Tale allineamento tuttavia non è di conforto, visto che (come analizzato
nel Capitolo I del presente rapporto) il risultato globale (-16,7%) è stato relativamente
migliore e, di conseguenza, il peso della produzione italiana su quella mondiale si è
ridotto (dall’1,74% del 2007 all’1,38% del 2009), allontanandosi ulteriormente dal 4%
vantato negli anni Ottanta.
Questi risultati si sono subito tradotti in sovraccapacità degli impianti europei. In Italia,
in particolare, l’utilizzo della capacità produttiva è sceso dall’80% del 2007 al 57% del
2009: un livello al quale è quasi impossibile remunerare in modo soddisfacente il
capitale impiegato.
Figura 3.2
Livello di utilizzo della capacità produttiva negli impianti di assemblaggio:
media percentuale per paese e confronto 2007 con 2009.
92
90
89
89
83
80
79
70
72
69
65
64
57
Germania
Rep. Ceca
Spagna
2007
Regno Unito
Italia
53
Francia
Ue 27
2009
Fonte: Ward’s Auto
Andando a vedere quali sono i clienti per i quali si è prodotto, scopriamo che –
nonostante il mercato autoveicolare dell’Europa occidentale nel complesso abbia seguito
un andamento simile a quello italiano (-3,4%, contro il -2,8% dell’Italia) – la quota di
autoveicoli destinata all’estero si è ridotta, passando dal 54,8% del 2008 al 45,4% del
2009. Il calo non è dovuto tanto a una perdita di competitività del nostro paese quanto a
una contrazione del mercato continentale (che ogni anno assorbe almeno il 90% della
produzione italiana rivolta all’estero) nei sottosettori autoveicolari che nei cinque anni
47
prima della crisi del 2009 avevano acquistato in media oltre il 42% degli autoveicoli
esportati dall’Italia.
Analizzando la domanda europea36 nelle sue diverse componenti, notiamo che la crisi
del 2009 ha colpito soprattutto i veicoli commerciali (-30,3%) e quelli industriali (43,8%), mentre la perdita di immatricolazioni delle autovetture è stata contenuta (1,6%). In seguito a questa disparità è cambiato il peso relativo delle diverse tipologie di
prodotto sulla produzione nazionale totale: i veicoli industriali, commerciali e gli
autobus hanno rappresentato circa un quinto della produzione del 2009, contro il 29%
del 2007 (poco meno di un terzo).
Non si prevede una ripresa rapida, che riporti la produzione ai livelli del 2007
nell’immeditato futuro. Nel 2010 è probabile, però, che – a fronte di un ulteriore calo del
comparto delle autovetture (dopo sei mesi, dall’agosto del 2009, di tassi tendenziali
positivi) a causa della scadenza degli incentivi in Italia e, progressivamente, nel resto
d’Europa – il settore dei veicoli industriali e commerciali segni una ripresa grazie alla
stabilizzazione della congiuntura economica continentale.
37
Figura 3.3
Produzione italiana di autoveicoli 2007 e 2009, scomposta in categorie (valori
assoluti espressi in unità prodotte).
1.400.000
51.114
1.200.000
320.889
1.000.000
23.046
AUTOCARRI
800.000
158.089
600.000
400.000
910.860
VEICOLI
COMMERCIALI
AUTOVETTURE
661.100
200.000
0
2007
2009
Fonte: ANFIA
36
37
I dati riguardanti l’Europa si riferiscono ai paesi dell’Unione Europea ed EFTA (Islanda, Norvegia e Svizzera).
Il grafico esclude solo autobus e telai.
48
3.2 Gruppo Fiat: i prossimi successi in Italia e nel mondo saranno essenziali per
rilanciare la filiera nazionale38
Prima di parlare dell’ambizioso piano industriale 2010-2014 presentato dal Gruppo Fiat
agli investitori il 21 aprile 2010, è bene ripercorrere alcune tappe che hanno
caratterizzato le fortune del precedente quinquennio, evidenziando i molti successi ma
anche alcune criticità. Nel 2004 il Gruppo Fiat si presentava ai mercati e agli investitori
con un fatturato pari a 45,6 miliardi di euro e un risultato operativo di 50 milioni, che
oneri finanziari, componenti straordinari e imposte trasformavano in una perdita netta
di 1,6 miliardi di euro. La divisione auto produceva circa 1,9 milioni di autoveicoli,
valeva poco più del 43% dei ricavi totali, ma registrava perdite operative pari a 822
milioni di euro.
Cinque anni dopo si può affermare che molti degli obiettivi prefissati allora siano stati
centrati, nonostante l’impatto degli ultimi due anni di crisi internazionale sull’auto e
soprattutto su veicoli industriali, commerciali e macchine movimento terra. Il fatturato
del Gruppo Fiat è costantemente aumentato sfiorando i 60 miliardi nel 2008,
migliorando nettamente sia il risultato operativo (che ha superato i 3 miliardi nello
stesso anno) sia gli utili. Il gruppo è tornato a generare profitti e nel 2009 è riuscito a
contenere le perdite sotto il miliardo di euro. In particolare, negli ultimi 5 anni la
divisione auto ha incrementato il numero di unità prodotte (+14% nel 2009 rispetto al
2004, con oltre 2,1 milioni di autoveicoli assemblati) e gli introiti (+33,5%, arrivando a
26,3 miliardi di ricavi nel 2009). Nonostante il difficile 2009, nell’arco di tempo preso in
considerazione il margine operativo è passato da -4,2% a +1,8%, in netta
controtendenza con la maggior parte dei concorrenti. Questo ha contribuito a portare in
positivo la divisione auto, passata da una perdita di 822 milioni nel 2004 a un utile netto
di 470 milioni nel 2009.
38
Quando non diversamente specificato, la fonte dei dati riportati in questo paragrafo è il Gruppo Fiat.
49
Tabella 3.1
Sintesi dei dati di bilancio del Gruppo Fiat 2004-2009 (dati in milioni di euro).
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fatturato
45.637
46.544
51.832
58.529
59.380
50.102
Consumi materie e servizi
37.196
36.796
40.171
45.599
45.651
47.070
Valore aggiunto
8.441
9.748
11.661
12.930
13.729
3.032
Margine operativo lordo
2.274
3.590
4.920
5.971
6.263
3.032
Ammortamenti
2.224
2.590
2.969
2.738
2.901
2.673
50
1.000
1.951
3.233
3.362
359
-1.179
-843
-576
-564
-947
-753
-500
2.107
266
104
-228
27
-1.629
2.264
1.641
2.773
2.187
-367
-50
844
490
719
466
481
-1.579
1.420
1.151
2.054
1.721
-848
55
89
86
101
109
-10
-1.634
1.331
1.065
1.953
1.612
-838
Risultato operativo
Proventi (oneri) finanziari
Componenti straordinari
Risultato prima delle imposte
Imposte
Utile d’esercizio
Utile di competenza di terzi
Utile netto
Fonte: Evaluation.it e Gruppo Fiat
Le chiavi del successo sono state numerose. In un primo momento si è intervenuti sulla
struttura dei costi: si sono resi più efficienti gli stabilimenti produttivi, che ora
rispondono tutti a principi di qualità ed efficienza che vanno sotto il nome di World
Class Manufacturing; si è ridotto drasticamente il time to market dei nuovi modelli (da
24 a 15 mesi), fino a diventare leader di settore; si è posta maggiore attenzione sugli
acquisiti e sulla solidità dei fornitori stessi. Inoltre è stata rilanciata l’immagine di marca
con campagne di marketing innovative e avvalendosi di una rinnovata e capillare rete di
distribuzione, puntando su nuovi prodotti (Panda, 500, e Alfa Romeo Mito, per citarne
solo alcuni) e su tecnologie all’avanguardia e rispettose dell’ambiente. In merito a
quest’ultimo punto, ricordiamo infatti che negli ultimi anni il marchio Fiat ha ridotto le
emissioni medie della flotta fino a 130 grammi di CO2 per chilometro (contro una media
di settore pari a 145,839), tanto da risultare il brand meno inquinante negli ultimi 3 anni.
Sul fronte delle vendite, Italia e Brasile rimangono le due piazze di maggior importanza
del gruppo, che ha intercettato rispettivamente il 32,8% e il 24,5% della domanda totale
dei due mercati nel 2009; tuttavia, grazie a 52mila immatricolazioni in più rispetto al
2004, l’anno scorso la quota di mercato della casa torinese è cresciuta in tutta Europa
39
Dati e classifiche di Jato Dynamics.
50
(fatta eccezione per la Spagna) portando il tasso di penetrazione dei suoi marchi dal
3,8% al 4,3%40.
Il mercato continentale ha promosso anche l’offerta di Fiat Professional (veicoli
commerciali leggeri), passata dal 10,3% del 2005 al 12,8% del 2009 (senza contare il
3,1% di Iveco): il marchio è ora secondo, per vendite, solo a Renault.
L’indubbia riuscita del turnaround e i vantaggi tecnologici e di processo mostrati da Fiat
sono stati gli elementi chiave che hanno convinto l’amministrazione americana ad
affidare al management del Lingotto la ristrutturazione di uno dei gruppi automobilistici
storici negli Stati Uniti: Chrysler. In un momento in cui l’economia e l’industria italiana
cercano nuovo slancio, il gruppo di Torino ha senza dubbio mostrato coraggio e capacità,
rafforzandosi in Italia e candidandosi a un ruolo di maggior peso all’estero.
Tuttavia, in un’industria competitiva come quella automotive, i successi devono essere
confermati e le strategie riviste di continuo. L’acquisizione di una quota di capitale di
Chrysler non rappresenta, infatti, un punto di arrivo ma l’inizio di un percorso il cui
traguardo è stato fissato nella produzione (per Chrysler e joint-venture internazionali
nel complesso) di 5,5-6 milioni di autoveicoli entro il 2014. Per raggiungere questo
risultato è indispensabile ampliare gamma e mercati e ridurre i costi unitari: si
comprende dunque meglio l’importanza dell’operazione Chrysler che, oltre a portare
con sé una dote di capacità produttiva, integra i punti di forza di Fiat Automobiles con
segmenti superiori al C e al D e con l’apertura verso mercati dove il gruppo è assente da
tempo (Nord America e SUV) o può beneficiare di un rafforzamento (Sud America e
Europa in primis). La condivisione delle architetture, inoltre, permetterà risparmi nello
sviluppo, nell’acquisizione di componenti e così via, oltre a un più rapido ammortamento
degli investimenti.
40
Questi valori sono calcolati escludendo l’Italia dal resto dell’Europa (UE 27 ed EFTA).
51
Figura 3.4
Scomposizione percentuale per paese delle vendite totali di Fiat Group
41
Automobiles nel 2009 e nel 2014 .
2009
ALTRI ; 3%
TURCHIA ; 4%
INDIA ; 1%
CENTR. SUD
AMERICA ;
33%
EUROPA ;
58%
RUSSIA; 1%
2014
TURCHIA ; 2%
ALTRI ; 3%
INDIA ; 3%
CINA ; 7%
N. AMERICA ;
2%
EUROPA ;
50%
CENTR. SUD
AMERICA ;
26%
RUSSIA; 7%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati Fiat e fonti varie
Le sfide raccolte dal piano Fiat sono molte e ambiziose: per il 2014 si prefigge di vendere
3,8 milioni di auto e veicoli industriali leggeri, di cui più della metà (1,4 milioni di auto e
250mila veicoli commerciali) prodotti in Italia. I ricavi della divisione auto
raddoppieranno, passando dai 26,3 miliardi del 2009 ai 51 del 2014.
I livelli produttivi fissati per il 2014 non sono solo un target commerciale: sono
necessari perché la casa di Torino possa riequilibrare lo sfruttamento della capacità
41
Le vendite 2014 rispecchiano le previsioni del piano industriale del Gruppo Fiat presentato il 21 aprile 2009. Sono
contemplate nelle elaborazioni anche le vendite delle joint-venture.
52
produttiva degli stabilimenti italiani. Questi ultimi nel 2009 sono stati sfruttati al 60%
del proprio potenziale42, mentre gli stabilimenti in Polonia, Serbia e Turchia hanno
registrato medie pari al 129%.
Per riuscire nel suo intento il gruppo del Lingotto dovrà proseguire sulla strada del
riposizionamento dei marchi, sfruttando al massimo le potenzialità di Lancia (118mila
immatricolazioni nel 2009) e Alfa Romeo (105mila), e integrando brand, expertise,
piattaforme e motori statunitensi con design e sistemi di propulsione e produzione
italiani. Inoltre, l’integrazione dei due gruppi dovrebbe mirare a migliorare il mix di
prodotto: lo scorso anno su 100 auto vendute da Fiat ben 77 appartenevano al segmento
A o B, contro una media del mercato pari a 40. I marchi italiani risultano competitivi
anche nel segmento delle monovolume compatte, ma devono recuperare terreno nei
mercati di livello superiore, che pur prospettando minori volumi possono garantire
margini operativi maggiori. Fiat ricava solo il 13,3% delle sue vendite dal segmento delle
berline (familiari e compatte) contro il 36% del resto del mercato, e il 2,8% del totale
delle sue immatricolazioni da MPV43 e SUV, contro il 18,6% in media della concorrenza.
Il fatto è che non basta avere un ottimo prodotto: è necessario riuscire a penetrare i
mercati. Fiat ha dimostrato in Brasile che è capace di produrre in loco auto di qualità e di
convincere anche consumatori con gusti diversi da quelli europei. Proprio grazie ai
successi in Brasile, il gruppo vanta una percentuale leggermente superiore a un terzo
delle vendite nei paesi denominati BRIC, quota pari a quella di assemblatori globali del
calibro di General Motors e Volkswagen, e superiore a tutti gli altri grandi gruppi.
Mentre negli Stati Uniti sarà sicuramente favorevole l’aiuto di un gruppo storico come
Chrysler, per quanto riguarda il resto del mondo Fiat si è impegnata a stringere accordi
con partner strategici che le assicureranno una presenza nei mercati chiave di Cina
(joint-venture con Guangzhou Automobile Group attiva da inizio 2010), Russia (jointventure con il gruppo Sollers dai primi mesi del 2010) e India (joint-venture con Tata
instaurata già nel 2007).
42
43
Potenziale calcolato su 235 giorni lavorativi l’anno e 16 ore al giorno.
MPV: acronimo di “multi purpose vehicle”.
53
3.3 Il resto della filiera: il piano Fiat è un’opportunità da cogliere
Finora abbiamo analizzato l’andamento e i piani industriali relativi alla produzione di
autoveicoli ma, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, questa non è che l’ultima
parte di una filiera che include più di 2.500 aziende fornitrici di parti, sistemi, moduli e
servizi di ingegneria e design. Un insieme di imprese solide per qualità offerta e
importante in termini di fatturato totale, che si aggira intorno ai 40 miliardi di euro.
Dalla seconda metà degli anni Novanta queste realtà hanno moltiplicato gli sforzi per
migliorare la diversificazione del proprio portafoglio prodotti e clienti, cercando (e
trovando) sbocchi all’estero. Tuttavia il livello della produzione di autoveicoli nazionale
rimane fondamentale, come avviene del resto per la stragrande maggioranza delle filiere
manifatturiere.
Fatta questa premessa, e tenendo a mente le difficoltà degli ultimi due anni di crisi, è ora
più facile capire come l’inizio del 2010 sia stato caratterizzato da sentimenti e
aspettative contrastanti: se da una parte si sta vivendo uno dei periodi più difficili degli
ultimi quarant’anni in termini di produzione finale e fatturati delle imprese fornitrici,
dall’altra il nuovo piano industriale del Gruppo Fiat rappresenta un’opportunità per
invertire i recenti trend negativi.
54
Figura 3.5
Produzione di autoveicoli in Italia divisa per macro-categoria, dal 1999 al 2009
(in migliaia di unità prodotte).
1.800
1.701
Auto
1.738
1.600
Autocarri + veicoli commerciali
1.580
1.410
1.400
Totale
1.427
1.422
1.322
1.272
1.284
1.200
1.038
1.026
1.000
1.212
1.142
1.126
893
834
800
1.024
911
843
726
659
661
600
400
291
316
308
301
295
309
313
319
373
365
200
182
0
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati ANFIA e Gruppo Fiat
Per fornire un’idea di quello che potrebbe accadere alla produzione nazionale di qui al
2014 facciamo una semplice simulazione che, senza pretese di veridicità, possiamo dire
verosimile.
Il piano industriale di Fiat Group Automobiles (FGA, comprendente i marchi Abarth, Alfa
Romeo, Fiat, Fiat Professional e Lancia) indica il livello della produzione futura
ipotizzata, ma quanto pesano le altre teste di filiera sul totale della produzione italiana?
Negli ultimi dieci anni i marchi non appartenenti al gruppo Fiat Automobiles sono stati
responsabili mediamente del 5% della produzione di autovetture in Italia, del 50% della
produzione di veicoli commerciali e del 100% di quella relativa ad autobus e autocarri.
Per formulare uno scenario con orizzonte al 2014 possiamo ipotizzare che i produttori
di autoveicoli diversi dai marchi facenti capo a FGA ritroveranno il livello di output precrisi, ovvero quello relativo al 2007: è un’ipotesi che congetturiamo in attesa di
osservare i destini dei capi filiera diversi da Fiat, che pur essendo meno pesanti in
termini produttivi sono altrettanto dinamici. Sono presenti sul mercato, infatti,
55
carrozzerie storiche che cercano un rilancio puntando su modelli elettrici, produttori
che assemblano parti made in Italy con kit importati dalla Cina facendo leva sul fattore
prezzo, e imprenditori impegnati a riproporre marchi storici di nicchia, oltre a realtà
attive nei motocicli e tricicli elettrici che potrebbero sfruttare le proprie tecnologie per
rinnovare le proposte nei piccoli veicoli commerciali a emissioni zero. Non
dimentichiamo poi soggetti come il Gruppo PSA, che affianca Fiat in una collaborazione
produttiva sui veicoli commerciali leggeri, e Iveco, che non rientra nel piano produttivo
di FGA ma che ancora nel 2008 aveva prodotto in Italia più di 90mila mezzi fra veicoli
industriali e commerciali.
In base a queste ipotesi, in caso di pieno successo del piano Fiat e di recupero degli altri
operatori entro il 2014, in Italia arriveremmo a produrre 1,9 milioni di autoveicoli (il
36% in più rispetto al 2007). Facendo un’ipotesi più prudenziale, di realizzazione dei
progetti stabiliti dal piano Fiat solo per tre quarti, nel 2014 si avrebbe comunque una
produzione nazionale totale pari a poco meno di 1,5 milioni di mezzi: valore che non si
registra più dal 2002, superiore del 18% alla media della produzione degli ultimi dieci
anni.
Tabella 3.2
Stime della produzione di autoveicoli in Italia al 2014 in base ai livelli pre-crisi e
al piano Fiat Group Automobiles 2010-2014 (valori espressi in unità prodotte).
Piano Fiat Group
Automobiles
realizzato al 100%
Piano Fiat Group
Automobiles
realizzato al 75%
2007
FGA
Altri
FGA
Altri
FGA
Altri
Autovetture
1.400.000
36.622
1.050.000
36.622
874.238
36.622
Veicoli
commerciali
250.000
166.557
187.500
166.557
154.332
166.557
Autocarri
-
51.114
-
51.114
-
51.114
Autobus
-
1.449
-
1.449
-
1.449
Totale
1.905.742
1.493.242
1.284.312
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati Fiat Group e ANFIA
56
3.4 Il resto della filiera: pronta al rilancio dopo anni difficili
I pochi dati appena presentati danno una prima idea di quanto sia elevata la posta in
gioco, non solo per il gruppo del Lingotto ma per tutta l’industria nazionale. Come
vedremo meglio nel prossimo capitolo, maggiore produzione non significa solo maggiore
richiesta di parti e componenti ma anche maggiori investimenti in servizi avanzati di
ingegnerizzazione di prodotto, processo e design, che la nostra filiera è in grado di
intercettare. Il piano di FGA costituisce per il settore un’opportunità di uscita dalla fase
congiunturale negativa degli ultimi anni, che in seguito alla flessione della produzione
automotive in Italia e in Europa ha visto forti riduzioni degli ordini, con ripercussioni su
tutta la filiera automotive.
Ancora a febbraio 2010 il saldo tendenziale del fatturato dei componentisti era inferiore
al 19,4%44 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: un risultato leggermente
inferiore di quello registrato dai produttori di autoveicoli (-16,9% per lo stesso periodo)
e dal settore manifatturiero nel complesso (-15,5%). Scomponendo poi i ricavi nelle due
componenti estera e nazionale si nota come, dopo diversi anni, gli ordini dall’estero
abbiano frenato in misura più che proporzionale rispetto a quelli provenienti dai clienti
con stabilimenti in Italia (-21,1% e -17,8%, rispettivamente). In generale la domanda
interna, complice il turnaround del maggior committente nazionale, dal 2005 ha prima
recuperato e poi acquisito un andamento e una tendenza simili a quelli della domanda
dall’estero.
44
Dato calcolato come variazione percentuale delle medie mobili degli indici mensili di fatturato.
57
Figura 3.6
Serie storica degli indici di fatturato della componentistica autoveicolare,
scomposta fra mercato nazionale ed estero, per il periodo da gennaio 2004 a febbraio 2010
(medie mobili).
Settembre 2008
135
125
115
95
85
Fatturato nazionale
Fatturato estero
75
Agosto 2008
Novembre 2007
105
-21,1%
-19,4%
Fatturato totale
VAR % Feb 10/09
-17,8%
2010/1
2009/7
2009/1
2008/7
2008/1
2007/7
2007/1
2006/7
2006/1
2005/7
2005/1
2004/7
2004/1
65
Fonte: ISTAT
Se passiamo dalle medie mobili riguardanti gli indici di fatturato all’ammontare delle
esportazioni del nostro paese, notiamo che nel 2009 questa importante fonte di ricavi si
è attestata su un livello leggermente inferiore ai 13 miliardi di euro (12,9 per
l’esattezza), rispetto ai 18,8 miliardi del 2007 e ai 18,5 miliardi del 200845. Quindi è solo
nell’ultimo anno che le esportazioni di parti e componenti prodotte in Italia hanno
subito frenate nell’ordine del 30%: un risultato negativo che,dopo anni di continua
crescita dei nostri prodotti all’estero, conferma la flessione già registrata nel 2008. Per
effetto di una minore decelerazione delle importazioni (-23%) il saldo commerciale (la
differenza fra esportazioni e importazioni) è poi deteriorato del 42%: dai 6,8 miliardi del
2008 ai 3,9 del 2009.
Sebbene la scomposizione delle nostre esportazioni non abbia subito cambiamenti di
rilievo, è tuttavia interessante notare come a patire relativamente meno la crisi siano
stati i pneumatici e le parti in gomma in generale – che passano dal 5,9% sul totale del
valore delle esportazioni al 6,9% –, e i componenti elettrici che passano dal 7,5%
Per la prima volta quest’anno i dati relativi al commercio estero di parti e componenti dall’Italia sono stati
raccolti ed elaborati da ANFIA in collaborazione con Step Ricerche, usando la nomenclatura combinata fornita
dall’ISTAT. Questi codici permettono di entrare nel dettaglio delle singole parti e componenti.
45
58
all’8,8%. Anche tra le importazioni, pneumatici e componenti in gomma crescono
addirittura in termini assoluti (da 1,3 miliardi di euro nel 2008 a 1,4 miliardi nel 2009),
in controtendenza con il resto dei componenti. Questa performance è dovuta in parte al
minor calo registrato nel mercato dell’aftermarket, specie per le componenti usurabili
come le gomme, e in parte alla perdita di quote di mercato dei produttori nazionali,
spesso a vantaggio di produzioni estere che fanno leva sul prezzo.
3.5 Dopo due anni difficili anche il Piemonte potrà tornare a giocare un ruolo da
protagonista grazie a export46 e produzioni locali
Il piano Fiat e il rilancio di Chrysler passano anche per il Piemonte e dovrebbero
interessare ben due dei suoi stabilimenti di assemblaggio. Nell’estate del 2009 Fiat,
infatti, ha acquistato gli stabilimenti di Grugliasco, alle porte di Torino, che per decenni
avevano visto uscire modelli marchiati Bertone: qui nei prossimi anni dovrebbe trovare
spazio la produzione dei nuovi modelli di Chrysler, che sta concludendo il contratto
precedentemente siglato con la Magna per la produzione in Austria. Si tratta di vetture
tutte appartenenti al segmento E, e più precisamente: un SUV (Jeep Grand Cherokee),
una berlina (la 300 C) e una monovolume (il Gran Voyager). Sicuramente tutti modelli
interessanti sia perché andrebbero a integrare l’offerta del gruppo Fiat sia perché
necessitano, per caratteristiche legate al segmento di prodotto, di massima cura
qualitativa e affidabilità, caratteristiche che l’impianto di Grugliasco può garantire. Per
avere un’idea dei volumi produttivi che potrebbero interessare questa nuova sede
produttiva possiamo prendere come riferimento il 2007, quando il gruppo Chrysler
aveva prodotto (tramite Magna in Austria) poco meno di 69mila auto; non
dimentichiamo, inoltre, che il piano di sviluppo del gruppo americano per il 2014 si
propone di raddoppiare, rispetto al 2007, le vendite realizzate fuori dall’area NAFTA.
Per quanto riguarda il piano di Fiat Automobiles, invece, è previsto che entro il 2014 lo
stabilimento di Mirafiori passi dalle 180mila auto prodotte nel 2009 a 300mila, con un
incremento pari al 67%. A tal fine lo stabilimento di Torino vedrà, nei prossimi 5 anni,
una razionalizzazione dei modelli assemblati e delle linee produttive utilizzate, visto che
non sarà più destinato alla produzione di auto piccole e grandi, monovolumi compatti e
non, ma solo a quella di architetture piccole (ad esempio l’Alfa Mito) e compatte, come i
Per poter attuare un confronto fra il Piemonte e il resto d’Italia in questo paragrafo è stato necessario fare
riferimento alla classificazione ATECO, senza poter scendere nel dettaglio degli NC8 che sono raccolti esclusivamente
su base nazionale.
46
59
nuovi modelli che a partire dal 2012 affiancheranno e poi sostituiranno la Bravo e la
Delta, alcuni dei quali saranno destinati anche al mercato americano.
47
Figura 3.7
Serie storiche delle esportazioni di parti e componenti dal Piemonte e dal resto
d’Italia, per il decennio tra il 1999 e il 2009.
Resto d'Italia
7.346
Piemonte
6.601
6.269
7.093
6.950
5.672
5.273
4.940
5.170
4.665
4.878
4.185
4.589
4.381
3.805
3.597
3.372
3.253
2.957
2.978
3.003
2.570
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009*
Fonte: ISTAT
Nei prossimi anni, dunque, non mancheranno le occasioni per chi progetta e produce per
l’auto in Piemonte. Per quanto riguarda il 2009, però, la regione ha esportato
componenti per un valore di 3,37 miliardi di euro, accusando un calo pari a 1,5 miliardi
rispetto all’anno precedente (mentre nel 2008 si era registrato un dato dell’export
piemontese positivo, in controtendenza rispetto a quello del resto d’Italia). Anche il
saldo commerciale si è deteriorato passando dai 3,2 miliardi del 2008 ai 2,1 miliardi del
2009.
La flessione nelle esportazioni piemontesi di parti e componenti (-30,9%) è stata
superiore a quella nel complesso delle esportazioni regionali (-22%) ma inferiore
rispetto a quella del comparto a livello nazionale (-33,4%). La quota dell’export
regionale sul totale è quindi ancora incrementata, arrivando al 42,2% (contro il 37,4%
del 2000).
47
I dati esposti si riferiscono alla categoria ATECO CL293: Parti e accessori per autoveicoli e loro motori.
60
Scomponendo il dato dell’export piemontese per regione di destinazione, notiamo che
l’Europa da sola vale 2,7 miliardi di euro, ovvero l’82,5% del totale (quota ancora
superiore rispetto a quella rilevata nel 2008, 80,5%, nonostante un andamento della
produzione peggiore rispetto alle altre aree del mondo). L’Europa (che nelle statistiche
dell’Istat comprende anche la Turchia) rappresenta la destinazione principale delle
componenti automotive (80,2%) anche per l’Italia, con un ritmo di crescita ancora più
marcato (nel 2000 erano responsabile “solo” del 75% del export totale). Portando
l’attenzione ai paesi con industrie in espansione, notiamo che l’Asia conta il 4% sul totale
del portafoglio estero piemontese (valeva il 4,4% nel 2008); si tratta di un dato in linea
con quello nazionale (4,3% nel 2009, in seguito a contrazione rispetto al 9,25% del
2000). L’anno scorso la Cina, il maggiore produttore di autoveicoli al mondo, ha
fatturato al Piemonte 18 milioni di euro e l’India 47 (in entrambi i casi la perdita rispetto
al 2008 è del 40%). In generale i BRIC valgono il 10,7% delle esportazioni piemontesi e
in dieci anni hanno guadagnato solo 1,2 punti percentuali di quota sul totale del
fatturato estero.
Indipendentemente dall’andamento delle produzioni nazionali, questi dati sembrano
confermare la formazione di tre principali macro-bacini continentali autosufficienti: in
America, Europa e Asia, i produttori tendono a rifornirsi all’interno del proprio bacino.
L’Europa, in questo senso, comprende anche i paesi limitrofi come la Turchia e, in futuro,
abbraccerà sempre di più l’Africa settentrionale. Già oggi il Piemonte esporta verso
l’Africa 96 milioni di euro di parti e componenti: più dei 65 milioni dovuti al Nord
America (come visto nel Capitolo II), con un andamento migliore rispetto al resto del
mercato (-6,3%).
La suddivisione dei paesi in bacini è tale che persino la presenza all’estero di uno
stabilimento produttivo della testa di filiera non garantisce ai fornitori la penetrazione
del mercato, se si esce dal limite del proprio continente: così, nel 2009, si deve registrare
un -36% delle esportazioni piemontesi verso il Brasile, mentre la Serbia in un solo anno
ha quadruplicato l’import dal Piemonte facendo arrivare i suoi ordini a un totale di 88
milioni di euro, pari all’86% del dato nazionale.
61
Tabella 3.3
Scomposizione per paese di destinazione delle esportazioni italiane di
48
componenti, 2000-2009 (dati espressi in milioni di euro).
2000
2004
2007
2008
2009
Var %
09/08
Var %
09/07
Germania
1.772
2.153
2.718
2.665
1.810
-32,1%
-33,4%
Francia
1.041
1.455
1.523
1.380
902
-34,6%
-40,8%
Polonia
371
518
640
732
651
-11,1%
1,7%
Spagna
651
807
1.204
1.035
514
-50,3%
-57,3%
Regno Unito
740
928
885
803
477
-40,6%
-46,1%
Turchia
321
368
544
509
441
-13,4%
-18,9%
America Sett.
731
790
676
663
342
-48,4%
-49,4%
Brasile
313
207
360
533
342
-35,8%
-5,0%
Belgio
191
277
322
338
229
-32,2%
-28,9%
Rep. Ceca
52
105
173
182
163
-10,4%
-5,8%
7.896
9.866
12.011
11.971
7.977
-33,4%
-33,6%
Totale mondo
Fonte: ISTAT
Tabella 3.4
Scomposizione per paese di destinazione delle esportazioni piemontesi di
componenti, 1999-2008 (dati espressi in milioni di euro).
2000
2004
2007
2008
2009
Var %
09/08
Var %
09/07
Germania
543
600
809
765
493
-35,6%
-39,1%
Francia
471
736
782
699
452
-35,3%
-42,2%
Polonia
268
312
370
448
434
-3,1%
17,3%
Turchia
208
240
399
382
354
-7,4%
-11,3%
Spagna
367
425
634
560
269
-52,0%
-57,6%
Brasile
235
132
246
395
253
-36,0%
2,8%
Regno Unito
218
239
232
279
205
-26,6%
-11,6%
Serbia
3
7
20
22
88
296,8%
340,0%
Rep. Ceca
25
59
75
84
80
-3,9%
6,7%
Romania
7
23
51
70
53
-23,4%
3,9%
2.957
3.597
4.665
4.878
3.372
-30,9%
-27,7%
Totale mondo
Fonte: ISTAT
48
I dati 2009 sono aggiornati a maggio 2010.
62
PARTE SECONDA: L’INDAGINE CONOSCITIVA SUL CAMPO
ANALISI DELLE RISPOSTE DI 983 AZIENDE DELLA FILIERA
AUTOMOTIVE AL QUESTIONARIO DELL’OSSERVATORIO
CAPITOLO IV
DOPO LA CRISI, L’OPPORTUNITÀ DI UN RILANCIO DELL’INTERA
FILIERA AUTOVEICOLARE ITALIANA
Dopo aver tracciato il panorama dell’industria autoveicolare nel mondo e in Italia è lecito
chiedersi come il rallentamento complessivo della produzione mondiale e nazionale si sia
riflesso sui produttori di parti e componenti della filiera locale, che per il 2009 vanta
fatturati intorno ai 41,7 miliardi di euro (di cui 37,9 provenienti dal settore automotive),
equivalente ai ricavi della parte automotive del Gruppo Fiat. I ricavi delle sole imprese con
sede legale in Piemonte sono pari a 21,3 miliardi di euro, di cui 19 dovuti all’automotive.
L’annuale indagine della Camera di Commercio di Torino ha predisposto un database di
circa 2.600 appartenenti alla filiera autoveicolare italiana, e sottoposto 25 domande a 983
responsabili di impresa, di cui 398 appartenenti a società con sede legale in Piemonte. Le
risposte sono poi state valutate e messe in relazione ai rispettivi fatturati, e quindi
proiettate sull’universo della filiera.
L’indagine evidenzia come il rallentamento della domanda e dell’offerta finale di
autoveicoli abbia frenato i fatturati delle aziende fornitrici di componenti e servizi per il
63
15,8% (variazione 2009 rispetto al 2008). Al contrario degli anni precedenti la flessione
dei ricavi ha coinvolto in modo omogeneo tutti i territori e i segmenti di prodotto
analizzati: si va dal -13,6% dei fornitori di moduli e sistemi al -17,1% degli specialisti. Le
imprese con sede legale in Piemonte registrano un -16,5%, in linea con il -14,9% del resto
d’Italia.
La scomposizione dei ricavi mette in evidenza una riduzione delle esportazioni (che
valgono più del 42,6% del totale dei ricavi di filiera) pari a -15% per il totale del campione
e -12% per il campione piemontese, con andamento analogo a quello del fatturato totale.
La parte del fatturato dovuta a Fiat è cresciuta: su 100 euro di ricavi della filiera, 44,2 euro
sono dovuti a commesse nazionali dirette o indirette verso il Gruppo Fiat e 19 a commesse
destinate agli stabilimenti del gruppo oltre confine (erano 13,6 nel 2008). Non stupisce
registrare un aumento della quota di Fiat, in un anno in cui i marchi del gruppo hanno
ottenuto sul mercato europeo performance migliori rispetto ai concorrenti (+6,3%, contro
una media continentale che fra il 2008 e il 2009 è stata pari al -1,6%). È positivo
constatare la capacità della filiera di rispondere agli stimoli commerciali e produttivi di
uno dei suoi principali clienti, che negli ultimi anni ha chiesto ai fornitori di adeguarsi ai
propri aumenti di produttività.
Anche nel 2009 617 intervistati su 983 (il 62,8% del campione) sono riusciti a vendere
prodotti e servizi nei mercati esteri, non solo europei. Le imprese piemontesi hanno
confermato una maggiore presenza sui mercati internazionali: ben il 69% ha mantenuto
commesse estere, contro il 58,5% nel resto d’Italia. Sono già 96 le imprese che vantano
rapporti privilegiati con gli Stati Uniti e 91 quelle che fanno affari con l’Asia.
A soffrire di più la crisi sono stati i fornitori dei segmenti dei veicoli commerciali e
industriali: il contributo di questi due comparti sul totale del fatturato di filiera scende dal
37% del 2008 al 31,4% del 2009.
Al contrario il mercato dei pezzi di ricambio ha evidenziato una forte crescita relativa: su
100 euro di ricavi totali delle produzioni della filiera, circa 19 sono imputabili
all’aftermarket.
In un anno difficile è una buona notizia sapere che le nostre imprese sono riuscite a non
sacrificare la spesa in ricerca e sviluppo (R&S). Se è vero che il valore assoluto di questa
voce è diminuito, la sua riduzione è stata proporzionale a quella dei ricavi, quando non
inferiore: anche nel 2009 il 2,6% dei proventi delle vendite è stato destinato ad attività di
ricerca e sviluppo. In quest’ambito è ormai maturo il rapporto fra la filiera e le università
(92 imprese intervistate, di cui 44 piemontesi, hanno recentemente attivato progetti con
64
strutture di ricerca universitarie) e vi sono segnali significativi di una maggiore
collaborazione fra le imprese, a cominciare da clienti (ritenuti una fonte importante per le
attività di R&S da parte del 30% del campione, contro il 20% dello scorso anno) e fornitori
(10%, contro il 5,3%) ma anche nella ricerca di partner “altri” (10,6% contro il 7,5%).
Di fronte alle difficoltà congiunturali le imprese non sono state immobili: la maggior parte
è intervenuta per ristrutturare e apportare innovazioni al processo produttivo (il 58% del
campione), ma non sono mancati il rinnovamento del catalogo aziendale (30%) e neppure
la presentazione ai clienti di prodotti innovativi non ancora presenti sul mercato (13,4%).
Quasi il 70% delle imprese piemontesi si è impegnata in almeno una di queste azioni.
Fra le nuove offerte e opportunità commerciali, un posto importante è senza dubbio
riservato alla categoria del green tech. In un solo anno le imprese attive su questo versante
sono passate dal 12% al 23% del campione: 72 in Piemonte e 150 nel resto d’Italia.
Nonostante la crisi abbia inciso notevolmente sui risultati della filiera automotive italiana,
alcune imprese hanno saputo sconfiggerla (l’8% del campione) o comunque resistervi (un
altro 16% dichiara di aver registrato ricavi 2009 in linea con il 2008).
Analizzando le caratteristiche dei rispondenti che hanno dichiarato una variazione
positiva del fatturato, notiamo come queste imprese siano particolarmente attive
nell’ambito dell’innovazione (l’80%), sia sul fronte della riduzione dei costi e dell’aumento
della produttività (il 63%) sia sul miglioramento e la concezione di prodotti nuovi da
proporre al mercato (circa il 40%). Sono imprese che non solo hanno idee, ma che le
brevettano (l’11,6% contro il 4,9% del totale del campione) per difendere prodotti
totalmente nuovi (20% contro il 13,4% del campione totale), e che si mostrano più sensibili
alle partnership con altre imprese, con i propri fornitori e alle collaborazioni con le
università. Molte di loro sono state favorite da una maggiore diversificazione del
portafoglio (sia sul lato dei prodotti che dei clienti, all’estero come in Italia) e dalla
presenza in mercati che hanno retto meglio di altri, dalle autovetture all’aftermarket. Altre
puntano su prodotti più “green” in modo più deciso rispetto alla media (il 36,2%, contro il
22,6% del totale dei rispondenti).
Un’altra caratteristica importante sembra essere quella legata alle dimensioni. Se si
scompone la variazione del fatturato del campione per classi dimensionali, si nota che lo
scorso anno le grandi imprese hanno conosciuto una flessione del 13,8%, le medie del 20%,
le piccole del 21% e le micro del 18,4%. Le grandi imprese hanno un portafoglio prodotti
più aggiornato, con solo un quarto dei ricavi derivante da prodotti non più concorrenziali
(per le micro imprese la stessa quota è pari al 50% dei ricavi), grazie a una maggiore
65
capacità di spesa in R&S (2,8% contro il 2% di micro e piccole imprese) e a una maggiore
penetrazione sui mercati internazionali.
Saranno questi gli ingredienti da utilizzare per cogliere pienamente le opportunità
derivanti dalle produzioni estere e dalla nuova fase aperta da Fiat, che prevede di spendere
nei prossimi 5 anni 26 miliardi di euro per investimenti in conto capitale, a cui vanno
aggiunti gli investimenti in R&S e quelli di Chrysler. Il gruppo nel suo complesso
(includendo anche le attività della casa di Detroit) farà acquisti per oltre 60 miliardi di
euro l’anno: un’opportunità che la nostra filiera ha le carte in regola per cogliere.
66
4.1 L’universo di riferimento, il campione intervistato e il metodo utilizzato per i
dati riportati e le stime
Come ogni anno, prima di dare conto dei risultati dell’indagine, descriviamo il lavoro
compiuto dal gruppo di ricercatori per la formazione e l’aggiornamento dell’universo
indagato e del campione intervistato, nonché le ipotesi effettuate per la realizzazione
delle stime sui fatturati e sull’occupazione della filiera.
4.1.2 La formazione dell’universo della filiera autoveicolare: più di 2.600
imprese verificate e aggiornate ogni anno
Anche quest’anno il data set contenente l’universo analizzato dall’Osservatorio è stato
aggiornato dai responsabili della Camera di Commercio di Torino e dai ricercatori
responsabili dell’indagine. L’obiettivo è stato ottenere un universo di imprese che
comprendesse la maggior parte delle aziende operanti all’interno della filiera
autoveicolare in Italia: dai fornitori di parti semplici fino alle porte degli stabilimenti di
assemblaggio49. Sono state prese in considerazione solo le imprese che producono beni
o servizi in Italia, ed escluse quelle che svolgono esclusivamente attività commerciali
come la vendita, il noleggio o la riparazione.
Quest’anno non ci si è limitati ad aggiornare l’universo 2009, iniziando un’operazione di
ampliamento. Nel 2010 le abituali operazioni di aggiornamento del data set hanno
coinvolto le imprese iscritte ai registri camerali con i codici Ateco 2007 indicati di
seguito.
Tabella 4.1
Codici ATECO usati dall’Osservatorio sulla filiera automotive italiana, per
aggiornare il data base.
Codice
Ateco Descrizione
2007
20
Fabbricazione di prodotti chimici
21
Fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici
22
Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche
23
Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi
24
Metallurgia
25
Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature)
49 Sono esclusi i grandi assemblatori finali (Gruppo Fiat, PSA, Piaggio ecc.) ma incluse le carrozzerie e le produzioni
(anche di assemblaggio) di nicchia.
67
26
Fabbricazione di computer e prodotti di elettronica e ottica; apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione
e di orologi
27
Fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche
28
Fabbricazione di macchinari e apparecchiature NCA
29
Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi
30
Fabbricazione di altri mezzi di trasporto
33
Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine e apparecchiature
71
Attività degli studi di architettura e d'ingegneria; collaudi e analisi tecniche
72
Ricerca scientifica e sviluppo
74
Altre attività professionali, scientifiche e tecniche
Non è raro infatti che imprese appartenenti alla filiera autoveicolare siano iscritte nei
registri camerali in categorie non strettamente riconducibili al business automotive:
pensiamo ad esempio a studi di architettura, di ricerca o di fabbricazione di prodotti
chimici che tuttavia lavorano soprattutto per l’auto.
Per i codici Ateco 2007 sopra citati la Camera di Commercio di Torino ha fornito l’elenco
delle imprese che nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2008 e il 20 gennaio 2010
risultavano “cessate” (e “con procedure”) o “nuove iscritte” in Italia. Sono quindi state
individuate ed eliminate dal data set 166 imprese cessate e in liquidazione in quel
periodo di riferimento, lasciando in sospeso quelle con procedure non ancora concluse.
Si è svolta inoltre un’analisi dettagliata delle descrizioni delle attività di tutte le nuove
iscritte ai registri camerali italiani, che ha premesso di aggiungere alla banca dati
dell’Osservatorio 202 imprese.
La “pulizia” del database 2009 è stata poi completata con l’analisi di tutte quelle aziende
che lo scorso anno, nel corso delle interviste effettuate, avevano dichiarato di non
operare all’interno della filiera automotive. A queste imprese è stata assegnata
l’etichetta “fuori target”, rimuovendole dall’universo analizzato previa verifica su
ragione e oggetto sociale, codici Ateco, elenchi, banche dati e informazioni online.
Tabella 4.2
Database dell’Osservatorio sulla filiera automotive proveniente dalla Camera di
Commercio di Torino (aggiornato a giugno 2010).
Formazione del database 2010
Universo 2009
Cessate
Fuori target
Nuove aggiunte
2.696
-166
-83
202
Universo 2010
2.649
68
Universo con stima fatturati 2009 2.196
Insieme a una costante revisione durante tutto l’anno queste operazioni permettono di
ottenere un universo in cui a ogni impresa sono associati i dati raccolti nel tempo grazie
alle precedenti indagini e ai bilanci degli esercizi passati.
Tra le informazioni presenti nei database ci sono la forma giuridica e la regione in cui si
trova la sede legale. L’universo è popolato da 2.649 società di capitali, poco meno
dell’82% delle quali sono società a responsabilità limitata; il restante 18% è composto
da società per azioni. Si tratta di una composizione del tutto simile a quella del 2008,
quando su 2.642 imprese le società per azioni erano il 18,4%.
Tabella 4.3
Scomposizione dell’universo per forma giuridica e territorio.
Forma giuridica (universo 2010)
SpA
Srl
Totale
Tabella 4.4
998
Totale
1651
2649
Scomposizione del campione per forma giuridica e territorio.
Forma giuridica (campione 2010)
SpA
Srl
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
Imprese
%
Imprese
%
Imprese
%
254
25,45%
225
13,63%
479
18,08%
744
74,55% 1426 86,37% 2170 81,92%
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
imprese
%
imprese
%
imprese
%
105
26,38%
89
15,21%
194
19,74%
293
73,62%
496
84,79%
789
80,26%
398
585
983
La maggior parte delle imprese censite dall’Osservatorio ha sede legale nel Nord Italia e
più in particolare in Piemonte, regione di riferimento per il settore e per il presente
rapporto. Questo non significa che non esistano regioni centro-meridionali fortemente
caratterizzate dalla presenza di distretti automotive: spesso il loro numero è
sottostimato solo perché le imprese piemontesi e del resto d’Italia o le multinazionali
hanno mantenuto sede legale presso le città alle quali sono tradizionalmente legate per
nascita. Se i dati di alcune regioni come Lazio, Campania e Puglia sono già significativi,
per altre (la Basilicata su tutte) è in corso un aggiornamento.
69
Figura 4.1
Distribuzione regionale delle imprese del database per sede legale (2010).
4.1.3 L’universo come “arancia”: classificazione delle imprese in “spicchi”
Avendo accennato alla natura giuridica e all’appartenenza geografica delle imprese
dell’universo, dobbiamo ora affrontare la terza dimensione che caratterizza la
composizione del campione oggetto di indagine.
Ormai da qualche anno, infatti, il cluster nazionale non è analizzato solo come corpo
unico ma trasformato in un’“arancia” composta da diversi “spicchi”: fornitori di moduli e
sistemi (OEM, costituito soprattutto da grandi imprese multinazionali italiane ed estere),
engineering and design (E&D), specialisti (produttori di parti e componenti con un
contenuto di innovazione e specificità tale da costituire un vantaggio competitivo) e
subfornitori (parti e componenti più semplici, facilmente replicabili dalla concorrenza).
Le ultime due categorie vengono comprese nell’acronimo SS.
A ogni impresa nel database viene assegnata un’etichetta (MOD, SIST, E&D, SS) che
permette di classificare l’universo e campionarlo secondo tre parametri (territorio di
appartenenza, forma giuridica e sottosettore di attività) in modo da comporre un
campione rappresentativo della filiera. Nel corso delle interviste, viene poi verificata
70
l’esattezza dell’etichetta assegnata proponendo al responsabile dell’impresa una serie di
mestieri corrispondenti ai diversi sottocluster, come mostrano le tabelle sottostanti. Se il
rispondente dichiara di appartenere a un cluster diverso rispetto alle ipotesi di partenza
è premura dei ricercatori svolgere un’ulteriore verifica per assegnare un’etichetta
definitiva.
Tabella 4.5
I mestieri degli OEM.
Moduli elettronici integrati
Moduli in acciaio e alluminio
Moduli in materie plastiche
Sistemi di sicurezza attivi/passivi e controllo
Sistemi elettrici/elettronici
Sistemi fluidi/aria e comfort
Sistemi trasmissione/guida/frenata
Tabella 4.6
I mestieri degli E&D.
Studi di stile
Ingegneria e modellizzazione progettazione
Sviluppo piattaforme dedicate
Prototipizzazione
Produzione (autoveicoli, scocche, prototipi)
Validazione prodotto (testing e calcolo)
Logistica
Tabella 4.7
I mestieri di specialisti e subfornitori.
Attrezzature e stampi
Stampaggio
Fonderia
Alimentazione/scarico
Avviamento/accensione
Carrozzeria/abitacolo
Elettrici/elettronici
Illuminazione/segnalazione
Motore (base)
Sterzo/sospensione/frenata
Trasmissione
Assemblaggio
L’attribuzione delle etichette e il controllo sono svolti tramite diverse fonti: interviste
pregresse, elenchi camerali o di altre associazioni di categoria (ad esempio ANFIA),
elenchi presenti su siti internet specifici (www.subforservice.biz, fromconcepttocar.com
ecc.), pagine web aziendali e così via.
71
In seguito alle interviste e alle relative verifiche, si ottiene un campione suddiviso nei 4
“spicchi” presentati sopra: fornitori di moduli e sistemi (OEM), E&D (engineering and
design), specialisti e subfornitori.
La scomposizione degli SS tra “specialisti” e “subfornitori” è attuata tramite criteri
discriminanti: sono definiti specialisti i fornitori che dichiarano di investire una quota
superiore al 2% del loro fatturato in R&S e di generare più del 25% del fatturato grazie a
clienti presenti all’estero, oppure quelli che hanno dichiarato di spendere più del 2% del
fatturato in R&S e di appartenere almeno al secondo scalino della filiera, ovvero di
essere almeno tier II (fornitori di prodotti o servizi direttamente a costruttori o a
modulisti e sistemisti). L’utilizzo di questi criteri rende il segmento degli specialisti
permeabile e suscettibile di essere popolato da attori diversi (almeno parzialmente) di
anno in anno. In altre parole è possibile che un soggetto che corrispondeva ai requisiti
appena delineati nell’anno n cambi caratteristiche l’anno successivo, e quindi non sia più
definito
“specialista”
nell’anno
n+1.
Tale
flessibilità
è
necessaria
ai
fini
dell’individuazione, ogni anno, delle imprese che effettivamente sono caratterizzate da
un certo grado di innovazione e competitività internazionale. Le particolari condizioni di
mercato riscontrate nel 2009 hanno indotto i ricercatori a estendere la definizione degli
specialisti, per questa edizione dell’Osservatorio, anche a tutte le imprese rispondenti
che hanno dichiarato di soddisfare i criteri sopra citati per almeno 2 anni tra gli ultimi 3.
4.1.4 Il
campione
intervistato:
983
interviste
forniscono
un
quadro
rappresentativo della filiera
L’universo delle 2.649 imprese è stato indagato nel mese di marzo tramite interviste
telefoniche condotte con il metodo CATI50. Dal database prima descritto sono state
estratte a caso 983 aziende. Nonostante il periodo critico, anche quest’anno nell’arco di
tre settimane i responsabili di poco meno del 37% delle imprese della filiera censita
hanno accolto l’invito dell’Osservatorio e risposto a poco più di 20 domande che, oltre a
registrare le principali caratteristiche anagrafiche e dimensionali, sono servite ad
approfondire i risultati ottenuti nel 2009 e le loro principali determinanti. Accanto a
domande di recente inserimento – relative all’origine degli acquisti dei fornitori e
all’interesse per determinati mercati esteri – sono state riproposte alcune domande già
CATI (Computer-Assisted Telephone Interviewing) è una modalità di rilevazione diretta di unità statistiche
realizzata attraverso interviste telefoniche, durante le quali l’intervistatore legge le domande all'intervistato,
registrando le risposte su un computer, tramite un apposito software.
50
72
presenti nelle edizioni passate in modo da illustrare le dinamiche che caratterizzano la
filiera nel corso del tempo. Le interviste telefoniche sono state effettuate in
collaborazione con una società specializzata51 con cui l’Osservatorio collabora da più di
7 anni, ma quest’anno si è registrato un aumento dei momenti di confronto diretto con
gli operatori del settore. Grazie alla rafforzata collaborazione con ANFIA, il consueto
seminario durante il quale si sottopongono i primi risultati dello studio agli addetti ai
lavori è stato infatti affiancato da interviste personali con alcuni key player della filiera,
per avvalorare l’analisi condotta dai ricercatori e comprendere meglio i risultati del
settore.
L’universo è stato campionato in base a ragione di appartenenza dell’impresa (sede
legale), forma giuridica (Srl o SpA) e categoria (OEM, E&S, SS). I due cluster meno
numerosi (E&D e OEM) sono stati sovrarappresentati per ottenere stime il più accurate
e significative possibile; la distorsione che ne potrebbe emergere è stata eliminata al
momento delle proiezioni sull’universo.
Tabella 4.8
Campione 2010
Composizione del campione per cluster di attività.
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
imprese
%
imprese
%
imprese
%
E&D
106
26,63%
101
17,26%
207
21,06%
OEM
26
6,53%
26
4,44%
52
5,29%
SPEC
65
16,33%
72
12,31%
137
13,94%
SUB
201
50,50%
386
65,98%
587
59,72%
Totale
51
398
585
983
Vivavoce Srl di Ivrea.
73
Figura 4.2
Scomposizione del campione in cluster di attività (2010).
21%
ED
5%
OEM
SPEC
60%
14%
SUB
La suddivisione della fornitura è in parte riconducibile alla tradizionale classificazione
della filiera automotive che distingue tra fornitori di primo, secondo e terzo livello (tier
I, II e III) a seconda della posizione nella piramide della fornitura: si va dalle materie
prime, “a monte”, ai fornitori tier I che si interfacciano direttamente con gli assemblatori
finali “a valle”. L’84% dei modulisti e sistemisti vende i propri prodotti alla testa della
filiera. A cavallo tra il primo e il secondo livello si collocano gli specialisti, tra i quali il
57% rifornisce direttamente le case auto e il 49% modulisti e sistemisti52. Scendendo
ancora troviamo i subfornitori, che nel 60% dei casi appartengono al terzo livello della
fornitura. Infine il segmento E&D è composto da imprese che per il 47% forniscono
servizi alle case auto e per il 58% devono le loro commesse ai fornitori di secondo
livello.
4.1.5 La verifica del metodo utilizzato per stimare il fatturato: l’acquisizione dei
dati effettivi dai bilanci 2008 e il confronto con le stime della scorsa
edizione dell’Osservatorio basate su dati 2007
Da ormai tre anni l’Osservatorio associa a ogni società di capitale presente nel database
il numero di partita IVA, utilizzato come identificatore univoco. Questo permette di far
52 È possibile che il rispondente si collochi in più di uno scalino della piramide della fornitura, interfacciandosi per
alcune produzioni o per alcuni clienti direttamente con l’assemblatore finale o con un livello inferiore della catena.
74
dialogare questa banca dati con quella di AIDA53, che include tutti i dati relativi ai bilanci
delle imprese54. Nel 2010, per un universo di 2.649 aziende, ci si è potuti avvalere di un
database con ben 2.196 bilanci non consolidati di imprese con sede in Italia.
Inoltre, grazie alle interviste telefoniche, i ricercatori hanno raccolto 890 dichiarazioni
relative alla variazione (2009 su 2008) del fatturato totale e degli occupati (dipendenti e
collaboratori). Partendo dal dato di fatturato 2008 (estratto dai bilanci depositati) degli
890 rispondenti, i ricercatori hanno ottenuto il fatturato 2009 applicando le variazioni
percentuali dichiarate; dati di fatturato e variazioni sono poi stati raggruppati per
sottocluster presenti nel campione: l’Osservatorio divide il data set completo e il
campione in 8 sottocluster a seconda che la sede legale sia in Piemonte o nel resto
d’Italia e in base all’appartenenza agli “spicchi” dell’arancia. Le medie campionarie
ottenute per ognuno di questi sottocluster (OEM piemontesi, OEM del resto d’Italia, E&D
piemontesi ecc.) sono state proiettate sull’universo delle imprese di cui si conoscono i
dati di bilancio dell’anno precedente alle interviste. La stessa operazione è stata
effettuata per l’occupazione, ottenendo il fatturato medio per addetto per sottocluster.
Quest’anno inoltre il dato relativo all’occupazione è stato ricalcolato in base alle
dichiarazioni e ai dati di bilancio effettivi depositati.
Lo stesso metodo era stato impiegato l’anno scorso per proiettare le dichiarazioni del
campione su 2.183 imprese di cui si conoscevano i bilanci. Dalle proiezioni delle
variazioni medie per ogni sottocluster si era stimato un fatturato totale di filiera per il
2008 pari a 45 miliardi di euro. Oggi, essendo in possesso dei dati di bilancio depositati,
sappiamo che sommando i fatturati 2008 delle imprese analizzate si ha un totale di
filiera pari a 46,2 miliardi di euro. Dunque possiamo affermare che la stima presentata
dall’Osservatorio l’anno scorso era inferiore al dato effettivo del 2,6% appena, e che è
ragionevole pensare che il metodo usato dai ricercatori sia valido.
53 AIDA è un database prodotto e commercializzato da Bureau VanDijk Electronic Publishing, che raccoglie i bilanci
(consolidati e non) depositati dalle società di capitali con sede in Italia.
54 I dati estratti riguardano le macrovoci dello stato patrimoniale e del conto economico, oltre ad alcuni indici di
bilancio e al numero di dipendenti, che AIDA registra per le imprese che lo segnalano.
75
Tabella 4.9
Verifica sulla validità delle stime effettuate dall’Osservatorio lo scorso anno.
Numero
imprese
Data set 2009 (anno scorso)
Stima di fatturato 2008 dello scorso Osservatorio
Fatturato 2008 effettivo registrato dai bilanci
delle 2.183 imprese del data set passato
Milioni di euro
Errore
commesso
nella stima lo
scorso anno
2.183
€ 45.039
€ 46.246
-2,6%
4.2 I risultati della filiera nel quadro di una crisi internazionale
4.2.1 Nel 2009 il fatturato totale della filiera diminuisce del 15,8%
Prima di entrare nel dettaglio delle caratteristiche della filiera e dei diversi sottocomparti indagati quest’anno, è lecito chiedersi quale sia stato l’impatto del
rallentamento complessivo della produzione mondiale e nazionale sui fabbricanti di
parti e componenti della filiera locale, che nel 2009 vanta fatturati intorno ai 41,7
miliardi di euro (di cui 37,9 provenienti dal settore automotive), equivalente ai ricavi
della parte automotive del Gruppo Fiat. I ricavi delle sole imprese con sede legale in
Piemonte arrivano a 21,2 miliardi di euro, di cui 18,9 dovuti all’automotive.
L’indagine evidenzia come il rallentamento della domanda e dell’offerta finale di
autoveicoli abbia frenato i fatturati delle aziende fornitrici di componenti e servizi per il
15,8% (variazione 2009 rispetto all’anno precedente).
Nel 2008 la filiera aveva iniziato ad accusare una flessione dei fatturati, contenuta però
grazie al fatto che la crisi non si era manifestata fino al secondo semestre dell’anno, e
grazie all’utilizzo di ammortizzatori come gli stock e a una diversificazione della
produzione verso settori manifatturieri colpiti in misura minore dalla congiuntura
negativa. Nel 2009 il perdurare della crisi, alleviato solo dagli stimoli governativi alla
domanda dei consumatori finali, ha costretto la stragrande maggioranza degli
assemblatori finali a rimodulare verso il basso i propri piani produttivi. È bene ricordare
che OICA ha registrato una caduta della produzione autoveicolare in Europa pari al
17,3% (-19,4% per l’Europa occidentale) e che ANFIA ha riferito una frenata della
produzione nazionale di autoveicoli pari al 17,6%. Con dati del genere non ci si poteva
aspettare che i fatturati 2009 delle imprese che nella grande maggioranza producono
76
parti, componenti e servizi per l’automotive si discostassero in misura significativa dal
trend. Proiettando le dichiarazioni degli 890 rispondenti di quest’anno sull’universo
delle imprese di cui possediamo il bilancio (2.196)55 si ottiene un fatturato complessivo
per il 2009 più basso del 15,8%. Per le imprese che hanno sede legale in Piemonte si
stima un -16,5%, in linea con il resto d’Italia (-14,9%).
Figura 4.3
Variazione percentuale del fatturato totale 2009 rispetto al 2008, e confronto con
la variazione registrata nel 2008 rispetto al 2007.
2008
-20,0%
-15,0%
-10,0%
-5,0%
0,0%
-15,8%
-16,5%
-14,9%
-16,0%
-13,6%
-17,1%
-15,9%
TOTALI
-2,6%
Piemonte
-4,0%
Resto d'Italia -1,1%
ED
-1,6%
OEM
-5,5%
SPEC
-0,7%
SUB
-2,7%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
Entrando nel dettaglio, si nota che i risultati degli “spicchi dell’arancia” sono
sostanzialmente allineati: la flessione dei ricavi ha coinvolto i tre quarti delle imprese e
in misura omogenea tutti i territori e i segmenti di prodotto analizzati. Si va dal -13,6%
dei fornitori di moduli e sistemi al -17,1% degli specialisti. I risultati possono derivare
dagli andamenti dei mercati di riferimento, da traiettorie delle singole imprese o da
fenomeni che interessano gruppi di aziende omogenei. Ad esempio gli OEM, come
vedremo, sono mediamente più legati alle sorti del Gruppo Fiat, che nel 2009 in Europa
ha immatricolato il 6,3% delle auto in più rispetto all’anno precedente (contro il -1,4%
del mercato), registrando la seconda variazione positiva più alta tra i maggiori 10 gruppi
dopo Nissan (+9%). Al contrario, gli specialisti denunciano una maggiore difficoltà
55
Per maggiori informazioni sul metodo usato si veda il paragrafo precedente.
77
rispetto agli altri cluster: le più colpite sono le imprese che hanno una dimensione
ridotta e meno potere negoziale con le multinazionali tier I e le case costruttrici, ma
anche con i fornitori di materie prime o grezze. Coerentemente con la loro definizione,
per gli specialisti il settore automotive sul totale del fatturato pesa per il 94% – più che
per gli altri cluster e della media di filiera, che si colloca poco sotto il 91%.
Tabella 4.10 Sintesi delle performance rispetto alla dinamica dei fatturati 2009 su 2008, e
56
scomposizione per segmenti (“spicchi dell’arancia”) .
Decresciute
Stabili
Cresciute
Rispondenti
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
TOTALE
imprese %
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
125 66,1%
9 75,0%
22 62,9%
100 78,1%
426 79,3%
682 75,7%
51 27,0%
2 16,7%
9 25,7%
15 11,7%
69 12,8%
146 16,2%
13 6,9%
1 8,3%
4 11,4%
13 10,2%
42 7,8%
73 8,1%
189
12
35
128
537
901
Sapendo che la filiera automotive ha accusato la crisi più di altri settori, non sorprende
constatare che chi dipende di più dalle produzioni automotive ha registrato
performance peggiori rispetto alla media della filiera. Estraendo dal campione le 427
imprese iscritte nei registri camerali con il codice Ateco 2007 legato strettamente al
settore di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (CL 29), notiamo che devono al solo
settore automotive il 95% dei propri ricavi e hanno registrato una variazione di
fatturato 2009 su 2008 pari al -17%.
È necessario inoltre precisare che nel calcolo della variazione del fatturato non sono
incluse le imprese che hanno cessato la produzione, poiché le interviste sono condotte
solo con imprese in attività. L’aggiornamento del database ha però evidenziato che 166
delle imprese appartenenti all’universo risultano “cessate” nei registri camerali, e che di
queste 97 hanno in corso una procedura di liquidazione fallimentare. Per renderci conto
del loro peso in termini di fatturato risaliamo ai bilanci depositati ancora nel 2007 da
138 di queste: i dati sui ricavi ammontano a 800mila euro.
Come vedremo nel corso dei paragrafi seguenti, sebbene la crisi abbia inciso sui risultati
della filiera automotive italiana, non sono mancate imprese che hanno saputo
sconfiggerla (l’8% del campione) o comunque resistervi (il 16% dichiara di aver
56 Il totale non è 983 imprese, perché solo 901 hanno risposto alla domanda sulla variazione del fatturato 2009
rispetto al 2008. Di queste 901 imprese, 890 hanno i dati di bilancio usati per stimare la filiera totale.
78
registrato ricavi 2009 in linea con il 2008). Anche i dati relativi a innovazione, nuovi
prodotti, partner e mercati sono incoraggianti.
Tabella 4.11
Piemonte.
Stima di fatturato 2009 e dipendenti della filiera automotive in Italia e in
57
ITALIA
Imprese Dipendenti 2008 Dipendenti 2009 Fatturato 2008 Fatturato 2009 Fatturato auto 2009
(dato da bilancio)
(stima)
(stima)
(stima)
(stima)
in MLD
in MLD
in MLD
TOTALI
2.196
204.913
171.227
€ 49.589
€ 41.773
€ 37.916
Piemonte
880
101.780
84.097
€ 25.496
€ 21.279
€ 18.996
Resto d'Italia
1.316
103.133
87.130
€ 24.093
€ 20.494
€ 18.920
ED
250
31.330
26.193
€ 5.091
€ 4.274
€ 3.609
OEM
62
32.557
28.129
€ 10.496
€ 9.069
€ 8.276
SPEC
315
52.370
42.711
€ 13.603
€ 11.274
€ 10.615
SUB
1.569
88.657
74.194
€ 20.399
€ 17.157
€ 15.416
PIEMONTE
Imprese Dipendenti 2008 Dipendenti 2009
(stima)
Piemonte
ED
OEM
SPEC
SUB
880
131
34
159
556
101.780
24.344
17.035
27.141
33.259
(stima)
84.097
20.084
15.559
20.034
28.420
Fatturato 2008 Fatturato 2009 Fatturato auto 2009
(stima)
(stima)
(dato da bilancio)
in MLD
in MLD
in MLD
€ 25.496
€ 21.279
€ 18.996
€ 3.600
€ 2.970
€ 2.425
€ 5.277
€ 4.799
€ 4.389
€ 5.931
€ 4.378
€ 4.000
€ 10.688
€ 9.133
€ 8.182
4.2.2 Le direttrici del fatturato: l’ampiezza della crisi del 2009 riduce i margini di
manovra delle strategie di contrasto
Nel paragrafo precedente, dopo aver esposto i risultati aggregati relativi alla variazione
del fatturato 2009 sul 2008, abbiamo cominciato a scomporre il dato per far luce sulle
determinanti di questa dinamica. Se ripensiamo al passato, e più precisamente alle crisi
vissute da fine anni Novanta a oggi, possiamo ricordare che sono state affrontante
diversificando il portafoglio clienti secondo diverse strategie: incremento dei clienti
assemblatori finali, produzione non solo di autoveicoli ma anche di veicoli industriali,
commerciali e addirittura autobus, intercettazione di commesse di settori diversi
57 Il dato 2008 è stato ricalcolato quest’anno in base ai bilanci 2008 (depositati) ed alle imprese presenti nella filiera
all’aprile-maggio 2010 di cui disponiamo del bilancio (per l’anno 2008). Il dato del fatturato complessivo 2008 si
discosta quindi da quello fornito lo scorso anno, sia perché non si tratta più di stime (lo scorso anno stimavamo il
valore partendo dal dato di bilancio 2007 e applicando la variazione - 2008 su 2007 - dichiarata dai rispondenti,
sottostimando il fatturato di filiera di un 2,6%); sia perché nel frattempo l’universo di riferimento (imprese della
filiera di cui si dispone del dato di bilancio) è cambiato: fra il 2008 e l’inizio del 2010 infatti abbiamo aggiornato
l’universo tenendo conto delle 166 imprese che non sono più attive, delle 83 che non fanno più parte della filiera
autoveicolare e di 202 nuovi inserimenti (imprese che precedentemente non erano presenti nel data base).
Sommando i fatturati delle 2.196 di cui l’Osservatorio possiede i dati di bilancio 2008 si ottiene un fatturato totale
2008 (automotive e non) pari a 49,6 miliardi di euro.
79
dall’automotive. L’ampiezza della crisi attuale, però, ha ridotto questi margini di
manovra. La diversificazione verso altri comparti produttivi, ad esempio, era stata una
prima risposta nel 2008 ma non ha potuto continuare a funzionare con l’estendersi della
crisi alla quasi totalità del settore manifatturiero. Ne è un esempio il cluster E&D, che
proprio nel 2008 era riuscito sostanzialmente a mantenere il livello di fatturato
raggiunto nel 2007 grazie alla maggior tenuta degli altri settori: nel 2009, pur non
registrando una variazione della “quota auto” significativa (sempre circa 84%), ha subito
una flessione dei fatturati totali del 16%.
Figura 4.4
Ripartizione del fatturato 2009 per prodotto finito.
5,2%
Auto
Veicoli Industriali e
Commerciali
31,4%
Autobus e Pullman
63,4%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
Nel 2009 inoltre è mancato un altro importante sostegno ai ricavi della filiera: la
produzione di veicoli industriali e commerciali, autobus e pullman. Nel 2008 si era
registrata una riduzione del 27,6% della produzione nazionale di autovetture. Nel 2009
quel livello è stato sostanzialmente mantenuto (+0,3%), mentre i veicoli industriali e
commerciali hanno visto le unità prodotte dimezzarsi. Tali dinamiche si riflettono nella
parte dei ricavi che l’intera filiera deve a ognuna delle suddette categorie: nell’arco di un
solo anno il peso dei veicoli industriali e commerciali è sceso dal 37% (sul totale del
fatturato dell’universo indagato) al 31,4%.
Uno dei canali che invece ha patito meno di altri le conseguenze della congiuntura è
quello relativo alla produzione per il cosiddetto secondo impianto. Si tratta della
produzione rivolta non alle linee produttive ma a tutti coloro (dai privati alle officine)
80
che vogliono o devono sostituire una parte o una componente di un mezzo. È chiaro
quindi che, soprattutto per i beni usurabili (pensiamo ad esempio ai pneumatici), sono
acquisti necessari difficilmente eludibili o rimandabili. Si potrebbe addirittura affermare
che l’aftermarket beneficia del rallentamento del mercato delle vetture nuove: se un
consumatore decide di rimandare l’acquisto di un mezzo dovrà spendere di più per la
manutenzione e la sostituzione di parti di quello vecchio. Le valutazioni degli esperti di
ANFIA sul settore riportano una flessione del fatturato del 5% circa. Non stupisce quindi
constatare che sul totale della filiera la parte del fatturato derivante dal mercato per il
secondo impianto è passata in un solo anno dal 13% del 2008 al 18,6% del 2009. Da
quest’anno l’Osservatorio ha cominciato a far luce su questo settore della filiera,
storicamente forte in Italia grazie alla capacità delle nostre imprese di essere flessibili e
rispondere in tempi veloci e con lavorazioni diverse alla domanda di mercato –
caratteristiche particolarmente apprezzate quando è necessario rapportarsi a un
numero di modelli e relativi componenti molto più elevato rispetto a quelli ancora in
produzione nelle linee di assemblaggio. Ultimamente però i nostri produttori si devono
confrontare con la concorrenza di prodotti provenienti da paesi – la Cina in particolare –
dove materiali e manodopera sono più economici. Nonostante i pezzi di ricambio spesso
abbiano una qualità nettamente inferiore rispetto a quelli prodotti in Italia, il prezzo
rappresenta una leva molto efficace.
Figura 4.5
Ripartizione
del
fatturato
2008
per
primo
e
secondo
impianto
(aftermarket).
Primo Impianto
Aftermarket
81,4%
18,6%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
81
4.2.3 I clienti della filiera: l’importanza del Gruppo Fiat
A partire dall’anno scorso è stata chiesta la collaborazione delle imprese intervistate per
ricostruire, all’interno di una sola domanda, il quadro dei loro macro clienti. Dopo 12
mesi di prova quest’anno la risposta in termini qualitativi e numerici è stata ancora
migliore. Su 100 euro di ricavi totali della filiera la parte dovuta al Gruppo Fiat è pari a
63,2 euro: 44,2 euro sono dovuti a commesse nazionali dirette o indirette verso il
Gruppo Fiat, 19 euro a commesse destinate agli stabilimenti del gruppo oltre confine.
Figura 4.6
estero).
Ripartizione del fatturato 2009 per cliente finale (Gruppo Fiat e non, Italia ed
ITALIA no FIAT
13,2%
ITALIA vs FIAT
44,2%
EXPORT vs
FIAT
19,0%
EXPORT no
FIAT
23,6%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
Non stupisce registrare un aumento della quota di Fiat in un anno in cui i marchi del
gruppo hanno ottenuto sul mercato europeo performance migliori rispetto ai
concorrenti (+6,3% contro una media continentale pari al -1,6%). Il buon andamento
delle produzioni del segmento A localizzate in Polonia (Fiat Panda e 500) ha
sicuramente favorito le esportazioni italiane verso Fiat, che hanno aumentato il loro
peso sul totale dei ricavi dal 13,6% del 2008 al 19% del 2009. Se quindi è vero che nel
2009 i componentisti italiani hanno in proporzione lavorato di più per Fiat rispetto agli
ultimi anni, questo è avvenuto soprattutto grazie alla domanda degli stabilimenti esteri,
che rappresenta quasi un quarto della domanda totale del gruppo. I segmenti che più di
altri sono stati in grado di intercettare tale crescita sono stati i fornitori di primo livello
82
di Fiat (che hanno con l’azienda rapporti storici che valicano i confini nazionali) e gli
specialisti, che hanno fatto leva su prodotti più concorrenziali.
Figura 4.7
Destinazione del fatturato verso il Gruppo Fiat e i suoi fornitori diretti e indiretti
(quota del fatturato totale).
Estero
0,0%
20,0%
TOTALE
19,0%
Piemonte
18,1%
Resto Italia
19,9%
ED
14,6%
OEM
28,3%
SPEC
27,8%
SUB 8,9%
40,0%
60,0%
80,0%
100,0%
Italia
44,2%
60,0%
28,4%
30,6%
46,6%
33,0%
53,9%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
Se le commesse dei clienti esteri diversi da Fiat hanno subito una flessione in linea con la
media totale, il peso dei clienti nazionali differenti dal Gruppo Fiat si è ridotto
sensibilmente anche a causa delle difficoltà di settori come quelli di carrozzerie e veicoli
commerciali.
La maggiore dipendenza da Fiat rispetto a qualche anno fa sembra quindi essere dovuta
a una più forte domanda da parte del gruppo, più che a un’inversione di tendenza
strutturale che vede i nostri componentisti perdere clienti diversi dalla casa torinese. Lo
dimostra il fatto che il 66% del campione ha clienti diversi da Fiat in Italia, e la metà
degli intervistati ha dichiarato ancora nel 2009 di aver lavorato per commesse di clienti
non legati al gruppo.
Piuttosto è positivo constatare come la filiera abbia ottime capacità di risposta agli
stimoli commerciali e produttivi da parte di uno dei suoi clienti principali, che negli
ultimi anni ha aumentato la produttività, chiedendo ai fornitori di fare altrettanto e
aumentando il grado di internazionalizzazione della catena di fornitura. Dimostrarsi in
grado di intercettare la domanda proveniente dal gruppo del Lingotto, peraltro, è una
83
premessa che fa ben sperare in vista del piano industriale di Fiat Group Automobiles58
2010-2014 e dei relativi maggiori investimenti, volumi e orizzonti temporali dei
contratti di fornitura.
La storia recente di Fiat impone di confrontarsi con un altro fenomeno significativo: la
diminuzione del numero di fornitori con cui gli assemblatori e i fornitori di primo livello
si interfacciano. È ormai una politica comune a tutte le case auto (e dei loro fornitori
multinazionali) ridurre il numero di clienti con cui tenere rapporti diretti. Nel solo 2009
Ford è passata da 1.683 fornitori diretti a 850, e ha come obiettivo arrivare a 750 nei
prossimi anni. Anche Fiat ha avviato una politica per dimezzare il numero di fornitori
che aveva nel 2008 entro il 2012. La stessa Bosch, che ancora nel 2000 aveva un parco di
25mila fornitori, nel 2009 li aveva ridotti a 7mila con l’obiettivo di portarli a 5mila. Il
fenomeno è ultimamente accentuato dal consolidamento in atto: le case costruttrici che
si fondono o promuovono alleanze si mettono subito al lavoro per condividere almeno
parte del parco fornitori. Ridurre il numero di soggetti con cui interfacciarsi dovrebbe
favorire il controllo sulla catena di fornitura con ricadute positive in termini di qualità,
affidabilità, solidità finanziaria, diminuzione del time to market, economie di scala e
minori costi di transazione.
A fronte delle maggiori opportunità che offre, Fiat chiede il rafforzamento delle reti
internazionali per diventare fornitori globali e poter seguire il gruppo sia nelle
produzioni in Italia sia in quelle all’estero. Ma a che punto è la filiera sulla strada
dell’internazionalizzazione?
4.2.4 L’internazionalizzazione della filiera: riduzione dei volumi ma maggiore
presenza nei mercati esteri
La crisi ha interessato buona parte delle industrie automotive nazionali, e in particolare
lo scorso anno ha innescato un calo della produzione nell’Unione Europea pari al 17,3%.
È quindi stato oggettivamente più difficile raccogliere commesse all’estero, al punto che
più della metà dei rispondenti (il 57,4%) ha riportato una riduzione dei ricavi
provenienti dall’estero nel 2009; un rispondente su cinque dichiara una perdita
superiore al 20%. Le imprese che nel 2009 hanno incrementato il fatturato grazie a
clienti oltre confine sono l’11,5% del totale dei rispondenti. Incrociando le dichiarazioni
58
Per maggiori dettagli rimandiamo al capitolo precedente.
84
dei rispondenti con i loro fatturati, si ottiene che nel 2009 la media dei ricavi dovuti
all’estero è diminuita del 15% per il totale del campione e del 12% per le imprese
piemontesi59.
Figura 4.8
Percentuale di fatturato estero sul totale della filiera (esportatori e non), con
scomposizione per segmenti e confronto con il 2008.
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
Il dato positivo è rappresentato dai 617 intervistati (il 62,8% del campione) che
nonostante l’anno difficile sono riusciti a vendere prodotti e servizi nei mercati esteri,
non solo europei. Le imprese piemontesi hanno confermato una maggiore presenza sui
mercati internazionali: ben il 69% di loro ha mantenuto commesse estere, contro il
58,5% nel resto d’Italia. I ricavi provenienti dall’estero nel 2009 hanno costituito il
42,6% del fatturato totale delle filiera, che comprende ovviamente anche i non
esportatori.
59 Questi dati differiscono da quelli ISTAT riportati nel Capitolo III perché si basano su due indagini e due campioni,
almeno in parte, diversi. Grazie all’aggiornamento del database condotto ogni anno con la collaborazione dell’ufficio
studi della Camera di Commercio di Torino, l’universo (e il campione) analizzato dall’Osservatorio intercetta un
numero crescente di imprese non strettamente rispondenti ai codici ISTAT relativi alla produzione di autoveicoli e
loro parti (codice CL 29, Ateco 2007), ma che ugualmente svolgono un ruolo importante nella filiera automotive
italiana. Basti pensare che su 890 imprese intervistate quest’anno, di cui l’Osservatorio conosce i dati di bilancio
(2008), quelle che hanno il codice CL 29 (Ateco 2007) sono 427.
85
Tabella 4.12
rispondenti).
Scomposizione del campione e dei segmenti tra esportatori e non, (in % dei
ED
imprese
Non
esportatori
Esportatori
Rispondenti
MOD
%
57 27,5%
150 72,5%
207
imprese
SIST
%
3 23,1%
10 76,9%
13
imprese
SPEC
%
8 20,5%
31 79,5%
39
imprese
SUB
%
22 16,1%
115 83,9%
137
imprese
%
276 47,0%
311 53,0%
587
TOTALE 2008
TOTALE 2009
imprese
imprese
%
333 37,8%
549 62,2%
887
%
366 37,2%
617 62,8%
983
Osservando la quota degli esportatori sul totale del campione nel corso degli ultimi anni
si può notare il picco registrato nel 2007, l’ultimo anno prima della crisi, durante il quale
il 64% delle imprese (rispetto al 62% dell’anno precedente) aveva avuto accesso ai
mercati esteri. Al manifestarsi della crisi (2008) il livello degli esportatori era tornato
attorno al 62,2%, per assestarsi poi lo scorso anno al 62,8%. Dunque esiste ormai una
quota di imprese stabile intorno al 62% (superiore alla media degli altri comparti) che
ha strutturalmente acquisito commesse all’estero, e può affrontare variazioni
congiunturali dei loro importi dovute alla domanda finale di autoveicoli. Analizzando i
dati relativi ai vari segmenti del settore notiamo che sono le imprese specialistiche ad
avere la maggior percentuale di esportatori (83,9%), ma anche i fornitori di servizi
ingegneristici e di design hanno una significativa presenza all’estero (il 72,5% del
totale). Il cluster meno rappresentato nei mercati oltre confine è quello dei subfornitori,
che però negli ultimi anni sono stati costretti a investire nella ricerca di clienti stranieri,
al punto che oggi più della metà (il 53%) non dipende più esclusivamente da commesse
nazionali.
Se da una parte gli imprenditori denunciano la concorrenza dei prodotti esteri –
soprattutto di quelli provenienti da paesi che fanno leva sul prezzo (come India e Cina) –
come crescente minaccia alla tenuta delle quote di mercato, nei prossimi anni la ripresa
della produzione in Europa e una maggiore presenza del Gruppo Fiat all’estero (dalla
Serbia al Nord America) rappresentano indubbie opportunità per i nostri componentisti.
Sono già 96 le imprese che hanno un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, e 91 quelle
che fanno affari con l’Asia. 154 rispondenti hanno dichiarato di aver conquistato nuovi
mercati negli ultimi anni, o di investire in questa direzione per il 2010. Analizzando le
loro risposte si nota come – nonostante l’Europa occidentale rimanga un mercato
importante (menzionata da 66 di loro) – acquistino sempre più peso le nuove frontiere
86
della produzione automotive: non soltanto l’Europa centrale (34 rispondenti), ma anche
i paesi dell’area NAFTA (26) e dell’ Asia (56).
Figura 4.9
Intensità della presenza commerciale all’estero degli esportatori (numero di
accessi nei primi 3 mercati esteri da parte dei 602 rispondenti).
11
116
773
96
42
19
28
19
17
21
11
15
11
5
Figura 4.10
I nuovi mercati conquistati (o in corso di essere conquistati) negli ultimi anni o
quelli dove stanno concentrando i maggiori sforzi commerciali (e/o produttivi). (Dichiarazioni
da parte di 154 aziende, sulle 602 con clienti all’estero).
11
34
66
26
14
4
22
10
6
20
4
5
8
2
87
Infine, notiamo ormai da qualche anno che l’internazionalizzazione delle nostre imprese
comporta sempre di più una presenza produttiva in loco. Osservando la dinamica delle
chiusure e delle aperture degli stabilimenti per collocazione geografica si può notare che
il saldo positivo maggiore spetta proprio ai paesi esteri.
Tabella 4.13 Chiusure e aperture di unità locali in Piemonte, nel resto d’Italia e all’estero
negli ultimi 3 anni.
Aperture
Chiusure
Saldo
Numero imprese Numero stabilimenti Numero imprese Numero stabilimenti Numero stabilimenti
Piemonte
4
6
9
10
-4
Resto d'Italia
11
15
7
7
8
Estero
17
25
6
13
12
Totale
32
46
22
30
16
Per completare il quadro relativo agli scambi commerciali tra Italia (e Piemonte) e resto
del mondo, quest’anno abbiamo chiesto al campione di ripartire gli acquisti a seconda
della regione di origine. Poco meno di un intervistato su tre ha dichiarato di rifornirsi di
componenti e materie prime da imprese che hanno l’unità locale in Piemonte, mentre
circa la metà ha ormai una rete di fornitura che supera i confini nazionali
4.3 I driver dei progetti di crescita
4.3.1 Il portafoglio prodotti
Figura 4.11
Scomposizione del fatturato per tipologia di prodotto (percentuali dichiarate
dagli 890 rispondenti, sul fatturato stimato 2009).
Prodotti Innovativi
0%
20%
TOTALE
19,9%
Piemonte
18,6%
Resto Italia
OEM
SPEC
SUB
40%
80%
29,5%
37,5%
25,3%
29,8%
12,5%
60,1%
33,8%
53,2%
100%
33,5%
41,3%
27,4%
11,0%
60%
51,9%
44,9%
18,4%
Prodotti da Sostituire
46,6%
21,2%
ED
Prodotti Maturi
47,8%
35,8%
88
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
4.3.2 La spesa in ricerca e sviluppo: aumentano le collaborazioni con le altre
imprese e l’impegno nelle tecnologie verdi
Nonostante le difficoltà incontrate nel 2009 le nostre imprese non hanno rinunciato a
investire in ricerca e sviluppo. L’ammontare assoluto di questa voce di spesa è diminuito
ma in proporzione equilibrata con i ricavi, talvolta addirittura inferiore. Anche nel 2009
il 2,6% dei proventi dalle vendite è stato destinato ad attività di ricerca e sviluppo.
Le multinazionali che forniscono moduli e sistemi e gli specialisti si confermano come i
soggetti la cui spesa in ricerca e sviluppo è maggiormente strutturata: entrambe le
categorie dichiarano infatti di investire in questa attività il 3,6% del proprio fatturato.
Altri attori come i subfornitori, che hanno un numero minore di strutture e addetti
dedicati a tali attività, non contabilizzano l’effettivo sforzo compiuto sulla frontiera
dell’innovazione di prodotto e di processo: la quota di investimento si ferma all’1,4%.
89
Tabella 4.14
compreso.
Le fonti per l’attività di ricerca e sviluppo dell’impresa dal 2008 al 2010
Interne all’impresa o al gruppo
Progetti di ricerca o sviluppo in
partnership con altre imprese
Partecipazione a programmi di ricerca
pubblici nazionali o internazionali
Clienti
Fornitori
Università, centri e istituti di ricerca
pubblici o privati
Altro
Non rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
Piemonte
Imprese
%
378
95,5%
Resto d'Italia
Imprese
%
566
98,1%
Totale
Imprese
944
%
97,0%
37
9,3%
66
11,4%
103
10,6%
7
1,8%
3
0,5%
10
1,0%
125
45
31,6%
11,4%
178
56
30,8%
9,7%
303
101
31,1%
10,4%
44
11,1%
48
8,3%
92
9,5%
2
396
398
0,0%
0,5%
99,5%
8
577
585
0,0%
1,4%
98,6%
0
10
973
983
0,0%
1,0%
99,0%
Il rapporto tra la filiera produttiva e le università è ormai maturo: 92 imprese
intervistate, di cui 44 piemontesi, hanno da poco attivato progetti con strutture di
ricerca universitarie. I dipartimenti universitari e le strutture pubbliche si dedicano non
solo ad attività di laboratorio ma anche a programmi più articolati; gli interlocutori
principali sono i fornitori di primo livello, a cui più di altri si chiede uno sforzo continuo
in questo senso. Il grado di complessità crescente del prodotto auto e delle sue parti
richiede una stretta collaborazione tra imprese della filiera e strutture esterne. Infatti,
non solo le grandi aziende multinazionali non hanno al loro interno tutte le competenze
necessarie a rispondere alle continue sfide poste dalle richieste dei clienti e dal mercato,
ma l’innovazione in questo (e in altri) settori è sempre più trasversale ad altri comparti:
nanotecnologie, energia, scienza dei materiali, elettronica, infomobilità, ambiente ecc.
Inoltre quest’anno ci sono stati notevoli segnali di una maggiore collaborazione tra le
imprese a cominciare dal rapporto con i clienti (ritenuti una fonte importante per le
attività di ricerca e sviluppo da parte del 30% del campione; lo scorso anno questo dato
si fermava al 20%) e con i fornitori (10%, contro il 5,3% dell’anno scorso), ma anche
nella ricerca di partner “altri” (10,6%, contro il 7,5% degli anni passati).
Di fronte alle difficoltà congiunturali le imprese non sono state ferme: la maggior parte è
intervenuta per ristrutturare e innovare il processo produttivo (il 58% del campione),
ma non sono mancati il rinnovamento del catalogo aziendale (30%) o l’offerta ai clienti
di prodotti innovativi non ancora presenti sul mercato (13,4%). Quasi il 70% delle
imprese piemontesi si è impegnata in almeno una di queste azioni.
90
Tabella 4.15
Investimenti delle imprese negli ultimi 3 anni (dal 2008 al 2010 compreso).
Piemonte
Imprese
%
Resto d'Italia
Imprese
%
Totale
Imprese
%
Innovazioni nel processo produttivo
235
59,0%
334
57,1%
569
57,9%
Prodotti/servizi nuovi per l’azienda, ma già
esistenti sul mercato.
113
28,4%
182
31,1%
295
30,0%
Prodotti/servizi completamente nuovi non
presenti precedentemente sul mercato.
56
14,1%
76
13,0%
132
13,4%
26
6,5%
22
3,8%
48
4,9%
128
0
32,2%
0,0%
217
4
37,1%
0,7%
345
4
35,1%
0,4%
Depositato brevetti in Italia o all’estero
Non è intervenuta in alcun modo sui prodotti,
servizi o processi
Altro
Non rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
398
100,0%
398
585
100,0%
585
983
100,0%
983
Nonostante la crisi abbia inciso sui risultati delle imprese della filiera automotive
italiana, le risposte in termini di innovazione, nuovi prodotti, partner e mercati sono
state pronte ed efficaci. La frontiera dell’innovazione di prodotto e di processo si
conferma uno dei campi più importanti in cui le imprese operano quotidianamente.
Sarà fondamentale il rafforzamento dei percorsi già avviati nella collaborazione con
strutture e comparti diversi da quelli interni e dall’automotive, e con altre imprese della
filiera o altri cluster. Un quinto del fatturato di filiera, infatti, deriva da prodotti
innovativi con pochi concorrenti, ma un terzo proviene invece da lavorazioni o servizi
che garantiscono ormai margini modesti e che sono più facilmente attaccabili dalla
concorrenza estera, soprattutto quella delle economie dei paesi in via di sviluppo, dove
la manodopera e i materiali costano meno. I più preparati sembrano essere gli E&D, che
generano quasi il 50% dei propri proventi grazie ai prodotti innovativi. Gli OEM hanno
un 25% di prodotti innovativi, e hanno rivoluzionato il loro portafoglio eliminando i
manufatti che rendevano meno. Sensibili alla concorrenza sono infine gli specialisti,
impegnati a diminuire la quota di fatturato (attualmente del 47,7%) attribuibile a
prodotti che rendono ormai poco in termini di valore aggiunto.
Tra le nuove offerte e opportunità commerciali, un posto importante è senza dubbio
riservato alla categoria del green tech. In un solo anno le imprese attive in questo settore
sono passate dal 12% al 23% del campione: 72 in Piemonte e 150 nel resto d’Italia. Le
più attive sul fronte dei motori alternativi al diesel o al motore a scoppio sono le aziende
91
di E&D, mentre gli specialisti si affermano come il segmento più impegnato a lavorare su
tutto lo spettro delle tecnologie verdi: un 30% di questo cluster ha recentemente
intrapreso progetti “green”.
Tabella 4.16 Imprese che hanno promosso progetti nel campo delle tecnologie per
autoveicoli più puliti negli ultimi 3 anni (dal 2008 al 2010 compreso).
Piemonte
Imprese
%
Resto d'Italia
Imprese
%
Totale
Imprese
%
Motori alternativi (al diesel o a scoppio)
19
4,8%
55
9,4%
74
7,5%
Motori “tradizionali” ma “più efficienti e puliti”
11
2,8%
31
5,3%
42
4,3%
7
1,8%
18
3,1%
25
2,5%
Migliorie riguardanti l’efficienza energetica delle
parti e componenti del prodotto finale
48
12,1%
88
15,0%
136
13,8%
Rigenerazione di materiali, parti e componenti
31
7,8%
42
7,2%
73
7,4%
Non abbiamo ancora investito su questo tema
326
81,9%
435
74,4%
761
77,4%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0,0%
100,0%
L’adozione di propellenti o di energie pulite
Altro
Non rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
4.4
398
398
100,0%
585
585
100,0%
983
983
Nuove strade: diversificazione di prodotti e clienti, in Italia e all’estero,
grazie a contenuti innovativi
L’analisi delle caratteristiche delle 73 imprese (un terzo delle quali piemontesi) che
hanno dichiarato una variazione positiva di fatturato evidenzia che queste vantano una
maggiore spesa in ricerca e sviluppo, superiore in media di un punto percentuale
rispetto al totale del campione, sia per le piemontesi sia per quelle del resto d’Italia.
Queste imprese sono molto attive nell’ambito dell’innovazione (l’80% del totale), sia sul
fronte della riduzione dei costi e dell’aumento della produttività (il 63%), sia sul
miglioramento e sull’ideazione di prodotti nuovi da lanciare sul mercato (circa il 40%).
Non solo hanno idee, ma le brevettano (l’11,6% contro il 4,9% del totale del campione)
per difendere prodotti nuovi anche per il mercato (20% contro il 13,4% del campione
totale). Puntano su prodotti più “green” con maggiore convinzione della media (il 36,2%
contro il 22,6% del totale dei rispondenti). Si mostrano più disponibili a partnership con
altre imprese e con i propri fornitori, e a collaborazioni con le università. Molte di loro
sono state favorite da una maggiore diversificazione del portafoglio (sia sul lato dei
92
prodotti sia su quello dei clienti, all’estero come in Italia) e dalla presenza in mercati la
cui taglia si è ridotta meno di altri: dalle autovetture all’aftermarket.
4.5 La dimensione delle imprese: la taglia aiuta a investire e a essere presenti nei
mercati emergenti
Dopo aver illustrato i risultati della filiera nel 2009 e dopo averli scomposti per clienti e
driver, analizziamo un’altra caratteristica strutturale importante del cluster: la
dimensione delle aziende.
La scomposizione dell’universo di riferimento per le categorie dimensionali adottate
dall’Unione Europea fa emergere un quadro pressoché identico a quello dello scorso
anno: 208 imprese fatturano più di 50 milioni di euro (o hanno più di 250 dipendenti) e
altre 388 hanno un giro d’affari superiore ai 10 milioni di euro. Le imprese di grandi
dimensioni sono quindi poco meno del 10%, mentre quelle medie sono il 17,6%. La
maggioranza numerica è quindi composta da piccole o micro imprese (meno di 2 milioni
di euro di fatturato e meno di 10 dipendenti), pari a poco meno del 73%. Le ditte
indipendenti, che non fanno parte di gruppi, sono l’80% del campione intervistato.
Tabella 4.17
Dimensione - Totale Italia
grande
media
piccola
micro
Totale
60
Distribuzione per dimensione delle imprese italiane della filiera .
ED
OEM
SPEC
SUB
Totale
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
22
8,80%
38
61,29%
73
23,17%
75
4,78%
208
9,47%
56
22,40%
11
17,74%
83
26,35%
238
15,17%
388
17,67%
104 41,60%
7
11,29%
104
33,02%
544
34,67%
759
34,56%
68
27,20%
6
9,68%
55
17,46%
712
45,38%
841
38,30%
250
62
315
1569
2.196
60 Anche quest’anno l’Osservatorio ha deciso di fornire dati dimensionali basati esclusivamente sulle informazioni
relative alle 2.196 aziende di cui si possiede il bilancio non consolidato, riducendo al minimo le stime e le ipotesi.
93
Tabella 4.18
61
Distribuzione per dimensione delle imprese piemontesi della filiera .
Dimensione - Piemonte
grande
media
piccola
micro
ED
OEM
SPEC
SUB
Totale
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
14
10,69%
20
58,82%
32
20,13%
34
6,12%
100
11,36%
39
29,77%
7
20,59%
50
31,45%
141
25,36%
237
26,93%
56
42,75%
3
8,82%
62
38,99%
240
43,17%
361
41,02%
22
16,79%
4
11,76%
15
9,43%
141
25,36%
182
20,68%
Totale
Tabella 4.19
131
34
159
556
880
Distribuzione del campione tra indipendenti e appartenenti a un gruppo.
Appartenenza a gruppi
Sì, è la controllante
Filiale di gruppo italiano
Filiale di gruppo estero, senza autonomia strategico-decisionale
Filiale di gruppo estero, con autonomia strategico-decisionale
No, è un’azienda indipendente a controllo individuale
No, è un’azienda indipendente ad azionariato diffuso
Totale
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
imprese % imprese % imprese %
44
11%
26
4%
70
7%
27
7%
24
4%
51
5%
9
2%
16
3%
25
3%
27
7%
26
4%
53
5%
259
65%
467
80%
726
74%
32
8%
26
4%
58
6%
398
585
983
La dimensione è importante, perché se si scompongono alcuni risultati osservati per
classi dimensionali ci si rende conto che queste ultime si discostano, anche in misura
significativa, dalla media generale. L’analisi della variazione del fatturato del campione
per classi dimensionali evidenzia infatti che lo scorso anno le grandi imprese hanno
perso il 13,8%, le medie il 20%, le piccole il 21% e le micro il 18,4%.
Le grandi imprese hanno un portafoglio prodotti più aggiornato: solo un quarto dei
ricavi deriva da prodotti non più concorrenziali, contro il 50% delle micro imprese. Il
motivo è una maggiore capacità di spesa in ricerca e sviluppo (2,8% contro il 2% delle
micro e delle piccole) e una maggiore penetrazione nei mercati internazionali.
Queste caratteristiche risultano ancora più importanti quando si pensa alle evoluzioni
del mercato (sempre più globale e consolidato) e ai parametri necessari per cogliere
appieno le opportunità.
61
Sono classificate come “piemontesi” le imprese che hanno sede legale in Piemonte.
94
Figura 4.12
Variazione percentuale del fatturato totale 2009 rispetto al 2008, scomposto per
classi dimensionali delle imprese (dati relativi al campione).
-25%
-20%
-15%
-10%
-5%
0%
Grandi
-13,8%
Medie
-20,0%
Piccole
-21,0%
Micro
-18,4%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
I risultati appena presentati nello scenario nazionale e internazionale descritto nel corso
del rapporto sembrano indicare due strade possibili: aumentare la taglia o ridurla.
La prima opzione permette di sfruttare le economie di scala e rafforzare le reti
internazionali,
intercettando
commesse
nei
paesi
emergenti
e
investendo
nell’innovazione di prodotto e processo. Per aumentare le proprie dimensioni, le nostre
imprese possono scegliere tra due alternative: quella del mercato, giocando un ruolo
(attivo o passivo) in acquisizioni o fusioni con altre imprese o guadagnando quote di
mercato ai danni della concorrenza, e quella della formazione di gruppi di imprese,
organizzati ad esempio in consorzi (con scopi che possono andare dalla ricerca di clienti
all’estero agli acquisti in comune) oppure in società o associazioni che mettano in
comune servizi e infrastrutture, ai fini della promozione internazionale, della ricerca o
altro ancora.
Per quando riguarda fusioni e acquisizioni, nel 2009 non si registrano particolari
scostamenti dalla norma. In questo anno di crisi importanti centri studi internazionali
(da KPMG a Société Général) hanno registrato anzi una diminuzione delle imprese
piemontesi e italiane nelle attività di acquisto o fusione con altre realtà. Il tempo e le
95
risorse finanziarie sono state dedicate ad affrontare la difficile fase congiunturale,
oppure a “fare cassa” per poter acquistare concorrenti o fornitori a migliori condizioni e
con una visione futura del mercato più nitida. Per questo ci sembra ragionevole
ipotizzare che nel 2010 le attività di M&A conosceranno una significativa accelerazione.
La seconda opzione – quella della riduzione della taglia – porta invece a un
ridimensionamento della capacità produttiva e a dedicare la propria azione
imprenditoriale a mercati di nicchia, dove si possono sfruttare leve come la flessibilità e
la rapidità di risposta contro la concorrenza di chi rimane a 20 ore di volo di distanza. In
questi segmenti il fattore prezzo perde importanza a vantaggio di driver come i tempi, e
non sono necessari grandi investimenti né in capacità produttiva né in magazzino. Non
dimentichiamo infine che i mercati di nicchia offrono alle nostre imprese la possibilità di
sfruttare alcune delle proprie caratteristiche storiche, come la capacità di rispondere
alle esigenze mutevoli del cliente.
4.6 Le imprese Piemontesi: hanno sentito la crisi ma hanno mezzi e risorse per
tornare a crescere
L’Osservatorio censisce 998 società di capitali che fanno parte della filiera dell’auto in
Piemonte, che emerge dunque come la “regione dell’auto”, seguita a distanza dalla
Lombardia (rispetto alla quale ha il doppio di aziende in questo settore).
Intorno alle case costruttrici piemontesi, il resto della filiera ha sviluppato numerose
specializzazioni – in particolare nei comparti E&D e OEM – grazie a imprese che hanno
aperto qui la loro sede storica. Qui più che nel resto d’Italia hanno trovato sede i
fornitori di primo livello: il 53% del campione piemontese dichiara di avere rapporti
diretti con il cliente finale, contro il 29,6% del resto del campione.
Le stime dell’Osservatorio sono basate su 880 società (il 40% del totale) con sede legale
in Piemonte. Nel 2009 queste hanno fatturato 21,3 miliardi di euro, 19 dei quali dovuti al
solo comparto automotive; si tratta di aziende mediamente più strutturate e di
dimensioni maggiori rispetto al dato nazionale: il 25,4% di esse è una SpA, contro il
13,7% del resto d’Italia, senza cambiamenti significativi rispetto all’anno scorso.
Nell’11% dei casi si tratta di un’impresa a capo di un gruppo industriale (contro il 4%
del resto d’Italia), mentre le imprese indipendenti sono relativamente di meno (il 73%
del totale contro l’84%). Il 38,3% delle 880 imprese piemontesi sono imprese grandi o
medie, contro il 27,1% del resto dell’universo. Ma la grande differenza fra la realtà
96
regionale e il resto d’Italia sta nella numerosità delle realtà produttive che non superano
né i 2 milioni di euro di fatturato né i 10 occupati: queste pesano il 38,3% nel resto
d’Italia, mentre si fermano al 20% in Piemonte.
Figura 4.13
Variazione percentuale del fatturato totale 2009 rispetto al 2008, e confronto con
la variazione registrata nel 2008 rispetto al 2007.
-30,0%
-25,0%
-20,0%
-15,0%
-10,0%
-5,0%
-16,5%
-4,0%
Piemonte
-14,9%
-1,1%
Resto d'Italia
-17,5%
Piemonte
ED
-0,6%
0,0%
TOTALE
2008
Resto d'Italia
-26,2%
Piemonte
1,9%
-5,4%
-0,4%
-10,1%
-14,5%
-17,4%
Resto d'Italia
Piemonte
Resto d'Italia
OEM
-18,2%
-5,5%
-2,7%
Piemonte
SPEC
-13,6%
-5,6%
Resto d'Italia
SUB
-12,6%
-3,8%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
La crisi è arrivata anche in Piemonte, con effetti pressoché analoghi al resto d’Italia.
Circa la metà delle imprese intervistate (il 48%) denuncia una flessione dei fatturati
maggiore al 20% fra il 2008 e il 2009, mentre il 5,6%, al contrario, è riuscito a crescere.
A patire il calo delle commesse sono state soprattutto le imprese con produzioni
altamente specializzate (-26,2%), colpite dalla maggiore concorrenza dovuta al
consolidamento dei clienti (case costruttrici e fornitori di primo livello) e dai competitor
in grado di proporre prezzi più bassi.
La crisi non ha risparmiato alcun sottosettore ed è costata alle 880 imprese piemontesi
analizzate 4,2 miliardi in termini di minori introiti, ma agli attori della filiera locale non
mancano i mezzi e le risorse per poter ricominciare a crescere. Le aziende piemontesi,
infatti, hanno saputo diversificare il portafoglio e dunque dipendono meno dall’auto: che
siano nate storicamente per questo settore o ne abbiano intercettato le commesse, sono
97
in grado di soddisfare le esigenze di altri clienti – più delle aziende nel resto d’Italia –
grazie alla maggiore flessibilità nella produzione e nell’offerta di prodotti.
Per quanto riguarda la R&S, nel 2009 il Piemonte ha registrato un rallentamento nella
spesa, ma in misura meno consistente rispetto ad altre regioni: il 28% delle imprese ha
dedicato più del 2% del fatturato alla R&S, contro il 25% del resto d’Italia.
Le imprese che vantano prodotti innovativi tali da costituire un vantaggio rispetto ai
concorrenti di filiera sono più numerose in Piemonte rispetto al resto d’Italia (38,7%
contro il 34,9%); allo stesso tempo sono numerose (il 55% del totale) le imprese che
devono fare i conti con mercati molto concorrenziali, che costringono a far leva sui
prezzi con il conseguente riduzione dei margini.
Figura 4.14
ed estero).
Ripartizione del fatturato piemontese 2009 per cliente (Gruppo Fiat e non, Italia
ITALIA no FIAT
8,3%
EXPORT vs FIAT
18,1%
EXPORT no
FIAT
13,6%
ITALIA vs FIAT
60,0%
Fonte: Elaborazioni Step Ricerche su dati rilevati da interviste e bilanci
Gli stabilimenti italiani del gruppo Fiat pesano più della metà sulle entrate delle imprese
piemontesi, che però, più di altre, hanno ormai ottenuto l’accesso ai mercati esteri:
anche nel 2009 ben il 69% di loro ha mantenuto commesse estere, contro il 58,5% nel
resto d’Italia. Rispetto ai proventi provenienti dall’estero i rispondenti piemontesi
denunciano una flessione minore a confronto con il resto del campione: -12,1% contro il
-17,4% del resto d’Italia.
I prodotti piemontesi non si fermano più all’Europa e raggiungono ormai (per il 20% dei
rispondenti) l’Asia e, in misura sempre più consistente, le piazze del bacino del
98
Mediterraneo: l’Africa del Nord e la zona compresa fra Turchia e Medio Oriente
costituiscono ormai uno dei primi tre mercati per ben 27 imprese (su 268 rispondenti).
Rispetto alle recenti tendenze, analizzando le imprese rispondenti che hanno
conquistato nuovi mercati negli ultimi 3 anni o che stanno investendo per riuscirci,
l’Asia si conferma la destinazione di maggiore interesse dopo l’Europa, seguita dal Nord
America (dove sono attivi 17 rispondenti su un totale di 78).
Passando all’analisi degli acquisti, notiamo come la filiera sia al contempo radicata nel
contesto locale (il 70% dei rispondenti piemontesi dichiara di fare acquisti in Piemonte)
e molto aperta verso l’estero (un altro 70% risponde di rifornirsi di merci o servizi
presso fornitori esteri).
Quella delle aziende piemontesi è un’internazionalizzazione che, specie quando supera i
confini continentali, si rivela sempre più strutturata. Osservando la dinamica degli
stabilimenti oltre confine negli ultimi 3 anni, infatti, si registrano 16 aperture (operate
da 11 imprese piemontesi) contro le 9 del resto d’Italia e a fronte di 7 chiusure (operate
da 3 imprese). Nel dettaglio, le imprese piemontesi hanno aperto 3 stabilimenti in Cina,
3 in India, 2 in Brasile, 2 in Iran, 2 in Polonia, 2 in Slovacchia, 1 in Russia e 1 negli Stati
Uniti.
Le risposte alla crisi in termini di innovazione, nuovi prodotti e clienti sono dunque già
in essere: si tratta ora di rafforzarle. Sarà opportuno continuare a far leva su peculiarità
del tessuto automotive regionale come l’apertura ai mercati esteri ed una dimensione e
strutturaizone delle imprese maggiore a quella del resto d’Italia. Caratteristiche
fondamentali per cogliere la ripresa della produzione autoveicolare e per intercettare la
domanda potenziale offereta dalla nuova fase aperta dal Gruppo Fiat. Quest’ultimo
prevede infatti di spendere nei prossimi 5 anni 26 miliardi di euro per investimenti in
conto capitale, a cui vanno aggiunti gli investimenti in ricerca e sviluppo e quelli di
Chrysler. Il gruppo nel suo complesso (incluse le attività di Chrysler) farà ogni anno più
di 60 miliardi di euro di acquisti; opportunità che la nostra filiera ha le carte in regola
per sfruttare.
99
APPENDICE STATISTICA
Tabella 3: D1: Sul totale del vostro fatturato qual è la percentuale destinata al mercato
dell’auto o dei veicoli industriali e commerciali? .................................................................. 102
Tabella 4: D2. Fatto 100 il valore della produzione auto (o veicoli industriali e commerciali)
della sua azienda, ne indichi, se possibile la ripartizione per destinazione finale. ............... 103
Tabella 5: D3 Fatto 100 il suo fatturato, come lo ripartirebbe fra le seguenti categorie di
prodotti? ................................................................................................................................ 104
Tabella 6: D4 Nell’anno 2009 la Sua azienda che parte del fatturato ha investito in ricerca e
sviluppo sul prodotto o sul processo? ................................................................................... 105
Tabella 7: Negli ultimi 3 anni (dal 2008 al 2010 compreso), la sua impresa ha o è in procinto
di investire in (nota: risposta multipla):................................................................................. 105
Tabella 8: D6 Quali sono state o saranno nell’immediato futuro le fonti per l’attività di ricerca
e sviluppo dell’impresa dal 2008 al 2010 compreso? (risposta multipla) ............................. 106
Tabella 9: D7 Rispetto alle tecnologie per autoveicoli più puliti, negli ultimi 3 anni (dal 2008 al
2010 compreso), la sua impresa ha o è in procinto di partecipare o promuovere progetti per
(risposta multipla, max 3) ...................................................................................................... 107
Tabella 10: D8 Pensando ai diversi livelli della filiera produttiva, a chi vendete i vostri
prodotti? (risposta multipla, massimo 2)............................................................................... 107
Tabella 11: D9 Fatto pari a 100 il suo fatturato automotive (primo e secondo impianto) come
lo ripartisce fra le seguenti 3 voci: ......................................................................................... 108
Tabella 12: D10 Fra i singoli marchi dell’automotive quali sono per fatturato (o per volume) i
vostri primi tre clienti finali (diretti o indiretti)?..............Errore. Il segnalibro non è definito.
Tabella 13: D11 Pensando ora all’aftermarket. Fatto pari a 100 il suo fatturato automotive
2009, lo ripartisca fra (quanto è stato dovuto a vendite per) il primo impianto e (quanto al)
mercato del ricambio? ........................................................................................................... 109
Tabella 14: D12 Fatto pari a 100 il suo fatturato automotive 2009, lo ripartisca fra clienti in
Italia e clienti all’estero, indicando quant’è la quota verso il Gruppo FIAT o fornitori dello
stesso in Italia ed all’estero.................................................................................................... 110
Tabella 15: D13 Rispetto al 2008, in percentuale, il vostro fatturato dovuto all’export nel
2009 è aumentato o diminuito del: ....................................................................................... 111
Tabella 14: D14a Paese estero Aperture/Chiusure stabilimenti ........................................... 112
Tabella 18: D15 Quali sono per fatturato (o per volume) i vostri primi tre mercati esteri? . 113
Tabella 19: D16 Considerando l’arco di tempo fra il 2008 e il 2011, quali saranno (o sono già
stati ultimamente) i primi 3 Paesi verso i quali concentrerete i vostri sforzi commerciali e
eventualmente produttivi? .................................................................................................... 114
Tabella 20: D17 In un’economia globalizzata anche le produzioni italiane necessitano di
acquisti di componenti, servizi e materie prime all’estero. Fatto pari a 100 il totale dei suoi
acquisti può ripartirli fra Piemonte, resto d’Italia e estero, indicando i primi tre Paesi per
importanza? ........................................................................................................................... 115
Tabella 21: D18 Dove vengono svolte le seguenti funzioni aziendali?.................................. 116
Tabella 22: D19 Quali sono le aspettative della sua impresa riguardo agli ordinativi nazionali
ed esteri per i prossimi 6 mesi: .............................................................................................. 117
Tabella 23: D19a La vostra impresa costituita negli ultimi 3 anni è un'impresa (domanda
proposta solo alle nuove aggiunte al dataset):...................................................................... 117
Tabella 24: D20 La Sua azienda appartiene ad un gruppo?.................................................. 118
100
Tabella 25: D21 Quanti addetti lavorano per la sua azienda in totale fra dipendenti e
collaboratori (esprimere pure la migliore approssimazione)? .............................................. 119
Tabella 26: D22 Percentualmente rispetto al 2008, il fatturato complessivo (automotive e
non) 2009 della Sua azienda (non il gruppo) è aumentato o diminuito del:......................... 120
Tabella 27: D23 Nel 2009 quale è stato il fatturato complessivo (automotive e non) della Sua
azienda (non il gruppo)? ........................................................................................................ 120
101
Tabella 1: Sul totale del vostro fatturato qual è la percentuale destinata al mercato dell’auto o dei veicoli industriali e commerciali?
D1 Percentuale produzione automotive
ED
imprese
fino al 10%
tra l'11% e il 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
1
5
17
16
17
151
MOD
%
0,5%
2,4%
8,2%
7,7%
8,2%
72,9%
0,0%
207 100,0%
207
imprese
0
0
2
0
3
8
SIST
%
0,0%
0,0%
15,4%
0,0%
23,1%
61,5%
0,0%
13 100,0%
13
imprese
1
1
1
4
0
32
SPEC
%
2,6%
2,6%
2,6%
10,3%
0,0%
82,1%
0,0%
39 100,0%
39
imprese
5
3
11
6
17
95
SUB
%
3,6%
2,2%
8,0%
4,4%
12,4%
69,3%
0,0%
137 100,0%
137
imprese
20
18
56
53
45
395
Piemonte
%
3,4%
3,1%
9,5%
9,0%
7,7%
67,3%
0,0%
587 100,0%
587
imprese
9
11
39
48
49
242
%
2,3%
2,8%
9,8%
12,1%
12,3%
60,8%
0,0%
398 100,0%
398
Resto Italia
imprese
18
16
48
31
33
439
%
3,1%
2,7%
8,2%
5,3%
5,6%
75,0%
0,0%
585 100,0%
585
Totale
imprese
%
27
2,7%
27
2,7%
87
8,9%
79
8,0%
82
8,3%
681 69,3%
0
0,0%
983 100,0%
983
102
Tabella 2: Fatto 100 il valore della produzione auto (o veicoli industriali e commerciali) della sua azienda, ne indichi, se possibile la ripartizione per destinazione finale.
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
STUDI DI STILE
15 7,2%
11 2,8%
4 0,7%
15 1,5%
INGEGNERIA E MODELLIZZAZIONE
80 38,6%
50 12,6%
30 5,1%
80 8,1%
SVILUPPO PIATTAFORME
11 5,3%
9 2,3%
2 0,3%
11 1,1%
DEDICATE
PROTOTIPIZZAZIONE
17 8,2%
11 2,8%
6 1,0%
17 1,7%
PRODUZIONE autoveicoli scocc
95 45,9%
33 8,3%
62 10,6%
95 9,7%
VALIDAZIONE PRODOTTO testing
10 4,8%
3 0,8%
7 1,2%
10 1,0%
LOGISTICA
5 2,4%
3 0,8%
2 0,3%
5 0,5%
ALTRO
36 17,4%
18 4,5%
18 3,1%
36 3,7%
MODULI ELETTRONICI INTEGRATI
1 7,7%
0 0,0%
1 0,2%
1 0,1%
MODULI IN ACCIAIO E ALLUMINIO
1 7,7%
1 0,3%
0 0,0%
1 0,1%
MODULI IN MATERIE PLASTICHE
11 84,6%
9 2,3%
2 0,3%
11 1,1%
SISTEMI DI SICUREZZA ATT/PASS E
9 23,1%
3 0,8%
6 1,0%
9 0,9%
CONTROLLO
SISTEMI ELETTRICI ELETTRONICI
5 12,8%
3 0,8%
2 0,3%
5 0,5%
SISTEMI FLUIDI ARIA E COMFORT
7 17,9%
4 1,0%
3 0,5%
7 0,7%
SISTEMI
18 46,2%
4 1,0%
14 2,4%
18 1,8%
TRASMISSIONE/GUIDA/FRENATA
ALTRO
3 7,7%
2 0,5%
1 0,2%
3 0,3%
ATTREZZATURE E STAMPI
15 10,9%
38 6,5%
40 10,1%
13 2,2%
53 5,4%
STAMPAGGIO
8 5,8%
84 14,3%
65 16,3%
27 4,6%
92 9,4%
FONDERIA
3 2,2%
13 2,2%
9 2,3%
7 1,2%
16 1,6%
ALIMENTAZIONE SCARICO
11 8,0%
22 3,7%
7 1,8%
26 4,4%
33 3,4%
AVVIAMENTO ACCENSIONE
2 1,5%
3 0,5%
2 0,5%
3 0,5%
5 0,5%
CARROZZERIA ABITACOLO
34 24,8%
160 27,3%
42 10,6%
152 26,0%
194 19,7%
ELETTRICI ELETTRONICI
8 5,8%
32 5,5%
13 3,3%
27 4,6%
40 4,1%
ILLUMINAZIONE SEGNALAZIONE
2 1,5%
8 1,4%
3 0,8%
7 1,2%
10 1,0%
MOTORE base
11 8,0%
29 4,9%
14 3,5%
26 4,4%
40 4,1%
STERZO SOSPENS FRENATA
11 8,0%
37 6,3%
11 2,8%
37 6,3%
48 4,9%
TRASMISSIONE
6 4,4%
19 3,2%
7 1,8%
18 3,1%
25 2,5%
ASSEMBLAGGIO
2 1,5%
14 2,4%
5 1,3%
11 1,9%
16 1,6%
ALTRO
38 27,7%
167 28,4%
68 17,1%
137 23,4%
205 20,9%
D2 Mestieri di Filiera
103
D2 Mestieri di Filiera
Totale Intervistati
ED
imprese
%
207
MOD
imprese
%
13
SIST
imprese
%
39
SPEC
imprese
%
137
SUB
imprese
%
587
Piemonte
imprese
%
398
Resto d'Italia
imprese
%
585
Totale
imprese
%
983
Tabella 3: Fatto 100 il suo fatturato, come lo ripartirebbe fra le seguenti categorie di prodotti?
D3 Prodotti innovativi con pochi concorrenti
ED
imprese
meno del 10%
tra l'11% e il 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D3 Prodotti maturi che rendono ancora bene
4 1,9%
8 3,9%
64 30,9%
2 1,0%
1 0,5%
53 25,6%
207
ED
imprese
meno del 10%
tra l'11% e il 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D3 Prodotti con molti concorrenti e margini modesti
imprese
SIST
%
3 23,1%
0 0,0%
2 15,4%
1 7,7%
0 0,0%
0 0,0%
13
MOD
%
0 0,0%
6 2,9%
57 27,5%
7 3,4%
3 1,4%
29 14,0%
207
ED
imprese
meno del 10%
tra l'11% e il 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
MOD
%
imprese
%
0 0,0%
2 15,4%
2 15,4%
2 15,4%
1 7,7%
3 23,1%
13
imprese
SPEC
%
3 7,7%
3 7,7%
15 38,5%
1 2,6%
2 5,1%
5 12,8%
39
SIST
%
MOD
1 0,5%
2 1,0%
36 17,4%
4 1,9%
4 1,9%
33 15,9%
207
imprese
imprese
%
0 0,0%
5 12,8%
13 33,3%
6 15,4%
2 5,1%
4 10,3%
39
imprese
SUB
%
5 3,6%
5 3,6%
24 17,5%
7 5,1%
1 0,7%
17 12,4%
137
SPEC
%
SIST
1 7,7%
2 15,4%
1 7,7%
1 7,7%
0 0,0%
3 23,1%
13
imprese
imprese
%
2 1,5%
6 4,4%
36 26,3%
6 4,4%
0 0,0%
24 17,5%
137
imprese
Piemonte
%
11 1,9%
14 2,4%
65 11,1%
4 0,7%
2 0,3%
36 6,1%
587
SUB
%
SPEC
0 0,0%
2 5,1%
8 20,5%
2 5,1%
1 2,6%
3 7,7%
39
imprese
imprese
%
5 0,9%
8 1,4%
149 25,4%
13 2,2%
3 0,5%
165 28,1%
587
imprese
%
12 3,0%
13 3,3%
70 17,6%
7 1,8%
1 0,3%
51 12,8%
398
Piemonte
%
SUB
2 1,5%
2 1,5%
23 16,8%
8 5,8%
3 2,2%
40 29,2%
137
imprese
imprese
%
1 0,3%
10 2,5%
86 21,6%
21 5,3%
6 1,5%
77 19,3%
398
Piemonte
%
4 0,7%
5 0,9%
119 20,3%
10 1,7%
8 1,4%
192 32,7%
587
imprese
%
3 0,8%
8 2,0%
70 17,6%
9 2,3%
6 1,5%
124 31,2%
398
Resto d'Italia
imprese
%
14 2,4%
17 2,9%
100 17,1%
8 1,4%
5 0,9%
60 10,3%
585
Resto d'Italia
imprese
%
6 1,0%
17 2,9%
171 29,2%
13 2,2%
3 0,5%
148 25,3%
585
Resto d'Italia
imprese
%
5 0,9%
5 0,9%
117 20,0%
16 2,7%
10 1,7%
147 25,1%
585
Totale
imprese
%
26 2,6%
30 3,1%
170 17,3%
15 1,5%
6 0,6%
111 11,3%
983
Totale
imprese
%
7 0,7%
27 2,7%
257 26,1%
34 3,5%
9 0,9%
225 22,9%
983
Totale
imprese
%
8 0,8%
13 1,3%
187 19,0%
25 2,5%
16 1,6%
271 27,6%
983
104
Tabella 4: Nell’anno 2009 la Sua azienda che parte del fatturato ha investito in ricerca e sviluppo sul prodotto o sul processo?
ED
D4 Ricerca e Sviluppo
imprese
meno del 2%
tra il 2% e il 5%
tra il 6% e il 7%
tra il 8% e il 10%
oltre il 10%
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
111
70
5
21
0
MOD
%
imprese
11
2
0
0
0
53,6%
33,8%
2,4%
10,1%
0,0%
207 100,0%
207
SIST
%
SPEC
imprese
%
17
16
1
5
0
84,6%
15,4%
0,0%
0,0%
0,0%
13 100,0%
13
imprese
43,6%
41,0%
2,6%
12,8%
0,0%
39 100,0%
39
SUB
%
45
69
2
19
2
imprese
32,8%
50,4%
1,5%
13,9%
1,5%
137 100,0%
137
Piemonte
%
539
34
1
11
0
91,8%
5,8%
0,2%
1,9%
0,0%
587 100,0%
587
imprese
286
81
2
26
2
%
71,9%
20,4%
0,5%
6,5%
0,5%
398 100,0%
398
Resto d'Italia
imprese
437
110
7
30
0
%
74,7%
18,8%
1,2%
5,1%
0,0%
585 100,0%
585
Totale
imprese
%
723 73,6%
191 19,4%
9
0,9%
56
5,7%
2
0,2%
0
0,0%
983 100,0%
983
Tabella 5: Negli ultimi 3 anni (dal 2008 al 2010 compreso), la sua impresa ha o è in procinto di investire in (nota: risposta multipla):
ED
D5 Tipo di Investimenti
imprese
Innovazioni nel processo produttivo
Prodotti/servizi nuovi per l’azienda,
ma già esistenti sul mercato.
Prodotti/servizi completamente
nuovi non presenti
precedentemente sul mercato.
Depositato brevetti in Italia o
all’estero
Non è intervenuta in alcun modo sui
prodotti, servizi o processi
Altro
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
MOD
%
imprese
SIST
%
imprese
SPEC
%
imprese
SUB
%
imprese
Piemonte
%
imprese
%
Resto d'Italia
imprese
%
Totale
imprese
%
129
62,3%
12
92,3%
33
84,6%
104
75,9%
291
49,6%
235
59,0%
334
57,1%
569
57,9%
76
36,7%
1
7,7%
15
38,5%
56
40,9%
147
25,0%
113
28,4%
182
31,1%
295
30,0%
50
24,2%
0
0,0%
8
20,5%
34
24,8%
40
6,8%
56
14,1%
76
13,0%
132
13,4%
13
6,3%
1
7,7%
12
30,8%
12
8,8%
10
1,7%
26
6,5%
22
3,8%
48
4,9%
52
25,1%
1
7,7%
3
7,7%
22
16,1%
267
45,5%
128
32,2%
217
37,1%
345
35,1%
1
0,5%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
3
0,5%
0
0,0%
4
0,7%
4
0,4%
587 100,0%
587
398
100,0%
398
207 100,0%
207
13 100,0%
13
39 100,0%
39
137 100,0%
137
585 100,0%
585
983 100,0%
983
105
Tabella 6: Quali sono state o saranno nell’immediato futuro le fonti per l’attività di ricerca e sviluppo dell’impresa dal 2008 al 2010 compreso? (risposta multipla)
D6 Fonti di R&S
ED
imprese
MOD
%
imprese
SIST
%
imprese
SPEC
%
imprese
SUB
%
imprese
Piemonte
%
imprese
%
Resto d'Italia
imprese
%
Totale
imprese
%
Interne all’impresa o al gruppo
Progetti di ricerca o sviluppo in
partnership con altre imprese
Partecipazione a programmi di
ricerca pubblici nazionali o
internazionali
Clienti
Fornitori
Università, centri e istituti di
ricerca pubblici o privati
Altro
Non Rispondenti
200
97,6%
12
92,3%
36
92,3%
132
96,4%
564
97,4%
378
95,5%
566
98,1%
944
97,0%
28
13,7%
0
0,0%
9
23,1%
16
11,7%
50
8,6%
37
9,3%
66
11,4%
103
10,6%
6
2,9%
0
0,0%
0
0,0%
2
1,5%
2
0,3%
7
1,8%
3
0,5%
10
1,0%
72
19
35,1%
9,3%
8
8
61,5%
61,5%
20
17
51,3%
43,6%
38
21
27,7%
15,3%
165
36
28,5%
6,2%
125
45
31,6%
11,4%
178
56
30,8%
9,7%
303
101
31,1%
10,4%
28
13,7%
2
15,4%
9
23,1%
25
18,2%
28
4,8%
44
11,1%
48
8,3%
92
9,5%
2
0,0%
1,0%
0
8
0,0%
1,4%
2
0,0%
0,5%
8
0,0%
1,4%
0
10
0,0%
1,0%
Rispondenti
205
99,0%
13
579
98,6%
396
99,5%
577
98,6%
973
99,0%
Totale intervistati
207
13
0,0%
0,0%
100,0
%
0
39
39
0,0%
0,0%
100,0
%
0
137
137
0,0%
0,0%
100,0
%
587
398
585
983
106
Tabella 7: Rispetto alle tecnologie per autoveicoli più puliti, negli ultimi 3 anni (dal 2008 al 2010 compreso), la sua impresa ha o è in procinto di partecipare o promuovere progetti per
(risposta multipla, max 3)
ED
D7 Clean Tech
imprese
Motori alternativi (al diesel o a
scoppio)
Motori “tradizionali” ma “più
efficienti e puliti”
L’adozione di propellenti o di
energie pulite
Migliorie riguardanti l’efficienza
energetica delle parti e
componenti del prodotto finale
Rigenerazione di materiali, parti e
componenti
Non abbiamo ancora investito su
questo tema
Altro
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
MOD
%
imprese
SIST
%
imprese
SPEC
%
imprese
SUB
%
Piemonte
imprese
%
imprese
Resto d'Italia
%
imprese
%
Totale
imprese
%
28
13,5%
0
0,0%
5
12,8%
11
8,0%
30
5,1%
19
4,8%
55
9,4%
74
7,5%
15
7,2%
0
0,0%
2
5,1%
16
11,7%
9
1,5%
11
2,8%
31
5,3%
42
4,3%
8
3,9%
0
0,0%
4
10,3%
9
6,6%
4
0,7%
7
1,8%
18
3,1%
25
2,5%
20
9,7%
0
0,0%
4
10,3%
17
12,4%
95
16,2%
48
12,1%
88
15,0%
136
13,8%
10
4,8%
0
0,0%
5
12,8%
12
8,8%
46
7,8%
31
7,8%
42
7,2%
73
7,4%
162
78,3%
13 100,0%
29
74,4%
98
71,5%
459
78,2%
326
81,9%
435
74,4%
761
77,4%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
587 100,0%
587
398
100,0%
398
0
207 100,0%
207
0,0%
13 100,0%
13
39 100,0%
39
137 100,0%
137
585 100,0%
585
0,0%
0,0%
983 100,0%
983
Tabella 8: Pensando ai diversi livelli della filiera produttiva, a chi vendete i vostri prodotti? (risposta multipla, massimo 2)
D8 Clienti
ED
imprese
Ai costruttori come Fiat, Iveco,
Renault, VolksWagen
Ad altri fornitori di primo livello (fra
cui sistemisti e modulisti come
Visteon, Delphi, LEAR, …)
Ai fornitori di secondo livello
Al mercato dei ricambi-aftermarket
(originali e non)
Totale intervistati
MOD
%
imprese
SIST
%
imprese
SPEC
%
imprese
SUB
%
imprese
Piemonte
%
imprese
%
Resto d'Italia
imprese
%
Totale
imprese
%
98 47,3%
10 76,9%
34 87,2%
78 56,9%
165 28,1%
212
53,3%
173 29,6%
385 39,2%
61 29,5%
7 53,8%
18 46,2%
67 48,9%
208 35,4%
176
44,2%
185 31,6%
361 36,7%
120 58,0%
3 23,1%
6 15,4%
39 28,5%
350 59,6%
149
37,4%
369 63,1%
518 52,7%
2 15,4%
8 20,5%
28 20,4%
120 20,4%
61
15,3%
111 19,0%
172 17,5%
13
39
14
207
6,8%
137
587
398
585
983
107
Tabella 9: Fatto pari a 100 il suo fatturato automotive (primo e secondo impianto) come lo ripartisce fra le seguenti 3 voci:
ED
D9 <3,5 tonnellate
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
58
38
15
11
85
207
D9 Veicoli ind. e
Comm.
6,3%
23,7%
1,0%
5,3%
20,3%
ED
imprese
13
12
0
0
4
207
imprese
SIST
%
0
0,0%
3 23,1%
0
0,0%
5 38,5%
5 38,5%
13
MOD
%
13
49
2
11
42
207
D9 Autobus e
Pullman
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
28,0%
18,4%
7,2%
5,3%
41,1%
ED
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
MOD
%
imprese
%
%
5 38,5%
3 23,1%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
13
imprese
6
8
6
5
14
39
SPEC
%
15,4%
20,5%
15,4%
12,8%
35,9%
SIST
MOD
6,3%
5,8%
0,0%
0,0%
1,9%
imprese
imprese
%
%
8 20,5%
11 28,2%
1
2,6%
0
0,0%
5 12,8%
39
imprese
3
1
0
1
0
39
34
39
14
13
37
137
SUB
%
24,8%
28,5%
10,2%
9,5%
27,0%
SPEC
SIST
2 15,4%
3 23,1%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
13
imprese
imprese
22
43
4
4
25
137
%
imprese
16
14
2
0
0
137
196
148
38
55
150
587
Piemonte
%
33,4%
25,2%
6,5%
9,4%
25,6%
SUB
%
16,1%
31,4%
2,9%
2,9%
18,2%
SPEC
7,7%
2,6%
0,0%
2,6%
0,0%
imprese
imprese
69
172
15
22
153
587
%
imprese
35
61
1
1
6
587
68
123
33
53
121
398
%
17,1%
30,9%
8,3%
13,3%
30,4%
Piemonte
%
11,8%
29,3%
2,6%
3,7%
26,1%
SUB
11,7%
10,2%
1,5%
0,0%
0,0%
imprese
imprese
64
135
12
13
50
398
%
16,1%
33,9%
3,0%
3,3%
12,6%
Piemonte
%
6,0%
10,4%
0,2%
0,2%
1,0%
imprese
27
40
1
0
2
398
%
6,8%
10,1%
0,3%
0,0%
0,5%
Resto d'Italia
imprese
226
113
40
36
170
585
%
38,6%
19,3%
6,8%
6,2%
29,1%
Resto d'Italia
imprese
53
143
10
24
175
585
%
9,1%
24,4%
1,7%
4,1%
29,9%
Resto d'Italia
imprese
42
51
2
2
8
585
%
7,2%
8,7%
0,3%
0,3%
1,4%
Totale
imprese
294
236
73
89
291
983
%
29,9%
24,0%
7,4%
9,1%
29,6%
Totale
imprese
117
278
22
37
225
983
%
11,9%
28,3%
2,2%
3,8%
22,9%
Totale
imprese
69
91
3
2
10
983
%
7,0%
9,3%
0,3%
0,2%
1,0%
108
Tabella 10: Pensando ora all’aftermarket. Fatto pari a 100 il suo fatturato automotive 2009, lo ripartisca fra (quanto è stato dovuto a vendite per) il primo impianto e
(quanto al) mercato del ricambio?
D11 Primo
Impianto
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
imprese
0%
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D11 After Market
3 1,4%
3 1,4%
3 1,4%
10 4,8%
50 24,2%
138 66,7%
207
ED
imprese
0%
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
%
imprese
%
0 0,0%
0 0,0%
0 0,0%
1 7,7%
4 30,8%
8 61,5%
13
MOD
%
138 66,7%
51 24,6%
10 4,8%
2 1,0%
3 1,4%
3 1,4%
207
imprese
imprese
%
1 2,6%
0 0,0%
3 7,7%
10 25,6%
9 23,1%
16 41,0%
39
SIST
%
8 61,5%
5 38,5%
0 0,0%
0 0,0%
0 0,0%
0 0,0%
13
imprese
imprese
%
15 10,9%
7 5,1%
9 6,6%
6 4,4%
39 28,5%
61 44,5%
137
SPEC
%
16 41,0%
9 23,1%
12 30,8%
1 2,6%
0 0,0%
1 2,6%
39
imprese
imprese
%
60 10,2%
15 2,6%
22 3,7%
44 7,5%
133 22,7%
313 53,3%
587
SUB
%
61 44,5%
39 28,5%
9 6,6%
6 4,4%
7 5,1%
15 10,9%
137
imprese
imprese
19
13
15
26
77
248
398
%
4,8%
3,3%
3,8%
6,5%
19,3%
62,3%
Piemonte
%
313 53,3%
134 22,8%
58 9,9%
7 1,2%
15 2,6%
60 10,2%
587
imprese
248
78
34
6
13
19
398
%
62,3%
19,6%
8,5%
1,5%
3,3%
4,8%
imprese
60
12
22
45
158
288
585
%
10,3%
2,1%
3,8%
7,7%
27,0%
49,2%
Resto d'Italia
imprese
288
160
55
10
12
60
585
%
49,2%
27,4%
9,4%
1,7%
2,1%
10,3%
imprese
%
79 8,0%
25 2,5%
37 3,8%
71 7,2%
235 23,9%
536 54,5%
983
Totale
imprese
%
536 54,5%
238 24,2%
89 9,1%
16 1,6%
25 2,5%
79 8,0%
983
109
Tabella 11: Fatto pari a 100 il suo fatturato automotive 2009, lo ripartisca fra clienti in Italia e clienti all’estero, indicando quant’è la quota verso il Gruppo FIAT o fornitori
dello stesso in Italia ed all’estero.
D12 Clienti esteri del
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
gruppo Fiat o fornitori di
Fiat
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D12 Clienti esteri diversi da
Fiat o suoi fornitori
ED
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D12 Clienti italiani del
gruppo o fornitori di Fiat
imprese
%
3 23,1%
2 15,4%
3 23,1%
1 7,7%
0 0,0%
13
MOD
%
49 23,7%
39 18,8%
20 9,7%
10 4,8%
5 2,4%
207
ED
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
%
35 16,9%
17 8,2%
3 1,4%
2 1,0%
0 0,0%
207
imprese
%
3 23,1%
1 7,7%
0 0,0%
0 0,0%
0 0,0%
13
29 14,0%
33 15,9%
20 9,7%
11 5,3%
12 5,8%
207
imprese
%
12 30,8%
4 10,3%
5 12,8%
2 5,1%
0 0,0%
39
SIST
MOD
%
imprese
%
3 23,1%
4 30,8%
3 23,1%
0 0,0%
2 15,4%
13
imprese
imprese
%
23 16,8%
17 12,4%
6 4,4%
3 2,2%
0 0,0%
137
SPEC
%
imprese
%
32 23,4%
31 22,6%
15 10,9%
5 3,6%
2 1,5%
137
SIST
SPEC
%
8 20,5%
13 33,3%
3 7,7%
4 10,3%
5 12,8%
39
imprese
58
27
7
4
1
587
%
9,9%
4,6%
1,2%
0,7%
0,2%
SUB
6 15,4%
4 10,3%
2 5,1%
3 7,7%
1 2,6%
39
imprese
imprese
imprese
%
109 18,6%
79 13,5%
38 6,5%
28 4,8%
5 0,9%
587
19 13,9%
30 21,9%
22 16,1%
14 10,2%
7 5,1%
137
imprese
%
75 18,8%
38 9,5%
9 2,3%
9 2,3%
0 0,0%
398
Piemonte
SUB
%
imprese
imprese
%
98 24,6%
54 13,6%
29 7,3%
17 4,3%
4 1,0%
398
50 8,5%
82 14,0%
39 6,6%
30 5,1%
62 10,6%
587
imprese
60
89
50
37
49
398
56
29
15
3
1
585
%
9,6%
5,0%
2,6%
0,5%
0,2%
Resto d'Italia
Piemonte
%
imprese
imprese
%
101 17,3%
100 17,1%
46 7,9%
29 5,0%
9 1,5%
585
15,1%
22,4%
12,6%
9,3%
12,3%
imprese
%
131 13,3%
67 6,8%
24 2,4%
12 1,2%
1 0,1%
983
Totale
Resto d'Italia
%
imprese
imprese
%
199 20,2%
154 15,7%
75 7,6%
46 4,7%
13 1,3%
983
Totale
%
49 8,4%
73 12,5%
37 6,3%
22 3,8%
39 6,7%
585
imprese
%
109 11,1%
162 16,5%
87 8,9%
59 6,0%
88 9,0%
983
110
D12 Clienti italiani diversi
da Fiat o suoi fornitori
ED
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
MOD
%
imprese
38 18,4%
44 21,3%
13 6,3%
15 7,2%
33 15,9%
207
SIST
%
imprese
3 23,1%
0 0,0%
0 0,0%
0 0,0%
1 7,7%
13
SPEC
%
imprese
9 23,1%
3 7,7%
1 2,6%
0 0,0%
2 5,1%
39
SUB
%
23 16,8%
23 16,8%
13 9,5%
2 1,5%
11 8,0%
137
imprese
Piemonte
%
imprese
71 12,1%
90 15,3%
32 5,5%
45 7,7%
178 30,3%
587
Resto d'Italia
%
Tabella 102: Rispetto al 2008, in percentuale, il vostro fatturato dovuto all’export nel 2009 è aumentato o diminuito del:
D13 Variazione
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Fatturato da Export
imprese
tra -85% e -51%
tra -50% e -21%
tra -20% e -1%
Esportazioni Invariate
tra 1% e 20%
tra l'21% e 50%
tra 51% e 85%
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
%
2
1,5%
17 12,5%
46 33,8%
55 40,4%
14 10,3%
1
0,7%
1
0,7%
71 34,3%
136 65,7%
207
imprese
0
2
0
4
1
0
1
5
8
13
%
0,0%
25,0%
0,0%
50,0%
12,5%
0,0%
12,5%
38,5%
61,5%
imprese
1
3
9
8
5
0
0
13
26
39
%
3,8%
11,5%
34,6%
30,8%
19,2%
0,0%
0,0%
33,3%
66,7%
imprese
%
2
1,9%
15 14,0%
44 41,1%
26 24,3%
20 18,7%
0
0,0%
0
0,0%
30 21,9%
107 78,1%
137
imprese
%
8
2,9%
64 22,9%
106 38,0%
80 28,7%
18
6,5%
3
1,1%
0
0,0%
308 52,5%
279 47,5%
587
imprese
74 18,6%
68 17,1%
20 5,0%
18 4,5%
41 10,3%
398
imprese
%
10
4,0%
45 17,9%
88 34,9%
74 29,4%
31 12,3%
2
0,8%
2
0,8%
146 36,7%
252 63,3%
398
Totale
%
imprese
70 12,0%
92 15,7%
39 6,7%
44 7,5%
184 31,5%
585
Resto d'Italia
imprese
%
3
1,0%
56 18,4%
117 38,5%
99 32,6%
27
8,9%
2
0,7%
0
0,0%
281 48,0%
304 52,0%
585
%
144 14,6%
160 16,3%
59 6,0%
62 6,3%
225 22,9%
983
Totale
imprese
%
13
2,3%
101 18,2%
205 36,9%
173 31,1%
58 10,4%
4
0,7%
2
0,4%
427 43,4%
556 56,6%
983
111
Tabella 113: Paese estero Aperture/Chiusure stabilimenti
Aperture Estero
ED
Totale Imprese
Totale Stabilimenti Aperti
BRASILE
CINA
CINA,INDIA
EUROPA
GERMANIA,STATI UNITI
INDIA
INDIA,CINA,RUSSIA,AMERICA
IRAN
IRAN,INDIA
POLONIA
SLOVACCHIA
SLOVACCHIA,CINA
Chiusure Estero
Totale Imprese
Totale Stabilimenti Chiusi
AMERICA,GRAN BRETAGNA
ARGENTINA, BRASILE
FRANCIA
GERMANIA
INDIA
INDIA,CINA
MOD
5
7
2
SIST
0
0
SPEC
2
2
SUB
5
10
Piemonte
5
6
1
Resto d'Italia
11
16
2
1
2
6
9
2
2
2
2
1
2
2
2
1
1
4
1
4
1
2
2
1
2
1
2
1
1
1
2
ED
MOD
2
2
SIST
0
0
SPEC
1
3
SUB
1
5
Piemonte
2
3
2
Resto d'Italia
3
7
3
1
Totale
Totale
3
6
2
3
1
1
1
5
1
1
5
17
25
2
3
2
2
2
2
4
1
2
2
1
2
6
13
2
3
1
1
1
5
112
Tabella 124: Quali sono per fatturato (o per volume) i vostri primi tre mercati esteri?
D15 Mercati
ED
MOD
SIST
imprese
Europa Occidentale
Europa Centrale
America del Nord
Asia (escluse Cina, India, Russia)
Cina
India
Africa del Nord
Turchia
Medio Oriente (esclusa la Turchia)
Brasile
Europa dell'Est
Africa (esclusi Paesi del Mediterraneo)
America del Sud (escluso il Brasile)
Russia
Oceania
America Centrale
Rispondenti
Non Risponde
NO EXPORT
Totale intervistati
%
172 117,8%
23 15,8%
25 17,1%
15 10,3%
13
8,9%
8
5,5%
2
1,4%
10
6,8%
5
3,4%
4
2,7%
1
0,7%
1
0,7%
2
1,4%
3
2,1%
0
0,0%
1
0,7%
146 70,5%
4
1,9%
57 27,5%
207
imprese
%
18 180,0%
1 10,0%
2 20,0%
2 20,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
10 76,9%
0
0,0%
3 23,1%
13
imprese
%
36 116,1%
5 16,1%
12 38,7%
6 19,4%
2
6,5%
1
3,2%
0
0,0%
2
6,5%
1
3,2%
3
9,7%
0
0,0%
2
6,5%
2
6,5%
0
0,0%
2
6,5%
1
3,2%
31 79,5%
0
0,0%
8 20,5%
39
SPEC
imprese
SUB
%
145 133,0%
16 14,7%
17 15,6%
7
6,4%
2
1,8%
4
3,7%
5
4,6%
2
1,8%
3
2,8%
5
4,6%
4
3,7%
0
0,0%
3
2,8%
4
3,7%
2
1,8%
1
0,9%
109 79,6%
6
4,4%
22 16,1%
137
imprese
Piemonte
%
402 131,4%
59 19,3%
36 11,8%
12
3,9%
11
3,6%
8
2,6%
12
3,9%
5
1,6%
8
2,6%
3
1,0%
7
2,3%
8
2,6%
4
1,3%
4
1,3%
1
0,3%
1
0,3%
306 52,1%
5
0,9%
276 47,0%
587
imprese
%
332 123,9%
60 22,4%
31 11,6%
17
6,3%
19
7,1%
16
6,0%
8
3,0%
14
5,2%
5
1,9%
12
4,5%
4
1,5%
5
1,9%
5
1,9%
5
1,9%
1
0,4%
2
0,7%
268 67,3%
7
1,8%
123 30,9%
398
Resto d'Italia
imprese
%
441 132,0%
44 13,2%
61 18,3%
25
7,5%
9
2,7%
5
1,5%
11
3,3%
5
1,5%
12
3,6%
3
0,9%
8
2,4%
6
1,8%
6
1,8%
6
1,8%
4
1,2%
2
0,6%
334 57,1%
8
1,4%
243 41,5%
585
TOTALE
imprese
%
773 128,4%
104 17,3%
92 15,3%
42
7,0%
28
4,7%
21
3,5%
19
3,2%
19
3,2%
17
2,8%
15
2,5%
12
2,0%
11
1,8%
11
1,8%
11
1,8%
5
0,8%
4
0,7%
602 61,2%
15
1,5%
366 37,2%
983
113
Tabella 135: Con orizzonte 2011 quali saranno (o sono già stati ultimamente dal 2008) i primi 3 Paesi verso i quali concentrerete i vostri sforzi commerciali e eventualmente
produttivi?
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
TOTALE
imprese
Europa Occidentale
America del Nord
Cina
India
Europa dell'Est
Asia (escluse Cina, India, Russia)
Russia
Europa Centrale
Africa del Nord
America del Sud (escluso il Brasile)
Medio Oriente (esclusa la Turchia)
Brasile
Turchia
Africa (esclusi Paesi del Mediterraneo)
Oceania
America Centrale
CONTINUA IN MERCATI GIA' CONQUISTATI
Rispondenti
Non Risponde
Totale intervistati
%
12 117,8%
10 17,1%
4
8,9%
6
5,5%
3
0,7%
3 10,3%
5
2,1%
3 15,8%
3
1,4%
2
1,4%
3
3,4%
1
2,7%
2
6,8%
1
0,7%
1
0,0%
0
0,7%
165
0,7%
206 99,5%
1
0,5%
207
imprese
%
0 117,8%
0 17,1%
0
8,9%
0
5,5%
0
0,7%
0 10,3%
0
2,1%
1 15,8%
0
1,4%
0
1,4%
0
3,4%
0
2,7%
0
6,8%
0
0,7%
0
0,0%
0
0,7%
12 100,7%
13 100,0%
0
0,0%
13
imprese
%
0 117,8%
2 17,1%
3
8,9%
1
5,5%
1
0,7%
1 10,3%
0
2,1%
0 15,8%
0
1,4%
1
1,4%
1
3,4%
2
2,7%
0
6,8%
0
0,7%
0
0,0%
0
0,7%
31 200,7%
39 100,0%
0
0,0%
39
imprese
%
22 117,8%
4 17,1%
7
8,9%
6
5,5%
2
0,7%
7 10,3%
4
2,1%
2 15,8%
3
1,4%
2
1,4%
0
3,4%
2
2,7%
0
6,8%
0
0,7%
0
0,0%
0
0,7%
96 300,7%
136 99,3%
1
0,7%
137
imprese
%
32 117,8%
10 17,1%
8
8,9%
7
5,5%
11
0,7%
3 10,3%
5
2,1%
4 15,8%
4
1,4%
3
1,4%
2
3,4%
0
2,7%
2
6,8%
3
0,7%
1
0,0%
0
0,7%
521 400,7%
585 99,7%
2
0,3%
587
imprese
%
31 117,8%
17 17,1%
14
8,9%
11
5,5%
1
0,7%
8 10,3%
11
2,1%
5 15,8%
7
1,4%
6
1,4%
3
3,4%
4
2,7%
3
6,8%
2
0,7%
1
0,0%
0
0,7%
317 500,7%
395 99,2%
3
0,8%
398
imprese
%
35 117,8%
9 17,1%
8
8,9%
9
5,5%
16
0,7%
6 10,3%
3
2,1%
5 15,8%
3
1,4%
2
1,4%
3
3,4%
1
2,7%
1
6,8%
2
0,7%
1
0,0%
0
0,7%
508 600,7%
584 99,8%
1
0,2%
585
imprese
%
66 128,4%
26 15,3%
22
4,7%
20
3,5%
17
2,0%
14
7,0%
14
1,8%
10 17,3%
10
3,2%
8
1,8%
6
2,8%
5
2,5%
4
3,2%
4
1,8%
2
0,8%
0
0,7%
825 700,7%
979 99,6%
4
0,4%
983
114
Tabella 146: In un’economia globalizzata anche le produzioni italiane necessitano di acquisti di componenti, servizi e materie prime all’estero. Fatto pari a 100 il totale dei
suoi acquisti può ripartirli fra Piemonte, resto d’Italia e estero, indicando i primi tre Paesi per importanza?
D17 Acquisti in
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
Piemonte
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D17 Acquisti nel
Resto d'Italia
ED
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
D17 Acquisti
all'Estero
imprese
%
0
0,0%
4 30,8%
0
0,0%
1
7,7%
3 23,1%
13
MOD
%
23 11,1%
30 14,5%
24 11,6%
27 13,0%
81 39,1%
207
ED
imprese
meno del 25%
tra l'26% e il 50%
tra l'51% e il 75%
tra il 76% e il 99%
100%
Totale intervistati
%
13
6,3%
21 10,1%
12
5,8%
10
4,8%
10
4,8%
207
imprese
%
2 15,4%
2 15,4%
3 23,1%
0
0,0%
2 15,4%
13
38 18,4%
36 17,4%
12
5,8%
10
4,8%
10
4,8%
207
imprese
%
5 12,8%
10 25,6%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
39
SIST
MOD
%
imprese
imprese
%
4 10,3%
15 38,5%
5 12,8%
3
7,7%
5 12,8%
39
1
7,7%
6 46,2%
0
0,0%
1
7,7%
3 23,1%
13
imprese
%
16 11,7%
15 10,9%
8
5,8%
7
5,1%
2
1,5%
137
SPEC
SIST
%
imprese
imprese
%
12
8,8%
31 22,6%
18 13,1%
18 13,1%
45 32,8%
137
4 10,3%
17 43,6%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
39
imprese
%
17
2,9%
64 10,9%
15
2,6%
31
5,3%
26
4,4%
587
SUB
SPEC
%
imprese
imprese
%
38
6,5%
90 15,3%
44
7,5%
79 13,5%
274 46,7%
587
29 21,2%
36 26,3%
8
5,8%
7
5,1%
2
1,5%
137
imprese
%
41 10,3%
108 27,1%
35
8,8%
48 12,1%
41 10,3%
398
Piemonte
SUB
%
imprese
imprese
%
61 15,3%
110 27,6%
26
6,5%
26
6,5%
76 19,1%
398
Piemonte
%
100 17,0%
85 14,5%
15
2,6%
31
5,3%
26
4,4%
587
imprese
%
75 18,8%
78 19,6%
35
8,8%
48 12,1%
41 10,3%
398
imprese
10
6
0
1
0
585
%
1,7%
1,0%
0,0%
0,2%
0,0%
Resto d'Italia
imprese
%
18
3,1%
58
9,9%
68 11,6%
101 17,3%
331 56,6%
585
Resto d'Italia
imprese
%
97 16,6%
102 17,4%
0
0,0%
1
0,2%
0
0,0%
585
imprese
%
51
5,2%
114 11,6%
35
3,6%
49
5,0%
41
4,2%
983
Totale
imprese
%
79
8,0%
168 17,1%
94
9,6%
127 12,9%
407 41,4%
983
Totale
imprese
%
172 17,5%
180 18,3%
35
3,6%
49
5,0%
41
4,2%
983
115
Tabella 157: Dove vengono svolte le seguenti funzioni aziendali?
D18 Funzioni aziendali
ED
MOD
opzioni
Management strategico
Marketing, vendite, servizio
clienti
Produzione
Acquisti, logistica e
distribuzione
Innovazione e sviluppo dei
prodotti (ricerca, design,
ingegnerizzazione)
Sviluppo tecnologico e dei
processi produttivi
Totale intervistati
Italia
Estero
entrambi
Italia
Estero
entrambi
Italia
Estero
entrambi
Italia
Estero
entrambi
Italia
Estero
entrambi
Italia
Estero
entrambi
imprese
%
193 93,2%
1 0,5%
13 6,3%
191 92,3%
2 1,0%
14 6,8%
196 94,7%
2 1,0%
9 4,3%
196 94,7%
0 0,0%
11 5,3%
196 94,7%
1 0,5%
10 4,8%
198 95,7%
1 0,5%
8 3,9%
207
imprese
SIST
%
9 69,2%
1 7,7%
3 23,1%
11 84,6%
1 7,7%
1 7,7%
12 92,3%
0 0,0%
1 7,7%
11 84,6%
0 0,0%
2 15,4%
9 69,2%
0 0,0%
4 30,8%
11 84,6%
0 0,0%
1 7,7%
13
imprese
SPEC
%
17 43,6%
4 10,3%
18 46,2%
15 38,5%
1 2,6%
23 59,0%
26 66,7%
2 5,1%
11 28,2%
22 56,4%
1 2,6%
16 41,0%
20 51,3%
2 5,1%
17 43,6%
27 69,2%
3 7,7%
9 23,1%
39
imprese
SUB
%
124 90,5%
2 1,5%
11 8,0%
127 92,7%
1 0,7%
9 6,6%
129 94,2%
0 0,0%
8 5,8%
129 94,2%
1 0,7%
7 5,1%
129 94,2%
1 0,7%
7 5,1%
133 97,1%
0 0,0%
4 2,9%
137
imprese
Piemonte
%
566 96,4%
0 0,0%
21 3,6%
569 96,9%
1 0,2%
16 2,7%
578 98,5%
1 0,2%
7 1,2%
575 98,0%
2 0,3%
9 1,5%
575 98,0%
2 0,3%
9 1,5%
578 98,5%
1 0,2%
7 1,2%
587
imprese
%
368 92,5%
4 1,0%
26 6,5%
369 92,7%
3 0,8%
25 6,3%
379 95,2%
3 0,8%
15 3,8%
375 94,2%
2 0,5%
20 5,0%
369 92,7%
3 0,8%
25 6,3%
380 95,5%
2 0,5%
14 3,5%
398
Resto d'Italia
imprese
%
541 92,5%
4 0,7%
40 6,8%
544 93,0%
3 0,5%
38 6,5%
562 96,1%
2 0,3%
21 3,6%
558 95,4%
2 0,3%
25 4,3%
560 95,7%
3 0,5%
22 3,8%
567 96,9%
3 0,5%
15 2,6%
585
Totale
imprese
%
909 92,5%
8 0,8%
66 6,7%
913 92,9%
6 0,6%
63 6,4%
941 95,7%
5 0,5%
36 3,7%
933 94,9%
4 0,4%
45 4,6%
929 94,5%
6 0,6%
47 4,8%
947 96,3%
5 0,5%
29 3,0%
983
116
Tabella 168: Quali sono le aspettative della sua impresa riguardo agli ordinativi nazionali ed esteri per i prossimi 6 mesi:
D19 Aspettative
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Ordinativi
opzioni
NAZIONALI
ESTERI
imprese
Netta Flessione
Moderata Flessione
Moderata Crescita
Netta Crescita
Non sa
Netta Flessione
Moderata Flessione
Moderata Crescita
Netta Crescita
Non sa
%
imprese
4 1,9%
27 13,0%
170 82,1%
0 0,0%
6 2,9%
16 7,7%
34 16,4%
138 66,7%
0 0,0%
19 9,2%
207
Totale intervistati
%
imprese
1 7,7%
1 7,7%
10 76,9%
0 0,0%
1 7,7%
1 7,7%
1 7,7%
10 76,9%
0 0,0%
1 7,7%
13
%
imprese
2 5,1%
7 17,9%
30 76,9%
0 0,0%
0 0,0%
2 5,1%
7 17,9%
30 76,9%
0 0,0%
0 0,0%
39
%
imprese
3 2,2%
25 18,2%
105 76,6%
3 2,2%
1 0,7%
5 3,6%
22 16,1%
96 70,1%
3 2,2%
11 8,0%
137
Piemonte
%
imprese
13 2,2%
123 21,0%
446 76,0%
0 0,0%
5 0,9%
54 9,2%
94 16,0%
298 50,8%
2 0,3%
139 23,7%
587
%
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
13 3,3%
69 17,3%
310 77,9%
0 0,0%
6 1,5%
29 7,3%
64 16,1%
252 63,3%
1 0,3%
52 13,1%
398
Tabella 17: La vostra impresa costituita negli ultimi 3 anni è un'impresa (domanda proposta solo alle nuove aggiunte al dataset):
D19a Origine nuove imprese
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
imprese
Resto d'Italia
imprese
%
%
10 1,7%
114 19,5%
451 77,1%
3 0,5%
7 1,2%
49 8,4%
94 16,1%
320 54,7%
4 0,7%
118 20,2%
585
Resto d'Italia
imprese
%
Totale
imprese
%
23 2,3%
183 18,6%
761 77,4%
3 0,3%
13 1,3%
78 7,9%
158 16,1%
572 58,2%
5 0,5%
170 17,3%
983
Totale
imprese
%
Costituita dallo scorporo di
uno o più rami di un'altra
impresa già operante nel
settore automotive
2
50,0%
0
0,0%
0
0,0%
1
33,3%
5
15,2%
0
8
20,0%
8
14,0%
Non derivante da nessun'altra
impresa già esistente
1
25,0%
0
0,0%
0
0,0%
1
33,3%
16
48,5%
0
18
45,0%
18
31,6%
1
25,0%
0
0,0%
0
0,0%
0
0,0%
5
15,2%
0
6
15,0%
6
10,5%
0
2
4
0,0%
33,3%
66,7%
0
0,0%
0
0,0%
39 100,0%
39
1
5
3
33,3%
62,5%
37,5%
Derivante dall'acquisizione di
un'impresa già esistente
Altro specificare
Non Risponde
Rispondenti
Totale intervistati
6
0
0,0%
0
0,0%
13 100,0%
13
8
7 21,2%
10 23,3%
33 76,7%
43
0
2 100,0%
0
0,0%
2
8 20,0%
15 27,3%
40 72,7%
55
8 14,0%
17 29,8%
40
57
117
Tabella 180: La Sua azienda appartiene ad un gruppo?
D20 Gruppi
ED
imprese
%
MOD
imprese
SIST
%
imprese
SPEC
%
imprese
SUB
%
imprese
Piemonte
%
imprese
%
Resto d'Italia
imprese
%
Totale
imprese
%
Sì, è la controllante
11
5,3%
3
23,1%
10
25,6%
17
12,4%
29
4,9%
44
11,1%
26
4,4%
70
7,1%
Sì, è controllata da gruppo italiano
(Filiale di gruppo Italiano)
15
7,2%
0
0,0%
2
5,1%
13
9,5%
21
3,6%
27
6,8%
24
4,1%
51
5,2%
Si, è controllata da gruppo estero
(Filiale di gruppo Estero), senza
autonomia strategico-decisionale
4
1,9%
1
7,7%
6
15,4%
6
4,4%
8
1,4%
9
2,3%
16
2,7%
25
2,5%
Si, è controllata da gruppo estero
(Filiale di gruppo Estero), con
autonomia strategico-decisionale
7
3,4%
6
46,2%
17
43,6%
7
5,1%
16
2,7%
27
6,8%
26
4,4%
53
5,4%
144
69,6%
3
23,1%
1
2,6%
82
59,9%
496
84,5%
259
65,1%
467
79,8%
726
73,9%
26
12,6%
0
0,0%
3
7,7%
12
8,8%
17
2,9%
32
8,0%
26
4,4%
58
5,9%
No, è un’azienda indipendente a
controllo individuale
No, è un’azienda indipendente ad
azionariato diffuso
Totale intervistati
207
13
39
137
587
398
585
983
118
Tabella 19: Quanti addetti lavorano per la sua azienda in totale fra dipendenti e collaboratori (esprimere pure la migliore approssimazione)?
D21 Dipendenti Totali
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
imprese
meno di 10 dipendenti
tra 10 e 50 dipendenti
tra 50 e 250 dipendenti
più di 250 dipendenti
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
%
37 18,0%
102 49,8%
50 24,4%
16
7,8%
2
1,0%
205 99,0%
207
imprese
%
1
7,7%
3 23,1%
3 23,1%
6 46,2%
0
0,0%
13 100,0%
13
imprese
6
4
9
19
1
38
39
%
15,8%
10,5%
23,7%
50,0%
2,6%
97,4%
imprese
%
17 12,7%
53 39,6%
51 38,1%
13
9,7%
3
2,2%
134 97,8%
137
imprese
%
152 26,2%
319 54,9%
87 15,0%
23
4,0%
6
1,0%
581 99,0%
587
imprese
%
53 13,5%
191 48,7%
108 27,6%
40 10,2%
6
1,5%
392 98,5%
398
imprese
%
160 27,6%
290 50,1%
92 15,9%
37
6,4%
6
1,0%
579 99,0%
585
Totale
imprese
%
213 21,9%
481 49,5%
200 20,6%
77
7,9%
12
1,2%
971 98,8%
983
119
Tabella 202: Percentualmente rispetto al 2008, il fatturato complessivo (automotive e non) 2009 della Sua azienda (non il gruppo) è aumentato o diminuito del:
D22 Variazione
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
Piemonte
Resto d'Italia
Totale
Fatturato
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
imprese
%
tra -80% e -51%
tra -50% e -21%
tra -20% e -1%
4
50
71
2,1%
26,5%
37,6%
0
2
7
0,0%
16,7%
58,3%
0
10
12
0,0%
28,6%
34,3%
3
54
43
2,3%
42,2%
33,6%
25
236
165
4,7%
43,9%
30,7%
23
158
114
6,1%
42,1%
30,4%
9
194
184
1,7%
36,9%
35,0%
32
352
298
3,6%
39,1%
33,1%
Fatturato Invariato
51
27,0%
2
16,7%
9
25,7%
15
11,7%
69
12,8%
59
15,7%
87
16,5%
146
16,2%
37
4
1
50
537
587
6,9%
0,7%
0,2%
8,5%
91,5%
16
5
0
23
375
398
4,3%
1,3%
0,0%
5,8%
94,2%
tra 1% e 20%
tra l'21% e 50%
tra 51% e 80%
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
9
4,8%
4
2,1%
0
0,0%
18
8,7%
189 91,3%
207
0
0,0%
1
8,3%
0
0,0%
1
7,7%
12 92,3%
13
3
8,6%
1
2,9%
0
0,0%
4 10,3%
35 89,7%
39
13 10,2%
0
0,0%
0
0,0%
9
6,6%
128 93,4%
137
Tabella 213: Nel 2009 quale è stato il fatturato complessivo (automotive e non) della Sua azienda (non il gruppo)?
D23 Classi di Fatturato
ED
MOD
SIST
SPEC
SUB
imprese
Inferiore a 200 mila euro
Da 200 mila a 800 mila euro
Da 800 mila a 2 milioni di euro
Da 2 a 5 milioni
Da 5 a 10 milioni di euro
Da 10 a 25 milioni di euro
Da 25 a 50 milioni di euro
Da 50 a 75 milioni di euro
Da 75 a 100 milioni di euro
Oltre 100 milioni di euro
Non Rispondenti
Rispondenti
Totale intervistati
%
4 2,1%
19 10,0%
47 24,7%
47 24,7%
30 15,8%
26 13,7%
7 3,7%
0 0,0%
3 1,6%
7 3,7%
17 8,2%
190 91,8%
207
imprese
%
0
0,0%
1
7,7%
1
7,7%
2 15,4%
1
7,7%
1
7,7%
1
7,7%
1
7,7%
1
7,7%
4 30,8%
0
0,0%
13 100,0%
13
imprese
%
1 2,9%
3 8,6%
4 11,4%
1 2,9%
1 2,9%
6 17,1%
6 17,1%
0 0,0%
5 14,3%
8 22,9%
4 10,3%
35 89,7%
39
imprese
%
3 2,3%
12 9,4%
22 17,2%
25 19,5%
23 18,0%
21 16,4%
11 8,6%
3 2,3%
4 3,1%
4 3,1%
9 6,6%
128 93,4%
137
imprese
46
8,7%
5
1,0%
1
0,2%
59 10,1%
526 89,9%
585
Piemonte
%
36 6,7%
109 20,1%
127 23,5%
125 23,1%
51 9,4%
61 11,3%
19 3,5%
5 0,9%
4 0,7%
4 0,7%
46 7,8%
541 92,2%
587
imprese
5
42
78
89
55
56
19
5
6
16
27
371
398
62
6,9%
10
1,1%
1
0,1%
82
8,3%
901 91,7%
983
Resto d'Italia
%
1,3%
11,3%
21,0%
24,0%
14,8%
15,1%
5,1%
1,3%
1,6%
4,3%
6,8%
93,2%
imprese
39
102
123
111
51
59
25
4
11
11
49
536
585
Totale
%
7,3%
19,0%
22,9%
20,7%
9,5%
11,0%
4,7%
0,7%
2,1%
2,1%
8,4%
91,6%
imprese
%
44 4,9%
144 15,9%
201 22,2%
200 22,1%
106 11,7%
115 12,7%
44 4,9%
9 1,0%
17 1,9%
27 3,0%
76 7,7%
907 92,3%
983
120
Fonti statistiche, Attrattività del mercato, Competitività d’impresa
Dispensa per la prima parte del corso:
Analisi competitiva internazionale e gestione delle reti
Giuseppe Volpato
7. Le fonti statistiche
7.1. Enti statistici, Istituzioni nazionali e internazionali, Associazioni, Società di servizi
7.1.1 Enti statistici nazionali
L’analisi di una mercato nazionale o di uno specifico settore produttivo non può che
iniziare da una raccolta di informazioni statistiche e di studi dedicati agli argomenti di interesse. Attualmente questo genere di desk research è molto agevolato in quanto si può utilizzare Internet. Gli Enti statistici nazionali (come l’ISTAT per l’Italia) pubblicano sistematicamente degli annuari, in certi casi scaricabili direttamente e gratuitamente dal sito internet,
su variabili economiche importanti per lo studio dei sistemi economici nazionali e dei settori
industriali. Si veda ad esempio ISTAT, www.istat.it/ che cura pubblicazioni come “I consumi
delle famiglie”, il “Censimento della popolazione”, il “Censimento dell’Industria”, ecc.
Sempre a livello nazionale l’ente che effettua le rilevazioni statistiche di carattere
finanziario è la Banca d’Italia (www.bancaditali.it), che dedica fornisce sistematicamente
informazioni sulle attività finanziarie del paese. Il sito presenta anche il link per l’ufficio
Italiani cambi che consente di effettuare le conversioni tra monete differenti riferite ad una
certa data, ciò facilità enormemente il raffronto di bilanci redatti in diverse unità di conto e a
date differenti.
Queste statistiche rappresentano materiale prezioso, anche se va specificato che in
generale il grado di disaggregazione delle informazioni disponibili e la loro data di
riferimento non sono né analitiche né tempestive come sarebbe utile ai fini di una analisi
competitiva fra imprese, ma poiché in molti casi l’alternativa consisterebbe in ricerche ad hoc
molto lunghe e costose che raramente risultano possibili, esse rappresentano comunque una
forte informativa importante che va opportunamente sfruttata.
Per la Francia abbiamo l’INSEE, Institut National de la Statistique et des Études
Économiques www.insee.fr.
Per gli Stati Uniti il principale ente statistico è rappresentato dall’US Bureau of
Census www.census.gov.
Questi Enti producono statistiche concernenti gli indicatori di ricchezza e di consumo
medie delle famiglie e pro-capite con numerose ripartizioni (per es. di tipo geografico),
nonché informazioni sulle attività produttive suddivise per settori.
1
Abbiamo inoltre delle Istituzioni nazionali (ad esempio Ministeri ed Enti pubblici
di ricerca) che svolgono ricerche e pubblicano raccolte di dati. In generale i dati sono
raccolti dal’ente statistico nazionale, ma il ministero effettua una raccolta sistematica di
tutte le informazioni raccolte dall’Ente statistico nazionale sull’area di attività interessata,
agevolando in questo modo il lavoro di raccolta delle informazioni da parte del ricercatore.
Ad esempio in Italia il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
(www.mit.gov.it/mit/site) pubblica nella sezione “Documentazione e statistiche” un
annuario denominato “Conto Nazionale delle Infrastrutture e dei Trasporti” nel quale
raccoglie tutte le statistiche disponibili a vario titolo su questo tema. Si veda in proposito il
file Indice Conto Nazionale Infrastrutture e Trasporti 2007-2008.doc.
7.1.2. Enti statistici sovranazionali
Esistono degli Enti statistici sovrazionali, ad esempio l’Eurostat per l’Unione Europea, l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) per i paesi più
industrializzati, l’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development), il
WTO (World Trade Organization), che effettuano indagini e pubblicano statistiche in modo
sistematico sui rispettivi temi di interesse.
Il lavoro di queste istituzioni è particolarmente prezioso in quanto i dati presentati
derivano da un lavoro di armonizzazione da una loro armonizzazione effettuata da parte dei
singoli enti statistici nazionali permettendo una forma diretta di comparazione dei valori
altrimenti lunga e laboriosa.
Tra l’altro il processo di globalizzazione ha partcilarmente sottolineato l’importanza che
vi sia un processo di standardizzazione internazionale delle informazioni statistiche fin dal
momento della loro prima rilevazione. Pertanto è in atto un processo di convergenza da parte
dei paesi verso una comune definizione dei fenomeni da rilevare. Questo processo non può
ancora dirsi concluso, tuttavia il livello di comparabilità delle grandezze rilevate ha già
raggiunto importanti risultati.
7.1.3. Associazioni nazionali
Le Associazioni di categoria professionale sono associazioni private che effettuano
studi e raccolgono informazioni per le categorie professionali delle imprese aderenti. Ad
esempio in Italia la Confindustria, (Confederazione Generale dell’Industria Italiana,
www.confindustria.it), effettua studi e ricerche sui temi economici di interesse per gli associati.
In Francia l’ente omologo è il CNPF (Conseil National du Patronat Fraçais), poi ridenominato MEDEF (Mouvement des Entreprises de France www.medef.fr).
In Gran Bretagna l’ente omologo è il CBI (Confederation of Business Enterprises
www.cbi.org.uk). In generale questi enti producono informazioni riservate agli associati. Il
che vuol dire che normalmente un manager o un ricercatore, se appartenente ad un’impresa
associata, ha la possibilità di disporre delle informazioni corrispondenti.
2
7.1.4. Associazioni di categoria
Esistono inoltre numerose Associazioni di operatori economici (che possono o meno
essere associate alla Confindustria o agli enti corrispondenti) che forniscono informazioni e
statistiche relativamente alle attività economiche di loro interesse. Ad esempio nel caso
dell’industria automobilistica esistono numerose associazioni a livello nazionale e internazionale. In Italia per esempio abbiamo l’ANFIA (Associazione Nazionale Filiera Industria
Automobilistica www.anfia.it); l’UNRAE (Unione nazionale Rappresentanti Autoveicoli
Esteri www.unrae.it), mentre a livello internazionale opera l’ACEA, (European Automobile
Manufacturers’ Association www.acea.be) e l’OICA (Organisation Internationale des
Constructeurs d’Automobile http://oica/net).
Il caso dell’industria automobilistica è un caso un po’ speciale nel senso che le automobili (come anche i motocicli) sono dei “Beni Registrati” (targa e negoziazione per atto
pubblico registrato di fronte al notaio). In questo modo esistono statistiche ufficiali sulle
immatricolazioni e sul parco circolante. Purtroppo per gli altri beni, in generale, non vi è
l’obbligo della registrazione e pertanto non vi sono statistiche pubbliche sui consumi delle
singole categorie di beni se non in occasione dei censimenti, che sono rilevazioni generali
svolte solitamente ogni cinque anni da parte degli enti statistici nazionali.
7.1.5. Banche Dati e Società di servizi dedicati al Business Intelligence
Questa sintetica rassegna sulle fonti informative utili per l’analisi della competitività
tra imprese, settori e paesi, si conclude con la menzione delle Banche Dati. In generale si
tratta di enti privati che raccolgono informazioni utili per lo studio dei mercati e della
competitività, ma queste informazioni sono solitamente fornite a pagamento.
L’Università ha accesso ad alcune Banche Dati Fra i quali AIDA (Analisi Informatizzata
delle Aziende). In questa Banca dati sono disponibili dati estratti dai Bilanci di un numero
molto elevato di imprese.
Fra gli enti privati che elaborano studi e informazioni statistiche di grande importanza
per le analisi di competitività segnaliamo il la società internazionale Nielsen, che opera anche
in Italia (www.it.nielsen.com), ed è stata la prima a raccogliere informazioni su grandezze di
grande rilevo per l’analisi competitiva come le spese effettuate dalle imprese per attività
pubblicitarie e le quote di mercato per categoria merceologica. Attualmente lo spettro di
servizi dedicati all’analisi competitiva e al business intelligence offerto da questo genere di
società è molto ampia e comprende:
- L’analisi della dimensione e della dinamica dei mercati,
- L’andamento dei canali distributivi per aree geografiche,
- Il posizionamento competitivo delle aziende,
- La dinamica di prezzi,
- Intensità delle attività promozionali e ritorno sugli investimenti,
- Il geomarketing.
3
7.2. La classificazione Ateco 2007
Si è menzionato il fatto che in generale la classificazione delle attività economiche
fatte dagli Enti di rilevazione statistica come l’ISTAT è solitamente troppo sintetica e
generalmente stabilita con criteri che non rispecchiano adeguatamente quelli di natura
competitiva richiesti nella definizione dei confini settoriali. Tuttavia l'importanza di disporre
di un sistema di classificazione delle attività economiche non ha bisogno di essere
sottolineato, soprattutto per quanto riguarda le analisi macroeconomiche. Senza un sistema di
rilevazione delle caratteristiche e dell'entità economica realizzata nei diversi settori produttivi
qualunque attività di programmazione economica si muoverebbe alla cieca e risulterebbero
impossibili anche gli accordi di scambio e di cooperazione internazionale. Tuttavia le
classificazioni e i relativi risultati censuari vanno consultati anche da chi studia un singolo
settore. Probabilmente non troverà una settore definito nel modo che sarebbe utile per una
approfondita analisi competitiva, ma in ogni caso potrà comunque raccogliere qualche
informazione interessante soprattutto nel caso si studi un settore molto frazionato come ad
esempio quello delle calzature o del mobilio. Si tratta di settori che nel nostro paese contano
centinaia di migliaia di unità locali e pertanto anche i dati sintetici raccolti dall’ente statistico
nazionale possono essere di aiuto.
In questa era di globalizzazione servono anche dei confronti statistici internazionali,
ma a motivo delle differenze fra le strutture produttive dei vari paesi e, di conseguenza, dei
precipui interessi conoscitivi, ogni paese ha sviluppato da lungo tempo un proprio sistema di
classificazione e di rilevazione economica. Di conseguenza questi sistemi di classificazione
sono periodicamente sottoposti a delle revisioni in vista di due principali obiettivi:
A) Aggiornare le classificazioni in modo da seguire le trasformazioni che si
manifestano nelle strutture dei paesi, rappresentati essenzialmente dalla nascita di nuovi
settori industriali 1.
B) Cercare di omogeneizzare al massimo i sistemi di classificazione adottati dai diversi paesi. Quest'ultima esigenza diventa quanto mai pressante nei casi in cui diversi paesi si
associno per formare delle comunità sovranazionali come nel caso della Unione Economica
Europea.
Sin dall'inizio degli anni sessanta, l'Istituto Statistico delle Comunità Europee
(Eurostat) ha avviato un processo di armonizzazione delle statistiche dei paesi membri, che
consentisse anche un confronto con lo schema adottato da altri enti statistici sovranazionali
come le Nazioni Unite. Questa iniziativa si è sviluppata per gradi, interessando prima le
attività industriali, poi quelle commerciali e infine quelle agricole. Nel 1970 si è pervenuti
alla prima General Industrial Classification of Economic Activities (NACE), che raggruppa
in un unico standard le precedenti classificazioni comunitarie. Questo sistema, con le sue
successive variazioni, ha un discreto grado di omogeneità con l'International Standard
Industrial Classification (ISIC) delle Nazioni Unite.
1
Ad esempio si pensi che negli anni '50 non esisteva una industria dei calcolatori elettronici.
4
Il sistema NACE è articolato attraverso uno schema di classificazione decimale così
organizzato:
- divisioni (divisions)
codice a 1 cifra
(tot. 10 divisioni)
- classi (classes)
codice a 2 cifre
(tot. 61 classi)
- gruppi (groups)
codice a 3 cifre
(tot. 340 gruppi)
- sottogruppi (sub-groups) codice a 4 cifre
(tot. 748 sottogruppi)
- posizioni (items)
codice a 5 cifre
(tot. 872 posizioni)
Va comunque sottolineato che la suddivisione in items sussiste solamente per alcune
particolari attività, pertanto la classificazione è molto più prossima a una suddivisione a 4
cifre che a una effettiva suddivisione a 5 cifre.
Successivamente alla definizione del sistema NACE 70 la classificazione italiana
delle attività economiche utilizzata per i censimenti delle attività economiche, denominato
ATECO e sviluppato a partire dal 1981, ha seguito da vicino la classificazione NACE,
ripartendosi su quattro livelli secondo lo schema qui riportato:
- rami
codice a 1 cifra
(tot. 10 rami)
- classi
codice a 2 cifra
(tot. 62 classi)
- sottoclassi
codice a 3 cifre
(tot. 274 sottoclassi)
- categorie
codice a 4 cifre
(tot. 545 categorie)
La confrontabilità totale fra la classificazione italiana e quella NACE riferite al 1981
esiste solamente per “rami” e “classi”. A livello di “sottoclasse” la corrispondenza ha qualche
eccezione e le differenze crescono ulteriormente nel passaggio alle “categorie”.
Successivamente è iniziata una ulteriore fase di revisione e armonizzazione dei criteri
di classificazione che ha visto la collaborazione fra l'Eurostat e l'Ufficio Statistico delle
Nazioni Unite che ha portato alla elaborazione di un nuovo sistema ISIC e NACE.
Attualmente abbiamo la classificazione NACE Rev.1.1 definita in ambito europeo e
approvata con Regolamento della Commissione n. 29/2002, pubblicato su l’Official Journal
del 10/1/2002. Per l’Italia la versione nazionale del sistema NACE Rev.1.1 è rappresentata
dal sistema di classificazione Ateco 2002. L'obiettivo dell'Ateco 2002 è di tenere conto delle
specificità della struttura produttiva italiana, rinnovando, rispetto alla Ateco 1991, il dettaglio
a livello di "categoria" (5° cifra della classificazione), utile ad individuare attività
particolarmente rilevanti nel nostro Paese.
A partire da gennaio 2008 l'Istat ha dottato la nuova classificazione delle attività economiche Ateco 2007, che scaturisce da una revisione completa della precedente e
dall'esigenza di avere un'unica classificazione di riferimento a livello mondiale definita in
ambito ONU (ISIC Rev.4). A causa del complesso processo di convergenza, la nuova
classificazione risulta profondamente cambiata rispetto all'Ateco 2002 sia nella struttura sia
nei contenuti.
5
Quadro 2.3 – Esempio di classificazione Ateco 2007
C
ATTIVITÁ MANIFATTURIERE
31
31.0
31.01
31.01.1
31.01.2
31.02
31.02.0
31.03
31.03.0
31.09
31.09.1
FABBRICAZIONE DI MOBILI
FABBRICAZIONE DI MOBILI
Fabbricazione di mobili per uffici e negozi
Fabbricazione di sedie e poltrone per uffici e negozi
Fabbricazione di altri mobili per uffici e negozi
Fabbricazione di mobili per cucina
Fabbricazione di mobili per cucina
Fabbricazione di materassi
Fabbricazione di materassi
Fabbricazione di altri mobili
Fabbricazione di mobili per arredo domestico
Fabbricazione di sedie e sedili (esclusi quelli per
aeromobili, autoveicoli, navi, treni, uffici e negozi)
Fabbricazione di poltrone e divani
Fabbricazione di parti e accessori di mobili
Finitura di mobili
Fabbricazione di altri mobili compresi quelli per arredo
esterno
31.09.2
31.09.3
31.09.4
31.09.5
31.09.9
7.3. La classificazione degli Stati Uniti
Lo schema di classificazione americano può essere considerato il piú analitico
attualmente in uso. Esso si basa su 7 livelli di disaggregazione cosí ripartiti:
- 10 Broad Economic Divisions
- 20 Mayor Industry Groups
- 150 Industry Groups
- 450 Industries
- 1.500 Classes of Products
- 13.000 Products
codice a lettera alfabetica
codice a 2 cifre
codice a 3 cifre
codice a 4 cifre
codice a 5 cifre
codice a 7 cifre
Un aspetto significativo di questo schema di classificazione, oltre naturalmente alla
sua analiticità, è dato dal fatto che è possibile combinare informazioni sull'output (in quantità
e valore) di settori diversi. In particolare è possibile distinguere ciò che viene indicato come
Industry Shipment da ciò che è Product Shipment.
L'Industry Shipment si riferisce al totale del prodotto realizzato da una industria, prodotto che normalmente avrà una composizione merceologica mista, dal momento che le industrie non sono rigidamente monoprodotto. Mentre il Product Shipment è dato dalla sommatoria delle quantità di uno stesso prodotto realizzato da tutte le industrie. Tra l'altro questa distinzione pone in luce che le rilevazioni statistiche statunitensi riguardano sistematicamente
(anche a livello di censimento quinquennale) quantità e valore dei principali prodotti
6
realizzati da ciascuna unità di rilevazione. L'«unità locale» è assegnata ad una industria sulla
base della “produzione prevalente”, ma dal momento che viene rilevato il mix di produzione,
è possibile avere una valutazione altamente significativa delle effettive quantità di prodotto
realizzate nelle varie industrie, da utilizzare fra l'altro nella costruzione delle tavole
input-output.
7
8. La misura della attrattività di un mercato
8.1. Le informazioni socio-economiche di base
8.1.1. Indicatori di ricchezza attuale e prospettica
Le informazioni utili ai fini di una misura di attrattività di un mercato sono
rappresentate dalle informazioni sui consumi annui effettuati da una certa popolazione.
Disponendo di questo genere di informazione e di una previsione dell’andamento
economico prospettico si è in grado di stimare la domanda potenziale del mercato
considerato. Dovendo scegliere l’inserimento in un mercato estero la stima della
domanda potenziale costituisce un elemento di riferimento di notevole importanza, che
va naturalmente abbinato ad altri elementi di riferimento che riguardano da un lato la
penetrabilità del mercato e dall’altro l’affinità socio culturale del mercato domestico, in
cui opera la nostra impresa, con quella del mercato estero-target.
Tuttavia questo genere di informazione, rappresentato direttamente dalla
domanda potenziale è raramente disponibile per cui si procede ad una valutazione di
variabili proxy in grado di darci indicazioni sulla entità della domanda potenziale.
Queste variabili sono rappresentate dai indicatori di ricchezza del mercato attuale e
prospettica. Ma prima di passare a considerare questo genere di informazioni è
necessario procede ad una definizione più rigorosa della domanda potenziale di un
mercato.
8.1.2. La domanda potenziale di mercato
Il concetto di domanda può apparire molto semplice ed intuitivo. Ma si tratta di
una impressione superficiale, probabilmente motivata dall'uso assai frequente che viene
fatto di questo termine non solo in campo economico, ma anche nelle conversazioni
quotidiane. Questo aspetto va sottolineato in quanto il termine cela in realtà una serie
assai ampia di problemi pratici e metodologici, spesso esaltati dagli stessi studiosi di
questo genere di problematica, che a volte trascurano di fornire una esatta definizione
del concetto di domanda che intendono utilizzare. Per “domanda” si deve intendere la
quantità di un bene, materiale o immateriale, che gli acquirenti appartenenti ad un
certo ambito geografico desiderano e sono in grado di comprare ad un determinato
prezzo e in un determinato periodo di tempo.
Come si cercherà di porre in risalto, sotto l'uso di una terminologia apparentemente semplice si trova un numero rilevante di problemi assai ardui da affrontare e
risolvere. Cominciamo innanzitutto dalla parola bene. È subito evidente che essa può
assumere un significato univoco solo se il bene, di cui desideriamo analizzare la
domanda, si presenta altamente omogeneo dal punto di vista delle imprese offerenti e
nettamente distinto da tutti gli altri beni. Se invece siamo in presenza di un bene che
assume caratteristiche di differenziazione in quanto i singoli produttori ne realizzano
1
versioni più o meno diverse, anche se largamente sostituibili, perfino la semplice
identificazione del bene in questione può dare adito a dubbi e a problemi metodologici
non trascurabili. Se, ad esempio, facciamo riferimento agli strumenti fotografici
notiamo subito che i modelli presenti sul mercato appartengono a numerose categorie:
macchine fotografiche a pellicola, macchine digitali, macchine a sviluppo istantaneo,
ecc.), differenziate per prezzo, per prestazioni tecniche, per design ecc. Una misura
della domanda complessiva di macchine fotografiche, ottenuta attraverso il totale del
numero degli apparecchi venduti in un certo periodo di tempo (ad esempio, un anno) in
una determinata area (ad esempio, l'Italia) presenta l'inconveniente di cumulare prodotti
relativamente poco omogenei. A parità di numero di apparecchi venduti è sufficiente
una diversa composizione interna della gamma dei modelli per definire caratteristiche e
comportamenti della domanda assolutamente diversi. Senza contare che ormai anche
un’ampia categoria di telefoni cellulari è in grado non solo di scattare fotografie digitali,
ma anche di trasmetterle ad un altro telefono cellulare.
Il problema rimane anche se trasformiamo la domanda in una sommatoria di
valori (pezzi venduti per prezzo unitario corrispondente) dal momento che, se è vero
che questa misura potrebbe fornirci una valutazione complessiva del business in questione, a parità di fatturato del settore sono compatibili infinite differenziazioni interne
della domanda.
Una semplificazione del problema potrebbe derivare dalla scomposizione della
domanda globale di una certa merce in tante domande separate costituite da sottocategorie della merce considerata. Nel caso delle macchine fotografiche si potrebbe incominciare con una ripartizione fra macchine a pellicola e macchine digitali. Quanto piú
l'andamento di una di queste due sottocategorie è poco influenzata da quanto succede
nella domanda e nell'offerta dell'altra, tanto più si giustifica una analisi separata. Al
limite, se durante lo studio di queste due sottodomande scoprissimo che esse risultano
assolutamente indipendenti ne dovremmo dedurre che, almeno dal lato della domanda,
siamo in presenza di due comparti separati. Tra l'altro questo aspetto deve metterci
sull'avviso circa la mobilità dei confini della domanda, e quindi del settore nel suo
complesso, come si è già accennato la presenza di cellulari in grado di scattare e
trasmettere immagini digitali può comportare un completo sovvertimento del modo con
il quale la domanda si esprime.
In conclusione si può dire che, nella maggioranza dei mercati in cui le merci
presentano una certa differenziazione, la domanda viene scomposta in sottocategorie e
la quota di consumatori interessati ad una certa tipologia particolare della merce in
questione viene definita come segmento di mercato. Un segmento di mercato pertanto
indica una parte definita (anche se non sempre in modo molto preciso e stabile) della
domanda totale. Tuttavia l'intrinseca “mobilità” dei segmenti di mercato consiglia uno
studio parallelo sia della domanda globale che di ciascun singolo segmento. Ad esempio
nei problemi di previsione della domanda (che saranno esaminati più avanti), in genere
si preferisce stimare dapprima la domanda complessiva, e quindi scomporla nei segmenti costitutivi, dal momento che la variabilità del fenomeno è molto più contenuta a
livello generale che a livello particolare, data la facilità di passaggio dei consumatori da
un segmento ad un altro.
2
Dal momento che il prodotto offerto dai vari costruttori non presenta in genere
una stretta omogeneità, non esiste un solo prezzo di scambio della merce, ma un
ventaglio di prezzi, la cui variabilità influenza tanto l'ammontare complessivo della domanda, che la sua ripartizione interna fra i segmenti. Nell'analisi della domanda questo
problema viene molto spesso risolto definendo un “prezzo medio ponderato”, costruito
attraverso la media dei prezzi dei prodotti offerti pesati con le rispettive quote di
mercato.
Una questione di notevole portata in tema di analisi della domanda è data dal
“periodo di tempo” da utilizzare come riferimento per la quantificazione della domanda.
Se il particolare tipo di prodotto considerato presenta un consumo di tipo continuativo e
sistematico (ad esempio, il pane) lo studio della domanda risulta notevolmente facilitato
in quanto il periodo di tempo può risultare molto breve, anche un solo giorno, o una
settimana. Invece per altri prodotti, la cui cadenza di acquisto è molto piú lenta, la scelta
del periodo di tempo a cui riferire la domanda richiede una serie di precisazioni.
In genere si ricorre ad una classificazione dei beni allo scopo (tra l'altro) di
meglio definire l'orizzonte temporale su cui estendere l'analisi. Una prima distinzione
riguarda quella fra beni di consumo non durevole e beni di consumo durevole. Quanto
più un bene ha una lunga durata di utilizzo tanto più lungo, a parità delle altre condizioni, sarà il tempo da prendere in considerazione per una corretta valutazione della
domanda. Mentre una variazione del prezzo del pane si traduce in un mutamento del
comportamento dei consumatori rilevabile a breve scadenza, in quanto l'acquisto quotidiano assicura, da un lato, una pronta diffusione dell'informazione sul prezzo e, dall'altro, impone una rapida decisione ai consumatori circa eventuali variazioni della quantità
di pane da acquistare. Invece una variazione del prezzo delle lavastoviglie può indurre
mutamenti di domanda che si manifestano anche con ritardi notevoli. Mentre un acquirente privo di questa apparecchiatura può essere indotto all'acquisto immediato, in presenza di un prezzo più favorevole, il consumatore che ne sia già dotato potrà accorciare
il tempo di utilizzo del modello vecchio, anticipandone il rinnovo, ma ciò non toglie che
la radiazione del vecchio modello possa manifestarsi anche con un ritardo di mesi, o di
anni, rispetto alle più favorevoli condizioni d'offerta. Questi ritardi, con cui la domanda
si adegua alle variazioni che si manifestano dal lato dell'offerta o delle condizioni generali del sistema economico: variazione del reddito pro-capite, variazione della congiuntura, ecc., avvengono in un intervallo di tempo che può essere caratterizzato di significative variazioni congiunturali. Ne derivano delle fluttuazioni cicliche della domanda
che possono alterare anche in modo sensibile il volume d'acquisto tra un anno e l’altro.
Infine anche il concetto di “acquirente” richiede alcune precisazioni. Per molti
tipi di beni i consumatori effettivi o potenziali non coincidono con il numero di
individui costituenti la popolazione di una certa area geografica. Alcuni consumi
riguardano solo alcune categorie di persone ripartite in base al sesso, all'età, al censo, ed
anche ad alcuni particolari riconoscimenti di carattere amministrativo (ad esempio
disponibilità di una patente di guida). In altri casi i beni hanno una funzione di consumo
collettivo e in questo caso il riferimento può essere la “famiglia” ovvero il “nucleo
abitativo”. Le profonde trasformazioni sociali che stanno producendosi nella struttura
delle famiglie può quindi modificare anche in modo drastico la definizione del
3
“consumatore di riferimento. Se ad esempio i giovani si staccano dalla famiglia e vanno
a vivere per conto proprio, ciò accresce considerevolmente la domanda di beni il cui
consumo è legato al numero dei nuclei abitativi: lavatrice, lavastoviglie, televisore, ecc.
Con questa rassegna di problemi, peraltro non esaustiva, si è cercato di mettere
in luce come l'analisi della domanda rappresenti un fenomeno complesso che non può
essere trattato secondo canoni generali. Ogni singola domanda richiede una indagine ad
hoc, che ne metta in luce gli aspetti caratteristici, le particolari modalità di funzionamento e, soprattutto, la modificabilità di questi aspetti in funzione delle trasformazioni
economiche, culturali e psicologiche dei singoli e della società presa nel suo complesso.
Tra l'altro ciò significa che nessuno studio di settore può dirsi soddisfacente senza una
analisi puntuale della domanda. È infatti evidente che la struttura e il comportamento
dell'offerta sono profondamente influenzati dall'evolvere della domanda nel tempo.
Senza una previsione dell’andamento qualitativo e quantitativo della domanda non è
possibile dare un senso compiuto e una valutazione economica dell'assetto dell'offerta e
della sua evoluzione prospettica.
L'esigenza di legare strettamente l'evolvere reciproco di domanda e offerta
suggerisce anche l'utilità di coniare altri concetti di domanda da affiancare a quella
definita in partenza. Finora infatti abbiamo fatto riferimento ad una domanda “effettiva”
in quanto rilevata statisticamente dopo il suo manifestarsi. Ma può essere utile riferirsi
ad una domanda ipotetica non solo nel senso che essa si manifesterà nel futuro, ma
anche tenendo in considerazione che l'ammontare qualitativo/quantitativo della domanda è legato alle modalità di manifestazione del complesso di variabili da cui la domanda
stessa dipende. Tra tutti i possibili concetti di “domanda”, che sono quindi immaginabili, appare utile coniare quelli di domanda attivabile e di domanda potenziale e
domanda massima teorica. Per domanda attivabile definiamo quella domanda prospettica che può divenire effettiva in funzione di una serie di iniziative dell'offerta (sia presa
nel suo complesso che con riferimento a singoli offerenti). È chiaro infatti che un
aumento dei punti di vendita, la riduzione dei prezzi, un più accentuato sforzo
informativo sulle caratteristiche del prodotto, rappresentano iniziative in grado di
sollecitare una più dinamica risposta della domanda. Avremo quindi tante domande
attivabili quanti sono i diversi mix di iniziative posti in essere dall'offerta. Si consideri
però che la domanda attivabile costituisce sempre un valore previsionale, in altre parole
chi fa la previsione assume ex ante che a seguito di un certo insieme di iniziative la
domanda che dovrebbe manifestarsi dovrebbe essere pari ad un certo ammontare. Ex
post abbiamo la possibilità di misurare la domanda effettiva e l’eventuale differenza fra
domanda attivabile e domanda effettiva misura l’errore che si è commesso nel fare la
previsione.
Tradizionalmente una volta che si sia fissato il mix di iniziative sulle leve che
influenzano la domanda (prezzo, struttura distributiva, pubblicità, ecc.) si tende a
parlare di domanda potenziale come quella domanda che si manifesterebbe se tutti i
consumatori interessati al bene e in grado di pagarlo fossero messi effettivamente nella
condizione di acquistarlo. In sostanza la domanda potenziale sarebbe il massimo
raggiungibile dalla domanda pagante, date le condizioni di vendita; la domanda
potenziale coinciderebbe con la domanda effettiva se l’offerta fosse in grado di
4
raggiungere in modo adeguato tutti i consumatori interessati. Ad esempio una dilatazione degli orari di vendita di un certo bene possono far aumentare la domanda effettiva
verso quella potenziale perché di solito vi sono consumatori che per impegni lavorativi
o altro hanno difficoltà ad effettuare l’acquisto del bene al quale sono interessati.
Analogamente vi sono consumatori che sarebbero interessati ad effettuare un certo
acquisto, ma non hanno l’informazione su dove il prodotto venga commercializzato. In
altri casi una frazione non trascurabile di consumatori ha un bisogno specifico ma non è
informato sull’esistenza di una bene specificatamente realizzato per soddisfare il
bisogno in questione. Di conseguenza non è affatto infrequente la situazione nella quale
la domanda effettiva risulti largamente inferiore alla domanda potenziale. In proposito
le forme di comunicazione sui prodotti e di commercializzazione su internet vengono
realizzate proprio per cercare di far lievitare la domanda effettiva verso la domanda
potenziale. Nel contempo la differenza fra domanda potenziale e domanda effettiva può
essere utilizzata come una misura dell’efficacia commerciale di una azienda. Più questa
differenza è rilevante e più vi è motivo di credere che l’organizzazione dell’impresa sul
piano della comunicazione e della distribuzione sia inefficiente in quanto consumatori
che sarebbero interessati al bene in questione e hanno le risorse finanziarie per pagarlo
non sono messi nelle condizioni di soddisfare il proprio bisogno. La domanda attivabile
può risultare inferiore alla domanda potenziale qualora in partenza l’impresa sconti dei
vincoli alla propria azione commerciale e di comunicazione in quanto riconosca in
partenza che non è in grado di attuare tutte le iniziative per fare in modo che la
domanda attivabile coincida con la domanda potenziale. In questo senso la differenza
fra domanda effettiva e domanda attivabile sarebbe una inefficienza che non è prevista.
Mentre la differenza fra domanda attivabile e domanda potenziale è un segno di
inefficienza in un certo senso riconosciuto in partenza e che probabilmente si cercherà
di affrontare in un secondo momento.
La domanda massima teorica invece è una quantità solitamente maggiore di
quella potenziale in quanto considera tutti i consumatori effettivamente interessati al
bene in questione anche di quelli che non hanno la capacità di spesa richiesta.
Naturalmente la domanda massima teorica ha soprattutto un significato nell’analisi dei
beni di natura pubblica (istruzione, trasporti, servizi sanitari, ecc.) dal momento che in
questi casi l’obiettivo dei pubblici poteri sarebbe quello di servire l’intera platea dei
consumatori interessati, indipendentemente dalla rispettiva capacità di spesa. Invece per
i beni privati la domanda massima teorica perde abbastanza di significato perché è
evidente che gli operatori considerano come rilevante solo la domanda pagante.
Le diverse definizioni di domanda: effettiva, attivabile, potenziale, massima
teorica, ed eventualmente altre che possono essere definite per particolari motivi
conoscitivi, possono esercitare un utile ruolo nella definizione degli obiettivi di
miglioramento di una impresa. Ad esempio una volta misurata la domanda effettiva e
quella potenziale l’imprenditore potrebbe assegnare ai propri manager l’obiettivo di
ridurre il gap di domanda fra l’effettivo e il potenziale in un certo numero di anni.
Infine con riferimento ai concetti di domanda attivabile e di domanda potenziale
si deve prestare attenzione al fatto che la loro determinazione è necessariamente
molteplice, nel senso che non esiste "una" domanda attivabile o "una" domanda
5
potenziale, ma molte domande in funzione del mix di iniziative che stanno alla base
della strategia dell'impresa. In questo senso si sente spesso parlare di domanda
potenziale, ma la sua determinazione rimane (al di là delle difficoltà previsionali) del
tutto indeterminata se non viene accompagnata dalla indicazione puntuale delle
iniziative che si intendono realizzare sul prodotto e sul mercato. Infatti se si modifica di
un certo valore percentuale il prezzo di un bene è evidente che varia la platea dei
consumatori sia effettivi, che attivabili che potenziali. Ad esempio nel settore
automobilistico non è infrequente che vengano fissati ed anche pubblicizzati degli
obiettivi di vendita rapportati ad un certo prezzo di listino. Tuttavia, poiché il prezzo di
vendita delle autovetture è ormai da anni sistematicamente inferiore al prezzo di listino,
che sembra rimanere invariato, è possibile raggiungere obiettivi di vendita ambiziosi
con la semplice politica di ulteriori ribassi del prezzo effettivo delle autovetture. È
ovvio che in questo caso non si può affatto parlare di un raggiungimento degli obiettivi
prefissati.
Ora che siamo pervenuti ad una definizione più rigorosa del concetto di
domanda riferita ad un bene (in questo caso di un bene di consumo), nel caso probabile
che siano disponibili fonti statistiche in grado di quantificare direttamente questa
grandezza occorre utilizzare variabili proxy in grado di consentirci una stima della
variabile desiderata. Ad esempio qualora si conoscano una serie di variabili riferite al
mercato domestico, ad esempio degli indicatori di ricchezza attuale prospettica nonché
una stima della domanda potenziale, è possibile cercare le informazioni corrispondenti
per il mercato target e quindi valutarne la domanda potenziale corrispondente. In altre
parole se ipotizziamo che il reddito medio pro-capite e la popolazione nel mercato
domestico sia rispettivamente 100 e 50 e la domanda potenziale nel mercato domestico
sia D, qualora si riscontri che il reddito medio pro-capite e la popolazione per il mercato
target sia rispettivamente 120 e 48 ne deriverebbe una domanda potenziale D-target pari
a: (100 X 1,2) X (50 X 0,96).
Ovviamente questo primo riscontro costituisce solo un utile riferimento in
quanto non possiamo assumere la perfetta proporzionalità della domanda del mercato
domestico e del mercato-target in funzione del reddito pro-capite. Il dato costituisce
solo un primo elemento da comparare con altri.
Da un lato occorre valutare la rappresentatività della variabile considerata
(reddito pro-capite) che potrebbe essere abbastanza adatta se ci stiamo riferendo ad un
bene di consumo di carattere personale (calzature, telefono cellulare, un certo bene
alimentare). Ma qualora il bene in questione sia un bene a consumo familiare
(televisore, lavatrice, frigorifero) invece del il reddito pro-capite sarebbe più utile
disporre dei valori riferito al reddito medio dei nuclei famigliari. Dall’altro occorre
considerare che il reddito in generale non esprime pienamente la domanda di un certo
bene dal momento che essa dipende anche da molti altri fattori. Ad esempio il reddito
medio pro-capite in Italia è inferiore a quello della Germania e della Francia e tuttavia il
consumo di acqua minerale pro-capite è nettamente superiore nel nostro paese.
6
8.1.3. Indicatori di omogeneità socio-culturale
Ciò significa che oltre alla variabile “reddito”, certamente molto importante,
occorrerà cercare altri indicatori di omogeneità/disomogeneità socio culturale del
mercato domestico con il mercato-target in funzione delle caratteristiche specifiche del
bene per il quale siamo interessati a stimare la domanda potenziale.
Tra le variabili di omogeneità socio-culturale frequentemente reperibili
attraverso gli annuari statistici nazionali abbiamo:
-
vita media della popolazione, struttura e dinamica demografica,
struttura famigliare,
indicatori socio-sanitari,
il livello medio di istruzione,
la ripartizione fra residenza cittadina o rurale,
comportamenti e stili di vita,
consumi
indicatori culturali
il livello di motorizzazione (vetture circolanti ogni 1.000 abitanti),
spesa media delle famiglie per trasporti
8.1.4. Indicatori socio-culturali di apertura all’innovazione commerciale
Qualora il mercato-target del quale si intenda valutare la domanda potenziale si
collochi ad un livello di sviluppo significativamente inferiore a quello del mercato
domestico nel quale l’impresa è abituata ad operare, l’inserimento di un nuovo prodotto
può essere ostacolato non solo dalla modestia del reddito disponibile, ma anche dalle
tradizioni culturali del paese target che possono ostacolare l’introduzione di beni di
consumo di tipo innovativo. In fondo basta ricordare che anche in Italia alcuni anni fa
alcuni elettrodomestici venivano considerati come un consumo aventi una valenza in
parte voluttuaria. Ad esempio mentre attualmente è molto diffuso l’uso della lavatrice
(oltre il 90% delle famiglie italiane ne è provvista) quello della lavastoviglie presenta un
tasso di impiego nettamente inferiore dell’ordine del 55%. Analogamente alcuni anni fa
l’uso dei cosmetici era sensibilmente ridotto a quello attuale per non parlare di prodotti
cosmetici per uso maschile che oggi sono molto diffusi, ma solo alcuni anni fa venivano
considerati come forme di consumo effeminato.
Pertanto oltre alle informazioni di natura socio economica è utile utilizzare degli
indicatori di apertura della popolazione all’introduzione di beni che rappresentano una
innovazione di tipo commerciale.
L’insieme degli indicatori ai quali abbiamo fatto riferimento costituiscono un
data-set in grado di ipotizzare la domanda potenziale per il prodotto considerato.
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8.2. La penetrabilità e l’accessibilità di un mercato
La possibilità per una impresa di inserirsi efficacemente in un mercato dipende
da aspetti tipicamente economici che analizzeremo al punto successivo, e che
riguardano gli aspetti tipicamente competitivi del mercato, ma anche aspetti che
chiameremo di natura istituzionale, ma che possono esercitare una influenza molto
rilevante sulla possibilità di inserimento dell’impresa considerata.
Tra i più importanti aspetti da considerare abbiamo ad esempio la presenza di
barriere tariffarie. Si tratta di un gravame fiscale che il paese-target può aver imposto
alla categoria di beni che l’impresa intenderebbe commercializzare, che viene calcolato
secondo una percentuale ad valorem del bene importato. In alcuni casi l’imposizione
fiscale può essere pari ad un ammontare che ostacola ma non impedisce l’export del
prodotto (ad esempio una tariffa del 10-15%). In altri casi invece l’incidenza della
barriere tariffaria è così rilevante (dell’ordine del 200-300%) ma comportare in sostanza
un blocco delle importazioni. Ma possiamo avere anche meccanismi a carattere nontariffario tuttavia in grado di operare in misura nettamente restrittiva. Ad esempio è
possibile che un prodotto di importazione debba essere conforme ad una normativa in
parte diversa da quello in vigore nel paese esportatore. Ad esempio le autovetture
esportate in Giappone devono rispondere ad una normativa (quella giapponese) in parte
diversa da quella europea ed americana (e viceversa). Tradizionalmente il controllo di
conformità all’importazione in Europa e negli Stati Uniti viene effettuato da parte del
paese importatore richiedendo all’impresa esportatrice di conferire un prodottocampione del bene in questione con la dichiarazione che tutti i beni esportati
dall’impresa in quel paese sono esattamente conformi a quello consegnato. In questo
modo la verifica all’importazione è rapida e poco costosa per l’impresa esportatrice.
Invece il Giappone in passato effettuava la verifica di conformità per ogni singola
vettura importata. Era quindi evidente che questa procedura allungava enormemente i
tempi e i costi delle verifiche. Solo le pressioni diplomatiche poste in essere dai vari
paesi interessati e la minaccia di attuare la stessa procedura nel confronto delle merci
giapponesi portò il Giappone ad allinearsi allo standard internazionale.
Per accessibilità di un mercato si intendono le caratteristiche del mercato per
quanto riguarda il suo posizionamento geografico e le modalità di trasporto delle merci
che si possono utilizzare le spedizioni di prodotti da esportare. Contano tanto gli aspetti
logistici internazionali che caratterizzano i due paesi di invio e di ricevimento dei
prodotti, sia la logistica interna al paese di ricevimento, che possono essere più o meno
sviluppate, più o meno costose.
8.3. L’attrattività di un mercato
Per attrattività di un mercato si intende le opportunità economico-commerciale
che presenta un certo mercato per un operatore estero sia con riferimento ad un certo
momento che nel tempo. È chiaro che l’attrattività di un mercato si misura in termini di
valori complessivi delle attività commerciali che un certo produttore può realizzarvi,
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come prodotto delle quantità di merci vendibili moltiplicate per i prezzi delle merci
corrispondenti e di margini unitari di profitto.
Se si considerano anche le problematiche esposte nei paragrafi precedenti si
capisce che un potenziale operatore è in grado di determinare, sia pure in forma
approssimata:
− la quantità totale esitabile sul mercato di una certe merce (domanda complessiva
riferita ad un certo anno) e lo sviluppo di questa domanda nel tempo (trend di
sviluppo della domanda).
− all’interno di questa domanda complessiva il singolo operatore può stimare la
propria quota di mercato che egli ritiene di poter acquisire, date le
caratteristiche, i prezzi e l’entità della comunicazione relative al proprio
prodotto e a quelli dei prodotti concorrenti.
− Sulla base delle caratteristiche di penetrabilità e accessibilità del mercato
l’operatore è quindi in grado di aggiungere, al costo industriale di manifattura
del proprio bene, i costi di trasferimento logistico delle merci tra il paese di
produzione e quello di destinazione e all’interno del paese di destinazione, i
costi da riconoscere alla struttura commerciale di distribuzione e quindi di
pervenire al margine di utile corrispondente.
− Entità complessiva delle vendite realizzabili e margine unitario di profitto
rappresentano i parametri con i quali valutare la attrattività di un mercato e
consentono di effettuare una eventuale graduatoria di attrattività tra paesi
diversi.
8.4. La struttura concorrenziale del mercato (Concentrazione)
Una operazione preliminare alla valutazione della competitività di una impresa
riguarda la stima del grado di concentrazione del settore, ovvero la ricognizione del
grado di concorrenzialità presente nel settore di riferimento dell’impresa. Si tratta di una
misura tecnicamente non complessa, una volta che sono disponibili i dati riferiti alle
imprese del settore, ma che va valutata con attenzione in quanto la sua significatività e
legata al grado di omogeneizzazione del bene offerto dalle imprese concorrenti. Se il
prodotto offerto è altamente omogeneo anche l’interpretazione del livello di concentrazione non pone difficoltà. Invece al crescere del livello di differenziazione di prodotti
offerti dalle imprese concorrenti, l’interpretazione del significato dell’indice calcolato
diventa problematica. Iniziamo quindi ipotizzando che l’offerta delle imprese operanti
nel settore sia altamente omogenea, in altre parole i prodotti realizzanti dalle diverse
imprese che costituiscono l’offerta sono altamente simili. Ciò semplifica notevolmente
l’analisi del grado di concorrenzialità del settore anche perché i confini del settore
risultano piuttosto ben definiti e ogni impresa ha modo di valutare chiaramente da quali
imprese è composto il settore di riferimento (arena competitiva) e quindi chi sono in
concorrenza con l’impresa considerata. La misura del grado di concentrazione viene
normalmente effettuata utilizzando o l’indice di Gini (Volpato 2008), oppure l’indice di
Herfindhal (Volpato 2008), e in questo caso non ci sono particolari problemi di metodo
9
se non quello concernente la scelta della variabile da utilizzare come espressiva del
potere di mercato di ciascuna singola impresa. Tutti i manuali utilizzano per tradizione
la variabile fatturato, sia perché il fatturato è collegato alla quantità offerta e quindi
anche alle economie di scala, ma anche perché si tratta di un dato che solitamente è
acquisibile molto facilmente essendo evidenziato nel conto economico della relazione
di bilancio. Pertanto se il management si propone di calcolare il livello di concentrazione settoriale siamo di fronte ad un compito agevole (almeno dal punto di vista
concettuale) che consiste nel ricercare il valore del fatturato di tutte le imprese offerenti.
Dopo di che è possibile passare direttamente al calcolo dell’indice di Gini o a quello di
Herfindhal.
Qualora i prodotti offerti dalle imprese abbiano invece un significativo grado di
disomogeneità il calcolo del livello di concentrazione settoriale si complica
sensibilmente dal punto di vista metodologico in quanto non è chiaro:
- da quali e quanti imprese sia costituita l’arena competitiva all’interno della quale
si colloca l’impresa in questione;
- quale sia la variabile che esprime più efficacemente il potere di mercato goduto
dalla singola impresa.
I dubbi circa la composizione dell’arena competitiva derivano dal fatto che se le
differenze tra prodotto e prodotto sono, agli occhi dei consumatori, di entità rilevante,
pur essendo le imprese collocate nello stesso settore, allora occorre preventivamente
individuare dei criteri per stabilire quali siano le imprese che, all’interno del settore,
presentino una marcata omogeneità di prodotto. La concorrenza effettiva tende a
manifestarsi solo tra le imprese di questo sotto-insieme dell’intero settore. Ad esempio
le imprese produttrici di calzature possono specializzarsi su specifici segmenti di
mercato e di conseguenza appare ragionevole considerare in diretta concorrenza solo le
imprese aventi un’offerta collocata nel segmento considerato, e altrettanto può dirsi per
una molteplicità di altri settori come ad esempio quello dell’elettronica di consumo,
degli elettrodomestici e delle automobili.
La presenza di una marcata differenziazione del prodotto offerto dalle imprese
implica anche che il prezzo non è altamente omogeneo in quanto a differenze
qualitative del prodotto corrispondono anche differenze di prezzo che sono riconosciute
come ragionevoli e accettate dai consumatori. È naturale che il prezzo di vendita di una
automobile particolarmente lussuosa sia nettamente superiore al prezzo di una vettura
popolare. Il consumatore riconosce come giustificata questa differenza e, se dispone
della corrispondente capacità di spesa può preferire una vettura più costosa (ma di
qualità superiore) ad una vettura più economica. Tuttavia questa fatto fa sì che il
fatturato perde una parte della sua espressività del potere di mercato. Spiegheremo
questa situazione con un esempio. Poniamo allora questa domanda: si trova in una
miglior posizione competitiva un’impresa con un fatturato maggiore o minore? Se la
qualità e quindi prezzo dei diversi prodotti sono molto omogenei è evidente che è
preferibile l’impresa che vende di più (fatturato più elevato) in quanto è giusto supporre
che essendo il prodotto omogeneo non solo i prezzi siano molto simili, ma anche i costi.
Di conseguenza l’impresa con maggior fatturato è anche quella con il maggior profitto
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in valore assoluto. Quindi è l’impresa con fatturato più elevato a trovarsi nella posizione
più solida, anche se non ci fossero, ad esempio economie di scala. Se inoltre ipotizziamo che esistano delle economie di scala ne deriveremmo che l’impresa con
maggior fatturato non ha solamente il più elevato ammontare di profitto in valore
assoluto, ma anche il più elevato tasso di profitto, quindi possiamo stabilire con certezza
la relazione più elevato è il fatturato e più elevato il tasso di profitto e quindi il potere di
mercato di una impresa. Ma poiché abbiamo supposto di trovarci in una situazione di
prodotto differenziato potremmo avere che una impresa con fatturato inferiore abbia
margini di profitto unitari più elevati. Non solo. Se questa impresa volesse dilatare la
propria quota di mercato potrebbe ridurre un po’ il proprio margine offrendo il prodotto
ad un prezzo più basso. In questo modo potrebbe dilatare significativamente il proprio
fatturato. Di conseguenza in situazione di prodotti differenziati il valore del fatturato
non esprime il potere di mercato, una impresa con un fatturato in valore assoluto
inferiore a quello di una altra impresa potrebbe in realtà godere di un potere di mercato
superiore.
In situazione di disomogeneità del prodotto diventa problematica
d’individuazione di entrambe le variabili necessarie al calcolo della concentrazione: a)
quali imprese considerare e quale variabile utilizzare al fini dell’espressione del potere
di mercato. La risposta ai quesiti metodologici sollevati da questa situazione non può
essere data in via generale, a prescindere dalla situazione concreta nella quale si trova il
settore, vale a dire valutando concretamente caso per caso sia l’entità della
differenziazione tra i prodotti. Solo caso per caso si può tentare una risposta che abbia
elementi di ragionevolezza. Per quanto riguarda la configurazione dell’arena
competitiva si tratterà di costruire una sotto-insieme del settore, nel quale si collocano
tutte le imprese con prodotti sostituibili, nel quale confluiscono solo le imprese abbastanza omogenee. Si suppone allora che in una misura della concentrazione e del potere
di mercato a breve termine (certamente non superiore a 1-2 anni) venga attuata
considerando solo il sotto-insieme delle imprese all’interno del quale, in funzione della
nostra selezione, abbiamo ricostituito la situazione di omogeneità di caratteristiche di
prodotto e di prezzo di partenza. Quindi relativamente al breve periodo possiamo
riapplicare la variabile fatturato.
Se però siamo interessati a valutare il grado di concentrazione e il potere di
mercato delle singole imprese a medio-lungo termine allora occorrerà stabilire a priori
come evolverà nel medio-lungo termine la struttura del settore e solo sulla base di
queste ipotesi preventive passare alle modalità di scelta delle imprese costitutive l’arena
e della variabile che esprime il potere di mercato. Per la prima questione si tratta di
immaginare come evolverà la configurazione settoriale e sulla base di questa selezionare le imprese che formeranno l’arena competitiva. Per la seconda questione si
possono passare in rassegna varie possibilità. Il criterio conduttore può essere rappresentato dalla individuazione della variabile che esercita la maggior influenza sulla
profittabilità dell’impresa. Ad esempio gli esperti del settore farmaceutico concordano
nel fatto che nel lungo periodo il potere di mercato di una impresa deriva essenzialmente dall’ammontare della sua spesa in ricerca e sviluppo perché è da questo
investimento che deriveranno i nuovi prodotti farmaceutici e quindi anche la quantità
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delle vendite e i profitti. Del resto la spesa di R&D, con riferimento alla struttura di
costo del prodotto, occupa effettivamente una posizione preminente, come anche
l’investimento pubblicitario. Ma in questo caso è facile capire che la variabile guida è la
voce di spesa in R&D. Se questa voce è molto importante ne deriveranno molti nuovi
prodotti ed anche un forte investimento in comunicazione aziendale far conoscere al
grande pubblico le caratteristiche di questi prodotti nuovi. Quindi la spesa di R&D è
considerata una buon indicatore delle futura posizione competitiva delle imprese
farmaceutiche ed anche di altri settori nel quale la ricerca e sviluppo gode di una
posizione di forte rilievo strategico come nell’avionica, nell’elettronica, nell’industria
automobilistica. Se invece consideriamo il settore dei detergenti domestici notiamo che
le spese in comunicazione (pubblicità, sponsorship, ecc.) occupano una rilievo
decisamente superiore a quello delle spese di R&D. In questo caso la variabile più
significativa per individuare l’andamento prospettico del potere di mercato delle singole
imprese potrebbe essere la comunicazione. Cambiando settore potremmo scoprire altre
variabile che sembrano giocare il ruolo più rilevante. Ad esempio nel settore
dell’abbigliamento e della accessoristica (es.: occhiali da sole) oltre alla comunicazione
è il controllo del canale distributivo ha giocare un ruolo strategico. Fin dai successi
della Benetton negli anni ’80 è divenuto evidente che in questo settore il controllo
diretto di una propria rete distributiva al dettaglio rappresenta una variabile chiave di
successo. Ne deriva che la misura della concentrazione potrebbe essere effettuata
attraverso l’uso di una variabile che rappresenti la presenza nella vendita al dettaglio.
Ad esempio se disponessimo della sommatoria dei metri quadrati di tutti i punti vendita
delle aziende di abbigliamento nel mercato considerato, potremmo calcolare la
concentrazione e il potere di mercato usando questa variabile invece del fatturato.
In conclusione la scelta della variabile nel medio-lungo periodo dovrà essere
fatta cercando di individuare preventivamente la variabile (o anche il complesso di
variabili) da sostituire al fatturato utilizzato nelle situazioni di elevata omogeneità del
prodotto.
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9. La misura della competitività di una impresa
9.1. Introduzione
La misura del grado di competitività di una impresa è rappresentata dal suo tasso di
profittabilità, ovvero dal suo ROE (Return on Equity) dato dal rapporto tra il Reddito netto
d’esercizio (Rn) e il capitale proprio impiegato in media nell’esercizio, indicato in inglese
come Equity. Pertanto tra due imprese appartenenti allo stesso settore, quella che realizza
un ROE più elevato è considerata come la più competitiva. Tra l’altro poiché il ROE può
essere utilizzato anche nel confronto tra imprese appartenenti a settori diversi, un
investitore che intendesse acquistare azioni di una impresa potrebbe comparare il rapporto
tra il tasso di redditività delle imprese e il costo d’acquisto delle rispettive azioni. In
situazioni di equilibrio di mercato questo genere di valore dovrebbe essere livellato, ma se
non lo fosse sarebbe conveniente (a parità delle altre condizioni) acquistare le azioni
dell’impresa che presenta un più elevato rapporto tra ROE e quotazione.
Tuttavia questa misura è applicata ex post, vale per l’esercizio passato, mentre le
imprese che si confrontano sul mercato cercano non solo di capire se una impresa loro
concorrente sarà, nel futuro, più o meno competitiva rispetto ad essa, ma desiderano anche
valutare quali siano le cause della maggior o minor competitività tra le imprese. Occorre
quindi risalire dall’effetto rappresentato dal ROE alle cause componenti di questo risultato
secondo un’ottica prospettica.
Inutile sottolineare che le cause di una maggior/minor competitività possono essere
molto numerose ed inoltre esse sono destinate a mutare nel tempo, in funzione del modificarsi della struttura e delle esigenze dei consumatori che costituiscono il complesso della
domanda e delle strategie delle imprese e dell’evolvere delle condizioni economiche
generali (congiuntura positiva ovvero negativa). Ad esempio abbiamo già indicato le
specificità di una situazione economica organizzata secondo le caratteristiche del modello
taylorista/fordista o del modello basato su imprese competence-based. Al mutare
dell’ambiente di riferimento mutano evidentemente gli aspetti di forza e debolezza delle
imprese e di conseguenza la loro competitività. È quindi chiaro che l’individuazione dei
fattori di competitività è molto complessa, anche perché l’effetto generato da questi fattori
è funzione della loro reciproca interazione. Alla fine è il complesso delle caratteristiche di
un’impresa a determinare il grado finale di competitività. Ma il fatto che l’individuazione
di questi fattori competitività sia un compito aleatorio e difficile non nega l’utilità di
cercare comunque di svolgere questa analisi.
Infine sottolineiamo che, poiché la competitività si basa su una relazione fra la
strategia della singola impresa, le strategie delle imprese concorrenti e il complesso della
domanda del settore, è molto probabile che ciò che risulta particolarmente rilevate nel
generare la competitività delle imprese in un certo settore sia di importanza modesta in un
altro settore. L’analisi dei fattori di competitività devono essere fatti settore per settore e
momento per momento. Di seguito tuttavia verranno presentati alcuni dei possibili fattori
competitivi, che sono stati analizzati e strutturati teoricamente dalla ricerca economica.
L’analista economico può innanzitutto passare in rassegna questi diversi fattori potenziali
di competitività e chiedersi se nel settore di proprio interesse essi giochino o meno un ruolo
rilevante. Qualora emerga che questi fattori competitivi non sembrino di particolare rilievo
per il settore egli dovrà andare alla ricerca di altri possibile cause di competitività di tipo
nettamente specifico e strettamente legate alle particolarità del settore considerato.
9.2. Benchmarking e Business Intelligence
Un potente strumento di analisi delle diverse forme di competitività delle imprese è
rappresentato dal Benchmarking. Con questo termine si intende un processo continuo e
sistematico di confronto delle prestazioni aziendali di una impresa con altre imprese sia
appartenenti al settore dell’impresa di riferimento, sia ad imprese di altri settori che siano
note per aver conseguito livelli di eccellenza in specifiche aree gestionali. Questa
metodologia cominciò ad essere definita a metà degli anni ’80 come progressiva estensione
dei metodi di confronto competitivo fra imprese. Inizialmente le modalità di confronto
competitivo fra imprese si era concentrato nelle caratteristiche dei prodotti finiti offerti da
imprese concorrenti attraverso pratiche quali il reverse ingineering, basato sull’esame dei
prodotti attraverso la loro scomposizione e lo studio delle modalità di progettazione. Ma
ben presto si comprese che questa analisi, pur utile doveva necessariamente essere allargata
alla molteplicità di aspetti che riguardano l’intera gestione aziendale in modo da
selezionare gli elementi caratteristici di ogni macro-processo aziendale, dalle attività di
acquisto dei materiali e dei componenti di prodotto fino alle attività di
commercializzazione e di assistenza post vendita.
Normalmente il benchmarking può essere organizzato secondo tre diverse modalità.
Il Benchmarking interno consiste nel porre a confronto sistematico le performance
operative di unità aziendali che svolgono la medesima attività come stabilimenti che
producono lo stesso prodotto, ma in paesi diversi, uffici diversi incaricati del customer
customer relationship management, uffici incaricati di svolgere le attività logistiche, ecc. Il
Benchmarking funzionale invece si focalizza su una specifica attività funzionale presente
in genere nella totalità delle attività d’impresa, come la progettazione, il controllo di
qualità, la logistica verso la clientela, ecc. e si ricercano imprese che si mostrano in grado
di svolgere tali funzioni con performance di eccellenza allo scopo di usare come
riferimento le procedure seguite da quelle imprese. Infine il Benchmarking competitivo
consiste nella raccolta di informazioni sulle prestazioni aziendali di imprese concorrenti,
con particolare attenzione a quelle che mostrano livelli prestazionali elevati.
In certi casi le imprese concorrenti acconsentono a scambiarsi reciprocamente questo genere di informazioni in quanto esse ritengano che un atteggiamento collaborativo nei
confronti di imprese concorrenti creino comunque maggiori opportunità di miglioramento
aziendale da far valere contro altre imprese terze.
In altri casi il benchmarking non è organizzato e reciproco e quindi assume la veste
di business intelligence. Quindi il business intelligence si prefigge obiettivi analoghi a
quelle del benchmarking che però vengono ricercati facendo affidamento sulla capacità
interna di una impresa di acquisire informazioni rilevanti per valutare i livelli prestazionali
di altre imprese e in particolari di imprese concorrenti. Le organizzazioni raccolgono
informazioni per trarre valutazioni e stime riguardo al contesto aziendale proprio, dei
concorrenti effettivi e potenziali e dei mercati nei quali operano o stanno valutando ai fini
di un inserimento. Le informazioni raccolte attraverso una strategia di business
intelligence sono mirate ad ottenere informazioni orientate a portare miglioramenti
operativi e strategici al funzionamento dell’impresa per incrementare il proprio vantaggio
competitivo.
Generalmente le informazioni vengono raccolte per scopi direzionali interni e per il
controllo di gestione. I dati raccolti vengono opportunamente elaborati e vengono utilizzati
per supportare concretamente - sulla base di dati attuali - le decisioni di chi occupa ruoli
direzionali (capire l'andamento delle performance dell'azienda, generare stime previsionali,
ipotizzare scenari futuri e future strategie di risposta). In secondo luogo le informazioni
possono essere analizzate a differenti livelli di dettaglio e gerarchico per qualsiasi altra
funzione aziendale: marketing, commerciale, finanza, personale o altre.
Le fonti informative sono generalmente interne, provenienti dai sistemi informativi
aziendali ed integrate tra loro secondo le esigenze. In senso più ampio possono essere
utilizzate informazioni provenienti da fonti esterne come esigenze della base dei clienti,
pressione stimata degli azionisti, trend tecnologici o culturali fino al limite delle attività di
spionaggio industriale.
Il termine inglese intelligence significa intelligenza, acutezza, perspicacia, ma nella
forma Intelligence Service individua il Servizio Segreto Britannico ed quindi le attività di
business intelligence vengono considerate da alcuni come una sorta di servizio di
spionaggio ai danni delle imprese concorrenti. Inutile sottolineare che pur senza
nascondersi che esistono imprese dedite ad attività di spionaggio industriale il business
intelligence come considerato in questa sede è una attività lecita svolta nel rispetto non
solo della legge, ma anche dei criteri deontologici comunemente accettati. Si tratta di una
attività che riguarda lo studio dei risultati prestazionali propri e dei concorrenti allo scopo
di individuare le modalità operative e strategiche più performanti.
La tesi che si intende sottolineare in questa sede è che con un lavoro di accurata
raccolta e di sapiente interpretazione delle informazioni disponibili sui mercati e sulle
imprese è possibile, senza alcun ricorso a pratiche illecite, raccogliere informazioni
particolarmente utili per il miglioramento delle competenze dell’impresa e delle sue
procedure operative. Ma ciò richiede l’organizzazione di una specifica struttura all’interno
dell’impresa incaricata di raccogliere ed analizzare in modo continuo e sistematico quanto
avviene nel settore di interesse tanto dalla parte del mercato che in quello dell’arena
competitiva.
I temi verso i quali orientare le attività di benchmarking e di business intelligence
sono presentati nei successivi paragrafi concernenti le economie, di scala, le economie di
apprendimento, le economie di scopo ecc.
9.3. Economie di scala
9.3.1. Le variabili in gioco nelle economie di scala
Passando a considerare le singole variabili che possono esprimere il livello di competitività delle imprese, le economie di scala occupano un posto significativo in numerosi
settori. Tuttavia la misura delle economie di scala pone numerosi problemi concettuali se si
desidera misurare l’impatto di questa variabile a livello di una impresa nel suo complesso,
in quanto a livello complessivo d’impresa non è chiaro quale sia la variabile in grado di
comparare con precisione la dimensione di due imprese differenti. Tutte le principali
variabili utilizzabili (fatturato, valore aggiunto, attivo netto, ecc.) presentano in generale dei
difetti (Cfr. Volpato 2008). Tuttavia è molto frequente trovare analisi economiche sulla
competitività generata dalla economie di scala basate esclusivamente sul fatturato
complessivo dell’impresa o addirittura sulla quantità prodotta dalle imprese nel settore. Ad
esempio nel settore automobilistico la recente politica di acquisizione della azienda
americana Chrysler da parte della Fiat ha indotto gli analisti a esprimere la nuova
competitività del gruppo Fiat-Chrysler sommando semplicemente il totale delle vetture
prodotte dalle due imprese prima della fusione e comparando questo valore alle quantità
prodotte dagli altri gruppi automobilistici. Inutile dire che si tratta di una valutazione
estremamente grossolana, anche se non totalmente priva di significato. In realtà l’analisi
dovrebbe essere fatta ad un livello di dettaglio delle variabili molto superiore, come si
cercherà di mostrare di seguito.
Invece il problema della determinazione delle economie di scala si riduce
considerevolmente, almeno per quanto riguarda l’indicazione della variabile chiave (la
scala), nel caso si vogliano misurare le economie di scala a livello di impianto produttivo.
In questo caso diciamo che in un settore abbiamo importanti economie di scala qualora le
imprese del settore aventi un impianto di potenzialità produttiva più elevata presentano un
costo medio unitario di produzione inferiore al costo medio unitario registrato dalle
imprese con un impianto di potenzialità produttiva inferiore, supponendo naturalmente che
le imprese in questione stiano lavorando effettivamente ad un livello di pieno sfruttamento
della potenzialità produttiva di cui ciascuna di esse è dotata e siano impegnate nella
produzione di prodotti piuttosto simili. È chiaro che la comparazione dei costi unitari e
delle economie di scala ha senso si confronta la produzione di due imprese specializzate
entrambe in orologi automatici. Se invece considerassimo una impresa che produce orologi
automatici e una impresa che produce orologi al quarzo non sarebbero mantenute le
condizioni di ceteris paribus necessario a dare un preciso senso economico al confronto in
atto. In altri termini si potrebbe anche provare a misura le economie di scala associate a
questi diversi impianti, ma il risultato che otterremmo non potrebbe essere attribuito
esclusivamente al fenomeno economie di scala, in quanto non sono mantenute le condizioni
di ceteris paribus. Sarebbe come se volessimo confrontare le prestazioni di autovetture a
benzina che girano in uno stesso circuito, ma che vengono alimentate con benzina di
diverso potere energetico. In questo caso non saremmo sicuri che la vettura meno
prestazionale sia quella indicata dal cronometro in quanto il differente carburante potrebbe
essere la causa prevalente delle minor prestazioni.
Se intendiamo calcolare il vantaggio competitivo derivante da economie di scala a
livello di processo produttivo tra due imprese ci servirà disporre delle informazioni
necessarie a questo calcolo che sono rappresentate da:
- L’ammontare della potenzialità produttiva degli impianti delle due imprese;
- Il costo medio unitario delle attività di produzione delle due imprese
La differenza tra questi due costi medi unitari dà la misura del vantaggio competitivo. Naturalmente se l’analista avesse l’accesso diretto alle informazioni della contabilità
industriale delle due imprese non avrebbe particolari difficoltà a quantificare il
differenziale in questione, che invece generalmente può solo essere stimato a motivo della
carenza di informazioni precise e dettagliate, che naturalmente rappresenta la situazione più
frequente. Una situazione di difficoltà intermedia è rappresentata dalla posizione di un
analista interno ad una delle due imprese, perché in questo caso si possono acquisire
informazioni precise e dettagliate sulla propria impresa da utilizzare come riferimento nella
stima dei valori dell’impresa concorrente.
In tutti i casi la fonte prevalente delle informazioni sono normalmente rappresentate
dai dati di bilancio. A loro volta i dati di bilancio posso essere più o meno significativi a seconda che le imprese considerate si trovino effettivamente ad operare rispettando le
condizioni che sono alla base del calcolo delle economie di scala. Ad esempio è chiaro che
se le due imprese lavorano saturando perfettamente i rispettivi impianti, ciascuno dei quali
produce un solo tipo prodotto, il valore del fatturato 1 darebbe immediatamente la
potenzialità produttiva e, immaginando di poter isolare all’interno del conto economico i
costi di produzione, potremmo dividere la quantità prodotta, in questo caso coincidente con
la potenzialità produttiva, e quindi calcolare immediatamente il costo medio unitario da
comparare. Inutile dire che queste ipotesi favorevoli si manifestano raramente. Occorre
quindi procedere con delle stime cercando di valutare in che misura il livello produttivo
annuo coincida o meno con la potenzialità produttiva. Qualora si abbia ragione di ritenere
che l’impianto abbia lavorato nel periodo di riferimento al di sotto del livello della
potenzialità produttiva, è evidente che il costo medio non rappresenterà correttamente il
valore del costo unitario riferito alle condizioni previste dalle economie di scala. In questo
caso avremo un costo medio effettivo, determinato dalle reali situazioni di utilizzo e un
costo medio derivante dal pieno sfruttamento delle economie di scala che si verificherebbe
qualora il livello produttivo potesse salire e raggiungere quello della potenzialità totale.
Entrambi questi valori sono importanti per una analisi competitiva. Il costo medio
effettivo ci esprime il livello di competitività dell’impresa nella situazione effettiva. Quello
da pieno sfruttamento delle economie di scala ci dice come si modificherebbe il costo
unitario dell’impresa considerata nel caso vi fosse un miglioramento delle situazioni di
mercato: o perché si manifesta un incremento autonomo della domanda rivolta all’impresa
considerata, o perché è l’impresa considerata che attua qualche iniziativa rivolta a dilatare
le proprie vendite con l’obiettivo, non necessariamente esclusivo, di poter sfruttare al
meglio l’impianto e quindi ridurre il proprio costo di produzione. Ad esempio l’impresa
potrebbe cercare di valutare l’elasticità della domanda rispetto al prezzo 2 e l’elasticità del
1 Va ricordato che l’ammontare del fatturato coincide con il valore della produzione solo nel caso che nel
periodo considerato non si sia prodotta una variazione del valore del magazzino prodotti finiti. Qualora si sia
verificata una variazione del livello, il fatturato coincide con la somma del valore della produzione del
periodo più (meno) la riduzione (l’aumento) de totale di magazzino. È chiaro che, in linea con l’assunto che
una informazione ragionata anche se approssimata è migliore di una situazione priva di informazioni, nel caso
che non sia presente nel bilancio la dinamica del magazzino prodotti finiti a inizio e fine esercizio appare
ragionevole usare il valore del fatturato come se coincidesse con la quantità annua prodotta.
2
Sulla misura della elasticità della domanda rispetto al prezzo si veda Volpato (2008).
costo rispetto alla quantità. È chiaro che l’impresa migliora la propria situazione qualora
una piccola riduzione di prezzo aumenti sensibilmente la quantità venduta e
corrispondentemente la quantità prodotta, inducendo una piena saturazione della capacità di
produttiva e facendo così abbassare il costo di produzione di una quantità superiore alla
riduzione di prezzo che è necessario praticare per incentivare la domanda. In sostanza i due
costi medi hanno significati diversi, ma entrambi rappresentano informazioni utili per un
confronto reciproco del livello di competitività delle due imprese.
L’analista esterno che deve limitarsi a considerare i dati aggregati del conto economico di imprese non operanti al livello di saturazione della potenzialità produttiva si trova
in grande difficoltà, sia nel calcolo del costo medio effettivo delle imprese, sia a maggior
ragione nel calcolo del costo che si manifesterebbe in caso di passaggio alla piena
saturazione dell’impianto, in quanto non può disporre di informazioni dettagliate. Se invece
assumiamo di essere nella posizione di un analista operante all’interno di una delle due
imprese la possibilità di effettuare delle stime migliora nettamente, in quanto egli avrebbe
la possibilità di esaminare la variazione del costo medio effettivo della sua impresa al
variare del livello di saturazione. Se ad esempio egli riscontrasse che il costo medio
effettivo calcolato, per ipotesi, ad un livello di saturazione dell’impianto pari al 90% si
riduce di un certo X% per ogni punto percentuale di aumento del grado di saturazione,
potrebbe cercare di stimare innanzitutto il livello di saturazione dell’impianto dell’impresa
concorrente. Qualora avesse ragione di ritenere che l’impresa concorrente ha un livello di
saturazione pari al 95% potrebbe utilizzare l’informazione (riduzione del costo nella
propria azienda) da applicare proporzionalmente all’impresa concorrente. Va da sé che
saremmo in presenza di valori necessariamente approssimati, ma tuttavia importanti per
consentire una stima dei livelli di competitività. In altre parole quello che conta è essere in
grado di utilizzare al meglio, nelle modalità metodologicamente più corrette, le informazioni disponibili, ovviando a quelle mancanti. Se infatti un manager che deve
prendere una decisione di carattere strategico deve scegliere tra avere indicatori
approssimati, ma costruiti in modo metodologicamente corretto, e rinunciare ad avere
indicatori, è ovvio che la disponibilità di indicatori correttamente strutturati, anche se
semplificati rappresenta una situazione largamente migliore.
Prima si è detto che poiché di norma il bilancio non da indicazioni sul livello di
saturazione degli impianti, l’analista ha comunque bisogno di stimare se la produzione
annua si discosti o meno dalla piena saturazione. Questo può essere stimato sia analizzando
i livelli di produzione (o di fatturato) degli anni precedenti, sia con una attività di business
intelligence. Se in anni precedenti la quantità prodotta è stata superiore a quella dell’ultimo
anno, appare ragionevole assumere che nell’anno in corso la saturazione sia incompleta,
come minimo la potenzialità produttiva sarà pari al massimo valore già raggiunto. Anche
l’andamento generale della domanda ci aiuta a stimare questo elemento. Se l’ultimo anno
ha visto una forte crescita della domanda complessiva del settore, che ha raggiunto valori
record, appare probabile che l’impresa analizzata sia molto prossima alla piena saturazione.
Se invece si sono registrati sensibili cali di domanda, il livello di saturazione potrebbe
essere stimato facendo riferimento al massimo livello raggiunto in precedenza. Una strada
consiste invece nel cercare di acquisire informazioni attraverso il fornitore dell’impianto
produttivo della impresa considerata. La cosa appare anche in questo caso più semplice per
un analista d’impresa, soprattutto se il fornitore dell’impianto in questione è stato fornitore
di entrambe le imprese, per questa via non dovrebbe essere difficile l’acquisizione
dell’informazione cercata. Resta poi una via ancora più indiretta, basata sulle forniture di
materia prima per la realizzazione dei prodotti. All’analista operante in una impresa
produttrice di frigoriferi non dovrebbe risultare difficile acquisire l’informazione relativa
alle tonnellate di lamiera d’acciaio acquistate dal concorrente, da rapportare anche alla
quantità della propria impresa. Come al solito stiamo parlando di valori approssimati, ma
tuttavia certamente utili.
9.3.2. La scheda dei dati per la stima delle economie di scala
Va sottolineato che il compito dell’analista della competitività delle imprese risulta
particolarmente complesso nel caso si cerchi di valutare la competitività di un’impresa per
la prima volta, perché in questo caso le informazioni disponibili sono modeste. Tuttavia
occorre essere consapevoli che il compito dell’analista deve essere sistematico nel senso
che va ripetuto con una certa cadenza, almeno annua, meglio se semestrale o trimestrale,
soprattutto nel caso che si analizzino imprese quotate in borsa, perché in questo caso
l’impresa considerata è tenuta alla presentazione dei risultati con cadenza trimestrale, sui
quali l’analista effettuerà in modo prevalente, anche se non esclusivo, le proprie
valutazioni.
Se quindi consideriamo un analista che ha già acquisito una certa esperienza egli
avrà avuto l’accortezza di preparare una scheda per ciascuna impresa considerata e per
ciascun indicatore di competitività, nella quale andrà a riversare fin dalla prima analisi tutte
le informazioni utili alla stima dell’indicatore considerato. Nel caso delle economie di scala
la scheda riporterà le informazioni, periodo per periodo, relative alle grandezze da considerare, in questo caso: il costo medio unitario in regime di saturazione degli potenzialità
produttiva e l’ammontare appunto della potenzialità. Se questi dati sono direttamente
disponibili la scheda potrebbe limitarsi a queste due grandezze, ma poiché in generale non
è così la scheda presenterà questi due valori come stima derivata dal complesso delle altre
informazioni da inserire nella scheda:
−
−
−
−
−
−
quantità effettivamente prodotta,
quantità utilizzata o acquistata nel periodo considerato per le principali materie prime,
quantità a magazzino prodotti finiti a inizio e fine periodo,
quantità effettivamente venduta
fatturato di periodo
voci di costo possibilmente riferite alla sola gestione dell’impianto di produzione
− spese di personale
− spese delle materie prime
− spese di energia
− variazione stimata del costo unitario al variare del livello di saturazione degli
impianti,
− prezzo unitario del bene alla vendita,
9.3.3. Il Radar delle economie di scala
Tutte le più importanti informazioni della scheda sopra menzionata possono essere
riportate in un grafico di tipo “radar” come quello sottoriportato. Ovviamente questa
operazione prevede la necessità di trovare una opportuna scala dimensionale per ciascuna
variabile. Nella maggioranza dei casi le grandezze saranno espresse in valore (euro, dollaro
americano, ecc.) dal momento che buona parte di queste grandezze sono desunte dalla
Relazione annuale (o trimestrale) delle imprese.
Grafico n. 1 – Valori assunti dalle variabili utili per la stima
delle economie di scala
Variabile 1
100
Variabile 7
50
Variabile 2
0
Variabile 6
Variabile 3
Variabile 5
Variabile 4
Impresa considerata
Per semplicità i valori delle variabili sono qui rappresentati con valori che si collocano tra zero e
100. In realtà queste variabili sono molto diverse l’una dall’altra, alcune sono espresse in euro,
altre in quantità fisiche e possono quindi avere valori assoluti molto differenti. Per ricondurre
queste variabili al un campo di variazione Zero-100 sarà quindi necessario selezionare una scala
opportuna ed effettuare le necessarie trasformazioni.
Tuttavia vi potrebbero essere anche grandezze non direttamente economiche, come
nel caso dei consumi di energia, espressi in kilowattora, o il livello di potenzialità produttiva dell’impianto, espresso in quantità prodotte nell’unità di tempo utilizzata (giornata,
mese, anno, ecc.).
Nel caso che l’analista operi in una impresa concorrente a quella i cui valori sono
riportati nella scheda, esiste una soluzione molto semplice che consiste nel realizzare un
grafico radar con le variabili dimensionali tipiche per ciascuna grandezza riferite alla propria impresa per poi trasformare questi valori in un valore pari a 100%. A questo punto il
radar dell’impresa concorrente sarà composto da valori percentuali riferiti all’impresa
dell’analista. Ad esempio se il fatturato dell’impresa concorrente è pari ai ¾ dell’impresa
dell’analista esso risulterà nel proprio radar pari al 75%, mentre nel radar dell’impresa
concorrente il fatturato sarà pari al 100%. Se invece l’impresa concorrente avesse un
fatturato superiore del 25% a quella dell’analista ciò vorrebbe dire che nel radar corrispondente il fatturato avrà un valore pari a 125% e così via per tutte le coppie dei valori.
L’utilità della costruzione di questi radar sta nella possibilità di poter comparare
direttamente i diversi valori raccolti nella propria impresa, quelli desunti dal bilancio
dell’impresa concorrente e quelli ottenuti attraverso stima aventi un grado di approssimazione più rilevante delle altre due tipologie di valori.
Grafico n. 2 – Confronto dei valori fra l’impresa propria e l’impresa concorrente
(Tutte le variabili dell’impresa propria sono stati posti pari a 100%)
Variabile 1
100
Valori anomali sui
quali effettuare una
Ulteriore analisi
variabile 7
50
variabile 2
0
Variabile 6
Variabile 5
Impresa propria
Variabile 3
Variabile 4
impresa concorrente
La comparazione dei due radar consente a colpo d’occhio di verificare se vi siano
valori anomali, che si discostano in misura molto marcata da quanto risulterebbe da un
criterio di proporzionalità tra i due radar. Come è ovvio non stiamo assumendo come
corretta e automatica una relazione di proporzionalità tra due grandezze delle due imprese.
Se ad esempio una impresa ha un fatturato superiore del 25% rispetto a quella dell’analista
egli non può desumerne che anche il consumo di energia debba risultare esattamente maggiore del 25%, ad esempio si potrà ritenere che tanto un maggior consumo del 20% quanto
del 30% siano ragionevolmente accettabili, mentre un minor consumo del 50% apparirebbe
certamente anomalo. In altri termini il radar segnalerebbe che qualche valore appare di
formato anomalo rispetto al prevedibile e che pertanto si rende necessario un supplemento
di indagine sulla variabile in questione per cercare di risolvere l’incongruenza evidenziata
dal grafico.
Non è difficile immaginare che qualora l’analista abbia accumulato un certo numero
di analisi, con la realizzazione delle schede e i grafici corrispondenti, egli si troverebbe
dotato di uno strumento assai potente per risolvere molte situazioni di incertezza. Se ad
esempio egli avesse riscontrato che esiste una marcata proporzionalità tra il fatturato e
alcune materie prime utilizzate nella realizzazione del prodotto considerato, come del resto
appare piuttosto ragionevole, molti dati di difficile reperimento diretto su una particolare
impresa potrebbero essere costruiti a tavolino, attraverso una relazione di proporzionalità
tra altre copie di valori già calcolati per altre imprese, con evidenti vantaggi in termini di
risparmio di costi ed economia di tempo impiegato nelle analisi.
9.3.4. La dimensione ottima minima
Come è noto, in un settore nel quale esistano significative economie di scala, la
curva che descrive queste economie avrà un punto di minimo nel caso la curva assuma un
andamento a U, ovvero una molteplicità di punti di costo minimo e di massime economie
di scala se la curva assume un andamento ad L. Nel primo caso oltre la potenzialità ottima
risulterebbero diseconomie di scala, nel secondo oltre una certa potenzialità produttiva non
abbiamo significative riduzioni di costo e pertanto possiamo indicare una potenzialità ottima minima, seguita da impianti di potenzialità maggiore ma senza variazioni significative
dei costi unitari. In ogni caso quello che ci interessa segnalare in questo momento è che
tanto la dimensione ottima (curva a U) che la dimensione ottima minima (curva ad L), servono a determinare il numero degli impianti produttivi che possono operare in situazione di
efficienza attraverso la relazione fra il valore di questa grandezza e l’entità della domanda
complessiva del bene considerato. Se supponiamo che in un certo momento la domanda
espressa dal settore risulti pari a 100 unità di prodotto e la dimensione ottima risulti pare a
20 unità di prodotto, ne deriva che nel settore possono operare in condizioni di massima
efficienza, dal punto di vista delle economie di scala, al massimo 5 imprese che sfruttino
completamente la propria capacità produttiva.
Se quindi nel settore sono presenti un numero di imprese dotate di più o di meno di
5 impianti, possiamo dedurne che il settore si trovi in una situazione di temporaneo squilibrio dal quale deriveranno molto probabilmente delle iniziative competitive volte a modificare l’assetto del settore. Infatti se gli impianti fossero di più di cinque si dovrebbe innanzitutto verificare quali impianti in funzione siano operanti nelle condizioni di massima
efficienza:
- disponibilità di impianti aventi la potenzialità produttiva ottimale,
- piena saturazione degli impianti.
Se vi sono impianti di dimensione inferiore a quella ottima, è probabile che le imprese proprietarie di quella tipologia di impianto si trovino in condizioni di inferiorità (costi
di produzione più elevati) e siano destinate a subire un’aspra concorrenza da parte delle
imprese con impianti più efficienti.
Se invece tutti gli impianti sono di dimensione ottimale, ciò vuol dire che alcuni
non sono sfruttati nel modo migliore ed anche in questo caso le imprese corrispondenti si
trovano in difficoltà (costi unitari più elevati). Tuttavia in questo caso il problema è meno
grave di quello precedente in quanto le imprese che non sfruttano al meglio il loro
potenziale possono mettere in atto iniziative per cercare di aumentare la propria domanda
per portare l’impianto a saturazione ottenendo così dei minori costi unitari. Tra l’altro
questi minori costi copriranno, in tutto o in parte, anche il costo dell’iniziativa rivolta alla
sollecitazione della domanda. Se per ipotesi questa loro iniziativa, rappresentata ad
esempio da una campagna pubblicitaria a favore dei propri prodotti sortisse l’effetto di
accrescere anche la domanda complessiva, si potrebbe produrre una situazione di equilibrio
a livello di settore. Se invece ci fosse solo uno spostamento di domanda dalle altre imprese,
in precedenza meglio saturate, a quella meno saturata potremmo avere comunque una
posizione di equilibrio, ma non ottimale, né per le imprese, né per i consumatori, nel senso
che avremmo un eccesso strutturale di capacità produttiva che deprime l’efficienza delle
imprese, che però per ipotesi sarebbero tutte penalizzate nella stessa misura.
9.4. Le Economie di apprendimento
9.4.1. Le variabili in gioco nelle economie di apprendimento
L’attenzione degli economisti sulle economie di apprendimento deriva dalle esperienze realizzate negli Stati Uniti durante il secondo conflitto mondiale alla ricerca di soluzioni che consentissero di incrementare la produttività nella fabbricazione di strumenti
bellici. Nel campo dell’assemblaggio di aeroplani si osservò che i tempi di montaggio del
velivolo si riducevano sensibilmente al crescere dell’esperienza acquisita dal personale
nelle operazioni di montaggio. I primi studiosi di questo fenomeno hanno ritenuto di
poterne esprimere l’essenza attraverso un diagramma cartesiano che riporta in ascissa il
numero cumulato dei velivoli già montati dalla squadra di lavoro e, in ordinata, il costo
dell’operazione di montaggio. Di qui un grafico che indica una riduzione del costo unitario
di montaggio di un velivolo al crescere del numero delle unità già montate.
Successivamente la società di consulenza Boston Consulting Group ha fatto acquisire grande notorietà a questa fonte di competitività dell’impresa teorizzando il fatto che la
riduzione di costo al crescere della quantità cumulata si sarebbe manifestata indefinitamente e calcolando che la riduzione di costo sarebbe stata pari al 20% ad ogni raddoppio
della quantità cumulata. Naturalmente questa misura, decisamente semplice nelle modalità
che abbiamo ipotizzato, si complica notevolmente qualora venga trasferita nella complessa
realtà di una impresa. Infatti le ipotesi assunte dall’esperienza di apprendimento nella sua
forma più semplice è che vi sia una sola squadra di lavoro, tutta impegnata in una certa
operazione (il montaggio del velivolo), e che questa operazione non muti nel tempo. Inoltre
l’indicatore del costo unitario può assumere un valore di indice segnaletico di competitività
fra due imprese concorrenti solo a patto che l’operazione da svolgere, ad esempio il montaggio del velivolo sia omogenea per entrambe le imprese. Se le due imprese effettuano il
montaggio di aerei significativamente diversi ciò riduce anche la confrontabilità dei costi
unitari rilevati.
Va da sé che una impresa reale è composta da una molteplicità di squadre di lavoro
che svolgono compiti diversi, ciascuno dei quali può manifestare una certa variabilità nel
tempo. Se quindi volessimo effettuare una comparazione delle economie di apprendimento
delle quali si avvantaggiano le imprese confrontate dovremmo attuare numerose operazioni
di adattamento dei dati, per ricondurre la situazione delle due imprese ad una situazione la
più vicina possibile a quella denominata come ceteris paribus.
La metodologia proposta dal Boston Consulting Group è molto semplice e si basa
sul conteggio della quantità cumulata segnata nella produzione di un certo prodotto, ma è
fin troppo evidente che ormai non esistono imprese strettamente basate su una monoproduzione. Quindi riferirsi al totale della quantità prodotta significherebbe mescolare quantità di
prodotti diversi. Se disponessimo di dati molto disaggregati potremmo ipotizzare di calcolare le economie di apprendimento per ciascun prodotto. Anche in questo caso però dovremmo cercare di tener conto che le imprese tendono a migliorare sistematicamente i
propri prodotti apportando modifiche di tipo qualitativo. Si tratterebbe quindi di decidere in
che misura la produzione di un prodotto modificato nel tempo debba ripartire da zero nel
conteggio della quantità cumulata o possa cumularsi semplicemente alla quantità già
realizzata.
È evidente che non esiste la possibilità di definire una regola sicura di misura delle
economie di apprendimento godute da due o più imprese concorrenti. Si tratta di effettuare
una stima approssimata nella quale si dovrebbero isolare, all’interno delle imprese, i fenomeni riferiti alle grandezze comparabili di una forma specifica di economia di apprendimento. Se, ad esempio, volessi comparare le economie di apprendimento ottenute da due
case automobilistiche che producono due modelli appartenenti allo stesso segmento di
mercato, dovrei innanzitutto verificare se le due imprese adottano impianti di montaggio
aventi la stessa capacità produttiva, perché solo in questo caso la somma cumulata delle
quantità prodotte avverrebbe in condizioni ceteris paribus. Se invece i due impianti hanno
una diversa potenzialità ciò vuol dire che in un certo periodo di tempo la ripetizione delle
operazioni di assemblaggio da parte di una squadra di lavoro non sono correttamente
rappresentate dalla produzione. Infatti se assumiamo che una impresa abbia una potenzialità produttiva doppia della sua antagonista, e che quindi utilizzi il doppio delle squadre
di lavoro, alla fine dell’anno essa avrà realizzato una quantità cumulata di produzione di
valore doppio, ma ciascuna squadra delle due imprese avrà processato lo stesso numero di
prodotti ed avrà quindi totalizzato la stessa esperienza. La situazione potrebbe essere
ricondotta ad una maggior comparabilità attraverso la divisione della quantità prodotta in
modo cumulato da un indice espressivo della potenzialità produttiva. Se una impresa gode
di una potenzialità produttiva pari a 1,5 volte quella di un’altra impresa, relativamente ai
prodotti di confrontare, nell’ascissa del diagramma delle economie di scala questa impresa
avrebbe in realtà totalizzato, ai fini delle economie di apprendimento una quantità che va
divisa per 1,5. Ciò non significa che una diversa potenzialità produttiva non abbia impatto
in generale sulla competitività di impresa. Abbiamo già visto che questa grandezza ha un
ruolo fondamentale nella misura delle economie di scala. Tuttavia se invece si considerano
le economie di apprendimento in una situazione come quella qui ipotizzata la cumulata
della produzione va calcolata al netto dell’effetto della maggior o minor potenzialità
produttiva.
Attraverso un altro aggiustamento si potrebbe arrivare a tener conto del fatto che
una impresa automobilistica ha modificato il proprio prodotto nel corso del tempo. Ad
esempio la società Wolkswagen sta per presentare al mercato al settima generazione del
proprio modello Golf. Si tratta quindi di valutare se calcolando le economie di apprendi-
mento, relativamente a questo modello, si sia in presenza di un prodotto quasi completamente analogo a quello precedente, nel qual caso la produzione cumulata già conseguita
con il precedente modello potrebbe essere conteggiata, o se invece gli elementi di novità
del nuovo modello sono così profondi da imporre di ricominciare da zero nella quantità
cumulata. Anche in questo caso non esiste un modo certo e indiscutibile di riportarci ad una
situazione di ceteris paribus, tuttavia si potrebbe costruire un indice di innovatività del
prodotto relativamente alle operazioni di assemblaggio. Se supponiamo di costruire questo
indice con un campo di variazione che va da zero a 1 e dove 1 esprime il fatto che il in
realtà il nuovo prodotto dal punto di vista del montaggio è perfettamente analogo a quello
precedente e zero è totalmente diverso, il valore della produzione già cumulata per il nuovo
prodotto sarà pari a quella della produzione cumulata dal prodotto precedente moltiplicata
per l’indice calcolato. Se assumiamo che il nuovo prodotto sia consimile per il 70% rispetto
al precedente l’indice sarà pari a 0,7 e la quantità cumulata dalla quale partirà il nuovo prodotto sarà pari a 0,7 volte la quantità già cumulata. Abbiamo quindi ipotizzato la costruzione di un indice di omogeneità fra il modello nuovo e quello vecchio in quanto esso cresce
al crescere del grado di omogeneità tra i due prodotti.
9.4.2. La scheda dei dati per la stima delle economie di apprendimento
Dalle considerazioni sopra svolte discende naturalmente l’esigenza che un analista
della competitività delle imprese realizzi una scheda delle economie di apprendimento
riferita a ciascuno dei principali prodotti di ciascuna impresa considerata. Nella scheda
dovranno essere riportate tutte le informazioni utili per poter rapportare la situazione
concreta dell’impresa a quella nella quale il calcolo della produzione cumulata, e i correlati
costi unitari del prodotto, acquistano un significato univoco e possono quindi essere usati
come parametri di confronto all’interno della stessa impresa in momenti diversi o fra
imprese diverse ad un dato momento. In sostanza si tratta di poter calcolare la quantità
cumulata che meglio esprime la realtà della situazione concernente l’apprendimento e i
corrispondenti costi unitari derivati. Perciò se il prodotto analizzato non va considerato
assolutamente nuovo occorrerà disporre di un indice di novità del prodotto. Ritornando al
caso precedente del modello Golf, poiché una vettura è rappresentata, ai fini della sua
produzione, da un certo numero di disegni che riproducono le parti costruttive (nel caso
dell’automobile i disegni sono circa 3.000), occorrerebbe sapere quanti disegni appartenenti al nuovo modello Golf hanno subito significative modifiche rispetto al precedente
modello Golf. In questo modo se il 50% dei disegni non sono stati variati l’indice di
omogeneità sarà pari a 0,5.
Analogamente occorrerà un indicatore relativo alla potenzialità produttiva per poter
calcolare quante volte effettivamente una squadra di lavoro effettua una certa operazione
complessa nell’anno o una sua frazione. È chiaro che anche il numero dei turni di lavoro va
conteggiato. Se una azienda produce 300 unità di prodotto nel periodo considerato, avendo
una organizzazione su tre turni, è ovvio che una singola squadra avrà assemblato in effetti
solo 100 unità di prodotto, mentre se lavora su due turni la quantità assemblata nel periodo
sarà pari a 150.
Infine la parte più delicata riguarda il calcolo dei costi medi unitari. I dati che servirebbero sono quelli relativi alle operazioni di assemblaggio. Se possiamo ritenere che le
imprese a confronto utilizzino sostanzialmente una tecnologia di montaggio uniforme fra le
imprese comparate anche il solo raffronto dei costi di lavoro potrebbe indicare un eventuale
differenziale derivante dalle economie di apprendimento. Se invece le tecnologie utilizzate
hanno un diverso grado di meccanizzazione e/o robotizzazione, allora inevitabilmente il
calcolo si complica in quanto occorrerebbe tener conto anche della maggior quota di
ammortamento che dovrebbe essere conteggiata in quanto copertura del maggior
investimento in attrezzature e impianti.
9.4.3. Il Radar delle economie di apprendimento
Anche nella misura delle economie di apprendimento è opportuno cercare di costruire un diagramma che componga assieme le molteplici variabili che influenzano in
modo più diretto le economie di apprendimento, soprattutto nel caso che le informazioni
disponibili non siano complete e particolarmente affidabili. In sostanza il radar delle
economie di apprendimento, come nel caso già considerato per le economie di scala,
diventa un diagramma che ci aiuta a valutare la rilevanza delle economie di apprendimento
di una impresa nei casi in cui non potendo effettuare un calcolo rigoroso delle stesse ci si
deve affidare ad una stima approssimata. Anche in questo caso la realizzazione del radar
appare molto facilitato se l’analista può costruire il radar a partire dai dati della propria
impresa, che rappresentano una riferimento piuttosto affidabile per la stima delle omologhe
grandezze riferite ad altre imprese. Ovviamente le variabili da considerare sono quelle
inerenti alle economie di apprendimento e quindi:
- Quantità di unità di prodotto realizzate da una specifico turno di lavoro e
convenientemente modificate per tener conto del grado di novità del prodotto stesso
qualora questo sia una evoluzione di un prodotto precedente e del grado di
automazione;
- Potenzialità produttiva degli impianti,
- Turni di lavoro,
− Voci di costo possibilmente riferite alla sola attività della squadra di riferimento
− spese di personale della squadra di lavoro considerata,
− incidenza dell’ammortamento,
− spese di energia,
− variazione stimata del costo unitario al variare del livello di produzione
cumulata,
− prezzo unitario del bene alla vendita.
9.5. Economie di scopo
9.5.1. La misura puntuale delle economie di scopo
Il termine economie di scopo è la traduzione libera di scope economies. In inglese
scope significa “ambito” o “campo” quindi sarebbe più aderente al significato inglese
tradurre “economie di ambito”. Infatti si dice che siamo in presenza di economies of scope
qualora la produzione congiunta di due o più beni risulti meno costosa di una produzione
separata. L’esempio che spesso si cita è tratto dall’industria della raffinazione petrolifera:
ipotizzando di avere un impianto petrolifero che può produrre allo stesso tempo benzina
(prodotto x) e gasolio (prodotto y), siamo in presenza di scopo qualora il costo della produzione congiunta dei due prodotti risulti inferiore alla somma dei costi della produzione
disgiunta di ognuno di essi.
C(x,0)+C(0,y)>C(x,y)
Occorre però considerare che, secondo la definizione originaria, la produzione è
congiunta se realizzata allo stesso tempo e nello stesso impianto. La raffinazione petrolifera, in questo senso, è aderente alle ipotesi della definizione in quanto un unico impianto
di raffinazione produce simultaneamente una molteplicità di prodotti petroliferi, dalle
benzine avio, che sono le più leggere, fino all’asfalto che è il prodotto più pesante ottenuto
dalla raffinazione. E infatti in questo caso si parla anche di ciclo economicamente
obbligato, dal momento che sarebbe letteralmente assurdo utilizzare una molteplicità di
torri di raffinazione, ciascuna specializzata per un particolare tipo di prodotto, in quanto il
petrolio greggio usato in una torre di distillazione specializzata per la lavorazione di un
particolare prodotto, costituirebbe un residuo che dovrebbe essere immesso in un’altra torre
di distillazione per produrre un secondo prodotto e così via. Molto più semplice ed
economicamente vantaggioso fare un unico impianto di distillazione in grado di ottenere i
diversi derivati della lavorazione del petrolio in funzione delle diverse temperature di
distillazione presenti in un unico impianto.
Di conseguenza dobbiamo porci la domanda se possiamo ancora parlare di
economie di scopo qualora una impresa produca due prodotti diversi usando due impianti
distinti in uno stesso sito produttivo qualora questa soluzione sia più efficiente di una
produzione in due impianti totalmente distinti anche dal punto di vista localizzativo? La
risposta dovrebbe essere negativa in quanto in questo caso dovremmo parlare di economie
di diversificazione. Tuttavia sta di fatto che uno dei più importanti storici del processo di
industrializzazione e delle strategie di imprese, Alfred Chandler jr., ha scritto nel 1990 un
libro divenuto famoso dal titolo Scale and Scope dove molti degli esempi di economie di
scopo riportati dall’illustre storico, scomparso nel 2007, sono in realtà dei casi di economie
di diversificazione. Di conseguenza non è infrequente che tra gli studiosi vi sia una certa
confusione terminologica. La questione si è poi ulteriormente complicata allorché ci si è
accorti che le economie di scopo più importanti non derivano tanto dall’attività
manifatturiera del “produrre”, quanto piuttosto da attività di progettazione o da attività di
comunicazione sul marchio aziendale (brand) o sui singoli prodotti e quindi attraverso una
attività di tipo immateriale. Infatti anche l’immagine che il brand di una impresa si è
conquistata sul mercato a seguito del lancio di un prodotto di successo può essere
monetizzata (e quindi creare economie) nel caso di lancio di prodotti analoghi effettuati in
un momento successivo. Ad esempio è noto che le imprese produttrici di cosmetici che
hanno iniziato con una singola tipologia di prodotto si sono poi allargate ad altre
produzioni consimili allo scopo di beneficiare ulteriormente della notorietà del brand e
dell’immagine di qualità e affidabilità già conquistata dalla marca.
Di conseguenza se desideriamo comparare le economie di scopo usufruite da due o
più imprese è raccomandabile effettuare la distinzione di queste economie in funzione della
attività aziendale che si sta considerando. In altre parole le economie di scopo riguardano
potenzialmente una molteplicità di funzioni aziendali (produzione, progettazione, comunicazione, distribuzione, ecc.) e vanno conteggiate secondo procedure che tengano conto
della specificità del fenomeno considerato. Le economie complessive di scopo risulteranno
quindi dalla sommatoria di tutte le economie di scopo conseguite nelle diverse attività.
Tenendo anche conto dei molteplici aspetti assunti dalle economie di scopo esse
potrebbero essere meglio indicate come economie di sinergia, ma poiché è ormai invalso
l’uso di riferirsi alle economie di scopo ci atterremo a questa etichetta, però con una particolare attenzione a specificare le caratteristiche della situazione in oggetto. La realizzazione di una certa attività (materiale o immateriale) è sinergica rispetto ad altre attività, e
produce economie di scopo, qualora l’impresa che svolge questa molteplicità di attività
sostenga un costo complessivo che è inferiore rispetto alla sommatoria dei costi che verrebbero sostenuti da imprese specializzate nelle singole attività. Questa definizione consente quindi di distinguere tra economie di apprendimento ed economie di scopo. Le economie di apprendimento si riferiscono tipicamente ai risparmi derivanti da una ripetizione
della stessa attività che produce un accumulo di esperienza e migliora la performance
aziendale. Invece le economie di scopo sono derivate dall’aggiunta di una attività che ha
parzialmente elementi comuni con una attività già svolta. È indubbio che non sarebbe
difficile immaginare situazioni nelle quali la differenza tra questi due tipi di economia (alle
quali si potrebbe anche aggiungere alcune economie di diversificazione che esamineremo
più avanti) si fanno quasi impalpabili rendendo problematica una chiara distinzione delle
diverse tipologie di economia. Tuttavia in generale questa distinzione è possibile e
conveniente in quanto aiuta a distinguere le diverse fattispecie sotto esame. Di conseguenza
l’atteggiamento metodologicamente corretto consiste nel cercare di definire nel modo più
rigoroso possibile il tipo di economia che si intende misurare e adottare un metodo di
calcolo che sia coerente con la definizione stessa.
Si supponga ad esempio di voler calcolare le eventuali economie di scopo connesse
al fatto di ampliare la gamma prodotta di un certo bene. In questo caso si potrebbe sostenere che in realtà stiamo parlando di una economia di diversificazione. L’obiezione ha degli
elementi di validità, tuttavia per tradizione siamo in presenza di un caso di diversificazione
allorché il prodotto che si aggiunge appartiene ad un settore diverso da quelli già realizzati.
In questo caso evitiamo quindi di considerare il fatto come una economia di diversificazione per il fatto che il nuovo prodotto ha una funzione strettamente analoga ad uno o più dei
prodotti già realizzati, come sarebbe nel caso che producendo già una gamma composta di
due tipo di frigorifero decidessimo di realizzare un nuovo frigorifero, Per contro sarebbe
più consono alle denominazioni tradizionali parlare di economie di diversificazione qualora
il nuovo prodotto può avvantaggiarsi del fatto che l’impresa produce altri prodotti, ma in
settori nettamente separati da quello del nuovo. Ad esempio la produzione aggiuntiva di
veicoli industriali da parte di una impresa che già produce autovetture ha più la natura di un
caso di diversificazione, dal momento che passando da un prodotto ad un altro varia decisamente la categoria di acquirenti alla quale si rivolge l’azienda.
Se invece un produttore di autovetture dilata la gamma di modelli, aggiungendone
uno dalle nuove caratteristiche, si è soliti parlare di una scelta che può generare economie
di scopo. Usando questo criterio di discriminazione siamo quindi in grado di distinguere
anche le economie di scopo realizzate nella progettazione o nella comunicazione di nuovi
prodotti, che si collocano all’interno di una gamma pre-esistente, dalle economie di diversificazione che sottintendono l’ingresso dell’impresa in nuovi settori. Ne deriva anche la
considerazione che in generale le economie di scopo dovrebbero risultare decisamente più
elevate di quanto non possano essere quelle derivate da un caso di diversificazione, per il
fatto che in questo secondo caso gli elementi di novità sono nettamente maggiori e quindi
quanto già fatto non offre significativi vantaggi per la nuova attività. Se ad esempio una
casa automobilistica aggiunge un modello alla propria gamma, poiché il mercato di
riferimento è comunque rappresentato dalla stessa categoria di consumatori, è evidente che
lo sforzo di comunicazione da fare per sensibilizzare la potenziale clientela al nuovo
prodotto è inferiore a quella che si renderebbe necessario per sensibilizzare la clientela
interessata a dei veicoli industriali. Qui l’aggiunta riguarda un prodotto che si rivolge a una
domanda composta da società di trasporto e non a famiglie o singoli consumatori. Non c’è
quindi bisogno di sottolineare che i parametri di valorizzazione del prodotto per questa
nuova clientela devono essere necessariamente diversi da quelli adottati per la
commercializzazione di beni di consumo.
Passando alla misura delle economie di scopo è chiaro che la soluzione ottimale
deriverebbe dal poter confrontare i costi di attività associati a situazioni di specializzazione
e a situazioni di attività realizzate in modo non specializzato. Inutile dire che nei normali
programmi di ricerca e di analisi competitiva questo genere di informazioni non sono
disponibili. Ci si deve quindi adattare ad effettuare delle stime nelle quali si contrappongono costi complessivi per attività meno ampie con i costi complessi per attività più ampie.
Ad esempio se un’impresa svolge un determinato complesso di attività e assume la decisione di attivarne una aggiuntiva si tratterà di stimare l’entità delle risorse consumate dalla
nuova attività (manodopera, progettazione, energia, materiali, impianti, ecc.) prima e dopo
l’introduzione dell’attività aggiuntiva che andrebbero rapportate ad una situazione di
produzione disgiunta.
Se ad esempio desiderassimo stimare le economie di scopo eventualmente ottenute
da una impresa che dilata la gamma di un certo prodotto servirebbe calcolare l’entità delle
spese di comunicazione prima e dopo l’inserimento del nuovo prodotto. Come è noto la società Nielsen Data Research effettua delle rilevazioni sistematiche su un campione molto
ampio di media utilizzati dalle imprese per la comunicazione di tipo pubblicitario. In
concreto vengono misurati gli spazi pubblicitari utilizzati nei giornali, la durata degli spot
pubblicitari in tutte le principali reti televisive, i tempi di diffusione di comunicati radiofonici, l’uso della cartellonistica, e di tutte le altre principali forme di comunicazione. Il
passo successivo consiste nella stima del costo che una impresa deve sostenere per ogni
tipologia di spazio utilizzato (una pagina pubblicitaria di un giornale ad alta tiratura costa
di più di una pagina di giornale a diffusione locale e altrettanto si può dire le diversi reti
televisive e per il diverso orario di diffusione del messaggio). Alla fine la Nielsen è in
grado di monetizzare le spesse pubblicitarie prodotto per prodotto, settore per settore.
L’analista competitivo di una impresa può quindi acquistare questo tipo di informazione
per valutare, come sempre in modo approssimato ma efficace ed utile, quando spendano
imprese diverse aventi una gamma di prodotto più o meno ampia. È un fatto dimostrato che
le imprese a gamma e a produzione limitata sono costrette a spendere cifre più elevate di
pubblicità per unità di prodotto commercializzato.
Se volessimo calcolare le economie di scopo associate alla progettazione il lavoro
da svolgere sarebbe analogo, ma reso più complicato da due aspetti distintivi. Da un lato
non vi sono società che forniscano rilevazioni su questo genere di costi per le imprese
diverse, dall’altro dobbiamo tenere a mente il solito problema rappresentato dal mantenimento di una situazione di ceteris paribus. Nel caso della spesa pubblicitaria la comparabilità, seppure imperfetta, viene costruita attraverso il raffronto del numero dei prodotti.
Ma nel caso della progettazione occorre una ulteriore condizione di comparabilità rappresentata dal fatto che una azienda può decidere di progettare integralmente i propri prodotti,
ovvero decidere di progettarli parzialmente, esternalizzando la restante parte della
progettazione. Ancora una volta il caso dell’industria automobilistica si presta assai bene a
questo caso, dal momento che solo in un lontano passato le imprese progettavano
integralmente i loro prodotti. Successivamente sono passate a decentrare una parte di
queste attività a favore dei fornitori di componenti che non curano soltanto la produzione
dei componenti forniti ma anche la loro progettazione.
Ciò vuol dire che se, ad esempio, consideriamo le spese di Ricerca e sviluppo
(Research and Development 3 - R&D) registrate nel bilancio d’impresa di due società aventi
una gamma più o meno ampia di prodotti dovremmo essere sicuri che entrambe ricorrano
alla progettazione interna per lo stesso ammontare percentuale, se desideriamo effettuare
un confronto basato su questi valori che hanno il vantaggio di essere indicati in bilancio.
Diversamente dovremmo conteggiare non solo le spese di R&D evidenziate in bilancio, ma
anche i costi della progettazione realizzata dai fornitori. Tuttavia in questo caso si profila
un ulteriore problema. In certi casi i contratti di fornitura evidenziano separatamente le
spese di progettazione da quelle di produzione e così, almeno teoricamente sarebbe possibile sommare le spese di R&D con quelle di sola progettazione esternalizzata, ma in altri
casi il recupero dei costi di progettazione da parte del fornitore vengono recuperati attraverso una maggiorazione del costo delle quantità fornite. Di conseguenza, al di là della
ovvia riservatezza che circonda questo genere di informazioni, non vi sarebbe nemmeno la
possibilità di isolare i costi di progettazione esternalizzati da aggiungere a quelli
internalizzati.
9.5.2. Schede e diagrammi riferiti alle economie di scopo
3
Le spese di R&D rappresentano una approssimazione per difetto delle spese di progettazione in quanto
comprendono tutti i costi di sviluppo di nuovi prodotti che la normativa vigente impone di spesare tra le spese
di esercizio nel conto Profitti e Perdite, fra le quali la componente maggiore è rappresentata dai costi di
personale attivato nel lavoro di R&D. Esistono tuttavia dei costi pluriennali di sviluppo dei nuovi prodotti
(strumenti, costi di registrazione dei brevetti, ecc.), che invece vanno inclusi tra i beni di investimento come
costi ad ammortamento pluriennale. Siccome ciò vale per tutte le imprese, le spese di R&D mantengono una
buona comparabilità qualora si riferiscano ad imprese che mantengono uno stesso tasso di progettazione
interna dei prodotti.
Quanto già riportato nel caso delle precedenti economie va naturalmente applicato
anche per schede rivolte alle economie di scopo. Si tratta in questo caso di impostare una
molteplicità di schede, una per ciascuna attività che si ritenga possa fornire un significativo
esempio di economie di scopo (Progettazione, produzione, pubblicità, ecc.). Per ciascuna
attività si cercherà quindi di esprimere un costo unitario dell’attività in funzione del
maggior o minor “ambito” che caratterizza la gestione di impresa. Per comodità e
semplicità molto spesso l’ambito sarà rappresentato dall’ampiezza della gamma dei
prodotti, ma non si può escludere che possa sorgere la convenienza ad utilizzare anche
indicatori diversi. Si consideri ad esempio il caso di una impresa che modifichi l’ambito dei
mezzi pubblicitari. In altre parole stiamo immaginando un’impresa che prima utilizzava
solo un tipo di pubblicità radiofonica, utilizzando come jingle del proprio messaggio
pubblicitario la colonna sonora di una canzone di successo. Qualora l’impresa decida di
aggiungere anche la comunicazione televisiva si potrebbe produrre una economia derivante
dal fatto si poter utilizzare la stessa colonna sonora. Ciò aiuterebbe sensibilmente i
consumatori a memorizzare il nuovo messaggio pubblicitario con conseguente possibilità
di ridurre il numero dei passaggi pubblicitari, a parità di risultato rispetto al caso in cui non
vi siano sinergie del tipo di quelle qui ipotizzate. In questo caso la variabile che guida il
fenomeno delle economie di scopo non sarebbe l’ampiezza della gamma dei prodotti, ma
l’ampiezza dei media di comunicazione.
9.6. La diversificazione Prodotti/Mercati
9.6.1. Il concetto di economie di diversificazione
Solitamente le economie di diversificazione vengono riferite a due situazioni concettualmente diverse in cui la diversificazione è applicata o al numero dei prodotti fabbricati, che rappresenta l’ambito tradizionale della diversificazione, ovvero ai mercati di sbocco o di approvvigionamento delle imprese, che costituisce un caso particolare di
diversificazione che in un’ottica di globalizzazione tende ad assumere una nuova maggiore
importanza. Il primo caso rappresenta la forma canonica di diversificazione in quanto il
concetto originario di diversificazione è stato definito proprio sulla base del numero di
prodotti offerti: una imprese si dice più diversificata di un’altra se produce un maggior
numero di prodotti.
Tuttavia tra gli studiosi prevale l’idea che anche una diversificazione dei mercati di
sbocco o di approvvigionamento, a parità del numero dei prodotti realizzati, vada fatto rientrare nella fattispecie della diversificazione, in quanto una impresa che si è già aperta ai
mercati stranieri è probabile che sappia fare tesoro di quanto sperimentato nell’ingresso di
un mercato straniero e sia in grado di inserirsi in un altro riducendo i tempi e i costi
dell’operazione. Nel caso poi di una dilatazione delle opportunità di approvvigionamento di
beni o servizi in paesi diversi si deve mettere in conto i possibili vantaggi derivanti da
differenziali nei prezzi.
I vantaggi derivanti dalla diversificazione possono essere a loro volta ripartiti in due
categorie in funzione che producano una riduzione dei costi dell’impresa o invece operino
sul fronte dei ricavi. L’aggiunta di un prodotto nuovo, che non rappresenti come nel caso
delle economie di scopo solamente una ampliamento di gamma della stessa categoria di
prodotti, può manifestarsi con una riduzione dei costi in quanto l’impresa riesce in qualche
modo ad utilizzare le competenze e l’immagine di marca che ha già costituito nel tempo,
ma vi potrebbe essere anche un beneficio sul piano dei ricavi. Ad esempio, poiché la
diversificazione si riferisce a prodotti aventi ruoli funzionali diversi, e quindi clientela
diversa e modalità di consumo diverse, la diversificazione può manifestarsi attraverso forme di stagionalità nella vendita dei prodotti oppure attraverso forme di indipendenza rispetto al ciclo economico. In altre parole aggiungere un nuovo prodotto a stagionalità complementare rispetto a quella dei prodotti esistenti rappresenta un vantaggio che si manifesta
anche nella stabilizzazione dei ricavi nel tempo. Analogamente, produrre prodotti rivolti a
diverse categorie di consumatori aventi un consumo non correlato, può rappresentare un
vantaggio non trascurabile, dal momento che la crisi congiunturale in un mercato non si
associa automaticamente ad una crisi dell’altro consentendo un frazionamento dei rischi.
La logica di riscontro delle economie o del frazionamento dei rischi è analoga a
quella degli altri tipi di economie e si basa sul raffronto tra due o più imprese aventi un
grado di diversificazione differente. Ma naturalmente va ricordato che non si sta affatto
teorizzando che i processi di diversificazione provochino sempre economie e frazionamento di rischi 4, ma solo che si tratta di misurare se queste economie si manifestino o
meno e, in caso affermativo, in che misura queste economie si manifestano nelle diverse
situazioni.
Dal punto di vista della rappresentazione grafica delle economie di diversificazione
serve naturalmente costruire un grafico nel quale in ascissa si ponga il livello di diversificazione che caratterizza un’impresa e in ordinata la configurazione appropriata del costo unitario di un prodotto, se ci si riferisce a questo tipo di esame, oppure a un costo medio ponderato dell’intera gamma di prodotti. Va sottolineato che la misura degli effetti di vantaggio competitivo derivante da forme di diversificazione appaiono come i più problematici
per una pluralità di motivi.
Innanzitutto va ricordato che la validità delle comparazioni sono tanto più rilevanti
quanto più esse sono effettuate rispettando le condizioni ceteris paribus. Ciò significa che
la condizione ottimale della comparazione si verifica in presenza di una situazione che
mantenga inalterati tutti i parametri definitori della posizione competitiva dell’impresa
tranne la variabile indipendente (causa) che guida la generazione di economie e la variabile
dipendente (effetto) che esprime quantitativamente le economie derivate come ad esempio
il caso del costo unitario.
Nel caso delle economie di scala la condizione di ceteris paribus assume che le
imprese a confronto siano produttrici di prodotti rigorosamente uguali, con tecnologie di
produzione uguale come del resto tutte le altre variabili in gioco. Solo la potenzialità
produttiva degli impianti può variare, ma non il loro livello di sfruttamento. In sostanza il
confronto è tanto più affidabile quanto più siamo in grado di configurare una situazione che
varia per una sola variabile e di una quantità marginalmente assai modesta.
4 Ovviamente questa considerazione vale anche per le altre tipologie di economie: di scala, di apprendimento, di
diversificazione, ecc.
Nel caso delle economia di apprendimento l’unica variazione ammessa sarebbe
quella di osservare la riduzione di costo generata dal fatto che si passa dalla produzione
cumulata n-esima alla produzione cumulata n+1-esima.
Nelle economie di scopo il quadro comincia già a farsi più complesso in quanto si
tratta di misurare l’impatto sui costi generati da fatto di aggiungere una attività parzialmente diversa a quelle già svolte. In questo caso una nuova “attività” potrebbe configurarsi
come una variazione più rilevante della piccola variazione al margine ipotizzata negli altri
casi. Ma in tema di diversificazione, di prodotto o di mercato di sbocco o di approvvigionamento, è chiaro fin dall’inizio che non siamo in presenza di una variazione al margine.
Passare dalla produzione di un prodotto a quella di due prodotti o passare dal vendere i
propri prodotti nel solo mercato domestico ovvero anche in uno o più mercati esteri
rappresenta un salto di qualità gestionale quanto mai importante.
Naturalmente questa constatazione non deve scoraggiare l’analista. La qualità del
suo lavoro non ha come riferimento la perfezione dell’analisi, che resta comunque uno
sconosciuto miraggio, quanto piuttosto la qualità dell’analisi svolta dagli altri e per
l’analista di una impresa quella degli analisti concorrenti. Il traguardo è essere migliori
degli altri.
9.6.2. Portafoglio dei paesi di esportazione
Con riferimento alla misura della diversificazione nel portafoglio dei paesi in cui
l’impresa commercializza i propri prodotti, il criterio guida non è tanto quello della riduzione dei costi unitari di prodotto quanto quello del frazionamento dei rischi. Operare in una
molteplicità di mercati rappresenta una soluzione cautelativa dal punto di vista delle opportunità di sbocco, quindi in prima approssimazione quanto è più ampia la diversificazione e
tanto maggiore risulta il frazionamento dei rischi. Tuttavia i singoli mercati presentano caratterizzazioni particolari che suggeriscono di procedere ulteriormente verso una ripartizione dei mercati di sbocco in categorie dotate di caratteristiche differenziate. Questa
ripartizione non può essere la stessa a prescindere dal settore competitivo in cui opera
l’impresa. In passato era frequente raggruppare i mercati di sbocco per grandi aree geografiche rappresentate ad esempio dai continenti, ma questa soluzione, comoda dal punto di
vista statistico non risulta di grande qualità ed appare opportuno definire una ripartizione
più mirata che serva a chiarire meglio i vantaggi e gli svantaggi di differenti situazioni di
diversificazione dei mercati di sbocco. In questa sede proporremo quindi una ripartizione
che è quella tipica pensata per il settore automobilistico. In altri settori si tratterà di verificare se è opportuno utilizzare la stessa ripartizione o se ne serva una strutturata in modo
differente. Nel campo automobilistico si è soliti distinguere i mercati in tre fasce:
- Mercati sviluppati, nei quali il livello di motorizzazione è molto elevato e di conseguenza siamo in presenza di un mercato nel quale le vendite per famiglia (o procapite) hanno un alto valore che però è sostanzialmente livellato nel tempo dal
momento che la domanda è una domanda quasi esclusivamente di sostituzione. I
mercati che si trovano tipicamente in questa situazione sono gli Stati Uniti, l’Europa
occidentale e il Giappone.
- Mercati in cui si sta registrando il decollo del processo di motorizzazione, pertanto la
domanda risulta quantitativamente meno intensa rispetto al mercato precedente
rapportato all’ammontare della popolazione, ma essa presenta un forte tasso di
crescita nel tempo, derivato dal fatto che la domanda è di prima dotazione. I tipici
mercati che presentano queste caratteristiche sono l’Europa centro-orientale, il
Brasile, la Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia.
- Mercati che non hanno ancora raggiunto lo sviluppo economico necessario ad un
ampio processo di motorizzazione che si manifesterà in un momento successivo.
Ricadono in questa categoria la quasi totalità dei paesi africani con l’eccezione del
Sudafrica.
Un accorto frazionamento dei rischi potrebbe basarsi sullo sviluppo della presenza
commerciale di una impresa su tutti e tre i tipi di mercato, anche se con intensità differenziata. Ad esempio una ripartizione delle vendite che si distribuisse per un 65% nei mercati
sviluppati, per un 30% nei mercati in fase di decollo e per un 5% in mercati “in attesa”
costituirebbe una scelta più oculata, rispetto ad una presenza quasi esclusiva nei mercati più
sviluppati che però non offrono ulteriori garanzie di sviluppo futuro.
Volendo la ripartizione per gruppi di mercati potrebbe basarsi, oltre che sul tipo di
variabile già indicata (grado di maturità di un mercato), anche su altre variabili generando
una matrice di ripartizione a più entrate. Per esempio uno degli elementi di rischio associato al commercio internazionale è quello della moneta con la quale vengono saldati gli
scambi: Dollaro USA, Euro, Yen, ecc. Potrebbe quindi essere opportuno creare una matrice
a doppia entrata (maturità del mercato e moneta di riferimento), stabilendo come criterio di
convenienza per l’impresa che gli sbocchi di mercato siano bilanciati secondo un certo
criterio ragionato tra le diverse variabili di classificazione (ripartizione giudicata ottimale).
A questo punto si dispone di una griglia di riferimento e una impresa risulta tanto più
competitiva rispetto ad un’altra quanto più è presente nei mercati di sbocco con percentuali
prossime a quelle considerate ottimali.
9.6.3. Ampiezza della gamma di prodotto
Passando a considerare la diversificazione riferita alla gamma dei prodotti commercializzati l’attenzione può convergere o sulla riduzione dei costi o sul frazionamento
del rischio. Nel primo caso abbiamo una impresa che risulta più competitiva di un’altra per
il fatto di produrre prodotti che presentano reciproche sinergie e quindi si caratterizzano per
un risparmio di costi rispetto ad una impresa non diversificata o diversificata in modo
differente. In generale la diversificazione che consente maggiori economie è una
diversificazione detta “a macchia d’olio”. In questo caso i prodotti, pur appartenendo a
settori diversi ed avendo quindi caratteristiche di domanda e di offerta distinte tra loro,
conservano pur sempre qualche elemento di omogeneità che può generare occasioni di
risparmio: formaggi e salumi appaiono come prodotti alimentari distinti, tuttavia buona
parte delle attività commerciali, compresa la comunicazione d’impresa, può dar luogo a
sinergie se rivolta a questa coppia di beni. In questo caso una impresa risulta più
competitiva di un’altra perché è più diversificata in settori che producono elevate sinergie
reciproche. Anche in questo caso si tratterebbe di individuare i settori che consentono
questo risultato 5 per poi misurare fino a che punto le imprese fra loro in concorrenza hanno
realizzato la diversificazione auspicabile. Ritornando al caso del comparto motoristico si
può immaginare che una impresa che operi simultaneamente nei settori delle automobili e
dei camion ottenga sinergie rispetto ad una impresa monosettore e che una impresa già
operante in questi due settori possa sfruttare ulteriori sinergie sviluppandosi anche nel
settore dei mezzi per il movimento terra (escavatori, pale meccaniche, ecc.) per il fatto che
si tratta di mezzi motorizzati con motori endotermici di impiego comune in tutti i tre settori
considerati. In questo modo si potrebbe stabilire una ripartizione del portafoglio dei
prodotti secondo una percentuale analoga al peso del fatturato del singolo settore sul
complesso dei settori serviti dall’impresa.
Un ampia gamma di prodotti va anche considerata sotto il profilo del frazionamento
dei rischi. In questo caso il tipo di diversificazione generalmente più opportuno assume la
definizione di diversificazione conglomerale, dove il termine sta appunto ad indicare che
l’impresa presenta una molteplicità di attività che tuttavia presentano tratti distintivi molto
marcati. Il bene “A” ha ben poco in comune con il bene “B” in quanto essi si rivolgono a
clientele diverse, sfruttando canali distributivi diversi, i metodi di fabbricazione non hanno
né tecnologie né materiali in comune e così via. Il vantaggio derivante da questo tipo di de
specializzazione deriverebbe dal fatto che una eventuale situazione di crisi, generatasi in un
particolare prodotto da una caduta della domanda o da un repentino aumento dei costi dei
materiali che entrano nella sua produzione, risulterebbe disaccoppiata dalla situazione degli
altri prodotti che non risentirebbero delle difficoltà del primo settore.
9.6..4. Schede e diagrammi riferiti alla diversificazione mercati/prodotti
L’analisi della competitività derivante dal grado di diversificazione presuppone che
si raccolgano le informazioni necessarie a comparare:
a) i diversi livelli di diversificazione tra le imprese con
b) una stima dei benefici ad essi correlati tanto sul fronte della riduzione di
costo che su quello del frazionamento dei rischi.
Tenendo conto che il fenomeno da monitorare (grado di diversificazione) appare di
difficile inquadramento, come abbiamo sopra specificato, è molto probabile che non si
giunga ad una quantificazione del risparmio dei costi, come è invece ipotizzabile per le
altre forme di vantaggio competitivo come le economie di scala e le economie di
apprendimento. Infatti se volessimo confrontare il vantaggio goduto dalla diversificazione
di due imprese dovremmo immaginarle come aventi una comune gamma di prodotti e
quindi assumere che una delle due aumenti il portafoglio prodotti mentre l’altra lo lasci
invariato. In generale sarà possibile solo indicare il fatto che una certa impresa appare
5
Naturalmente va ricordato che l’inserimento dell’impresa in un nuovo settore non assicura automaticamente
che il nuovo prodotto verrà realizzato a costi inferiori di quelli che si sosterrebbero in una produzione singola.
Occorre che l’impresa si mostri capace di sfruttare le sinergie derivanti dall’accoppiamento di prodotti
collocati in settori diversi. In questo senso la diversificazione offre potenziali sinergie e non automatiche
riduzioni di costo.
meglio posizionata dal punto di vista competitivo in quanto gode di un opportuno livello di
diversificazione sia sotto il profilo delle sinergie potenziali che sotto quelle del
frazionamento dei rischi.
In sostanza si tratta di raccogliere i dati necessari a dare una misura della presenza
dell’impresa nei diversi mercati e nei diversi prodotti (dati di fatturato) da esprimerli
percentualmente rispetto al fatturato complessivo. Quindi si dovrà costruire una
classificazione, come ad esempio quella basata sul grado di maturità dei mercati
automobilistici all’interno della quale assegnare delle quote auspicate. Se ad esempio il
totale delle vendite di automobili ripartite tra i tre tipi di mercato sono pari a 65%, 30% e
5%, una impresa potrebbe valutare conveniente diversificare i propri sbocchi in modo
analogo. Di conseguenza vendere oltre l’80% nei mercati maturi sarebbe considerato
rischioso come analogamente sarebbe prematuro avere una vendita molto elevata nei paesi
a mercati in fase di decollo. Inutile sottolineare che questa ripartizione non dovrebbe
restare fissa nel tempo, ma evolvere in modo parallelo alla trasformazione complessiva
delle vendite: tendenziale riduzione delle vendite nei mercati maturi e tendenziale crescita
negli altri due mercati e in particolare in quelli in decollo. Dal punto di vista concettuale la
cosa non cambia se invece di una classificazione su un solo asse si passasse ad una
classificazione su due assi (tipo di mercato e tipo di valuta utilizzata). In questo caso si
ottiene una matrice a doppia entrata data da un numero di caselle pari al prodotto delle
ripartizioni interne alle due variabili. Se ad esempio si considerassero tre aree di mercato e
sei valute (Dollaro USA, Euro, Sterlina, Yen, Rublo e Renminbi Yuan, moneta cinese
abbreviata in Rmb), avremmo una matrice a 18 caselle. Se assumessimo come auspicabile
ripartire le vendite in modo proporzionale all’ammontare degli scambi mondiali fatti con
una certa valuta sul totale degli scambi, avremmo individuato un modo per assegnare le
vendite obiettivo tra le diverse caselle. Il calcolo delle vendite per casella di una particolare
impresa ci consente di mettere a confronto la quota percentuale auspicata con la quota
effettiva derivando un giudizio di alta o bassa competitività in funzione della similarità
delle due distribuzioni. Una alta similarità indica una buona posizione competitiva, una
bassa similarità indica uno squilibrio nel frazionamento del rischio e nella competitività.
9.7. L’integrazione verticale
Il tasso di integrazione verticale costituisce un aspetto in grado di influenzare la
competitività di impresa. Naturalmente il valore ritenuto conveniente varia secondo il
mutare delle situazioni economiche e delle specificità del settore. In passato, fino alla metà
del XX secolo nel settore automobilistico si riteneva vantaggioso che le imprese avessero
un elevato livello di integrazione verticale. Questo giudizio era influenzato dal fatto che
molte delle imprese leader mondiali nei rispettivi settori avevano un elevato grado di
integrazione verticale come la IBM o la casa automobilistica americana Ford, che da un
lato aveva ottenuto risultati economici particolarmente brillanti e dall’altro aveva puntato
su un altissimo livello di integrazione verticale che consentiva, in quella fase storica,
elevatissime economie di scala e la messa a punto di tecnologie innovative molto avanzate.
Se si considera che il tasso di integrazione verticale di una impresa è esprimibile 6 attraverso il rapporto espresso percentualmente tra valore aggiunto e valore della produzione in
un dato intervallo di tempo (solitamente l’anno), era considerato opportuno per le case
automobilistiche americane basarsi su un tasso di integrazione verticale superiore al 50%.
Negli anni ’70, anche per effetto del manifestarsi delle prime crisi petrolifere, la
valutazione dei vantaggi di una elevata integrazione verticale si è molto ridimensionata. Il
nuovo standard di riferimento divenne l’industria automobilistica giapponese nella quale il
grado di integrazione verticale restava sistematicamente inferiore al 30%. Ma recentemente
sembra che l’esigenza di progettare prodotti basati su motorizzazioni diverse da quelle dei
motori endotermici (benzina, gasolio, GPL, metano) come le auto elettriche, le auto ibride e
le auto a celle di combustibile (idrogeno) stiano facendo ritenere che sia vantaggioso
crescere nel livello di integrazione verticale allo scopo di investire anche in queste nuove
tecnologie che altrimenti le case automobilistiche non potrebbero controllare direttamente.
L’individuazione del livello auspicabile di integrazione verticale deve quindi
iniziare dalla definizione di un valore ritenuto, pro-tempore, opportuno. Dopo di che il
semplice confronto tra il livello opportuno e quello effettivamente conseguito dalle imprese
appare in grado di fornire un giudizio circa il grado di competitività espresso dall’impresa
relativamente a questo tipo di caratterizzazione della struttura aziendale.
Inutile sottolineare che qualora una impresa produca una molteplicità di prodotti
dalle caratteristiche marcatamente distinte si pone la necessità di valutare il grado di
diversificazione per ciascuna categoria di prodotto. Ad esempio è risaputo che il grado di
integrazione verticale conveniente nella produzione di camion è ritenuto dover essere
nettamente inferiore a quello della produzione di automobili.
L’ottenimento dei dati necessari alla misura della grado di integrazione verticale per
una impresa monoprodotto non pone particolari difficoltà dal momento che i dati di
bilancio consentono di estrarre i dati relativi al valore aggiunto e al valore della produzione
(fatturato ± movimento nel conto rimanenze prodotti finiti). In certi casi ciò avviene anche
per imprese multiprodotto dal momento che esse forniscono una ampia selezioni di
informazioni suddivise per linee di business. Se invece questa suddivisione non è presente
occorrerà procedere a delle stime che cerchino di scorporare il valore aggiunto ed il valore
della produzione per categoria di prodotto.
9.8. L’innovazione di prodotto e di processo
9.8.1. La classificazione delle forme innovative
Non c’è bisogno di sottolineare come la capacità di innovazione di una impresa
svolga un ruolo essenziale nella capacità competitiva da questa dimostrata. La misura di
questa competitività svolge quindi un ruolo essenziale ed inizia con la distinzione delle
forme attraverso le quali si manifesta la capacità innovativa stessa. Si è soliti suddividere le
innovazioni in tre classi:
6
Per una analisi dettagliata del fenomeno rimandiamo a Volpato (2008).
a. Le innovazioni di prodotto, che consistono tanto nel proporre prodotti del tutto innovativi, che prodotti innovativi per l’impresa considerata, che prodotti aventi caratteri innovativi rispetto ad un prodotto già esistente della propria gamma. I prodotti innovativi in
senso assoluto si rivolgono a bisogni prima trascurati per assenza di un prodotto in grado di soddisfarli e fanno assumere all’impresa che lo realizza la posizione di offerente
monopolista. A rigore quindi questa impresa non ha competitor nel settore appena costituito fino a quanto una impresa concorrente non sia in grado di realizzare un prodotto
in grado di porsi come prodotto alternativo. L’imitazione di un offerente monopolista
rappresenta invece uno dei possibili casi con i quali realizza un prodotto che rispetto
alla propria gamma d’offerta costituisce una innovazione, ma non rispetto alla domanda
complessiva del settore. Infine il rinnovo di un prodotto rappresenta il livello più basso
della gerarchia dell’innovazione ed è anche il caso più frequente.
b. Le innovazione di processo non riguardano le caratteristiche dei prodotti ma le
modalità tecniche con le quali questi vengono fabbricati: uso di tecnologie differenti e a
maggior produttività, uso di livelli più avanzati di meccanizzazione dei processi e dei
montaggi (uso di robot), o anche impianti tecnologicamente invariati ma di maggior
dimensione e quindi in grado di assicurare (se debitamente sfruttati) maggior efficienza
e minori costi. Una innovazione di processo in grado di migliorare la competitività
dell’impresa può derivare anche dall’uso di impianti aventi una maggior flessibilità; tali
impianti sono in grado di essere utilizzati per la produzione di prodotti alternativi e
mettono quindi in grado l’impresa di poter adattare la propria offerta di beni alle
oscillazioni della domanda.
c. Infine abbiamo le innovazioni organizzative. Questo tipo di innovazioni sono state considerate nella dispensa dedicata ai modelli di impresa. Come è stato sottolineato si tratta
di innovazioni che possono assumere un rilievo molto marcato e possono agire come
fattori promozionali delle innovazioni di prodotto e di processo. Tuttavia si tratta di
innovazioni di assai complessa catalogazione che appare troppo ambizioso, almeno al
momento, cercare di catalogare come fattori di competitività per l’evidente difficoltà di
configurare credibili situazioni di ceteris paribus. Esse esistono e sono significative ma
verranno necessariamente trascurate in questa rassegna volta alla concreta misurazione
dei principali fattori di competitività.
9.8.2. La misura dell’innovazione di prodotto
Come si è visto le forme più rilevanti di innovazione di prodotto sono rappresentate
dalle innovazioni assolute e dalle innovazioni realizzate attraverso un prodotto che risulta
una imitazione di un prodotto realizzato da un’altra impresa e che viene aggiunto nella
gamma. Tuttavia, ai fini di una analisi competitiva, queste forme di innovazioni rappresentano dei fatti assolutamente eccezionali. Addirittura nel primo caso l’innovazione dà
origine ad un nuovo settore e per definizione non c’è concorrenza diretta da parte di altri
prodotti. È quindi evidente che in questo caso non si misura il vantaggio competitivo
riferito al settore specifico dal momento che non c’è nemmeno competizione, semmai il
confronto potrebbe essere costruito in modo da valutare il beneficio complessivo di una
impresa che abbia attuato questa innovazione rispetto ad una impresa per molti aspetti
analoga ma priva dell’innovazione in questione.
Nel secondo caso siamo di fronte ad un fatto meno eccezionale, che tuttavia costituisce comunque un incipit speciale per l’impresa (aggiunta di un prodotto che prima non
c’era). Di conseguenza la competitività dell’impresa considerata viene meglio espresso da
una rassegna dei fattori competitivi già considerati come le economie di scala, le economie
di apprendimento, le economie di scopo che si manifestano in corrispondenza a questo
nuovo specifico prodotto. Siamo quindi in presenza di un fenomeno economicamente
rilevante, ma non sistematico e che pertanto non viene analizzato con la strutturazione
tipica prevista per le altre forme di vantaggio competitivo.
Invece nel caso del rinnovo di prodotto siamo di fronte a un qualcosa di ricorrente,
che tutte le imprese svolgono con una certa regolarità, ed è quindi passibile di una analisi
sistematica. In questo caso i modi per rilevare l’importanza dello sforzo innovativo di una
impresa, per compararlo con quello delle sue concorrenti, può essere espresso da una pluralità di indicatori. Ciò non deve stupire dal momento che l’innovazione è comunque un
fatto molto complesso che può manifestarsi in uma molteplicità di modalità, per effetto di
una molteplicità di iniziative e che produce una molteplicità di effetti.
Una prima misura può essere basata sul ciclo di vita del prodotto. Ogni prodotto è
sistematicamente sottoposto alla concorrenza derivante dal rinnovo dei prodotti effettuato
dagli altri competitor e quindi attraverso le fasi classiche dell’introduzione, dello sviluppo,
della maturità e della radiazione per effetto dell’inserimento da parte dell’impresa di un
prodotto che lo sostituisca. È quindi possibile calcolare l’età media della gamma di prodotti
offerti da una impresa e per porla a confronto con quella delle altre imprese. Un ulteriore
affinamento di questa misura può essere derivata dal calcolo dell’età media dei prodotti
ponderata dall’importanza economica, solitamente espressa dal fatturato o dal profitto, che
ciascun prodotto riveste nella gestione complessiva. Evidentemente è cosa diversa avere un
prodotto molto giovane se esso occupa un ruolo centrale nella gamma d’offerta ed è
accompagnato da prodotti di più alta maturità ma di modesto rilievo singolo o viceversa.
Una seconda misura può essere fornita dall’entità delle spese di R&D sostenute
dall’impresa. A spese più elevate dovrebbe corrispondere una maggior capacità innovativa.
Una misura, sostanzialmente analoga, alle spese di R&D deriva dall’entità dello staff tecnico di cui una impresa si dota. L’importanza di questo elemento è sottolineato dal fatto
che le stesse imprese forniscono nei report annuali questa grandezza, proprio come testimonianza delle loro attenzione per l’innovazione. Inoltre sono sempre più frequenti le
imprese che redigono un “Rapporto di sostenibilità” che viene mirato a sottolineare l’impegno della impresa che lo presenta nell’ottenimento di obiettivi che si giudicano importanti per la collettività. In questi bilanci sono solitamente trattate tre aree:
a) quella della “responsabilità economica” in cui vengono evidenziate le iniziative
realizzate a favore degli stakeholders, quindi non solo degli azionisti
(stockholders), ma anche delle risorse umane (dove appunto figurano spesso i
dati circa l’entità del personale utilizzato per produrre innovazione, i
finanziatori i clienti e i fornitori;
b) quella della “responsabilità ambientale” in cui si espongono i risultati
conseguiti nell’esercizio dell’azienda nell’area del risparmio energetico e della
gestione ambientale,
c) quella della “responsabilità sociale” in cui sono evidenziati i risultati ottenuti a
favore tanto a del personale dipendente che della collettività in generale e in
particolare di quella ubicata in prossimità delle attività produttive dell’azienda.
Il rapporto di sostenibilità costituisce ancora una fonte informativa abbastanza
trascurata da parte degli analisti della competitività, ma che sta acquisendo rapidamente
importanza, sia per effetto della maggior attenzione da parte della clientela verso
comportamenti rispettosi dell’ambiente e della collettività, sia perché essi risultano
incrociabili con le informazioni classiche rappresentate nei bilanci rispetto ai quali danno
interessanti informazioni integrative.
Una terza misura del grado di innovazione di prodotto è rappresentata dall’entità
dei brevetti registrati nell’esercizio da parte dell’impresa. Questo genere di dati sono in
alcuni casi forniti direttamente dalle imprese, allo scopo di documentare il loro impegno su
questo fronte, ma sono comunque acquisibili dagli Uffici Brevetti dei singoli paesi o delle
comunità sovranazionali come la l’UE. In certi settori, tipicamente nei settori definiti come
science-based (farmaceutica, avionica, elettronica industriale, energie riciclabili, ecc.). Il
numero dei brevetti registrati nell’esercizio e quelli cumulati in un certo numero di anni
(gli ultimi tre, gli ultimi cinque), rappresentano degli indicatori di notevole importanza.
Una quarta misura è rappresentata dall’entità dei fondi pubblici ottenuti per lo
svolgimento di programmi di ricerca. Come è noto i governi dei vari paesi e le strutture
sovra-nazionali come l’UE indicono dei bandi per progetti di ricerca co-finanziati dalle
organizzazioni proponenti e dagli enti pubblici stessi. L’ottenimento di un finanziamento
rappresenta un aspetto significativo della capacità innovativa di un’impresa, sia perché solo
i progetti migliori vengono finanziati (e pertanto aggiudicarsi un co-finanziamento
costituisce un attestato di merito), sia perché la parte di co-finanziamento erogato dagli enti
pubblici rappresenta un fondo aggiuntivo rispetto alla disponibilità mobilitata dalla singola
impresa. Infine poiché molto spesso i bandi di ricerca impongono forme di collaborazione
fra imprese e queste esperienze di ricerche presentano interessanti ricadute anche sulla
capacità delle imprese di organizzare reti di comunicazione e di collaborazione con altri
partner. Una capacità che ormai rappresenta una competenza di grande importanza ai fini
dello sviluppo di efficaci strategie competitive nella gestione delle reti di imprese, come
apparirà evidente nella seconda parte del corso.
9.8.3. La misura dell’innovazione di processo
Anche la misura della capacità innovativa di una impresa applicata alle tecnologie
di processo può essere basta su numerosi indicatori. Con riferimento ai valori di bilancio la
voce degli investimenti (capital expenditure) rappresenta un buon indicatore di quanto
l’impresa abbia investito nell’ammodernamento dei propri impianti.
Un secondo indicatore può essere quello derivato dal punteggio raggiunto dall’impresa nei propri impianti di manufacturing qualora essa sia aderente ad una associazione
per la rilevazione degli standard di benchmarking a livello internazionale. Si tratta ad
esempio dell’EBF (European Benchmarking Forum) e dell’EBN (European Benchmarking
Network), che operano per la promozione di iniziative di benchmarking all’interno della
Comunità Europea, come strumento per lo sviluppo della competitività industriale. Tra le
attività svolte da questi enti vi è ad esempio la promozione dell’applicazione presso le
imprese del World Class Manufacturing 7. Questa applicazione consiste in una metodologia
di organizzazione delle attività e della fissazione di obiettivi di miglioramento qualitativo
da raggiungere. Poiché il WCM prevede l’assegnazione, agli stabilimenti delle imprese
partecipanti, di un certo punteggio e di una qualifica corrispondente, questo giudizio
rappresenta una misura semplificata ma certamente attendibile del livello di innovazione
realizzato nei processi produttivi dell’impresa.
Infine è possibile esprimere un giudizio di innovatività dei processi produttivi di
una impresa attraverso un benchmarking su alcune prestazioni tipiche degli impianti
utilizzati da una impresa o dall’uso di particolari software gestionali. Se ad esempio si
considerano imprese del settore automobilistico uno degli impianti più importanti dal punto
di vista della qualità e della competitività del prodotto è rappresentato dall’impianto di
verniciatura. Disporre di una impianto di verniciatura particolarmente avanzato costituisce
un importante elemento competitivo. Poiché gli impianti di verniciatura più moderni sono
basati su tecnologie a basso livello di inquinamento, come ad esempio l’utilizzo di vernici
a base d’acqua anziché a base di solventi. Il già menzionato Rapporto di sostenibilità
dell’impresa riporta sistematicamente questo genere di informazioni permettendo di
effettuare un business intelligence in modo rapido ed economico. Lo stesso genere di
considerazioni valgono in generale per i consumi di energia elettrica e quelli di acqua.
Impianti a bassi consumi di energia ed acqua sono certamente impianti di moderna
tecnologia ed è quindi possibile costruire una stima del livello di innovazione degli
impianti utilizzando parametri di questo genere.
9.9. La misura della velocità di reazione dell’impresa (Il Time-to-market)
Tradizionalmente la competitività di un’impresa veniva misurata in passato attraverso un indicatore di costo/prezzo dei prodotti. È facile capire che questo indicatore
appare espressivo quanto più l’impresa opera in una situazione prossima alla concorrenza
perfetta e quindi in un regime di omogeneità del prodotto offerto. Va da sé che se il
prodotto è molto omogeneo tutta la competitività si gioca per definizione sul prezzo. In una
fase successiva si è iniziato a riconoscere che un prodotto poteva risultare competitivo
anche contro prodotti più economici se il suo maggior prezzo è compensato da un
ventaglio di prestazioni nettamente superiore agli altri prodotti. Prestazioni che
corrispondono ad un confronto competitivo basato sulla differenziazione e che giustificano
la scelta del consumatore attento al cosiddetto value for money, ovvero al rapporto tra
prestazioni di prodotto e prezzo d’acquisto. I vari indicatori che abbiamo proposto in
7
Si veda sull’argomento Keegan (2003) e Volpato (2008 b).
precedenza costituiscono delle modalità volte a tener conto non solo del prezzo, che resta
comunque un indicatore di rilievo, ma anche delle prestazioni.
Ultimamente però il confronto competitivo si è ulteriormente arricchito. Ad
esempio si parla sempre più spesso di concorrenza sulla velocità. Poiché una fetta
crescente di consumatori apprezza prodotti aventi contenuti innovativi rispetto agli altri
prodotti il fatto di avere una offerta innovativa costituisce un vantaggio significativo di tipo
tendenzialmente monopolistico (questa tendenza è tanto più marcata quanto maggiore e
l’innovazione proposta rispetto alla concorrenza), che dura per tutto il tempo durante il
quale le imprese risultano in ritardo sulla impresa innovatrice e non sono in grado di offrire
prodotti di pari livello.
Gli indicatori del livello di innovazione di una impresa sono in grado di esprimere
una parte del vantaggio competitivo generato da queste pratiche, tuttavia essi possono
essere integrati da ulteriori indicatori tarati appositamente non tanto sull’entità
dell’innovazione, quanto sulla rapidità con la quale una impresa è in grado di anticipare sul
tempo la concorrenza e passare dalla formulazione di un programma innovativo alla fase di
completamento del programma stesso. L’indicatore più comune di questo tipo è
rappresentato dalla variabile espressiva del time-to-market. Tipicamente il time-to-market
misura il tempo che intercorre tra il momento in cui vengono fissate sulla carta in modo
descrittivo le caratteristiche di un nuovo prodotto e quello nel quale ha inizio la
commercializzazione del nuovo prodotto. Essere particolarmente rapidi in questa fase
cruciale significa: da un lato far passare poco tempo fra i momento in cui si valuta le nuove
esigenze della clientela e quello nel quale è offerto il prodotto che risponde alle esigenze
prima individuate, dall’altro essere molto rapidi ad imitare un concorrente nel caso esso ci
abbia preceduto con una idea innovativa che sta raccogliendo l’approvazione del mercato.
Ci sono imprese che devono il loro successo proprio alla alta capacità imitativa, come è ad
esempio il caso della azienda spagnola di abbigliamento Zara, che basa la sua strategia
nella rapidità con la quale imita i capi d’abbigliamento proposti dalli stilisti più quotati, con
confezioni aventi prezzi largamente più economici. In sostanza mentre l’abbigliamento
firmato in passato restava almeno per un anno una esclusiva dei marchi e degli stilisti
ideatori, Zara riesce ad offrire prodotti aventi un look comparabile, con ritardi assai
limitati, in sostanza nella stessa stagione dei prodotti griffati.
Anche nell’industria automobilistica da alcuni anni l’accorciamento del time-tomarket è diventato un fattore competitivo di prima grandezza, come mostra il caso Fiat che
è riuscito a recuperare parte del gap di competitività mostrato agli inizi degli anni 2000
attraverso una forte riduzione del time-to-market. Attraverso una riduzione drastica del
time-to-market, dai 36 mesi nel caso della progettazione del modello “Stilo” ai 18 mesi nel
caso del modello “Bravo” e ai soli 15 mesi nel caso del modello “Delta”, la Fiat ha potuto
riguadagnare molti punti competitivi sull’immagine di marca, sulla qualità percepita da
parte della clientela, sulla tempestività dell’offerta.
Grafico 3 – Time-To-Market di Fiat Group Automobiles
Definizione
di Stile
Kick
Off
Definizione
Tecnica
Briefing
Sviluppo
Prodotto
Inizio dello
Sviluppo
Tooling
Convalida
Processo
Produttivo
Convalida
tecnica
Ramp-Up
Pre-serie
Job 1
Lancio
Mesi
- 26
Stilo
- 16,5
-4
Mesi
- 18
Bravo
-9
- 2,5
Mesi
Delta
- 15
-9
- 2,5
Fonte: Fiat Group Automobiles
9.10 Il potere monopolistico dell’impresa
9.10.1. L’impostazione iniziale
Una componente potenzialmente assai importante della capacità competitiva di una
impresa è rappresentata dal suo potere monopolistico. Tradizionalmente il potere
monopolistico goduto da una impresa viene valutato sulla sola base della sua quota di mercato, che rappresenta certamente un elemento importante nel definire il potere monopolistico anche se richiede, come vedremo, alcune precisazioni. Questo concetto è originato
per differenza rispetto ad una situazione di perfetta concorrenzialità. In essa i prodotti concorrenti sono, per definizione, assolutamente omogenei e i consumatori decidono esclusivamente sulla base del prezzo, inoltre la quantità che ciascun offerente è in grado di commercializzare risulta una quantità assolutamente trascurabile rispetto alla offerta totale del
bene in questione, in modo che una eventuale riduzione dell’offerta di un singolo produttore non produca alcun effetto né sul prezzo di equilibrio della merce considerata, né sul
totale della merce scambiata. Di qui appunto la fattispecie di un potere monopolistico
nullo.
Quando si è teorizzato l’abbandono della rappresentatività del modello di concorrenza perfetta di ogni mercato in generale, come gli economisti avevano tendenza ad assumere in forma più o meno dichiarata, si è immaginato che le molteplici strutture di mercato possibili fossero organizzabili attraverso un continuum che va dalla concorrenza perfetta, in cui il potere monopolistico è nullo, al monopolio nel quale risulta massimo. E di
conseguenza il potere monopolistico di una impresa venne indicato come la risultante della
sua quota di mercato, praticamente trascurabile se la quota di mercato risulta assai modesta, crescente fino al massimo via via che l’impresa considerata dispone di una quota di
mercato che si avvicina o coincide con quella del monopolista. Occorre però sottolineare
che in questa costruzione concettuale l’unica variabile che è mutata rispetto allo schema
della concorrenza perfetta è la dimensione delle imprese. Ad esempio l’omogeneità del
prodotto è ancora mantenuta come perfettamente operante. Se quindi ci riferiamo ad una
realtà in cui la differenza fra imprese riguarda solo l’ampiezza della loro offerta, ma si
assume l’inesistenza della differenziazione, l’espressività della quota di mercato come
misura del potere monopolistico risulta confermata, ma se invece esiste una
differenziazione del prodotto, allora la quota di mercato risulta insufficiente a dar conto
dell’effettivo potere di mercato del quale gode una data impresa.
In questa situazione è necessario ponderare la quota di mercato goduto dall’impresa
(che evidentemente si riferisce all’intera offerta del settore) con il grado di differenziazione
del prodotto dell’impresa rispetto a quello dei concorrenti. Infatti l’esistenza della
differenziazione tra prodotti fa variare il grado di sostituibilità per l’acquirente. Il
produttore di un prodotto sostanzialmente poco sostituibile godrà, ceteris paribus, di un
potere di mercato superiore a quello di un produttore di un prodotto sostituibile anche se
questo secondo produttore ha una quota di mercato più grande.
In proposito si consideri il presente esempio. Si supponga di considerare un settore
nel quale per semplicità immaginiamo siano presenti solo tre offerenti. Assumiamo che due
di questi abbiano ciascuno una quota di mercato totale pari al 40%, la restante terza
impresa disponga invece di una quota pari al 20%. Secondo il modo classico si direbbe che
le due imprese più grandi abbiano maggior potere di mercato. Ma assumiamo altresì che i
due prodotti delle due imprese più grandi siano fra loro omogenei, mentre il prodotto della
terza risulta marcatamente differenziato. In questo caso agli occhi del consumatore le due
imprese più grandi risultano avere meno potere contrattuale della impresa più piccola in
quanto, se un consumatore è interessato all’acquisto di un prodotto avente le caratteristiche
(omogenee) di quello delle due imprese, egli ha la possibilità di esercitare liberamente la
sua scelta muovendosi da un produttore ad un altro. In altre parole se una delle due imprese
più grandi alzasse il proprio prezzo al consumatore basterebbe rivolgersi all’altra impresa e
viceversa. Per contro l’impresa più piccola, pur disponendo solo del 20% del mercato è una
quasi-monopolista, nel senso che dispone di un certo margine di manovra sul prezzo del
proprio prodotto dal momento che non ha diretti concorrenti. Assumiamo ancora che il
prodotto dell’impresa più piccola sia differenziato rispetto agli altri due nel senso di avere
un certo X% in più di una delle qualità caratteristiche che contraddistinguono i prodotti del
settore e sarà di conseguenza caratterizzato da un prezzo di vendita superiore di un certo
valore Y%. Se quindi un consumatore esprime la sua preferenza a favore del prodotto
differenziato è perché egli valuta il prodotto differenziato conveniente, vale a dire il +Y%
di qualità è giudicato più importante per il particolare uso che ne deve fare il consumatore
del differenziale di prezzo +X%. È quindi possibile che il produttore del bene differenziato
possa far salire ulteriormente il prezzo del proprio bene senza che ciò inneschi un
passaggio della domanda agli altri due beni delle imprese più grandi. Passaggio che
avverrebbe, per quel particolare consumatore, solo se il prezzo salisse, supponiamo, a
2X%. In altre parole l’impresa a prodotto differenziato ha un certo potere di mercato
perché alzando il prezzo vedrà ridursi la quantità venduta, ma senza che questa scenda a
zero. Per esempio potrebbe passare alla concorrenza un altro consumatore che valuta la
caratteristica con +Y% in più solo finché il prezzo non salga oltre 1,5 volte X%. Come si
vede l’impresa pur disponendo di una offerta dimensionalmente inferiore non è perfettamente sostituibile e può pilotare il suo prezzo in modo da massimizzare il profitto
derivante dalla vendita, tenendo conto di come si muovono, in funzione della quantità
prodotta e venduta, sia i ricavi totali che i costi totali. Cosa che gli altri due produttori non
possono fare. Se il settore fosse quello dei frigoriferi vorrebbe dire che una parte della
clientela reputa importante una certa caratteristica del prodotto differenziato, per esempio
la presenza di due scomparti, uno di refrigerazione e uno di surgelazione contro il solo
reparto di refrigerazione degli altri due, ed è disposta a pagare un premium price per ottenerlo.
Si noti che non è necessario immaginare che il prodotto differenziato abbia una
maggior dose della caratteristica qualitativa considerata. Il ragionamento vale anche se il
prodotto è differenziato ha una minor quantità della caratteristica. Ciò vuol dire che il
prodotto differenziato è più economico, ma agli occhi di una certa parte della clientela i
due prodotti a doppio comparto potrebbero sembrare troppo costosi preferendo quello a
comparto unico. Certamente se il frigorifero in partenza più economico subisse successivi
rialzi di prezzo progressivamente la clientela lo abbandonerebbe, perché il differenziale di
prezzo in meno non sarebbe più in grado di compensare il vantaggio di avere un frigorifero
a due comparti, ma fintanto che ciò non avviene l’impresa che offre il prodotto più
economico ha comunque un certo margine di manovra sul proprio prezzo che le altre due
imprese non dispongono pur avendo maggiori quote di mercato e dei prodotti di maggior
qualità assoluta.
Fino ad ora abbiamo considerato il potere di mercato di una impresa in relazione
alla domanda. La questione si pone anche in rapporto all’acquisto di componenti e materiali presso imprese fornitrici. In questo caso si deve supporre che l’impresa possa
rifornirsi scegliendo un componente indifferenziato da due grossi fornitori oppure un
componente differenziato da un solo fornitore più piccolo. Se assumiamo che, dati i prezzi
ai quali sono offerti i due prodotti (quello differenziato e quello indifferenziato), vi siano
imprese che preferiscono il componente differenziato l’impresa fornitrice dispone di un
potere di mercato che dipende dalla fedeltà della clientela di fronte ad una crescita di
prezzo. Più la clientela è fedele e più il piccolo fornitore ha possibilità di manovra sul
prezzo, per contro gli altri due fornitori più grandi non possono variare in salita i rispettivi
prezzi perché lo spostamento della clientela sarebbe immediata e totale verso l’altro
offerente omogeneo.
Il fatto di pesare la quota di mercato con il grado di differenziazione, in quanto
misura del potere di mercato di una impresa offerente, acquista ulteriore significato se
rapportata alla misura del potere di mercato riferita ad una impresa acquirente. Ritorniamo
quindi all’impresa che acquista una fornitura di componenti. Molti economisti direbbero,
adottando lo schema usuale basato sulla sola quota di mercato acquistata, che l’impresa che
acquista una maggior quantità di componenti rispetto ad un’altra impresa cliente potrà
ottenere uno sconto del prezzo di acquisto. Come abbiamo già spiegato questa deduzione è
affrettata in quanto anche qua occorre vedere fino a che punto l’acquisto riguarda un bene
indifferenziato oppure differenziato che quindi non ha immediati sostituti anche a modesti
cambiamenti del prezzo. Supponiamo la situazione nella quale tutte le imprese acquirenti
hanno bisogno di un componente indifferenziato che viene prodotto da tutte le imprese
fornitrici. In questa situazione appare effettivamente credibile che l’impresa che acquista
una quantità maggiore del componente standard potrà spuntare un prezzo più basso in
quanto, se la sua domanda è pari a 200 unità, il fornitore che riceverà l’ordine potrà meglio
saturare l’impianto produttivo rispetto all’acquisto di 100 unità fatto da un'altra impresa
acquirente. Di conseguenza il fornitore pur di acquisire l’ordine per 200 praticherà uno
sconto superiore a quello offerto all’acquirente di 100 unità. Ma se invece il settore dei
componenti è caratterizzato da una compresenza di componenti indifferenziati e di
componenti differenziati, allora ancora una volta non basta più considerare la quota di
mercato dell’impresa acquirente, ma occorre considerare oltre alla struttura della domanda
anche la struttura dell’offerta dei componenti. La ratio da utilizzare in questo caso dipende
non tanto dalla quantità di acquisto (quota d’acquisto), ma dalla sostituibilità dell’acquisto
tra due o più fornitori. Se io acquisto una grossa quantità in valore assoluto, ma lo posso
fare solo rivolgendomi ad un unico fornitore il mio potere contrattuale risulta annullato dal
fatto che anche il mio fornitore è un monopolista, e ci troveremmo in una situazione di
monopolio bilaterale, ovvero di un monopsonio al quale si contrappone un monopolio. Se
invece io acquisto una quantità inferiore ma posso mettere in gara più fornitori potrei
ottenere un prezzo d’acquisto inferiore a quello dell’impresa acquirente con una grande
quantità.
Infine l’erroneo metodo di commisurare il potere di mercato alla sola quantità ha
prodotto in molti economisti una ulteriore distorsione che consiste nell’indicare il
risparmio di costo ottenibile dalla grossa imprese acquirente rispetto ad una piccola
impresa acquirente come un caso di “economie di scala”. In altre parole alcuni autori
considerano lo sconto di quantità come un caso di economie di scala anziché di un caso,
come si è mostrato, di potere di mercato 8. Intanto diciamo subito che le economie di scala
costituiscono una “economia reale”, mentre lo sconto di quantità costituisce una situazione
a somma nulla nella quale il maggior sconto ottenuto dall’acquirente è pagato da un minor
ricavo da parte del fornitore e viceversa. In secondo luogo le economie di scala, giusta la
loro definizione, emergono in presenza del passaggio da un impianto avente una data
potenzialità produttiva a un impianto dotato di una superiore potenzialità. Questo erronea
valutazione della cause delle economie nasce proprio dal fatto che considerando la sola
quota di acquisto sul totale alcuni economisti scambiano il fenomeno delle economie di
scala con quello del potere di mercato.
In conclusione nella determinazione del potere di mercato conta la quota ma conta
anche il fatto se la domanda (o l’offerta) dell’impresa considerata possa giocare sulla
sostituibilità dei fornitori (degli acquirenti) e viceversa. Una grande quantità acquistata
senza poter mettere in concorrenza l’offerta godrà di uno sconto inferiore a quello goduto
da una minor quantità acquistata potendo mettere in concorrenza più fornitori.
8
Per una analisi dettagliata di questo erronea attribuzione si veda Volpato (2008).
9.10.2 Scheda riferita al potere di mercato.
Sulla base di quanto sopra evidenziato la scheda delle informazioni concernenti il
potere di mercato di una impresa riguarda:
a) La struttura dell’offerta ovvero la quantità venduta e la relativa quota di mercato
dell’impresa considerata e delle altre imprese offerenti,
b) Il grado di sostituibilità (o omogeneità) del prodotto dell’impresa rispetto alle
altre imprese offerenti,
c) La struttura della domanda ovvero la quantità acquistata dal complesso della
domanda (consumatori o imprese acquirenti) e le relative quote di mercato.
9.10.3. La misura del potere monopolistico dell’impresa
La misura del potere monopolistico presenta in genere minori difficoltà della
misura del potere monopsonistico. Ciò deriva dal fatto che un’impresa vende in generale
un numero minore di beni rispetto a quelli che acquista ed inoltre i beni venduti, se rivolti
al consumo, presentano un grado di omogeneità più elevato dei beni a domanda industriale,
infine inoltre la quota di mercato di ciascun singolo consumatore-acquirente è talmente
modesta, rispetto alle quantità commercializzate dal produttore, che si può considerare pari
a zero il potere di mercato del singolo cliente.
Analizziamo il caso in cui una impresa offra uno o più prodotti che sono delle
commodities, vale a dire prodotti aventi una differenziazione fra loro molto limitata. In
questo caso si tratterà, per ogni impresa, di calcolare la media delle quote di mercato per
ogni prodotto/settore, nel senso che ogni impresa ha un solo prodotto per settore servito.
Considerando più imprese avrò una matrice che riporta in orizzontale i dati per settore e in
verticale la quota di mercato del prodotto dell’impresa nel settore ponderata per
l’importanza del singolo settore sul totale dell’impresa.
Matrice di misura del potere monopolistico delle imprese (Prodotti Commodities)
Impresa α
Impresa β
Impresa γ
Impresa δ
Quota Mercato
Peso del
Quota Mercato
Peso del
Quota Mercato Peso del Quota Mercato
Peso del
Impresa α nel prodotto sul Impresa β nel prodotto sul Impresa γ nel prodotto sul Impresa δ nel prodotto sul
settore
totale di α
settore
totale di α
settore
totale di α
settore
totale di α
Settore 1
Quota P1
P1 %
Quota P1
P1 %
Quota P1
P1 %
Quota P1
P1 %
Settore 2
Quota P2
P2 %
Quota P2
P2 %
Quota P2
P2 %
Quota P2
P2 %
Settore 3
Quota P3
P3 %
Quota P3
P3 %
Quota P3
P3 %
Quota P3
P3 %
Settore n
Quota Pn
Pn %
Quota Pn
Pn %
Quota Pn
Pn %
Quota Pn
Pn %
Quota media
Quota media
Quota media
Quota media
100%
100%
100%
100%
Ponderata di α
Ponderata di β
Ponderata di γ
Ponderata di δ
Matrice di misura del potere monopolistico delle imprese (P.Diffe)
Impresa α
Quota
Quota
Quota
Quota
Mercato
Mercato
Mercato
Mercato
Impresa α sul Impresa α sul Impresa α sul Impresa α sul
segmento 1
segmento 2
segmento 3
segmento
Settore 1
Settore 2
Settore 3
Settore n
Settore 1
Settore 2
Settore 3
Settore n
Settore 1
Settore 2
Settore 3
Settore n
Settore 1
Settore 2
Settore 3
Settore n
% (1,a)
% (2,a)
% (3,a)
% (4,a)
% (1,b)
% (1,c)
% (1,c)
% (2,b)
% (2,c)
% (2,c)
% (3,b)
% (3,c)
% (3,c)
% (4,b)
% (4,c)
% (4,c)
Impresa β
Quota
Quota
Quota
Quota
Mercato
Mercato
Mercato
Mercato
Impresa β sul Impresa β sul Impresa β sul Impresa β sul
segmento 1
segmento 2
segmento 3
segmento
% (1,a)
% (2,a)
% (3,a)
% (4,a)
% (1,b)
% (1,c)
% (1,c)
% (2,b)
% (2,c)
% (2,c)
% (3,b)
% (3,c)
% (3,c)
% (4,b)
% (4,c)
% (4,c)
Impresa γ
Quota
Quota
Quota
Quota
Mercato
Mercato
Mercato
Mercato
Impresa γ sul Impresa γ sul Impresa γ sul Impresa γ sul
segmento 1
segmento 2
segmento 3
segmento 4
% (1,a)
% (2,a)
% (3,a)
% (4,a)
% (1,b)
% (1,c)
% (1,c)
% (2,b)
% (2,c)
% (2,c)
% (3,b)
% (3,c)
% (3,c)
% (4,b)
% (4,c)
% (4,c)
Impresa δ
Quota
Quota
Quota
Quota
Mercato
Mercato
Mercato
Mercato
Impresa δ sul Impresa δ sul Impresa δ sul Impresa δ sul
segmento 1
segmento 2
segmento 3
segmento 4
% (1,a)
% (2,a)
% (3,a)
% (4,a)
Totale
segmento 1
% (1,b)
% (2,b)
% (3,b)
% (4,b)
Totale
segmento 2
% (1,c)
% (2,c)
% (3,c)
% (4,c)
Totale
segmento 3
% (1,c)
% (2,c)
% (3,c)
% (4,c)
Totale
segmento 4
Nel caso i prodotti delle imprese non siano delle commodities, ma dei prodotti ad
elevata differenziazione, come nel caso delle automobili, delle macchine fotografiche, dei
televisori, dei computer, ecc., sarà necessario il calcolo della quota di mercato non riferita
all’intero settore nel quale sono presenti una molteplicità di prodotti che risultano
eterogenei, ma rapportata al totale delle vendite di segmenti relativamente omogenei. In
questo caso il confronto tra due o più imprese allo scopo di fare una graduatoria del potere
monopolistico da loro goduto può essere calcolato costruendo tanti segmenti di mercato
quanti sono i prodotti realizzati da una impresa e calcolando la quota di mercato del
prodotto dell’impresa sul totale del segmento. La media delle quote di mercato per ciascun
prodotto rispetto al segmento di appartenenza, ponderato con il peso del fatturato del
prodotto sul totale del fatturato d’impresa, rappresenta una accettabile misura del grado di
potere monopolistico dell’impresa. Ripetendo questa misura per tutte le imprese poste a
confronto è possibile ottenere una matrice del potere monopolistico nella quale le righe
sono rappresentate dal segmento complessivo di mercato e le colonne che riportano le
quote di mercato per ciascun prodotto. Poiché è possibile che imprese diverse abbiano
gamme in parte diverse si possono costruire due matrici una composta dall’insieme dei soli
prodotti collocati in segmenti che interessano tutte le imprese considerate e una nella quale
sono presenti tutti i segmenti riguardanti una o più imprese. In questa seconda matrice
alcune caselle delle colonne risulteranno vuote in corrispondenza dei segmenti per i quali
l’impresa considerata non offre il prodotto corrispondente.
9.11. La competitività sulla differenziazione e sulla qualità – Il modello SimCop 9
9.11.1. Le ipotesi alla base del modello
Nei precedenti paragrafi abbiamo esaminato alcuni esempi di vantaggi competitivi
potenzialmente utilizzabili dalle imprese che tuttavia si traducono essenzialmente in
riduzioni di costo, secondo la prima alternativa indicata da Porter e richiamata in
precedenza. In altre parole l’ipotesi implicita in queste forme di vantaggio competitivo è
che si considerano prodotti realizzati fra imprese diverse, e quindi concorrenti, aventi un
elevato grado di sostituibilità e pertanto il vantaggio competitivo di un prodotto rispetto ad
un altro si gioca soprattutto sul fatto di essere offerto a un prezzo più conveniente per
l’acquirente. Naturalmente, come si è già ricordato a questa forma di competitività va
affiancata una seconda forma di competitività giocata molto meno sul prezzo e molto più
sull’innovazione rispetto alla concorrenza e sulla caratterizzazione del prodotto, sia nel
senso della differenziazione che in quello del posizionamento qualitativo. Non v’è dubbio
che nella attuale fase di globalizzazione questa seconda modalità competitiva sta
assumendo un ruolo sempre maggiore nel confronto concorrenziale, tuttavia, a differenza
dei potenziali vantaggi competitivi riferiti alla riduzione di costo, questo genere di vantaggi
competitivi non si prestano ad una formalizzazione specifica proprio perché possono essere
giocati, e di fatto lo sono, su un ventaglio enorme di combinazioni dei diversi piani
competitivi come quello dell’innovazione, della differenziazione e della qualità che
possono essere declinate su una molteplicità di piani. Ciò significa che una loro
formalizzazione competitiva, ai fini di una identificazione dei possibili vantaggi,
richiederebbe di entrare nello specifico di ogni soluzione il che ovviamente non è possibile
in questa sede. Pertanto riportiamo solo un esempio di come si potrebbe cercare di
misurare un eventuale vantaggio competitivo di natura qualitativa attraverso un modello di
analisi denominato Sistema di Monitoraggio della Competitività del prodotto (SiMCoP)10.
Quando si parla di “competitività di un prodotto” ci si può riferire ad un punto di
vista interno (la sua redditività), a uno esterno (il gradimento della domanda) o ad
entrambi. L’analisi riferita all’aspetto interno si riferisce nella sostanza al fatto che un
9
Tratto dal testo Volpato (2008)
Il modello SiMCoP è riportato in dettaglio in Stocchetti (2003).
10
prodotto viene considerato più competitivo di un altro prodotto se produce un più alto
margine di profitto a parità di investimento. Considerando invece l’aspetto “esterno”
possiamo dire che un prodotto è più competitivo di un altro qualora a parità di prezzo è in
grado di assorbire una maggior quota di mercato. Inutile sottolineare che solo una analisi in
grado di misurare entrambe le dimensioni della competitività del prodotto sarebbe
soddisfacente. Tuttavia la dimensione indicata come “interna” non è esplorabile se non
dalla stessa impresa che produce il prodotto e resta quindi irraggiungibile da parte
dell’analista esterno. Lo studio della competitività di prodotto riferito alla domanda nel
complesso presenta problemi di ordine metodologico essenzialmente riconducibili alla
natura, per così dire, “multidimensionale” delle determinanti della competitività (prezzo,
caratteristiche) e alla differenziazione.
Una soluzione sarebbe quella di poter misurare, in condizioni di ceteris paribus,
l’elasticità incrociata (EI) di ogni prodotto nei confronti di tutti i concorrenti: questa
sarebbe una misura della differenziazione tra prodotti e, al tempo stesso, una misura della
potenziale “migrazione” di clienti da un prodotto all’altro, nei due sensi. Potremmo quindi
definire la maggior competitività di un prodotto A nei confronti di un concorrente B nella
misura in cui la EI di A rispetto a B diverge da quella di B rispetto ad A. Infatti, ciò
significherebbe che una variazione di prezzo di B comporta una variazione percentuale
della domanda di A diversa da quella che subirebbe B se variasse il prezzo di A. In
sostanza, la migrazione di clienti da A a B se varia il prezzo di B non è uguale alla
migrazione di clienti da B ad A se varia il prezzo di A.
La misura dell’EI presenta, tuttavia, noti problemi di misurazione 11 e non
costituisce pertanto una soluzione operativamente praticabile. Stocchetti [2003] propone
quindi una soluzione semplificata del problema che consente però interessanti valutazioni.
Questa soluzione, rappresentata dal SimCoP si basa sulla seguente impostazione:
 si stabilisce una definizione semplificata di competitività in termini di performance
commerciali;
 si misura la competitività così definita;
 si cercano relazioni significative e durature (correlazioni) tra livello di competitività
e caratteristiche del prodotto.
SiMCoP definisce la competitività in termini di quota di mercato e prezzo relativo e
si basa sul seguente principio: un prodotto è più competitivo di un altro qualora abbia una
quota superiore a quella dei concorrenti pur essendo venduto ad un prezzo superiore. In sostanza si assume che in un mercato differenziato la quota di domanda di un prodotto sia
determinata dal rapporto qualità/prezzo e che al crescere del prezzo la domanda richieda un
maggior livello di qualità. In base a questi presupposti, l’idea generale è che un prodotto
che abbia quote alte e prezzo alto è più competitivo di un prodotto che ha quote basse e
prezzo basso. Si tratta di una relazione di competitività che può essere misurata dal
seguente indicatore:
Ci = Qi ⋅
11
Si veda Volpato (2008)
Pi
P
Dove:
-
Ci è la competitività del prodotto i-esimo in una arena costituita da n prodotti,
Qi è la sua quota di mercato,
Pi il suo prezzo,
P la media aritmetica dei prezzi di vendita dei prodotti dell’arena,
il rapporto Pi/ P è detto “prezzo relativo” del prodotto i.
Ci è compreso tra 0 e Pi/ P ; il suo valore è tanto più alto quanto più un prodotto
riesce a conseguire contemporaneamente il duplice obiettivo di vendere tanto e spuntare un
prezzo alto. Sulla base di questo approccio, la posizione competitiva di un prodotto può
essere espressa anche visivamente come un punto su una mappa il cui asse delle ascisse
rappresenta appunto la quota di mercato e l’ordinata rappresenta il prezzo relativo (Figura
1)
Per una visualizzazione di più immediata comprensione nella figura l’asse delle
ascisse incrocia le ordinate in corrispondenza di un prezzo relativo pari ad 1, cioè il prezzo
medio dell’arena. Le ordinate incrociano le ascisse in corrispondenza della quota di
equidistribuzione (cioè 1/n, nell’esempio 1/10). Un prodotto è tanto più competitivo quanto
più si trova in alto a destra nella mappa, avendo quindi un indicatore Ci più elevato.
In un ipotetico segmento differenziato nel quale la domanda di un prodotto sia
proporzionale al prezzo dovremmo aspettarci una distribuzione dei prodotti del tipo di
quella indicata nella Figura 2, dove i diversi prodotti si distribuiscono in un intorno ristretto
di una curva di “equicompetitività”, cioè luogo dei punti per i quali Ci è costante. I prodotti
che vi si discostano sono invece caratterizzati da una domanda che è diversamente
proporzionale nel confronto del prezzo, rispetto agli altri concorrenti e per questo sono o
più competitivi, se si collocano al di sopra della curva, o meno competitivi se posizionati
sotto di essa.
La rappresentazione proposta permette di visualizzare la differenziazione dei
prodotti nel segmento e la misura della competitività sopra riportata, per quanto semplificata, è comunque un parametro direttamente legato alla maggiore o minore efficacia di
tale differenziazione. In questo senso, costituisce una variabile di riferimento per il
secondo step dell’analisi SiMCoP: quello teso ad individuare relazioni significative tra
determinate caratteristiche e il valore della competitività.
Figura 1 – Rappresentazione della mappa competitiva del modello SiMCoP
Mappa competitiva
1,8
Prezzo superiore alla
media
Prezzo relativo (pi/p)
1,6
1,4
1,2
Prezzo medio
1
Prezzo inferiore alla
media
0,8
0,6
0,4
Valore di equidistribuzione
0,2
0,00
0,02
0,04
0,06
0,08
0,12
0,14
0,16
0,18
0,20
Quota di mercato (Q) Quota > valore di equidistr.
Quota < valore di equidistr.
Figura
0,10
2
Mappa competitiva
1,8
Prezzo superiore alla
media
Prezzo relativo (pi/p)
1,6
1,4
1,2
1
Prezzo inferiore alla
media
0,8
0,6
0,4
0,2
0,00
0,02
0,04
0,06
Quota < valore di equidistr.
0,08
0,10
0,12
0,14
0,16
0,18
Quota di mercato (Q) Quota > valore di equidistr.
0,20
In letteratura è stato dato spesso credito a modelli che mirano a valutare il peso di
diversi possibili parametri nel determinare la quota di mercato; si tratta, in sostanza, di
modelli che esprimono la quota di mercato come una combinazione (lineare o polinomiale)
di variabili, ciascuna ponderata con un parametro, che è poi l’obiettivo dell’analisi, essendo
il “peso” che ciascuna variabile ha nel determinare la quota.
La specificità del modello proposto non considera la sola quota di mercato, ma il
prodotto tra questa e il prezzo relativo, includendo quindi gli effetti delle politiche di
prezzo nella performance misurata. In secondo luogo, oggetto di indagine specifica è il
ruolo giocato dalla differenziazione e, nello specifico, dalle caratteristiche distintive del
prodotto: la differenziazione in tal senso sta nel fatto che ciascuna caratteristica può essere
presente o meno nei prodotti a confronto e in misura diversa. Se in una certa arena una
caratteristica e il suo livello sono rilevanti ai fini della performance misurata da Ci, allora
dovremmo aspettarci che esista una correlazione elevata tra i valori di Ci e i valori assunti
dalla caratteristica in questione. Da qui la misura della correlazione tra i valori di Ci dei
prodotti di un’arena e le caratteristiche misurabili, o almeno ordinabili, dei vari prodotti,
per individuare quelle caratteristiche che possono avere un ruolo preminente nella
determinazione della competitività.
Si noti che in questo modo non si può avere la certezza di aver considerato tutte le
caratteristiche rilevanti, anche se tra quelle considerate una o più presentano elevati indici
di correlazione, ma questo problema può essere affrontato in una successiva e più
approfondita analisi sul ruolo che determinate caratteristiche rivestono per il consumatore.
In questo senso il modello proposto ha una funzione esplorativa, perché mira a costruire
ipotesi circa il rapporto caratteristiche-competitività, con il pregio che a fronte di valori di
correlazione elevati, le ipotesi formulabili avrebbero già superato un pre-requisito che ha
potuto essere verificato senza complesse, costose e spesso aleatorie indagini presso la
domanda.
9.11.2. Esempio applicativo del Modello SiMCoP
Si supponga di voler valutare la competitività dei prodotti offerti in un segmento di
Single Malt Scotch Whisky invecchiati tra 10 e 15 anni in una certa regione dove si
vendono 15 marche di questo tipo di whisky; per questi prodotti sono quindi rilevati i
valori indicati nella Tabella 1. Il gradimento di un whisky è un fatto altamente soggettivo e
legato a fattori culturali; l’indagine diretta presso la domanda è estremamente complessa
sul piano metodologico, aleatoria e particolarmente onerosa e non può fornire indicazioni
dirette su aspetti costitutivi del prodotto (invecchiamento, componenti, ecc.) a meno che gli
intervistati non siano dei degustatori esperti in grado non solo di cogliere le particolari
sfumature ma anche di esprimersi al riguardo, indicandole con precisioni, cosa che un
normale consumatore non è in genere in grado di fare.
Tabella 1
Num.
Progr.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
TOTALE
Unità
Prezzo Prezzo
Nome del prodotto
Vendute Quota
medio relativo
ISC
Ardbeg
3.430
6,53%
32,5
0,825 0,0539
2.034
Auchentoshan
3,87%
31,7
0,804 0,0312
30,5
Bowmore
5.270 10,04%
0,774 0,0777
Caol Ila
1,375 0,1049
4.005
7,63%
54,2
Cragganmore
3.682
7,01%
41,0
1,040 0,0730
Glenfarclas
4.298
8,19%
50,0
1,269 0,1039
The Glenrothes Vintage 1992
1.718
3,27%
45,0
1,142 0,0374
Lagavulin
1.183
2,25%
58,4
1,482 0,0334
Oban
0,888 0,0834
4.930
9,39%
35,0
Highland Park
5.960 11,35%
29,2
0,740 0,0840
Isle of Jura Superstition
1.900
3,62%
39,3
0,997 0,0361
3.674
7,00%
Glenfiddich
32,5
0,825 0,0577
8,23%
32,5
Talisker
4.321
0,825 0,0679
Tormore
3.749
7,14%
38,5
0,977 0,0698
Springbank
2.354
4,48%
40,8
1,036 0,0465
39,4
52.508 100,00%
La corrispondente mappa competitiva della tabella sopra riportata compare nella Figura 3.
Figura 3
1,600
1,500
Lagavulin
Caol Ila
1,400
Glenfarclas
Prezzo relativo
1,300
1,200
The Glenrothes
Vintage 1992
1,100
Springbank
0,00%
2,00%
Isle of Jura
Superstition
s
Cragganmore
1,000
6,00%
4,00%
12,00%
10,00%
Tormore8,00%
Oban
0,900
Glenfiddich
Auchentoshan
0,800
Ardbeg
0,700
Talisker
Bowmore
Highland Park
0,600
LagavulinQuota di mercato
Volendo tuttavia sapere se e quanto sono importanti, ai fini del successo commerciale, gli aspetti caratterizzanti un prodotto come il whisky, non si può rinunciare alla indagine di mercato, che può però essere svolta con migliori risultati se focalizzata in base ad
una analisi preliminare che permetta di costruire delle ipotesi sul ruolo delle caratteristiche.
Questo è appunto ciò che propone l’analisi della correlazione tra competitività e caratteristiche. La tabella 2 prende in esame quattro tra le molte caratteristiche dei whisky:
 anni di invecchiamento,
 gradazione alcolica,
 persistenza del retrogusto,
 torbatura (aroma torbato).
attraverso la correlazione, espressa attraverso l’indice di Pearson e indicato con la lettera
greca ρ. Date due variabili, l’indice di Pearson misura la loro correlazione come rapporto
tra la loro covarianza e il prodotto delle rispettive deviazioni standard. La formula che ne
scaturisce è la seguente:
n
ρ=
∑ (x
i=1
n
∑ (x
i=1
i
i
)(
− x ⋅ yi − y
−x
n
)
) ∑ (y − y)
2
2
i
i=1
Tabella 2
Retrogusto 0-5
N.
Nome del prodotto
ISC
Invecchiamento
Gradazione
alcolica
0 = assente
5 = persistente
Aroma
torbato
0-1
0 = assente
1 = presente
1 Ardbeg
2 Auchentoshan
0,0539
0,0312
10
10
46
40
4
2
1
0
3 Bowmore
4 Caol Ila
0,0777
0,1049
12
12
40
43
3
2
1
1
5 Cragganmore
6 Glenfarclas
0,0730
0,1039
12
15
40
46
3
1
1
1
7 Glenrothes Vintage 1992
8 Lagavulin
0,0374
0,0334
13
12
43
58
3
5
0
0
9 Oban
10 Highland Park
0,0834
0,0840
14
12
43
43
2
4
1
1
11 Isle of Jura Superstition
12 Glenfiddic
0,0361
0,0577
15
15
43
40
2
1
0
0
13 Talisker
14 Tormore
0,0679
0,0698
10
12
46
40
3
1
1
0
15 Springbank
0,0465
10
40
4
0
0,2278
-0,1723
-0,3489
0,7739
CORRELAZIONE
Ne emerge che l’aroma torbato è la caratteristica più rilevante, tra quelle considerate, ai fini della competitività (corr. = 0,7739), mentre sono poco influenti l’invecchiamento
(almeno nell’intervallo 10-15 anni) e la gradazione alcolica. Sembra invece avere un ruolo
modesto, ma di segno contrario alla competitività della caratteristica, la persistenza del
retrogusto, che risulta pari a -0,3489, negativamente correlata alla competitività.
L’uso che il modello fa di questi indici di correlazione è di tipo esplorativo: i risultati sembrano indicare che la caratteristica giocata dall’aroma torbato sia rilevante ai fini
della competitività del prodotto nella regione coperta da indagine. Da questa ipotesi
possono quindi partire ulteriori analisi interpretative che verosimilmente saranno basate su
interviste dirette dei consumatori della regione in cui si è applicato il modello.
9.12. La misura dei vantaggi competitivi di ordine economico-finanziario
Concludiamo la rassegna degli indicatori di competitività considerando alcuni
elementi segnalatici di ordine economico-finanziario. Come è noto l’analisi di bilancio ha
sviluppato da tempo varie metodologie sia economiche che finanziarie per un opportuno
esame sistematico delle informazioni contenute in tutti i documenti componenti la
relazione annuale sull’attività di una impresa. In questa sede si ha solamente lo scopo di
richiamare alcuni indicatori rimandando alla copiosa letteratura disponibile sull’argomento
per gli eventuali approfondimenti.
Innanzitutto è importante segnalare che, date le molteplici differenze nelle variabili
caratteristiche (fatturato, diversificazione, differenziazione, integrazione verticale, ecc.)
dell’impresa e del suo posizionamento di mercato è quantomai importante utilizzare oltre
ad indicatori di grandezza assoluta come il fatturato, il valore annuo della produzione, il
valore aggiunto, il risultato economico della gestione caratteristica, ecc., anche indicatori
costruiti su dei quozienti aventi lo scopo di creare indici maggiormente comparabili delle
semplici variabili assolute in quanto in grado di tener conto di eventuali differenze
strutturali tra imprese.
Il valore della produzione. Oltre agli indicatori economici più comuni come il fatturato, e
l’utile netto è opportuno considerare ed eventualmente stimare, se la strutturazione dei dati
di bilancio non ne consentono l’esatta quantificazione, il valore della produzione,
corrispondente al fatturato più il valore delle scorte di fine esercizio di prodotti finiti e
meno il valore corrispondente di inizio esercizio. A rigore servirebbe anche tener conto dei
semilavorati, ma naturalmente siamo in presenza di valori non estraibili da un bilancio e
comunque di entità generalmente trascurabile rispetto alle grandezze in gioco. Solo per
produzioni di elevato valore unitario e aventi un ciclo di realizzazione estremamente lungo,
come potrebbe essere la realizzazione di una nave, occorrerebbe procedere ad una stima
del working progress. Anche il valore attribuito ai costi capitalizzati fa parte del valore
della produzione ma anche in questo caso l’analista esterno è costretto a trascurare questo
genere di voce economica.
Il valore aggiunto. Differenza tra il fatturato aziendale e i costi di prodotti e servizi
acquisiti all’esterno. Il valore aggiunto è composto dai seguenti elementi:




utile netto,
retribuzione del lavoro (diretta e indiretta, attuale e differita)
ammortamenti e accantonamenti
oneri finanziari
 imposte
EBITDA. Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization o Margine
Operativo Lordo (MOL). Misura l’utile di un’azienda prima della gestione finanziaria
(interest), delle imposte (taxes), delle componenti straordinarie, delle svalutazioni (depreciation) e degli ammortamenti (amortization). Questa voce di bilancio verifica la
capacità dell’azienda di vendere i propri prodotti/servizi a un prezzo che consenta di
coprire i costi operativi sostenuti.
EBIT. Earnings Before Interest and Taxes o Risultato Operativo. Si ottiene sottraendo dal
margine operativo lordo (EBITDA) gli ammortamenti e gli accantonamenti. Verifica la
capacità dell’azienda di vendere i propri prodotti/servizi a un prezzo che consenta di
coprire non solo i costi operativi sostenuti, ma anche il deprezzamento degli impianti o
macchinari utilizzati e gli accantonamenti a fronte dei vari rischi aziendali.
Posizione finanziaria netta. NET FINANCIAL POSITION: Detta anche indebitamento
finanziario netto. E' un indicatore del grado di indebitamento di un impresa industriale. È
data dal saldo tra tutti i debiti e i crediti finanziari.
Redditività delle vendite (ROS). Il ROS (Return On Sales) esprime la redditività lorda
delle vendite prima degli oneri/proventi finanziari, straordinari e tributari (EBIT). Il
Risultato Operativo è ottenuto sottraendo ai ricavi delle vendite tutti i costi della produzione (costo del venduto, costo del personale, ammortamenti, ecc.).
Redditività sul capitale investito (ROI). Il ROI (Return On Investments) è un indice utile a
valutare la redditività ed efficienza della gestione tipica dell'azienda, al fine di verificare la
capacità dell'impresa di remunerare sia il Capitale Proprio che il capitale di Terzi. E'
ottenuto calcolando il rapporto tra il Risultato Operativo e il Capitale Investito. Questo
indice non è influenzato dagli oneri/proventi finanziari in quanto non compresi nel
Risultato Operativo. La misura minima soddisfacente di questo rapporto deve essere
equivalente al tasso rappresentativo del costo del denaro. Quanto più supera il tasso medio
tanto più la redditività è buona. Ritorno sul Capitale Investito ROI = Risultato
Operativo/Capitale Investito
Redditività del totale dell’attivo (ROA). Indica il rendimento percentuale conseguito dagli
investimenti aziendali. E' dato dal rapporto tra l'utile netto al totale delle attività.
Redditività del capitale netto (ROE). Il ROE (Return On Equity) determina in che
percentuale il denaro investito dai soci viene remunerato. Esso interessa in prima persona
gli investitori. Il tasso di Remunerazione dell'Investimento si ottiene calcolando il rapporto
tra Utile Netto (cioè l'Utile dopo le Imposte) e il Patrimonio Netto (o Capitale Netto o
Mezzi Propri). Alla determinazione di questo indice concorrono, se ci sono, oneri e
proventi finanziari in quanto compresi nell'Utile Netto. Ritorno sul Capitale Netto ROE =
Utile Netto / Patrimonio Netto
9.13. Bibliografia
Cabral L. (2005), Economia industriale, Carocci, Roma.
Camp R.C. (1989), Benchmarking, Quality Press, Milwaukee.
Casarin F. (1990), La segmentazione del mercato dei beni di consumo, Cedam, Padova.
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Scientifica, Roma.
Hay D.A., Morris D.J. (1984), Economia industriale, Il Mulino, Bologna.
Keegan R., O’Kelly E. (2006), Applied Benchmarking for competitiveness, Jaico
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Levet J-L. (2004), L’Économie Industrielle en évolution, Economica, Paris.
Spendolini M.J. (1996), Fare Benchmarking, Il Sole 24 Ore, Milano.
Stocchetti A. (2003), Analisi della competitività del prodotto, F:Angeli, Milano.
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