LEZIONE n. 3 - Economia del lavoro

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LEZIONE n. 3 - Economia del lavoro
Dipartimento di Scienze della Formazione
Università di Roma Tre
Anno accademico 2015/2016
Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane”
Insegnamento
Politica economica e gestione delle risorse umane
Docente
Prof. Aldo Gandiglio
Seconda parte
LEZIONE 3
ECONOMIA DEL LAVORO – POLITICHE DEL LAVORO
POLITICHE ATTIVE E PASSIVE – LOCALI E EUROPEE
Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – – Università Roma Tre – a.a. 2015-2016
Economia del lavoro – approcci teorici (cenni)
Si è detto come la presenza di istituzioni ed organizzazioni sia necessaria per l’esistenza ed il
funzionamento del mercato. Ancora di più, per il mercato del lavoro sono necessarie leggi, contratti,
prassi, abitudini.
Infatti, si può affermare che ci sia un consenso unanime a considerare il lavoro non come un qualsiasi
altro fattore produttivo, e conseguentemente, il mercato del lavoro non come un qualsiasi altro mercato
di produzione e scambio di merci ed attività.
Il lavoro è anzitutto una aspirazione ed una scelta personale, anche se – spesso - non del tutto libera
nelle possibilità di accettare o di ricorrevi, mentre si presenta anche, nell’organizzazione economica,
come un fattore produttivo; il lavoro appare, quindi, condizionata dal contesto economico,
dall’ambiente sociale, e da altri fattori extra-economici. Il mercato del lavoro si caratterizza come una
istituzione sociale, contornata da regole, rapporti di fiducia (e, di forza), istituzioni, che vanno oltre la
legge della domanda e dell’offerta che viene posta alla base del funzionamento della domanda e
dell’offerta di lavoro.
Gli interventi nel mercato del lavoro assumono quindi caratteristiche originali che si differenziano dalle
forme di regolazioni degli altri beni e fattori produttivi; basti pensare alla protezione del lavoro minorile,
alle norme relative alla sicurezza sul lavoro, alle fissazioni degli orari di lavoro, delle festività e riposo,
ecc., alle norme relative alla contrattazione, alle forme di copertura sociale, alle tutele nel caso dei
periodi di non lavoro, ecc.
Vediamo, tuttavia, sinteticamente, una formalizzazione di come si possa configurare una offerta e
domanda di lavoro in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale; ciò sarà utile in quanto, di
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seguito verranno fatti riferimenti a queste modalità di funzionamento per illustrare alcune impostazioni
di politiche salariali e di politiche occupazionali.
L’offerta di lavoro
Facciamoci aiutare da una ipotesi semplificata (e in qualche modo anche irrealistica, specialmente in
situazione di carenze di opportunità di lavoro): un individuo decide di dedicare al lavoro solo il tempo
che desidera, in quanto – e ciò è vero – esiste un uso alternativo del tempo di lavoro per altre attività
più desiderabili (ozio, svago, ecc.). Viene presa, in questa logica, una decisione che ha alla base una
scelta sull’allocazione del tempo in relazione alla utilità generata.
Sino a quanto un individuo dilata il tempo dedicato al lavoro? Sino a quanto il beneficio marginale
generato dall’unità marginale dell’ora di svago eguaglia o supera il reddito generato dall’ora marginale
di lavoro (reddito che viene utilizzato per acquistare - sua volta – beni e servizi che generano
utilità/benefici). I lavoratori, quindi, offriranno servizi lavorativi fino a che il saggio marginale di
sostituzione tra consumo (generato dal reddito) e tempo libero non sia uguale al salario reale. Il salario
misura il risultato del lavoro, ma anche il costo-opportunità dello svago.
Appare, inoltre, anche evidente che l’ampliamento della quantità di tempo messo a disposizione per il
lavoro ha sicuramente una qualche relazione con la remunerazione offerta per unità di lavoro, ma con
effetti che possono essere discordanti. Ad un aumento della remunerazione oraria (o di altro
compenso per una attività che, comunque, richiede l’uso del tempo) corrisponde un aumento del
costo-opportunità dell’ora di svago e, il c.d. “effetto sostituzione” lo spingerebbe a lavorare un’ora di
più, ma il c.d. “effetto reddito” (dovuto all’aumento del salario) potrebbe portare il lavoratore a
richiedere più svago, e quindi a ridurre l’offerta di lavoro. Il prevalere dell’uno o dell’altro effetto porta
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azioni che vanno in direzioni opposte, sia nell’offerta di lavoro individuale, sia nell’offerta di lavoro nel
mercato (che è rappresentato dalla somma delle curve di offerta individuali).
Curve di offerta di lavoro individuale
Prevalenza effetto reddito
SALARIO
SALARIO
Prevalenza effetto sostituzione
QUANTITA' DI LAVORO (ore)
QUANTITA' DI LAVORO (ore)
Nel mercato del lavoro agiscono anche numerosi altri fattori che determinano spostamenti della curva
(non “sulla” curva, che, invece, è specifica di ciascun individuo). Ad esempio i cambiamenti
demografici, ed anche l’immigrazione (una popolazione in aumento sposta verso destra la curva, cioè
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vi è più disponibilità a lavorare per ogni livello salariale, ed al contrario se vi è diminuzione), l’aumento
della ricchezza disponibile e l’ampliarsi delle disponibilità di posti di lavoro (spostamenti a sinistra),
l’aumento della disoccupazione (spostamento vs destra).
Un modo alternativo per definire il comportamento individuale è quello del salario di riserva, cioè quel
salario minimo che farà accettare all'individuo una prima ora di lavoro.
Il salario di riserva varia in relazione alle caratteristiche ed aspirazioni personali, ed anche in stretta
relazione con la situazione economica più complessiva. Tuttavia, le fasi di ciclo economico espansivo
non sempre fanno aumentare la disponibilità a lavorare, e quindi comportare riduzioni della
disoccupazione, in quanto i lavoratori potrebbero non accettare salari bassi, potrebbero infatti rimanere
in attesa di altre offerte di lavoro, che nel frattempo si prevede siano in aumento. Al contrario, in fasi
depressive, con discesa dei salari e più basse probabilità di trovare lavori ad un salario adeguato, i
salari di riserva si riducono, ma parte della forza lavoro potrebbe diventa inattiva (scoraggiati nella
ricerca del lavoro) e quindi la disoccupazione (come viene statisticamente calcolata) potrebbe anche
diminuire.
Sintetizzando una prima conclusione: l’offerta di lavoro misura la disponibilità delle persone a
lavorare, ossia indica il numero di persone disposte a offrire i propri servizi lavorativi in corrispondenza
di un salario reale. Perché “reale”? Al lavoratori non interessa quanto denaro riceve, ma quanti beni si
possono acquistare con il salario ricevuto, che è in relazione al livello dei prezzi, cioè il salario reale.
In linea generale, la disponibilità degli individui a lavorare cresce man mano che il salario reale
aumenta, in quanto gli individui vogliono essere ricompensati per la rinuncia ad altre possibili attività o
al tempo libero. La curva di offerta di lavoro ha pendenza positiva (in crescita).
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Come ricordato, agiscono sul salario reale numerose altre variabili, alcune di natura
istituzionale, come il salario minimo (ad esempio, può superare quello di “equilibrio” per il
personale a bassa specializzazione), il sussidio di disoccupazione (può rendere
conveniente non accettare certi lavori e indurre alla cd. “trappola della disoccupazione”),
altre di natura socio-economica più generale, come l’aumento della disoccupazione (fa
aumentare la concorrenza tra i lavoratori), l’immigrazione, la stessa crisi economica …
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La domanda di lavoro
Come si è riferito, pur sinteticamente, nella lezione n. 2 del primo semestre, quando si è affrontata
l’organizzazione di un ciclo produttivo, si è visto come il livello della produzione viene spinto sino a che
il prezzo è uguale al costo marginale; non è più conveniente andare oltre, in quanto l’unità di
produzione successiva sarebbe avvenuta con una perdita.
Sempre nelle lezioni del primo semestre, si sono analizzati i fattori della produzione, con l’evidenza di
due tipi di capitale: il capitale fisico (costruzioni, macchinari, ecc.) e, nelle economie moderne, sempre
più importante il capitale umano, cioè le competenze della forza lavoro.
La domanda che ci poniamo è: fino a che punto un imprenditore spinge la domanda di lavoro per la
produzione in una sua impresa?
La scelta che orienta le decisione dell'impresa può essere, anche per questo fattore di produzione, la
produttività marginale del lavoro, che a sua volta è legato al salario reale, ma anche – ovviamente alla combinazione dei fattori produttivi.
Anche in questa caso, come per l’offerta di lavoro, si adottano ipotesi semplificatrici, quali la rigidità,
nel breve periodo, di poter sostituire lavoro e capitale, o di introduzioni di innovazioni tecnologiche, che
possono far aumentare la produttività e, nel contempo, diminuire (o anche aumentare) la domanda di
lavoro.
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La domanda di lavoro si fermerà prima che il costo marginale superi il prezzo marginale (il salario
supera il valore del prodotto marginale), o quando il profitto giunge al livello massimo oltre questo
punto comincerebbe a scendere in quanto ogni unità aggiuntiva produce un deficit.
La domanda di lavoro indica quanti lavoratori le imprese vogliono assumere al salario di mercato e più
è alto il salario meno le imprese desiderano assumere. La domanda di lavoro è quindi una funzione
decrescente del salario.
Come per il lavoratore, anche le imprese perseguono un obiettivo in termini di salario reale (cui si pone
il relazione il profitto reale) e tale percorso avviene attraverso la fissazione dei prezzi.
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E’ da rilevare come la maggior parte dei datori di lavoro non prenda decisioni di eventuali assunzioni di
lavoratori ricorrendo all’applicazione concreta di tale approccio teorico, ma è anche verosimile che se
non venisse applicata, difficilmente l’impresa potrebbe continuare a rimanere in un mercato
concorrenziale. Per sopravvivere e continuare a fare profitti, l’imprenditore si comporta come se
conoscesse tale teoria e le assunzioni (o la permanenza dei lavoratori) in qualche modo rispondono al
legame tra il costo del lavoro e la produttività del lavoro.
Andando ad una qualche sintesi, in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale, privo di
interferenze, il salario sarebbe al margine pari alla produttività e, dal lato del lavoratore, al valore
alternativo del tempo non di lavoro.
Andare oltre il costo del lavoro
E’ stato più volte ricordato, e vale la pena richiamarlo anche in relazione a quanto appena riportato,
che il costo del lavoro appare sempre meno importante per la competitività globale delle imprese
italiane, bensì prioritarie risultano gli investimenti per l’innovazione, le stesse riforme strutturali per
superare il “nanismo” delle aziende al fine di aumentare la competitività internazionale e creare nuove
imprese nei settori a più alto valore aggiunto nel comparto scientifico. Non da ultimo, la competizione
avviene integrando quella tra prodotti ed imprese con i sistemi territoriali, con la capacità di attrarre
investimenti o di proiettare le produzioni locali verso nuovi e più lontani mercati; più che a categorie e
flussi finanziari acquista importanza il “capitale territoriale”, tutto ciò che forma la ricchezza di un
territorio.
Ci si interroga sui fattori che possono condizionare il valore del prodotto marginale di un
lavoratore: l’istruzione, le competenze e le capacità, l’esperienza sul lavoro, la razza, il sesso,
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l’appartenenza sindacale. Esistono anche delle diversità nelle caratteristiche non monetarie delle
mansioni esercitate. Esempio: i lavoratori che fanno i turni di notte sono pagati meglio di quelli che
fanno i turni di giorno, e ciò non per le caratteristiche intrinseche, ma perché possono abbattere dei
costi fissi, facendo produrre anche di notte.
Ma la fonte più importante dei differenziali retributivi è il capitale umano, quale l’accumulazione di
investimenti sulla persona, in forma di istruzione, formazione ed esperienza professionale.
Nella realtà economica gran parte dei rapporti di lavoro non si interrompono dopo pochi mesi, ma
durano anche anni, in quanto le imprese sostengono dei costi per trovare i lavoratori adatti a svolgere
certe mansioni, anche perché per svolgere una attività è necessario possedere competenze
specifiche, per le quali occorre affrontare un processo di apprendimento. Di solito, un lavoratore con
esperienza è più produttivo di un neo-assunto e per le imprese vi sono sicuramente dei costi di
addestramento iniziali per l’avvio di una qualsiasi attività lavorativa.
La carenza di esperienza lavorativa, che rende il capitale umano dei giovani inferiore a quello degli
adulti anche in presenza di crescenti livelli di istruzione viene posto alla base delle giustificazioni del
maggior tasso di disoccupazione rispetto agli adulti. E’ su tali argomenti che, in un approccio liberista
del capitale umano, si legittima l’attuale momento che vede i giovani che “sperimentano” il loro
ingresso nel mercato del lavoro con frequenti passaggi da uno stato all’altro. Tale approccio ha come
implicazioni di politica economica in favore dei giovani disoccupati la ricerca di misure che favoriscono
una maggiore flessibilità, che può permettere di accumulare esperienza e facilitare le transizioni
scuola-lavoro, cui si aggiungono le forme di incentivazioni all’assunzione (salari di ingresso, ecc.). Ma
di questo, e delle critiche a tale approccio, se ne tratterà più avanti.
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Il salario viene sovente utilizzato dagli imprenditori come incentivo per aumentare la produttività dei
lavoratori. Una delle spiegazioni della relazione salari-produttività che hanno trovato maggiore
consenso in letteratura è basata sull'ipotesi che il timore di essere disoccupato sia uno strumento di
incentivo per i lavoratori, ma ciò funziona solo se il mercato del lavoro non è in equilibrio. Infatti, se non
esistesse disoccupazione e tutte le imprese pagassero lo stesso salario, nessun lavoratore sarebbe
incentivato ad impegnarsi all'interno dell'impresa, in quanto la scoperta dei comportamenti sleali sul
lavoro non procurerebbe costi, visto che per ogni lavoratore licenziato troverebbe immediatamente un
posto di lavoro in un'altra impresa.
Dal punto di vista dell’imprenditore, retribuire i lavoratori in misura superiore al salario di riserva ha lo
scopo di incentivare i lavoratori a tenere un comportamento leale, in quanto un eventuale
licenziamento diventerebbe tanto più costoso quanto più l'impresa in cui si è occupati paga meglio
della altre.
Esistono numerose forme contrattuali di incentivazione dei lavoratori. Contratti che prevedono un
sistema di penalizzazioni, oppure dinamiche salariali che premiano l'anzianità di servizio,
compartecipazione ai profitti, polizze sanitarie e assicurative aziendali, ecc.
L'approccio cd. contrattuale all'analisi del lavoro amplia l’approccio tradizionale di funzionamento del
mercato, che analizza le relazioni tra lavoratore e impresa attraverso il prezzo (salario).
Il contratto isola i contraenti dai condizionamenti e dalle modificazioni dell'ambiente esterno, anche se
ne è influenzato (basti pensare a come avviene la contrattazione sindacale).
L’intervento del sindacato riduce il potere degli imprenditori creando un “monopolio” nell'offerta di
lavoro, anche se, oltre ad avere l’obiettivo di far crescere il salario dei propri iscritti, si pone obiettivi di
carattere più generale: accrescere i livelli occupazionali, ridurre disuguaglianze, ridistribuire il reddito,
ecc. Inoltre, attraverso la contrattazione, si pongono altri obiettivi legati alle condizioni di lavoro: orari
di lavoro, turni di lavoro, sicurezza dell’ambiente lavorativo.
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Approfondimenti (allegati)
Come ricordato in più occasioni, la produttività del lavoro dipende dalle innovazioni tecnologiche,
dall’organizzazione della produzione, dalla dimensione e dai settori in cui le imprese operano e il livello
dei salari dipende dalla forza contrattuale dei lavoratori (e dei sindacati) ed è – ovviamente –
influenzato dall’andamento più complessivo della situazione economica e sociale.
Su tali aspetti il dibattito è molto ampio e diversificato, sia negli approcci teorici sia nelle considerazioni
d’ordine operativo e di indicazioni di policy conseguenti.
Per una sintetica rappresentazione del quadro informativo storico dell’andamento di tali variabili si
rimanda a: Tealdi C., Ticchi D., L’Europa disunita di salari e produttività, lavoce.info, 28 marzo 2013.
http://www.lavoce.info/archives/8152/leuropa-disunita-di-salari-e-produttivita/
L’incontro domanda/offerta di lavoro avviene nel mercato del lavoro (luogo figurato), in cui le condizioni
dello scambio tra domanda e offerta sono influenzate dall’equilibrio che esiste tra richieste dei datori di
lavoro e risposte delle persone disponibili a lavorare.
Le modalità con cui opera il mercato del lavoro è influenzato (e sua volta influenza) da:
- le politiche salariali, che determinano i livelli retributivi;
- le norme che regolano ingresso, permanenza e uscita dal lavoro;
- le norme e gli accordi sindacali e contrattuali che regolano il rapporto di lavoro;
- le forme di previdenza e tutela sociale dei lavoratori.
Inoltre, il mercato del lavoro che potremmo definire “esterno” influenza lo stesso comportamento
aziendale relativamente alle politiche salariali, di reclutamento, di stabilità del rapporto di lavoro, e
della stessa intensità di formazione continua.
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Se si osserva la struttura del mercato del lavoro, in termini di occupazione e disoccupazione per
sesso, età, titolo di studio, territorio, livello salariale, appaiono evidenti grande differenze, in quanto vi
sono mercati del lavoro diversi, caratterizzati ciascuno da una specifica domanda e offerta di lavoro. Il
mercato del lavoro risulta così fortemente segmentato e differenziato.
La scomposizione del mercato del lavoro nei suoi elementi costitutivi e peculiari può facilitarne la
comprensione per meglio individuare gli strumenti di possibile intervento. Ed è per questo che si
propone la lettura del Rapporto Annuale 2014 dell’ISTAT, come di seguito indicato, in cui le analisi
vertono sui giovani, donne, over 50 anni, con dettagli che offrono un quadro di possibili e variegate
specificità nell’attraversamento dell’attuale crisi economica.
E’, tuttavia, necessario dotarsi di risposte complessive alla crisi, perché riprendere un cammino di
competitività è un passaggio “sistemico” che va declinato in una visione unitaria del mercato del
lavoro, e - questo sì - con attenzione particolare agli impatti sui soggetti più deboli e maggiormente
colpiti dalla crisi e dal restringimento delle opportunità di lavoro.
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Per un approfondimento sulle più recenti dinamiche del mercato del lavoro si rimanda alla lettura di
ISTAT, RAPPORTO ANNUALE 2014 - Il mercato del lavoro nei cinque anni della crisi. Dinamiche e
divari. Da approfondire, in particolare, i primi 4 sottocapitoli.
http://www.istat.it/it/files/2014/05/cap3.pdf
Capitolo 3 Il mercato del lavoro negli anni della crisi:
dinamiche e divari. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . » 81
QUADRO D’INSIEME. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 83
APPROFONDIMENTI E ANALISI
3.1 I giovani tra difficoltà di ingresso e scarse opportunità. . . . . . . . . . . . . . . . . » 99
3.2 Le persone di 50 anni e più tra prolungamento della vita lavorativa e ricerca
di un nuovo lavoro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 111
3.3 L’adeguatezza delle competenze nel mercato del lavoro. . . . . . . . . . . . . . . . » 117
3.4 Essere donne e madri al tempo della crisi. . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 123
3.5 La crisi peggiora i divari territoriali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130
3.6 Una lettura longitudinale delle dinamiche dell’occupazione. . . . . . . . . . . . . » 135
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Politiche del lavoro attive e passive
Si considerano propriamente politiche del lavoro tutte le politiche che operano direttamente nel
mercato del lavoro e possono rivolgersi alla generalità della popolazione o a particolari categorie,
come i soggetti in difficoltà occupazionale (interventi selettivi), anche se sul mercato del lavoro
hanno interferenza la gran parte delle politiche economiche.
Sono, infatti, numerose le politiche che hanno effetti sul mercato del lavoro, in quanto influenzanti la
domanda e l’offerta di lavoro, e che possono essere così aggregabili:
A. Politiche di sostegno alla domanda aggregata ed alla domanda di lavoro (politiche
macroeconomiche, sussidi all’occupazione, creazione di lavoro nel settore pubblico, riduzione del
costo del lavoro)
B. Politiche di sostegno del reddito durante la non-occupazione (sussidi di disoccupazione, politiche
assistenziali e politiche sociali in genere)
C. Politiche rivolte all’offerta di lavoro (riduzione offerta di lavoro, istruzione/formazione e
riqualificazione dell’offerta di lavoro, sostegno all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro)
D. Politiche di regolazione dei rapporti di lavoro (introduzione di nuovi contratti, con aumento della
flessibilità nella durata e nei tempi dell’orario, oppure modifiche di garanzie e tutele)
E. Politiche contrattuali, con una tendenza a intensificare le relazioni tra la remunerazione del lavoro
e le dinamiche di produttività, attraverso un aumentato del decentramento della contrattazione
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Gran parte di queste politiche sono volte ad attivare e a facilitare l’inserimento lavorativo dei soggetti
che si trovano al margine del mercato (politiche attive) o a sostenere il reddito delle persone in cerca
di lavoro o a facilitare l’uscita dal lavoro (politiche passive). Al riguardo, sono state così classificate
da Eurostat e OECD:
Politiche attive
1. supporto e orientamento personalizzato a favore di chi cerca lavoro da parte dei servizi pubblici
per l’impiego
2. formazione e addestramento
3. schemi di suddivisione del lavoro: job rotation e job sharing (dal 2013 confluita nella 4)
4. incentivi all’occupazione
5. politiche di inserimento lavorativo dei disabili
6. creazione diretta di lavoro nel settore pubblico
7. incentivi alle nuove attività d’impresa
Politiche passive
8. politiche passive di tutela economica dei disoccupati (CIG, CIGS, cassa integrazione in deroga,
indennità di disoccupazione)
9. schemi di pensionamento anticipato
Di seguito, si portano alcuni confronti internazionali in cui si evidenziano le dimensione e le
caratteristiche degli interventi di politiche del lavoro (attive e passive). Come si può rilevare, l’Italia si
trova sostanzialmente allineata con i paesi messi a confronto per quanto riguarda le politiche passive
e in ritardo per quelle attive.
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L’esclusione di un numero elevato di cittadini dal mondo del lavoro rappresenta uno dei principali
problemi di policy dei paesi dell’Unione europea, e ciò per almeno due motivi: il primo riguarda le
modalità di funzionamento del mercato del lavoro e la sua capacità di integrare le fasce più deboli; il
secondo, che sta emergendo con forza in questi tempi, è la sostenibilità finanziaria dei sistemi
assistenziali e previdenziali che rischiano di non essere in più in grado di finanziare politiche di
contenimento di livelli di disoccupazione per una ampia fascia di popolazione.
Caratterizzare il mercato del lavoro come strumento di inclusione, significa anche affrontare
l’esclusione lavorativa attraverso lo sviluppo di politiche che tendono alla diretta
responsabilizzazione del cittadino rispetto al proprio destino personale e professionale. Queste
politiche, denominate welfare to work o workfare, perseguono l’obiettivo di rendere la condizione
lavorativa più competitiva rispetto alla misure passive, come ad esempio la dipendenza dai sussidi.
Contestualmente alla loro applicazione, vengono apportate modifiche restrittive al sistema dei
benefici, in modo da spingere l’inoccupato o il disoccupato a cercare attivamente un impiego. Tali
restrizioni consistono in genere in vere e proprie sanzioni, che possono prevedere anche la
sospensione della provvidenza economica statale per coloro che non accettino il lavoro al termine
del periodo formativo stabilito. Nel workfare, il «principio di responsabilità individuale» assume
dunque una posizione centrale, e l’attivazione del cittadino è operata con riferimento quasi esclusivo
al mercato del lavoro.
A secondo del prevalere, e della composizione, delle politiche attive e passive, sono stati avanzati in
letteratura economica e istituzionale alcuni modelli di riferimento semplificati:
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Modello liberista (caratteristico nei paesi anglosassoni)
-Il ruolo pubblico di intervento nel mercato del lavoro limitato al sostegno contro i rischi individuali
principali (povertà, disoccupazione, esclusione sociale,), anche se la spesa sociale complessiva è
relativamente elevata.
La common law assicura diritti individuali contro licenziamento senza giusta causa.
Le relazioni industriali decentrate e scarso coordinamento nazionale (ma salario minimo).
In questi paesi, date le condizioni macroeconomiche specifiche di questi contesti (bassi salari
minimi, carico fiscale contenuto, ecc.), la difficoltà non è tanto quella di trovare l’occupazione, quanto
di spingere le persone ad accettare impieghi le cui retribuzioni spesso non consentono di uscire dallo
stato di povertà.
Modello social-democratico (Paesi scandinavi)
Il modello scandinavo di protezione sociale garantisce un’ampia copertura dei rischi a cui la
popolazione può essere soggetta e l’accesso alle prestazioni, concepite come un diritto di
cittadinanza, spesso è condizionato solo alla residenza nel paese.
Un ruolo importante è svolto dai trasferimenti assistenziali, finanziati attraverso la fiscalità generale: i
welfare states scandinavi si distinguono per l’utilizzo di forme di sostegno al reddito di tipo universale
e per la presenza di un sistema altamente sviluppato di servizi all’infanzia, ai disabili e agli anziani
bisognosi.
La garanzia di un’ampia rete di sostegno del reddito, nonché la presenza di una vasta gamma di
servizi di cura alle famiglie permettono di mobilitare i soggetti più vulnerabili del mercato del lavoro,
come le donne, i genitori soli con figli piccoli, i lavoratori anziani e gli individui con qualche forma di
invalidità. Conseguentemente, il sistema scandinavo si rivela particolarmente fficace nell’azione di
contrasto della povertà e dell’esclusione sociale, riuscendo a minimizzare ontemporaneamente la
povertà tra gli anziani e i minori (in questo uguagliati, in ambito europeo, olo dal Belgio).
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Ampio ricorso alle politiche attive del lavoro e ai servizi pubblici per garantire elevata occupazione,
mobilità del lavoro e prevenzione disoccupazione.
In questi contesti, l’intervento caratterizzante è l’attivazione di servizi complementari suscettibili di
favorire l’inclusione sociale e la mobilità professionale, essenzialmente per permettano ai beneficiari
di migliorare le competenze e le capacità, incrementare la qualità delle relazioni sociali, aumentare il
grado di appartenenza alla società.
La contrattazione è centralizzata (ma tendenza decentralizzazione) ed elevato livello di
coordinamento.
Il modello corporativo (o continentale)
Il modello corporativo è caratterizzato da un’elevata frammentazione dei programmi di spesa, che
spesso hanno una natura categoriale e sono distinti per lavoratori dipendenti, autonomi e inattivi.
Nei paesi che rientrano in questo gruppo (Germania, Brancia, Belgio, Olanda, Austria), il sistema
sanitario copre tutti gli individui che possiedono un impiego retribuito, oltre ad altre categorie
assimilate (tra cui i pensionati, i disoccupati, i disabili). Tutti i lavoratori dipendenti sono assicurati
contro il rischio di disoccupazione e sono previsti degli istituti di ultima istanza, diretti ad assicurare
un reddito minimo contro il rischio della povertà estrema.
Modello mediterraneo - familista (Europa meridionale -italiano)
I sistemi di welfare state nei paesi mediterranei sono caratterizzati da una generalizzata
frammentazione e dalla posizione di relativo privilegio accordato ai lavoratori dipendenti. Tra i
caratteri che accomunano i sistemi all’interno di questo raggruppamento, particolarmente rilevante è
l’assenza di un’articolata rete di protezione minima di base, non categoriale, erogata e gestita a
livello di governo centrale, che possa fungere da strumento di sostegno di ultima istanza.
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La protezione sociale ed occupazionale frammentata che privilegia sostanzialmente il capofamiglia;
la famiglia al centro del sostegno economico, influenza il salari di riserva e la disponibilità alla
mobilità territoriale
Spesa sociale e per politiche del lavoro non particolarmente elevata. Scarsamente tutelato è anche il
rischio di disoccupazione.
Tutti i paesi hanno istituito dei sistemi sanitari nazionali universali, in cui spesso la fornitura dei
servizi è realizzata attraverso una combinazione di offerta pubblica e privata.
I sistemi previdenziali presentavano alcune caratteristiche comuni, prima della recente crisi, che ha
invece accelerato il passaggio al regime cd “contributivo” in luogo del “retributivo”; l’ammontare dei
trasferimenti è basato sul salario percepito e dipende dal numero di anni di contribuzione,
obbligatoria.
La contrattazione salariale è nazionale e di settore. Livello di coordinamento medio-elevato
In Italia, pur appartenente a quello che chiamano anche il modello “europeo mediterraneo”, la
situazione è molto diversa.
Intanto, la spesa per la protezione sociale1 nel 2013 in Italia supera il 30 per cento del Pil e il suo
ammontare per abitante sfiora gli 8.000 euro l’anno e si colloca all’undicesimo posto tra i 27 paesi
europei e, comunque, al di sopra della media Ue27 (7.300 euro). Se rapportata al Pil, la spesa
dedicata alla protezione sociale pone l’Italia in una posizione più elevata, al settimo posto, di poco
superiore alla media Ue27 (29,5 per cento), in un contesto europeo che mostra valori di spesa
1
Si definisce la spesa per la protezione sociale come i costi a carico di organismi pubblici o privati per l’insieme degli interventi intesi a
sollevare le famiglie dall’insorgere di rischi o bisogni, purché ciò avvenga in assenza, da parte dei beneficiari, sia di una contropartita
equivalente e simultanea, sia di polizze assicurative. Le funzioni o rischi sono: malattia/salute; invalidità; vecchiaia; superstiti; famiglia,
maternità e infanzia; disoccupazione; abitazione; altre tipologie di esclusione sociale (formazione per il reinserimento nel mercato del
lavoro, abitazioni, misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale).
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piuttosto variabili: da un minimo pari al 15 per cento rilevato per la Lettonia, a un massimo del 34 per
cento relativo alla Danimarca.
Spesa per la protezione sociale nei paesi Ue. Anno 2012 (euro per abitante)
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Nel nostro paese, per poter attivare programmi seri di welfare to work sarebbe necessario disporre di
un sistema equilibrato di protezione sociale, che si avvicini agli standard europei, e avere a
disposizione un servizio per l’impiego più efficace ed efficiente di quello attuale. Invece, come è stato
riportato più dettagliatamente poco prima, vi è uno squilibrio tra erogazioni monetarie e servizi in
natura, amplificato dal fatto che le politiche attive per il lavoro appaiono ancora marginali (0,3% del
PIL), mentre molto più elevate (1,4% del PIL) sono le politiche passive.
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Nel 2010-11, la spesa per prestazioni di protezione sociale (che rappresenta il 95,5 per cento della
spesa complessiva) è dedicata per oltre la metà alla funzione “vecchiaia” (51,3 per cento), mentre la
parte rimanente si distribuisce tra “malattia/sanità” (25,8), “superstiti” (9,2), “invalidità” (5,9),
“famiglia” (4,4) e “disoccupazione e altra esclusione sociale” (3,4).
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Decentramento delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale: linee evolutive e impatti
dell’attuale crisi economica e occupazionale
Il processo di decentramento ha sinora avuto prevalentemente un carattere amministrativo, cioè una
riorganizzazione volta a favorire l’articolazione territoriale delle strutture amministrative, a partire da
quelle statali. E’ dunque un aspetto specifico con cui in Italia si indica un fenomeno articolato e
complesso di attuazione del principio costituzionale di autonomia, che si è tradotto nel pluralismo
istituzionale fondato sugli enti territoriali e, propriamente, su Comuni, Province e Regioni.
Negli anni Novanta, il tema del decentramento si è andato concretizzando con riferimento a processi
di riforma della Pubblica Amministrazione2, mediante i quali lo Stato ha provveduto a conferire
ulteriori funzioni e compiti amministrativi alle Regioni e agli Enti locali3. Si è trattato di un processo (di
cosiddetto “federalismo amministrativo”, a Costituzione invariata) che ha trovato un ancoraggio forte
nell’evoluzione della politica comunitaria, traendo impulso più in particolare dal progressivo
affermarsi del principio di sussidiarietà previsto nel Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del
1992. La direttrice di marcia, in base a tale principio, inteso in senso verticale ed orizzontale, mirava
ad avvicinare l’amministrazione ai cittadini, alle imprese e ai sistemi produttivi territoriali, mediante
l’apertura ad esperienze di autogoverno dei sistemi territoriali, delle istituzioni formative (si pensi
2
Ci si riferisce alla riforma delle autonomie locali, realizzata con la l. n. 142/90 su Comuni e Province, per culminare nella legge n.
59/97 (cosiddetta legge Bassanini) e nei relativi decreti legislativi attuativi (vedi, in particolare, il decreto legislativo n. 469/97 e il
decreto legislativo n. 112/98)
3
Tale conferimento è peraltro avvenuto con differenti modalità a seconda che interessasse materie previste nell’art. 117 (nella
formulazione precedente alla riforma costituzionale) oppure materie non menzionate dal dettato costituzionale. Nel primo caso, infatti,
lo Stato ha conferito funzioni e compiti agli Enti territoriali con la previsione che le Regioni, a loro volta, provvedessero a distribuirli a
favore di Comuni e Province; mentre, nel secondo caso, funzioni e compiti sono stati distribuiti direttamente dallo Stato medesimo a
Regioni ed Enti locali, mediante deleghe, attribuzioni o trasferimenti.
25
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all’introduzione dell’autonomia scolastica), delle categorie produttive; la semplificazione dei
procedimenti; l’autocertificazione e il riconoscimento della possibilità per le pubbliche
amministrazioni di utilizzare strumenti di diritto privato. Si è quindi tentato di introdurre un nuovo
modello di rapporto tra Amministrazioni pubbliche e cittadini che fosse il più possibile paritario, non
autoritario e non meramente gerarchico.
Con la successiva riforma del Titolo V della Costituzione del 20014, che ha costituito una tappa
importante, sebbene non conclusiva, di un processo di trasformazione dell’ordinamento
repubblicano, si sono determinati ulteriori riflessi sulle materie inerenti alle politiche formative 5, del
lavoro e dello sviluppo locale che completano il quadro del percorso di decentramento.
4
Va ricordato, come parte di questo processo di decentramento, il nuovo modello di articolazione dei poteri e di governance che è stato delineato
dalla Legge costituzionale 3/2001 che, riformando il Titolo V della Costituzione, dedicato alle Regioni, e agli Enti locali, è intervenuta operando
una distribuzione di competenze legislative tra Stato e Regioni ed una nuova attribuzione delle funzioni amministrative e della potestà
regolamentare tra tutti i soggetti costitutivi della Repubblica (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato: art. 114 Cost.). Con la
riforma, il principio di sussidiarietà, nella sua duplice dimensione – orizzontale e verticale- viene testualmente menzionato nel testo dell’art. 118
della Costituzione, che ridefinendo l’architettura del sistema amministrativo, promuove l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo
svolgimento di attività di interesse generale, nella consapevolezza del ruolo decisivo delle realtà territoriali nel determinare le condizioni ambientali
favorevoli alla crescita e alla competitività del sistema economico e sociale.
5
In sintesi, nel settore dell’istruzione, a fronte di una competenza concorrente regionale, che comunque fa salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche, è stata mantenuta una potestà legislativa statale per tre ordini di interventi: norme generali, livelli essenziali delle prestazioni, principi
fondamentali in materia. L’istruzione e la formazione professionale, al contrario, sono state rimesse (ex art. 117, terzo comma) alla competenza
piena delle Regioni, salva la determinazione statale – oltre che di eventuali norme generali in materia (ad es. per il riconoscimento nazionale dei
titoli) - dei livelli essenziali delle prestazioni, accentuando così i caratteri della regionalizzazione di un sistema che, già nel passato, aveva
conosciuto un forte radicamento territoriale, anche se a carattere prevalentemente extrascolastico.
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La riforma del Titolo V della Costituzione e gli impatti sulle nuove politiche del lavoro
Il disegno istituzionale del mercato del lavoro è oggi sottoposto ad una profonda revisione con la
riforma costituzionale del Governo Renzi, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 15 aprile 2016,
approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei
componenti.
Il provvedimento di riforma dispone, in particolare, il superamento dell'attuale sistema di
bicameralismo paritario, riformando il Senato che diviene organo di rappresentanza delle istituzioni
territoriali; contestualmente, sono oggetto di revisione la disciplina del procedimento legislativo e le
previsioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle competenze dello Stato e delle
Regioni. Viene altresì disposta la soppressione del CNEL6.
La riforma della seconda parte della Costituzione, tra le altre novità, modifica radicalmente l’attuale
modello di governance delle politiche del lavoro: abolizione delle competenze concorrenti e
attribuzione Stato delle competenze esclusive non solo sulla tutela e sicurezza del lavoro ma anche
sulle politiche attive e passive del lavoro, ad esclusione della formazione professionale che resta
competenza esclusiva delle Regioni.
Le innovazioni introdotte trovano coerenza in merito a tre principi introdotti dal Jobs Act:
6
In base all'art. 138 della Costituzione le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono sottoposte a referendum popolare
quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque
Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a
referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
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a) la costituzione dell’ l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (Anpal) partecipata da
Stato, Regioni e Province Autonome,
b) l’attribuzione a quest’ultima di competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche
attive e ASpI;
c) il diritto dovere dei lavoratori beneficiari di sostegni al reddito per disoccupazione o per
integrazione salariale (i cosiddetti lavoratori sospesi) di partecipare a misure di politiche attive.
Il ruolo dei SERVIZI per l’IMPIEGO per lo sviluppo locale e le politiche del lavoro;
Il decentramento delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale non può essere considerato come
un settore di intervento, ma rappresenta invece un obiettivo strategico la cui realizzazione deve
essere correlata alla definizione ed attuazione di una serie di politiche distinte tra loro, ma
trasversalmente connesse in funzione del risultato. Politiche economiche, infrastrutturali, ambientali,
di ricerca e sviluppo tecnologico, sociali, occupazionali, formative, ecc., promosse sulla base delle
specificità ed esigenze dei territori, opportunamente coordinate e integrate, volte, non solo al
miglioramento dei singoli settori di riferimento, ma a ridurre i divari e gli squilibri fra le diverse zone
del Paese. In particolare, il decentramento, assunto come obiettivo strategico delle politiche
comunitarie, statali, regionali e locali, costituisce un processo generale, connesso al riorientamento
delle politiche legate alle specificità del territorio, la cui governance poggia su un insieme di regole e
strumenti che affidano ai diversi soggetti istituzionali potestà, funzioni e compiti.
Volendo focalizzare l’attenzione sulle politiche del lavoro, occorre ribadire come anche queste siano
state fortemente influenzate, nel loro progressivo riorientamento, oltre che dal processo di riforma
dell’ordinamento e, quindi, dall’assetto normativo, istituzionale ed amministrativo del Paese, anche
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dall’evoluzione delle politiche comunitarie e più specificamente dal percorso di elaborazione della
Strategia Europea per l’Occupazione (SEO).
A livello nazionale, come ricordato in precedenza, l’atto normativo di riferimento per il decentramento
delle politiche del lavoro è stato rappresentato dal d.lgs. n. 469/97, con il quale si è stabilito che
fossero conferite alle Regioni le funzioni e i compiti in materia di collocamento, di servizi per
l’impiego e di politiche attive del lavoro, con relativa attribuzione alle Province di funzioni e compiti, ai
fini dell’integrazione tra i servizi per l’impiego, segnando al tempo stesso il passaggio dalle politiche
cosiddette passive a quelle attive del lavoro.
Tramite le strutture denominate Centri per l’Impiego (CPI), le Province avevano quindi iniziato ad
esercitare le funzioni e i compiti ad esse assegnati in materia di collocamento, di preselezione ed
incontro tra domanda e offerta di lavoro, unitamente a quelli ad esse delegati dalle Regioni in
materia di politiche attive del lavoro, favorendone l’integrazione con le politiche più propriamente
dedicate alla formazione professionale.
I servizi per l’impiego (Spi) possono svolgere una funzione di grande importanza nel favorire i
processi di flessicurezza, al centro del dibattito politico e scientifico, nell’approfondimento delle sue
quattro “componenti”: contratti di lavoro flessibili e affidabili; apprendimento lungo tutto l’arco della
vita; efficaci politiche attive del lavoro; moderni sistemi di sicurezza sociale.
La Commissione europea ha da tempo avviato una riflessione ed una serie di iniziative atte ad
implementare la flexicurity nei diversi contesti europei. A tal scopo, tra gli altri approfondimenti, ha
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commissionato un rapporto di ricerca The role of the Public Employment Services related to
‘Flexicurity’ in the European Labour Markets.7
La principale conclusione del Rapporto è che il complesso delle riforme cui, nell’ultimo decennio,
sono stati sottoposti i servizi all’impiego in tutto il continente colloca gli stessi in una “posizione
storica unica”, al momento di adottare l’approccio di flexicurity. La dimensione della sicurezza, infatti,
impone l’agevolazione delle transizioni sul mercato del lavoro. L’obiettivo è garantire più che il diritto
a conservare un’occupazione, quello del lavoro e, quindi, una maggiore sicurezza nelle transizioni.
In questa ottica sono cruciali i servizi preventivi affidati agli Spi, quali quelli di rapida identificazione
dei bisogni formativi, matching, assistenza ed orientamento al lavoro. Tuttavia, la prevenzione pone
una prima sfida: è necessario bilanciare la stessa con la selettività, per evitare sprechi; a tal fine, una
maggiore selezione dell’utenza, potrebbe essere un utile strumento. Spesso, proprio gli inattivi non
costituiscono un target degli Spi e pertanto maggiori sforzi dovrebbero essere fatti per il loro
coinvolgimento.
La flessicurezza richiede poi un mercato più aperto ed inclusivo, che superi la segmentazione tra
soggetti più protetti (insiders) e meno tutelati (outsiders). Assumono rilievo misure effettive per
mantenere e migliorare l’occupabilità, anche quando si tratti di programmi formativi ed educativi
gestiti da altre istituzioni (tra gli altri, le parti sociali in particolare impegnate nella formazione
continua), rispetto alle quali gli Spi svolgono, comunque, un ruolo di promotori, partner strategici e/o
7
Lo studio, condotto utilizzando una pluralità di metodologie di ricerca, propone, tra l’altro, 5 casi studio nazionali (Austria, Danimarca,
Francia, Olanda, e Slovenia) e 22 buone pratiche, tra cui 3 italiane. Tra queste i servizi della Provincia di Parma per le crisi industriali,
erogati in stretta cooperazione con le Agenzie per il lavoro ed enti di formazione; l’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di
lavoro svolta dalle Università e, infine, il Progetto Labour Lab della Regione Lombardia, relativo alla erogazione di politiche attive per
specifici target di lavoratori svantaggiati, tramite la rete pubblico-privata regionale.
30
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coordinatori. Garantire un’efficace informazione sui reali fabbisogni formativi delle imprese rimane
tuttora una sfida per gli Spi. Si pone con forza la necessità di assicurare la presenza di un personale
maggiormente qualificato.
Assumono rilievo anche tutte le reti cooperative sviluppate dagli Spi. In primo luogo, proprio i servizi
specialistici rivolti ai soggetti più svantaggiati sono spesso esternalizzati presso altri operatori,
anche privati, in regime quindi non di concorrenza, ma di parternship.
Vanno poi considerate le relazioni con le istituzioni impegnate a rimuovere gli ostacoli sociali e fisici
al lavoro. L’inserimento dei disoccupati, è attivato in maniera differente da Stato a Stato. In alcuni
Paesi europei, è sviluppato mediante la fusione degli Spi con gli enti previdenziali ed assistenziali,
attraverso la creazione di sportelli unici (one-stop-shop); in altri mediante leggi intese a condizionare
più fortemente l’accesso ai sussidi alla partecipazione alle politiche attive erogate dagli Spi.
In conclusione, la Commissione ha stilato delle raccomandazioni per i servizi pubblici per l’impiego:
acquisire un ruolo maggiormente proattivo, visto l’ottimale posizione di osservazione di cui
beneficiano; fornire tempestive ed avanzate informazioni sul mercato del lavoro; lavorare insieme
agli enti previdenziali ed assistenziali per favorire il veloce ritorno al lavoro dei beneficiari di sussidi.
Così si realizza l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le politiche attive, utilizzando comunque
tecniche di selezione dell’utenza per favorire i soggetti più bisognosi8.
8
Sintesi di una recensione sulla ricerca, tratto da Bollettino Adapt, Modena,14 luglio 2009
31
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L’attenzione sul ruolo svolto dai Centri per l’Impiego, ed ancor più per i compiti che dovranno
ricoprire per larga parte delle politiche attive in un momento così di così elevata disoccupazione in
Europa (per tutte, l’iniziativa della cd. “Garanzia Giovani”9) è continuato ad essere continuo da parte
degli studiosi e delle istituzioni nazionali e comunitarie.
Una pubblicazione dell’ISFOL presenta un aggiornamento sul ruolo dei Servizi pubblici per l’Impiego
in Europa: ISFOL, Lo stato dei Servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e
sorprese, Occasional Paper n. 13, marzo 2014.
http://sbnlo2.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?WEB=ISFL&IDS=19755
di cui si raccomanda di leggere le 4 pagine di Riflessioni conclusive. Di queste, alcune risultanze sul
basso utilizzo in Italia dei servizi offerti per la ricerca del lavoro hanno rinvigorito il dibattito sulla
scarsa rilevanza dell’intermediazione pubblica per la ricerca del lavoro, che hanno orientato alcuni
9
La Garanzia per i giovani deve:
a) Garantire a tutti i giovani di età inferiore ai 25 anni entro quattro mesi dal termine degli studi o dall’inizio della fase di
disoccupazione/inattività un’offerta:
- di lavoro (anche avvalendosi del sistema EURES per le opportunità di occupazione all’estero)
- di tirocinio in azienda
- di apprendistato
- di proseguimento degli studi e/o di formazione professionale
- di un percorso di avviamento all’attività d’impresa con il riconoscimento e la certificazione delle competenze acquisite;
b) essere sostenuta/attuata da partenariati istituiti tra servizi pubblici e privati per l’impiego, parti sociali e datoriali, rappresentanti delle
organizzazioni di giovani, al fine di aumentare le opportunità di occupazione, apprendistato e tirocinio soprattutto per i giovani
NEET. Deve essere previsto il rafforzamento della capacità istituzionale necessaria per progettare, realizzare e gestire gli strumenti
di Garanzia per i giovani;
c) prevedere misure di sostegno per favorire l'inserimento lavorativo dei giovani, soprattutto i più vulnerabili, migliorandone le
competenze, incoraggiando gli imprenditori ad offrire loro dei lavori e promuovendo la mobilità lavorativa;
d) prevedere la valutazione e il monitoraggio costante delle misure dal punto di vista anche dell’efficienza della spesa;
e) prevedere tempi veloci di erogazione dei servizi (scelta della governance più efficace).
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contenuti della L. n. 183/201410 ( Jobs Act) che prevede, all’art. 1, c. 3, il riordino della normativa in
materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, al c. 4, l’istituzione di un’Agenzia nazionale per
l’occupazione (ANPAL) alla quale sono attribuite competenze gestionali in materia di servizi per
l’impiego, politiche attive e ASpI nonché il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione
delle politiche e dei servizi e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, con i
successivi collegamenti nella stessa riforma del Titolo V.
Infine, il D.L. n. 78/2015, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 125/2015 all’art. 15, “Servizi per
l’Impiego”, novellato prevede che allo scopo di garantire livelli essenziali di prestazioni in materia di
servizi e politiche attive del lavoro, il Ministero del Lavoro, le Regioni e le Province autonome,
definiscono, con accordo in Conferenza unificata, un piano di rafforzamento dei servizi per l’impiego
ai fini dell’erogazione delle politiche attive, mediante l’utilizzo coordinato di fondi nazionali e regionali,
nonché dei programmi operativi cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo e di quelli cofinanziati con
fondi nazionali negli ambiti di intervento del Fondo Sociale Europeo, nel rispetto dei regolamenti
dell’Unione europea in materia di fondi strutturali.
Vengono costituiti i Centri per l’Impiego, quali uffici decentrati territoriali all’interno delle nuove
“Strutture regionali per le politiche attive del lavoro”, composte oltre dai CPI anche dai soggetti
accreditati ai servizi per il lavoro.Le “Strutture regionali” fanno parte della più generale “Rete dei
servizi per le politiche del lavoro”, di respiro nazionale, con l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive
del Lavoro (Anpal) quale soggetto deputato al coordinamento.
Legge 10 dicembre 2014, n. 183, recante “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il
lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e
conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro”
10
33
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Allo scopo di garantire i medesimi livelli essenziali attraverso meccanismi coordinati di gestione
amministrativa, il Ministero del Lavoro stipula, con ogni Regione e con le Province autonome di
Trento e Bolzano, una convenzione finalizzata a regolare i relativi rapporti ed obblighi in relazione
alla gestione dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro nel territorio della Regione o
Provincia autonoma.
Ricordiamo, inoltre, come le dinamiche che hanno caratterizzato il processo di decentramento, in
contesti territoriali anche molto differenti tra loro, siano state fortemente correlate anche con la
gestione/attuazione dei Fondi Strutturali e, in particolare, dei Programmi Operativi Regionali (POR).
In particolare, si è potuto rilevare come, la programmazione regionale cofinanziata dal Fondo Sociale
Europeo (FSE), abbia influito in modo sostanziale sui sistemi di governo regionali delle politiche
formative e del lavoro, per cui, la gestione delle politiche comunitarie è andata assumendo sempre
più il ruolo di terreno di confronto in tema di strategie di governo, anche in riferimento ai tempi e alle
modalità d’introduzione e di applicazione di norme nazionali e, di conseguenza, regionali.
In questo contesto, le iniziative comunitarie sono concepite come complementari alle corrispondenti
azioni nazionali o come contributi alle stesse e si fondano su una stretta concertazione tra la
Commissione, lo Stato membro, le autorità regionali e locali, le parti economiche e sociali e gli altri
organismi, sulla base delle loro specifiche competenze e nel perseguimento di finalità comuni.
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La politica del lavoro tra Stato e Regioni: i più recenti interventi per far fronte all’attuale crisi
economica e occupazionale
La gravità della recente crisi economica ed occupazionale è stata fronteggiata dal Governo italiano
adottando misure di politica del lavoro che si caratterizzano per l’intreccio tra politiche del lavoro
attive e passive e per la cooperazione tra Stato e Regioni.
Molti sono stati i provvedimenti presentati (di cui alcuni ancora in via di perfezionamento ed
approvazione in questi ultimi mesi) a partire dal precedente Governo Letta e dall’attuale Governo
Renzi (che ne riprende, modificandone, parti rilevanti), che stanno collocando “tasselli” di un quadro
riformatore di qualche organicità, pur suscitando forti dibattiti e anche prese di posizione contrarie –
com’è lecito attendersi – quando si interviene su una serie così ampia di istituti normativi, che
interessano platee molto vaste di popolazione (sia già inserite nel lavoro, sia alla ricerca di una
occupazione).
Mentre sono continuate le reiterazioni dei finanziamenti per il contributo dello Stato della parte
maggioritaria del sostegno al reddito (cioè per la concessione della cassa integrazione, di cui quella
“in deroga” non ha altre possibilità di copertura finanziaria) e dei relativi contributi previdenziali
figurativi, molti sono gli interventi che hanno presentato novità; ne ricordiamo di seguito le sintesi.
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Decreto Legge n.76 28 giugno 2013:
Sintesi delle norme riguardanti i temi dell’occupazione, della previdenza e dell’inclusione sociale
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Il Decreto ministeriale 14 novembre 2014 che istituisce il Fondo per le politiche attive del lavoro,
ai sensi dell’art. 1, comma 125, legge n. 147/2013.
Il Fondo ha il compito di favorire il reinserimento lavorativo dei fruitori di ammortizzatori sociali anche
in deroga e dei lavoratori in stato di disoccupazione attraverso il potenziamento delle politiche attive
del lavoro.
Il Decreto individua 7 tipologie di iniziative finanziabili, anche sostenute da specifici programmi
formativi:
- sperimentazione del contratto di ricollocazione;
- realizzazione di percorsi di orientamento formativo;
- percorsi formativi professionalizzanti per l’aggiornamento e il potenziamento delle competenzechiave;
- percorsi formativi per la ricerca attiva di lavoro e per l’autoimprenditorialità;
- tirocini di inserimento o di reinserimento lavorativo;
- interventi di aiuto alle attività professionali autonome, alla creazione d’impresa ed al rilevamento
di imprese da parte di lavoratori ed alle attività di cooperazione;
- incentivi all’assunzione e per la mobilità territoriale dei lavoratori.
Per l’accesso al Fondo delle politiche attive, le Regioni dovranno presentare una domanda di
contributo al Ministero del Lavoro. Inoltre, il decreto prevede 5 criteri che saranno utilizzati per
determinare la graduatoria in caso di fondi insufficienti:
- la rilevanza strategica del settore coinvolto in relazione alle possibili conseguenze sull’indotto e
sull’economia nazionale;
- il numero di lavoratori coinvolti;
- la dimensione geografica della crisi;
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- la coerenza delle azioni proposte con le esigenze e le prospettive di reimpiego;
- l’eventuale cofinanziamento regionale.
Infine, il Governo Renzi (insediatosi a febbraio 2014) ha presentato il programma di interventi in
materia di lavoro, fisco e previdenza, denominato Jobs Act.
Con i numeri decreti legge sono stati approvati gli interventi in materia di lavoro riguardanti il
contratto a termine ed il contratto di apprendistato, sono state poi concesse delle deleghe per
intervenire sull’indennità di disoccupazione Aspi, sull’indennità di maternità e sugli ammortizzatori
sociali, come la cassa integrazione.
Oltre a questi provvedimenti che saranno riportati poco avanti, sono stati approvati gli interventi in
materia fiscale, di cui il più noto riguarda la restituzione di 1.000 euro in busta paga ai lavoratori
dipendenti sotto i 25.000 euro di reddito attraverso le detrazioni fiscali a partire dal maggio 2014, cui
si aggiunge, per i lavoratori con contratto a progetto, la continuità delle prestazioni erogate dall’Inps
in caso di mancato versamento dei contributi da parte dei datori di lavoro.
Ecco cosa prevede il decreto n. 34 del 20 marzo 2014, convertito in legge n. 78 del 16 maggio
2014.

Contratti a tempo determinato. Viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a termine “senza
causale”, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione. La forza lavoro assunta
con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20 per cento del totale degli assunti. Per le aziende che
non rispettino il tetto del 20 per cento scatta una sanzione di tipo amministrativo, con una multa pari al 20 per
cento dello stipendio che sale al 50 per cento per i contratti successivi al ventunesimo contratto a tempo
39
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








determinato; sono esonerati dal tetto del 20 per cento i ricercatori e il personale tecnico degli istituti pubblici o
privati di ricerca scientifica.
I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di otto volte in tre anni, sempre che
ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.
Salta l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro.
Per tenere conto delle realtà imprenditoriali più piccole, è previsto che le imprese che occupano fino a 5
dipendenti possono comunque stipulare un contratto a termine.
Le modifiche al contratto a termine sono state estese anche al contratto di somministrazione di lavoro a
tempo determinato. Anche per quest’ultimo era necessaria l’apposizione del termine accompagnata
dall’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Dopo il Decreto
anche nella somministrazione a termine, non sono più necessarie le ragioni giustificative.
I contratti di apprendistato avranno meno vincoli. Per esempio per assumere nuovi apprendisti non sarà
obbligatorio confermare i precedenti apprendisti alla fine del percorso formativo. L’obbligo di stabilizzazione
riguarda solo le aziende con almeno 50 dipendenti e la quota minima di apprendisti da stabilizzare è il 20 per
cento.
L’apprendistato può essere utilizzato a tempo determinato per le attività stagionali. La norma dovrà essere
però essere recepita dalle regioni.
La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35 per cento della retribuzione del livello contrattuale di
inquadramento.
Il congedo di maternità potrà concorrere a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il
diritto di precedenza per le assunzioni. Alle lavoratrici è inoltre riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle
assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi.
È prevista inoltre l’abolizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva), il documento sugli
obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile. Sarà sostituito da un
modulo da compilare su internet.
Il 12 marzo 2014 il Consiglio dei Ministri ha approvato anche un disegno di legge delega al
Governo che affronta gli altri temi contenuti nel Jobs act: dagli ammortizzatori sociali ai servizi per il
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lavoro, dall’introduzione di un sussidio di disoccupazione al salario minimo, dalla riduzione delle
forme contrattuali alla tutela per le donne in maternità. Il disegno di legge è stato convertito dal
Parlamento nella legge delega n.78 del 16 maggio 2014, cui fanno seguito l’emanazione di decreti
attuativi; ma ad oggi, non tutte le disposizioni contenute nella legge delega sono state disciplinate
con i decreti attutivi. Come detto, si tratta di una legge delega articolata, per l’attuazione della quale
sono stati oggi emanati 8 Decreti Legislativi; ciascun decreto necessita di ulteriori atti e
provvedimenti per la completa realizzazione di quanto viene previsto.
In sintesi, i punti più caratterizzanti la riforma, già contenuti nei decreti attuativi.
CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Si applica ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore del decreto (dal primo
marzo 2015 scatta il nuovo contratto senza articolo 18) e stabilisce una nuova disciplina dei licenziamenti
individuali e collettivi. Per i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto restano valide le norme
precedenti.
Per il 2015 su queste assunzioni scatta uno sconto sul costo del lavoro fino a 8.060 euro all’anno per tre anni.
Nuova disciplina dei licenziamenti:
- Per i licenziamenti discriminatori (ovvero quelli per ragioni di credo politico o fede religiosa; dall’appartenenza ad
un sindacato a dalla partecipazione a scioperi ed altre attività sindacali; dal sesso, dall’età, dall’appartenenza
etnica o dall’orientamento sessuale) resta la reintegrazione nel posto di lavoro.
- Per i licenziamenti disciplinari la reintegrazione resta solo se è accertata “l’insussistenza del fatto materiale
contestato”.
- Negli altri casi per i cosiddetti licenziamenti ingiustificati a differenza del passato non ci sarà reintegro nel posto di
lavoro ma solo un risarcimento commisurato all’anzianità di servizio (due mensilità per ogni anno di anzianità di
servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mesi).
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- Per evitare di andare in giudizio si potrà fare ricorso alla nuova conciliazione facoltativa incentivata. L’Azienda
offre una somma esentasse pari a un mese di stipendio per ogni anno di lavoro, fino ad un massimo di 18 stipendi.
Con l’accettazione il lavoratore rinuncia alla causa.
AMMORTIZZATORI SOCIALI
In questo caso la riforma si applica a tutti i lavoratori, vecchi e nuovi: dal prossimo primo maggio 2015 i disoccupati
avranno diritto alla Naspi, che sostituisce Aspi e mini Aspi.
La Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego) vale per chi rimarrà disoccupato e per tutti i lavoratori
dipendenti che abbiano perso l’impiego e che hanno cumulato almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4
anni di lavoro e almeno 18 giornate effettive di lavoro negli ultimi 12 mesi. La base retributiva della Naspi sono gli
ultimi 4 anni di impiego (anche non continuativo).
La durata della prestazione è pari a un numero di settimane corrispondente alla metà delle settimane contributive
degli ultimi 4 anni di lavoro. L’ammontare dell’indennità è commisurato alla retribuzione e non può superare i 1.300
euro. Dopo i primi 4 mesi di pagamento, la Naspi viene ridotta del 3 per cento al mese e la durata prevista è di un
numero di settimane pari alla metà di quelle contributive degli ultimi 4 anni di lavoro.
L’erogazione della Naspi è condizionata alla partecipazione del disoccupato a iniziative di attivazione lavorativa o
di riqualificazione professionale.
Inoltre, in via sperimentale, viene introdotto l’Asdi: un assegno di disoccupazione che verrà riconosciuto a chi,
scaduta la Naspi, non ha trovato impiego e si trovi in condizioni di particolare necessità. La durata dell’assegno,
che sarà pari al 75 per cento dell’indennità Naspi, è di 6 mesi e verrà erogato fino ad esaurimento dei 300 milioni
del fondo specificamente costituito.
Per i co.co.co (iscritti alla Gestione separata INPS) che perdono il lavoro c’è la l’indennità di disoccupazione DisCol (Disoccupazione per i collaboratori).
DEMANSIONAMENTO
In presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, l’impresa potrà modificare le mansioni di un
lavoratore fino ad un livello, senza modificare il suo trattamento economico.
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Viene altresì prevista la possibilità di accordi individuali, “in sede protetta”, tra datore di lavoro e lavoratore che
possano prevedere la modifica del livello di inquadramento e della retribuzione al fine della conservazione
dell’occupazione, dell’acquisizione di una diversa professionalità o del miglioramento delle condizioni di vita.
PART-TIME IN CASI DI GRAVI MALATTIE
In assenza di previsioni del contratto collettivo, il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di
lavoro supplementare e le parti possono pattuire clausole elastiche (le clausole che consentono lo spostamento
della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (le clausole che consentono la variazione in aumento dell’orario di
lavoro nel part- time verticale o misto).
SEMPLIFICAZIONE DELLE TIPOLOGIE CONTRATTUALI
Contratti di collaborazione a progetto (Co. Co. Pro.). A partire dall’entrata in vigore del decreto non potranno essere
attivati nuovi contratti di collaborazione a progetto e quelli già in essere potranno proseguire fino alla loro
scadenza.Comunque, a partire dal 1° gennaio 2016 ai rapporti di collaborazione personali con contenuto ripetitivo
ed etero-organizzati dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato, quindi verranno
trasformati in contratti a tutele crescenti.
Vengono superati i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro ed il job sharing.
Contratti confermati: contratto a tempo determinato cui non sono apportate modifiche sostanziali, contratto di
somministrazione, contratto a chiamata, lavoro accessorio (voucher), apprendistato.
CONCILIAZIONE TEMPI VITA/LAVORO
Si interviene, innanzitutto, sul congedo obbligatorio di maternità, per rendere più flessibile la possibilità di
usufruirne in casi particolari come quelli di parto prematuro o ricovero del neonato. La norma prevede
un’estensione massima del congedo parentale dagli attuali 8 anni di vita del bambino a 12.
I congedi di paternità sono previsti per tutte le categorie di lavoratori e sono estese le tutele per la genitorialità in
caso di adozioni e affidamenti.
Il decreto contiene infine nuove disposizioni in materia di telelavoro e di donne vittime di violenza di genere.
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Alcune informazioni sui più recenti andamenti delle assunzioni dopo la legge di Stabilità e
l’avvio del Jobs Act
Dai dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps si legge che nel 2015 si sono registrate oltre 2,4
milioni di assunzioni a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni di rapporti a termine e
apprendisti) a fronte di 1.684.911 cessazioni (+764.000 posti stabili nell’anno); nel 2014 il saldo dei
posti stabili era stato invece negativo per 52.137 unità.
Se si osserva i totale dei nuovi rapporti di lavoro nel 2015 si sono registrate 5.408.804 nuove
assunzioni (+11,1% sul 2014) a fronte di 4.802.833 cessazioni di contratto. (-2,3%). Il saldo sul totale
dei rapporti di lavoro nell’anno, compresi i rapporti a termine, è positivo per 605.971 unità.
Gli sgravi fiscali trainano le assunzioni : dicembre si è registrato un boom per le assunzioni a tempo
indeterminato grazie agli sgravi contributivi previsti dalla legge di Stabilità per il 2015: nel mese le
assunzioni con l’incentivo sono state 272.512, oltre il doppio di novembre.
Nell’intero anno le assunzioni con gli sgravi sono state 1.442.725, superando le attese del governo.
Lo sgravio completo sui contributi Inps per le assunzioni e le trasformazioni a tempo indeterminato è
di durata triennale e ha un limite annuo di 8.060 euro.
Dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2016 lo sgravio scende al 40% dei contributi, fino ad un importo
massimo pari a 3.250 euro e con una durata limite di due anni. La dinamica economica ancora molto
debole, unitamente alla diminuzione dello sgravio contributivo, ha portato ad una discesa del numero
dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel bimestre gennaio-febbraio 2016: 213mila,
contro 320mila del bimestre 2015.
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TAB. 1 – RAPPORTI DI LAVORO*: ATTIVAZIONI E TRASFORMAZIONI NEI MESI DI GENNAIO - DICEMBRE DEGLI ANNI 2013, 2014 E 2015
gen - dic
2013
2014
gen - dic 2014 su 2013
2015
gen - dic 2015 su 2014
variazione
variazione
variazione %
assoluta
assoluta
variazione %
A. NUOVI RAPPORTI DI LAVORO
A1. Assunzioni a tempo indeterminato
1.300.740
1.273.750
1.870.959
(26.990)
-2,1%
597.209
46,9%
A2. Assunzioni a termine
3.190.262
3.365.593
3.353.649
175.331
5,5%
(11.944)
-0,4%
229.351
231.084
184.196
1.733
0,8%
(46.888)
-20,3%
4.720.353
4.870.427
5.408.804
150.074
3,2%
538.377
11,1%
2.013
2.014
2.015
418.509
329.848
492.729
(88.661)
-21,2%
162.881
49,4%
69.635
69.271
85.352
(364)
-0,5%
16.081
23,2%
488.144
399.119
578.081
(89.025)
-18,2%
178.962
44,8%
A3. Assunzioni in apprendistato
TOTALE
B. VARIAZIONI CONTRATTUALI DI RAPPORTI DI LAVORO ESISTENTI
B1. Trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti a termine
B2. Apprendisti trasformati a tempo indeterminato
TOTALE
Fonte: INPS - elaborazione al 10 Febbraio 2015
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Alcune esperienze in Paesi europei
Altri Paesi europei hanno reagito soprattutto prendendo spunto dalla crisi per rafforzare o accelerare
riforme strutturali già avviate.
La Germania, che con le leggi Hartz III e IV ha rifondato l’Istituto federale per il lavoro, trasformato
ora in Agenzia, ha ridisciplinato il sistema dei sostegni al reddito in caso di disoccupazione ed, in
caso di bisogno conclamato, un reddito di cittadinanza anche a chi non trova lavoro dopo aver
completato gli studi, con contributi per la casa, la famiglia e i figli, un’assicurazione sanitaria.
(realizzando così uno stretto intreccio tra politiche del lavoro e politiche sociali) ed ha previsto
sanzioni severe per coloro che godono di sussidi pubblici e non accettano opportunità di lavoro, di
orientamento, formazione o inserimento/reinserimento al lavoro.
Sono poi stati introdotti i famosi, (perché molto criticati, anche se fortemente utilizzati), ‘Minijob’,
contratti di lavoro precari, poco tassati, senza diritto a pensione nè assicurazione sanitaria; i Midjob,
contratti atipici a 400 euro massimi; i finanziamenti a microimprese autonome e un maggior sostegno
per gli over-50 che perdono il lavoro.
La Francia, attraverso la legge del febbraio 2008, è stato riorganizzato l’intervento statale mediante
l’unificazione dell’Agenzia nazionale per l’impiego (A.N.P.E.) con l’Assedic (soggetto deputato al
pagamento dei trattamenti di disoccupazione) in un’unica struttura (Pole-emploi); con la legge del 1
agosto 2008, n. 758 sono stati precisati i diritti del disoccupato alla formazione ed ai servizi per
l’impiego e, nel contempo, sono stati fissati i doveri connessi alla condizione di disoccupato che
gode di sussidi pubblici; non è mancata, infine, l’attenzione al sostegno al reddito perseguita
mediante l’istituto denominato “chomage partiel” (simile alla nostra cassa integrazione guadagni ma
con l’indennità a carico dello Stato).
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In precedenza, dal 2005, con il “Piano Borloo” (ministro del lavoro e della coesione sociali in più
governi del presidente francese Sarkozy, numerosi interventi sono state approvati, a partire dal
recupero delle periferie degradate, sino a iniziative rivolte alla famiglia e al sostegno
dell’occupazione femminile.
In questi ultimi mesi in Francia vi è un forte dibattito (con proteste e manifestazioni di strada) per la
presentazione di disegno di legge che costituisce il primo passo di un ampio progetto di
riforma del codice del lavoro che il primo ministro Manuel Valls intende portare a termine
entro il 2018. Il testo accoglie i 61 “principi essenziali” per la riforma espressi nei lavori della
commissione guidata dall’ex ministro della giustizia Robert Badinter, ed è fortemente ispirato dalle
riforme adottate in altri paesi europei; in particolare, il modello tedesco e la recente riforma italiana
(il cosiddetto “jobs act”). Le modifiche interessano quasi tutti gli ambiti disciplinati dal diritto del
lavoro: formazione professionale, ferie e giornate di riposo dei lavoratori, orario di lavoro,
licenziamenti, contrattazione collettiva e medicina del lavoro.
Un rilevante novità é la creazione del CPA (“compte personnel d’activité”), strumento di garanzia dei
diritti sociali, Il CPA è uno strumento universale di tutela finalizzato a sostenere i percorsi
professionali di tutti i cittadini con più di 16 anni, che convertirà in punti i diversi diritti connessi a
un’attività professionale e/o connessi ad attività non professionali. I diritti convertiti in punti potranno
essere utilizzati per diverse finalità, ad esempio, come l’uso del « compte épargne temps» per
finanziare la formazione del lavoratore.
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