parte prima le diecimila cose

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parte prima le diecimila cose
Il libro
Lo scarpone era andato. Andato sul serio. Mi strinsi al petto il compagno come se fosse un bambino, anche se naturalmente era futile. Che cos’è uno scarpone senza l’altro? Niente. È inutile, un orfano, e non potevo averne pietà. Era un affare
grosso, molto pesante, uno scarpone di pelle marrone con le stringhe rosse e ganci in metallo color argento. Lo sollevai in alto e lo lanciai con tutta la forza che avevo, poi lo guardai cadere nel folto degli alberi, lontano dalla mia vita.
Ero sola. A piedi nudi. Avevo ventisei anni ed ero orfana.
Ero già stata così tante cose.
Ma una donna che cammina da sola in zone selvagge per migliaia di chilometri? Non ero mai stata nulla di simile prima. Non avevo niente da perdere a provare.
Guardai verso sud, al deserto da cui venivo, al territorio selvaggio che mi aveva temprata e bruciata, e considerai le mie opzioni. Ce n’era una sola, lo sapevo. Ce n’era sempre una sola.
Continuare a camminare.
Dopo la morte prematura della madre, il traumatico naufragio del suo matrimonio, una giovinezza disordinata e difficile, Cheryl a soli ventisei anni si ritrova con la vita sconvolta. Alla ricerca di sé oltre che di un senso, decide di attraversare a
piedi l’America selvaggia per oltre quattromila chilometri, tra montagne, foreste, animali, rocce impervie, torrenti impetuosi, caldo torrido e freddo estremo.
Una storia di avventura e formazione, di fuga e rinascita, di paura e coraggio.
Una scrittura intensa come la vicenda che racconta, da cui emergono con forza tutto il fascino degli spazi incontaminati e la fragilità della condizione umana di fronte a una natura grandiosa e potente.
L’autore
Cheryl Strayed vive a Portland, Oregon. Le sue storie e i suoi articoli sono stati pubblicati su The New York Times Magazine, The Washington Post Magazine, The Best American Essays.
Fin dal giorno della sua pubblicazione, Wild ha calamitato l’interesse dei lettori e della critica statunitense, raggiungendo il primo posto in tutte le più importanti classifiche USA, dal New York Times a Publishers Weekly, dal Boston Globe al Los
Angeles Times.
Dal libro, in corso di pubblicazione in più di trenta paesi, sarà tratto un film con il Premio Oscar Reese Witherspoon.
CHERYL STRAYED
WILD
Traduzione di
S
ARA
P
UGGIONI
A Brian Lindstrom
E ai nostri figli,
Carver e Bobbi
Prologo
Gli alberi erano alti, ma io ero più alta: li sovrastavo dal ripido versante di una montagna nella California settentrionale. Qualche istante prima mi ero tolta gli scarponi da trekking e il sinistro era caduto fra quegli alberi, prima schizzando in aria
quando il mio enorme zaino ci era finito sopra e poi rotolando sul sentiero ghiaioso volando oltre il bordo del precipizio. Era rimbalzato su una sporgenza rocciosa parecchi metri sotto di me prima di scomparire nella foresta sottostante, impossibile da
recuperare. Rimasi senza fiato per lo shock, sebbene mi trovassi nella natura selvaggia da trentotto giorni e avessi ormai imparato che poteva succedere – e succedeva – di tutto. Ma ciò non significa che non rimanessi sconvolta quando accadeva.
Lo scarpone era andato. Andato sul serio.
Mi strinsi al petto il suo compagno. Un gesto futile: a cosa serve uno scarpone senza l’altro? A niente. È inutile. Era un affare grosso, molto pesante, uno scarpone di pelle marrone Raichle con le stringhe rosse e ganci in metallo color argento. Lo
sollevai in alto e lo lanciai con tutta la forza che avevo, poi lo osservai cadere lontano nel folto degli alberi.
Ero sola. A piedi nudi. Avevo ventisei anni ed ero orfana. “Una vera vagabonda” aveva osservato uno sconosciuto un paio di settimane prima, quando gli avevo detto come mi chiamavo e spiegato quanto fossero deboli i miei legami nel mondo.
Mio padre era sparito dalla mia vita quando avevo sei anni. Mia madre era morta quando ne avevo ventidue. Dopo la sua morte il mio patrigno si era trasformato. Riconoscevo appena la persona che consideravo come un padre. I miei due fratelli si erano
allontanati, nonostante i miei sforzi di tenerci uniti. Alla fine avevo rinunciato e me n’ero andata anch’io.
Negli anni precedenti al momento in cui avevo scagliato lo scarpone oltre il ciglio di quella montagna avevo spinto anche me stessa oltre il limite. Avevo vagato, vagabondato e girato – dal Minnesota a New York poi all’Oregon e attraverso tutto
l’Ovest – finché alla fine, nell’estate del 1995, mi ero ritrovata senza scarponi non tanto avulsa dal mondo quanto inchiodata a esso.
Era un mondo sconosciuto, un mondo in cui avevo fatto ingresso esitante, addolorata e confusa, con timore e speranza. Un mondo che pensavo avrebbe potuto fare di me la donna che sapevo di poter diventare e al tempo stesso risvegliare la
ragazza che ero stata una volta. Un mondo che misurava sessanta centimetri di larghezza ed era lungo 4.260 chilometri.
Un mondo chiamato Pacific Crest Trail.
Ne avevo sentito parlare per la prima volta solo sette mesi prima, quando vivevo a Minneapolis, triste, disperata e sul punto di divorziare da un uomo che amavo ancora. Ero in coda a una cassa per comprare una pala ripiegabile quando avevo
preso in mano un libro intitolato The Pacific Crest Trail, Volume 1: California da uno scaffale accanto e avevo letto la quarta di copertina. Il
PCT
, diceva, era un ininterrotto sentiero nella natura che si estendeva dal confine messicano in California fino
a poco oltre il confine con il Canada lungo la cresta di nove catene montuose: Laguna, San Jacinto, San Bernardino, San Gabriel, Liebre, Tehachapi, Sierra Nevada, Klamath e Cascate. La distanza era di milleseicento chilometri in linea d’aria, ma il
PCT
sentiero era lungo più del doppio. Percorrendo tutta la California, l’Oregon e Washington, il
passa in mezzo a parchi nazionali e aree selvagge, in territori federali, tribali e privati; in mezzo a deserti, montagne e foreste pluviali; attraverso fiumi e
autostrade. Girai il libro e guardai la copertina – un lago disseminato di scogli circondato da dirupi rocciosi che si stagliava contro un cielo azzurro –, poi rimisi il libro sullo scaffale, pagai la pala e me ne andai.
In seguito, però, tornai e comprai il libro. Allora non consideravo il Pacific Crest Trail un mondo. Era un’idea, vaga e stravagante, piena di promesse e di mistero. Qualcosa fiorì dentro di me mentre percorrevo con un dito il suo tracciato
frastagliato su una cartina.
Avrei percorso quella linea, decisi – o almeno la parte che sarei riuscita a coprire in un centinaio di giorni. Vivevo da sola in un monolocale a Minneapolis, separata da mio marito, e lavoravo come cameriera, abbattuta e confusa come non ero
mai stata in vita mia. Avevo la sensazione di guardare le cose dal fondo di un pozzo. Da quel pozzo iniziai a trasformarmi in una camminatrice solitaria. E perché no? Ero già stata così tante cose: una moglie innamorata e un’adultera; una figlia amatissima
che adesso trascorreva le vacanze da sola; una ragazzina prodigio ambiziosa che aspirava a diventare scrittrice e nel frattempo passava da un lavoro senza senso all’altro, giocava pericolosamente con le droghe e andava a letto con troppi uomini; la
nipote di un minatore della Pennsylvania; la figlia di un operaio metallurgico che si era reinventato piazzista. Dopo la separazione dei miei genitori, avevo vissuto con mia madre, mio fratello e mia sorella in complessi abitativi pieni di madri sole. Alle soglie
dell’adolescenza vivevo un’esistenza stile ritorno alla natura nei boschi settentrionali del Minnesota, in una casa senza il bagno, senza elettricità né acqua corrente. Nonostante ciò, ero diventata una cheerleader e una reginetta di bellezza, dopodiché ero
andata all’università e mi ero trasformata in una femminista radicale.
Ma una donna che cammina da sola in zone selvagge per millesettecentosessanta chilometri? Non ero mai stata nulla di simile prima. Non avevo niente da perdere a provare.
Adesso, mentre me ne stavo scalza su quella montagna della California, sembravano passati anni, un’epoca diversa della vita, da quando avevo preso la decisione, forse irragionevole, di intraprendere un lungo trekking da sola sul
PCT per
salvare me stessa, da quando ero convinta che tutto ciò che ero stata mi avesse preparata a quell’avventura. Ma nulla avrebbe potuto farlo. Ogni giorno sul sentiero era l’unica preparazione possibile per quello che seguiva. E talvolta persino il giorno
precedente non mi preparava per quello che sarebbe successo in seguito.
Come il fatto che i miei scarponi fossero volati irrimediabilmente giù dalla montagna.
La verità è che ero dispiaciuta solo per metà di averli persi. Nelle sei settimane che avevo trascorso con indosso quegli scarponi, avevo camminato nel deserto e nella neve, passando in mezzo ad alberi, cespugli, erbe e fiori di tutte le forme e
colori, ero salita e scesa dalle montagne e avevo attraversato campi, paludi ed estensioni di terra che non riuscivo nemmeno a definire, tranne che ci ero stata, ci ero passata, le avevo attraversate. E in tutto quel tempo gli scarponi mi avevano provocato
vesciche, escoriazioni ai piedi; mi avevano fatto diventare le unghie nere, che si erano poi dolorosamente staccate da quattro dita. Quando li persi, ne avevo abbastanza di quegli scarponi e di quello che mi avevano fatto, benché devo anche ammettere di
essermici affezionata. Per me rappresentavano un’estensione di ciò che ero, esattamente come qualunque altra cosa mi ero portata dietro quell’estate: lo zaino, la tenda, il sacco a pelo, il purificatore per l’acqua, il fornelletto a gas e il piccolo fischietto
arancione che avevo al posto di un’arma. Erano le cose che conoscevo e su cui potevo fare affidamento, le cose che mi facevano andare avanti.
Guardai gli alberi sotto di me, le alte cime che ondeggiavano lievi nella brezza calda. Potevano tenersi i miei scarponi, pensai, fissando la grande estensione verde. Avevo scelto di riposare in quel punto per via del panorama. Era un tardo
pomeriggio di metà luglio ed ero a chilometri dal primo posto civilizzato in ogni direzione, a giorni di cammino dal solitario ufficio postale dove avrei dovuto ritirare il rifornimento successivo. C’era una possibilità che arrivasse qualcuno, ma accadeva solo
di rado. In genere passavano giorni senza che vedessi anima viva. Non aveva importanza se fosse arrivato qualcuno. Ero sola.
Mi guardai i piedi scalzi e scorticati, con le poche unghie rimaste. Erano pallidissimi fino alla caviglia, dove finivano i calzettoni di lana che portavo di solito. I polpacci erano muscolosi, dorati e pelosi, ricoperti di polvere e di una costellazione di
lividi e graffi. Avevo iniziato il cammino nel deserto del Mojave e non avevo in programma di fermarmi finché non avessi posato la mano sulle sponde di un ponte che attraversava il fiume Columbia al confine tra Oregon e Washington, battezzato in modo
pomposo “ponte degli dèi”.
Guardai verso nord; il solo pensiero di quel ponte era per me come un faro. Guardai verso sud, da dove venivo, il territorio selvaggio che mi aveva temprata e bruciata, e considerai le mie opzioni. Ce n’era una sola, lo sapevo. Ce n’era sempre
una sola.
Continuare a camminare.
P
ARTE PRIMA
LE DIECIMILA COSE
Il crollo di una cosa così grande
dovrebbe fare un ben più forte schianto.
W ILLIAM SHAKESPEARE, Antonio e Cleopatra
1
LE DIECIMILA COSE
Il mio trekking solitario di tre mesi sul Pacific Crest Trail ebbe molti inizi. C’era stato il primo inizio, la decisione impulsiva di farlo, seguito dal secondo, la decisione più seria di farlo davvero, e quindi c’era stato il terzo, interminabile inizio,
costituito da settimane di acquisti, bagagli e preparativi. C’erano state le dimissioni dal lavoro di cameriera, il divorzio, la vendita di quasi tutto ciò che possedevo, l’addio agli amici e l’ultima visita alla tomba di mia madre. C’era stato il viaggio in auto da
Minneapolis a Portland, Oregon, e, pochi giorni dopo, il volo per Los Angeles seguito da un tratto in macchina fino alla città di Mojave e poi da un altro al posto in cui il
PCT
incrociava una superstrada.
A quel punto, finalmente, c’era stato il vero inizio, subito incalzato dalla cupa consapevolezza di ciò che significava davvero farlo, seguita dalla decisione di piantar lì perché era assurdo, inutile, terribilmente difficile e molto più duro di quanto mi
ero aspettata che fosse, ed ero del tutto impreparata ad affrontarlo.
E poi era arrivato il momento di viverlo.
Di tener duro e farlo, nonostante tutto. Nonostante gli orsi e i serpenti a sonagli e gli escrementi dei puma, che non vidi mai; nonostante le vesciche, le croste, i graffi e le lacerazioni. La spossatezza e la privazione; il freddo e il caldo; la monotonia
e la sofferenza; la sete e la fame; la gloria e i fantasmi che mi ossessionavano mentre da sola percorrevo a piedi millesettecentosessanta chilometri dal deserto del Mojave allo stato di Washington.
Finalmente, quando ero partita e l’avevo fatto, avevo camminato per tutti quei chilometri e per tutti quei giorni, compresi che non era affatto come avevo creduto all’inizio. Che in realtà il trekking lungo il Pacific Crest Trail non era cominciato
quando avevo preso la decisione impulsiva di farlo. Era iniziato addirittura prima, precisamente quattro anni, sette mesi e tre giorni prima, quando ero in una piccola stanza della Mayo Clinic di Rochester, Minnesota, e avevo saputo che mia madre stava
morendo.
Ero vestita di verde. Gonna pantalone verde, camicia verde, un nastro verde nei capelli. Era un completo che mi aveva fatto mia madre: mi aveva cucito vestiti per tutta la vita. Non impazzivo per quell’insieme verde, ma lo indossavo comunque,
come un talismano.
Per tutta quella giornata della gonna pantalone verde, accompagnando mia madre e il mio patrigno, Eddie, da un piano all’altro della Mayo Clinic mentre lei faceva una serie interminabile di esami, nella testa continuava a girarmi una preghiera,
anche se “preghiera” non è la parola giusta. Non ero umile davanti a Dio. La mia preghiera non era: “Signore, ti supplico, abbi pietà di noi”.
Non avevo intenzione di chiedere pietà. Non ne avevo bisogno. Mia madre aveva quarantacinque anni. Stava bene. Era praticamente vegetariana da un sacco di anni. Aveva piantato calendule attorno all’orto per tenere lontani gli insetti invece di
usare i pesticidi. I miei fratelli e io eravamo stati costretti a ingoiare spicchi d’aglio quando avevamo il raffreddore. Alle persone come mia madre non veniva il cancro. Gli esami alla Mayo Clinic lo avrebbero dimostrato, confutando quello che avevano
detto i medici di Duluth. Ne ero certa. E comunque, chi erano quei medici di Duluth? Che cos’era Duluth? Duluth! Duluth era una raggelante cittadina di campagna dove medici che non sapevano di che diamine stavano parlando dicevano che
quarantacinquenni vegetariani, mangiatori d’aglio, devoti ai rimedi naturali e non fumatori avevano un cancro ai polmoni in stadio avanzato, ecco cosa.
Vaffanculo.
Era questa la mia preghiera: “Vaffanculovaffanculovaffanculo”.
Eppure, ecco mia madre alla Mayo Clinic, esausta quando era costretta a stare in piedi per più di tre minuti.
«Vuoi una sedia a rotelle?» le chiese Eddie, quando ne vedemmo una fila in un lungo corridoio ricoperto di moquette.
«Non ha bisogno di una sedia a rotelle» dissi.
«Solo per un minuto» disse mia madre, praticamente accasciandosi in una di esse, gli occhi che incontravano i miei prima che Eddie la spingesse verso l’ascensore.
Li seguii, vietandomi qualunque pensiero. Stavamo finalmente per vedere l’ultimo dottore. Il “dottore vero”, continuavamo a chiamarlo. Quello che avrebbe messo insieme tutto ciò che riguardava mia mamma e ci avrebbe detto la verità. Mentre
l’ascensore saliva, mia madre allungò una mano verso la gonna pantalone, accarezzando la stoffa verde.
«Perfetta» disse.
Avevo ventidue anni, la stessa età che aveva lei quando era incinta di me. Stava per lasciare la mia vita nello stesso momento in cui io entravo nella sua, pensai. Per qualche ragione mi venne in mente quella frase, cancellando temporaneamente
la preghiera “Vaffanculo”. Per poco non ululai dal dolore. Per poco non mi soffocai con quello che sapevo ancor prima di saperlo. Avrei dovuto vivere il resto della vita senza mia madre. Scacciai quel pensiero. Non potevo permettermi di crederci in quel
momento, su quell’ascensore, e continuare a respirare, così mi concessi di credere invece altre cose. Tipo, se un medico ti ha detto che morirai presto, dovresti essere portato in una stanza con una lucida scrivania di legno.
Non fu così.
Fummo condotti in una stanza per le visite, dove un’infermiera disse a mia madre di togliersi la camicetta e indossare un camice di cotone con delle stringhe da annodare ai lati. Quando mia madre fu pronta, si arrampicò su un lettino imbottito
ricoperto da un pezzo di carta. Ogni volta che si muoveva, la stanza si riempiva del rumore crepitante della carta che si strappava e si accartocciava sotto di lei. Vedevo la sua schiena nuda, il piccolo rigonfiamento sotto la vita. Non stava per morire. La
sua schiena nuda sembrava esserne la dimostrazione. La stavo fissando quando il vero dottore entrò nella stanza e disse a mia madre che sarebbe stata fortunata a vivere per un anno. Spiegò che non avrebbero tentato di curarla, che era incurabile. Non
c’era niente da fare, ci disse. Scoprirlo così tardi era comune, quando si trattava di cancro ai polmoni.
«Ma non è una fumatrice» ribattei, come se potessi convincerlo a cambiare la diagnosi con le parole, come se il cancro si comportasse in modo ragionevole, negoziabile. «Ha fumato solo quando era più giovane. Non tocca una sigaretta da anni.»
Il dottore scosse la testa dispiaciuto e andò avanti. Aveva un lavoro da portare a termine. Avrebbero potuto cercare di alleviarle il dolore con la radioterapia, disse. Le radiazioni potevano ridurre la massa dei tumori che le crescevano lungo tutta
la spina dorsale.
Non piansi, mi limitai a respirare. Orribilmente. Intenzionalmente. E poi dimenticai di respirare. Ero svenuta, una volta: avevo tre anni, ero furibonda e trattenevo il fiato perché non volevo uscire dalla vasca da bagno, troppo piccola per
ricordarmelo. «E tu cosa hai fatto? Cosa hai fatto?» avevo chiesto a mia madre per tutta l’infanzia, spingendola a raccontarmi la storia sempre daccapo. Mi aveva guardata diventare cianotica. Aveva aspettato finché la mia testa era caduta nelle sue mani
e io avevo ricominciato a respirare, tornando in vita.
“Respira.”
«Posso montare a cavallo?» chiese mia madre al dottore vero. Sedeva con le mani intrecciate e le caviglie incrociate. Messa in ceppi da se stessa.
Per tutta risposta, lui prese una matita, la mise dritta sul bordo del lavandino e la batté con forza contro la ceramica. «Questa è la sua spina dorsale dopo le radiazioni» disse. «Uno scossone e le sue ossa potrebbero sbriciolarsi come cracker.»
Andammo al bagno delle donne. Ci chiudemmo in cubicoli separati, piangendo. Non scambiammo una parola. Non perché ci sentissimo sole nel dolore, ma perché eravamo così unite che era come se fossimo un corpo solo. Sentii mia madre
appoggiarsi alla porta, le mani che ne colpivano lentamente la superficie, facendo tremare tutti i cubicoli del bagno. Poi uscimmo per lavarci le mani e la faccia, guardandoci nello specchio troppo illuminato.
Fummo mandati alla farmacia ad aspettare. Io ero seduta tra mia madre e Eddie con la gonna pantalone verde, il nastro verde miracolosamente ancora tra i capelli. C’era un grosso bambino calvo in grembo a un uomo anziano. C’era una donna
con un avambraccio che tremava vistosamente. Lo teneva fermo con l’altra mano, cercando di calmarlo. Lei aspettava. Noi aspettavamo. C’era una bellissima donna con i capelli scuri su una sedia a rotelle. Aveva un cappello viola e un sacco di anelli di
diamanti. Non riuscivamo a staccare gli occhi da lei. Parlava in spagnolo alle persone riunite attorno a lei, la sua famiglia e forse il marito.
«Pensi che abbia il cancro?» mi sussurrò mia madre a voce troppo alta.
Eddie sedeva accanto a me, ma io non potevo guardarlo. Se l’avessi guardato, anche noi ci saremmo sbriciolati come cracker. Pensavo a mia sorella maggiore, Karen, e a mio fratello minore, Leif. A mio marito, Paul, e ai genitori e alla sorella di
mia madre, che vivevano a milleseicento chilometri di distanza. Cosa avrebbero detto quando avessero saputo. Come avrebbero pianto. Adesso la mia preghiera era diversa: “Un anno, un anno, un anno”. Quelle parole mi pulsavano nel petto come un
cuore.
Ecco quanto sarebbe vissuta mia madre.
«A cosa stai pensando?» le chiesi. Dagli altoparlanti della sala d’aspetto proveniva una canzone. Una canzone senza parole, di cui mia madre però conosceva le parole e invece di rispondere alla mia domanda me la cantò a bassa voce. «Paper
roses, paper roses, oh how real those roses seemed to be» cantò. Mise una mano sulla mia e disse: «Ascoltavo sempre questa canzone quando ero giovane. È buffo pensarci. Pensare di ascoltare la stessa canzone adesso. Non l’avrei mai detto».
In quel momento chiamarono il nome di mia madre: le sue ricette erano pronte.
«Vai a prenderle tu» mi disse. «Digli chi sei. Digli che sei mia figlia.»
Ero sua figlia, ma anche di più. Ero Karen, Cheryl, Leif. Karen Cheryl Leif. KarenCherylLeif. I nostri nomi si sono confusi in uno solo nella bocca di mia madre per tutta la mia vita. Lei lo sussurrava e lo urlava, lo sibilava e lo cantava. Eravamo i
suoi bambini, i suoi compagni, la sua fine e il suo inizio. Facevamo i turni a sedere accanto a lei sul sedile di fianco a quello del guidatore. «Vi amo tanto così?» ci chiedeva, allargando le mani di quindici centimetri. «No» dicevamo, con dei sorrisi birichini.
«Vi amo tanto così?» chiedeva di nuovo, e poi ancora, ogni volta allontanando un po’ di più le mani. Ma non ci sarebbe mai arrivata, per quanto allargasse le braccia. La quantità di amore per noi andava oltre la sua portata. Non poteva essere quantificata
né limitata. Era le diecimila cose dell’universo del Tao Te Ching e diecimila volte di più. Il suo amore era a gola spiegata e onnicomprensivo e disadorno. Tutti i giorni dava fondo alle sue riserve.
Era figlia di un militare di carriera, cresciuta nella fede cattolica. Aveva vissuto in cinque stati diversi e in due paesi prima di compiere quindici anni. Amava i cavalli e Hank Williams, e aveva un’amica del cuore che si chiamava Babs. A
diciannove anni, incinta, sposò mio padre. Tre giorni dopo, lui la picchiò. Lei se ne andò e tornò. Se ne andò e tornò. Non avrebbe dovuto andare avanti, ma lo fece. Lui le ruppe il naso. Lui ruppe i piatti. Lui le scorticò le ginocchia trascinandola per i
capelli su un marciapiede in pieno giorno. Ma non la spezzò. A ventotto anni lei riuscì a lasciarlo per l’ultima volta.
Era sola, con KarenCherylLeif che sedevano a turno sul sedile davanti.
A quel punto vivevamo in una cittadina a un’ora da Minneapolis, abitando in una serie di condomini dai nomi ingannevolmente lussuosi: Mill Pond e Barbary Knoll, Tree Loft e Lake Grace Manor. Lei ebbe un lavoro, poi un altro. Servì ai tavoli in
FAI DEL TUO MEGLIO
un locale chiamato Norseman e poi in un posto chiamato Infinity, dove la sua uniforme era una T-shirt nera con sul petto la scritta
in lustrini colorati. Lavorò facendo il turno di giorno in una fabbrica che
costruiva contenitori di plastica in grado di resistere ad agenti chimici altamente corrosivi, e portava a casa gli scarti. Vassoi e scatole crepati, scheggiati o venuti male. Li usavamo come giocattoli: letti per le bambole, scivoli per le macchinine. Lei
lavorava, lavorava, lavorava, eppure noi continuavamo a essere poveri. Ricevevamo dal governo formaggio e latte in polvere, buoni per il cibo e tessere per l’assistenza sanitaria, e regali di Natale dai bravi cittadini. Giocavamo a ce l’hai, alle belle
statuine e alle sciarade vicino alle cassette della posta degli appartamenti che potevano essere aperte solo con la chiave, aspettando che arrivassero gli assegni.
«Non siamo poveri» diceva mia madre, e continuava a ripeterlo. «Perché siamo ricchi d’amore.» Metteva il colorante per i cibi nell’acqua zuccherata e fingeva che fosse una bevanda speciale. Salsapariglia, aranciata o limonata. Chiedeva:
«Desidera un altro drink, signora?» con uno sdegnoso accento britannico che ogni volta ci faceva ridere. Allargava le braccia e ci domandava quanto, e non c’era mai fine al gioco. Ci amava più di ogni altra cosa al mondo. Era ottimista e serena, tranne le
VAFFANCULO
rare volte in cui si arrabbiava e ci picchiava con un cucchiaio di legno. O l’unica volta in cui urlò: «
» e scoppiò a piangere perché non avevamo pulito la nostra stanza. Era di animo gentile e incline al perdono, generosa e
ingenua. Usciva insieme a uomini con nomi tipo Killer, Canna e Dan Motocicletta, e a un tizio che si chiamava Victor e amava sciare. Loro ci davano una banconota da cinque dollari per comprare le caramelle al negozio, così potevano stare
nell’appartamento da soli con nostra madre.
«Guardate a destra e a sinistra» ci gridava dietro mentre noi ci precipitavamo fuori come una muta di cani affamati.
Quando conobbe Eddie, pensò che non avrebbe funzionato perché lui era più giovane di otto anni, ma si innamorarono lo stesso. Anch’io, Karen e Leif ci innamorammo di lui. Aveva venticinque anni quando lo conoscemmo e ventisette quando
sposò nostra madre e promise di farci da padre; un falegname capace di costruire e aggiustare qualunque cosa. Lasciammo i condomini dai nomi fantasiosi e ci trasferimmo insieme a lui in una cadente fattoria in affitto con un pavimento in terra battuta
nella cantina e quattro colori diversi di pittura all’esterno. L’inverno dopo aver sposato mia madre, Eddie cadde da un tetto al lavoro e si ruppe la schiena. Un anno più tardi, lui e mia madre presero l’indennizzo di dodicimila dollari che aveva ricevuto e
comprarono sedici ettari di terra nella contea di Aitkin, un’ora e mezzo a ovest di Duluth, pagando sull’unghia in contanti.
Non c’era una casa. Nessuno aveva mai avuto una casa in quel posto. I nostri sedici ettari erano un quadrato perfetto di alberi, cespugli ed erbacce, pozze paludose e acquitrini invasi di tife. Non c’era nulla a differenziarli dagli alberi, dalle erbe
e dalle zone paludose che li circondavano in ogni direzione per chilometri. In quei primi mesi da proprietari terrieri percorremmo insieme più volte il perimetro della nostra terra, aprendoci la strada nella natura selvaggia lungo i due lati che non
confinavano con la strada, come se camminare avrebbe distinto l’appezzamento dal resto del mondo, facendolo diventare nostro. E lentamente successe davvero così. Alberi che prima mi sembravano esattamente uguali agli altri cominciarono a diventare
familiari come vecchi amici in una folla, i loro rami all’improvviso si muovevano in modo rivelatore, le loro foglie mi chiamavano come mani conosciute. I ciuffi d’erba e i margini dell’acquitrino divennero punti di riferimento, guide, indecifrabili a tutti
tranne che a noi.
Chiamavamo quel posto “su a nord” quando abitavamo ancora nella città a un’ora da Minneapolis. Per sei mesi, andammo su a nord soltanto nei fine settimana, lavorando come pazzi per sgombrare un pezzo di terra e costruire una capanna di
carta catramata di un’unica stanza dove avremmo potuto dormire. All’inizio di giugno, quando io avevo tredici anni, ci trasferimmo a nord per sempre. O piuttosto, ci trasferimmo io, mia madre, Leif e Karen, insieme a due cavalli, i gatti e i cani, e a una
scatola con dieci pulcini che mia madre aveva avuto gratis al negozio di mangimi per aver acquistato undici chili di cibo per polli. Eddie avrebbe continuato a fare avanti e indietro durante i weekend per l’estate e si sarebbe fermato all’arrivo dell’autunno.
La schiena era finalmente andata abbastanza a posto da consentirgli di ricominciare a lavorare e lui aveva ottenuto un posto da carpentiere nella stagione in cui c’era più richiesta, un impiego troppo redditizio per rinunciarvi.
KarenCherylLeif erano di nuovo soli con la madre… proprio come lo eravamo stati negli anni in cui era rimasta senza un uomo. Svegliandoci o addormentandoci, quell’estate, non ci perdevamo mai di vista e di rado vedevamo qualcun altro.
Eravamo a trentadue chilometri di distanza da due cittadine in direzioni opposte: Moose Lake, a est, e McGregor, a ovest. In autunno avremmo frequentato la scuola a McGregor, la più piccola delle due, con una popolazione di quattrocento anime, ma per
tutta l’estate, a parte qualche visitatore occasionale – vicini remoti che si fermavano per presentarsi –, rimanemmo solo noi e nostra madre. Litigavamo, parlavamo e ci inventavamo degli scherzi e dei diversivi per passare il tempo.
«Chi sono?» ci chiedevamo l’un l’altro di continuo, facendo un gioco in cui la persona che “stava sotto” pensava a qualcuno, famoso o meno, e gli altri dovevano indovinare chi fosse basandosi su una serie interminabile di domande cui si poteva
rispondere solo con un sì o con un no. «Sei un uomo? Sei americano? Sei morto? Sei Charles Manson?»
Ci giocavamo piantando e curando un orto che avrebbe dovuto sostenerci durante l’inverno su un terreno che era stato lasciato a se stesso per millenni, mentre facevamo costanti progressi nei lavori della casa che stavamo costruendo sull’altro
lato della proprietà e che speravamo di terminare alla fine dell’estate. Eravamo tormentati dalle zanzare, ma mia madre ci vietava di usare insetticidi a base di dietiltoluamide o altri prodotti chimici dannosi per il cervello, inquinanti e potenzialmente
pericolosi per la progenie futura. Invece, ci diceva di cospargerci il corpo di olio alla menta. La sera, giocavamo a contarci le punture di insetto alla luce delle candele: potevano essere settantanove, ottantasei o centotré.
«Un giorno mi ringrazierete per questo» ci diceva sempre quando ci lamentavamo di tutte le cose che non avevamo più. Non eravamo mai vissuti nel lusso e neppure come quelli della classe media, ma avevamo comunque avuto le comodità
dell’epoca moderna. A casa nostra c’era sempre stato il televisore, per non parlare di un water con lo sciacquone e di un rubinetto da cui prendere un bicchier d’acqua. Nella nostra nuova vita da pionieri, persino la soddisfazione dei bisogni più semplici
implicava una sequela punitiva di lavori faticosi che richiedevano un mucchio di tempo. La cucina era composta da un fornello da campo Coleman, un focolare di pietra, una vecchia ghiacciaia costruita da Eddie che dipendeva dalla presenza del ghiaccio
vero per tenere le cose al fresco, un lavandino staccato appoggiato all’esterno di una delle pareti del capanno e un secchio d’acqua con un coperchio. Ciascuno di questi pezzi era a malapena funzionale, dato che era necessario occuparsene e fare
manutenzione, riempire e svuotare, trascinare e spegnere, pompare e accendere e alimentare e controllare.
Karen e io condividevamo un letto su una piattaforma sopraelevata costruita così vicino al soffitto che riuscivamo a stento a stare sedute. Leif dormiva a trenta centimetri di distanza, sulla sua piattaforma, e nostra madre su un letto posato sul
pavimento, dove nei fine settimana la raggiungeva Eddie. Tutte le sere parlavamo fino ad addormentarci, una specie di notte a casa degli amichetti. Nel soffitto c’era una finestra a lucernario per tutta la lunghezza del letto che dividevo con Karen, la
superficie trasparente a pochi centimetri dalle nostre facce. Tutte le notti il cielo scuro e le stelle erano i miei straordinari compagni; di tanto in tanto ne comprendevo la bellezza e la solennità in modo così chiaro da rendermi conto che mia madre aveva
ragione. Che un giorno sarei stata grata e che in effetti lo ero già, che sentivo crescere dentro di me qualcosa di potente e reale.
Fu la cosa che era cresciuta dentro di me a venirmi in mente anni dopo, quando la mia vita andò alla deriva a causa del dolore. La cosa che mi indusse a credere che percorrere il Pacific Crest Trail fosse il modo per tornare a essere la persona
che ero.
La sera di Halloween ci trasferimmo nella casa costruita con tronchi d’albero e legname di recupero. Non c’era elettricità né acqua corrente, per non parlare del telefono o di un bagno, e neppure una porta a chiudere le stanze. Per tutta la mia
adolescenza mia madre e Eddie continuarono a lavorarci, aggiungendo parti, migliorandola. Mia madre piantò un orto e in autunno faceva conserve di verdure, le faceva in salamoia e le congelava. Incideva gli alberi per ricavarne lo sciroppo d’acero,
cuoceva il pane e cardava la lana, e preparava da sé le tinte per i tessuti usando i denti di leone e le foglie dei broccoli.
Crebbi e me ne andai di casa per frequentare l’università a Minneapolis-St Paul in una scuola chiamata St Thomas, ma non senza mia mamma. La lettera di accettazione diceva che i genitori degli studenti potevano frequentare gratuitamente i
corsi alla St Thomas. Mia madre aveva sempre voluto laurearsi. Ci riflettemmo sopra in privato. Aveva quarant’anni, era troppo vecchia per il college, mi disse quando ne discutemmo, e io non potevo contraddirla. Inoltre, la St Thomas distava tre ore di
automobile. Continuammo a parlarne e a riparlarne, finché non arrivammo a un accordo: lei sarebbe andata alla St Thomas ma avremmo vissuto vite separate. Era la mia condizione. Io sarei stata nel dormitorio e lei avrebbe fatto avanti e indietro. Se ci
fossimo incontrate nel campus, lei non mi avrebbe salutata se non l’avessi fatto io per prima.
«Quasi certamente non servirà a nulla» disse dopo che il piano fu messo a punto. «Con ogni probabilità verrò bocciata comunque.» In vista della frequenza all’università, negli ultimi mesi dell’anno conclusivo della scuola superiore divenne la mia
ombra, facendo tutti i compiti che mi venivano assegnati, perfezionando la sua preparazione. Faceva i miei stessi esercizi, scriveva le tesine che io dovevo scrivere, leggeva tutti i libri che leggevo io. Valutavo i suoi elaborati, usando come guida i voti che
mi davano i miei insegnanti. La giudicavo una studentessa mediocre.
Lei andò al college e cominciò a prendere sempre i voti più alti.
Quando la vedevo nel campus, talvolta la abbracciavo con entusiasmo, altre volte passavo oltre come se non la conoscessi nemmeno.
Eravamo entrambe all’ultimo anno di università quando scoprimmo che aveva il cancro. A quel punto non eravamo più alla St Thomas. Dopo il primo anno ci eravamo trasferite entrambe all’università del Minnesota – lei al campus di Duluth, io a
quello di Minneapolis. Facevamo entrambe la stessa specializzazione, era divertente. Lei si stava specializzando in women’s studies e storia, io in women’s studies e inglese. La sera, parlavamo un’ora al telefono. A quel punto ero sposata con un
brav’uomo di nome Paul. L’avevo sposato nei boschi del nostro terreno, con indosso un abito bianco di pizzo e raso che mi aveva confezionato mia madre.
Dopo che lei si ammalò, la mia vita andò in pezzi. Dissi a Paul di non contare su di me, dovevo andare e venire a seconda delle necessità di mia madre. Avrei voluto lasciare l’università, ma mia madre mi pregò di non farlo, di prendere la laurea
qualunque cosa succedesse. Quanto a lei, si sarebbe concessa quella che chiamò una pausa. Per laurearsi le mancavano solo un paio di esami e li avrebbe fatti, mi disse. Avrebbe preso la laurea a costo di morire, aggiunse, e scoppiammo a ridere, poi ci
scambiammo uno sguardo cupo. Avrebbe studiato a letto. Mi avrebbe detto che cosa battere a macchina e io l’avrei fatto. Sarebbe stata abbastanza bene da iniziare presto i due corsi, ne era certissima. Continuai l’università, anche se convinsi i miei
professori a consentirmi di frequentare solo due giorni alla settimana. Non appena i due giorni erano trascorsi, mi precipitavo a casa per stare con mia madre. A differenza di Karen e Leif, che riuscivano a malapena a sopportare la presenza di mia madre
dopo che si era ammalata, io non tolleravo di starle lontana. Inoltre, c’era bisogno di me. Eddie stava con lei quando poteva, ma doveva lavorare. Qualcuno doveva pagare i conti.
Cucinavo del cibo che mia madre cercava di mangiare, anche se di rado riusciva a farlo. Credeva di aver fame e poi sedeva come un’ergastolana, fissando il cibo nel piatto. «Sembra buono» diceva. «Penso che lo mangerò più tardi.»
Sfregavo i pavimenti, svuotavo gli armadietti della cucina e sostituivo la carta che li foderava. Mia madre dormiva, si lamentava, contava e inghiottiva le pillole. Nelle giornate buone sedeva su una sedia e parlava con me.
Non c’era molto da dire. Lei era stata così trasparente ed estroversa e io così insistente nel voler sapere che avevamo già parlato di tutto. Sapevo che il suo amore per me era più grande delle diecimila cose e anche delle altre diecimila che
venivano dopo. Sapevo i nomi dei cavalli che aveva amato da ragazza: Pal, Buddy e Bacchus. Sapevo che aveva perso la verginità a diciassette anni con un ragazzo di nome Mike. Sapevo come aveva conosciuto mio padre l’anno successivo e com’erano
stati i primi appuntamenti con lui. Come, dopo avere rivelato la sua gravidanza indesiderata ai genitori, il padre avesse fatto cadere il cucchiaio. Sapevo che odiava confessarsi e persino le cose che confessava. Che malediceva e insultava sua madre,
lamentandosi di dover apparecchiare la tavola mentre la sorella molto più piccola giocava. Di come usciva di casa con il vestito e poi si cambiava nel tragitto verso la scuola, infilandosi i jeans che aveva nascosto nella borsa. Per tutta l’infanzia e
l’adolescenza avevo continuato a chiedere, facendole descrivere quegli avvenimenti più e più volte, desiderosa di sapere chi aveva detto cosa e con quali parole, che cosa aveva provato lei, dove si era svolta la scena e in che ora del giorno. E lei
raccontava con riluttanza o entusiasmo, ridendo e chiedendomi perché mai volevo saperlo. Volevo saperlo, non riuscivo a spiegarne il motivo.
Ma adesso che stava morendo, sapevo tutto. Mia madre era già dentro di me. Non solo le parti di lei che conoscevo, ma anche le parti di lei che erano venute prima di me.
Non dovetti fare avanti e indietro da Minneapolis a casa per molto. Poco più di un mese. L’idea che mia madre sarebbe vissuta un anno divenne rapidamente un triste sogno. Eravamo stati alla Mayo Clinic il 12 febbraio. Il 3 marzo fu costretta ad
andare all’ospedale a Duluth, a più di centodieci chilometri di distanza, perché aveva dei dolori insopportabili. Mentre si preparava a partire, scoprì di non riuscire a mettersi le calze da sola e mi chiamò nella sua stanza perché l’aiutassi. Era seduta sul
letto e io mi inginocchiai davanti a lei. Non avevo mai infilato le calze a un’altra persona ed era più difficile di quanto pensassi. Non scivolavano sulla pelle. Gliele misi tutte storte. Mi infuriai con mia madre, come se stesse facendo apposta a rendermi quel
compito impossibile. Lei si piegò all’indietro, appoggiandosi sulle mani, gli occhi chiusi. La sentivo respirare profondamente, lentamente.
«Accidenti» dissi. «Collabora.»
Mia madre mi guardò e non disse una parola per un lungo momento.
«Tesoro» disse alla fine, fissandomi e accarezzandomi la sommità della testa. Era una parola che aveva usato spesso quando ero piccola, pronunciandola con un tono tutto particolare. Quel “tesoro” non era come l’avrei voluto io, ma era
nondimeno ciò che era. Era l’accettazione della sofferenza che mi infastidiva di più in mia madre, il suo ottimismo e la sua allegria inattaccabili.
«Andiamo» dissi, dopo aver lottato per metterle le scarpe.
Si infilò il cappotto con movimenti impacciati e lenti. Attraversò la casa appoggiandosi alle pareti, mentre i suoi due amatissimi cani la seguivano spingendole il muso nelle mani e sulle cosce. Osservai il modo in cui li accarezzò sulla testa. Non
avevo più una preghiera. La parola “vaffanculo” era ormai un farmaco inutile.
«Addio, tesori» disse ai cani. «Addio, casa» disse mentre mi seguiva fuori dalla porta.
Non mi era mai passato per la testa che mia madre sarebbe morta. Finché non si ammalò, quel pensiero non mi aveva neppure sfiorata. Lei era salda e inamovibile, la roccia che custodiva la mia vita. Sarebbe invecchiata continuando a lavorare
nell’orto. Quell’immagine era chiarissima nella mia testa, come uno di quei ricordi della sua infanzia che le avevo chiesto di raccontarmi così tante volte e con tutti i dettagli da essere diventato quasi un ricordo mio. Sarebbe stata vecchia e bellissima come
una di quelle fotografie in bianco e nero di Georgia O’Keeffe che le avevo mandato una volta. Mi aggrappai a quell’immagine per le prime due settimane successive alla visita alla Mayo Clinic e poi, quando fu ricoverata nell’ala di lunga degenza
dell’ospedale di Duluth, quell’immagine si allontanò, lasciando il posto ad altre visioni, più modeste e realistiche. Immaginai mia madre a ottobre; mi dipinsi la scena nella mente. E poi mia madre in agosto, e in maggio. A ogni giorno che passava, veniva
strappato via un altro mese.
Il primo giorno in ospedale, un’infermiera offrì a mia madre della morfina, ma lei rifiutò. «La morfina si dà ai moribondi» disse. «La morfina significa che non c’è speranza.»
Ma resistette un giorno solo. Dormiva e si svegliava, parlava e rideva. Urlava per il dolore. Rimanevo con lei di giorno, mentre Eddie faceva le notti. Leif e Karen non venivano, accampando scuse che trovavo inspiegabili e che mi facevano
infuriare, sebbene mia madre non sembrasse contrariata dalla loro assenza. L’unica cosa che la preoccupava era il sollievo dal dolore, una cosa impossibile negli intervalli di tempo tra una dose e l’altra di morfina. Non riuscivamo mai a metterle i cuscini
nella maniera giusta. Un pomeriggio un medico che non avevo mai visto entrò nella stanza e spiegò che mia madre era in agonia.
«Ma è passato solo un mese» dissi indignata. «L’altro dottore ci ha detto un anno.»
Lui non replicò. Era giovane, attorno alla trentina. Rimase in piedi accanto a mia madre, una mano pelosa affondata in tasca, guardandola. «Da questo momento in avanti, la nostra unica preoccupazione sarà alleviarle il dolore.»
“Alleviarle il dolore”, eppure gli infermieri cercavano di darle la minor quantità possibile di morfina. Uno di loro era un uomo e io riuscivo a vedere la forma del suo pene attraverso gli attillati pantaloni bianchi della divisa. Avrei voluto
trascinarlo nel bagnetto che stava oltre i piedi del letto di mia madre e concedermi, disposta a tutto se ci avesse aiutate. E avrei anche voluto che mi desse piacere, sentire il peso del suo corpo contro il mio, percepire la sua bocca nei miei capelli e udirlo
pronunciare il mio nome, ripetendolo ancora e ancora, costringerlo ad accorgersi di me, a far sì che gli importasse, a spezzargli il cuore perché avesse pietà di noi.
Quando mia madre gli chiedeva altra morfina, lo faceva con una tale rabbia, come un animale ferito. Lui non la guardava quando lei gliela chiedeva, guardava invece l’orologio. La sua faccia aveva sempre la stessa espressione qualunque fosse
la risposta. Talvolta gliela dava senza una parola, e talvolta le diceva di no con una voce morbida come il suo pene coperto dai pantaloni. In quei casi mia madre lo supplicava e si lamentava. Piangeva e le sue lacrime cadevano nella direzione sbagliata.
Non colavano lungo le guance agli angoli della bocca, ma dai lati degli occhi alle orecchie e ai capelli sparsi sul cuscino.
Non visse un anno. Non visse fino a ottobre né fino ad agosto o a maggio. Visse quarantanove giorni dopo che il primo medico di Duluth le aveva detto che aveva il cancro; trentaquattro dopo il colloquio con il dottore della Mayo Clinic. Ma furono
giornate eterne, una dopo l’altra, un freddo chiarore all’interno di una fitta caligine.
Leif non venne a trovarla. Karen venne una volta dopo che io avevo insistito che doveva. Ero in preda a un’incredulità straziata e rabbiosa. «Non mi piace vederla così» diceva debolmente mia sorella quando parlavamo, e poi scoppiava a
piangere. Non riuscii a parlare con mio fratello: dove fosse durante quelle settimane rimase un mistero per me e per Eddie. Un amico ci disse che stava con una ragazza di nome Sue a St Cloud. Un altro lo vide mentre pescava in un buco nel ghiaccio sul
lago Sheriff. Non avevo tempo per far molto, presa com’ero a rimanere accanto a mia madre, reggendole contenitori di plastica mentre vomitava, sistemando in continuazione cuscini che non andavano mai bene, aiutandola a sedersi sulla comoda che gli
infermieri le avevano messo vicino al letto, insistendo perché mangiasse un boccone di cibo che avrebbe rigettato dieci minuti dopo. Per la maggior parte del tempo la guardavo dormire, la cosa più straziante di tutte vederla riposare, il viso ancora contratto
in una smorfia di dolore. Ogni volta che si muoveva, faceva ondeggiare le flebo appese tutt’attorno a lei e a me batteva forte il cuore, per paura che gli aghi infilati nei polsi e nelle mani tumefatte si strappassero.
«Come stai?» tubavo speranzosa quando si svegliava, allungando la mano in mezzo ai tubi per sistemarle i capelli in disordine.
La maggior parte delle volte le uniche parole che riusciva a dire erano: «Oh, tesoro». Poi distoglieva lo sguardo.
Quando mia madre dormiva vagavo per i corridoi dell’ospedale, lo sguardo che guizzava nelle camere degli altri pazienti mentre passavo davanti alle porte aperte, intravedendo di sfuggita uomini anziani dal colorito violaceo afflitti da una brutta
tosse e donne con bende sulle ginocchia grasse.
«Come sta andando?» mi chiedevano le infermiere in tono malinconico.
«Teniamo duro» rispondevo, come se io fossi un noi.
Ma ero da sola. Paul, mio marito, faceva tutto quello che poteva perché avvertissi meno la solitudine. Era ancora l’uomo gentile e affettuoso di cui mi ero innamorata pochi anni prima, l’uomo che avevo amato così ardentemente da scioccare tutti
quanti sposandomi ad appena vent’anni, ma quando mia madre iniziò a morire, qualcosa dentro di me si spense nei confronti di Paul, indipendentemente da quello che diceva o faceva. Continuavo a chiamarlo tutti i giorni dal telefono pubblico dell’ospedale
durante i lunghi pomeriggi, oppure da casa di mia madre e di Eddie la sera. Facevamo lunghe conversazioni in cui io piangevo e mi sfogavo e lui piangeva insieme a me, cercando di tirarmi su il morale, ma le sue parole suonavano vuote. Che ne sapeva lui
di cosa significava perdere qualcuno? I suoi genitori erano vivi e ancora felicemente sposati. Il mio legame con lui e con la sua vita meravigliosamente intatta non faceva altro che intensificare il mio dolore. Non era colpa sua. Stare con lui era
intollerabile, ma lo era anche stare con chiunque altro. L’unica persona con cui sopportavo di stare era la persona con cui stavo peggio: mia madre.
Di mattina sedevo accanto al suo letto e cercavo di leggere per lei. Avevo due libri: Il risveglio di Kate Chopin e La figlia dell’ottimista di Eudora Welty. Erano i libri che avevamo letto all’università, libri che amavamo. Così iniziavo, ma non
riuscivo ad andare avanti. Ogni parola che pronunciavo svaniva nell’aria.
Succedeva la stessa cosa quando cercavo di pregare. Pregavo con fervore, rabbiosamente, Dio, qualunque dio, un dio che non riuscivo a identificare né a trovare. Maledicevo mia madre, che non mi aveva impartito alcun insegnamento religioso.
Piena di risentimento per l’educazione cattolica repressiva in cui era cresciuta, da adulta aveva evitato qualunque chiesa, e adesso stava morendo e io non avevo un Dio a cui rivolgermi. Pregavo l’intero universo e speravo che Dio fosse lì, ad ascoltarmi.
Pregai e pregai, e poi vacillai. Non perché non riuscivo a trovare Dio, ma perché all’improvviso l’avevo trovato: Dio era lì, mi resi conto, e non aveva alcuna intenzione di far sì che le cose accadessero o meno, né di salvare la vita di mia madre. Dio era
senza cuore.
Gli ultimi due giorni della sua vita mia madre fu lucida solo a tratti. A quel punto le davano la morfina con la flebo, una sacca chiara di liquido che scorreva lentamente in un tubo incerottato al polso. Quando si svegliava, esclamava: «Oh, oh».
Oppure emetteva un triste singulto. Mi guardava, e si accendeva un lampo d’amore. Talvolta non sapeva dove fosse. Chiedeva un’enchilada e poi composta di mele. Era convinta che tutti gli animali che aveva amato fossero nella stanza con lei… e ce
n’erano molti. Diceva: «Quel cavallo per poco non mi calpestava» e si guardava attorno con espressione accusatoria, oppure muoveva le mani per accarezzare un gatto invisibile sdraiato al suo fianco. In quei momenti volevo che mia madre mi dicesse
che ero la figlia migliore del mondo. Non volevo volerlo, eppure, non so come, era così, quasi soffrissi di una febbre bruciante che poteva essere lenita solo da quelle parole. Arrivavo al punto di chiederglielo apertamente: «Sono la figlia migliore del
mondo?».
Lei rispondeva di sì, lo ero, certo.
Ma non bastava. Volevo che quelle parole fossero tessute nella mente di mia madre e poi consegnate, nuove, a me.
Ero avida d’amore.
Mia madre morì in fretta ma non all’improvviso: un fuoco che brucia lento dopo che le fiamme sono diventate fumo e il fumo è svanito nell’aria. Non ebbe il tempo di diventare pelle e ossa. Era cambiata ma ancora in carne quando morì, il corpo
di una donna viva. Aveva tutti i suoi capelli, castani e arruffati per essere rimasta a letto settimane.
Dalla finestra della stanza dove morì potevo vedere il grande Lago Superiore. Il secondo lago più grande del mondo, e sicuramente il più freddo. Per vederlo, dovevo sforzarmi. Premevo forte il viso di traverso contro il vetro della finestra e
scorgevo un pezzetto del lago comparire all’orizzonte.
«Una stanza con un panorama!» esclamava mia madre, sebbene fosse troppo debole per alzarsi e guardare il lago. Poi, a voce più bassa, aggiungeva: «È tutta la vita che desidero una camera con vista».
Voleva morire seduta, così io presi tutti i cuscini su cui riuscii a mettere le mani e le costruii un sostegno per la schiena. Avrei voluto portarla a morire in un campo di millefoglie, lontana da quella stanza d’ospedale. La coprii con una trapunta che
avevo portato da casa, un patchwork che aveva fatto lei usando pezzi dei nostri vecchi vestiti.
«Portala fuori di qui» ringhiò selvaggiamente, poi scalciò con le gambe come un nuotatore per liberarsi della trapunta.
Guardai mia madre. All’esterno il sole scintillava sui marciapiedi e sulle creste gelate dei mucchi di neve. Era il giorno di san Patrizio e gli infermieri le avevano portato un blocco quadrato di gelatina verde che tremolava sul tavolino accanto.
Quello sarebbe stato l’ultimo giorno di vita di mia madre, e per la maggior parte del tempo lei tenne gli occhi fissi e aperti, né addormentata né sveglia, a tratti lucida e a tratti in preda alle allucinazioni.
Quella sera la lasciai, anche se non volevo. Gli infermieri e i medici avevano detto a me e a Eddie che “c’eravamo”. Io credetti significasse che sarebbe morta nel giro di un paio di settimane. Ero convinta che la gente con il cancro morisse
lentamente. Karen e Paul sarebbero arrivati insieme da Minneapolis la mattina dopo e aspettavamo i genitori di mia madre dall’Alabama nel giro di un paio di giorni, ma Leif era ancora introvabile. Eddie e io avevamo chiamato gli amici di Leif e i genitori
dei suoi amici, lasciando messaggi imploranti, chiedendogli di telefonare, ma lui non l’aveva fatto. Decisi di allontanarmi dall’ospedale per una notte, così l’avrei trovato e l’avrei trascinato al capezzale di nostra madre una volta per tutte.
«Torno domattina» dissi a mia madre. Guardai Eddie, semisdraiato sulla poltrona di vinile. «Porto Leif.»
Quando udì il suo nome, mia madre aprì gli occhi: azzurri e luminosi, com’erano sempre stati. Nonostante tutto, non erano cambiati.
«Come fai a non essere arrabbiata con lui?» le chiesi con amarezza, forse per la decima volta.
«Non puoi cavar sangue da una rapa» rispondeva di solito. Oppure: «Cheryl, ha solo diciotto anni». Ma questa volta si limitò a fissarmi e disse: «Tesoro», come la volta che mi ero arrabbiata perché non riuscivo a metterle le calze. Con lo stesso
tono che usava sempre quando mi vedeva soffrire perché volevo che le cose fossero diverse da com’erano e lei cercava di convincermi con quell’unica parola che dovevo accettarle per quelle che erano.
«Domani saremo tutti insieme» dissi. «E rimarremo qui con te, va bene? Nessuno di noi se ne andrà.» Allungai la mano tra i tubi che la circondavano e le accarezzai una spalla. «Ti voglio bene» dissi, chinandomi per darle un bacio sulla guancia,
ma lei si ritrasse, troppo sofferente per sopportare persino un bacio.
«Bene» sussurrò, troppo debole per dire anche “ti voglio…”. «Bene» ripeté mentre io uscivo dalla stanza.
Presi l’ascensore e uscii al freddo, mettendomi a camminare lungo il marciapiede. Oltrepassai un bar zeppo di gente che vedevo attraverso una grande vetrina di cristallo. Indossavano tutti cappellini di carta verde brillante, magliette verdi,
bretelle verdi e bevevano birra verde. Un uomo incrociò il mio sguardo e mi indicò con fare da ubriaco, il viso attraversato da una risata muta.
Tornai a casa in auto, diedi da mangiare ai cavalli e alle galline, poi presi il telefono, con i cani che mi leccavano le mani grati, il gatto che mi si arrampicava in grembo. Chiamai tutti quelli che avrebbero potuto sapere dov’era mio fratello.
Beveva un sacco, mi disse qualcuno. Sì, era vero, dissero altri, si vedeva con una ragazza di St Cloud di nome Sue. A mezzanotte telefonò e gli dissi che “c’eravamo”.
Quando Leif entrò dalla porta mezz’ora dopo, avrei voluto urlargli contro, scrollarlo con rabbia e accusarlo, ma quando lo vidi l’unica cosa che riuscii a fare fu abbracciarlo e piangere. Sembrava vecchio come me, quella notte, e al tempo stesso
molto giovane. Per la prima volta, mi resi conto che era diventato un uomo, eppure potevo vedere quanto fosse ancora un ragazzino. Il mio ragazzino, il fratello che avevo protetto per metà della mia vita, non avendo altra scelta se non aiutare mia madre
tutte le volte che lei era fuori a lavorare. Tra me e Karen c’erano tre anni di differenza, ma eravamo cresciute come se fossimo gemelle, entrambe ugualmente responsabili di Leif quando eravamo piccole.
«Non ce la faccio» continuava a ripetere tra le lacrime. «Non ce la faccio a vivere senza mamma. Non ce la faccio. Non posso.»
«Dobbiamo» ribattei, anche se io per prima faticavo a crederci. Rimanemmo sdraiati sul suo letto singolo a parlare e a piangere facendo le ore piccole, finché scivolammo nel sonno uno accanto all’altra.
Mi svegliai poche ore dopo e prima di chiamare Leif diedi da mangiare agli animali e preparai buste di cibo che sarebbero servite durante la veglia in ospedale. Alle otto eravamo in macchina diretti a Duluth, con mio fratello che guidava troppo
forte l’auto di nostra madre e dagli altoparlanti usciva a tutto volume Joshua Tree degli U2. Ascoltammo con attenzione la musica senza parlare, con il sole basso che faceva scintillare la neve ai bordi della strada.
Quando arrivammo alla stanza di mia madre, sulla porta vedemmo un biglietto che diceva di andare alla postazione degli infermieri prima di entrare. Era una novità, ma io pensai che fosse solo una questione di procedure. Mentre percorrevamo il
corridoio, ci avvicinò un’infermiera e, prima che potessi aprir bocca, disse: «Le abbiamo messo il ghiaccio sugli occhi. Lei voleva donare le cornee, così dobbiamo tenere il ghiaccio…».
«Cosa?» dissi con tale veemenza da farla sobbalzare.
Non aspettai la risposta. Corsi verso la stanza di mia madre, con mio fratello alle calcagna. Quando aprii la porta, Eddie si alzò e ci venne incontro con le braccia aperte, ma lo scansai e mi gettai su mia madre. Aveva le braccia ceree
abbandonate lungo i fianchi, gialle e bianche e nere e blu, niente più aghi né flebo. Gli occhi erano coperti da un paio di guanti da chirurgo pieni di ghiaccio, le dita grassocce che ciondolavano grottescamente sul suo viso. Quando la afferrai, i guanti
scivolarono giù. Rimbalzarono sul letto, poi caddero sul pavimento.
Gridai e ululai, seppellendo la faccia nel suo corpo come un animale. Era morta da un’ora. Gli arti erano freddi, ma la pancia era ancora un’isola di calore. Schiacciai il viso contro il suo ventre e gridai, poi gridai ancora, e ancora.
Non facevo che sognarla. Nei sogni ero sempre con lei quando moriva. Ero stata io a ucciderla. Continuavo a ucciderla. Mi ordinava di farlo e ogni volta cadevo in ginocchio e piangevo, implorandola di non farmelo fare, ma lei non desisteva e
ogni volta, come una brava figlia, alla fine cedevo. La legavo a un albero nel giardino davanti a casa e le versavo in testa della benzina, poi le davo fuoco. Le passavo sopra con il mio furgone sulla strada sterrata che passava davanti alla casa che
avevamo costruito. Trascinavo il suo corpo su un pezzo di metallo tagliente e lo squarciavo, poi mettevo la retromarcia e le passavo sopra di nuovo. Prendevo una mazza da baseball in miniatura e la picchiavo a morte, lentamente, con violenza e strazio.
La mettevo in una buca che avevo scavato e la ricoprivo di terra e pietre, seppellendola viva. Quei sogni non erano surreali. Si svolgevano alla luce del giorno. Erano i documentari del mio subconscio e mi parevano reali come l’esistenza ordinaria. Il mio
pickup era davvero il mio pickup; il giardino davanti a casa era davvero il nostro giardino; la mazza da baseball in miniatura era nell’armadio di casa nostra insieme agli ombrelli.
Da questi sogni non mi svegliavo piangendo. Mi svegliavo urlando. Paul mi afferrava e mi teneva stretta finché non smettevo. Inumidiva una pezzuola con l’acqua fredda e me la metteva sulla fronte. Ma quelle pezzuole bagnate non riuscivano a
lavar via i sogni su mia madre.
Niente poteva farlo. Niente avrebbe potuto. Niente avrebbe nemmeno potuto riportare indietro mia madre o farmi accettare il fatto che se n’era andata. Niente avrebbe potuto far sì che fossi al suo fianco nel momento in cui era morta. Era una
cosa che mi spezzava. Mi distruggeva. Mi faceva precipitare senza fine.
Mi ci vollero anni per ritrovare il mio posto tra le diecimila cose. Per ritornare a essere la donna che mia madre aveva cresciuto. Per ricordare il modo in cui diceva “tesoro” e immaginare il suo particolare sguardo. Soffrivo, e soffrivo. Volevo
che le cose fossero diverse da com’erano. Quel desiderio era una landa selvaggia e io dovevo trovare la mia strada per uscire dal fitto del bosco. Mi ci vollero quattro anni, sette mesi e tre giorni per farlo. Non sapevo dove stessi andando finché non ci
arrivai.
Era un posto chiamato “ponte degli dèi”.
2
LACERATA
Se dovessi disegnare una mappa per illustrare quei quattro e più anni, il tempo trascorso tra il giorno della morte di mia madre e quello in cui iniziai il trekking sul Pacific Crest Trail, il tracciato sarebbe un guazzabuglio di linee in tutte le direzioni,
come una stella filante del Quattro Luglio sparata dal centro del Minnesota. In Texas, e ritorno. A New York, e ritorno. In New Mexico, Arizona, Nevada, California, Oregon, e ritorno. In Wyoming, e ritorno. A Portland, Oregon, e ritorno. A Portland, e di
nuovo indietro. E poi ancora. Ma quelle linee non racconterebbero la storia. La mappa mostrerebbe tutti i posti in cui scappai, ma non i modi in cui cercai di rimanere. Non spiegherebbe come, nei mesi successivi alla morte di mia madre, provai – senza
riuscirci – a riempire il vuoto che lei aveva lasciato nel tentativo di tenere unita la mia famiglia. O come lottai per salvare il mio matrimonio, anche mentre lo stavo condannando con le mie menzogne. Si vedrebbe solo quella rozza stella, con le sue brillanti
strisce luminose che si diramano ovunque.
Quando arrivai a Mojave, California, la sera prima di iniziare il trekking sul Pacific Crest Trail, me ne andai dal Minnesota per l’ultima volta. L’avevo persino detto a mia madre. Non che lei potesse udirmi. Mi ero seduta sull’aiuola nei boschi
della nostra proprietà, dove io, Eddie, Paul, mia sorella e mio fratello avevamo mescolato le sue ceneri con la terra e avevamo posto una lapide, e le avevo spiegato che non sarei più andata a prendermi cura della sua tomba. Il che significava che nessuno
l’avrebbe fatto. Alla fine non ebbi altra scelta se non restituire la sua tomba alle erbacce, alle foglie secche e alle pigne cadute. Alla neve e a qualunque cosa volessero farne le formiche, i cervi, gli orsi bruni e le vespe terraiole. Mi sdraiai sulle ceneri di
mia madre in mezzo ai crochi e le dissi che andava tutto bene. Che mi ero arresa. Che da quando era morta, era cambiato tutto. Cose che lei non avrebbe potuto immaginare, né supporre. Parlavo a voce bassa e monotona. Ero così triste da avere la
sensazione che qualcuno mi stesse soffocando, eppure mi sembrava che da quelle parole dipendesse la mia stessa vita. Sarebbe sempre stata mia madre, le dissi, ma dovevo andare. Comunque, per me lei non era più in quell’aiuola, le spiegai. L’avevo
messa da un’altra parte. Nell’unico posto dove avrei potuto raggiungerla. Dentro di me.
Il giorno dopo lasciai il Minnesota per sempre. Stavo per iniziare il cammino sul Pacific Crest Trail.
Era la prima settimana di giugno. Andai a Portland con il mio pickup Chevy del 1979 carico di una decina di scatoloni pieni di cibo disidratato e attrezzature da campeggio. Avevo trascorso le settimane precedenti a scriverci sopra la destinazione,
indirizzando ciascuna scatola a me stessa in luoghi in cui non ero mai stata, tappe lungo il Pacific Crest Trail con nomi evocativi quali Echo Lake e Soda Springs, Burney Falls e Seiad Valley. Lasciai il pickup e gli scatoloni a Portland alla mia amica Lisa,
incaricata di spedirmi gli scatoloni nel corso dell’estate, e salii su un aereo per Los Angeles, poi mi feci dare un passaggio in macchina dal fratello di un’amica.
Arrivammo in città la sera presto, mentre il sole tramontava dietro i monti Tehachapi, una ventina di chilometri a ovest alle nostre spalle. Montagne che avrei percorso a piedi la mattina dopo. Mojave è a circa ottocentocinquanta metri di altitudine,
anche se io avevo l’impressione di essere sul fondo di qualcosa, con le insegne dei distributori, dei ristoranti e dei motel che svettavano al di sopra dell’albero più alto.
«Puoi lasciarmi qui» dissi all’uomo che mi aveva portata in auto da Los Angeles, indicando un’insegna al neon vecchio stile che diceva
WHITE’S MOTEL, con sopra la parola TELEVISIONE in giallo e sotto la scritta
LIBERO in rosa. A giudicare dall’aspetto trasandato dell’edificio, supposi che fosse il posto più economico della città. Perfetto per me.
«Grazie per il passaggio» dissi, quando ci fermammo nel parcheggio.
«Prego» rispose lui e mi guardò. «Sicura che è tutto a posto?»
«Sì» risposi con finta baldanza. «Ho viaggiato spesso da sola.» Scesi con lo zaino e due enormi sacchetti di plastica pieni di roba. Avrei voluto mettere le cose dei sacchetti nello zaino prima di lasciare Portland, ma non ne avevo avuto il tempo.
Così mi ero portata dietro le buste. Avrei preparato tutto una volta sistemata nella stanza del motel.
«Buona fortuna» disse l’uomo.
Lo guardai andarsene. L’aria rovente sapeva di polvere, il vento secco mi frustava i capelli negli occhi. Il parcheggio era uno spiazzo di minuscoli ciottoli bianchi cementati; il motel una lunga fila di porte e finestre schermate da tende logore. Mi
gettai lo zaino in spalla e raccolsi le sporte di plastica. Sembrava strano avere solo quelle cose. All’improvviso mi sentii esposta, meno esuberante di quanto credevo sarei stata. Negli ultimi sei mesi non avevo fatto altro che pensare a questo momento, ma
adesso che era arrivato – adesso che ero a soli venti chilometri dal Pacific Crest Trail – sembrava meno vivido di quanto era stato nelle mie fantasie, quasi mi trovassi in un sogno; i pensieri lenti e vischiosi, spinta dalla volontà più che dall’istinto. “Entra”
dovetti dire a me stessa prima di muovermi verso la reception del motel. “Chiedi una stanza.”
«Sono diciotto dollari» disse la vecchia che stava dietro il bancone. Poi gettò il suo sguardo duro alle mie spalle, oltre la porta a vetri da cui ero entrata qualche istante prima. «A meno che non abbia un compagno. In quel caso costa di più.»
«Non ho un compagno» dissi e arrossii… chissà perché ogni volta che dicevo la verità avevo l’impressione di mentire. «Il tizio mi ha dato solo un passaggio.»
«Allora per adesso sono diciotto dollari» ribatté lei «ma se la raggiunge un compagno dovrà pagare di più.»
«Non arriverà nessun compagno» dissi con calma. Tirai fuori una banconota da venti dollari dalla tasca dei pantaloncini e la feci scivolare sul bancone verso di lei. Lei la prese e mi restituì due dollari insieme a un modulo da compilare con una
penna attaccata a una catenella di metallo. «Sono a piedi, quindi non posso riempire la parte riguardante la macchina» dissi, indicando il modulo. Sorrisi, ma lei non restituì il sorriso. «E poi… non ho un indirizzo. Sono in viaggio, perciò…»
«Scrivi l’indirizzo dove tornerai» disse lei.
«Vede, è proprio questo il punto. Non so dove vivrò dopo perché…»
«Quello dei tuoi, allora» berciò lei. «Ovunque sia.»
«Okay» dissi, e scrissi l’indirizzo di Eddie, anche se per la verità il mio legame con Eddie nei quattro anni passati da quando era morta mia madre era diventato così penoso e distante che non riuscivo più a considerarlo il mio patrigno. Non avevo
“casa”, sebbene la casa che avevamo costruito fosse ancora in piedi. Karen, Leif e io eravamo indissolubilmente legati in quanto fratelli, ma ci parlavamo e ci vedevamo di rado, avevamo vite diametralmente opposte. Paul e io avevamo divorziato il mese
prima, dopo una separazione straziante durata un anno. Avevo amici carissimi che talvolta consideravo la mia famiglia, ma il nostro legame era intermittente, familiare più a parole che nei fatti. «Il sangue non è acqua» diceva sempre mia madre quando
ero piccola, un’opinione che avevo spesso contestato. Ma poi era saltato fuori che non importava se lei avesse ragione o torto. Sia il sangue sia l’acqua mi erano scivolati tra le dita.
«Ecco» dissi, spingendo il modulo verso la donna, anche se lei non mi degnò di un’occhiata per parecchi secondi. Guardava un piccolo televisore posato su un tavolo dietro il bancone. Il telegiornale della sera, qualcosa sul processo a O.J.
Simpson.
«Pensi che sia colpevole?» mi chiese, continuando a fissare lo schermo.
«Sembra di sì, ma penso che sia troppo presto per dirlo. Non abbiamo ancora tutte le informazioni.»
«Certo che lo è!» urlò lei.
Quando finalmente mi diede una chiave, attraversai il parcheggio verso una porta all’estremità dell’edificio, la aprii ed entrai, appoggiando le mie cose e sedendomi sul letto soffice. Ero nel deserto del Mojave, ma la stanza era stranamente
umida, con un odore di moquette bagnata e disinfettante. Una scatola di metallo bianco con le alette in un angolo della stanza si accese con un rombo… un condizionatore che sparò aria ghiacciata per pochi minuti e poi si spense con un teatrale clangore
metallico che non fece altro che esacerbare la mia sensazione di ansiosa solitudine.
Presi in considerazione l’idea di uscire a cercarmi un compagno. Era così facile. Gli anni trascorsi erano stati una vera e propria abbuffata di relazioni durate una notte… due… tre. Adesso mi sembravano così assurde, tutta quell’intimità con
persone che non amavo, eppure bramavo ancora la sensazione primordiale di un corpo premuto contro il mio, che mi faceva dimenticare tutto il resto. Mi alzai per scacciare quei pensieri, per smettere di sentirmi risuonare in testa il ritornello: “Potrei
andare in un bar. Potrei lasciare che un uomo mi offra da bere. Potremmo essere di ritorno qui in men che non si dica”.
Appena sotto a quel desiderio c’era l’impulso di chiamare Paul. Adesso era il mio ex marito, ma era ancora il mio migliore amico. Per quanto mi fossi allontanata da lui negli anni successivi alla morte di mia madre, era sempre stato il mio sostegno.
Mentre mi tormentavo, per la maggior parte in silenzio, sul nostro matrimonio, avevamo passato dei bei momenti insieme ed eravamo stati, in modo bizzarramente reale, “una coppia felice”.
La scatola di metallo nell’angolo si accese di nuovo e io mi misi davanti alle alette, lasciando che l’aria fredda mi soffiasse sulle gambe nude. Avevo addosso i vestiti con cui ero partita da Portland la sera prima, tutti nuovi di zecca. Era la mia
tenuta da trekking e mi faceva sentire un po’ strana, come la persona che non ero ancora diventata. Calzettoni di lana infilati in un paio di scarponi da trekking in pelle con ganci metallici. Pantaloncini blu scuro con tasche che si chiudevano con strisce di
velcro. Biancheria intima di un materiale tecnico che si asciugava rapidamente e una semplice maglietta bianca con sotto un reggiseno sportivo.
Erano alcune delle molte cose che avevo acquistato con i risparmi di tutto l’inverno, facendo più turni possibile al ristorante dove servivo ai tavoli. Quando li avevo acquistati non mi erano sembrati estranei. Nonostante le mie recenti incursioni tra
le insidie della vita urbana, mi si poteva facilmente descrivere come una persona appassionata di attività all’aperto. In fin dei conti, avevo trascorso l’adolescenza in un posto senza comodità nei boschi settentrionali del Minnesota. Le vacanze di famiglia
avevano sempre previsto qualche forma di campeggio, e lo stesso era successo durante i viaggi fatti con Paul, da sola o con gli amici. Avevo dormito nel cassone del pickup, avevo fatto campeggio nei parchi e nelle foreste nazionali più volte di quante
potessi ricordare. Ma all’improvviso sentii di non essere sincera. Nei sei mesi trascorsi da quando avevo deciso di fare il Pacific Crest Trail, c’erano state almeno una decina di occasioni in cui avevo spiegato perché quella decisione era una buona idea e
come fossi ben preparata per la sfida. Adesso invece, sola nella mia stanza del White’s Motel, ebbi la consapevolezza di trovarmi su un terreno infido.
«Forse dovresti iniziare con un percorso più breve» mi aveva suggerito Paul quando gli avevo parlato del mio progetto durante una delle discussioni sull’opportunità o meno di tenere in piedi il nostro matrimonio, avvenuta parecchi mesi prima.
«Perché?» avevo chiesto con irritazione. «Non credi che possa farcela?»
«Non è questo» aveva detto. «È solo che per quanto ne so non hai mai camminato con lo zaino sulle spalle.»
«E invece sì!» ribattei indignata, anche se aveva ragione: non l’avevo mai fatto. Nonostante tutte le cose analoghe che mi era capitato di fare, non avevo mai camminato nella natura con lo zaino in spalla rimanendo fuori di notte. Nemmeno una
volta.
“Non ho mai viaggiato con lo zaino in spalla!” pensai adesso con una triste risata. Mi girai di colpo verso lo zaino e le buste di plastica che mi ero portata dietro da Portland, con dentro cose che non avevo nemmeno tolto dalla confezione. Lo
zaino era verde scuro, bordato di nero, fatto di tre grossi comparti con capienti tasche di rete e nylon su entrambi i lati, simili a grandi orecchie. Stava in piedi da solo, sostenuto dal fondo di plastica rigida che sporgeva dalla base. Il fatto che stesse dritto a
quel modo invece di afflosciarsi come altri sacchi mi diede una bizzarra consolazione, per quanto piccola. Mi avvicinai e ne toccai la sommità come se stessi accarezzando la testa di un bambino. Un mese prima, mi era stato caldamente consigliato di
preparare lo zaino come se dovessi partire per il trekking e di portarmelo dietro per una prova. Avevo intenzione di farlo prima di lasciare Minneapolis, e poi mi ero ripromessa di farlo una volta arrivata a Portland. Ma non l’avevo fatto. La prova sarebbe
avvenuta la mattina dopo… il mio primo giorno sul Pacific Crest Trail.
Frugai dentro una delle buste di plastica e tirai fuori un fischietto arancione, la cui etichetta dichiarava che era “il più potente del mondo”. Aprii la confezione e lo sollevai tenendolo per il cordino giallo, poi me lo misi al collo, come se fossi un
allenatore. Dovevo forse camminare tenendolo in quel modo? Sembrava stupido, ma non ne avevo idea. Al pari di molte altre cose, quando avevo comprato il fischietto più potente del mondo non ci avevo pensato. Lo tolsi e lo legai alla struttura dello
zaino, in modo che mi penzolasse sulla spalla mentre camminavo. Così sarebbe stato facile da raggiungere, nel caso ne avessi avuto bisogno.
Ne avrei avuto bisogno? mi chiesi con cupa umiltà, e mi lasciai cadere sul letto. L’ora di cena era passata da un pezzo, ma io ero troppo ansiosa per avere fame, la solitudine un peso sgradevole sullo stomaco.
«Finalmente hai ottenuto quello che volevi» aveva detto Paul quando ci eravamo salutati a Minneapolis dieci giorni prima.
«E cioè?» avevo chiesto.
«Stare da sola» aveva ribattuto con un sorriso, ma io mi ero limitata ad annuire esitante.
Era quello che volevo, anche se la solitudine non c’entrava niente. A quanto pareva, quando si trattava di amore ciò che volevo era qualcosa che ero incapace di spiegare. Il fallimento del mio matrimonio era stato un lungo disfacimento iniziato
con una lettera arrivata una settimana dopo la morte di mia madre, anche se le sue origini erano ancora più remote.
La lettera non era per me. Era per Paul. Per quanto il dolore fosse cocente, quando vidi il mittente mi precipitai eccitata nella nostra camera da letto e tesi la lettera a Paul. Veniva dalla New School di New York. In un’altra vita – solo tre mesi
prima, quando ancora non sapevo che mia madre avesse il cancro – l’avevo aiutato a fare richiesta per un dottorato in filosofia politica. A metà gennaio, l’idea di vivere a New York era parsa la cosa più entusiasmante del mondo. Ma adesso, alla fine di
marzo, mentre lui apriva la busta ed esclamava di essere stato accettato, mentre io lo abbracciavo e sembravo festeggiare la buona notizia, mi sentii lacerata a metà. C’era la donna che ero prima che mia madre morisse e quella che ero adesso, la mia
vecchia vita stampata sulla superficie di me stessa come un livido. Il mio vero io era nascosto, sepolto e pulsante sotto tutte le cose che ero convinta di sapere. Di come mi sarei laureata in giugno e saremmo partiti un paio di mesi dopo. Di come avremmo
affittato un appartamento nell’East Village o in Park Slope… posti che avevo solo immaginato e di cui avevo letto. Di come avrei indossato buffi poncho con adorabili berretti fatti a maglia e stivali bizzarri mentre diventavo una scrittrice avvolta dallo
stesso alone romantico e squattrinato dei miei eroi letterari.
Adesso tutto ciò era impossibile, non importava che cosa dicesse la lettera. Mia mamma era morta. Mia mamma era morta. Mia mamma era morta. Tutto quello che avevo immaginato di me stessa era svanito nella crepa del suo ultimo respiro.
Non potevo andarmene dal Minnesota. La mia famiglia aveva bisogno di me. Chi sarebbe stato al fianco di Leif mentre diventava adulto? Chi si sarebbe preso cura di Eddie nella sua solitudine? Chi avrebbe preparato la cena del Ringraziamento e
portato avanti le tradizioni di famiglia? Qualcuno doveva tenere insieme ciò che rimaneva della nostra famiglia, e quel qualcuno dovevo essere io. Dovevo almeno quello, a mia madre.
«Dovresti andare senza di me» dissi a Paul che teneva in mano la lettera. E lo ripetei più e più volte mentre discutevamo nelle settimane successive, con la mia determinazione che cresceva di giorno in giorno. Parte di me era terrorizzata all’idea
che mi lasciasse; un’altra parte sperava disperatamente che lo facesse. Se se ne fosse andato, la porta del nostro matrimonio si sarebbe chiusa di schianto senza che io fossi costretta a darle un calcio. Sarei stata libera e non sarebbe stata colpa mia. Lo
amavo, ma quando ci eravamo sposati ero impulsiva e avevo diciannove anni, neppure lontanamente pronta a impegnarmi con un’altra persona, non importa quanto mi fosse cara. Sebbene avessi provato attrazione per altri uomini poco dopo essermi
sposata, mi ero controllata, ma non potevo più farlo. Il dolore aveva cancellato la mia capacità di trattenermi. Mi era stato negato così tanto, ragionavo. Perché dovrei negare me stessa?
Mia madre era morta da una settimana quando baciai un altro uomo. E un altro una settimana dopo. Con loro e con gli altri che seguirono mi limitai a pomiciare – promettendo di non oltrepassare un confine sessuale che per me aveva ancora un
significato –, eppure sapevo di sbagliare con quei sotterfugi e quelle menzogne. Mi sentivo intrappolata dalla mia incapacità sia di lasciare Paul sia di essere sincera, così aspettai che fosse lui a lasciarmi, andando a frequentare il dottorato da solo, ma
ovviamente lui si rifiutò di farlo.
Rimandò l’ammissione di un anno e rimanemmo in Minnesota perché io potessi stare vicina alla mia famiglia, anche se la mia vicinanza servì a poco. Venne fuori che non ero in grado di tenere assieme i miei familiari. Non ero mia mamma. Fu
soltanto dopo la sua morte che compresi cosa era davvero: la forza apparentemente magica e invisibile al centro della nostra famiglia che ci aveva tenuti tutti quanti nella sua potente orbita. Senza di lei, a poco a poco, Eddie divenne un estraneo e Leif,
Karen e io ci allontanammo. Per quanto avessi lottato strenuamente perché le cose andassero in modo diverso, alla fine dovetti ammetterlo: senza mia madre non eravamo ciò che eravamo stati; eravamo quattro persone che fluttuavano ognuna per conto
suo tra i relitti del nostro dolore, legati solo da un filo esilissimo. Non preparai mai la cena del Ringraziamento. Quando arrivò il giorno del Ringraziamento, otto mesi dopo la morte di mia madre, parlavo della mia famiglia usando il passato.
Sicché, quando finalmente Paul e io ci trasferimmo a New York, un anno dopo rispetto al previsto, fui felice di andarmene. Pensavo che avrei potuto ricominciare daccapo. Avrei smesso di fare casino con gli uomini. Avrei smesso di provare quel
dolore straziante. Avrei smesso di accanirmi sulla famiglia che avevo avuto. Sarei stata una scrittrice che viveva a New York. Avrei passeggiato indossando stivali bizzarri e un delizioso berretto fatto a maglia.
Non andò così. Ero quella che ero: la stessa donna che pulsava sotto l’escoriazione della sua vecchia vita, solo che adesso ero in un’altra città.
Durante il giorno scrivevo storie; la sera servivo ai tavoli e pomiciavo con uno dei due uomini con cui non stavo “oltrepassando il confine”. Eravamo a New York solo da un mese quando Paul lasciò perdere il dottorato, decidendo invece che
voleva suonare la chitarra. Sei mesi dopo, mollammo tutto quanto e tornammo per un breve periodo in Minnesota prima di attraversare l’Ovest in un tour on the road che durò un mese e ci fece compiere un ampio cerchio, portandoci nel Grand Canyon e
nella Valle della Morte, a Big Sur e a San Francisco. Al termine del viaggio, sul finire della primavera, approdammo a Portland e trovammo lavoro nei ristoranti, stando prima dalla mia amica Lisa nel suo minuscolo appartamento e poi in una fattoria a
sedici chilometri dalla città, dove – in cambio di badare a una capra, a un gatto e a un pollaio di galline esotiche – ottenemmo ospitalità gratis per l’estate. Tirammo giù il futon dal pickup e lo mettemmo in salotto, sotto un’enorme finestra che si affacciava
su un noccioleto. Facevamo lunghe passeggiate, raccoglievamo frutti di bosco e facevamo l’amore. “Posso farlo” pensavo. “Posso essere la moglie di Paul.”
Ma mi sbagliavo, di nuovo. Potevo essere solo quella che sembrava dovessi essere. Ora più di prima. Non ricordavo nemmeno la donna che ero prima che la mia vita si spezzasse in due. Vivendo in quella piccola fattoria ai margini di Portland,
qualche mese dopo il secondo anniversario della morte di mia madre, non mi preoccupai più di non oltrepassare il confine. Quando Paul accettò un’offerta di lavoro a Minneapolis che lo costringeva a tornare in Minnesota, a metà strada dalla nostra
sistemazione per musicisti a base di galline esotiche, io rimasi in Oregon e mi scopai l’ex fidanzato della donna che possedeva le galline. Mi scopai il cuoco del ristorante dove avevo trovato lavoro come cameriera. Mi scopai un massaggiatore che mi
aveva offerto un pezzo di torta alla banana e un massaggio gratis. Tutti e tre nel giro di cinque giorni.
Mi sembrava che fosse così che si sentiva la gente che andava dritto al sodo. Non carini, ma franchi. Non buoni, ma senza rimpianti. Cercavo di guarire. Cercavo di scacciare il male da me in modo da tornare a star bene. Di curarmi da sola. Alla
fine dell’estate, quando tornai a Minneapolis per vivere con Paul, ero convinta di averlo fatto. Pensavo di essere diversa, migliore, a posto. E per un periodo lo fui, veleggiando fiduciosa nell’autunno e quindi nel nuovo anno. Poi ebbi un’altra storia. Sapevo
di essere arrivata al capolinea, non potevo reggere oltre. Dovevo dire a Paul le parole che avrebbero spezzato la mia vita. Non che non lo amavo, ma che dovevo stare sola, anche se non sapevo perché.
Mia madre era morta da tre anni.
Quando dissi tutte le cose che dovevo dire, ci lasciammo cadere sul pavimento e singhiozzammo. Il giorno dopo, Paul se ne andò. A poco a poco informammo gli amici che ci stavamo separando. Speravamo di superare la crisi, dicemmo. Non
stavamo necessariamente divorziando. Sulle prime, la reazione fu di incredulità… sembravamo così felici, dissero tutti. Poi arrivò la rabbia: non contro di noi, ma contro di me. Una delle mie amiche più care prese la mia fotografia che teneva in una
cornice, la strappò a metà e me la spedì per posta. Un’altra flirtò con Paul. Scoprirlo fu doloroso. Ero gelosa. Ma quando un altro amico mi disse che era esattamente quello che meritavo, non potei ribattere. Rimasi sdraiata sul futon sentendomi quasi
levitare per il dolore.
Tre mesi dopo la separazione eravamo ancora in un limbo angoscioso. Non volevo tornare da Paul né divorziare. Avrei voluto essere due persone per poter fare entrambe le cose. Paul usciva con un sacco di donne, ma io all’improvviso ero
single. Adesso che avevo distrutto il nostro matrimonio a causa del sesso, il sesso era l’ultima cosa che avevo in mente.
«Devi andartene da Minneapolis più in fretta che puoi» disse la mia amica Lisa nel corso di una delle nostre strazianti conversazioni telefoniche notturne. «Vieni da me a Portland» aggiunse.
Nel giro di una settimana lasciai il lavoro da cameriera, caricai il pickup e mi diressi a ovest, percorrendo esattamente la stessa strada che avrei fatto un anno dopo per andare a fare trekking sul Pacific Crest Trail.
Quando arrivai in Montana, seppi di aver fatto la cosa giusta: il grande territorio verde visibile per chilometri dal parabrezza, il cielo che si estendeva ancora più lontano. La città di Portland tremolava oltre, invisibile. Sarebbe stata la mia fuga di
lusso, anche se solo per un breve periodo. Mi sarei lasciata i problemi alle spalle, pensavo.
Invece i problemi crebbero.
3
IN UNA POSIZIONE
VAGAMENTE ERETTA
Quando mi svegliai, il mattino dopo, nella mia stanza del White’s Motel, mi feci una doccia e rimasi in piedi nuda davanti allo specchio, osservandomi mentre mi lavavo i denti. Cercai di provare qualcosa di simile all’eccitazione, ma sentii solo un
cupo disagio. Di tanto in tanto riuscivo a vedermi – a vedermi sul serio – e mi veniva in mente una frase, che mi risuonava in testa come la voce tonante di un dio; mentre guardavo il mio riflesso in quello specchio appannato, la frase fu “la donna con un
buco nel cuore”. Ecco chi ero. Ecco perché avevo desiderato un uomo la sera prima. Ecco perché ero lì, nuda in un motel, con quest’idea insensata di camminare da sola per tre mesi sul Pacific Crest Trail. Misi giù lo spazzolino e mi sporsi verso lo
specchio per guardarmi negli occhi. Sentivo di polverizzarmi internamente come un fiore appassito scosso dal vento. Ogni volta che muovevo un muscolo, un altro petalo veniva strappato via. “Per favore” pensai. “Per favore.”
Mi avvicinai al letto e guardai il mio abbigliamento da trekking. L’avevo preparato con cura sul letto prima di entrare nella doccia, come aveva fatto mia madre per me il primo giorno di scuola. Indossai il reggiseno e la maglietta, e le crosticine
che ancora bordavano il mio nuovo tatuaggio si impigliarono nello scollo della T-shirt. Le tolsi con delicatezza. Era l’unico tatuaggio che avevo: un cavallo blu sul deltoide sinistro. Paul ne aveva uno uguale. Ce l’eravamo fatto fare insieme in onore del
nostro divorzio, diventato effettivo il mese prima. Non eravamo più sposati, ma i tatuaggi sembravano la prova del nostro legame eterno.
Avevo voglia di chiamare Paul ancora più disperatamente della sera prima, però non potevo permettermelo. Mi conosceva troppo bene. Avrebbe percepito il dolore e l’incertezza nella mia voce e avrebbe capito che non era solo l’ansia per il
Pacific Crest Trail. Avrebbe intuito che avevo qualcosa da dire.
Mi misi le calze e mi infilai gli scarponi, andai alla finestra e scostai le tende. Il sole era accecante sui ciottoli bianchi del parcheggio. Dall’altra parte della strada c’era un benzinaio: un buon posto per cercare un passaggio verso il Pacific Trail,
pensai. Quando lasciai andare la tenda la stanza ripiombò nell’oscurità. Mi piaceva così, un bozzolo sicuro che non avrei mai dovuto lasciare, anche se sapevo che era sbagliato. Erano le nove del mattino e fuori faceva già caldo; la scatola bianca
nell’angolo si accese con il solito rombo sparando aria fredda. Nonostante le implicazioni del fatto che stavo per affrontare l’ignoto, avevo nondimeno un posto dove stare: era il primo giorno sul Pacific Crest Trail.
Aprii i comparti dello zaino e tirai fuori tutto, disponendo gli oggetti sul letto. Presi le buste di plastica e le svuotai, quindi fissai la pila di roba. Era tutto quello che dovevo portare per i tre mesi a venire.
C’era una sacca a compressione blu con dentro i vestiti che non indossavo: un paio di pantaloni di pile, una maglietta termica a maniche lunghe, una pesante giacca a vento di pile con il cappuccio, due paia di calzettoni di lana e due ricambi di
biancheria intima, un sottile paio di guanti, un cappellino da sole, un berretto di pile e pantaloni impermeabili. Poi c’era un altro sacco, più robusto, impermeabile all’acqua, pieno fino a scoppiare del cibo che mi sarebbe servito per le due settimane a
venire, prima di arrivare al successivo punto di rifornimento, in un posto chiamato Kennedy Meadows. C’erano un sacco a pelo, una sedia da campeggio che poteva essere smontata per servire da brandina, una lampada da testa come quella che usano i
minatori e cinque corde elastiche da alpinismo. C’erano un purificatore per l’acqua e un minuscolo fornello smontabile, un alto fusto di alluminio con il gas e un accendino rosa. C’erano una piccola pentola incastrata dentro un’altra più grande, utensili da
cucina che si piegavano a metà e un paio di sandali sportivi economici che intendevo mettere al campo, alla fine di ogni giornata. C’era un asciugamano in tessuto ad asciugatura rapida, un portachiavi con un termometro, un’incerata e una tazza di plastica
termica con i manici. C’erano un kit antiveleno e un coltellino svizzero, un binocolo in miniatura in una custodia di finta pelle con la cerniera e un rotolo di corda fluorescente, una bussola che non avevo ancora imparato a usare e un libro che mi avrebbe
insegnato a usarla intitolato Staying Found, che avevo intenzione di leggere sul volo per Los Angeles, anche se poi non l’avevo fatto. C’erano un kit di primo soccorso in una scatola nuovissima di tela rossa che si chiudeva a scatto, un rotolo di carta
igienica in una borsetta con la cerniera e una paletta in acciaio inox con un fodero nero su cui campeggiava la scritta «U-Dig-It», “scavalo”. C’era un piccolo beauty con articoli da toeletta che pensavo mi sarebbero serviti: shampoo e balsamo, sapone,
lozione e deodorante, tagliaunghie, repellente per insetti e crema solare, una spazzola per i capelli e una spugna naturale per il ciclo, un tubetto di burro cacao resistente all’acqua e con il filtro solare. C’erano una torcia e una lanterna con all’interno un
lumino votivo, una candela di ricambio, una sega pieghevole – a cosa servisse, non lo sapevo – e una sacca di nylon verde con dentro la mia tenda. C’erano due borracce di plastica da un litro, una “dromedary bag”, una sacca porta-acqua in grado di
contenerne dieci litri, una borsetta di nylon che si trasformava in un’incerata per riparare il mio zaino e una palla in Gore-Tex che si apriva diventando il mio impermeabile. C’erano cose che avevo portato in caso di emergenza: pile extra, una scatola di
fiammiferi impermeabili, una coperta isotermica e una boccetta di pastiglie di iodio. C’erano due biro e tre libri, oltre a Staying Found, The Pacific Crest Trail, Volume 1: California (la guida che mi aveva indotta a intraprendere quel viaggio, scritta da un
quartetto di autori i quali parlavano in tono pacato ma inflessibile delle difficoltà e delle gratificazioni del cammino), Mentre morivo di William Faulkner e The Dream of a Common Language di Adrienne Rich. C’erano un taccuino per gli schizzi con la
copertina rigida formato A4 con duecento pagine che usavo come diario e una custodia con la cerniera contenente la patente e una piccola somma di denaro contante, un foglio di francobolli e un minuscolo quaderno a spirale con gli indirizzi degli amici
scarabocchiati su poche pagine. C’erano una reflex Minolta X-700 da 35 mm, uno zoom, il flash e un piccolo treppiede telescopico, tutto quanto stipato all’interno di una borsa imbottita da fotografo delle dimensioni di un pallone da calcio.
Non che io fossi una fotografa.
REI
Nei mesi precedenti ero andata almeno una decina di volte al
, un grande magazzino di articoli sportivi di Minneapolis, per acquistare buona parte di quell’attrezzatura. Di rado era stata una cosa semplice. Imparai piuttosto in fretta che
comprare anche solo una borraccia senza aver prima preso in considerazione le ultimissime tecnologie in materia era da folli. Bisognava tener conto dei pro e dei contro dei vari materiali, senza parlare della ricerca che stava dietro al design. E la
borraccia era stata solo una delle cose più semplici e banali che dovevo acquistare. Il resto dell’attrezzatura che mi sarebbe servita era molto più complicato, come mi resi conto dopo essermi consultata con i commessi del
REI, i quali mi chiedevano
speranzosi se potevano aiutarmi ogni volta che mi vedevano in piedi davanti allo scaffale dei fornelli ultraleggeri o vagare tra le tende. Differivano per età, comportamento e propensione per le diverse aree di attività nella natura, ma erano accomunati dal
fatto che tutti quanti loro, nessuno escluso, potevano parlare di attrezzatura con interesse e sottigliezza per una quantità di tempo così sconcertante che alla fine mi confondevo. Gli importava sul serio che il mio sacco a pelo avesse un sistema
antinceppamento delle cerniere lampo e una protezione per il viso che consentiva di stringere il cappuccio senza impedirmi di respirare. Traevano vero piacere dal fatto che il mio purificatore per l’acqua avesse un accessorio pieghettato in fibra di vetro
per aumentare la superficie di scambio. E la loro conoscenza era in qualche modo contagiosa. Quando decisi quale zaino acquistare – un Gregory di primissima qualità con telaio esterno che proclamava di possedere la maneggevolezza e la praticità di
uno zaino con telaio interno – ebbi la sensazione di essere diventata un’esperta di viaggi.
Fu soltanto quando mi ritrovai a fissare quella pigna di attrezzatura scelta tanto meticolosamente ammucchiata sul letto nella mia stanza del motel di Mojave che seppi con profonda umiltà che non era vero.
Mi feci strada tra la montagna di oggetti, cacciandoli e stipandoli e ficcandoli in ogni angolo disponibile dello zaino finché non ci fu più posto nemmeno per uno spillo. Avevo pensato di usare le corde elastiche per attaccare all’esterno dello zaino
– nei punti del telaio progettati a quello scopo – la borsa con il cibo, la tenda, l’incerata, il sacco con i vestiti e la sedia da campo che fungeva anche da brandina, ma adesso era chiaro che avrebbero dovuto trovar posto all’esterno anche altre cose.
Assicurai con le corde tutte le cose previste e poi legai anche altri oggetti: i sandali, la borsa con la macchina fotografica, i manici della tazza termica e la lanterna a candela. Attaccai la paletta completa della sua fodera nera alla cinghia dello zaino e il
portachiavi con il termometro alla cerniera.
Quando ebbi finito, mi sedetti sul pavimento, sudata per lo sforzo, e fissai pacificamente il mio zaino. Poi mi ricordai un’ultima cosa: l’acqua.
Avevo scelto di iniziare il percorso dal posto in cui mi trovavo in quel momento semplicemente perché avevo calcolato che mi ci sarebbero voluti circa cento giorni per arrivare ad Ashland, Oregon: il luogo dove avevo stabilito di concludere il
trekking, visto che mi avevano parlato bene della città e pensavo che sarei potuta rimanere a vivere lì. Mesi prima, avevo tracciato sulla mappa il percorso verso sud con il dito, aggiungendo chilometri e giorni, poi mi ero fermata al passo del Tehachapi,
dove il Pacific Crest Trail incrocia la Highway 58 nell’angolo nord-occidentale del deserto del Mojave, non lontano dalla città di Mojave. Quello di cui non mi ero resa conto fino a un paio di settimane prima era che avrei iniziato il cammino in una delle
zone più aride del Pacific Trail, una sezione in cui nemmeno i camminatori più veloci, più in forma e più esperti sarebbero sempre stati in grado di coprire giornalmente la distanza da una fonte d’acqua all’altra. Per me sarebbe stato impossibile. Pensavo
che mi sarebbero occorsi due giorni per percorrere i ventisette chilometri che mi separavano dalla prima fonte d’acqua, così avrei dovuto portarne con me a sufficienza.
Riempii le due borracce da un litro al rubinetto del bagno e le infilai nelle tasche esterne di rete dello zaino. Tirai fuori la sacca porta-acqua da dove l’avevo ficcata e la riempii al massimo della capienza. Non so quanto pesasse lo zaino quel
primo giorno, ma so che soltanto l’acqua pesava dodici chili. Ed erano dodici chili ingombranti. La sacca porta-acqua assomigliava a un grosso gavettone schiacciato, che sciaguattava, si deformava e mi scivolava dalle mani, contorcendosi sul pavimento
mentre cercavo di legarla allo zaino. La sacca era bordata da fascette regolabili; con grande fatica infilai le corde elastiche nelle fascette, vicino alla borsa della macchina fotografica, alla tazza termica e alla lanterna, finché non mi innervosii al punto
che presi la tazza e la scagliai dall’altra parte della stanza.
Finalmente, quando tutto quello che mi sarei portata fu sistemato al suo posto, su di me scese la calma. Ero pronta a cominciare. Misi l’orologio, mi appesi al collo gli occhiali da sole con il loro cordino di neoprene rosa, indossai il cappellino e
guardai lo zaino. Era enorme e compatto al tempo stesso, moderatamente adorabile e autosufficiente in maniera minacciosa. Aveva una sorta di anima; in sua compagnia non mi sentivo del tutto sola. In piedi, mi arrivava alla vita. Lo afferrai e mi piegai
per sollevarlo.
Non si mosse.
Mi accucciai e lo presi più saldamente per l’intelaiatura, cercando di sollevarlo. E di nuovo non si mosse. Nemmeno di un centimetro. Cercai di sollevarlo usando entrambe le mani, a gambe larghe, mentre tentavo di afferrarlo con una mossa da
lottatore, mettendoci tutto il fiato, la forza e la volontà che avevo, usando ogni singola fibra del mio essere. Niente da fare. Era come cercare di sollevare un Maggiolone Volkswagen. Aveva un aspetto così grazioso, così “pronto” per essere sollevato… ed
era impossibile farlo.
Mi sedetti sul pavimento accanto allo zaino e riflettei sulla situazione. Come avrei potuto trasportare uno zaino per più di milleseicento chilometri su scoscesi sentieri di montagna e attraverso deserti aridi se non riuscivo a spostarlo neppure di un
centimetro in una stanza d’albergo con l’aria condizionata? L’idea era assurda, eppure io dovevo sollevare quello zaino. Non mi era venuto in mente che non ci sarei riuscita. Mi ero limitata a pensare che se avessi messo tutte le cose che mi servivano,
REI
avrebbe comunque avuto un peso che sarei stata in grado di trasportare. I tizi del
avevano ragione, avevano menzionato spesso il peso nei loro soliloqui, ma io non avevo prestato molta attenzione. Sembravano esserci questioni più importanti da
considerare. Ad esempio, se una protezione per il viso avrebbe consentito di stringere il cappuccio del sacco a pelo senza impedirmi di respirare.
Pensai a cosa avrei potuto togliere dallo zaino, ma ogni oggetto mi sembrava così ovviamente irrinunciabile o così necessario in caso di emergenza che non osavo toccarlo. Avrei dovuto tentare di portare lo zaino così com’era.
Mi spostai sulla moquette e diedi la schiena allo zaino, infilai le braccia negli spallacci e agganciai la cinghia che attraversava il petto. Feci un respiro profondo e iniziai a oscillare avanti e indietro per prendere slancio, finché non riuscii a
sollevarmi mettendomi carponi. Lo zaino non era più sul pavimento. Era ufficialmente sulle mie spalle. Sembrava ancora un Maggiolone Volkswagen, solo che adesso sembrava un Maggiolone Volkswagen parcheggiato sulla mia schiena. Rimasi lì qualche
istante, cercando di mettermi in equilibrio. Lentamente, portai i piedi sotto di me e al contempo mi aggrappai al condizionatore con le mani finché fui abbastanza verticale da tentare un sollevamento pesi. L’intelaiatura dello zaino cigolò quando mi
raddrizzai, anch’essa sollecitata dal tremendo peso. Quando fui in posizione eretta – vale a dire, in una posizione vagamente eretta – stringevo in mano la griglia del condizionatore che avevo inavvertitamente strappato nello sforzo di alzarmi.
Non tentai nemmeno di rimetterla al suo posto. Avrei dovuto abbassarmi solo di qualche centimetro, ma anche quella distanza minima era assolutamente fuori questione. Appoggiai il pannello alla parete, agganciai la cinghia attorno ai fianchi e
percorsi la stanza barcollando a passi pesanti, il mio baricentro fuori asse a causa della posizione curva. Il peso mi scavava dolorosamente la carne delle spalle, così strinsi la cinghia attorno ai fianchi nel tentativo di bilanciare il carico, schiacciando la
carne al punto da provocare un rigonfiamento. Lo zaino si ergeva come un mantello dietro di me, torreggiando parecchi centimetri sopra la mia testa e serrandomi in una morsa fino all’osso sacro. La sensazione era spiacevolissima, eppure forse era così
che si sentiva uno che viaggiava con lo zaino.
Non lo sapevo.
Sapevo solo che era ora di andare, così aprii la porta e uscii alla luce.