“Il lavoro servile e le forme di sfruttamento para

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“Il lavoro servile e le forme di sfruttamento para
FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELIO BASSO
“Il lavoro servile
e le forme di sfruttamento paraschiavistico”
Primo Progress Report su:
Ricerca in fase di realizzazione
per conto della
Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati
Dipartimento Affari Sociali della
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Roma, aprile 2000
Gruppo di ricerca:
Giuliana Candia
Francesco Carchedi (Direzione)
Sebastiano Ceschi
Elena de Filippo
Simona La Rocca
Antonella Marrella
Martino Mazzonis (Coordinamento)
Giovanni Mottura
Enrico Pugliese (supervisione scientifica)
Gaetano Scollo
Carlo Tagliacozzo
1
Indice
1. Introduzione
di Francesco Carchedi
pag. 3
2. Lavoro schiavo: le dimensioni di un concetto
di Enrico Pugliese
pag.14
3. Il quadro normativo
di Simona La Rocca
pag. 18
4. Cenni sullo sfruttamento del lavoro minorile
di Gaetano Scollo
pag. 35
5. La condizione servile e paraschiavistica nei
rapporti lavorativi
di Sebastiano Ceschi
pag. 38
6. Le diverse configurazioni della prostituzione straniera
pag. 54
e della tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale
di Francesco Carchedi
7. Popolazioni zingare e sfruttamento dei minori
di Martino Mazzonis
pag. 61
Allegati
1. Atti del Seminario del 24 gennaio 2000
2. Schede di intervista
3. Schede bibliografiche
4. Elenco delle strutture di Roma che lavorano con i minori
5. Elenco dei testimoni privilegiati
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1.
Introduzione
1.1 Lo stato di avanzamento
L’indagine che la Fondazione Internazionale Lelio Basso sta svolgendo su:
“Lavoro servile e forme di sfruttamento para-schiavistico” ha l’obiettivo di
esplorare le forme di sottomissione coatta che da qualche anno a questa parte
si registrano a scapito di segmenti della popolazione straniera. La ricerca è
iniziata formalmente nella seconda metà di novembre (’99) e si snoderà per
circa un anno (cioè per tutto il 2000). Sono interessate direttamente diverse
aree geografiche: quella laziale (in particolare Roma e Latina), quella campana
(in particolare Napoli e Caserta) e quella piemontese (in particolare l’area
metropolitana torinese). In ciascuna area sono stati coinvolti ricercatori con
esperienza relativa alle problematiche dell’immigrazione straniera e delle forme
di marginalità sociali.
Al momento (mese di aprile) l’indagine ha concluso la prima fase di raccolta,
selezione ed analisi della letteratura sulle tematiche allo studio e su quelle ad
esse
0 adiacenti (novembre ’99 – gennaio ’98). Una seconda fase si è
caratterizzata per una riflessione approfondita che ha coinvolto anche
osservatori e studiosi esterni al gruppo di ricerca. Riflessione che si è
concretizzata con la realizzazione di un seminario effettuato presso la
Fondazione Internazionale Lelio Basso (a fine gennaio 2000). Da questo lavoro
complessivo sono stata tracciata una definizione di lavoro servile e una di
lavoro para-schiavistico, nonché sono state tracciate considerazioni di carattere
metodologico: sia con la costruzione di una griglia concettuale di riferimento per
l’intero processo di ricerca, sia attraverso il disegno operativo per guidare la
così detta discesa sul campo. Dalla griglia concettuale si è passati alla
costruzione (anche se ancora provvisoria) degli strumenti tecnici di indagine,
consistenti in una scheda composta da differenti moduli a seconda delle aree
problematiche allo studio.
Il presente Progress report sintetizza dunque l’attività di ricerca svolta sino ad
ora e le principali acquisizioni teorico-pratiche raggiunte dal gruppo di lavoro
appositamente costruito, sulla base della (scarsa) letteratura reperibile sugli
argomenti oggetto di indagine. Si tratta infatti di una ricerca sostanzialmente
inedita nel panorama italiano, a parte l’argomento specifico della tratta di donne
a scopo di sfruttamento sessuale. Su tale argomento esistono già delle indagini
specifiche e altrettanti programmi di politiche sociali di contrasto da parte delle
istituzioni del settore (cfr. Programma di interventi di protezione sociali relativi
l’art. 18 del Testo unico n. 286/98).
Al momento possiamo affermare che la condizione servile e la condizione paraschiavistica si determina come situazione de facto che trova spazio in ambiti
marginali dell’organizzazione sociale. Queste situazioni sono messe in atto da
gruppi di popolazione particolarmente dediti all’illegalità (imprenditori senza
scrupoli, etc.) o da gruppi delinquenziali dediti a traffici illegali diversificati. Non
trattandosi di una condizione legittimata legalmente, come accadeva negli
ordinamenti statali di carattere razziale e xenofobo, si manifesta negli interstizi
marginali della società e in maniera del tutto illegale.
La pressione sociale negativa che investe queste pratiche di violenza
sottomissoria e di sfruttamento radicale spinge il fenomeno ad occultarsi e a
mimetizzarsi con pratiche sociali criticabili ma in qualche maniera quasi
tollerate, come ad esempio il lavoro precario. Oppure, anche se il problema è di
diversa natura, con modalità differenti nelle forme di prostituzione ordinaria dove si evidenziano tra l’altro tracce di volontarietà e di condiscendenza da
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parte delle donne coinvolte (rientranti nelle disposizioni normative previste dalla
Legge Merlin) – laddove si nascondono le pratiche di prostituzione coatta e
coercitiva, derivanti dal traffico di donne per sfruttamento sessuale (rientranti
nelle disposizioni normative previste dal Testo unico e nell’articolo sopracitato).
Affermare comunque che le pratiche di sfruttamento para-schiavistico si
manifestano attualmente come condizione di fatto non significa ovviamente
ridurne la sua significatività, ma soltanto che è possibile contrastarla
apertamente facendo ricorso a disposizioni normative vigenti (o promulgabili in
maniera specifica).
1.0
La condizione servile
Per condizione servile intendiamo quello stato psicologico e socio-economico
che si instaura tra diverse persone, dove le une detengono il dominio e il potere
decisionale incontrastato sulle altre. Il dominio generalmente è basato sulla
persuasione e non sulla violenza, sulla ricerca del consenso e non sulla
prevaricazione, sul ricatto (sia esplicito che implicito) che influenza le forme di
negoziazione a perpetuare lo stato di sudditanza, sulla vicinanza fisica (e sulla
distanza psicologica), nonché sulle forme di coabitazione. In altre parole ci
sembra che questo tipo di relazioni possano prodursi e svilupparsi all’interno di
forme socio-economiche di produzione dove circola la “cultura dei rapporti
familiari”: sia tra gli appartenenti alla stessa famiglia (anche se di grado diverso)
che tra estranei, in quanto entrano all’interno di ambiti strutturati di tipo familiare
e ne assumono i caratteri relazionali.
Questi rapporti di produzione possono basarsi su principi e relazioni precontrattuali o post-contrattuali: ossia quando i legami familiari (e quelli di
appartenenza comunitaria) vengono considerati più forti e vincolanti di quelli
che potrebbero avere i contratti lavorativi formalizzati. Nel primo caso i rapporti
si arrestano sempre al di qua della contrattazione formale e manifesta, nel
secondo caso la eludono in base ad argomentazioni morali interne al rapporto
stesso (e pertanto gestibili dai soggetti più forti). L’houseold (famiglia a
componente unico o famiglia allargata generalmente coabitante e con reddito
messo in comune, ma come nel nostro caso il reddito è considerato solo
formalmente/demagogicamente in comune) e la piccola/piccolissima impresa (o
le imprese che gestiscono le diverse gradazioni del sub-appalto) sono i luoghi
principali di produzione di relazioni servili.
Queste si determinano allorquando i rapporti vengono gerarchizzati non
soltanto sulla base dei ruoli tradizionali (maschio/femmina, bambino/adulto,
servo/padrone), ma quando – oltre a questi – subentrano interessi contrapposti
di carattere sociale ed economico e diventa difficile – per quanto accennato
sopra - recidere il rapporto stesso. Anche perché generalmente queste il
rapporto si pervade di linguaggi apparentemente egualitari ma sostanzialmente
differenziati e orientati esclusivamente allo sfruttamento, ossia alla ricerca di
vantaggi degli uni e di sofferenza e subordinazione degradante degli altri.
1. 3 La condizione para-schiavistica
Per condizione para-schiavistica si intende quella condizione psico-fisica che si
determina come effetto di forme di sfruttamento che abbracciano dimensioni
relazionali basate sul dominio e sulla completa coercizione. Pertanto il fattore
che le caratterizza maggiormente è la mancanza di libertà, ossia di qualsiasi
forma di negoziazione ad eccezione di quella necessaria a garantire una certa
sopravvivenza e riproducibilità relazionale. Infatti, il deperimento eccessivo di
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carattere psico-fisico dei sottomessi inficerebbe qualsiasi perpetuazione dello
sfruttamento medesimo. In questo tipo di relazioni la caratteristica sembra
essere la distanza tra le parti in causa, distanza necessaria a mantenere il
rapporto sui binari della completa soggezione coatta delle vittime. Queste
relazioni si estrinsecano generalmente al di fuori della “cultura familiare”, anzi
questa le è quasi estranea (ad eccezione di alcune forme di tratta a scopo di
sfruttamento sessuale).
Questo tipo di rapporto resta ancorato su due aspetti in forte contraddizione tra
loro e che sono alla base della sua possibile trasformazione. Cioè: da un lato, la
necessità di sfruttamento intensivo finalizzato a rapidi guadagni e profitti,
dall’altro la necessità di non degradare troppo la fonte di guadagno stessa
(ossia le persone sottomesse) per non renderla inattiva e quindi impossibilitata
a produrre ulteriore ricchezza. Il punto di equilibrio tra le pratiche di sfruttamento
intensivo e le pratiche finalizzate alla perpetuazione del dominio medesimo
dovrebbe determinarsi allorquando si raggiunge una sorta di reciproca
convenienza alla quale le parti in causa dovrebbero comunque arrivare nel
tempo. Il raggiungimento di tale equilibrio inficia contemporaneamente il
carattere stesso del rapporto, giacché si trasforma in altro: cioè in un rapporto
tendenzialmente negoziabile sulla base delle reciproche convenienze.
Al contrario, se il rapporto rimane asimmettrico (ed è il motivo alla base del fatto
che si tratta di rapporto para-schiavistico) gli standard di ricchezza intensiva
sono garantiti soltanto dal continuo ricambio delle vittime o di quanti accettano
volontariamente di sottoporsi (per necessità) a tale forma di sfruttamento. E’
diverso comunque il ruolo della vittima del rapporto di sfruttamento paraschiavistico e il ruolo di quanti accettano volontariamente tale rapporto. Nel
primo caso vige l’assenza assoluta di volontà, nella secondo è presente almeno
nella fase di ingresso e soprattutto è ipotizzabile un livello minimo di
negoziazione. La necessità di un continuo ricambio determina un modello di
sfruttamento che potremmo definire rotatorio. Questo si gioca tutto sul fattore
tempo, ovvero sulla durata temporale dello sfruttamento (soggettivo o collettivo)
e sulla capacità di reclutamento da parte dell’organizzazione delle nuove vittime
(o dei nuovi volontari).
I luoghi della produzione dove è possibile riscontrare queste forme di lavoro
para-schiavistico sono tutti quelli dove vige il lavoro sommerso, cioè quel lavoro
privo delle garanzie previste dalle normative nazionali. Infatti il lavoro paraschiavistico rappresenta il segmento più estremo del lavoro nero, cioè quello
dove l’assenza di libertà decisionale – sia per entrare che per uscire dal
rapporto – è la caratteristica fondamentale. Si tratta infatti di un continum tra
gradi di diversa intensità di esclusione economica, lavorativa e relazionale a
partire da un ipotetico asse longitudinale dove il polo di partenza è
rappresentato dal lavoro garantito. Da questo si passa all’area del lavoro non
garantito (ma comunque negoziabile) e da questo ancora all’area della
vulnerabilità e del lavoro precario di bassa forza (va escluso quello qualificato
che spesso si caratterizza per evasione fiscale e per forme di illegalità contabile
e certificatoria).
Il segmento estremo dell’asse longitudinale ipotizzato è rappresentato dal
lavoro svolto completamente in nero, in condizioni lontane da quelle standard
previste dalle normative sindacali, con caratteri di alta dequalificazione
professionale e con forme di sottomissione basate sulla imposizione violenta
delle modalità di realizzazione. E’ dalla variegata gamma con la quale si
manifesta il lavoro nero dunque che tendono ad emergere attività lavorative
caratterizzate dalla facoltà degli imprenditori di imporre coattivamente l’esercizio
delle stesse.
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Questa imposizione – dei modi e delle modalità di esercizio - trova spazio nella
necessità che hanno determinati collettivi di immigrati di accettare qualsiasi
condizione lavorativa pur di svolgere qualsivoglia attività finalizzata alla mera
sussistenza. Da un lato quindi l’assenza di permesso di soggiorno e delle
certificazioni di permanenza derivante da ingressi irregolari o dal ritiro della
documentazione da parte delle bande criminali come strumento di ricatto,
dall’altro la sottomissione coatta a queste ultime, al fine di esercitare per loro –
dietro assoggettamento - delle attività lucrative illegali o ai limiti dell’illegalità.
1. 4 La tratta delle donne e dei minori
La tratta per sfruttamento sessuale sembrerebbe contenere in sé le
caratteristiche del lavoro servile e quelle del lavoro para-schiavistico. Infatti di
frequente il rapporto – specialmente quando non è mediato da una
organizzazione criminale – tra la donna/ragazza e il suo protettore (o protettori
in numero limitato) è un rapporto anche di soggezione affettiva, in quanto
vigono legami familistico-parentali o amicali. La prostituzione si esercita (ciò è
riscontrabile specialmente nei gruppi albanesi) anche per sottomissione ai
maschi del gruppo, fargli guadagnare denaro che all’occorrenza spenderà per
entrambi. Siamo in presenza della logica alla base dell’houseold e della
compartecipazione alle spese di gestione della stessa, nonché alle forme di
coabitazione che essa implica. Questa forma è maggiormente manifesta
nell’esercizio della prostituzione negli appartamenti e nei locali di
intrattenimento, cioè quella che possiamo definire prostituzione mascherata.
Allo stesso tempo assume la fattispecie dello sfruttamento para-schiavistico, in
quanto i redditi percepiti sono appena sufficienti alla riproduzione. Non c’è
dunque ripartizione ma solo accaparramento, le spese sono centralizzate ai
protettori e soprattutto nel rapporto vigono regole molto rigide – dal lato
esclusivo della donna/ragazza – e tutte finalizzate ad acquisire il massimo di
redditività economica. Altra caratteristica fondamentale è che alla persuasione
viene affiancata la violenza, la minaccia di ritorsione verso i congiunti rimasti nel
paese di origine, il ritiro delle certificazioni di soggiorno, eccetera. Anche in
questo caso la durata temporale del rapporto può determinare forme di
trasformazione del rapporto medesimo. Nella prima fase è possibile un rapporto
di tipo servile, mentre nella seconda può trasformarsi in rapporto di sfruttamento
para-schiavistico o viceversa: dal rapporto coercitivo e violento è possibile
passare ad un rapporto minimamente negoziato che assume i caratteri del
lavoro servile.
Un’altra variazione si riscontra allorquando la protezione non è di carattere
artigianale (il singolo protettore o il piccolo gruppo di amici-parenti) ma di
carattere imprenditoriale, dove la conoscenza e la vicinanza fisica tra le
malcapitate e i protettori è mediata da figure intermedie (specialmente donne,
come nel caso delle nigeriane e anche – da qualche tempo – delle albanesi). In
questi casi – perlopiù nella prostituzione di strada - si tratta soltanto di mero
sfruttamento cinico e violento, senza nessuno spazio ai sentimentalismi del
piccolo gruppo finalizzati a perpetuare lo stato di soggezione. Le bande
criminali che agiscono sulla base di modelli imprenditoriali puntano allo
sfruttamento e al massimo di profitto attraverso il passaggio dell’uso della
violenza alla persuasione, proprio per evitare di scivolare sul modello rotatorio
(sopraccennato). La prostituzione negli appartamenti e nei locali di
intrattenimento sono articolazioni organizzative di tale passaggio e spesso il
risultato di una nuova forma di contrattazione tra i protettori e le donne/ragazze
coinvolte, proprio al fine di perpetuare il rapporto di sfruttamento.
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Diversa è la situazione dello sfruttamento sessuale dei minori, dove i pericoli
per le bande criminali sono ancora maggiori. Questa si muove all’interno di
canali molto particolari, soprattutto per i minori al di sotto dei quattordici anni.
Per la fascia di età superiore (14/18) la situazione è diversa e per altri simile alla
prostituzione adulta. E’ diversa perché la normativa è molto più esplicita e non
lascia adito a scappatoie sulla condivisione delle dirette interessate (o dei
diretti interessati) al suo sfruttamento, mentre è simile perché le ragazze/i
coinvolte/i – spesso privi di documenti – nascondono la loro età e pertanto è
difficile non associarle a quelle più grandi. Tuttavia lo sfruttamento sessuale dei
minori – sia maschi che femmine – si basa su forme di soggezione dovute alla
particolare fragilità degli stessi e si colloca sempre nelle forme di sfruttamento
coatto e coercitivo.
Le forme di coercizione – del genere che la letteratura internazionale ha
registrato per alcuni paesi del Sud-est asiatico - non sono ancora visibili, anche
se tra quante esercitano la prostituzione di strada sono presenti ragazze
nigeriane minorenni. Poco conosciuto è il fenomeno della prostituzione minorile
maschile eterosessuale, in quanto gruppi dediti alla prostituzione sono stati
intercettati da operatori sociali che intervengono direttamente in strada. Ad
esempio, un gruppo di 10/15 ragazzi curdi sono stati intercettati a Roma (in
un’area centrale). La particolarità di questo collettivo è data dalla
scambievolezza delle attività dedicate all’acquisizione di reddito per la
sopravvivenza del collettivo più grande composto dai familiari: la sera/notte
prostituzione, il giorno accattonaggio o lavavetri, oppure piccoli lavori di fatica
presso i mercati rionali. Sembrerebbe, da tali informazioni, una forma
prostituzionale transitoria e finalizzata alla sussistenza contingente.
1.5
Le principali cause di ingresso
La principale causa di ingresso nei circuiti del lavoro servile e delle sfruttamento
para-schiavistico è generalmente l’indebitamento da un lato, e le differenti
forme di tratta a scopo di sfruttamento sessuale dall’altro (sia per gli adulti che
per i minori). L’indebitamento, a quanto ne sappiamo al momento:
a.
b.
per pagare il viaggio e la documentazione necessaria all’ingresso nel
paese meta di emigrazione;
per comprare un lavoro una volta arrivato a destinazione;
c.
per acquistare i documenti necessari al soggiorno una volta entrato nel
paese di destinazione;
d.
per aprire una attività commerciale o per far fronte a necessità di salute
di congiunti.
La restituzione del debito è motivo di soggezione da parte del debitore, da un
lato, per le difficoltà che possono verificarsi nell’accumulare la cifra richiesta,
dall’altro, per gli interessi che il debito stesso matura in maniera esorbitante ed
esponenziale (raggiungendo livelli di usura). Infine, perché il creditore non
chiede la restituzione del debito ma la possibilità di sfruttare il debitore a tempo
determinato o a tempo indeterminato, facendosi pagare soltanto una somma
(non necessariamente esorbitante) a cadenze regolari. Somma che va a pagare
una sorta di affitto per la somma ricevuta ma che non intacca l’ammontare del
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debito originario. Questo infatti rimane costante e gravoso nel tempo, anche
quando le quote di affitto hanno coperto la somma originaria.
La violenza subentra da parte del creditore – spesso una organizzazione
criminale – per imporre regole e comportamenti finalizzati ad accrescere la
capacità del debitore a produrre ricchezza in virtù della coercizione subita. In
questi casi è possibile che si determinano forme di usura e pertanto il debitore
dovrà lavorare per pagare la quota di interessi. Il lavoro potrebbe essere offerto
dall’organizzazione creditrice e quindi questa attiva un circolo virtuoso: è
creditrice di una somma di denaro, costringe i debitore a lavorare per
estinguerlo, incassa le quote regolarmente, mantiene il debitore in uno stato di
subordinazione che lo vincola all’organizzazione. Anche in questo caso
possiamo avere una forma di lavoro servile o una forma di lavoro paraschiavistico, sulla base di quanto detto in precedenza.
Il genere dei debitori risulta essere una variabile importante proprio ai fini della
forma di sfruttamento che l’organizzazione decide di attuare: prostituzione per
le donne e lavoro coatto per gli uomini.
1.6
Le Variabili che concorrono alla definizione di lavoro servile e
para-schiavistico in presenza di rapporti basati sulla
persuasione o sulla costrizione
La condizione che caratterizza il lavoro servile e il lavoro para-schiavistico è
dunque la mancanza di libertà dovuta all’emergere di forme di sottomissione
coatta. La mancanza di libertà si estrinseca sincreticamente in concomitanza
della privazione temporale delle diverse dimensioni che caratterizzano l’agibilità
individuale e collettiva, da parte di individui o da parte di gruppi di individui, e
cioè: quelle sociali, quelle economiche, quelle giuridiche, quelle politiche,
quelle psicologiche e quelle culturali. La presenza/assenza di tali dimensioni – e
la combinazione multipla delle stesse – determina anche il grado di
sottomissione (Prospetto 1). Da questa prospettiva possiamo avere una
privazione della libertà assoluta e di converso una limitazione della libertà
relativa, anche se il peso delle privazioni è di carattere eminentemente
qualitativo e differisce a seconda dei soggetti o gruppi coinvolti. Determinando
altresì forme di lavoro servile quando il rapporto è basato sulla persuasione e
forme di lavoro para-schiavistico quando il rapporto è basato sulla coercizione.
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Prospetto 1 – Dimensioni e condizioni che concorrono alla definizione di lavoro
servile e lavoro para-schiavistico
Dimensione
Condizione
Sociale:
- emarginazione ed esclusione
- isolamento e solitudine esistenziale
- dipendenza per scarsa socialità
- condizione di ricatto
- nessuna protezione
- necessità vitale a restare nel rapporto
Economica:
- stato di necessità estrema
- ancoraggio lavorativo basato sulla
necessità estrema
- paga uguale ad un terzo di quella
ufficiale di categoria
- orario di lavoro superiore alle 12
ore consecutive e senza risposo
vitto e alloggio inadeguato
e considerato complementare al salario
- lavoro di fatica fisica e degradante
nessuna possibilità di contrattazione
retributiva
- stato di indebitamento rapporto
lavorativo duale o per piccoli
gruppi
Giuridica:
- mancanza di documenti di soggiorno validi
- mancanza di documenti di identità/passaporto
- stato di vulnerabilità giuridica
- sequestro dei documenti e non fruibilità degli
stessi
- difficoltà a progettare il ritorno in patria
- impossibilità di accedere alle “sanatorie”
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Politica:
- invisibilità civile
- non riconoscimento di status
- nessuna rappresentatività
- mancanza di/scarsa partecipazione collettiva
- misconoscimento del diritto al voto
- stato di non eleggibilità
Psicologica:
- costrizione dello stato di soggezione
- subordinazione pseudovolontaria
- dipendenza docile e accondiscendenza
per mancanza di alternative praticabili
- bassa reattività comportamentale
- stato di stress da dipendenza
- stagnazione ed arresto emozionale
- ricerca di soggezione/protezione
- agire servile e corrispondente alla volontà
dello sfruttatore
Culturale:
- accettazione/fedeltà del patto stabilito
- incapacità a decodificare il livello di
sfruttamento
- non conoscenza delle regole e delle condizioni
lavorative
- mancanza di referenti in grado di legittimare
i diritti
- continua opera di resistenza e di autocontrollo
per non rovinare il rapporto lavorativo ritenuto
necessario
- concepire lo stato di soggezione come temporaneo
2.
Lavoro Schiavo: le dimensioni di un concetto
1.0
Premessa
Quando si usano termini quale "schiavo", "schiavistico", "para-schiavistico" etc., in
generale se ne fa un uso puramente evocativo, senza un riferimento specifico a una
realtà concreta, senza un quadro di riferimento teorico preciso. In questa breve nota si
cercherà pertanto di portare un chiarimento a questo riguardo, illustrando il modo in cui
vanno usati questi termini e cercando di operazionalizzare il concetto soprattutto ai fini
della ricerca empirica.
Questo sforzo di operazionalizzazione implica in primo luogo la identificazione delle
diverse dimensioni del concetto di "lavoro schiavo" e gli indicatori che si possono
prendere in considerazione per definire queste dimensioni. Per quanto riguarda la ricerca
ciò permetterà di collocare le diverse realtà che ci troveremo di fronte in un quadro
articolato con la presenza di realtà diverse e non collocate necessariamente all'interno di
un continuum. Si tratterà di realtà - di situazioni - rispetto alle quali alcune dimensioni del
concetto potranno applicarsi e altre no.
2.2
Limitazione della libertà
L'indicatore principale della condizione di schiavitù è la limitazione della libertà personale
della vittima da parte di chi esercita il potere nei suoi confronti. Questo concetto,
semplice solo all'apparenza, a sua volta ha una serie di dimensioni giacchè la limitazione
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della libertà si può esprimere con gradi diversi di gravità, insomma si può esprimere a
diversi livelli. Tanto per cominciare con un esempio banale, una cosa è la pratica abusiva
e illegale, più volte da noi riscontrata in passato, dei signori romani che sottraggono o
sequestrano il passaporto alla propria cameriera; una cosa è - ammesso che esita
davvero il fatto più volte riportato dalla stampa - il tenere segregati dei bambini
(indirizzandoli al mendicio o alla prostituzione) impedendo loro in alcun modo di spostarsi
senza il consenso dello sfruttatore e dietro minaccia di violenza fisica, e pratica di
violenza fisica con obbligo di omertà. Si tratta di due casi estremi all'interno dei quali
un'altra vastissima area di situazioni si verifica concretamente: situazioni la cui esistenza
va verificata, ma le cui connotazioni vanno definite e interpretate.
Procediamo perciò con l'analisi della limitazione della libertà personale. Essa può essere
realizzata a)con mezzi violenti o b)rendendo solo poco conveniente per la vittima sottrarsi
alla sua condizione (e al racket che la gestisce).
2.3
Le condizioni di ingresso nella situazione di schiavitù
La seconda dimensione riguarda le condizioni di ingresso nella condizione di schiavitù.
Essa può essere a) il risultato di una scelta cosciente da parte della vittima (il caso
dell'edile moldavo portato a lavorare ai cantieri del Giubileo o la schiavitù da debito
derivante da un accordo cosciente); b) l'effetto di una qualche forma di raggiro (il caso
delle ragazze avviate alla prostituzione ); c) il risultato di un forma violenta di imposizione
del rapporto schiavistico (e il caso riscontrabile riguarda ancora la prostituzione)
2.4
Le condizioni di uscita dalla condizioni di schiavitù
Questa terza dimensione riguarda invece il tipo di sanzione cui rischia di trovarsi
sottoposto chi cerca di sottrarsi al racket: a) piccola ritorsione di tipo strettamente
economico e richiesta di indennizzo; b) ritorsioni più significative nel senso di abbandono
della protezione o esclusione dal gruppo; c) punizioni violente, come già si è accennato a
proposito del punto 1. Nel primo caso è evidente che non si può neanche parlare fino in
fondo di rapporto schiavistico. E' difficile che un rapporto di questo tipo si possa risolvere
con una semplice transazione ( ameno di restituzione di grosse somme). Più frequenti
sono il punto b) e il punto c).
2.5
Le condizioni del lavoro schiavistico e il tipo di prestazione richiesta (tipo di
abuso)
Rispetto a questa quarta dimensione bisogna ancora distinguere diversi livelli:
a)
situazioni in cui si verifica solo una situazione di particolare sfruttamento e di
condizioni non decenti di lavoro (e questa è una situazione che si riscontra quando
il lavoro è un lavoro vero e proprio);
b)
condizioni di lavoro totalmente dipendenti dall'arbitrio del padrone-sfruttatore
localizzate nell'area grigia dei lavori al margine dell'illegalità e nell'accattonaggio;
c)
situazioni caratterizzate dallo sfruttamento del corpo (sfruttamento sessuale), che
è forse il caso più diffuso e riguarda i casi più significativi in Italia. Qui le varie
dimensioni si intrecciano e si sommano. E questo rappresenta il caso limite.
In generale si tratta di vedere cosa sono costretti a fare concretamente coloro i quali sono
ridotti in una condizione di schiavitù o paraschiavitù, a che costo, con che retribuzione e
con quali guadagni per lo sfruttatore.
2.6
I casi possibili e i casi reali
Tendo conto di queste dimensioni è possibile costruire una casistica di situazioni della
quale bisogna verificare l'esistenza in Italia. O, meglio, sulla base di ciò che già si
conosce, bisogna individuare alcuni casi significativi e definirne le dimensioni.
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Bisogna partire, anche sulla base delle notizie di stampa, o da altre fonti documentarie da
casi e da gruppi particolari. Così, ad esempio, in molti casi i soggetti ai quali è stata
attribuita questa condizione sono minori e bambini. L'ambito può essere quel del lavoro
vero e proprio (in generale quello manifatturiero) oppure quello dell'accattonaggio, oppure
infine quello della prostituzione. In altri casi - questi più diffusi e significativi - i soggetti
sono in generale donne, mentre l'ambito è la prostituzione. In altri casi infine si tratta di
adulti (donne o uomini) vittime di rackets di mano d'opera o in una situazione di schiavitù
da debito. E questo , che è un caso certamente possibile, è anche molto poco probabile.
2.7
Implicazioni per la ricerca
La ricerca non può limitarsi solo alla ricerca di questi casi e all'improbabile definizione
della loro portata qualitativa. Sarebbe necessario un lavoro di intelligence assolutamente
fuori dalla portata dagli obiettivi e della possibilità della ricerca stessa.
D'altra parte se ci si volesse basare su di un criterio di rilevazione tradizionale si
otterrebbe un risultato pressoché nullo. Non esiste un universo di riferimento dal quale
estrarre un campione, statisticamente rappresentativo o ragionato, di ragazzini avviati al
mendicio o di donne costrette alla prostituzione. Si potrebbe vedere presso i tribunali
l'esistenza di processi e condanne di per delitti di questo genere, ma si vedrebbe solo
quella parte del fenomeno che è incappata nelle maglie della giustizia, mentre
presumibilmente
Il problema più complicato per questa ricerca è che si tratta di investigare un oggetto poco
conosciuto, che però esiste corposamente nell'immaginario collettivo e nelle
rappresentazioni della stampa. La ricerca sta perennemente in una situazione di rischio.
Infatti se, avendo definito le caratteristiche di fenomeni di questo genere, non si riescono
a trovare dei casi significativi, l'esito può essere dovuto o incapacità della equipe di ricerca
o al fatto che effettivamente fenomeni del tipo di quelli individuati e definiti sono poco
diffusi i poco rilevanti.
Si tratta perciò di percorrere le diverse strade e di seguire i possibili indizi che possono
portare alla individuazione di casi significativi. E soprattutto si tratta di fornire un opera di
chiarimento sul cosa c'è ed è effettivamente rilevante, e su cosa è più che altro frutto di
immaginazione.
La ricerca per forza di cose dovrà invece travalicare l’ambito delle situazioni-limite, quelle
cioè nelle quali inequivocabilmente si registrano le condizioni del lavoro schiavo o della
costrizione in schiavitù. Sarà interessante individuare quei casi in cui, pur non
riscontrandosi in generale le dimensioni della relazione schiavista, si può osservare una
chiara ed evidente violazione dei diritti fondamentali. Bisognerà cioè ricercare negli ambiti
prima individuati (prostituzione, sfruttamento dei minori e lavoro degli stessi adulti) i casi
più evidenti e patenti di violazione di diritto. Bisogna, con l'aiuto degli informatori
privilegiati, ma anche sulla base della documentazione trovata, analizzare quelle aree
grigie dove c'è la violazione patente dei diritti e contemporaneamente il consenso, dove
c'è una accettabilità sociale della pratica e del rapporto, almeno all'interno della comunità
di appartenenza.
12
3.
Il lavoro servile e le forme di sfruttamento para-schiavistico: aspetti
giuridici
0.0
Introduzione
In questo capitolo ci si propone di esaminare le Convenzioni internazionali limitandoci
all’esame di quelle che hanno maggiore rilevanza per il sistema giuridico nazionale (la
ricerca si limita a rilevare il fenomeno su scala nazionale) e la legislazione nazionale,
connessa in qualche modo con l’oggetto della ricerca, al fine di individuare gli elementi
positivi e negativi delle stesse e rilevare, eventualmente, anomie rispetto al fenomeno
considerato.
La schiavitù, consentendo la supremazia totale dell’uomo sull’uomo in modo illimitato, dà
la possibilità di utilizzare quest’ultimo come un “oggetto”. Questo fa si che questa forma di
prevaricazione sia un fenomeno sempre legato all’affermazione del potere economico, ciò
spiega perché ha avuto maggiore estensione nelle epoche storiche nelle quali più forte
era il bisogno di manodopera a basso costo. Nel Nuovo Mondo lo sfruttamento dei terreni
coloniali avvenne, dapprima, utilizzando gli indios come manodopera servile, in seguito,
dopo aver decimato i primi, ebbe inizio il commercio degli schiavi neri (asiento de negros).
E’ soltanto alla fine del XVIII secolo che il fenomeno subisce una diminuzione. La cultura
illuminista, basata sui valori della ragione, del progresso, della capacità di
autodeterminazione, mal si adattavano alla condizione di asservimento delle persone. Il
miglioramento delle condizioni di vita ed l’urbanizzazione (spostamento dalle campagne
alle città), contribuirono alla diminuzione del fenomeno.
Questo mutamento si riflette anche nel diritto e si concretizza con le prime condanne della
schiavitù: nel 1772 il giudice inglese Granville Sharp in una nota sentenza afferma che
“uno schiavo, toccando il suolo della Gran Bretagna, diveniva ipso facto libero”1; nel 1783,
il Tribunale di Boston basandosi sull’art.1 della Costituzione del Massachusetts, “tutti gli
uomini sono liberi ed uguali”, dichiarava abolita la schiavitù in quello Stato; nel 1789, fu
approvata dall’Assemblea Nazionale Francese la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del
cittadino” la quale, all’art. 1, affermava che “Gli uomini nascono e vivono liberi ed uguali
nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”; nel
1865, con l’approvazione del tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati
Uniti, la schiavitù nel Nuovo Mondo, almeno giuridicamente,, era abolita: oggetto di
proprietà potevano essere soltanto le cose e non più le persone.
A livello internazionale una prima condanna della schiavitù si ebbe nel 1815 al Congresso
di Vienna, confermata nello stesso anno nel secondo Trattato di Parigi da parte di
Francia, Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria; nel 1841 le stesse potenze
sottoscrissero il Trattato di Londra nel quale si affermava il diritto degli Stati, che l’avevano
sottoscritto, di ispezione e cattura per le navi che si sospettavano fossero impiegate nel
commercio degli schiavi. Ulteriori precisazioni ed ampliamenti si ebbero con: il Trattato
anglo-americano del 1862, la Convenzione di Berlino del 1885, la Dichiarazione di
Bruxelles del 1890, la Convenzione di Saint Germain-en Laye del 1919.
3.2
Il quadro internazionale
Il problema della schiavitù viene affrontato con maggiore enfasi soltanto nel 1926 con
l’approvazione della Slavery Convention (Convenzione sulla schiavitù)2 ratificata
inizialmente da trentasei stati. Il testo della Convenzione di Ginevra è composto da 12
1
Il corsivo è mio.
La Convenzione è il frutto del lavoro svolto dalla Commissione temporanea per la schiavitù, commissione creata ad hoc
nel 1924 dalla Società delle Nazioni al precipuo scopo di rendere la schiavitù oggetto di una convenzione internazionale
specifica al fine di eliminare tale pratica. Nel 1953 le Nazioni Unite fecero proprio il Trattato e lo aprirono all’adesione degli
stati. La Convenzione di Ginevra del 1926 è stata resa esecutiva in Italia con il R.D. 26.4.1928, n. 1723. La Convenzione è
riportata nell’Annesso 1.1.
2
13
articoli di legge di precisa formulazione, nel preambolo vi è un richiamo alle Convenzioni e
Dichiarazioni che l’avevano preceduta.
Molto importante è l’art. 1 nel quale sono definiti i concetti di schiavitù e tratta. La prima è
definita come:
“Slavery is the status or condition of a person over whom any or all of the powers
attaching to the right of ownership are exercised” (art.1.1) 3.
La tratta degli schiavi è definita, nell’art. 1.2, come:
“The slave trade includes all acts involved in the capture, acquisition or disposal of a
person with intent to reduce him to slavery; all acts involved in the acquisition of a slave
with a view to selling or exchanging him; all acts of disposal by sale or exchange of a
slave acquired with a view to being sold or exchanged, and, in general, every act of trade
or transport in slaves”4.
Nell’art. 2 gli stati membri si impegnano a conseguire nei propri territori “progressivamente
e al più presto possibile la completa abolizione della schiavitù in tutte le sue forme“,
prevedendo, nell’art. 4, doveri di collaborazione reciproca per il raggiungimento di tale
scopo.
L’art. 5 prevede l’abolizione anche del lavoro imposto od obbligatorio affinché non potesse
degenerare in forme di schiavitù consentendolo solo eccezionalmente “an exceptional
character” e nell’ambito di determinate caratteristiche. Nell’art. 6 le Parti si impegnavano
ad adottare nei loro diritti interni delle norme volte alla punizione di chi avesse violato i
principi della Convenzione; mentre, nell’art. 10 era prevista “l’adesione con riserva”5,
questo costituisce un elemento di debolezza che sarà, come poi vedremo, eliminato dalla
Convenzione del 1956.
Questa Convenzione costituisce la pietra angolare di tutta la disciplina volta alla tutela
della schiavitù e della tratta: in primo luogo perché per la prima volta questi fenomeni
sono disciplinati in maniera puntuale e gli stati si obbligano ad attuare le misure previste al
fine di sconfiggere questa pratica inumana; inoltre, è importante soprattutto come quadro
di riferimento a cui gli stati a tutt’oggi fanno esplicito riferimento per quanto riguarda le
definizioni6.
Il limite della Slavery Convention è ravvisabile nella mancanza di meccanismi di
supervisione circa le attività svolte dagli stati e, quindi, nella scarsa incidenza circa
l’applicazione della stessa Convenzione.
Sono molte le Convenzioni e le Raccomandazione emanate, dal 1926, al fine di lottare
contro la schiavitù, di cui le più importanti sono: la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, 1948, nella quale si afferma che “ tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali
in dignità e diritti (art. 1)” e “nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di
servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibiti sotto qualsiasi forma (art.4)”; la
Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali7 nella
quale si afferma che “nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù
(art.4.1), né costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio (art.1.2) prevede, inoltre,
3
“Lo stato o condizione di un individuo sul quale sono esercitate le prerogative del diritto di proprietà o alcune di esse”.
“La tratta degli schiavi include ogni atto di cattura, acquisto o cessione di un individuo al fine di ridurlo in schiavitù; ogni
atto di acquisto di uno schiavo al fine di venderlo; ogni atto di cessione a scopo di vendita o scambio di uno schiavo
(sostituito con una persona nella Convenzione Supplementare del 1956) acquistato al fine di farne oggetto di vendita o
scambio e, in generale, ogni atto che costituisca commercio o trasporto di schiavi”.
5
L’India utilizzò tale opportunità avanzando riserve su alcuni suoi territori.
6
Nella Sezioni I “Dei delitti contro la personalità individuale” nell’art. 601 del c.p. italiano viene fatto esplicito riferimento alla
Convenzione di Ginevra nel definire la tratta degli schiavi.
7
Adottata dal Consiglio d’Europa a Roma il 4 novembre 1950, è stata ratificata dall’Italia il 26 ottobre 1955 e resa esecutiva
con la Legge del 4 agosto 1955, n. 848.
4
14
quali casi devono rimanere esclusi da tali ambiti (art.1.3); il Protocollo di modifica della
Convenzione sulla Schiavitù del 1953.
Nonostante gli impegni presi dagli Stati nei vari Trattati, fino agli anni ’50, la schiavitù non
era ancora stata sconfitta. Ciò portò la Comunità internazionale ad impegnarsi, nel 1956,
nella realizzazione della “Supplementary Convention on the Abolition of Slavery, the Slave
Trade, and Institutions and Practices Similar to Slavery”. La nuova Convenzione fu
stipulata a Ginevra il 7 settembre 19568, con essa gli stati riaffermano gli impegni presi
nella Slavery Convention del 1926.
Oltre ad una riaffermazione d’intenti da parte degli stati di voler sconfiggere la schiavitù,
l’importanza della Convenzione Supplementare è ravvisabile nell’aver individuato una
serie di “pratiche” assimilabili alla schiavitù. Nell’art. 1 si definiscono puntualmente le
pratiche condannate quali la servitù da debito (art. 1 a), il servaggio (art. 1 b), le istituzioni
e le pratiche sociali che consentono: la vendita di una donna nubile come sposa; la
vendita di una donna sposata; il matrimonio servile; la vendita di un minore di anni 18 per
lo sfruttamento lavorativo (c.d. lavoro minorile).
Oltre agli elementi positivi già descritti, in tale Convenzione sono contemplati alcuni mezzi
dotati di maggiore forza vincolante, rispetto a quella del ’26, nei confronti delle Parti. Gli
artt. 3, 5 e 6 stabiliscono che gli atti con cui si “trasporta o si tenta di trasportare uno
schiavo da uno stato all’altro, e quelli con cui si schiavizza un individuo debbono costituire
un crimine per le leggi dei paesi ratificanti. Il crimine sussiste anche se gli atti sono
commessi in paesi in cui la pratica non è abolita”. Nell’art. 7 sono riaffermate le definizioni
di schiavitù e tratta contemplate nella Convenzione del ’26, è fatta solo una specificazione
alla definizione di tratta, si sottolinea infatti, l’irrilevanza del tipo di mezzi di trasporto
utilizzati. Sempre nello stesso articolo vi è anche la definizione di schiavo.
Infine, nell’art. 9 è sancito un importante principio che invece mancava nella Convenzione
del ‘26, ossia, che il Trattato non può essere oggetto di alcuna riserva.
La Convenzione del ’56 compie, dunque, un ulteriore passo in avanti nella lotta alla
schiavitù; pur tuttavia bisogna riscontrare anche per essa una lacuna nella realizzazione
di efficaci meccanismi di supervisione dell'attività degli stati.
Questa Convenzione ha contribuito anche all’estensione del concetto di traffico degli
esseri umani. Sono incluse nel concetto tutte le forme di traffico di donne, anche quello
non finalizzato allo sfruttamento sessuale. Un’estensione ancora maggiore del concetto si
può riscontrare anche in altre Convenzioni e Dichiarazioni: nella Convenzione sulle Donne
del 1979, all’ art. 6; nella Dichiarazione e Programma d’Azione di Pechino del 1995, al
par. 130; nella Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite9, nella quale
viene formulata una definizione, descrittiva e non giuridica, del concetto di tratta. In essa
si afferma che è definito “traffico”:
“il movimento illecito e clandestino di persone attraverso i confini nazionali e
internazionali, largamente dai paesi in via di sviluppo e da qualche stato con l’economia in
fase di transizione, con lo scopo finale di obbligare donne e bambine in situazioni
sessualmente o economicamente oppressive e di sfruttamento per il profitto dei
procacciatori, dei trafficanti e delle organizzazioni criminali, come pure per altre attività
illegali correlate al traffico, come il lavoro domestico forzato, i falsi matrimoni, l’impiego
clandestino e le false adozioni”.
Altra importante definizione da considerare è quella contenuta nella Risoluzione del
Parlamento europeo10:
8
9
Fu resa esecutiva in Italia con la Legge 20 dicembre 1957, n. 1304.
Risoluzione 49/166 del 23 dicembre 1994.
Risoluzione sulla tratta di esseri umani, 18 gennaio 1996. Doc. A4-0326/95.
10
15
“l’atto illegale di chi, direttamente o indirettamente, favorisce l’entrata o il soggiorno di un
cittadino proveniente da un paese terzo ai fini del suo sfruttamento utilizzando l’inganno o
qualunque altra forma di costrizione o abusando di una situazione di vulnerabilità o
incertezza amministrativa”.
Quest’ultima definizione, nonostante i limiti (ad es. limita l’operatività ai soli casi di tratta
transnazionale), sembra essere la nozione generalmente accolta a livello comunitario
come dimostra l’analoga statuizione contenuta nella Dichiarazione Ministeriale dell’Aja del
199711 relativa al traffico di donne a scopo di sfruttamento sessuale, che include:
“ogni condotta che facilita l’ingresso in, il traffico attraverso, la residenza in o l’uscita dal
territorio di uno stato, legalmente o illegalmente, allo scopo di sfruttamento sessuale
remunerativo, per mezzo di coercizione, in particolare violenza o minaccia, inganno,
abuso di autorità o altro tipo di pressione tale da fare in modo chge la persona non abbia
scelta effettiva e accettabile se non sottomettersi alla costrizione o all’abuso subito”.
Il traffico di esseri umani è, dunque, ravvisabile non soltanto quando esso è finalizzato allo
sfruttamento sessuale, ma comprende anche molte altre attività, tra le quali:
l’accattonaggio, soprattutto dei bambini e degli anziani; l’utilizzo dei minori per attività
illecite; il lavoro domestico; le false adozioni; ed infine, sarebbe riconducibile all’area della
schiavitù anche il traffico illegale di organi12.
L’elenco previsto nella Convenzione del 1956 nell’articolo 1 non è, dunque, esaustivo
rispetto alle pratiche assimilabili alla schiavitù; sono da ritenersi, infatti, forme di schiavitù,
pur non essendo state contemplate dalla Convenzione del 1956 ma oggetto di specifici
trattati, il traffico di persone a scopo di sfruttamento sessuale ed il lavoro forzato.
Per quanto riguarda il traffico di persone a scopo di sfruttamento sessuale13, una prima
forma di lotta a tale fenomeno si ebbe con l’istituzione, nel 1899, dell’Ufficio Internazionale
per la Soppressione del traffico di Donne e Bambini.
Ricordiamo: l’Accordo Internazionale di Parigi14, del 1904, nel quale si prevedeva la lotta a
quella che allora era definita “white slave traffic” poiché si faceva riferimento al traffico di
prostitute che dall’Europa erano portate negli imperi coloniali; la Convenzione per la
Soppressione del traffico delle Bianche, firmato nel 1910, sempre a Parigi, le Convenzioni
di Ginevra15 per la repressione della tratta delle donne e dei fanciulli, la Convenzione per
la Soppressione del Traffico di Persone e lo Sfruttamento della Prostituzione Altrui16
adottata a New York nel 1949.
Nella Convenzione: le parti si impegnano a punire l’incitamento e lo sfruttamento della
prostituzione (artt. 1 e 2); si considerano soggetti ad estradizione gli imputati dei reati
previsti dalla Convenzione (art. 4); si enfatizza la questione dell’emigrazione e
l’immigrazione in rapporto al fenomeno della tratta delle persone (art. 17), gli stati si
impegnano a proteggere le donne e i bambini in tutto il percorso migratorio (art. 17.1), a
pubblicizzare il rischio di tratta, a sorvegliare stazioni, aeroporti e porti (art. 17.2) ed a
favorire le comunicazioni relative ai reati commessi fra le autorità dei diversi paesi
11
Final Draft Version, The Hague Ministerial Declaration on European Guidelines for Effectives Measures to Prevent and
Combat Trafficking in Women for the Purpose of Sexual Exploitation, The Hague, 24-26 aprile 1997. Doc. DCE/97-429 del
26 aprile 1997.
12
Quest’ultima ipotesi, oltre ad essere la più agghiacciante, è anche la più difficile da provare. Negli ultimi tempi tale ipotesi
è stata evidenziata anche dalla stampa, vedi Vulpio Carlo, Caccia ai mercanti di ragazzini,nel Corriere della Sera, 29 ottobre
1999, 16.
13
In questo ambito l’impegno degli stati a livello internazionale è anteriore all’ONU.
14
L’Accordo di Parigi del 1904 è il primo strumento internazionale in materia.
15
Adottate dalla Società delle Nazioni il 30 settembre 1921 e l’11 ottobre 1933.
16
Recepita nell’ordinamento italiano con la Legge n. 1173 del 23 novembre 1966. La Convenzione di New York è molto
importante soprattutto ai fini della nostra ricerca in quanto in essa viene sottolineata la necessità di sorvegliare e tutelare i
migranti (in particolare le donne e i bambini), perché soggetti più deboli, al fine di sottrarli da un possibile rischio di tratta. E’
questo, infatti, l’approccio utilizzato in questa ricerca.
16
(art.17.3). Nell’art. 19 le Parti si impegnano ad adottare le misure appropriate al fine di
provvedere alle necessità delle vittime del commercio sessuale fintanto che le stesse
siano rimpatriate, il rimpatrio può avvenire soltanto dopo aver raggiunto un accordo con lo
stato di destinazione. Nell’art. 20 gli stati aderenti si impegnano a sorvegliare le agenzie
di collocamento allo scopo di evitare che le persone che ad esse si rivolgono (soprattutto
donne e bambini) siano esposte al rischio dello sfruttamento sessuale. Soprattutto in
queste ultime due disposizioni sono state previste delle misure, degne di essere rilevate,
volte alla tutela delle vittime nel primo caso e alla prevenzione del fenomeno nel secondo.
Nel 1962 fu adottata la Convenzione sul consenso al matrimonio che si pone come
obiettivo quello di impedire che attraverso "finti matrimoni" si possano assoggettare
donne e bambini alle forme più crudeli di sfruttamento (soprattutto sessuale), quest’ultimo
principio è ribadito anche nei Patti Internazionali sui Diritti Economici, Sociali e Culturali,
nell’art. 10 è sottolineata la necessità del libero consenso di entrambi gli sposi; infine,
ricordiamo la Convenzione del 1979 per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione
contro le donne, in particolare, nell’art. 6 è sancito l’obbligo per gli stati di “sopprimere
tutte le forme di traffico di donne e di sfruttamento della prostituzione femminile”.
Per quanto attiene lo sfruttamento lavorativo ricordiamo: la Convenzione sul Lavoro
Forzato, 1930, n. 29 e la Convenzione sull’Abolizione del Lavoro Forzato, 1957, n. 105.
Queste ultime Convenzioni sono state adottate dall’Organizzazione Internazionale del
Lavoro (ILO) e costituiscono le Convenzioni di riferimento in materia di lavoro forzato.
L’importanza della prima è ravvisabile: nell’aver considerato il fenomeno nella sua
globalità; nell’aver contemplato la definizione di lavoro forzoso od obbligatorio (art. 2);
nell’identificazione delle fattispecie che prevedono il lavoro obbligatorio e le modalità di
regolamentazione dello stesso.
Un aspetto particolarmente grave del lavoro forzoso è quello dei bambini, è difficile
quantificare con precisione il lavoro minorile nel mondo17 e ciò a causa della tendenza
degli stati a non fornire cifre su tale fenomeno. Questa omertà la si deve ad una questione
di prestigio, ma anche al fatto che i datori di lavoro spesso impiegano questi bambini in
nero per evadere il fisco aumentando in tal modo i profitti.
Molteplici sono le ragioni dell’impiego di piccoli lavoratori18: la povertà; il debito estero che
nei paesi più poveri grava soprattutto sui più deboli poiché si traduce in tagli all’istruzione
e alla sanità; l’immiserimento economico e la scomparsa delle garanzie sociali in molti
paesi (es. nei paesi ex socialisti); i contesti culturali che aggravano il problema19; le
guerre.
Molteplici sono le Convenzioni Internazionali che hanno ad oggetto la tutela dei minori,
l’OIL ha stipulato sin dal 1919 Convenzioni volte alla loro tutela in campo lavorativo.
Ricordiamo: la Convenzione del 1919 n. 5 che fissa a 14 anni l’età minima per l’impiego
nell’industria, limite elevato a 15 anni nella Convenzione del 1973 n. 138 e non prima di
18 anni per lavori che potevano compromettere la sua salute, sicurezza o moralità.
Il più avanzato e completo atto giuridico internazionale riguardante i minori è dato dalla
Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 198920, la quale è considerata la
Carta Universale dei Diritti dell’infanzia. La Convenzione si pone l’obiettivo di tutelare
integralmente il bambino da qualsiasi situazione che possa ledere la salute fisica e
17
Secondo una stima dell’OIL sono oltre 250 milioni i bambini tra i 5 e i 14 anni coinvolti nel fenomeno del lavoro minorile
nei paesi in via di sviluppo. A questa cifra vanno poi aggiunti i bambini lavoratori dei paesi industrializzato, per l’Italia è stato
stimato che potrebbero essere 300 mila i casi di bambini lavoratori, mancano però anche in questo caso stime ufficiali
(Stime Unicef).
18
Per un esame più approfondito vedi: Temi dell’Unicef n1, I bambini che lavorano”, Comitato Italiano per l’Unicef, Roma
1999.
19
In India, nonostante la normativa nazionale proibisca il lavoro ai minori di 14 anni, sono almeno 10 milioni i bambinischiavi impiegati come domestici, appartenenti in gran parte alla casta inferiore degli “intoccabili”. Tale cifra è stata
denunciata dalla SACCS (Coalizione Asiatica contro la Schiavitù Infantile).
20
La Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia è stata approvata il 20 novembre 1989 e recepita con valore normativo
nell’ordinamento giuridico italiano, con la legge n. 176 del 27 maggio 1991.
17
psichica dello stesso. I bambini e gli adolescenti non sono più visti come “oggetto” di
tutela ma “soggetti” di diritto.
In questo strumento giuridico tutte le disposizioni in materia di diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza si integrano tra loro con norme di nuova concezione; nella Convenzione
si afferma, inoltre, il principio del “superiore interesse del bambino”. In base alla
prospettiva da noi considerata, molteplici risultano essere gli articoli importanti: nell’art.
24.3 le Parti si impegnano ad adottare tutte le misure efficaci ed appropriate al fine di
abolire le pratiche tradizionali pregiudizievoli alla salute del bambino; nell’art. 32.1 si
afferma il diritto del fanciullo ad essere protetto contro lo sfruttamento economico e da
qualsiasi tipo di lavoro rischioso o che interferisca con la sua educazione o sia nocivo alla
sua salute allo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale e nell’art 32.2 le Parti si
impegnano ad adottare misure legislative, amministrative, sociali ed educative al fine di
garantire l’applicazione dello stesso articolo; nell’art. 34 è prevista la protezione del
fanciullo contro ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale e a tal fine si invitano gli
stati ad adottare misure adeguate a protezione dei bambini e dei fanciulli; negli artt. 35, 36
e 38 si ravvisano rispettivamente le ipotesi di rapimento, vendita e traffico dei fanciulli nel
primo, di protezione da ogni forma di sfruttamento pregiudizievole al benessere del
fanciullo nel secondo, il divieto di partecipare alle attività belliche per i minori di quindici
anni nel terzo.
3.3
Il quadro nazionale
Il fenomeno della schiavitù era contemplato nel nostro ordinamento già nel codice toscano
del 1853 all’art.358 che prevedeva una disposizione penale contro “l’impadronirsi di una
persona malgrado la volontà di quest’ultima”. Tale disposizione è stata riaffermata nel
codice penale del 1889 (art. 145) ed infine nel c.p. del 1930 nel quale la disciplina della
schiavitù e della tratta viene sancita da quattro norme penali nella Sezione I del capo III
del titolo XII del libro secondo del codice penale “Dei delitti contro la personalità
individuale”: art. 600 che prevede e sanziona la riduzione in schiavitù o in una condizione
analoga; art. 601 che condanna la tratta ed il commercio di schiavi; l’art. 602
sull’alienazione e l’acquisto di schiavi; ed infine, l’art. 604 che contempla l’applicazione
delle disposizioni considerate anche quando il fatto è commesso all’estero a danno di un
cittadino italiano.
In adesione ai principi enunciati dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, ratificata
dall’Italia con la legge del 27 maggio 1991, n. 176, ed a quanto sancito dalla
Dichiarazione finale della Conferenza internazionale di Stoccolma, 31 agosto 1996, sono
state apportate delle modifiche e delle aggiunte agli articoli del Codice Penale. Tali
modifiche sono state introdotte dalla legge del 3 agosto 1998, n. 269 “Norme contro lo
sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di
minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”, che inserisce, dopo l’art. 600, gli artt.:
600-bis (Prostituzione minorile), 600-ter (Pornografia minorile), 600-quater (Detenzione di
materiale pornografico), 600-quinquies (Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della
prostituzione minorile), 600-sexies (Circostanze aggravanti e attenuanti), 600-septies
(Pene accessorie).
La normativa, originariamente, era completata da un altro articolo del c.p., l’art. 603 che
prevedeva il plagio quale fattispecie necessaria per disciplinare la “schiavitù di fatto”. Il
legislatore aveva introdotto questa norma per colmare una lacuna in quanto gli artt. 600 e
602 possono essere richiamati unicamente quando il soggetto è privato della sua
libertà. Soltanto allora si verificano le condizioni che il sistema giuridico riconosce come
schiavistiche.
In effetti, la schiavitù costituisce sempre una sottomissione totale imposta ad una
persona, ma essa appare realizzabile solo in strutture sociali che la riconoscono e la
18
consentono21. La schiavitù come fatto singolo perpetrato ai danni di una singola persona
non è attuabile.
Molto importante, al fine della nostra ricerca, è anche l’esame della normativa
riguardante l’immigrazione, la prostituzione, il lavoro minorile, l’usura e l’accattonaggio,
realtà correlate con la schiavitù ed il lavoro servile la cui trattazione è rimandata alla
seconda parte della ricerca. Infine, ci si prefigge lo scopo di considerare anche il rapporto
tra cittadinanza e diritti, o meglio, si vuole esaminare se un individuo può usufruire di
determinati diritti in quanto uomo oppure tali diritti vengono riconosciuti solamente quando
si gode dello status giuridico di cittadino di un paese.
Molto importante per quanto riguarda il lavoro minorile in Italia è la Legge del 1967 n. 977
“Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti”, che fissa il limite minimo di età per
lavorare a 15 anni (14 per attività agricole, servizi familiari e mansioni leggere
nell’industria), proibisce il lavoro nocivo per la crescita dei ragazzi fino ai 18 anni o quello
svolto in violazione dell’obbligo scolastico. La normativa italiana dimostra dunque di non
essere in ritardo circa la tutela dei minori però la sua efficacia risulta essere limitata dalla
mancanza di sanzioni adeguate nei confronti di coloro che violano le disposizioni in essa
contemplate.
21
Lemme, F., Schiavitù, Voce tratta dall’Enciclopedia Giuridica Treccani, Vol. XXVIII, ed. 1992.
19
Allegato: Legislazione e documentazione internazionale ed europea
Schiavitù/Tratta/Sfruttamento
ƒ Declaration on the Protection of All Persons from Enforced Disappearance, 1992;
ƒ International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and
Members of Their Families, 1990;
ƒ Body of Principles for the Protection of all Persons under any Form of Detention or
Imprisonment, 1988;
ƒ Declaration on Social and Legal Principles relating to the Protection and Welfare of
Children, with special reference to Foster Placement and Adoption Nationally and
Internationally. Adopted by General Assembly resolution 41/85 of December 1986. In
Appendice;
ƒ Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women.
Adopted and opened for signature, ratification and accession by General Assembly
resolution 34/180 of 18 December 1979. In Appendice;
ƒ The Migrant Workers (Supplementary Provisions) Convention, n. 143, 1975;
ƒ Declaration on the Protection of Women and Children in Emergency and Armed
Conflict. Proclaimed by General Assembly resolution 3318 (XXIX) of 14 December
1974. In Appendice;
ƒ Minimun Age Convention (ILO), n. 138, 1973;
• Proclamation of Teheran. Proclaimed by the International Conference on Human
Rights at Teheran on 13 May 1968. In Appendice;
ƒ Declaration on the Elimination of Discrimination against Women, 1967;
ƒ International Covenant on Civil and Political Rights, 1966;
ƒ International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, 1966
ƒ Raccomendation on Consent to Marriage, Minimum Age for Marriage and
Registration of Marriages, 1965;
ƒ International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination.
Adopted and opened for signature and ratification by General Assembly resolution
2106 (XX) of 21 December 1965. In Appendice;
ƒ Convention on Consent to Marriage, Minimum Age for Marriage and Registration
of Marriages, 1962;
ƒ Supplementary Convention on the Abolition of Slavery, the Slave Trade, and
Institutions and Practices Similar to Slavery. Adopted by a Conference of
Plenipotentiaries convened by Economic and Social Council resolution 608 (XXI) of 30
April 1956 and done at Geneva on 7 September 1956. In Appendice;
ƒ Protocol amending the Slavery Convention signed at Geneva on 25 September
1926, Approved by General Assembly resolution 794 (VIII) of 23 October 1953. In
Appendice;
ƒ Equal Remuneration Convention. Convention (n. 100) concerning Equal
Remuneration for Men and Women Workers for Work of Equal Value. Adopted on 29
June 1951 by the General Conference on the International Labour Organisation (ILO)
at its thirty-fourth session. In Appendice;
ƒ European Convention of Human Rights, 1950;
ƒ Convention for the Suppression of the Traffic in Persons and of the Exploitation of
the Prostitution of Others. Approved by General Assembly resolution 317 (IV) of 2
December 1949. In Appendice;
ƒ Universal Declaration of Human Rights, 1948;
ƒ Slavery Convention signed at Geneva on 25 September 1926. In Appendice;
ƒ Convention of Saint-Germain-en-Laye of 1919;
ƒ General Act and Declaration of Brussels of 1890;
20
ƒ
General Act of Berlin of 1885;
Lavoro minorile
• Risoluzione del Parlamento europeo sulla comunicazione della Commissione “La
relazione tra il sistema commerciale e le norme di lavoro internazionalmente
riconosciute” del 13 gennaio 1999;
• Risoluzione 1999/80, Commissione dei Diritti dell’uomo, sui diritti del fanciullo del
28 aprile 1999;
• Abolition of Children Labour, (ILO), n. 182, del 17 giugno 1999. In Appendice;
• Raccomandazione 190 relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro
minorile e all’azione immediata per la loro eliminazione (ILO), del 17 giugno 1999;
• Risoluzione 1998/76, Commissione dei diritti dell’uomo, sui diritti del fanciullo del
22 aprile 1998;
• Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e i diritti
fondamentali del lavoro del 18 giugno 1998;
• Raccomandazione del Consiglio d’Europa 1336 sulla lotta dello sfruttamento del
lavoro minorile come priorità, del 26 giugno 1997;
• Risoluzione 1997/78, Commissione dei diritti dell’uomo, sui diritti del fanciullo del
18 aprile 1997;
• Risoluzione 52/107 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sui diritti del
fanciullo, 12 dicembre 1997;
• Risoluzione del Parlamento europeo sulla protezione dei fanciulli e dei loro diritti
del 20 novembre 1997;
• Risoluzione del Parlamento europeo sull’etichettatura sociale del 15 maggio 1997;
• Rapporto del Segretario Generale ONU A/52/523 sulla promozione e la protezione
dei diritti dei bambini. Sfruttamento del lavoro,14 ottobre 1996;
• Risoluzione 51/77 dell’Assemblea Generale ONU sui diritti del fanciullo, 22
dicembre 1996;
• Risoluzione relativa all’eliminazione del lavoro minorile adottata alla 83.a sessione
della Conferenza Internazionale del Lavoro,18 giugno 1996;
• Comunicazione della Commissione al Consiglio sulle relazioni tra il sistema
commerciale e le norme di lavoro internazionalmente riconosciute del 24 luglio 1996;
• Risoluzione del Parlamento europeo sull’applicazione delle clausole sociali nel
quadro del programma pluriennale relativo alle preferenze tariffarie generalizzate,
particolarmente per quanto riguarda il Pakistan e Myanmar (Birmania) del 14 dicembre
1995;
• Risoluzione del Parlamento europeo sul rispetto dei diritti dell’uomo e lo
sfruttamento economico dei prigionieri e dei bambini del mondo del 9 febbraio 1994;
• Risoluzione del Parlamento europeo sull’introduzione della clausola sociale nel
sistema unilaterale e multilaterale di commercio del 9 febbraio 1994;
• Direttiva 94/33/CE del Consiglio dell’Unione europea relativa alla protezione dei
giovani sul lavoro del 22 giugno 1994;
• Risoluzione 1993/79, Commissione dei diritti dell’uomo. Programma d’azione per
l’eliminazione dello sfruttamento del lavoro minorile, 10 marzo 1993;
• Risoluzione del Parlamento europeo su una Carta europea dei diritti del fanciullo
dell’8 luglio 1992;
• Convention on the Rights of the Child, 1989. In Appendice;
• Risoluzione del Parlamento europeo sul lavoro minorile del 16 giugno 1987;
21
• Convenzione n. 138 sull’età minima per l’assunzione all’impiego del 26 giugno
1973;
• Raccomandazione 146 sull’età minima del 26 giugno 1973;
• Declaration of the Rights of the Child, 1959;
• Abolition of Forced Labour Convention. Convention (n. 105) Concerning the
Abolition of Forced Labour. Adopted on 25 June 1957 by the General Conference of
the International Labour Organisation at its fortieth session. In Appendice;
• Forced Labour Convention. Convention (n.29) Concerning Forced Labour.
Adopted on 28 June 1930 by the General Conference of the International Labour
Organization (ILO) at its fourteenth session. In Appendice;
• Minimum Age (Industry) Convention, n. 5, 1919;
Allegato : Legislazione nazionale
Schiavitù
ƒ Artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies, 600-sexies, 600-septies,
601, 602, 604 Codice Penale.;
ƒ L 17 Dicembre 1925, n. 2306 - Converte in legge il regio decreto 25 marzo 1923,
n. 1207, che reca disposizioni per la repressione della tratta delle donne e dei fanciulli;
ƒ R.D. 31 ottobre 1923, n. 2749 - Accordi stipulati fra l'Italia ed altri Stati per la
repressione della tratta delle bianche e per la soppressione di quella delle donne e dei
fanciulli.
Immigrazione
ƒ Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 dicembre 1999, n. 535 –
Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori, a norma dell’art. 33,
commi 2 e 2-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
ƒ D.L. 2 agosto 1999, n. 358 – Disposizioni integrative e correttive del decreto
legislativo 26 novembre 1992, n. 470, in attuazione delle direttive 90/364/CEE,
90/365/CEE e 93/96/CEE concernenti il soggiorno di cittadini comunitari;
ƒ Circolare Ministero degli Interni 10 maggio 1999 – Nuovo termine per la
presentazione delle domande di sanatoria;
ƒ D.L. 13 aprile 1999, n. 113 – Disposizioni correttive al testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a
norma dell’art. 47, comma 2, della legge 6 marzo 1998, n. 40;
ƒ D.P.C.M. 16 ottobre 1998 – Integrazione al Decreto Interministeriale 24 dicembre
1997 per la programmazione dei flussi migratori per il 1998;
ƒ D.P.R. 5 agosto 1998 – Documento programmatico triennale relativo alla politica
dell’immigrazione;
ƒ D.L. 25 luglio 1998, n. 286 – Testo Unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione;
ƒ L 6 marzo 1998, n. 40 – Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero. In Appendice;
ƒ Decreto Interministeriale 24 dicembre 1997 – Decreto di programmazione dei
flussi per l’anno 1998;
ƒ D.L. 13 settembre 1996, n. 477 - Disposizioni urgenti in materia di politica
dell’immigrazione e per la regolamentazione dell’ingresso e soggiorno nel territorio
nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione europea. In Appendice;
ƒ L. 9 dicembre 1996, n. 617 – Salvaguardia degli effetti prodotti dal D.L. n. 489/95 e
successivi decreti adottati in materia di politica dell’immigrazione e per la
22
regolamentazione dell’ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei
paesi non appartenenti all’Unione europea;
ƒ D.P.R. 5 gennaio 1995 – Nomina del commissario straordinario del governo per
l’immigrazione da paesi extracomunitari;
ƒ D.M. 21 dicembre 1992, n. 567 – Regolamento recante l’istituzione presso i valichi
di frontiera di strutture di accoglienza per stranieri;
ƒ D.L. 1 luglio 1992, n. 323 – Modifiche ed integrazioni al D.L. n. 416/89 convertito,
con modifiche , dalla L. n. 39/90, in matyeria di ingresso e soggiorno in Italia di
cittadini extracomunitari;
ƒ L. 5 febbraio 1992, n. 91 – Legge sulla cittadinanza;
ƒ L. 28 febbraio 1990, n. 39 – Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e
soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini
extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello stato;
ƒ L. 30 luglio 1990, n. 217 – Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non
abbienti;
ƒ Dec. Min. Tes. 26 luglio 1990, n. 244 – Norme regolamentari per l’erogazione di
contributi alle Regioni ai fini della realizzazione di centri di prima accoglienza e di
servizi per gli immigrati;
ƒ L. 30 dicembre 1986, n. 943 - Norme in materia di collocamento e di trattazione
dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine. In
Appendice;
.
Lavoro minorile
ƒ Art. 37 della Costituzione;
ƒ Artt. 600 (Riduzione in Schiavitù), 600- bis (Prostituzione minorile), 600-ter
(Pornografia minorile), 600-quater (Detenzione di materiale pornografico), 600quinquies (Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile), 600sexies (Circostanze aggravanti ed attenuanti), 600-septies (Pene accessorie), 602
(Alienazione e acquisto di schiavi) del Codice Penale. In Appendice: vedi L 3 agosto
1998, n. 269;
ƒ D.L. 22 febbraio 2000, n. 31 – Differimento dell’efficacia di disposizioni del decreto
legislativo 4 agosto 1999, n. 345, in materia di protezione dei giovani sul lavoro;
ƒ D.L. 4 agosto 1999, n. 345 – Attuazione della direttiva 94/33 CE sulla protezione
dei giovani sul lavoro;
ƒ L. 3 agosto 1998, n. 269 – Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in
schiavitù. In Appendice;
ƒ L 15.febbraio 1996, n. 66. Artt. del c.p. 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinques
– Relativi agli abusi sessuali sui minori;
ƒ D.Lgs. 9 settembre 1994, n. 566 – Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in
materia di tutela del lavoro minorile, delle lavoratrici madri e dei lavoratori a domicilio;
ƒ D.P.R. 20 aprile 1994, n. 365 – Regolamento recante semplificazione dei
preocedimenti amministrativi di autorizzazione all’impiego di minori in lavori nel settore
dello spettacolo;
ƒ L. 6 dicembre 1993, n. 499 – Delega al Governo per la riforma dell’apparato
sanzionatorio in materia di lavoro;
ƒ D.P.R. 31 luglio 1980, n. 619 – Istituzione dell’Istituto superiore per la prevenzione
e la sicurezza del lavoro (art. 23 della L n. 833 del 1978);
ƒ D.P.R. 15 Aprile 1977, n. 367 (1) - Modificazioni al decreto del Presidente della
Repubblica 17 giugno 1975, n. 479, recante norme di esecuzione dell'art. 9, ultimo
comma, della legge 17 ottobre 1967, n. 977, sulla tutela del lavoro dei fanciulli e degli
adolescenti;
23
ƒ D.P.R. 20 gennaio 1976, n. 432 – Determinazione dei lavori pericolosi, faticosi e
insalubri ai sensi dell’art. 6 della L 17 ottobre 1967, n. 977, sulla tutela del lavoro dei
fanciulli e degli adolescenti;
ƒ D.P.R. 17 giugno 1975, n. 479 – Regolamento di esecuzione dell’art. 9, ultimo
comma, della L 17 ottobre 1967, n. 977, relativo alla periodicità delle visite mediche
per i minori occupati in attività non industriali che espongono all’azione di sostanze
tossiche od infettanti o che risultano comunque nocive;
ƒ D.P.R. 4 gennaio 1971, n. 36 – Determinazione dei lavori leggeri nei quali possono
essere occupati fanciulli di età non inferiore ai quattordici anni compiuti, ai sensi
dell’art. 4 della L 17 ottobre 1967, n. 977, sulla tutela del lavoro dei fanciulli e degli
adolescenti;
ƒ L 17 ottobre 1967, n. 977 – Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti;
ƒ D.P.R. 9 marzo 1964, n. 272 - Elenco dei lavori leggeri consentiti ai minori di età
non inferiore ai tredici anni;
ƒ L 19 gennaio 1955, n. 25 – Legge sull’apprendistato;
ƒ R.D. 7 agosto 1936, n. 1720 - Approvazione delle tabelle indicanti i lavori per i
quali è vietata l'occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni e quelli per i quali ne
è consentita l'occupazione, con le cautele e le condizioni necessarie;
ƒ R.D. 24 dicembre 1934, n. 2316 - Testo unico delle leggi sulla protezione ed
assistenza della maternità ed infanzia;
ƒ L 26 aprile 1934, n. 653 - Tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli. L'art. 27, L.
17 ottobre 1967, n. 977, riportata al n. E/X, ha abrogato le norme della presente legge
nelle parti relative alla tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti;
ƒ Disegno di Legge - Istituzione del sistema di certificazione dei prodotti privi di
lavoro minorile. D’iniziativa dei Senatori Pieroni, De Luca Athos, Manconi, Boco,
Bortolotto, Carella, Cortiana, Lubrano di Ricco, Pettinato, Ripamonti, Sarto e
Semenziato;
ƒ Proposta di Legge – Modifiche al codice penale in materia di tutela dei minori e
istituzione di una “clausola sociale” negli accordi commerciali internazionali.
D’iniziativa dei Deputati Bolognesi, Chiavacci, Folena, Gambale, Giacco, Lumia,
Melandri, Paissan, Pozza Tasca, Procacci, Valpiana;
ƒ Proposta di Legge – Istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul
fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile. D’iniziativa del Deputato Calderoli;
ƒ Proposta di Legge – Modifica dell’articolo 22 della L 17 ottobre 1967, n. 977, in
materia di tutela del lavoro dei minori. D’iniziativa del deputato Calderoli;
ƒ Proposta di Legge – Certificazione di conformità sociale circa il mancato impiego
di manodopera di bambini nella fabbricazione e produzione di beni o prodotti importati.
D’iniziativa dei deputati Paissan, Gardiol, Leccese;
ƒ Disegno di Legge – Certificazione di conformità sociale circa il mancato impiego di
manodopera di bambini nella fabbricazione e produzione di beni o prodotti importati.
D’iniziativa del Senatore Manconi.
Prostituzione, violenza sessuale
ƒ L 28 agosto 1997, n. 285 – Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità
per l’infanzia e l’adolescenza (sfruttamento sessuale);
ƒ L 15 febbraio 1996, n. 66 – Norme sulla violenza sessuale;
ƒ L n. 75 del 20 febbraio 1958 “legge Merlin” – Abolizione della regolamentazione
della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui;
ƒ Artt. 530, 539, 540, 541, 542, 543 Codice Penale. (corruzione di minorenni).
Usura
24
ƒ
L n.108 del 7 marzo 1996 – Disposizioni in materia di usura.
25
4.
Cenni sullo sfruttamento del lavoro minorile
Secondo la legislazione vigente il lavoro infantile riguarda tutti coloro che non hanno
ancora compiuto 15 anni. Questa norma legislativa è la n. 977 del 17 ottobre 1967, Tutela
del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti. La legge suddivide i minori in due categorie:
I fanciulli, che non hanno compiuto i 15 anni;
Gli adolescenti, che hanno una età compresa tra i 15 e i 18 anni.
La legge stabilisce inoltre uno stretto rapporto tra lavoro minorile ed obbligo scolastico. Su
questo punto è importante citare, la circolare del ministero del lavoro del 6 giugno 1972 n.
183, secondo la quale “è vietato il lavoro dei minori quando non ne permette la frequenza
alla scuola dell’obbligo, mentre è consentito quando è compatibile con le cautele e le
limitazioni necessarie ad assicurare l’adempimento scolastico”.
Sempre la legge 977/67 negli artt. 3 e 4 stabilisce l’età minima di ammissione al lavoro.
Più esattamente l’età minima per l’ammissione al lavoro è fissata a 15 anni compiuti (art.
3 c.1) anche se possono essere presenti alcune eccezioni.
Rimandiamo al testo integrale della legge 977/67 per le parti riguardanti, nel rispetto dei
limiti di età, le tipologie dei lavori vietati poiché è opportuno soffermarsi sugli aspetti che
riguardano le sanzioni penali e amministrative. La legge pone come condizione per
l’impiego di un minore in una determinata attività lavorativa, il riconoscimento dell'idoneità
al lavoro mediante esami medici.
Esistono due tipi di visite mediche:
1. La visita medica preassuntiva (artt. 8 e 11 delle L. 977/67) per cui l’ammissione al
lavoro dei fanciulli e degli adolescenti è subordinata al riconoscimento della loro idoneità
fisica a seguito di un esame medico. Tale visita medica si effettua a spese del datore di
lavoro e viene eseguita dall’ufficiale sanitario.
2. Le visite mediche periodiche (Artt. 9 e 11, c.2, L. 977/67) da effettuarsi almeno una
volta l’anno, a spese del datore di lavoro.
Nella legge 977/67 erano presenti alcune sanzioni da applicarsi nel caso di inadempienza,
queste sanzioni sono state inasprite attraverso il DL 566/94, che così recita:
Il datore di lavoro che adibisce i minori di anni 16 e le donne minori di anni 18
a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, è punito con l’arresto fino a sei mesi;
L’inosservanza delle disposizioni relative all’età minima e all’assolvimento
degli obblighi scolastici è punita con l’arresto da uno a quattro mesi o con l’ammenda da
lit. 2.000.000 a lit. 10.000.000.
E’ punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da lit. 1.000.000 a lit.
5.000.000 il datore di lavoro che omette le seguenti inosservanze: violazione del divieto di
adibire il minore di 16 anni al mestiere di girovago, adibizione del minore ai lavori di
trasporto e sollevamento pesi oltre i limiti fissati dalla legge, inosservanza delle
disposizioni relative alle visite mediche, all’orario di lavoro, al lavoro notturno e al riposo
settimanale.
Per quel che riguarda l’attività di vigilanza e di controllo sull’applicazione della legge:
L’attività di vigilanza è affidata dal legislatore al Ministero per il lavoro e la previdenza
sociale, che la esercita attraverso l’Ispettorato del lavoro, salve le attribuzioni agli organi di
polizia (Art. 29, c.1, L. 977/67). Oltre agli organi di polizia sono specificamente interessati
anche l’Ispettorato generale di P.S. presso il Ministero del lavoro, quale organo di
collegamento tra il Ministero stesso e la Direzione generale della P. S., la Polizia
Femminile (art. 2 lett. B, L. 1083/59) nonché gli speciali nuclei dei Carabinieri distaccati
presso gli Ispettorati provinciali del lavoro.
Esiste una contraddizione tra la legislazione e gli effettivi interventi istituzionali: infatti da
un lato esistono strumenti legislativi atti a tutelare il minore, dall’altro sono scarse e
frammentarie le concrete politiche di prevenzione e controllo del fenomeno.
26
La prima osservazione che salta agli occhi è il fatto che questa legge è datata 1967. Non
parlare di un fenomeno significa non riconoscerne l’esistenza, e questa emerge non solo
da un punto di vista normativo e legislativo; l’ultima ricerca dell’ISTAT su questo
fenomeno è datata 1967 come la legge, e da allora l’ISTAT ha smesso di raccogliere i dati
supponendo forse di cancellare così tale forma di devianza. Secondo le cifre fornite
dall’ISTAT i minori che lavorano, si sarebbero notevolmente ridotti dal 1961 al 1964 per
poi scomparire definitivamente da quell’anno in poi.
Questa scelta dell’ISTAT appare significativa perché ci parla di una fase dello sviluppo del
paese nel quale alcuni fenomeni apparivano come retaggio di un passato che tardava a
scomparire ma che, con il progredire dello sviluppo, non sarebbero sopravvissuti. In
realtà, come osserviamo più in generale parlando di tutto il fenomeno della schiavitù
contemporanea – in Italia, e nel resto del mondo – la trasformazione del modo di
produzione, la riorganizzazione della fabbrica e la sua polverizzazione, il mercato del
lavoro frammentato, le delocalizzazioni ai quattro capi del globo, le migrazioni, danno
forma a fenomeni tutt’affatto simili nella forma a quelli del passato, ma in parte diversi per
natura. Fuori dal nostro continente, non è raro, infatti, in ambito lavorativo, come in ambito
di sfruttamento sessuale, trovarci di fronte a un mercato delle braccia e dei corpi nel
quale gli adulti vengono sostituiti dai bambini. Non così nelle realtà del sottosviluppo nelle
quali il bambino è messo al lavoro in un ambito familiare, magari a lavorare nei campi
assieme e dopo il resto della famiglia. Insomma, “Il lavoro minorile non è affatto
espressione di sottosviluppo o una sopravvivenza di modi di produrre ancora arcaici tra le
maglie della società industrialmente sviluppata, ma appare connesso e funzionale ai
processi attuali di ristrutturazione capitalistica del lavoro” [G. Petrillo, C. Serino, Bambini
che lavorano, Milano, F. Angeli, 1983].
27
Bibliografia di riferimento:
AA. VV., L’infanzia Negata, 1991, Chieti Scalo, Vecchio faggio editore.
Bonatti Zbudil, Marco, Diana, Legnago, 1997, Grafiche Legnaghesi.
Cgil Nazionale, Indagine conoscitiva sul fenomeno – lavoro minorile – in Italia, Roma,
1996.
ECPAT, A step forward, 1999, Ecpat international
Fondation Scelles, Infos Scelles - bullettin trimestrel, Paris, n. 1 1997, n. 2, 3, 4, 5, 1998,
n. 6, 7, 1999.
Mattioli, Francesco, Iqbal Masih non era italiano, Roma, 1996, Seam edizioni.
O’Grady, Ron, Schiavi o Bambini, Torino, 1995, Tipolito Subalpina.
Park, Theological Reflection on the Prostitution Industry, <<CTC Bulletin>> Bangkok, IV
(1983), 3.
28
5.
La condizione servile e para-schiavistica nei rapporti lavorativi.
5.1
Premessa
Questa sezione della ricerca tenterà di esplorare la presenza e i caratteri del lavoro
servile e delle forme di sfruttamento para-schiavistico in Italia, all’interno di ciò che è stato
definito preliminarmente come “ambito economico”. Tale ambito può essere indicato come
quello in cui tale relazione di sfruttamento opera e si esprime tra soggetti adulti nel campo
di attività produttive (industria, agricoltura, servizi) caratterizzate da un rapporto tra un
proprietario di mezzi di produzione e un prestatore di forza lavoro.
Pur nella varietà di forme riscontrate nei casi empirici fin qui noti, vi è un elemento che
attraversa le diverse situazioni e che costituisce il criterio discriminante ai fini della ricerca,
vale a dire la limitazione della libertà personale che subisce il lavoratore. Si tratterà quindi
di verificare e analizzare quei casi in cui la relazione contrattuale tra datore di lavoro e
lavoratore presenta un carattere fortemente alterato e compromesso, nel senso che
quest’ultimo risulta privato delle possibilità di concordare le condizioni del proprio lavoro.
Quando questo rapporto non è frutto di un libero accordo tra le due parti ma si determina
attraverso l’esercizio di un potere di coercizione, dominio, sottomissione coatta, si viene a
creare, de facto, una situazione in cui si possono ravvisare gli estremi per parlare di forme
di lavoro schiavo o servile.
E’ dunque la privazione della libertà che verrà assunta come demarcatore dello stato
schiavo o servile. Tale privazione della libertà può significare l’impossibilità di contrattare
le condizioni del proprio lavoro (orario, retribuzione, diritti) e le mansioni da svolgere, ma
anche le condizioni di ingresso e quelle di uscita dal rapporto di lavoro.
Ci occuperemo dunque di riconoscere e indagare quelle situazioni italiane dove siano
presenti, all’interno di relazioni di tipo economico-produttivo, almeno alcune delle
costrizioni suddette.
5.2
Le diverse forme para-schiavistiche e servili di sfruttamento economico.
In questo ambito della ricerca ci occuperemo di rintracciare le forme di sfruttamento
violento e impositivo che prendono forma nel nostro paese, anche sulla base della
conoscenza di una casistica che comprende esempi da varie parti del mondo ma anche
più specificamente europei e italiani. Una considerazione, storicamente e
geograficamente ampia e articolata, dei fenomeni contemporanei di schiavitù è risultata
estremamente utile ai fini dell’individuazione di alcune tipologie di assoggettamento degli
individui. Nello stesso tempo un attento esame dei casi segnalati in Europa e in Italia ha
evidenziato come tali forme di assoggettamento servile e schiavistico si producano nel
mondo occidentale soprattutto ai danni di persone immigrate, dunque si localizzino in gran
parte all’interno delle componenti di popolazione straniera presenti in questi paesi.
Le forme oppressive di sfruttamento e dipendenza che verranno prese in considerazione
in questa sede sono di tre tipi: la “schiavitù (o servitù) da debito”, la “servitù domestica”, e
la “servitù da lavoro forzato”. Si tratta, senz’altro, di alcune delle principali forme che la
schiavitù ha preso nel mondo contemporaneo dopo che è stata ufficialmente abolita in
quanto sistema economico-sociale riconosciuto e legittimo. Se infatti è stato ovunque
negato il fondamento giuridico del diritto di proprietà e sfruttamento di un individuo su un
altro individuo, pratiche più mascherate ma non per questo meno crude sono tuttora
diffuse. Tali pratiche, da tempo identificate e condannate apertamente nelle convenzioni
internazionali, continuano di fatto a comportare “parziali ‘poteri’ di proprietà e vengono
considerati come ‘analoghi alla schiavitù’, anche se precedentemente non erano
considerati tali. (...) Questi sono la schiavitù da debito, il servaggio, il matrimonio servile e
il lavoro minorile. Inoltre tre altre forme di servitù che contengono molte delle
caratteristiche della schiavitù vengono descritte: lavoro servile domestico, lavoro forzato e
29
servitù per motivi rituali o religiosi” (Anti-slavery, 1995). Dunque, anche nella letteratura
sull’argomento troviamo ben identificate le forme di sfruttamento schiavistico prese qui in
esame.
• La schiavitù da debito (debt bondage) è la forma più usuale in cui la schiavitù classica
e le relazioni servo-padrone hanno trovato, in molti parti del mondo, il modo di
mantenersi e adattarsi alle nuove situazioni economiche e giuridiche. In effetti, come è
stato da più parti notato, negli ultimi decenni del XX secolo vi è stato “un aumento
senza precedenti degli individui ridotti in schiavitù allo scopo di produrre beni e servizi
per il mercato” (Arlacchi, 1999: 33). La diffusione della schiavitù da debito nel mondo
contemporaneo mostra, in questo senso, come la “coercizione di mercato” abbia di
fatto sostituito o si sia semplicemente sommata alla tradizionale oppressione
gerarchica. Si tratta di un legame di dipendenza che pur apparendo formalmente
legittimo, perché si nasconde dietro una relazione monetaria sottoscritta da persone
legalmente libere, si rivela in realtà estremamente insidioso per il contraente debitore.
Esso innesca un meccanismo perverso che, sulla base di un prestito iniziale di qualche
tipo (in cambio di prestazioni lavorative gratuite o fortemente sottopagate), finisce per
vincolare coercitivamente e in modo prolungato il debitore al suo creditore. Restituire la
somma ricevuta diventa talmente difficile che l’indebitato è costretto a lavorare
gratuitamente per anni e anni, spesso in condizioni di totale privazione di libertà e
diritti.
Storicamente la servitù da debito, che alle volte poteva diventare cronica e trasmettersi
di padre in figlio, si è sviluppata in epoca moderna soprattutto in quei luoghi in cui
“l’economia monetaria si combina con l’agricoltura di sussistenza” (Ennew, 1984), cioè
in quelle società che presentavano forme pre-capitaliste di produzione ma che erano al
contempo coinvolte in processi di modernizzazione e di inserimento nel mercato. Il
caso del Latino-America e del sistema dell’encomienda riportato da Judith Ennew, o
quello del Brasile riportato da Alison Sutton (Sutton, 1994), mostrano chiaramente
come tale formula di indebitamento venga usata strategicamente da latifondisti e
imprenditori per procurarsi manodopera riducibile, di fatto, ad uno stato di schiavitù. Si
può affermare infatti che “il ‘sistema del debito’ è un’inganno. Lo scopo che si propone
il creditore non è il guadagno sugli interessi ma l’acquisizione di un potere di
sfruttamento illimitato sulla vittima e sui suoi parenti (Arlacchi, 1999: 125).
Nell’attuale situazione italiana, e più in generale in quella dei paesi occidentali, la
schiavitù da debito sembra connessa quasi unicamente alla condizione migratoria e al
fenomeno del reclutamento “di lavoro domestico o di servizi dai paesi ‘sottsviluppati’
alle nazioni sviluppate. Il lavoratore può anche essere legato a un particolare datore di
lavoro a causa di un debito contratto per le spese di viaggio o per la fornitura
dell’alloggio e dell’abbigliamento. Occasionalmente le condizioni nelle quali qiesti
lavoratori vivono sono piuttosto deplorevoli e il ricorso ad un aiuto legale può essere
ostacolato dalla condizione di immigrato irregolare” (Ennew, 1984.). Nel caso dei
migranti, dunque, in alcuni casi il debito si può contrarre in seguito all’anticipazione, da
parte di singoli individui o organizzazioni, di beni e servizi necessari per il trasferimento
nel paese di arrivo (documenti, modalità di trasporto, spese di viaggio, ma anche vitto e
alloggio una volta giunti a destinazione). Può succedere allora che gli immigrati
vengano fatti entrare, molto spesso in modo clandestino, e poi costretti a fornire
prestazioni gratuite (di tipo diverso secondo i casi), ai loro “trasportatori” oppure ad altri
individui che rilevano il loro debito; e questo fino a che non riescono a restituire
interamente, naturalmente con forti interessi, la somma anticipata per loro. Le vittime
possono venire “trafficate” sia all’interno di circuiti dove operano connazionali, sia da
individui di altre nazionalità.
30
Da quanto si evince dalla letteratura internazionale in proposito, nei casi dei lavoratori
immigrati nei paesi ricchi il debito tende ad essere di breve-medio periodo e può
essere ripagato entro alcuni anni. Nel nostro paese alcune testimonianze o denunce
(soprattutto di prostitute) hanno dato un’idea di come funzioni il sistema del debito,
della sua entità e del tempo grosso modo necessario per estinguerlo (si veda in
proposito la ricerca condotta da Parsec-Università di Firenze del 1996; ma anche,
riguardo alla comunità cinese, il libro di Ceccagno citato in bibliografia). In Italia,
tuttavia, i casi in cui il debito funziona come meccanismo strutturale per asservire mano
d’opera e appare perciò inserito all’interno di una vera e propria “tratta” sembrano
avere un carattere piuttosto episodico e sporadici nel nostro paese. Quasi sempre,
cioè, chi trasporta non è anche l’intermediario della manod’opera, non sembrerebbe
esservi di norma una connessione organica tra chi organizza i servizi illegali di
trasferimento (tra l’altro di norma pagati al momento della partenza) e chi sfrutta nel
paese di arrivo. Il trasporto organizzato dagli scafisti albanesi, studiato da Luigi
Perrone nel volume Naufraghi Albanesi, descrive queste figure come una sorta di
“imprenditori” in proprio dell’emigrazione clandestina piuttosto che come trafficanti di
schiavi o, per usare un’espressione piuttosto abusata, come “mercanti di carne”. E’
necessario pertanto essere cauti nell’istituire, almeno nella situazione italiana, una
relazione stretta o automatica tra i servizi di trasporto e l’insorgenza del debito da
ripagare con forme di lavoro forzato una volta a destinazione.
• La schiavitù da debito è in effetti la principale forma contemporanea di proprietà servile
e di privazione della libertà personale. Nel caso della nostra ricerca essa si prefigura
da una parte come modalità specifica di riduzione in schiavitù nell’ambito dei rapporti di
lavoro, dall’altro sembra essere più in generale un meccanismo strategico trasversale
alle diverse forme di assoggettamento di tipo schiavista, dalla prostituzione al lavoro
forzato, fino a quello domestico e infantile.
• La servitù domestica appare oggi piuttosto diffusa in ogni parte del mondo, sia nei
paesi poveri che in quelli ricchi. La definizione della condizione di schiavitù proposta
dal CCEM (Comité Contre l’Esclavage Moderne) sembra particolarmente appropriata a
descrivere la situazione vissuta dalle vittime della servitù domestica, “trovandosi in una
situazione di schiavitù ogni persona vulnerabile che presti lavoro senza una
contropartita finanziaria all’interno di un contesto privativo della libertà”. La vittima
viene difatti reclusa all’interno di una casa, sottoposta ad orari di lavoro massacranti
senza essere in nessun modo retribuita, e si trova facilmente esposta a soprusi,
violenze corporali o psicologiche. Sono soprattutto i minori e le donne, di solito in
giovane età, ad essere le vittime di tale forma di sfruttamento, dunque soggetti
particolarmente docili e vulnerabili. Si hanno informazioni e dati circostanziati sul
reclutamento di minori per lavori domestici che avvengono in alcune zone del mondo
povero.
Le regioni dove il fenomeno sembra più intenso sono senz’altro l’Africa centrale e
occidentale e tutta la zona sud dell’Asia, dall’Arabia fino alle Filippine, passando per
India e Cina. In Africa si tratta in genere di ragazzi delle campagne che si recano nelle
città del proprio paese, o di quelli limitrofi, da qualche famiglia che li utilizza nei lavori
più duri. Se alle volte alla base del trasferimento del minore vi può essere un debito
contratto dalla sua famiglia, più spesso la servitù domestica sembra configurarsi come
la prima occupazione retribuita, anche se scarsamente, per bambine e adolescenti che
necessitano di contribuire al magro bilancio familiare (Arlacchi, 1999). Nella regione
asiatica la presenza di domestiche-schiave, oltreché possedere caratteri simili a quelli
africani, sembra configurarsi anche come un flusso più spiccatamente transnazionale e
di donne adulte. Sono migliaia le donne del sud-est asiatico (addirittura 30.000 ogni
anno, secondo le stime riportate da Arlacchi), soprattutto filippine e sri-lankesi, che si
31
trasferiscono nei paesi della penisola arabica per impiegarsi come cameriere nelle
famiglie abbienti del luogo. Secondo molte associazioni una parte rilevante del lavoro
domestico svolto in questi stati (in particolare l’Arabia Saudita) è di natura schiavista
(ciò non significa che esse non percepiscano comunque una qualche forma di
retribuzione). Tale forma di sfruttamento si ritrova attualmente anche nei paesi
occidentali, dimostrando “la tendenza a internazionalizzarsi a causa della
globalizzazione de l’economia e dei flussi migratori” (CCEM). Non sono pochi i casi
conosciuti in Francia, mentre le stime riguardanti persone in situazioni di schiavitù
domestica parlano di alcune migliaia. In effetti una parte dei minori trafficati in Africa
sembra essere destinato all’esportazione in Europa, specialmente in Francia, dove
esistono relazioni storiche privilegiate. I caratteri prevalenti della schiavitù domestica
presente nel paese transalpino sono dunque la bassa età delle vittime, il loro sesso
femminile, la loro condizione di clandestinità e la loro provenienza prevalentemente
africana (ma anche asiatica). Quasi sempre queste sono state trafficate e tenute
prigioniere, da connazionali (a volte familiari), più spesso da famiglie abbienti straniere
(personale diplomatico, uomini d’affari), o dai loro precedenti datori di lavoro che hanno
seguito all’estero.
• E’ ipotizzabile che in Italia si possano presentare fenomeni simili nella sostanza a quelli
riportati nelle casistiche del CCEM in Francia, paese nel quale, grazie soprattutto a
questo organismo, si comincia ad avere una percezione più netta del problema. Non
esistono invece nel nostro paese associazioni o organismi che si sono dedicati ad una
raccolta sistematica di documentazione a proposito. Non è ancora possibile sapere in
che misura esista la schiavitù domestica nel nostro paese, quali siano le nazionalità
maggiormente coinvolte, in che misura siano implicati cittadini italiani. Sarebbe utile
determinare se essa sia più il frutto di una tratta vera e propria, o comunque di una
azione in qualche modo premeditata e orientata a questo scopo, oppure sia piuttosto
una situazione che di fatto può venirsi a creare, per cosi dire “ex novo”, a causa delle
circostanze della realtà migratoria italiana. Il caso dell’uomo italiano che, sequestrati i
documenti alla sua colf filippina, la costringeva a lavorare gratis e a non uscire mai di
casa, offre un esempio di riduzione in condizione di schiavitù nel quale sembra
prevalere la seconda polarità. L’uomo approfitta della condizione di vulnerabilità
psicologica, giuridica e relazionale della donna, traendo vantaggio da una situazione di
debolezza che trova già data. In questo caso l’asservimento non trae origine da un
debito pregresso contratto dalla vittima ma piuttosto da un ricatto estemporaneo del
suo datore di lavoro che sfrutta biecamente la sua condizione non garantita di
clandestina. E’ possibile che entrambe le situazioni siano presenti nel nostro paese, sia
quella organizzata di reclutamento sul luogo e trasferimento in Italia, sia quella di
un’azione “improvvisata” del datore di lavoro su una domestica clandestina. Tra queste
due tipologie è probabile che esistano tutta una serie di casi intermedi.
• La servitù da lavoro forzato rimanda per molti versi all’immagine classica della
schiavitù nelle piantagioni americane in epoca moderna e sembra quindi identificarsi
pienamente con la schiavitù tout court. Nello stesso tempo tuttavia non è affatto
sovrapponibile a quest’ultima, nel senso che “l’uso del lavoro forzato non porta con sé
la stessa nozione di ‘proprietà’ della schiavitù o delle pratiche di tipo para-schiavista”
(Anti-slavery). Il lavoro forzato può essere richiesto infatti dallo stato stesso ai propri
cittadini in alcune particolari circostanze: si pensi alle popolazioni carcerarie o al
servizio militare obbligatorio. Di fatto qualsiasi autorità politica che abbia un potere di
coercizione di qualche tipo è in grado di obbligare altri individui a lavorare senza paga
e in condizioni dure e pericolose.
32
In alcune situazioni di conflitti o guerra civile si ritrovano forme di lavoro forzato imposto
alla popolazione, e con l’aumentare dei conflitti nazionali negli anni ‘90 sono cresciute
anche le segnalazioni di fenomeni di lavoro forzato. In questi casi la riduzione in
schiavitù, anche se magari momentanea, è piuttosto manifesta e riguarda
principalmente soggetti deboli come rifugiati, minoranze etniche, donne, bambini.
Possiamo affermare tuttavia che in genere, nelle situazioni contemporanee dove non vi
siano conflitti bellici e politici dichiarati, questa tipologia di relazioni schiaviste si
concentra all’interno del rapporto tra imprenditore e lavoratore. Tale rapporto viene
costruito sul meccanismo della costrizione e della minaccia, creando in tal modo forme
di lavoro forzato che obbligano individui a lavorare a condizioni determinate
esclusivamente da chi li impiega e a vivere in situazioni dove non hanno molto spesso i
mezzi per difendersi da ogni tipo di abuso. Queste situazioni sembrano verificarsi molto
spesso a seguito della contrazione di un debito perverso, ma possono realizzarsi
anche quando la vittima vive la condizione di migrante senza permesso di soggiorno. A
questo proposito è significativo il caso dei numerosi migranti interni in Cina, che
avendo cambiato regione di residenza si ritrovano con l’ambiguo statuto di “foreign
nationals” e finiscono per essere una forza-lavoro facilmente ricattabile e preda di alti
livelli di sfruttamento e arbitrarietà da parte dei datori di lavoro proprio per la loro
debolezza giuridica (Chan, 1998).
Diventa allora comprensibile come la possibilità di riscontrare questo fenomeno nei
paesi europei sia probabile e allarmante, nel senso che la situazione di clandestinità,
anche in assenza di un debito, può costituirne una condizione sufficiente.
Recentemente è stato scoperto che un imprenditore della provincia di Savona, in
Liguria, nonché vicesindaco del paese, aveva costretto alcuni stranieri a lavorare
gratuitamente nella sua ditta, pena la denuncia della loro irregolarità, dunque l’arresto e
l’espulsione. La variabile del debito può perciò anche non essere presente, lasciando
giocare alla condizione di clandestinità il ruolo del fattore scatenante nell’istituzione di
una relazione di tipo schiavista.
Come per il lavoro domestico, sono le nuove e accresciute condizioni di debolezza e
vulnerabilità che colpiscono il migrante a scatenare gli appetiti rapaci di improvvisati
sfruttatori che usano il sistema del ricatto o dell’inganno. E’ il caso, ad esempio, di
lavoratori assunti e poi costretti a pagare i contributi sul netto della busta paga. Vi è poi
il paradosso di una legislazione in materia di immigrazione che invece di contribuire
alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro ha piuttosto determinato condizioni
favorevoli all’istituzione di rapporti di indebitamento o ricatto.Si può in questo senso
affermare che, in occasione delle regolarizzazioni a norma del Decreto Dini, confluite
poi nelle Legge Napolitano, molti lavoratori immigrati, in cambio della dichiarazione di
assunzione del datore di lavoro e quindi dell’ottenimento del permesso, si siano
sottoposto a periodi di vero e proprio lavoro forzato, anticipando loro stessi il denaro
per pagare i contributi, il tutto a vantaggio dell’imprenditore di turno, italiano o straniero
che fosse.
All’interno della comunità cinese di Prato sono stati raccolti numerosi casi di lavoratori
costretti a lavorare senza alcun compenso, sotto l’impegno di restare alle dipendenze
dell’imprenditore per un tempo variabile fino a due anni; in alcuni casi limite essi
avevano anche sborsato denaro per farsi ufficialmente assumere, oppure avevano
accumulato un debito per rimborsare gli oneri sociali anticipati dal loro datore
(Ceccagno-Omodeo, 1997). Bisogna notare in questo caso che, qualora il decreto
avesse previsto la possibilità di lavorare in maniera autonoma, gli oneri per il datore di
lavoro sarebbero stati più leggeri e i margini di trattativa tra le due parti in causa più
ampi e bilanciati.
Forme di servitù da lavoro forzato si possono determinare dunque in situazioni di forte
ricattabilità delle vittime, talvolta sovrapponendosi o creando anche delle situazioni di
debito. In genere questo rapporto sembra avere una durata limitata, e meno
33
suscettibile di allungamento che in altre situazioni. Il carattere temporaneo di tali
relazioni sembra essere maggiormente esplicitata e negoziata che nella servitù da
debito e in quella domestica, e perciò, dove non intervengano altri fattori (vedi debito),
è possibile che esse non comportino impegni troppo prolungati.
5.3
Terreni di presenza dei fenomeni di lavoro schiavo e servile e di relazioni coinvolti.
Il fatto che a tutt’oggi si manifestino situazioni di riduzione in schiavitù di individui da parte
di altri non deve essere considerato né unicamente come una rimanenza di pratiche
barbare ormai in disuso, né come una perfida iniziativa di pochi personaggi spietati e
crudeli. Al contrario, la persistenza del fenomeno e anche la sua vitalità e frequenza un
po' ovunque nel mondo ci inducono a ritenere che i motivi di questa persistenza siano da
ricercare anche negli attuali meccanismi economici, nella mondializzazione delle relazioni
capitaliste e nel rimescolamento demografico avvenuti negli ultimi decenni.
E’ lo stesso sistema economico globalizzato e la forte competitività tra i vari sottosistemi a
spingere alla ricerca della massima riduzione del costo del lavoro e all’utilizzazione di
strategie produttive che comprimano il più possibile i diritti dei lavoratori. La possibilità di
adoperare forza-lavoro gratuita e asservita, indifesa e senza capacità di reazione e
mobilitazione costituisce, almeno nell’ambito economico, la ragione principale della
presenza di lavoro servile o schiavo. Appare chiaro cioè che “l’odierna schiavitù viene
praticata e mantenuta soprattutto per via degli eccezionali profitti che consente” (Arlacchi,
op.cit.), e che se non si tratta più di un sistema socio-economico costituito, come in
passato, essa rappresenta pur sempre una strategia vantaggiosa di produzione. Non ci si
deve stupire più di tanto quindi se nei paesi occidentali si ripropongano forme di
sfruttamento che mirino a privare di libertà e garanzie i lavoratori più deboli.
Più specificamente, sono i gruppi immigrati che risultano essere la componente della
forza-lavoro più facilmente sottoponibile ad alti livelli di sfruttamento, sia per una
condizione oggettiva di debolezza contrattuale, sia per una maggiore disponibilità ad
accettare lavori duri e mal pagati. Esistono senz’altro alcune ragioni, per cosi dire esterne
e vincolanti, che spiegano l’inclusione subordinata degli immigrati nel mercato del lavoro,
quelle che derivano dall’esistenza di un forte processo segmentazione del lavoro nelle
società sviluppate dell’Occidente.
Di fatto esiste negli Stati Uniti, ma anche in Europa, una situazione di “divisione culturale
del lavoro” (Hecter, 1978), cioè una ripartizione su base etnica delle mansioni, dei salari e
delle garanzie all’interno del mercato del lavoro, in cui i lavoratori stranieri vanno ad
occupare fasce occupazionali o segmenti sfavoriti dove non si ritrovano lavoratori
autoctoni.
In presenza di un mercato del lavoro segmentato etnicamente, nel quale in genere gli
immigrati occupano l’ultimo gradino della scala occupazionale, quella fascia secondaria
dell’occupazione non garantita, la possibilità che si verifichino situazioni di sfruttamento
estremo sono piuttosto alte, soprattutto nell’ambito del settore informale e del lavoro nero.
E’ necessario dunque inquadrare questi elementi e cercare di attualizzarli alla luce di “tutti
quei cambiamenti e sommovimenti del modo di produzione capitalista che hanno avuto
luogo a partire dalla prima recessione post-bellica nel ‘73” (Harvey, 1993: 151). Vi è un
fondamentale accordo, infatti, nel ritenere che vi sia stata una decisa ristrutturazione del
sistema capitalista mondiale e dei suoi processi produttivi: la configurazione fordista,
basata su “un insieme di pratiche di controllo dei lavoratori, mix tecnologici, abitudini di
consumo e aggregati di potere politico-economico” sembra essersi trasformata in seguito
ad un periodo di cambiamento, fluidità, sperimentazione, in qualche cos’altro.
“Nuovi sistemi di produzione e marketing, caratterizzati da processi di lavorazione e da
mercati più flessibili, da mobilità geografica e da rapidi mutamenti nel comportamento dei
consumatori” (ibidem) hanno portato ad un nuovo regime di accumulazione, definito “postfordista” o anche di “accumulazione flessibile”. L’accumulazione flessibile sembra
34
implicare alti livelli di disoccupazione “strutturale”, rapida distruzione e ricostruzione delle
capacità lavorative, il ridimensionamento del potere sindacale e la riduzione degli
standard salariali. La produzione si riorganizza non più a partire da economie di scala ma
semmai da economie di scopo, con la frammentazione e la dispersione geografica dei
processi produttivi, regimi di lavoro e contratti di lavoro molto più flessibili, sistemi di
produzione basati sul lavoro temporaneo e sul meccanismo del subappalto. Una tale
trasformazione nella struttura del mercato del lavoro ha anche provocato la rapida
crescita di economie in nero, “informali” o “sommerse”, documentato un po' dappertutto
nel mondo capitalistico avanzato (Sassen, 1997).
Ai fini della nostra ricerca sembra perciò necessario tener presente come gli immigrati nel
nostro paese, regolari e non, trovino sempre più collocazione nell’ambito del cosiddetto
settore non monopolistico (agricoltura, edilizia, servizi tradizionali, piccolo commercio e
piccola industria), “dove i profitti sono permessi solo dal maggior sfruttamento della
manodopera” (Pugliese, 1997: 181). Il fatto che l’allargamento di questa seconda fascia
del mercato del lavoro e l’incremento dei flussi migratori siano andati di pari passo in molti
paesi a capitalismo avanzato segnala quindi alla nostra attenzione la presenza del primo
terreno critico nel quale ricercare la presenza di forme di sfruttamento estremo dei
lavoratori. Il regime di accumulazione flessibile, espandendo l’area delle condizioni di
precarietà e del sottosalario, riducendo le garanzie per i lavoratori e affondando alcune
delle sue radici nell’economia informale, potrebbe spingere verso l’utilizzo, nei suoi
segmenti “estremi”, di lavoro servile o schiavo, scaricando pesantemente costi e
competitività sulle categorie più indifese (clandestini, donne, minori, immigrati più
sprovveduti). Il lavoro-schiavo fornirebbe in questo caso la vantaggiosa possibilità di
realizzare forme di concorrenza al ribasso.
Nello stesso tempo l’esistenza di gruppi immigrati consolidati, dapprima negli Stati Uniti
ma ora, anche se in misura minore, in Italia, ha provocato lo sviluppo di forme di
economie etniche parallele, le quali almeno in parte costituiscono un mercato del lavoro
separato da quello nazionale. In queste enclave produttive i ruoli di imprenditore e di
lavoratore sono quasi sempre entrambi coperti da individui della stessa comunità. Qui, la
linea delle diseguaglianze economiche e sociali non passa più tra autoctoni e immigrati,
ma tra gli stessi membri del gruppo, vi è quindi semmai “una stratificazione interna a
ciascun gruppo etnico” (Petrosino, 1991).
Si è potuto constatare come nel caso dell’imprenditoria etnica proprio la presenza di una
manodopera di connazionali disponibile a costi stracciati, disposta a orari e condizioni di
lavoro massacranti, ha permesso a queste imprese di essere competitive con quelle
autoctone, colmando lo svantaggio iniziale di risorse, accesso al credito etc. (Light, 1984).
Alcuni studi di analisti statunitensi hanno sottolineato inoltre come essere un migrante
temporaneo ed avere una diversa cultura del lavoro da quella della società d’accoglienza
abbia determinato, in molti gruppi immigrati in America, una tendenza verso il sacrificio e
l’auto-sfruttamento concentrato nel tempo, non riscontrabile presso i lavoratori di origine
locale (Bonacich, 1973). Anche all’interno dunque dei gruppi immigrati stessi possono
presentarsi forme di lavoro sottopagato o non pagato, non rispetto delle regole e soprusi,
e assenza pressoché totale di contrattazione delle condizioni di lavoro.
Una seconda zona grigia dove le relazioni di sfruttamento servile possono prendere piede
può essere perciò quello dell’imprenditoria etnica e delle relazioni intra-comunitarie.
Queste due “aree a rischio” presentano peraltro alcuni aspetti fortemente convergenti e
non sempre appare possibile distinguerle nettamente, nella misura in cui, ad esempio, nel
regime post-fordista “il subappalto organizzato offre l’opportunità di creare piccole
aziende, e in alcuni casi fa rivivere e fiorire, quali parti fondamentali e non accessorie del
sistema produttivo, vecchi sistemi di lavoro domestico, artigianale, familiare (patriarcale) e
paternalistico (con il ‘padrino’, il ‘capo’, o addirittura con uno stile simile a quello mafioso)”
(Harvey, op.cit.:191). Le profonde modificazioni intervenute nell’organizzazione del
processo lavorativo sembrano cioè aver aperto nuovi spazi per il lavoro non garantito e
35
precario e per forme di produzione arretrate o sprovviste di una base tecnologica
d’avanguardia ma ad alta intensità di lavoro e di sfruttamento: “molte attività produttive
che un tempo erano inquadrate nella produzione standardizzata di massa oggi sono
sempre più caratterizzate dalla personalizzazione del prodotto, da forme di
specializzazione flessibile, da circuiti di subappalto e dall’informalizzazione, ossia dalla
privazione dello status formale, che a volte può giungere sino alla riduzione della
manodopera in sweatshop (laboratori in cui gli operai sono costretti a lavorare in
condizioni insane e inique) e allo svolgimento di lavori industriali a domicilio” (Sassen,
1997: 129).
Relazioni lavorative prive di diritti e pratiche di sfruttamento estremo dei soggetti deboli
(ad esempio gli immigrati clandestini) sembrano perciò potersi presentare in entrambe le
situazioni e gli ambiti del mondo del lavoro: la condizione di estremo bisogno economico e
di debolezza giuridica può costituire allora l’anticamera di relazioni di tipo servile e
schiavista sia con imprenditori autoctoni, che con imprenditori del proprio stesso gruppo
etnico (e lo stesso può valere per i datori di lavoro domestico).
Tutto questo ci porta alla seconda questione, quella del tipo di relazione esistente tra
“padrone” e “schiavo”. Forme di lavoro schiavo possono stabilirsi infatti tra differenti
soggetti e in ambiti sociali di diverso tipo.
L’ambito delle relazioni familiari è purtroppo molto spesso uno dei luoghi problematici in
cui si annidano forme di sfruttamento non meno crude che quelle riscontrabili tra soggetti
estranei fra loro. Non mancano esempi in questo senso, anche fra quelli riportati dal
CCEM per quanto riguarda la Francia. Tali forme di “guerra fra simili”, in molti casi frutto di
condizioni condivise di estrema miseria, possono ripresentarsi ad un livello più allargato
nell’ambito etnico-comunitario. Qui all’interno dello stesso gruppo la solidarietà etnica
lascia il posto (ma anche in qualche modo si accorda) ad un canale di ipersfruttamento
privilegiato all’interno della cerchia dei propri connazionali più sprovveduti, sottoposti
temporaneamente a debiti, ricatti, lavoro forzato e forme di prigionia.
La relazione fra padrone e domestico non sembra indicare in maniera specifica un ambito
relazionale di tipo sociale quanto piuttosto di tipo spaziale: la casa. Forme di servitù
domestica esistono fra individui dello stesso gruppo etnico-linguistico cosi come fra
individui di diversi gruppi stranieri, ed anche, come ben sappiamo, fra autoctoni e
immigrati. Tuttavia questo sembra essere il contesto dove è meno forte
Anche la relazione imprenditore-lavoratore, infine, indica in modo specifico l’area del
lavoro (non domestico), identificandosi con l’esistenza di un’unità produttiva di tipo
capitalista (anche se magari debolmente), dove tuttavia le due polarità del rapporto
possono confrontarsi sia nell’ambito familiare e comunitario, sia in quello delle relazioni,
per cosi dire spersonalizzate e non ascritte, fra persone estranee e molto lontane per
cultura, storia, condizione sociale e altro.
Queste distinzioni analitiche, che nella realtà delle cose sono in parte trasversali e
sovrapposte fra loro, dovranno essere verificate nel corso della ricerca. Ciò che l’impianto
teorico della presente indagine ha invece posto come preliminare acquisizione teorica e
metodologica (più marcata e individuante), è la distinzione fra due configurazioni più
ampie e internamente articolate, vale a dire l’ambito delle relazioni servili e l’ambito delle
relazioni para-schiaviste.
a) La condizione servile designa quelle relazioni segnate da un dominio e un potere
decisionale incontrastato, da parte di individui su altri individui che vivono situazioni di
vicinanza fisica, psicologica e sociale. E’ il caso della famiglia, del gruppo etnico o
nazionale, e più in generale di una comunità di qualche tipo, nel senso che questa
comunanza influenza le forme della soggezione servile. Quest’ultima scaturisce più dalla
persuasione che dalla violenza aperta, più dalla ricerca del consenso che non dalla
prevaricazione e si basa su vincoli di appartenenza e di lealtà piuttosto che su contratti
formalizzati. Questi vincoli vengono poi solitamente utilizzati a fini economici di
36
produzione di profitto. L’household e la piccola impresa ne forniscono in questo senso
l’esemplificazione più efficace, in quanto in questi luoghi i rapporti vengono gerarchizzati
non soltanto sulla base dei ruoli tradizionali ma anche perché subentrano interessi
contrapposti di carattere sociale e economico e l’imprenditore necessita di assicurarsi la
totale dedizione del lavoratore alla causa dell’impresa. Tale tipo di relazione è
estremamente difficile da rescindere per la vittima, anche qualora non esistano catene e
forme di reclusione coatta, perché contiene elementi dalla funzione fortemente vincolante
che costituiscono un valido deterrente all’emancipazione, quali la sudditanza psicologica,
l’elemento della coabitazione, la densità delle reti relazionali coinvolte.
b) il secondo campo comprende invece la condizione para-schiavistica, che si basa su
rapporti di completa coercizione, sulla totale mancanza di libertà e sulla violenza. Tale
condizione è caratterizzata dalla lontananza delle parti in causa, laddove queste ultime
non hanno legami familiari o etnici (ed in molti casi nemmeno un retroterra culturale
comune). Le possibilità di negoziazione o di qualche forma di accettazione volontaria della
sottomissione para-schiavista possono variare di grado ma la natura del rapporto è
comunque fortemente asimmetrica. Il modello di sfruttamento para-schiavista sembra
avere un carattere rotatorio, molto spesso basato sul meccanismo del debito, e un
carattere più dinamico di quello servile a causa del continuo ricambio delle vittime.
Se la condizione servile è interna alla “cultura familiare”, quella para-schiavista è presente
dove vige il lavoro sommerso e quelle forme di lavoro nero caratterizzate dalla facoltà
degli imprenditori di imporre coattivamente l’esercizio di determinate attività. Vi sono
senz’altro numerose forme intermedie, dal carattere ambivalente e ibrido, come ad
esempio può essere in alcuni casi il fenomeno della prostituzione, che contiene elementi
di entrambe quando si delinea come rapporto di tipo servile nella prima fase per poi
trasformarsi in para-schiavista. Ma anche il percorso opposto è possibile, nel momento in
cui uno sfruttatore freddo e imprenditoriale stabilisce una qualche vicinanza affettiva con
una prostituta, e pur continuando a sfruttarla stabilisce una relazione personale, di tipo
protettivo e paternalista.
Queste due tipologie sembrano sovrapporsi abbastanza bene a quelli che sono stati
indicati più sopra come i due terreni problematici della possibile presenza di forme di
lavoro schiavo, l’accumulazione flessibile e l’ethnic business, laddove la condizione paraschiavista troverebbe esistenza e nutrimento nella prima, mentre quella servile si
anniderebbe nella seconda. Sulla coincidenza e i contorni di queste categorie la ricerca
avrà la possibilità di aggiungere elementi grazie alla raccolta di casi concreti.
5.4
Fattori che favoriscono/determinano relazioni di sfruttamento servili e paraschiaviste.
E’ necessario come ultima specificazione cercare di indicare quali sono gli elementi
pregnanti che contribuiscono a creare e perpetuare vecchie e nuove forme al centro
dell’interesse della ricerca. Si tratta di individuare su quali materiali si costruisce il
rapporto di sfruttamento, di quali armi dispone lo sfruttatore e quali sono i fondamentali
handicap e costrizioni che generano la possibilità dell’asservimento da parte della vittima.
Molto brevemente segnaleremo alcune delle fondamentali asimmetrie tra individui sulle
quali è possibile costruire una relazione servile o para-schiavista, tenendo presente che
l’indagine si colloca dentro alle realtà migratorie e all’insieme di relazioni che coinvolgono
almeno in una delle due polarità popolazione straniera. Ancora una volta tali fattori
verranno presentati analiticamente disgiunti ma si possono presentare nella realtà dei fatti
come concomitanti, sovrapposti o coincidenti.
a) la clandestinità rappresenta, come ben sappiamo, una condizione condivisa da un
numero non trascurabile di immigrati. Essa implica, oltre alla mancanza di diritti
fondamentali, anche l’impossibilità di accesso al mercato del lavoro regolare e la
37
perseguibilità da parte delle autorità italiane. Tale condizione è forse il fattore più
significativo di debolezza e quindi di “sfruttabilità” della vittima, sia nel senso che tale stato
costringe ad un’esistenza precaria e nascosta e ad acettare patti e ricatti per ottenere la
regolarizzazione (si pensi ad alcuni effetti del Decreto Dini), sia in quanto si profila come
via unica e obbligata per l’entrata nel nostro paese e quindi spinge verso il ricorso a
strumenti e modalità di immigrazione che creano debito e dipendenza verso
organizzazioni o individui “trasportatori”.
b) per sprovvedutezza giuridica e sociale si intende invece quella impreparazione e
ingenuità nei confronti del nuovo contesto di vita, tale che si è facilmente preda di raggiri,
menzogne e ricatti, ma anche quella mancanza totale di altri riferimenti sociali (affettivi ma
anche istituzionali) all’infuori del proprio sfruttatore o di altri connazionali clandestini.
Questo stato può essere frutto dell’abilità ingannatrice dello sfruttatore ma può anche
dipendere da una diversa “cultura del lavoro” dello sfruttato. Può succedere che la vittima
creda che sia in potere del proprio datore di lavoro ritirarle il permesso di soggiorno, o che
ribellarsi ai soprusi implichi il carcere, o che non essere pagati e lavorare tutto il giorno per
il signore sia in qualche modo un atto dovuto. Questo fattore può essere operante sia in
condizioni di clandestinità sia anche qualora vi sia stata una regolarizzazione. Anche un
altro elemento può poi giocare: quello relativo al terrore e al fatto di evitare qualsiasi
rapporto con le istituzioni di controllo formale (forze dell’ordine, tribunali), percepite
unicamente come persecutrici, e mai come protettrici.
c) Indebitamento e ricattabilità sono anch’essi dei potenti fattori agenti sulla
predisposizione ad essere ridotti in schiavitù (oltreché delle condizioni derivate a loro volta
da altri fattori), nel senso che essi possono di per se stessi determinare e creare tale
condizione. Rappresentano infatti due potenti porte di entrata nello sfruttamento estremo
che possono funzionare anche autonomamente da condizioni pregresse di vulnerabilità
(clandestinità, etc.). Debito e ricatto possono insorgere anche dalle circostanze
momentanee ed utilizzare i materiali e le ineguaglianze di volta in volta a disposizione. Si
tratta perciò, da una parte senz’altro di un fattore secondario, in quanto è l’effetto che
sortiscono gli altri fattori, ma anche di un fattore primario, quando ad esempio è la stessa
predisposizione psicologica della vittima a indurre ad operare ricatti, o la sua disastrosa
politica economica a causarne l’indebitamento.
d) Vincolo etnico e fedeltà al patto riguardano situazioni parentali e comunitarie nelle quali
relazione dense e universo sociale condiviso agiscono come potente deterrente al rifiuto
del rapporto di dominio. Si accettano le proprie condizioni di sfruttamento servile perché
esistono delle gerarchie tradizionali che vanno rispettate e che la cultura circolante nel
proprio gruppo promuove e rinforza, perché il padrone, pur se sfruttatore, è anche una
persona vicina (fisicamente e culturalmente) e in parte percepita come protettiva e
paterna, oppure anche perché esiste una qualche forma di patto (debito, scambio,
pegno), il cui mancato rispetto getterebbe discredito sulla propria famiglia o avrebbe altre
spiacevoli conseguenze.
e) Per soggezione culturale si intende quella forma di impotenza e passività nei confronti
del proprio asservimento, derivante dall’utilizzazione a fini distorti di elementi appartenenti
alla cultura e alla religione di appartenenza della vittima (e molto spesso anche dello
sfruttatore stesso). Ne sono un esempio le forme di schiavitù per scopi rituali o religiosi
esistenti in molti paesi, oppure, nel nostro paese, le forme di utilizzazione del voudou
come ricatto magico per impedire l’emancipazione di molte prostitute provenienti dalla
Nigeria. Lo stesso ordine di ragioni, legati alla soggezione, sono quelle che spingono
molte prostitute ad accettare di terminare il periodo necessario alla restituzione del denaro
38
per evitare che la minaccia di rivelare il loro lavoro e la loro condizione alle famiglie
rimaste in Africa si trasformi in realtà.
5.5
Piccola nota metodologica
Si è cercato di presentare in questa sede i contorni della ricerca riguardante le forme di
sfruttamento servile e para-schiavistico nell’ambito economico indicando gli approcci, le
categorie e gli aggregati concettuali che verranno utilizzati per affrontare la fase di discesa
sulla realtà delle situazioni empiriche. Come è evidente si tratta di contenitori
completamente permeabili, di “campi di collocazione” dei casi che verranno raccolti dai
ricercatori, in sostanza di riduttori di complessità e di categorie per processare i dati che
verranno raccolti. I casi empirici noti che la ricerca prende in considerazione e quelli che
tenterà di portare alla luce ed analizzare risultano configurarsi come intersezioni delle
diverse variabili evidenziate, come aggregati di volta in volta differenti dei diversi elementi
sopra presentati. Molti degli esempi concreti, di fatto, sembrano possedere caratteri che
tagliano trasversalmente i blocchi tipologici, hanno caratteristiche ibride, eterogenee e
multisituate.
Pur volendo utilizzare gli strumenti sopra presentati, a cui si riconosce una certa validità
anche pratica, non si cercherà di sovrapporli forzatamente a realtà che potrebbero
risultare fluide e poco “addomesticabili”. D’altronde ogni presa di conoscenza della realtà
necessita di strumenti preordinati di comprensione e analisi, insieme alla capacità di
trascenderli e rimodellarli ogni qualvolta l’indagine lo richieda.
39
Riferimenti bibliografici
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Working Group on Contemporary Forms of Slavery, june 1995
Arlacchi, P., Schiavi. Il nuovo traffico di esseri umani, Rizzoli, Milano 1999.
Bonacich, E., A Theory of Middleman Minorities, “American Sociological Review”,
XXXVIII, october 1973.
Ceccagno, A., Cinesi d’Italia, Manifestolibri, Roma 1998.
Ceccagno, A., Omodeo, M., Gli effetti del Decreto Legge 489/95 sui cinesi di
Prato, in Ceccagno, A. (a cura di) “Il caso delle comunità cinesi, comunicazione
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“Human Rights Quarterly, n. 4, 1998.
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Parsec-Università di Firenze “Il traffico delle donne immigrate per sfruttamento
sessuale: aspetti e problemi. Ricerca e analisi della situazione italiana, Firenze
1996.
Petrosino, D., Stati Nazioni Etnie, Franco Angeli, Milano 1991.
Pugliese, E., La “divisione etnica” del lavoro, “Parole Chiave” n. 14/15, 1997.
Sassen, S., Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 1997
Sutton, A., Slavery in Brasil, Slavery International, 1994.
40
6.
Le diverse configurazioni della prostituzione straniera e della tratta
delle donne a scopo di sfruttamento sessuale
6.1
Flussi migratori, prostituzione e tratta di donne per sfruttamento sessuale
Nella letteratura si riscontra un continuo riferimento al fatto che una parte delle ragazze
che finiscono nel giro della prostituzione, sia intenzionalmente (in genere una minoranza)
che coercitivamente (in genere una maggioranza), sono di origine immigrata: o perché
provenienti da provincie/regioni diverse da quelle dove si esercita ma che comunque
fanno parte dello stesso Stato, oppure perché provenienti da altri Stati, molto spesso da
quelli limitrofi e a volte anche da quelli geograficamente più lontani. Nel primo caso si
tratta di una immigrazione di segmenti di popolazione autoctona, nel secondo caso, al
contrario, si riscontra una immigrazione di segmenti di popolazione straniera22.
La presenza di componenti straniere nel fenomeno prostituzionale è riscontrabile anche
alla fine dell’Ottocento e agli inizi del secolo successivo (Gybson, 1995)23. Il collegamento
tra fenomeno immigratorio (interno ed esterno) in generale e la presenza di collettivi di
donne che si prostituiscono, sembrerebbe, quindi, un fatto quasi fisiologico e non implica
automaticamente nessuna connotazione negativa dei fenomeni migratori in quanto tali.
Pertanto come il fenomeno prostituzionale di origine straniera può nascere all’interno del
fenomeno migratorio più generale, così la tratta a scopo di sfruttamento sessuale è
rappresentabile come un segmento del fenomeno prostituzionale.
In altre termini il segmento di ragazze trafficate e forzatamente costrette alla pratica
prostituzionale sono spinte a mimetizzarsi - pur mantenendo una serie di caratteri propri all’interno del fenomeno prostituzionale ordinario. Quest’ultimo svolge una funzione di
copertura e di mascheramento del sottosistema caratterizzato dalla prostituzione da
tratta, sottosistema comunque di limitate dimensioni, ma non per questo qualitativamente
meno significativo e marginale in termini di problematicità sociale24.
Il carattere specifico della tratta è determinato dall’alto tasso di coercizione esercitato
sulle dirette interessate e sui congiunti più prossimi dai trafficanti/protettori. Aspetto che
ne configura il carattere quasi schiavistico previsto, tra l’altro, dal codice penale25. In
questa prospettiva – secondo Arlacchi - “i rapporti tra le vittime e le persone che ne
detengono il controllo assomigliano a quelli che hanno legato i servi ai padroni nella
schiavitù classica. Ma la differenza è nel contesto”, in quanto in questa fase storica è il
mercato delle prestazioni sessuali a dominare incontrastato questo genere di rapporti
(Arlacchi, 1998)26.
22
Nel Medioevo - secondo J. Rossiaud (La prostituzione nel Medioevo, Economica Laterza, Bari, 1995) - le ragazze che si
prostituivano nelle strade/locande di Parigi e di Lione erano quasi tutte forestiere, sia perché provenienti da altre regioni, sia
perché provenienti dalla vicina Italia o dalla vicina Germania e Olanda. Stessa caratteristica si riscontra tra il XIV e il XV
secolo - secondo Di Giacomo (La prostituzione in Napoli, Editrice Gazzetta di Napoli, Napoli, 1994) - tra i collettivi di
ragazze che si prostituivano nella Napoli del tempo: c’erano ragazze provenzali e ragazze svizzere, nonchè ragazze laziali
e lombarde e ragazze slovene e tedesche, oltre naturalmente ragazze della provincia e della città di Napoli.
23
Era una pratica diffusa che le prostitute straniere si recavano negli Uffici sanitari pubblici appena arrivavano in una nuova
città per registrare la loro presenza ed evitare arresti da parte della polizia. “La maggior parte di esse proveniva … dalla
Germania, dall’Austria e dalla Francia”… Questo non evitava la compresenza di forme di prostituzione clandestina svolta in
strada e all’interno di case non autorizzate a fianco di quella legalizzata. Cfr. Gybson M., Stato e prostituzione in Italia, Il
Saggiatore, Milano, 1995, pp. 170-171;
24
Nella ricerca Parsec il rapporto tra prostituzione ordinaria e prostituzione da tratta è stimato rispettivamente con
14.000/19.000 unità e 1.100/1.400 unità. Cfr Parsec (a cura di, Il traffico delle donne immigrate per sfruttamento sessuale:
aspetti e problemi. Ricerca e analisi della situazione italiana, spagnola e greca ed interventi sociali nel settore, Rapporto di
ricerca, Programma Dafne, Roma, 1998, p. 57 e 63;
4. Nel Capo III del Codice penale, nella Sezione I (“Dei delitti contro la libertà individuale”) e nella Sezione II (“Dei delitti
contro la libertà personale”) in particolare si evince la definizione di riduzione in schiavitù (art. 600), di tratta e commercio di
schiavi (art. 601), di alienazione e acquisto di schiavi (art. 602) e di sequestro di persona (art. 605). Su tali aspetti,
comunque, sono state fatte delle proposte per chiarire meglio il reato in questione in corrispondenza con la tratta a scopo di
sfruttamento sessuale; cfr. M. Virgilio, Proposte di revisione, Documento sottoposto al Comitato interministeriale contro la
tratta, presso il Dipartimento delle Pari opportunità, Bologna, 1998;
26
P. Arlacchi, Schiavi, Rizzoli, Milano, 1999, p. 65;
41
E’ il binomio sequestro/sfruttamento sessuale che configura la fattispecie di tratta, in
presenza di uno status coercitivo che viene alimentato continuamente attraverso piccole e
grandi violenze27 . La tratta dunque configura una condizione dove la libertà - sia negativa
che positiva - è ridotta ai minimi termini e dove le donne trafficate possono essere
acquistate/vendute da bande delinquenziali ad altre, anche di nazionalità diversa28. La
vittima della tratta è considerata una proprietà privata di quanti concorrono allo
sfruttamento.
6.2
I principali modelli prostituzionali su base nazionale
Le principali tipologie relative all’esercizio della prostituzione dipendono direttamente dalle
condizioni caratterizzanti le ragazze coinvolte, sulla base:
-
delle esperienze o meno di prostituzione precedenti all’arrivo in Italia e alle
forme di consenso oppure al grado di coercizione e di violenza sottostante alle
procedure di espatrio;
-
alla durata temporale dell’esercizio della prostituzione e alla posizione ricoperta
dalle dirette interessate, ossia una posizione di forte subordinazione verso i
protettori o di progressivo sganciamento dalla condizione di dipendenza;
-
alle modalità e ai livelli di autonomia che le interessate hanno o che riescono col
tempo ad avere in relazione ai protettori.
Questi aspetti giocano un ruolo diverso a seconda che la prostituzione viene svolta
all’interno di appartamenti e di alberghi (nel caso delle cosiddette prostitute-squillo),
oppure all’interno di locali pubblici o privati attraverso forme complementari di altre attività
di copertura, come quelle di ballerina, di accompagnatrice (nel caso della cosiddetta
prostituzione mascherata), oppure, infine, sulla strada (nel caso delle cosiddette
passeggiatrici). Le diverse modalità di esercitare la prostituzione non sono stabili:
possono infatti rappresentare tappe diverse del percorso prostituzionale ed assumere
differenti configurazioni l’una susseguente all’altra e viceversa anche in corrispondenza
delle diverse comunità nazionali. Infatti, proprio sulla base delle diverse collettività, è
possibile tratteggiare sistemi di esercizio della prostituzione specifiche. Da questo punto di
vista possiamo ipotizzare quattro sistemi principali:
.
quello albanese29 caratterizzato dalla presenza di forme diffuse di coercizione e
di violenza nonché di sottomissione delle donne/ragazze, al punto da ritenere
che in esso
vengano mimetizzati con maggior frequenza i gruppi di
donne/ragazze trafficate tout court30 Il modello albanese è estendibile anche alle
6. Parafrasando Foucault possiamo affermare che i meccanismi di coercizione attivati “sono un lavoro sul corpo, una
manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi comportamenti. Il corpo … entra in un ingranaggio che lo
fruga, lo disarticola e lo ricompone, Una anatomia politica e che è anche una meccanica del potere … “ che “definisce come
si può far presa sui corpi degli altri non semplicemente perché facciamo ciò il potere desidera, ma perché operino come
esso vuole, con le tecniche e secondo la rapidità e l’efficacia che esso determina. La disciplina fabbrica così i corpi
sottomessi ed esercitati corpi docili. La disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici e di utilità) e diminuisce
queste stesse forze (in termini politici di obbedienza)”; cfr. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, p. 150;
28
Nel dopoguerra l’Italia con la legge n. 75 del 20 febbraio ’58 (“Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”) - meglio conosciuta come legge Merlin - depenalizza il reato di
prostituzione nel caso che sia esercitata privatamente e senza protezione alcuna. Al fine del ragionamento sulla tratta la
presente legge individua reati gravi anche nell’incitamento a trasferire le attività prostituzionali oltre confine, ovvero in
territorio di altri Stati.
8. Don Oreste Benzi definisce questo modello prostituzionale “schiavistico e feroce”, cfr. Relazione al Convegno “Oltre la
strada”, Regione Emilia Romagna, Bologna, 1996, p. 35;
30
Per avere una visione d’insieme delle forme di coercizione effettuate a danno delle donne/ragazze oggetto di traffico, cfr.
E. Moroli e R. Sibona, Schiave d’occidente, Murzia, Milano, 1999 e le interviste di A. Amati, in Maddalena Maddalena,
Edizioni San Paolo, Cinesello Balsamo, 1996, in particolare da p. 98 a p. 130, nonché quelle raccolte dalle Suore della
Carità (a cura di), Storie sul filo del rasoio, Testimonianze, Provincia di Torino, Torino, 1999, in particolare le pp. 44-48;
42
componenti bosniache, kossovare31, moldave e bulgare in fase di costituzione
sotto la regia di bande delinquenziali albanesi. Si tratta di una forma di
prostituzione senza termine, ossia a tempo indeterminato, in quanto basata sugli
attributi della proprietà privata e pertanto esclusiva, perpetua e alienabile anche
attraverso compravendita32;
a. quello nigeriano33 caratterizzato dal fatto che le donne/ragazze contraggono un
debito per venire in Italia (e in altri Paesi europei, in particolare in Belgio e in
Inghilterra) che dovranno restituire maggiorato da interessi esorbitanti. Questa
caratteristica configura la prostituzione nigeriana principalmente come una
prostituzione da debito, ossia le dirette interessate si impegnano a saldare il
debito entro un determinato periodo, per poi riscattare la propria libertà di
movimento e la propria auto-determinazione. Si tratta quindi di una forma di
prostituzione coercitiva a tempo, cioè fino a quando il debito viene estinto. Il
mantenimento dell’impegno a restituire i debito contratto si basa su forme di
coercizione frammiste di superstizione voodoo e di forme di violenza psicofisica34. Altra caratteristica è la presenza di una forte organizzazione in grado di
operare sia in Italia che in Nigeria, con legami delinquenziali a livello
transnazionale;
b. quello delle donne/ragazze dell’Est europeo35 (Polonia, Ungheria, Ucraina, le
Repubbliche baltiche e la Repubblica Ceca e Slovacca) caratterizzato dalla
mobilità geografico-territoriale, al punto che questa determina il modello
prostituzionale sottostante e ne rappresenta la caratteristica principale.
L’organizzazione degli spostamenti assume un carattere manageriale, niente è
lasciato allo spontaneismo: tempi di permanenza, tariffe e suddivisioni delle
percentuali spettanti ai protettori e quelle spettanti alle dirette interessate sono
codificate al momento della stipula del contratto;
c. quello delle donne/ragazze latino americane (in particolare Peruviane e
Colombiane) caratterizzato da una certa volontarietà determinata dalle
condizioni di necessità economica. Si tratta di una forma di prostituzione spesso
complementare ad altre attività lavorative più ordinarie, come l’esercizio del
lavoro domestico o del lavoro nei servizi alle persone e nei servizi di
ristorazione. La prostituzione è concepita come una modalità di integrare redditi
per soddisfare bisogni contingenti correlabili al ciclo di sviluppo della famiglia
(imprevisti economici, nascita di un figlio, costruzione della casa, eccetera).
Esiste, per tali ragioni, una certa autonomia dai protettori che spesso sono
persone con la quale si intrattengono forme relazionali anche di natura affettiva.
31
Gli effetti devastanti del conflitto balcanico hanno causato forme di violenza diffuse verso le donne, con casi di stupro
etnico che hanno determinato esclusione dalle comunità di appartenenza e isolamento. Questo a condotto molte donne
stuprate nei circoli prostituzionali e in quelli del traffico a scopo prostituzionale. A proposito, cfr. E. Pasic, Violentate,
Armando editore, Roma, 1993;
32
Sono interessante a proposito le considerazione sul rapporto tratta/proprietà/schiavitù che svolge O. Philippon, in La
prostituzione mascherata, Edizioni paoline, Vicenza, 1955 pp.23 e segg.;
33
Sempre Don Oreste Bensi – nella Relazione citata - definisce il modello nigeriano “prostituzione schiavizzata”,
inglobando in questo modello la prostituzione giamaicana, quella ghanese, quella camerunense, quella liberiana e quella
delle donne del Burundi;
34
Parsec (a cura di), Traffico di donne … op.cit., pp. 87-90;
35
Su questo modello prostituzionale si sa ancora poco, oltre naturalmente le informazioni acquisite dagli operatori sociali
che intervengono sulla strada. Comunque, oltre all’indagine Parsec citata, è interessante la breve intervista effettuata a
“Daniela” da R. Sapio, Prostituzione. Dal diritto ai diritti, Leoncavallo libri, Milano, 1995, p. 157;
43
6.3
I rapporti prostituzionali e i diversi livelli coercitivi
Tra le donne che esercitano la prostituzione e i loro protettori, siano essi singoli individui o
membri di organizzazioni, vigono rapporti che possono spaziare tra due poli contrapposti:
da un lato quelli basati sulla coercizione più violenta, dall’altro quelli basati sul forme di
protezione discreta e in qualche modo condivisa. I rapporti possono quindi caratterizzarsi
secondo le seguenti corrispondenze:
A.
B.
Massimo di coercizione
Massimo di autonomia
=
=
Minimo di autonomia
Minimo di coercizione
All’interno di tale bipolarità possiamo ancora individuare - su un ipotetico asse
longitudinale - altre cinque dimensioni principali:
a.
la prima è di natura compromissoria, ovvero è determinata dalla ricerca di un
modus vivendi tra le interessate e i rispettivi protettori, finalizzata ad affievolire
tendenzialmente il grado di violenza insita nel rapporto;
b.
la seconda è di natura contrattualistica, in quanto è basato sull’accettazione della
possibilità negoziativa tra le parti nella definizione delle modalità da perseguire, al
fine di condurre il rapporto all’interno di regole condivise;
c.
la terza è di natura compatibile, in quanto è basato su forme relazionali che
riconoscono un certo equilibrio e una certa funzione paritetica tra gli attori coinvolti.
Ovvero le ragazze conquistano/ottengono un margine significativo di
indipendenza, ma all’interno comunque di un rapporto di subordinazione;
d.
la quarta è di natura strumentale, in quanto entrambe le parti hanno coscienza che
possono ricavare dal rapporto prostituzionale dei reciproci vantaggi. Questa
dimensione è quella che potrebbe condurre
maggiormente a forme di
indipendenza da parte delle donne coinvolte;
e.
la quinta è di natura condivisa, in quanto tra gli attori direttamente coinvolti
subentrano forme relazionali basate su aspetti affettivo-esistenziali consolidati.
Questa dimensione è quella che scaturisce dal rapporto prostituzionale
allorquando i caratteri dominanti sono ascrivibili al reciproco consenso delle parti
coinvolte.
La prima e la seconda dimensione sono quelle correlabili nel campo della corrispondenza
A. (cioè: più coercizione meno autonomia delle interessate, ovvero condizione specifica di
tratta), mentre la quarta e la quinta sono quelle correlabili nel campo della corrispondenza
B. (cioè: più autonomia meno coercizione). La terza, invece, rappresenta la condizione
mediana, quella caratterizzata da contraddizioni del rapporto prostituzionale - non
necessariamente conflittuali e dirompenti dove possono convivere anche
comportamenti antitetici, ravvisabili
nell’una e nell’altra corrispondenza. In tale
dimensione anche la condizione di tratta può raggiungere un certo bilanciamento tra il
desiderio di rompere il rapporto prostituzionale e la capacità/ possibilità di modificarlo
strumentalmente.
6.4
Brevi conclusioni
I flussi migratori hanno al loro interno micro-flussi caratterizzati da spostamenti di donne
che esercitano la prostituzione già nel paese di partenza o che sono costrette ad
esercitarla una volta giunte in Italia: o per necessità economica oppure per costrizione da
parte di sfruttatori senza scrupoli. Fatto nuovo degli ultimi anni è la tratta di donne (ma
44
anche di bambini ed adolescenti) a scopo di sfruttamento sessuale. Siamo davanti ad un
fenomeno di portata rilevante che coinvolge organizzazioni presenti in differenti paesi e
dove le disposizioni normative sino ad ora operanti – sia di natura giudiziaria che di natura
sociale - sembrano non pertinenti ed adeguate a contrastarlo. Anche perché le pratiche
delinquenziali che sottostanno allo sfruttamento hanno livelli di organizzazione ancora
quasi del tutto sconosciute alle forze di polizia (nazionale e internazionale).
La tratta di donne – intesa come sradicamento forzato, cioè contro la volontà delle dirette
interessate – a scopo di sfruttamento sessuale tende a mimetizzarsi con le forme di
prostituzione ordinaria. Anzi. Di questa ne assume le caratteristiche ma radicalizzandole
al massimo delle possibilità: esercizio della prostituzione a ritmi sostenuti, isolamento e
segregazione, rigidità dei comportamenti, forme di disciplina estenuanti, percosse gratuite
e ingiustificate, ritiro dei documenti di riconoscimento, minacce ai familiari, eccetera.
In queste condizioni le donne coinvolte rispondono perfettamente a quello che vogliono i
loro sfruttatori, in quanto divenute docili e accondiscendenti per evitare forme estreme di
violenza psico-fisica. Da un lato, dunque, si riscontrano forme di prostituzione ordinaria (e
tradizionali) – dove tra le donne coinvolte sono presenti e riscontrabili tracce di
volontarietà nell’esercizio delle attività – e, dall’altro, si riscontrano forme prostituzionali da
tratta, dove scompaiono del tutto le tracce di volontarietà. Nel mezzo è possibile
individuare alcune tipologie sulla base della capacità di mediazione e di autonomia che le
donne coinvolte riescono ad avere nel rapporto prostituzionale con i rispettivi protettori.
Tipologizzazioni necessarie – non per spirito classificatorio – ma per facilitare
l’articolazione delle risposte di politica sociale da intraprendere al fine di contrastare il
fenomeno nelle sue configurazioni più criminali.
45
7.
Popolazioni zingare e sfruttamento dei minori
Il primo problema da porsi è quello relativo all’oggetto di studio. Siamo infatti in presenza
di una cultura non omogenea come spesso ci pare di intendere. Diverse comunità,
diverse storie, diversi modelli di adattamento alla società italiana. I flussi migratori che
hanno determinato la presenza degli zingari in Italia sono infatti numerosi e diffusi nella
storia; i più recenti e importanti sono: quello successivo alla liberazione degli schiavi in
Romania nel XIX secolo, successivamente al primo conflitto mondiale, negli anni 60 del
Novecento e, più recentemente, a partire dalla morte di Tito, i flussi dalla ex-Jugoslavia –
ultimi quelli dovuti alle guerre bosniaca e in Kosovo.
Tutti questi flussi hanno portato a forme diverse di presenza, rapporto con la società
italiana e tra gruppi di zingari entrati in Italia in diverse fasi storiche e provenienti da aree
geografiche diverse. Alcuni gruppi sono stanziali da decenni, altri sono ancora nomadi, ci
sono presenze in aree rurali e altre ai margini delle città. Questa composizione complessa
delle società zingare presenti in Italia ha prodotto “una articolata stratificazione, diversità
culturali e linguistiche oltre a una diversità di accesso ai diritti di cittadinanza” (Aa. Vv.,
1997, pp. 24-35).
Ciascuno di questi gruppi, dunque, vive in condizioni relativamente diverse ed ha
tradizioni lavorative diverse. Le società nomadi – e quella zingara è una di queste –
sviluppano infatti modalità di convivenza temporanea con le società nelle quali viaggiano
che possiamo definire di raccolta (riparazioni, vendita oggetti, elemosina, spettacoli, furti).
La sopravvivenza e l’organizzazione sociale sono però molto connesse con il fatto che il
gruppo al quale si appartiene viaggia, vive parallelamente alla o alle società
geograficamente collocate nei luoghi in cui si muove. Il legame non è, quindi, mai stretto
ma piuttosto di scambio occasionale: quando se ne ha bisogno. Poi ci sono i legami con
gli altri gruppi appartenenti alla propria “società mobile”: il campo, i commerci, le feste
tradizionali e i matrimoni e funerali dei parenti. Questi contatti servono per scambiare,
commerciare, stabilire alleanze, ecc.
E’ evidente che nel caso delle società zingare in Italia la società nomade resta tale per
certe modalità di rapportarsi con la società nella quale vive e per alcune abitudini e forme
di contatto interne. E’ molto diverso invece il contesto sociale nel quale ci si muove, la
percezione che la società ospite ha degli zingari, ecc.
Ecco allora che ci si trova di fronte a modelli di convivenza/integrazione molto diversi tra
loro nei quali la provenienza gioca un ruolo fondamentale.
E’ infatti diverso essere rom abbruzzesi con passaporto italiano, abituati agli spostamenti
in Italia, ecc. e Bosniaci cacciati dalla propria casa e finiti in qualche roulotte ai margini di
una grande città senza abitudine a fare quella vita.
Anna Rita Calabrò (1992) identifica, facendo riferimento alla realtà milanese, quattro
modelli di comportamento, di reazione al mutamento, che possono essere utili allo
svolgimento della nostra ricerca come basi molto larghe di partenza per identificarne
l’ambito.
Ecco, in sintesi, gli idealtipi segnalati dalla Calabrò nella sua ricerca:
0.
Integrazione/differenziazione, nel quale si condividono alcuni aspetti della
nostra società (percorsi di lavoro, scuola, documenti, ecc.) mantenendo un
modello abitativo e familiare tradizionale;
1.
Ghettizzazione e perdita di identità, nel quale sono di più gli elementi conservati
(rifiuto dell’etica del lavoro, famiglia, organizzazione di spazio e tempo) ma si
assumono caratteri della cultura ospitante tipica dei Rom (quella delle periferie
urbane con le quali sono in contatto: consumismo e culture devianti);
46
2.
Separazione e subcultura (minoritario): identificazione forte con la propria
cultura e religione, forte solidarietà interna e riconoscimento della cultura ospite
come altro da sé della quale si assumono tratti non devianti;
3.
Estraneità e devianza: nomadismo sotterraneo tra campi, clandestinità,
estraneità nei confronti delle regole locali e scarso rispetto delle altre comunità
Rom.
E’ quindi un contesto instabile quello su cui si innesta, a partire dagli anni 80 e poi, con
più rapidità a partire dal 1992, l’esodo dalla ex-Jugoslavia dovuto ala crisi economica e
istituzionale del dopo Tito, prima, e alle guerre di Bosnia e del Kosovo, poi. Negli stessi
anni, il numero di zingari aumenta di molto, le condizioni nei campi peggiorano e aumenta
la presenza degli immigrati che rende gli zingari allo stesso tempo, parte di un problema
emergente e etnia/gruppo sociale marginale rubricato in parte dentro alla questione più
generale dell’immigrazione. In questa fase l’intolleranza prende nuove pieghe, i
programmi di inserimento, dopo un’accelerazione, enfatizzata dall’avvento delle giunte di
sinistra nei primi anni 90, torna ad essere una questione scomoda.
Inoltre, le condizioni giuridiche di buona parte degli zingari arrivati dalla ex-Jugoslavia
sono precarie e questo peggiora ancora di più il loro rapporto con le istituzioni. Siamo
infatti in presenza di persone che non hanno registrato la loro presenza in Italia anche
qualora risiedano nel paese da moltissimi anni.
Ancora, il contesto sociale nel quale si sono sempre mossi gli zingari in Italia va
cambiando, si allontanano i confini con la società italiana, le parti marginali con le quali gli
zingari convivevano cambiano, sono sempre meno gli italiani simili agli zingari, quelli con i
quali avere scambi monetari e non, coloro che vivono ai margini nei termini di qualche
anno fa (baraccati, ecc.), quelli che esistono sono cambiati. Questo ha prodotto un
maggiore isolamento: si pensi alle foto di Franco Pinna che ritraggono baraccati e zingari
che vivono nelle stesse aree della città negli anni 60 (ad esempio il Mandrione, a Roma) e
si paragoni quella situazione di convivenza marginale a quella di oggi, nella quale
maghrebini senza permesso e, a volte tossicodipendenti-piccoli spacciatori, vivono (o
hanno vissuto, prima di un’ondata emergenzialista), nel campo di Casilino 700 al fianco
degli zingari.
I mestieri tradizionali esercitati dagli zingari non servono più, le forme di inserimento
sociale che la società contemporanea offre sono sostanzialmente forme di integrazione
economica e professionale mentre, gli zingari, tendono al “disimpegno dall’economia
Gagè”. Il loro è un tendenziale rifiuto della stratificazione in classi nel quale ricchezza e
povertà non originano stratificazioni sociali permanenti. Ne derivano forme di
sopravvivenza legate alla vendita di cose, alla vendita temporanea della propria
manodopera, al furto e accattonaggio (Piasere L., 1991).
Ecco che la somma marginalità/illegalità si rende più facile. Rubare e mendicare erano già
una forma di relazione, una delle attività, a seconda del bisogno, della fase, del luogo in
cui ci si trovava, mentre, dentro alle trasformazioni odierne, diventano uno degli elementi
sui quali fondare un’esistenza possibile. Inoltre, i mestieri che chiamiamo tradizionali e
altri di quelli che portavano gli zingari a rispondere a bisogni bassi della società italiana
(raccolta della carta, ecc.) non solo sono marginalizzati ma producono redditi
infinitamente più bassi rispetto all’”andare a chiedere” e al rubare. Oggi o vivono
“chiedendo” o vengono assimilati, “integrati ai livelli più bassi, nei circuiti degradati delle
nostre metropoli” (Carta, Novembre 1999).
Laura Furlotti (1998) parla di minori “devianti autoemarginati” perché ibridi culturali attratti
da forme del consumismo della società italiana, che vivono la loro vita fuori dal campo
(scuola, strada) e che imparano la loro cultura al campo: ibridi culturali non accettati dalla
società ospite se non ai loro margini. La difficoltà iniziale nel convincere i genitori a
mandare i figli a scuola, risiede probabilmente in questo nodo: con la scolarizzazione si
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avvia una doppia socializzazione del bambino/ragazzo zingaro nella quale il genitore
incontra grandi difficoltà a trasmettere il proprio bagaglio culturale ai figli (Piasere, 1991).
Il giovane zingaro è quindi, rispetto ai genitori, più abituato a un contatto stabile con la
società italiana (sedentarizzazione e scolarizzazione), attratto da modelli culturali
osservati fuori dal campo e attraverso i mass-media, inserito in un contesto di vita – quello
del campo – che non coincide con la realtà esterna, né quella scolastica, né quella
marginale urbana con la quale ha a che fare fuori dal campo. Questo genera tra le altre
cose, forme di devianza nuove quali la prostituzione e l’uso di eroina. In tutto questo
contesto si pensi allo spaesamento di quelle persone giunte dalla ex-Jugoslavia e al
difficile rapporto con i figli cresciuti in Italia.
In generale si può dire che almeno gli una parte degli zingari presenti in Italia, quelli che,
utilizzando lo schema di Calabrò coincidono con i gruppi 2. e 4., sia “marginale rispetto
alla propria tradizione e ai modelli della società attuale” (Lizza G., 1996).
Ci sono poi i cambiamenti istituzionali, l’attitudine delle istituzioni nei confronti di
popolazioni che fino allo scorso decennio erano quasi ignorate, sulle quali si è tentata la
strada della scolarizzazione con poco impegno e che si va facendo persecuzione. La
poca libertà di movimento, l’integrazione forzata, l’obbligo di avere documenti, ecc.
contribuiscono alla sedentarizzazione: la sedentarizzazione di un gruppo sociale che nel
frattempo non ha cambiato di molto le sue abitudini.
Come elemento aggiuntivo va considerata, come rilevato già in precedenza, una difficoltà
a capire quante sono le presenze in Italia, chi sono e quanti gli zingari arrivati in questi
anni. Se “il problema della conoscenza di base quantitativa degli zingari è assolutamente
irrisolto sia a livello di fonti ufficiali che di stime fatte dalle organizzazioni che se ne
occupano” (Aa. Vv., 1997), visto che il testo citato era del 1997, il contesto è ancora più
complicato. In un lavoro di ricerca delle fonti esistenti, Lunaria (Zingari e Gagè, Cd-Rom,
1997), parla di circa 100 mila persone (di cui 25 mila provenienti dalla ex-Jugoslavia), ma
in questi anni il numero è senz’altro cresciuto, visto che nell’organizzazione di rimpatri di
profughi da paesi dell’Ue a repubbliche della ex-Jugoslavia non si è tenuto assolutamente
conto di un gruppo che era minoranza in ciascun luogo della Jugoslavia.
Ecco dunque che lo schema della Calabrò, torna utile alla nostra ricerca per chiarire in
qualche maniera qual è il contesto sociale nel quale si cala la nostra ricerca. Il quarto
idealtipo (Estraneità e devianza) assieme al secondo, (Ghettizzazione e perdita di
identità) sembra essere il modello che più ci è utile: persone che sono fuggite o che sono
“emigrate”, non in forte relazione con gli altri, costretti ai margini da circostanze e
istituzioni. Il secondo gruppo è il più numeroso, quello che meglio descrive la realtà
esistente, magari con spinte verso il primo in alcuni casi di singole famiglie (nello stesso
libro della Calabrò ci si riferisce ad alcune interviste con famiglie che non vogliono stare
nei campi, i cui figli lavorano, ecc.). Dentro a questo gruppo di nomadi clandestini
troveremo, con ogni probabilità alcuni casi di schiavi bambini presi (con la forza, comprati
o con l’inganno) nei paesi della ex-Jugoslavia e portati in Italia per essere messi a
lavorare. La mancanza di rapporti di parentela con i bambini portati in Italia fanno si che
vada perso il rispetto a loro dovuto. Se fossero familiari, magari andrebbero lo stesso a
rubare, ma non costretti a farlo con la violenza. Il caso, possibile degli schiavi, è quindi
limitato a gruppi estranei al tessuto zingaro tradizionale. La stampa ci offre spesso spunti
in questo senso (come quello della bambina Rom venduta per pagare un debito e trovata
morta, la Repubblica, 31/3/00): il problema è che l’abuso del termine schiavo e l’accumulo
di pregiudizi sugli zingari, rendono molto difficile separare la realtà dall’immaginazione,
situazioni difficili o tragiche da rapporti di schiavitù. Del resto, questo è uno degli elementi
di difficoltà che riguarda tutti i campi in cui la ricerca si va svolgendo.
L’indagine dovrà appurare se questo è vero, chi sono, come è riconoscibile questo
fenomeno, che proporzioni ha, se è vero (Calabrò, 1992) che i gruppi più marginali e
malviventi si spostano di frequente e non sono integrati in nessuna comunità zingara. Si
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tratterebbe insomma di gruppi usciti da alcuni paesi dell’Est che vengono qui a delinquere
e si mischiano agli altri zingari per scomparire meglio ma non convivono con questi.
La Furlotti parla anche degli argati, "operai": bambini venduti nei Balcani e addestrati alla
pratica del furto con modalità che non sono quelle che riscontriamo, che rubano cose più
grosse, che vengono anche sottoposti a violenze perché non parte della famiglia. Una
testimonianza diretta è quella riportata in Immiforum (Lunaria, 1999) dove un ragazzo
Rom-kosovaro, racconta di essere stato venduto e introdotto in Italia, costretto con la
violenza a rubare.
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Bibliografia
- Aa. Vv., Zingari e pregiudizio, in, Lacio Drom, 1, 1997, pp. 24-35
- Dialogo sugli zingari tra Marco Revelli e Antonio Tabucchi, Carta, Novembre 1999
- Anna Rita Calabrò, Il vento non soffia più, Marsilio, 1992
- Laura Furlotti, Devianza minorile zingara, in Roberta Bisi, Percorsi per un'età difficile,
Franco Angeli, 1998
- Lizza G., L’adolescente zingaro, in, Lacio Drom, 1, 1996
- Lunaria, Immiforum Lunaria/Ue DGXXII, 1999
- Zingari e Gagè, Cd-Rom, 1997
- Piasere L., Popoli delle discariche, Saggi di antropologia zingara, CISU, 1991
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ALLEGATO 1
Atti del seminario del 24/1/2000
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Interventi del SEMINARIO 24 /1/ 2000
“Il lavoro servile e le forme di sfruttamento paraschiavistico in Italia”
Enrico Pugliese
Vorrei soprattutto riferire alcuni esercizi che avevo preparato per il lavoro di campo, cioè il
mio sforzo di operazionalizzare quei concetti che sono alla base della ricerca , in
particolare quello di lavoro schiavistico .
Devo però fare una qualche premessa. Quando mi avvicinai a questa ricerca dichiarai
subito le mie perplessità, perché in Italia era già diffusa nell’immaginario un’idea secondo
la quale esistevano delle condizioni terribili in cui si trovavano alcuni immigrati, "alla
mercè" - si sentiva dire - di sfruttatori particolari. “Mercanti di carne” era un’espressione
spesso usata. Un corollario di questa visione era la suddivisione degli immigrati in due
categorie: quelli che venivano "per delinquere" e quelli che venivano "per lavorare". I primi
erano naturalmente i clandestini e i secondi regolari.
Questa suddivisone non ha alcun fondamento: basti pensare che qualcosa come l’80%
degli immigrati in Italia hanno passato una fase di clandestinità - di irregolarità sarebbe più
corretto dire - dal punto di vista del permesso di soggiorno.
Ormai l'esistenza di questa categoria si era affermata nell'immaginario collettivo:
"mercante di carne" sarebbe stato lo scafista o il traghettatore che avrebbe reclutato e
portato in Italia questa "carne" che sarebbe poi stata messa a disposizione di un processo
produttivo di tipo schiavistico o paraschiavistico . Gli scafisti, coloro che traghettano gli
immigrati da una parte all'altra dell'adriatico come sa bene chi li aveva studiati, hanno
una lunga storia , e all'inizio la loro attività non era controllata dalla malavita, ma lo è
diventata in seguito. Tanto più elevato è stato il grado di repressione nei loro confronti,
tanto più il business del trasporto è passato nelle mani di malavitosi. E' cosa risaputa da
chi se ne intende (rimanderei a Naufragi Albanesi di Luigi Perrone) che in Albania c’erano
le liste di attesa per essere trasportati dagli scafisti, che - come è noto - non reclutano per
conto di nessuno. Perrone in più di un occasione ha mostrato come sia diversa in Albania
l'immagine dello "scafista" rispetto a quella che se ne ha in Italia. Quando, dopo un
viaggio difficile - racconta Perrone - dopo un viaggio per un porto della Puglia, una
carretta tornava indietro senza affondare , lo scafista veniva portato in trionfo per Valona o
per uno qualunque degli altri porti di partenza. Questo è una realtà che ai teorici de "i
mercati di carne" sfuggiva totalmente.
Ma non è questo il problema. Non solo gli scafisti, che ora sono dei salariati, ma neanche
i personaggi più o meno mafiosi che gestiscono i trasporti sono "dei mercanti di carne".
Sono solo gente che offre un servizio illegale pagato ai pressi ai quali si vendono i servizi
illegali. Poi gli albanesi e gli altri immigranti la loro merce forza lavoro gli albanesi la
vanno a vendere autonomamente e per fatti propri. Chi trasporta - o chi possiede il mezzo
di trasporto - non fa da intermediario della mano d'opera. Sarà un personaggio
moralmente deplorevole e legato alla criminalità, ma organizza trasporti non "traffici di
gente" non "mercato di carne umana". L'incontro tra domanda e offerta di lavoro avviene
ad altri livelli. Ma si preferisce pensare diversamente: l'idea dei "mercanti di carne" è più
interessante.
La verità è che l'immigrazione attiva la fantasia e genera figure e fatti che poi si
consolidano nell'immaginario. Perciò la gente crede a tutto. E ciò riduce le possibilità di
conoscenza. Io lessi una volta un articolo non firmato sul Manifesto - giornale di provata
fede democratica e pro-immigrati - che diceva che dei bambini di varia "etnia e
nazionalità " erano tenuti in condizioni di super sfruttamento in un capannone in
prossimità del Raccordo Anulare a Roma. Pensai subito che l ’ articolo era "una bufala",
il frutto di invenzione. Mi recai al Manifesto per individuare chi aveva scritto l ’ articolo e
parlare con l’autore, il quale mi comunicò che aveva preso il materiale dell’articolo da
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un’agenzia. Attraverso l'agenzia risalii alla fonte originaria: un giornaletto di una
associazione di volontariato. Andai a comprare questo giornale e scoprii che tutto era
nato dalle dichiarazioni di un poliziotto, il quale si era vantato di aver condotto un’azione
repressiva e aveva raccontato questi fatti improbabili. Suppongo che il miles gloriosus in
questione aveva arrestato qualche ragazzino rom e qualche parente. Non a caso della
cosa non si ebbe più notizia.
Cos’è che mi aveva fato pensare che la notizia non fosse vera? Il fatto che questi bambini
fossero di "etnia diversa". Chi sa come è strutturata l'immigrazione italiana sa che una
cosa del genere non può capitare. Le forme di sfruttamento del lavoro minorile esistono
solo all'interno delle singole nazionalità delle singole etnie: sia all'interno di quel
complesso fenomeno che è l'ethnic business, sia nelle forme - queste si davvero criminali
- di sfruttamento dei bambini per l'accattonaggio, o, peggio ancora, per lo sfruttamento
sessuale. Cose gravissime, ma da definire nella loro portata, nella loro natura e nei loro
aspetti.
Ho raccontato questi aneddoti e ho fatto queste digressioni per giustificare la mia
prevenzione nei confronti di un tema di ricerca, difficilissimo da esplorare e sul quale i
luoghi comuni e i pregiudizi sono molto diffusi, mentre la conoscenza fattuale è
estremamente modesta. Per quel che riguarda il primo caso sopra citato (il lavoro)
possono accadere episodi di sfruttamento di questo tipo all’interno di un gruppo familiare
o all’interno di gruppi di connazionali; e, se si conosce l ’ immigrazione italiana, si sa che,
se cose di questo tipo avvengono, esse riguardano essenzialmente la comunità cinese .
Sto parlando evidentemente del lavoro con sfruttamento di minori nell’ambito
manifatturiero. Ma queste cose non vanno confuse con quelle di cui ci occupiamo nella
ricerca e che sono ben più gravi. Il superlavoro dei bambini in famiglia- e anche fuori - non
è una cosa bella, ma il lavoro schiavo è altro.
Così ad esempio il racket di sfruttatori di bambini per accattonaggio è una cosa che tutti
affermano di conoscere , e non si può negare che casi del genere esistano . Non so se
questi episodi si debbano contare nell’ordine delle unità o delle decine, ma esistono. Sono
casi gravissimi, ma per fortuna limitati. Ho avuto sull' argomento molte delucidazioni da
funzionari polizia , che sono più informati su queste cose perché operano direttamente
sul campo. Ho cominciato a riflettere su cosa noi dovevamo ricercare , su cosa dovevamo
studiare per individuare effettivamente i fenomeni di rilievo e soprattutto per evitare
confusioni.
Abbiamo perciò - come gruppo di ricerca - cominciato a prendere in considerazione i
carceri minorili : lì ci sono dei ragazzini che hanno commesso dei reati e quasi tutti i reati
commessi da questi giovani sono legati alla sopravvivenza materiale. Questo è già un
primo punto di rilievo. Per converso da nessuna delle nostre fonti di informazione
risultava che i ragazzini avessero a che fare con le cose che avevano in mente i teorici dei
“mercanti di carne”. Si tratta in generale di ragazzini che si sono trovati, o cacciati, nei
guai per necessità, per abbandono o per disperazione, non perché costretti da "mercanti
di carne" o perché vittime di rackets di lavoro schiavistico.
C’era anche un’altra questione molto preoccupante, che è quella specifica dei Rom, in cui
vediamo che ci sono tantissimi bambini che praticano l ’ accattonaggio e possono
produrre somme irrisorie o enormi , in contesti diversi , in ambienti diversi. Non esiste una
cultura rom univoca e monolitica ; ci sono de casi in cui l’accattonaggio è visto come
culturalmente legittimo e degli altri casi in cui lo è di meno . E qui ci sono quelle forme cui
alludeva Carchedi di sfruttamento e di utilizzazione dei bambini, per attività più o meno
criminose, che
avvengono all’interno della famiglia. Certamente qualcuno vicino
all’ambiente rom o simpatizzante di quella cultura dirà che quella è una pratica culturale
che è comunemente accettata e quindi se noi parliamo di lavoro servile facciamo un
discorso fuori luogo . Noi in realtà pensiamo che bisogna andare a vedere all’interno della
vita concreta degli immigrati per cercare di capire la vera natura dei fatti e dei fenomeni .
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Io mi sono orientato secondo le cose che ha detto Martino Mazzonis e con cui concordo
perfettamente: il discorso è sui diritti e sulla violazione dei diritti. Non dobbiamo qui
cercare quello che accade ai bambini-schiavi del Pakistan . Noi non abbiamo trovato nulla
dal punto di vista dell’informazione non dico statistica ma documentaria. Noi sappiamo come diceva prima Martino Mazzonis - che quello che c’è qui non è quello che c’è nel
Terzo mondo. Ma sappiamo anche che delle situazioni che si riscontrano in Italia non
sono molto simpatiche. Perciò abbiamo pensato che ci dobbiamo occupare di quelle
situazioni in cui c’è una palese violazione dei diritti, anche se esse non rientrano
all’interno delle forme di lavoro schiavistico o paraschiavistico così come sono evidenti e
codificate nei paesi del terzo mondo.
Abbiamo pensato che quando ci sono condizioni di particolare super-sfruttamento lì c’è il
materiale per la nostra ricerca. Lo sfruttamento c’è dappertutto e in misura particolare c'è
tra gli immigrati, ma noi dobbiamo andare a vedere forme di particolare sfruttamento sul
lavoro , con forme di violenza nella relazione lavorativa: sia violenza fisica e che violenza
psicologica, come ci ha illustrato prima Francesco Carchedi. Un ultimo aspetto da tenere
in considerazione è la limitazione della libertà personale a cui sono sottoposte queste
persone. Questa è una delle dimensioni più importanti per l'analisi di relazioni cui si può
attribuire l'etichetta di schiavistiche o paraschiavistiche.
Mazzonis ha citato dei casi estremi relativi alla situazione italiana: casi noti , rari e molto
drammatici. Pensiamo al caso del pastore macedone che è tenuto in una stalla insieme
agli animali , oppure - ed è un caso meno raro ma egualmente drammatico - alla
ragazzina albanese rapita da due gaglioffi del suo paese, magari suoi parenti , che la
costringono con la violenza ad andare sulla strada e le impediscono di liberarsi da questa
condizione. Ma c'è limitazione della libertà personale e abuso anche nel caso del datore di
lavoro che sequestra il passaporto alla domestica e non le permette di andarsene. Si
tratta di casi estremi da tenere in considerazione valutandone - come si diceva - la natura
ma anche la diffusione.
Tra il signore del quartiere bene che sequestra il passaporto alla colf straniera che lavora
in casa sua - che è un atto che prefigura sicuramente una dimensione del rapporto
schiavistico - e il criminale che costringe con la violenza le ragazze a prostituirsi c’è in
mezzo una vasta e articolata gamma di situazioni reali.
E non si tratta neanche di un continuum , perché queste situazioni possono avere
caratteristiche diverse. In alcune ci saranno determinati aspetti e dimensioni della
condizione di schiavitù, in altre ci saranno aspetti e dimensioni diverse.
Operazionalizzando il concetto ci troviamo di fronte a diverse dimensioni, che possono
essere riscontrabili in alcune realtà empiriche e altre no .
Quali sono dunque queste dimensioni che noi prendiamo in considerazione per studiare
questa cosa così difficile definire? . Le dimensioni da individuare e studiare sono quattro:
quella relativa alla limitazione della libertà personale, quella relativa alla forma particolare
del lavoro, quella relativa alla forma di abuso che c’è nella relazione . Importante è poi
l’ambito, la dimensione nella quale si esercita questa forma di sudditanza.
Cominciamo con la prima dimensione: la limitazione della libertà personale. Questa non è
una cosa ovvia, come abbiamo accennato. Non basta una qualunque forma di limitazione
della libertà personale per poter parlare di riduzione in schiavitù. Questa limitazione infatti
va da un caso banale, seppur criminale, come la sottrazione del passaporto, alle sanzioni
violente , compresa la minaccia di morte e l’assassinio. Un’altra cosa importante da
considerare riguarda il dove si esercita questa mancanza di libertà: dove la persona che
subisce la limitazione è tenuta, come questa persona può muoversi, se può muoversi, o
se ne è assolutamente impossibilitata.
Riprendo l’esempio fatto prima da Mazzonis: i cosiddetti schiavi moldavi del Giubileo.
Questi sarebbero arrivati grazie a intermediari di manodopera - questi sì dei veri
mercanti di carne” - che hanno sottratto loro il passaporto, che gli sottraggono una larga
parte del salario e che limitano la loro libertà. Questi immigrati moldavi andavano a
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lavorare nei cantieri di Roma, venivano guardati a vista, e, nel caso in cui decidessero di
andar via, i loro passaporti erano tenuti dall’intermediario. E qui ci troviamo di fronte a un
caso coerente con l'oggetto della nostra ricerca.
Rispetto alla limitazione della libertà personale ci sono sia differenze di grado sia
differenze di modalità. La libertà personale è più o meno limitata ma è anche
diversamente limitata. Ed è importante, studiando questo fenomeno, vedere come questa
dimensioni del lavoro schiavo viene esercitata. Un altro aspetto importante è l ’ uscita
dalla condizione di schiavitù : la persona può semplicemente andar via come nel caso
della domestica a cui sono stati sottratti i documenti (abbandona quel posto di lavoro e
non le accade nulla); oppure, deve "affrancarsi" come nel caso della ragazza nigeriana
nel racket, il quale - come diceva prima Carchedi - è un racket ampiamente consensuale.
Avvengono dei casi frequenti di affrancamento, che sono possibili anche se non facili.
Anche a me risulta che molte ragazze siano uscite dal racket, che le aveva portate in
Italia, anche se alcune hanno proseguito l’attività in modo diverso. Ci sono poi delle
situazioni dalle quali è molto più difficile uscire, come nel caso in cui l’ingresso è costato
troppo. E pare che questo accada nel caso dei cinesi che vengono per lavorare.
La sola questione delle limitazione della libertà personale è dunque una delle dimensioni
e si articola in una serie di sotto dimensioni , che riguardano il come si entra e il come si
esce dalle condizioni della limitazione.
C’è infatti l’importante punto relativo alle condizioni di lavoro. E anche dietro questa
definizione ci sono diverse situazioni : in cosa consiste il lavoro , quanto si viene retribuiti ,
quante sono le ore di lavoro. Sappiamo infatti che si va da livelli non proprio gravissimi ,
come il “caporalato” a situazioni come la prostituzione in cui il racket si impadronisce di
tutti i guadagni . Questi sono entrambi casi di lavoro senza libertà. Ma di nuovo entrambi
casi polari.
Quel che è peggio, in riferimento alla dimensione lavorativa, è che non c’è nemmeno un
rapporto codificato dalla consuetudine . In Italia il rapporto servile anche di tipo
paraschiavistico esisteva negli anni passati. E ne avevano una grossa responsabilità le
famiglie dalle quali provenivano questi "schiavi". Venne, ancora negli anni ’40, condotta
una indagine da Paolo Sylos Labini sulla tratta dei “gualani” o “forisi”, che erano i
ragazzini dei paesi molto poveri , venduti dalle famiglie agli imprenditori agricoli o pastorali
per un determinato numero di anni, i quali svolgevano un lavoro assolutamente servile.
Queste cose furono superate con lo sviluppo civile del paese. Ma è bene ricordarle.
Quindi è molto importante analizzare le condizioni di lavoro , considerando che il termine
lavoro può avere un significato molto vasto . Nel caso della prostituzione poi c’è anche
l’abuso del corpo , ed è questa una cosa molto particolare, e non può essere confusa con
il far lavorare una persona troppe ore.
Questo discorso ci porta all’altro tipo di dimensione : che tipo di abuso c’è in quel tipo di
lavoro? Dobbiamo analizzare la violenza nella relazione , dobbiamo vedere se le
percosse ci sono o meno , che diritto ha la persona di difendersi. Qualunque forma di
abuso fisico sul lavoratore è assolutamente vietato nella nostra legislazione e nella nostra
cultura.
L’ultima dimensione da considerare riguarda l’ambito in cui questo avviene ( se cioè
familiare o non familiare), e ne ha già parlato Carchedi. E molta della retorica su queste
situazioni riguarda l’ambito familiare. Tutti ricordano il caso di quei bambini cinesi a Torino
che erano sfruttati da un parente-padrone (il padre) che li faceva lavorare giorno e notte e
dormire per terra. Questa persona vene arrestata ma rilasciata il giorno dopo perché il
fatto non sussisteva. Ma intanto esso si era consolidato nell'immaginario collettivo.
La CGIL dice “i grandi a lavorare e i bambini a studiare “. Però è anche vero che qualche
anno addietro nei temi delle elementari dei bambini di Monselice un insegnante poteva
trovare frasi del tipo “ Nel tempo libero attacco gli occhi alla Pantera Rosa”. Questo cosa
significa? Monselice era la capitale mondiale delle bambole una delle attività riguardanti il
lavoro a domicilio delle famiglie era quella di "lavorare" i giocatoli . Come definiamo
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questa situazione? Non mi pare si possa parlare di lavoro schiavistico. Ma non direi che lo
sia nemmeno quello dei bambini cinesi . Però i bambini cinesi se sono tenuti così non
vanno a scuola . Questo comunque è un ambito della nostra ricerca su cui dobbiamo
andare ad indagare , per capire meglio le cose , perché in linea di massima noi non solo
sappiamo che i bambini cinesi che sono in Italia vanno a scuola , ma sono anche degli
ottimi alunni .
Quindi in sostanza cos’è che noi ci aspettiamo di trovare ? Sarà sicuramente una
situazione molto variegata , nella quale non troveremo i in generale i “mercanti di carne”,
ma un intreccio di situazioni molto diverse fra di loro con diverso grado di gravità e nelle
quali raramente si potrà riscontrare l'esistenza effettiva di situazioni di lavoro schiavistico
o paraschiavistico.
Bisogna sottolineare che non c’è nessun nesso fra il sistema di ingressi e il sistema del
lavoro, almeno in generale. Non accade in generale che la gente viene qui ed è utilizzata
schiavisticamente. La gente può essere utilizzata schiavisticamente qui da noi e in
generale arriva in condizioni tali che qualcuno ci guadagna un mucchio di soldi. Però non
c’è quasi mai il nesso profondo tra i due aspetti. La violazione dei diritti avviene in diversi
ambiti e in diversi modi. Almeno per quel che riguarda il lavoro, compreso quello dei
bambini e dei minori, non c'è un modello unico.
La situazione è molto più complessa e articolata . Abbiamo un vasto panorama di casi e
circostanze , il fatto che le situazioni estreme – quelle che piacciono ai giornali- non ci
siano o siano estremamente limitate, non significa che non ci siano situazioni altamente
condannabili . Queste ultime presenteranno solo alcune delle dimensioni o delle
sottodimensioni attribuibili correttamente al concetto di lavoro schiavistico. Ciascuna di
queste dimensioni o sottodimensioni presenta delle violazioni nella pratica dei diritti che a
noi sembrano ovvi e giusti in una società come la nostra.
Come pensiamo di fare questa ricerca? Contiamo di farla iniziando innanzitutto ad
intervistare i testimoni privilegiati. Un campione di Rom rappresentativo statisticamente ,
un campione rappresentativo di Moldavi, per vedere a quanti di loro sono stati sequestrati
i documenti, non sono obiettivi realistici per motivi ovvi.. Dobbiamo parlare il più possibile
con gente, che, nel rispetto dell’anonimato ci aiuti a capire una situazione, che è molto
complessa. In un campo come quello oggetto della nostra ricerca il vizio della punitività
razzista nei confronti di qualunque pratica tradizionale degli immigrati sta ad un estremo,
mentre all’altro estremo sta la difesa di qualunque forma di sfruttamento o di violenza, con
il fatto che si tratta di una pratica ammessa in una determinata comunità, in una
determinata cultura. .
Dobbiamo stare contemporaneamente attenti a questi due rischi ideologici. E
naturalmente dobbiamo cercare di capire quanto le informazioni che riusciamo a
raccogliere siano vere e non piuttosto delle invenzioni . In realtà il quadro si può chiarire ,
perché, ripeto , gli operatori soprattutto sanno queste cose , coloro che sono stati a
contatto con gruppi specifici le sanno. I protagonisti raccontano poco ed è necessario fare
ricorso a queste fonti. E' anche importante fare un a ricostruzione della casistica , e anche
su questo ci baseremo su informatori privilegiati. Nella cartellina che avete avuto sono
indicati i nomi degli operatori , e quindi la nostra ricostruzione del quadro passerà molto
attraverso l’esperienza di queste persone . Dobbiamo andare a cercare le cose come
sono , nel loro aspetto più autentico.
Prima ho abusato del vostro tempo e non so quanto sono riuscita ad essere chiaro. Ho
trattato gli aspetti di mia maggiore competenza. Abbiamo chiesto a Maria Grazia
Giammarinaro di aiutarci a capire queste cose , grazie alla sua sensibilità e alla sua
competenza giuridica , anche perché conosce questi fenomeni. Avevamo inteso questa
riunione come un momento di discussione in cui noi avremmo messo sul tappeto la
problematica della ricerca , per avere critiche e consigli . Perciò ora ascoltiamo questi
commenti.
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Martino Mazzonis
Oggetto è ciò che abbiamo definito “Il lavoro servile e le forme di sfruttamento
paraschiavistico”.
Il nostro lavoro è entrato nella fase di verifica e precisazione delle ipotesi fatte attraverso
lo spoglio della letteratura esistente, alcuni incontri e un seminario di confronto con
ricercatori che si sono occupati di questioni contigue alle nostre.
Nei primi mesi abbiamo lavorato alla raccolta della scarsa bibliografia esistente, ad una
verifica del quadro legislativo nazionale ed internazionale, all’individuazione di testimoni
privilegiati con i quali interloquire nella fase di ricerca sul campo.
La letteratura esistente sulla materia è fondamentalmente concentrata sulla schiavitù
contemporanea fuori dal nostro continente e, per quanto riguarda la realtà a noi vicina,
sulle questioni relative alla tratta. Leggendo libri è dunque possibile individuare alcune
tipologie, forme di rapporto tra lavoratori assoggettati in forme paraschiavistiche e
padroni, capire quali sono le cause, le modalità che, fuori dal nostro paese, portano alla
nascita di questo tipo di rapporti. Manca però un’indagine approfondita per quel che
riguarda il nostro paese, e l’Europa in genere, mentre il materiale esistente sulla tratta e
sulle forme dei rapporti tra prostitute e sfruttatori descrive anche la situazione italiana.
Sui casi di schiavitù in Italia occorre quindi partire quasi da zero o, per quel che valgono,
dai casi segnalati sui mezzi di comunicazione di massa. Ecco dunque che il lavoro sul
campo si rende parte determinante più che in altre occasioni.
Questa parte del lavoro dovrà necessariamente passare per il confronto con quegli
operatori sociali che lavorano con gli immigrati, nei campi Rom, con i mediatori culturali
delle Questure e dei Comuni, con chi lavora nelle unità di strada e, nel sindacato si
confronta con il problema dello sfruttamento della manodopera straniera. Queste persone,
sono infatti quelle che arrivano a sfiorare o toccare da vicino fenomeni che diventano
visibili solo quando si verificano delle tragedie.
Come recita il nostro progetto di ricerca, l’obbiettivo che ci poniamo è quello di “definire un
quadro conoscitivo di sfondo sulle forme di sfruttamento violente e paraschiavistiche
aventi come referente le componenti straniere presenti sul territorio nazionale”. Perché la
scelta di indagare in questa direzione e non a più largo raggio?
Credo che gli elementi fondamentali siano due:
le persone straniere presenti sul nostro territorio sono per ragioni culturali, materiali e
giuridiche (la condizione di clandestino e, in ogni caso, quella di persona che,
formalmente e nella pratica non gode a pieno dei diritti di cittadinanza) soggetti più
facilmente ricattabili. Non è un caso che, anche nei paesi del Sud del mondo dove con più
drammaticità si assiste al risorgere di questo fenomeno, siamo spesso in presenza di
persone prelevate dal loro contesto e portate a lavorare lontano. Pensiamo ai casi dei
lavoratori cinesi che chiedono il permesso per spostarsi da una zona all’altra del paese,
con la garanzia e il prestito per i documenti fatto da datori di lavoro stranieri e senza
scrupoli; o ai brasiliani prelevati nelle zone rurali più arretrate e portati in Amazzonia dopo
avere contratto un prestito, o agli haitiani nelle piantagioni di canna da zucchero della
Repubblica Dominicana, fino alle domestiche filippine negli emirati della penisola arabica
– ma quello è un discorso diverso. Parliamo infatti di persone che arrivano nelle grandi
metropoli dalle campagne, che lavorano in piantagioni lontano dai centri abitati o in
fabbriche in regioni diverse da quella dove vivono le loro famiglie: nel nuovo contesto si è
privati di relazioni familiari, sociali, è più difficile protestare perché non si conosce il
tessuto sindacale o associativo, qualora ce ne sia uno.
Se tutto questo è vero in un contesto, quello del proprio paese di origine, dove alcuni
elementi culturali (primo tra tutti la lingua) restano gli stessi anche lontano da casa, anche
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nel luogo dove si è sottoposti a un regime nel quale è negata la possibilità di contrattare le
forme del proprio lavoro, allora gli elementi di spaesamento si accentuano laddove la
persona sottoposta a rapporto di lavoro nel quale non abbia margini di contrattare e sia
sottoposto a forme di violenza, si trovi in un paese diverso e lontano dal proprio.
Secondo elemento che ci porta a considerare la popolazione immigrata è che, per come
sono regolamentati gli ingressi, è molto probabile che lo straniero che voglia entrare nel
nostro territorio lo faccia contraendo una qualche forma di debito con un’organizzazione
che avrà modo di sfruttare la forza lavoro di quella persona per farsi ripagare. Questa
forma peculiare di schiavitù da debito che, più in generale, è la forma di schiavitù che si
manifesta con più frequenza in tutto il mondo, è senz’altro una delle componenti
numericamente più importanti della schiavitù in Italia. Anche se occorrerà verificare bene
cosa e come venga contratto il debito e se si sia in presenza di organizzazioni o, piuttosto,
di pratiche diffuse.
C’è una ragione ulteriore per cui si è scelto di concentrarsi sull’immigrazione, ed ha a che
fare con una questione più generale relativa alla definizione di schiavitù e alla scala
possibile di privazioni a cui la persona sottoposta ad un rapporto paraschiavistico è
sottoposta.
La letteratura esistente sulla schiavitù contemporanea, così come il lavoro delle istituzioni
e delle Ong transnazionali che si occupano dell’argomento, tendono a focalizzare la loro
attenzione su quei paesi dove il fenomeno si manifesta con più drammaticità ed ha forme
e dimensioni non paragonabili a quelle europee. L’altro gruppo su cui ci si concentra in
genere, in questo caso parlando di un fenomeno europeo, è quello delle donne introdotte
clandestinamente nel nostro continente, con l’inganno o contro la loro volontà, allo scopo
di farle prostituire. Queste, è evidente, saranno oggetto della nostra ricerca, così come lo
saranno quei bambini provenienti dai Balcani e mandati a mendicare o a rubare.
Ma, almeno così noi crediamo di capire, la schiavitù contemporanea in Europa, non è
limitata a questi casi più estremi e drammatici, esiste, con ogni probabilità una scala di
grigi, che porta dal fenomeno del lavoro nero, così esteso nel nostro paese, fino alle
forme peggiori come, appunto, la prostituzione coatta. Sottolineare come, in Italia, i rischi
siano maggiori per via dell’esistenza di un enorme spazio per le relazioni di lavoro non
formalizzate, non significa equiparare queste a forme di schiavismo, significa piuttosto
tenere conto della possibilità che, dentro al mercato del lavoro nero prendano forma con
maggior facilità relazioni, o fasi del rapporto di lavoro, nel quale elementi di rapporto
paraschiavistico o servile si manifestano.
Pensiamo che questa scala di grigi sia individuabile con maggiore nettezza, tra la
popolazione immigrata. Il nostro tentativo sarà quello di osservare questa scala di grigi,
che va dall’immigrato messo al lavoro da un imprenditore del suo stesso paese che gli
garantisce un sistema di relazioni e di soddisfazione dei bisogni, in cambio di
supersfruttamento e salario minimo o in natura (casa, cibo, ecc.), fino al lavoratore
clandestino che lavora per l’italiano e non ha alcun modo di contrattare orari, paghe e di
appellarsi alle istituzioni nel caso di violenze o, più semplicemente nel caso non venga
pagato, e definirla.
Un esempio molto utile di come questo lavoro definitorio possa essere fatto mi pare
essere il lavoro di Francesco Carchedi sulla prostituzione. La ricerca in quel caso era sulla
prostituzione ma, mi pare, è molto utile proprio per capire come, analizzando questi
fenomeni, non siamo mai in presenza di un quadro chiaro, definito, netto, ma, appunto di
fronte a tipologie sfumate, in cui i livelli di coercizione sono diversi e, magari, si
accendono e spengono a seconda della situazione, della durata della permanenza nel
nostro paese, del tipo di attività nella quale il lavoro schiavo è coinvolto. Il tempo pare
infatti essere, assieme alla condizione giuridica della persona immigrata, uno degli
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elementi che produce forme di sfruttamento paraschiavistico: una volta conosciuto il
contesto, imparata la lingua, avuto dei contatti con realtà esterne a quella lavorativa,
preso coscienza dell’esistenza dei diritti di cui godono i lavoratori, il lavoratore ha più
strumenti per sottrarsi al rapporto con il proprio padrone.
Nel progetto di ricerca abbiamo, utilizzando le categorie generalmente usate nella
letteratura sulla schiavitù contemporanea, elencato una serie di ambiti possibili nei quali si
manifestano le forme di sfruttamento: l’ambito economico, quello intergenerazionale,
quello delle relazioni di genere, eccetera. La schiavitù da debito, quella domestica, il
lavoro coatto, la prostituzione mascherata da intrattenimento, sono alcune delle forme
prese dalla schiavitù in questi ambiti.
Occorre ancora sottolineare il secondo elemento, quello territoriale: noi conduciamo la
nostra ricerca in Italia, un paese di immigrazione, sviluppato e collocato nel Nord del
mondo. Non possiamo quindi pensare di scoprire che le percosse sui lavoratori siano un
fenomeno diffuso, dobbiamo sapere che, da noi, dobbiamo chiamare schiavitù che
contengono elementi meno brutali che altrove, ma che, comunque, legano, perlopiù a
tempo, le persone al proprio padrone.
Allo stesso tempo, però, il nostro paese è quello, come denunciava la Cgil alcuni giorni fa,
i minori al lavoro sono quasi raddoppiati negli ultimi due anni (da 300 mila a più di 500
mila), dove il lavoro nero è diffusissimo e il rispetto della normativa vigente su orari e
sicurezza dell’ambiente di lavoro è tutt’altro che la prassi. Dovremo quindi fare attenzione
anche all’estremo opposto: non fingere di condurre questa ricerca in un paese
immaginario e, quindi, scambiare fenomeni di sfruttamento eccessivo, solo perché si
svolgono all’interno di comunità di immigrati, con forme terribili di schiavitù. Anche in
questa direzione dovremo parlare di scala di grigi.
Un quadro del tipo di quello appena delineato non esclude che si possa incappare in
forme brutali, estreme e terribili di rapporti di schiavitù simili a quelle che il Comité contre
l’esclavage moderne, ha contribuito a scovare in Francia (casi di domestiche clandestine
rinchiuse e minacciate per mesi o anni). In questi casi occorrerà stabilire se siamo in
presenza, come nel caso francese di fenomeni in parte residuali o legati a condizioni
molto speciali (ad esempio, i diplomatici dei paesi della penisola Araba che importano
domestiche schiave di altre nazionalità in Francia) o dati che possiamo definire strutturali,
prodotti della modernità (come i lavoratori impiegati per il disboscamento dell’Amazzonia
da parte di grandi imprese transnazionali o le ragazze che vengono immesse nel sexbusiness).
Facciamo degli esempi che riguardano il nostro contesto. Noi conduciamo la ricerca in un
paese avanzato dove, quindi, la schiavitù si connoterebbe come un fenomeno estraneo al
mercato del lavoro ufficiale e all’economia emersa. Dalle primissime informazioni che
abbiamo possiamo dire che non è del tutto così. Parlare di schiavitù non è parlare del
pastorello macedone rinchiuso in una stalla o della prostituta albanese percossa e
minacciata. C’è anche questo, ma, all’estremo opposto della nostra scala di grigi stanno
invece operai edili clandestini all’ultimo gradino della catena del subappalto o operai
produttori di merci per quella parte dell’economia informale che trova canali di
distribuzione sul mercato.
In questo senso nei paesi sviluppati, nei settori produttivi a più alta intensità di
manodopera e a sua bassa specializzazione, il lavoro nero è uno degli elementi di
competitività dell’impresa ed arriva a tollerare e persino prevedere forme che vanno oltre i
livelli di sfruttamento durissimo che coinvolge tanti lavoratori immigrati. Del resto Judith
Ennew (Debt Bondage, a survey, 1984), sottolinea proprio come sia proprio nei settori
produttivi “arretrati” (quanto indispensabili) che la schiavitù da debito si manifesta con più
frequenza.
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Francesco Carchedi
Cercherò di concettualizzare il lavoro svolto fino adesso, perché ovviamente il primo
grande problema che ci si è presentato è stato quello di dare una definizione di cosa vuol
dire lavoro servile, lavoro paraschiavistico e cosa sia lo sfruttamento sessuale dovuto al
traffico di donne e di minori. Su quest’ultimo tema abbiamo una conoscenza più
approfondita, per quanto, visto in questa nuova prospettiva si è svelato un altro aspetto
che mi sembra abbastanza importante.
La prima distinzione, quella fra lavoro servile e lavoro paraschiavistico ci ha permesso di
individuare che ad esempio il primo è un rapporto di lavoro finalizzato allo sfruttamento,
ma che presenta, come condizione caratterizzante, il tentativo continuo di persuadere, di
coinvolgere, di creare un rapporto di invischiamento psicologico con la persona
subordinata, e dove gli aspetti violenti, aggressivi, vengono evitati. Questo è un rapporto
che si basa molto sull’ambiguità della relazione, sulla cultura che abbiamo definito
familistica, e questo ci ha fatto pensare che una tale relazione di carattere servile possa
avere come base, come luogo di sviluppo e di dispiegamento il piccolo nucleo familiare
oppure un nucleo familiare più allargato - non intendendo il nucleo familiare in senso
stretto, ma anche intendendo ad esempio, i rapporti all’interno di una piccola impresa.
Intendiamo una situazione in cui i rapporti di lavoro sono mediati fortemente da una
relazione fiduciaria di carattere asimmetrico. Questo è appunto ciò che abbiamo pensato
dovesse essere il nocciolo definitorio del lavoro servile. Un altro elemento caratterizzante
di questo rapporto è la vicinanza fisica che corrisponde spesso a una lontananza di natura
psicologica. Narrare discorsi egualitari, ma finalizzati allo sfruttamento .
Per il lavoro neoschiavisico la definizione è stata più ardua. Ci siamo posti il problema,
perché definire neoschiavistico una relazione lavorativa in un contesto che condanna la
schiavitù? Come sapete, perché è abbastanza noto, si definiva lavoro schiavistico quello
che era presente all’interno di una società che lo rendeva ufficiale, quella forma di
sfruttamento era legittimata e riconosciuta dal sistema normativo.
In una società in cui il sistema normativo non riconosce più questa forma di sfruttamento
abbiamo pensato che questo tipo di lavoro fosse inesistente.
Da qui allora il “paraschiavistico” ed il “neoschiavistico”, nel senso di situazioni di fatto che
si perpetuano all’interno di interstizi della società, del mercato del lavoro e di fatto
riproducono un modello di subordinazione radicale anche in mancanza di norme che ne
legittimano la perpetuazione.
Il livello di sfruttamento così pensato, così radicale, pensiamo che si sviluppi all’interno di
segmenti di lavoro nero. L’elemento importante che ci sembra che distingue il lavoro nero
dal lavoro servile è una forte coercizione, una forte unilateralità delle decisioni, la
mancanza assoluta di negoziazione, l’assoluta impossibilità di recedere dal rapporto se
non a condizioni molto dure per il lavoratore e, pertanto, una sorta di cooptazione in
negativo dei diretti interessati.
Questi due elementi: l’aspetto di tipo servile e quello di tipo paraschiavistico pensiamo che
convivano nel fenomeno della tratta e dello sfruttamento delle donne e dei bambini allo
scopo di sfruttarli sessualmente. Perché dico che questi due aspetti in qualche modo
convivano all’interno di questa forma di sfruttamento? In questa realtà convivono diverse
forme di sfruttamento e diverse forme di relazioni tra gli sfruttatori e le donne vittime dello
sfruttamento sessuale. I quattro modelli principali sono quelli che possiamo chiamare il
modello “nigeriano”, “albanese”, “delle donne dell’Est”, e “delle donne latino-americane”,
basati tutti su quattro differenti aspetti.
Quello “nigeriano” è definibile di tipo persuasivo, perché all’interno di questo modello le
ragazze non vengono violentate o sfruttate selvaggiamente picchiate. Il rapporto è fondato
soprattutto sulla convinzione e la necessità possa essere utile anche alle ragazze.
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Il modello “albanese” è l’opposto, perché è basato sull’aggressività, sulla violenza, sulle
percosse, sulle minacce, ecc. Sulle ragazze albanesi c’è uno sfruttamento molto
selvaggio e molto violento.
Il modello delle “donne dell’Est”, lo potremmo definire un modello consensuale a
carattere rotatorio. Consensuale perché vengono stabiliti dei contratti a tempo
indeterminato: un mese, due mesi dove le ragazze ricevono un compenso proporzionato
alla contrattazione avvenuta prima dell’ingaggio.
Il modello “latino-americano” invece, in particolare per quel che riguarda le ragazze
peruviane e colombiane è un modello in cui le donne hanno una fortissima autonomia.
Spesso non c’è neanche il protettore, e queste donne alternano l’esercizio della
prostituzione con altre attività, di tipo domestico o lavoro in ristoranti e in altri settori.
All’interno di questi quattro modelli possiamo ad esempio considerare il caso delle
ragazze nigeriane come un caso di lavoro servile, mentre il modello albanese si avvicina
al modello neoschiavistico. Negli altri due modelli invece ci sono commistioni di entrambi,
anche se nel modello latino-americano l’autonomia è la caratteristica predominante.
Tutta questa riflessione a cosa ci conduce? Ci conduce a formulare questa ipotesi, che il
passaggio da un rapporto violento, basato sull’aggressività, sulle minacce, è un rapporto
che in qualche modo è destinato a produrre un forte ricambio delle vittime, perché
presumiamo che non possa esistere una forma di soggezione così radicale in un contesto
che la rifiuta per più di un certo periodo di tempo. Quindi è come se ci fosse l’obbligo degli
imprenditori senza scrupoli di avere la possibilità di reclutare in modo continuativo le
persone da soggiogare in questo modo. Oppure c’è la possibilità che questo rapporto da
violento, aggressivo, fortemente ricattatorio e minaccioso possa trasformarsi in un
rapporto di tipo persuasivo che coinvolga a livello di compartecipazione da parte delle
vittime.
Per quanto riguarda il modello di tipo rotatorio, la capacità di reclutamento, per quanto
riguarda appunto l’immigrazione è una cosa plausibile in quanto le diverse microondate di
persone che arrivano nel nostro paese possono, in fasi diverse alimentare questo
meccanismo di sfruttamento così radicale. Paradossalmente le varie piccole ondate
migratorie che interessano il nostro paese possono creare un serbatoio per questi
imprenditori senza scrupoli e quindi il rapporto non diventa mai negoziabile, nel senso che
dopo 4-5 mesi, finito un lavoro, finita un’attività queste persone vanno via e ne arrivano
altre, quindi questi imprenditori hanno sempre il ricambio continuativo che gli permette di
mantenere quella forma di sfruttamento radicale nel tempo .
L’altra ipotesi, quella della trasformazione del rapporto violento e aggressivo che diventa
invece persuasivo e che fa leva sul coinvolgimento psicologico è una cosa che sta
avvenendo all’interno del fenomeno della tratta. Infatti noi assistiamo ad un cambiamento
nell’ultimo anno all’incirca del modello albanese basato sullo sfruttamento feroce; qui gli
sfruttatori albanesi stanno cominciando ad usare il modello persuasivo che è tipico del
modello nigeriano. Tra le albanesi comincia a subentrare l’idea che il reclutamento è
qualcosa di estremamente faticoso e pericoloso, e quindi stanno rovesciando
l’impostazione del rapporto prostituzionale. Uno schema di riferimento di questo tipo è
quello che noi pensiamo utile per interpretare e dare delle spiegazioni al fenomeno del
lavoro schiavistico e del lavoro servile.
Maria Grazia Gianmarinaro
Proverò a raccontarvi alcuni passaggi della discussione soprattutto a livello internazionale
relativa all’approccio giuridico, quindi alla definizione di lavoro forzato, lavoro
paraschiavistico.
Intanto vorrei dire che mi sembra importantissima questa ricerca, perché ho potuto
riscontrare sia a livello nazionale che internazionale che c’è una grande necessità di
61
conoscenza sul retroterra sociale perché evidentemente affrontare il problema della
definizione giuridica con un retroterra insufficiente provoca una serie di problemi anche
gravi; si rischia di commettere gravi errori.
Devo anche dire che di questi problemi noi, come Dipartimento pari opportunità, abbiamo
provato ad occuparci e ad allargare l’orizzonte dal fenomeno dello sfruttamento sessuale
che era quello che fin dall’inizio ha attirato maggiormente l’attenzione, anche per il fatto di
destare grande allarme sociale e di essere per certi verso il fenomeno più grave di
sfruttamento selvaggio e di violenza esercitato su donne e bambini.
Abbiamo cercato di allargare l’orizzonte anche a fenomeni di lavoro forzato e servitù, più
che sulla base di una vera conoscenza di questo fenomeno, sulla base di una vaga
percezione che esisteva un problema, e dal nostro punto di vista il campanello
dall’allarme con il fatto che noi ci occupiamo delle donne è stato quello delle
collaborazioni domestiche. Questo fenomeno ci faceva riscontrare l’esistenza di situazioni
che andavano oltre la soglia dell’accettabilità. Situazioni che pur non raggiungendo i livelli
estremi di cui parlava Enrico Pugliese, però segnalavano un problema d violazione di
diritti e restavano abbastanza coperti, da un assorta di cattiva coscienza collettiva, perché
diciamolo pure che il fenomeno delle collaboratrici domestiche straniere è un fenomeno
caratterizzato in larga misura da condizioni di sfruttamento. Basta considerare anche solo
gli orari di lavoro, però questa sorta di cattiva coscienza collettiva contribuisce a creare un
clima omertoso rispetto a situazioni che invece sono aldilà di questa soglia e che sono
caratterizzate da condizioni di vera e propria segregazione o anche semplicemente da
quelle privazioni di libertà connesse con il fatto che il datore di lavoro tiene i documenti.
Quindi c’è ovviamente la percezione di un problema e per contro una discussione che dal
punto di vista giuridico si focalizzava quasi unicamente sulla questione dello sfruttamento
sessuale e che prendeva la strada su un orientamento che ormai può dirsi consolidato
dalla Corte di Cassazione, ma formatosi esclusivamente su una casistica esclusivamente
relativa alla prostituzione, e all’inquadramento di questo fenomeno nella nozione giuridica
di riduzione in schiavitù o in condizione analoga alla schiavitù. Si è poi visto che
l’applicazione dell’articolo 600 del Codice Penale nella pratica si è rivelata abbastanza
problematica, perché l’individuazione di quella soglia, di quel discrimine oltre il quale per
l’appunto una certa situazione diventa meritevole di una sanzione penale di quella gravità
non è di facile individuazione. Sulla base di un censimento che è stato fatto dalla
Direzione nazionale antimafia solo sui casi di sfruttamento sessuale si è visto che il delitto
di riduzione in schiavitù poi di fatto è usato quasi esclusivamente quando ci sono coinvolti
dei minori, perché c’è una difficoltà di ritenere provata quella limitazione d libertà
particolarmente qualificata che può rientrare nel concetto di condizione analoga alla
schiavitù, quando la persona offesa è una persona adulta. In un numero limitato di casi si
può riscontrare quella privazione dell’autodeterminazione così qualificata da indurre
l’interprete ad dire che si trova di fronte ad un caso analogo di estrema schiavitù .
C’è dunque un problema definitorio, perché c’è il problema di definire giuridicamente un
fenomeno in termini aderenti a una realtà, ma per fare questo bisogna innanzitutto avere
idea della struttura di questo fenomeno e delle sue complesse tipologie di manifestazione.
Perché si è cercato almeno da parte nostra di allargare l’orizzonte dallo sfruttamento
sessuale al lavoro forzato e alle servitù? Un po’ per le cose che prima vi ho detto e poi
per una ragione di carattere culturale e di politica del diritto, se così vogliamo dire.
Centrare a fattispecie del traffico di persone – perché evidentemente in Italia il fenomeno
delle nuove schiavitù o del lavoro servile è legato quasi esclusivamente al fenomeno
dell’immigrazione e quindi di una condizione di asservimento legata a questa condizione
se vogliamo dire di particolare vulnerabilità del lavoratore o della lavoratrice immigrata.
Perché non centrare la fattispecie esclusivamente sullo sfruttamento sessuale ? Perché in
realtà se noi andiamo a ben vedere la novità che caratterizza il traffico rispetto ai
fenomeni tradizionali di sfruttamento della prostituzione è in realtà il fatto che la persona
se così possiamo dire non ha scelta, non ha una ragionevole scelta, né sulla possibilità di
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iniziare a svolgere l’attività che le viene richiesta né di smettere, di cessare di svolgere
questa attività. Naturalmente questo soltanto in prima approssimazione, perché sappiamo
che esiste una scala nella quale poi tutto questo presenta tipologie anche molto diverse .
Questa condizione di asservimento caratterizza e rende il traffico un fenomeno nuovo,
diverso e più grave rispetto ai fenomeni tradizionali di sfruttamento anche della
prostituzione, e questo stesso fenomeno di asservimento in realtà si presenta in altri
campi diversi da quello dello sfruttamento della prostituzione.
Centrare l’attenzione solo sulla natura sessuale degli scopi a nostro modo di vedere
aveva questa ambiguità, conteneva questo effetto di occultamento , l’effetto cioè di
occultare un nesso significativo che è quello tra traffico, mercato, anche perché è vero
che è il mercato che nella attuale situazione produce nuove diseguaglianze, e criminalità
organizzata, intendendo con questo termine qualche cosa che non è la grande criminalità
organizzata di livello transnazionale fondata su network stabili di associazioni criminali di
diversi paesi. Può essere qualcosa di più modesto anche se non meno pericoloso:
l’apparentamento fra un piccolo gruppo criminale albanese non caratterizzato da un
grande standard organizzativo, anzi, caratterizzato da una forte mobilità, un gruppo che si
compone e scompone continuamente, come spesso sono i gruppi criminali albanesi che
si apparenta con organizzazioni criminali del Sud Italia, perché utilizzano uno stesso
mezzo di trasporto per fare contemporaneamente un carico di droga e un carico di
immigrati illegali.
In questo senso sottolineare questo nesso significativo ci sembrava più adeguato per
affrontare la complessità di questo fenomeno e la sua novità.
In realtà anche a livello internazionale c’è stato lo stesso percorso, e questo percorso ha
un po’ lo stress senso da un punto di vista culturale, cioè ad un’attenzione iniziale quasi
esclusivamente centrata sullo sfruttamento sessuale c’è stato poi il passaggio all’
ampliamento dell’attenzione su tutta la vasta gamma degli scopi illeciti del traffico.
Questa alternativa caratterizza anche la discussione e l’adeguamento della legislazione a
livello europeo dei singoli stati e caratterizza anche la discussione in atto relativa ad alcuni
importanti strumenti prevenzionali per rendere più efficace l’azione di contrasto del
traffico delle persone e le nuove schiavitù . In particolare cito lo Statuto della Corte Penale
Internazionale in cui il traffico è compreso come specificazione del delitto di “aslavement”
che è la riduzione in schiavitù, compreso a sua volta nella lista dei crimini contro l’umanità
e nella discussione che è in corso proprio adesso a Vienna e che dovrebbe concludersi
alla fine dell’anno sulla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale è
uno dei tre protocolli addizionali che riguarda proprio il traffico di persone.
In un primo tempo il fenomeno del traffico era stato preso in considerazione nell’ambito
del ragionamento più generale sull’immigrazione illegale, poi si è capito che presentava
delle caratteristiche sue proprie e che quindi era necessario un protocollo specifico che si
occupasse di questa particolare questione.
A Vienna in cui c’è stata la discussione, a cui io ho avuto la possibilità di partecipare, e
quindi posso raccontarvi dettagli di prima mano, si è partiti da una definizione articolata su
due opzioni di cui una per l’appunto è accentrata esclusivamente sullo sfruttamento
sessuale – questa era stata proposta dall’Argentina – e l’altra che comprendeva invece
una gamma di scopi illeciti comprensiva del lavoro forzato – proposta dagli Stati Uniti.
Dopo si è passati alla formulazione di due ulteriori opzioni in cui si consolida la scelta di
prendere in considerazione la gamma più ampia di scopi illeciti, quindi non solo lo
sfruttamento sessuale ma anche il lavoro forzato, e semmai a questo punto l’elemento
differenziale fra le due opzioni è se si deve fare centro sul concetto di schiavitù e “slavery
practices” quindi condizioni analoghe alla schiavitù o a se si debba fare centro sul
concetto di sfruttamento. Ovviamente sono le due polarità concettuali attorno a cui tutto il
problema definitorio sia a livello sociologico che giuridico finisce per ruotare.
L’opzione a cui la delegazione italiana ha contribuito anche a livello del testo fa centro sul
concetto di “slavery practices“ , un concetto quindi di condizione di asservimento
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qualificata dal punto di vista della privazione della libertà, fa centro su quello che appunto
secondo noi è l’elemento nuovo e caratterizzante, tenendo conto che il problema di fondo
dal punto di vista giuridico è appunto quello di individuare la famosa soglia oltre la quale il
fenomeno che può anche essere lecito nella sua interezza raggiunge quel grado di
disvalore tale da meritare il trattamento penale, quindi rispetto al continuum di cui qui si
diceva tra il lavoro nero e il lavoro paraschiavistico, da un punto di vista giuridico è
particolarmente importante individuare la cesura.
Ovviamente tutto questo comporta quel lavoro di scavo sulla struttura e sulle tipologie,
altrimenti diventa impossibile fare questa operazione. Questo è un primo problema,
inserire concettualmente il traffico in una struttura del delitto centrata sulla schiavitù, sullo
sfruttamento, o eventualmente su un a combinazione come ritengo che sia più plausibile,
ma eventualmente quale combinazione?
Il secondo problema relativo più specificamente alla definizione di lavoro forzato e di
servitù e individuarne gli elementi. Anche qui c’è stata una certa evoluzione della
discussione a livello internazionale perché si è partiti da una definizione di lavoro forzato
molto stretta e limitativa fondata sull’idea di una prestazione ottenuta con l’uso della forza.
Questo naturalmente non considerava una parte molto importante di una realtà che
invece va definita a tutti gli effetti, come il lavoro forzato considerato una condizione
analoga alla schiavitù, che è il cosiddetto “debt bondage”, la schiavitù per debito, e le
situazioni e quali a prestazione è ottenuta con modalità che non sono né di violenza
esplicita ma talvolta appunto di abuso, violenza psicologica, comunque con modalità tali
da non escludere che questo elemento di coercizione che sempre comunque esiste sia
realizzato con modalità che fanno leva su una qualche caratteristica della relazione
personale.
Adesso per esempio c’è stata una certa evoluzione per la quale l’opzione che sceglie di
definire il lavoro forzato, non solo di menzionarlo, ma anche di definirlo, ha una portata più
ampia perché comprende sia le modalità fraudolente, quelle basate sull’inganno, la frode
o la falsa rappresentazione della realtà, quindi modalità via via più graduate, e sia
esplicitamente il “debt bondage”, cioè la situazione nella quale la persona viene persuasa
dell’obbligo di restituzione di un debito in maniera non corrispondente all’entità
dell’obbligazione poi effettivamente contratta.
Resterebbe fuori da questo tipo di definizione soltanto il caso in cui – ma questo è dubbio
se debba essere ricompreso – non c’è mezzo fraudolento, non c’è inganno e non c’è
neanche abuso, però in realtà c’è un approfittamento di una condizione di estrema
povertà, vulnerabilità in senso socio–economico, però qui per l’appunto è molto dubbio se
siamo al di qua o al di la di quel discrimine che è necessario tracciare fra lo sfruttamento e
il lavoro paraschiavistico.
Per quanto riguarda la “servitude”, anche qui la discussione è stata abbastanza
interessante – parlo sempre della sede di Vienna - perché si è compreso a questo punto
che era necessario includere questa figura definita provvisoriamente come lo stato o la
condizione di dipendenza di una persona che è ingiustificatamente costretta da un’altra
persona a rendere un servizio e che ragionevolmente crede di non avere alternative se
non prestare quel servizio. Questa clausola per la verità innanzitutto si presta a
comprendere casi attualmente innominati e qui ritorna quello che dicevo prima: quel
difetto di conoscenza del fenomeno sociale sottostante, quei casi in cui nelle forme più
diverse si realizza comunque quella condizione di asservimento e di invischiamento che
appunto differenzia la servitù dal lavoro forzato propriamente detto. Tra questo per
esempio potrebbe rientrare il caso di cui in Italia non si è avuta notizia, ma che riguarda
altri paesi in cui ci sono delle comunità di immigrati, ed è il caso dei matrimoni imposti con
la forza.
D’altra parte questa clausola che potremmo definire inclusiva ha anche lo scopo di coprire
quelle situazioni nelle quali per l’appunto l’ambito non è quello tipico del lavoro forzato,
ma è un ambito caratterizzato da una situazione relazionale molto qualificata. Questa
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clausola potrebbe servire nel caso in cui si affermasse a livello internazionale
un’interpretazione molto restrittiva di lavoro forzato, per l’appunto riferita solo alle
manifatture che a questo punto lascerebbe fuori tutto il discorso della servitù domestica
che invece è molto importante e significativo.
L’ultima notazione che faccio riguarda la discussione a livello nazionale. Noi, nel disegno
di legge governativo relativo al traffico di persone, di iniziativa del nostro Dipartimento di
concerto con molti altri ministeri, abbiamo individuato appunto in una situazione in cui era
ancora rivolta scarsissima attenzione a questi fenomeni di schiavitù domestica e del
lavoro forzato, una gamma di scopi illeciti più ampia rispetto a quella del solo sfruttamento
sessuale e abbiamo indicato le forme diverse dallo sfruttamento sessuale come altre
forme tali da ridurre la persona in schiavitù o in condizione analoga alla schiavitù, peraltro
questa clausola si rivela a mio modo di vedere insoddisfacente per due ragioni: la prima è
una certa indeterminatezza che nell’ambito del diritto penale sarebbe sempre da evitare, e
in secondo luogo perché non è descrittiva.
Quindi si dovrebbe prendere in considerazione l’idea di provare a migliorare questa
definizione - il disegno di legge è attualmente in discussione alla commissione Giustizia - ,
e da questo punto di vista si pone però il problema di individuare alcuni parametri
normativi oggettivi tali da rendere questa fattispecie più rispettosa del principio di
tassatività, ma allo stesso tempo più significativa dal punto di vista descrittivo.
Sicuramente la situazione italiana forse consente di fare questo tentativo, a differenza
delle sedi internazionali dove questo tentativo non si può neanche tentare. In altri termini
la ricchezza della tradizione giuslavorista e sindacale italiana rende forte il tentativo di
individuare alcuni parametri relativi innanzitutto all’orario e alla retribuzione che
consentano per l’appunto di individuare quelle situazioni oltre le quali non siamo più
nell’ambito dello sfruttamento, ma di qualche altra cosa meritevole della sanzione penale.
Resta naturalmente aperto il problema di raffinare ulteriormente questo lavoro perché è
chiaro che l’orario di lavoro di durata eccezionale è uno dei parametri , ma sulla
retribuzione si potrebbe far riferimento alla retribuzione assente, alla retribuzione
insufficiente alla sussistenza, alla retribuzione sproporzionata all’orario di lavoro, ma
naturalmente ciascuna di queste definizioni definisce in maniera sempre più ampia l’area
della criminalizzazione e si dovrebbe far riferimento oltre all’orario lavorativo anche a
quelle condizioni di limitazione di libertà personale e di abuso, anche se il termine abuso è
troppo indeterminato. L’uso della forza è una delle componenti della privazione di
autodeterminazione propria di quello che abbiamo cercato di chiamare servitù.
La Convenzione di Vienna di cui parlavo ha riguardato la criminalità organizzata ed ha tre
protocolli addizionali, essendo essa di carattere generale: il primo protocollo è sulle armi
da fuoco, il secondo sull’immigrazione illegale e l’ultimo sul traffico delle persone. C’è
stata la definizione di queste diverse fattispecie e disposizioni specifiche sia relative
all’armonizzazione della legislazione dei singoli stati, sia alle azioni che gli stati devono
intraprendere per migliorare l’azione di contrasto, sia a livello interno che a livello di
cooperazione internazionale.
Giovanni Mottura
Io non vorrei propriamente fare un intervento di chiusura, perché mi sembra difficile
concludere. C’è una relativa indeterminazione in questa fase della ricerca, ma questa mi
sembra essere ancora una ricchezza. E questo non contraddice affatto l’esigenza da tutti
condivisa, e anche da me, che ad un certo punto bisognerà delimitare con maggiore
nettezza i confini.
Tutte le volte che sento parlare di schiavismo e di neo-schiavismo mi viene in mente una
cosa che ho imparato tanto tempo fa, cioè che la differenza tra un salariato e uno schiavo
sta nel fatto che quello che faceva lavorare lo schiavo si caricava anche dei problemi della
riproduzione. Mi viene in mente in proposito un discorso che veniva fatto in un film di
65
Marlon Brando: dei coltivatori di canna da zucchero si chiedevano se era meglio una
donna o una prostituta. Se si mette da parte il sentimento è chiaro che è meglio la
prostituta, perché si paga la prestazione e tutto finisce lì, non si deve curare di lei, quando
è malata o vecchia.
Mi viene sempre in mente questa distinzione categorica. Quando si parla di neoschiavismo mi sembra che in realtà si parli di una realtà che mescola le caratteristiche.
Usare il termine schiavismo in qualche modo dirotta l’attenzione su una parte della
questione, mentre abbiamo di fronte un oggetto misto. Un altro pensiero che avevo in
mente riguarda la Rhur, quando lì c’era un’alta produttività. Ricordo che avevo fatto un
giro con un amico e avevo scoperto che nei paesi e nei villaggi intorno alle miniere di
carbone lavoravano moltissimi coreani. Avevo anche scoperto che i reclutatori oltre a
reclutare le persone pagavano il viaggio, trattenevano i costi del viaggio e del
trasferimento dal salario, e assegnavano le case; per regolamento se al lavoratore
capitava di perdere il lavoro in miniera automaticamente era anche disdetto il contratto
della casa. Avevo anche scoperto che in generale non si reclutavano singoli, ma
possibilmente dei nuclei familiari - le mogli andavano a lavorare nel settore dei servizi.
Allora dicevo che in Italia non sarebbe mai stato possibile un regolamento che il tuo
datore di lavoro se è anche proprietario della casa in cui abiti automaticamente mette nel
contratto di lavoro anche la disdetta del contratto di affitto nel momento in cui tu perdi il
lavoro. Qui si è centrata l’attenzione su dove mettere il confine tra una situazione di
coercizione e una situazione di lavoro salariato. Ricordando l’esempio dei coreani della
Ruhr, volevo dire che già conoscevamo delle situazioni in cui questo confine era
abbastanza evanescente.
Nell’esempio che ho fatto il datore di lavoro tratteneva i costi dei trasferimenti dai salari,
cos’ha di diverso dall’indebitamento di cui parlavamo prima? Secondo me ha di diverso
che le rate che venivano trattenute dal salario corrispondevano ai costi di trasferimento,
perché questi costi erano sopportati dal datore di lavoro che aveva bisogno di quel
lavoratore.
Allora una qualche parvenza di capacità contrattuale c’era mentre, per tornare sull’oggi,
alle ragazze che si prostituiscono vengono fatti pagare gli interessi sul debito contratto
che, quindi, anziché estinguersi si riproduce, rendendo quasi impossibile l’affrancamento.
Questa diventa quindi una situazione di schiavitù che invece nel caso dei lavoratori
coreani della Ruhr non c’era.
Il confine mi sembra quindi essere molto evanescente e soprattutto mai di principio. In
linea di principio le pratiche utilizzate si assomigliano tutte, quella che fa la differenza è la
capacità contrattuale.
A me sembra, come dicevo all’inizio che un interesse vero sia questa relativa difficoltà di
definizione. Nel senso che quando abbiamo cominciato a studiare la prostituzione
straniera, e Carchedi lo sa meglio di me, ci siamo entrati non tanto perché avevamo in
mente delle categorie, ma perché ci dava fastidio che un gran numero delle persone che
parlavano del fenomeno, forse la maggioranza, spiegava tutto con il termine “tratta”. Per
cui un concetto – tratta - che è molto specifico, diventava la chiave universale che
spiegava tutto ciò che accadeva in quell’ambito.
Sotto l’esigenza di spiegare tutto il fenomeno attraverso il termine tratta c’è un indebito
sconfinamento in un terreno che è il terreno del giudizio etico che si da delle azioni di cui
si sta parlando, ed io non lo condivido perché so che non mi spiegherà nulla del
fenomeno.
In questo senso noi avevamo pensato che allora bisognasse categorizzare, facendo
uscire le categorie dai racconti dei protagonisti che ti spiegano come vivono, come si
organizzano, come sono arrivati in Italia .
Siamo arrivati a definire una tipologia di figure, perché poi l’oggetto è di arrivare a delle
definizioni di figure sociali e alle relazioni che si stabiliscono fra queste figure sociali .
66
Una volta che si è riusciti a definire le figure sociali per capire il tessuto di relazioni in cui
queste figure si inseriscono e si muovono, - le interazioni tra la loro esistenza e la società
vanno individuate - e studiate .
Dal punto di vista dell’immigrazione l’Europa sta ora vivendo un epoca di cambiamenti
molto grandi e significativi. Ci sono grossi cambiamenti nel mercato del lavoro,
cambiamenti enormi nella struttura dell’occupazione della popolazione europea, enormi
nei regimi contrattuali. questi cambiamenti vanno di pari passo con crisi di pilastri forti
dell’identità della gente, allora come risultato di tutto ciò abbiamo fra le altre cose una
legislazione pesantemente restrittiva e sanzionatoria nei confronti dell’immigrazione.
In presenza di legislazioni di tipo difensivo generano clandestinità e irregolarità. Questi
due elementi in un contesto economico come è quello europeo attuale si traducono in un
offerta non ufficiale che può andare a fare da moltiplicatore a processi che sono già in
atto.
Il rischio che dobbiamo tenere presente è che la manodopera straniera non in regola
diventi un elemento strutturale all’interno della realtà economica europea. Questo
certamente non andrebbe a favore di nessuno.
C’è poi un altro punto che è emerso nella ricerca sulla prostituzione: le prostitute possono
essere studiate come delle lavoratrici?
La letteratura più forte in questo campo è quella asiatica, e lì in realtà non è che la
prostituzione compaia molto spesso, compaiono dei flussi di manodopera collocati in
posizione difficile nell’ambito dei mercati del lavoro dei paesi d’arrivo, con rapporti di
lavoro e di subordinazione tale che la prestazione sessuale viene considerata un
“optional” da parte del datore di lavoro.
Le donne filippine che lavoravano in Kuwait ad un certo punto hanno fatto una battaglia
perché i loro datori di lavoro consideravano naturale avere nei loro confronti delle pretese
sessuali, pensavano che facesse parte del rapporto di lavoro. Così le operaie che vanno
in una fabbrica in Tailandia, provenienti da un paese limitrofo, hanno raccontato una storia
infinita di abusi sessuali, ma che in determinati contesti vengono considerati delle
appendici del lavoro.
L’ultimo argomento di cui volevo parlare e che mi sta particolarmente a cuore riguarda i
cinesi, a cui si è accennato prima. Innanzitutto dobbiamo cominciare a liberarci dall’idea
che i cinesi siano un mondo “nero”, i cinesi sono dei lavoratori, delle imprese. Vengono in
Italia e fanno delle imprese con dei lavoratori che possibilmente provengano tutti dalla
stessa provincia o dalla stessa città, o dallo steso clan familiare.
Nella logica del modello migratorio cinese non c’è contraddizione tra il fatto che i ragazzini
cinesi siano i più bravi a scuola ma vengano anche sfruttati nel lavoro. Il ragazzino che va
a scuola ed è molto bravo è altrettanto costretto ad essere così bravo, e questo accade
soprattutto nella prima o nella seconda generazione, perché è l’unico tramite linguistico
che la famiglia ha con il contesto in cui sta cercando di inserirsi. Come ad esempio il
modello del lavoro in determinate condizioni, è una delle caratteristiche del modello
migratorio cinese. Naturalmente presenta delle contraddizioni, ma per poterlo capire io
non posso usare le categorie del sindacalismo italiano per spiegare la posizione dei
lavoratori cinesi in fabbrica.
Noi facciamo parte di quella minoranza di paesi che hanno convinto il mondo che questo
è il terzo millennio. Ma per un mussulmano o per un animista cosa vuol dire il terzo
millennio? Possiamo dire che in Italia si cerca di non rendere possibili determinate
condizioni di lavoro, ma queste condizioni di lavoro servono ora ad esempio ai marchi di
Prato per fare le maglie e consegnare i prodotti rispettando le scadenze. A questo punto
forse potremo cominciare a considerare più “umana” un’impresa cinese in cui lavora tutta
la famiglia compresi i bambini, rispetto ad una delle nostre “rispettabili” imprese italiane.
67
ALLEGATO 2
Schede di intervista
68
Scheda di
Intervista a Testimoni privilegiati
Ricerca su:
“Il lavoro servile e le forme di sfruttamento para-schiavistico”
Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati
Dipartimento Affari sociali della
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Roma, aprile 1999
69
Dati dell’intervistato
Nome………………… Cognome……………………………..
Organizzazione/Ente di appartenenza………………………….
Carica principale ricoperta……………………………………..
Via…………………………………..n…………Cap. ………..
Città…………………………………………………………….
Tel. …………………… Fax. ………………………………….
E mail. ………………………………………………………….
Nota per gli intervistatori
La seguente Scheda di intervista è suddivisa in differenti moduli a seconda delle
aree tematiche oggetto di studio. I Moduli possono essere alla base dell’intervista
da effettuare alla stessa persona (in qualità di Testimone privilegiato), oppure
possono rappresentare le diverse basi per interviste più mirate da effettuarsi a
differenti persone. Infatti, a seconda delle caratteristiche dell’intervistato (in
relazione alle sue conoscenze delle tematiche allo studio) i differenti Moduli
possono considerarsi come degli anelli conseguenti di una stessa intervista
oppure gli anelli separati di altrettante interviste.
L’articolazione delle domande e delle variabili che le compongono rappresentano
una traccia orientativa che servirà come guida per l’intervistatore. Nello
svolgimento dell’intervista occorre, tuttavia, attenersi alla successione logica delle
domande e possibilmente delle variabili in maniera da permettere l’acquisizione di
dati ed informazioni adeguate agli obiettivi dell’indagine. Il gruppo di riferimento
per l’analisi delle condizioni servili e para-schiavistiche alla base dell’indagine
sono le componenti immigrate di origine straniera.
70
Primo Modulo: Il sistema normativo esistente e aspetti evolutivi
0. Il reato di sottomissione in schiavitù è contemplato da alcune importanti disposizioni
normative internazionali. Secondo Lei, per come si manifesta il attualmente il
fenomeno, sono ancora valide per contrastarlo adeguatamente? Ad esempio (in base
ai tipi previsti dalla Convenzione dell’ONU del 1956), nella forma di:
-
servitù domestica
servitù da lavoro forzato
servitù da debito
servitù matrimoniale
tratta di donne/bambini a scopo di sfruttamento sessuale
lavoro minorile, anche attraverso forme organizzate di accattonaggio o di ingaggi
sportivi o attività manifatturiere
prostituzione mascherata (nelle attività di intrattenimento fondate su rapporti
coercitivi)
1. Queste problematiche come si articolano a livello nazionale? Ci sono strumenti
normativi adeguati ad affrontale, oltre a quelli previsti dalla ratifica delle Convenzioni
internazionali?
2. Secondo Lei, come si configura il reato di assoggettamento al lavoro servile? E quello
di assoggettamento di forme di lavoro para-schiavistico? Saprebbe indicarci su cosa si
basano le differenze principali a livello giuridico-legale?
3. Secondo lei, sono fenomeni che investono il nostro paese o sono presenti anche in
altri: ad esempio in quelli Europei? Lei intravede delle differenze sostanziali tra le
forme che emergono nel nostro paese e quelle che emergono negli altri?
N.B.: Sia in caso affermativo che negativo: Può specificare perché? Quali sono –
inoltre - le misure che si potrebbero prendere a livello europeo per contrastare questi
fenomeni? E a livello nazionale?
4. Quali indirizzi evolutivi possono prendere le disposizioni che riguardano:
-
la sottomissione in schiavitù contemplata, ad esempio negli artt. 600 – 603bis del
C.P.;
la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale (nelle sue differenti forme di
manifestazione: sulla strada e nei locali di intrattenimento) previsto dall’art. 18 del
Testo unico n. 286/98;
lo sfruttamento sessuale dei minori previsto dalla legge n. 269/98.
6. Inoltre: ritiene che la dichiarazione di illegittimità prevista dall’art. 603 del C.P. inerente
il reato di “plagio” abbia lasciato una lacuna nel sistema giuridico essendo venuta a
mancare una fattispecie normativa che disciplini la servitù di fatto?
7. Da un punto di vista giuridico-legale, come possono essere protette le persone che
entrano in maniera irregolare e che diventano, per questa ragione, potenziali vittime di
forme di lavoro para-schiavistico? E’ possibile prevedere sistemi normativi di difesa
sul modello di quello costruito per le vittime della tratta. N.B.: sia in caso affermativo
che negativo: Specificare perché.
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Secondo Modulo – Il lavoro servile e para-schiavistico: lavoro
coatto, servitù da debito e servitù domestica
0. Secondo Lei, attualmente, come potremmo definire il lavoro servile? E il
lavoro para-schiavistico? In sintesi: quali sono le differenze e le eventuali
similitudini?
1. Questi fenomeni, secondo Lei, quanto sono estesi. Inoltre: dal suo
osservatorio professionale, ha dovuto affrontare casi di questa natura?
Se si: potrebbe farcene una descrizione sintetica, ponendo l’attenzione sugli
aspetti che lo collocano all’interno del lavoro servile o del lavoro paraschiavistico? Ancora: secondo Lei, si tratta di casi sporadici o della punta di
un icemberg? Le sembrano maggiormente diffuse relazioni di tipo servile
oppure relazioni di tipo para-schiavista?
2. In quali contesti produttivi e relazionali ha/avete riscontrato questi casi? Quali
sono gli ambiti del lavoro precario e all’interno di questi: quali sono i segmenti
più deboli del mercato del lavoro dove è possibile che possano svilupparsi
forme di asservimento lavorativo e forme di para-schiavismo?
3. A fianco della condizione servile e para-schiavistica, secondo Lei, sono
presenti forme di assoggettamento derivanti da “servitù da debito”? Ossia:
relazioni di assoggettamento che passa specificatamente attraverso
l’instaurazione di meccanismi che vincolano il lavoratore al suo sfruttatore
tramite un obbligo di restituzione di beni o servizi anticipati da quest’ultimo o
da terzi?
Se si: saprebbe specificare
-
come funziona il meccanismo sottostante l’assoggettamento da debito ed
in quali ambiti di relazioni ha maggiori possibilità di svilupparsi?
Quali sono le dinamiche che lo determinano e chi sono i soggetti che lo
gestiscono?
Quali sono, a suo parere, i fattori di vulnerabilità e debolezza che
spingono la vittima a sottostarvi?
Quale grado di coercizione e violenza è possibile riscontrare
nell’esperienza da Lei conosciuti?
Mediamente, che durata può avere l’esistenza del debito e la sua
possibile restituzione?
Quali sono i gruppi immigrati che sembrano maggiormente coinvolti in
questo
meccanismo?
4. Le risultano esistere – a fianco delle forme di assoggettamento precedenti forme di “servitù da lavoro forzato”? Vale a dire situazioni in cui il datore di
lavoro costringe la vittima a lavorare per lui senza compenso o quasi, con
orari e condizioni di lavoro al limite della sopportabilità, sulla base di un ricatto
o dell’esercizio di qualche forma di potere vincolante e coercitivo?
Se si: saprebbe specificare
72
-
in quali settori dell’economia – e all’interno di questi in quali comparti- si
presenta in particolare questo fenomeno e perché proprio in questi
ambiti?
Qual è in genere la composizione nazionale degli imprenditori e dei
lavoratori coinvolti: appartengono allo stesso gruppo nazionale o ci sono
combinazioni trasversali?
In quale misura risultano coinvolti imprenditori italiani e a quale
nazionalità appartengono solitamente le vittime?
Quali sono le principali cause che rendono possibile questo tipo di
sfruttamento coercitivo e totalizzante?
In quale maniera inizia e si perpetua l’esercizio del potere coercitivo sulle
vittime?
5. E’ a conoscenza di casi di “servitù domestica”, nei quali la relazione di
assoggettamento si instaura all’interno delle mura domestiche costringendo
la vittima a ogni tipo di mansione, compreso in certi casi anche servizi di tipo
sessuale?
Se si: saprebbe specificare
-
chi sono solitamente le parti in causa coinvolte nella relazione?
Quali sono a suo parere le peculiarità di questa forma di lavoro servile?
Quali risultano essere le forme di ricatto e di coercizioni prevalenti? Vi si
ritrovano, secondo Lei, forme di vera e propria prigionia coatta e
segregazione?
In questi casi – secondo Lei – possono verificarsi passaggi da forme di
lavoro semi-garantite o precarie a forme di lavoro servile e paraschiavista? Se si: quali possono esserne i motivi principali?
7. In tutte queste diverse forme di assoggettamento estremo, saprebbe
dirci sinteticamente – se ritiene siano presenti - le ragioni della ricattabilità
delle vittime immigrate. Ad esempio: mancanza di diritti, debolezza sociale
e psicologica, soggezione culturale, mancanza di status legale-giuridico,
eccetera? E conseguentemente: quali sono le possibilità o capacità di
uscita – da parte dei diretti interessati - dal rapporto con quanti li
costringono a condizioni para-schiavistiche?
8. Quali sono le possibilità di contrastare questi fenomeni di
assoggetamento radicale e inumano? Le vittime, secondo Lei , hanno,
attualmente, la possibilità di denunciare i loro sfruttatori? Quali sono i
principali strumenti disponibili?
9. Su quali terreni, secondo Lei, è necessario intervenire con maggiore
efficacia: sia sul piano sociale che su quello giuridico, nonché su quello
economico e su quello culturale.
73
Terzo Modulo - Le condizioni di assoggettamento nelle comunità
Rom
0. Secondo Lei, quali sono in sintesi i periodi principali di arrivo delle diverse comunità
Rom a partire dagli inizi degli anni Novanata? Saprebbe evidenziare le differenze (se
pensa che ci siano) all’interno di ciascuna diversa micro-ondata di riferimento?
1. Sono cambiate le condizioni delle Comunità Rom negli ultimi dieci anni? Se si:
saprebbe dirci quali sono le principali trasformazioni avvenute, sia dal punto di vista
quantitativo che soprattutto da quello qualitativo: ossia a livello di condizioni di vita, di
lavoro e di istruzione?
2. Secondo lei: quali sono le principali forme di partecipazione delle diverse Comunità
Rom al mercato del lavoro e/o alle altre forme di reperimento del reddito da parte delle
stesse?
3. Le differenze tra i livelli di partecipazione all’inserimento scolastico che si riscontrano
nelle differenti Comunità Rom, da cosa dipendono prevalentemente (intervento
associazioni, condizione giuridica, gruppo zingaro specifico, caratteristiche del campo,
maggior stanzialità nella stessa area, eccetera, .)?
4. Quanti sono i contatti tra diversi gruppi zingari e tra persone arrivate a ondate
successive diverse? Si riscontrano forme di assoggettamento degli ultimi arrivati
rispetto ai primi? Se si: in che modo avviene? Come si concretizza?
5. Quanto pesa, nelle forme più estreme della marginalità zingara, una posizione
giuridica irregolare? Come si determina questa posizione irregolare e cosa comporta
in termini di comportamenti sociali da parte dei diretti interessati?
6. E’ a conoscenza di forme di costrizione operate da adulti verso bambini per
costringerli ad andare a rubare, a mendicare o a lavorare? Se si: può descrivere come
avviene e cosa comporta in termini di sviluppo umano per i ragazzi coinvolti? Se no:
può spiegare le motivazioni principali alla base di tale asserzione?
7. Qualora questo avvenga, secondo Lei, possiamo affermare di essere davanti ad un
fenomeno diffuso? N. B.: sia se risponde negativamente o positivamente: Può
spiegarci perché. In questi casi i bambini coinvolti sono familiari delle persone che li
spingono ad assumere forme di assoggettamento coercitivo?
-
Se si: come spiega questo meccanismo? Possiamo comunque parlare di
assoggettamento servile e para-schiavistico, anche in presenza di legami familiari
basati su specifiche tradizioni?
-
Se no: chi sono allora secondo Lei? Come si determina questo potere di
assoggettamento? Sono bande esterne alle Comunità o sono espressioni delle
gerarchie di potere tutte interne alle Comunità medesime? Quanto è diffuso
questo fenomeno? Qualora si tratti di un gruppo specifico ed organizzato, che
rapporto si instaura con gli altri gruppi, come convivono? Quali sono i conflitti e
quali sono le posizioni che li sottendono?
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8. Che giudizio danno generalmente i capi-gruppo dei campi di queste forme di
assoggettamento che si verifica all’interno dei propri campi? In particolare, quando si
tratta di bambini/adolescenti?
9. Che strumenti occorrerebbe mettere in campo per prevenire queste forme di
assoggettamento? E una volta emersi cosa si potrebbe fare per contrastarne la
diffusione? Che ruolo debbono svolgere le istituzioni al riguardo?
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Quarto Modulo – La condizione di assoggettamento dei minori: nell’ambito
sessuale e nell’ambito lavorativo
0. Qual è – secondo Lei - il significato da attribuire alla definizione sfruttamento del
lavoro minorile e qual è la sua articolazione? Ossia, quali sono gli ambiti produttivi – e
all’interno di questi i segmenti - nel quale si sviluppa?
1. E quella di sfruttamento sessuale dei minori? Quanto è ampio questo fenomeno? Da
quanto tempo – secondo Lei – è visibile socialmente? Ci sono gruppi di minori intercettati
sul territorio cittadino che praticano la prostituzione? Se si: sono soltanto donne, oppure ci
sono anche gruppi di giovani maschi? Notate differenze nelle pratiche di assoggettamento
per quanto riguarda il genere delle vittime minori?
2. Nello svolgimento delle Vostre attività, avete avuto modo di intervenire in aiuto di
giovani costretti a prostituirsi? Se si: potreste descrivere brevemente questi casi,
specificando le modalità di ingresso nella prostituzione e le modalità principali di
assoggettamento coercitivo da essi subiti?
3. Quali sono, secondo lei, le cause di ingresso nel meccanismo di sfruttamento
sessuale e quali quelle per sfruttamento lavorativo? Quali sono i principali paesi di origine
delle vittime? Come si manifesta lo sfruttamento lavorativo? E quali sono i caratteri
distintivi rispetto allo sfruttamento che possono subire gli adulti?
4. Quali sono, in linea di massima, le condizioni sociali ed economiche della famiglia
d’origine dei minori coinvolti in questi meccanismi?
5. Che dimensioni assume il fenomeno della prostituzione minorile e quella del lavoro
minorile? Avete stime a proposito? Sono vostre o di altri? Se sono state fatte da loro: con
quali criteri metodologici le avete fatte?
6. Le vigenti leggi rispecchiano un adeguato livello di contrasto del fenomeno? Ossia: a
Suo parere sufficientemente garanti dei diritti dei minori?
7. Quali possono essere le proposte di contrasto che potrebbero contrastare
efficacemente il fenomeno?
76
ALLEGATO 3
Schede bibliografiche
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“Le nuove frontiere della criminalità. Il traffico di esseri umani e le nuove forme di
schiavitù” Appunti del convegno di Verona, 22-23 ottobre 1999 realizzato
dall’UNCRI
Intervento di David Ould (Anti-Slavery international)
“La schiavitù è alimentata dallo spostamento obbligato delle persone dalle loro case” (il
problema dello sviluppo). Ould parla sia delle migrazioni brevi o interne, che di quelle
intercontinentali.
Esempi: Cinesi che vanno a Saipan e pagano il viaggio con lavoro eterno, bambini
nepalesi domestici in India, Brasiliani in Amazzonia e altrove, bambini mendicanti, portati
via alle famiglie con la promessa di essere istruiti.
Commercio di Frontiera (esempi)
Benin verso Nigeria, Niger e Gabon: gli schiavi passano di padrone in padrone fino a
venire “trovati” a Parigi o a Londra. Reclutamento con la promessa di condizioni di lavoro
favorevoli in zone isolate, violenze, paghe più basse del pattuito e versate in forma di
gettoni per comprare merci sovraprezzo nei negozi della compagnia (Un caso più volte
discusso a Verona è quello del movimento dalla frontiera haitiana verso le piantagioni di
zucchero della Rep. Dominicana).
Lavoro clandestino con permesso scaduto e passaporto in mano ai padroni.
Criteri per la definizione di traffico della Antislavery campaign: trasporto, intimidazione,
allettare con promesse, etc. allo scopo di sfruttare il lavoro altrui.
Proposte della Antislavery campaign: Aumentare la sensibilità pubblica e istituzionale,
dare priorità al problema, non trattare i migranti trafficati come clandestini, adottare misure
che consentano forme di giurisdizione internazionale.
Intervento di Muireann O’Briain (ECPAT, Ong contro lo sfruttamento sessuale
dell’infanzia)
Il problema è diffuso in ogni angolo del pianeta, non c’è discriminazione di genere. Si
parla di 4 milioni di bambini. Usi: pornografia, sesso, lavoro, traffico e trasporto di
stupefacenti, servitù domestica, adozioni (verso Europa e Usa) e matrimoni (zone rurali e
isolate dei paesi del Sud del mondo). Fenomeno difficile da far percepire in alcune zone:
“some people would be distressed if being called a trafficker”. Fenomeno diffuso è la
sparizione dai campi profughi. Clima politico che associa criminalità e migrazioni rende
difficile intervenire sui problemi.
Intervento di Alberto Brandanini (Unicri)
Globalizzazione e crescita barriere favoriscono l’estendersi del fenomeno. Organizzazioni
legate tra loro in maniera da poterle chiamare Transnazionali (collegamenti planetari,
entrature locali, non necessariamente tutti legati alla stessa struttura ma parti
interdipendenti su quel prodotto).
78
Alcune cifre:
Dalla Cina agli Usa costa 30 mila $
Una donna in un anno produce circa 120-150 mila $
Sono tra i 120 e i 250 milioni le persone messe al lavoro in maniera coatta, circa la metà
hanno tra i 5 e i 14 anni.
In Thailandia il volume d’affari del mercato sessuale è pari al 10-14 per cento del Pil.
Intervento di Vincenzo Ruggiero (Università del Middlesex)
Discorso generale sulla storia delle migrazioni, simile a quello di Saskia Sassen (Migranti,
profughi, coloni, Feltrinelli, 1999). I paesi più sviluppati nel corso dei secoli hanno
incoraggiato e persino forzato (con il traffico degli schiavi) le migrazioni alla ricerca di
“unskilled labour to be used in mass production of durables”. Addirittura si arrivava a
promettere, a quelle persone, ad esempio in Africa, che resistevano a lasciare la propria
terra, di concedere la cittadinanza in maniera permanente.
B. Ghosh
“Huddled masses and uncertain shores, insights into irregular migration”
IOM/MartinusNijhoff publishers, 1998.
Rassegna sul problema delle migrazioni illegali e del traffico di esseri umani.
La parte sulla schiavitù da debito ci propone la lettura nota: pagamento posticipato, sul
luogo di immigrazione clandestina incoraggiato da chi presta il denaro necessario
all’emigrazione clandestina. Anche Ghosh, come l’UNICRI, analizza la struttura delle
organizzazioni che trafficano esseri umani Transnational corporations = giro di soldi, basi
locali, catena, per domicilio, trasporto, documenti, lavoro.
Pino Arlacchi
“Schiavi, il nuovo traffico di esseri umani”, Rizzoli, 1999.
Rassegna globale sulle tipologie di schiavitù contemporanea che punta ad attirare
l’attenzione di un pubblico più vasto sulle peculiarità del fenomeno. La parte relativa
all’Europa si limita al problema dell’industria del sesso, sottolineando come, anche nei
paesi dove la prostituzione è legale, vanno aumentando i casi del suo esercizio fuori dalla
legge. Secondo Arlacchi la schiavitù contemporanea è sostanzialmente legata alla
produzione di merci o è essa stessa merce (i corpi delle donne e dei bambini, appunto), si
è dunque perso il legame tra status sociale e proprietà di schiavi tipico di sistemi
schiavistici del passato. Arlacchi lega il rinnovato svilupparsi del fenomeno alla pervasività
del mercato che riduce ogni cosa a merce e spiega l’uso della violenza da parte dei
padroni come qualcosa generato dalla coscienza che il rapporto che intercorre tra questi e
gli schiavi è culturalmente illeggittimo nelle società contemporanee (il padrone esercita il
suo potere con costanza, il rapporto va ribadito, non c’è un sistema di valori che lo
giustifichi).
La schiavitù coincide con la perdita della cultura di riferimento e con la perdita di rispetto
per se stessi. Arlacchi sottolinea la necessità di profondi cambiamenti culturali e sociali tali
da rendere il lavoro sul campo e la legislazione internazionale strumenti efficaci e non
occasionali.
C. Meilassoux,
79
“Antropologia della schiavitù”, Mursia,1992.
Analisi del problema utile anche per capire meglio "certe vischiosità nell'analisi del
fenomeno e a sondare gli ambigui confini tra libertà e oppressione nelle società
contemporanee". Dibattito ideologico sulla positività delle società pre-coloniali e M. che
pone con forza l'accento sulla schiavitù come fondante di alcune di quelle società.
Studio dei modi di produzione ma anche necessità di studiare le modalità di riproduzione
del sistema sociale, strumento base per capirne il funzionamento (perché sopravvive,
insomma?).
M. cancella l'idea occidentale di schiavitù come "legame debole e sottomesso di
parentela", di allargamento del gruppo originario: lo schiavo è un "non-parente". Lo
schiavo è di sesso neutro, privato del legame con la terra, col gruppo, non ha parenti né
figli propri. Il sistema schiavistico si riproduce attraverso òa guerra e la compra-vendita
(mercato), i figli sono vendibili e/o sono figli del padre che decide di prenderseli e/o hano
uno status ancora diverso, intermedio: schiavo, genere biologico ma non sociale.
L'economia domestica investe la sovrapproduzione per la riproduzione sociale (scorte,
matrimoni, funerali, attrezzi) L'economia schiavistica sottrae la sovrapproduzione a chi la
produce e la investe nella riproduzione del sistema (guerre e catture o acquisto di nuovi
schiavi). Per M. lo schiavo subisce una serie di sottrazioni: desocializzazione,
spersonalizzazione, mercificazione, desessualizzazione, decivilizzazione.
M. ci parla di un sistema schiavistico difficilmente riproducibile nel nostro oggetto di studio
(se non in microrealtà estreme, magari legate al singolo rapporto padrone schiavo: cfr. le
domestiche filippine trattate dai diplomatici degli stati della penisola arabica in giro per il
mondo o alcuni giovani pastori, anche in Italia), ma introduce elementi culturali (ad
esempio le “sottrazioni”) che possono essere utili a capire e facilitare la costruzione di
tipologie.
Quanto di tutto questo ritroviamo noi? Possiamo ipotizzare "sistemi schiavistici"? E'
probabile che troveremo pezzi di ciascuna categoria, sistemi generali (la tratta, le mafie
internazionali e pratiche che si assomigliano) e sistemi particolari (ad esempio:
desessualizzazione della lavortrice indebitata e non della prostituta nigeriana/
desocializzazione del messo al lavoro da italiani e socializzazione subalterna nella
comunità d'appartenenza: culturalmente omogenea e, a modo suo, protettiva in un mondo
ostile).
80
Studi di economia dello schiavismo negli stati del Sud statunitense:
Eugene Genovese
“L'economia politica della schiavitù”, Einaudi, 1972.
Aa. Vv.
“Reckoning with slavery”, Oxford university press, 1976
(dove si discute di “Time to cross”, libro revisionista sulla schiavitù di R. Fogel e S. L.
Engermann)
In questo caso, come in quello di Meilassoux, siamo di fronte a un dibattito che non
coinvolge direttamente la nostra ricerca, ma che formula dei quesiti su un sistema
schiavistico che possono esserci d’aiuto.
Il sistema capitalistico degli stati del Sud era più o meno avanzato di quello del Nord?
E’ finito proprio perché arretrato o l'intreccio con le ragioni politiche è determinante?
Lo schiavo si assimila alla cultura economica e sociale vittoriana dei landowners e, dal
suo interno, si emancipa?
Dipendenza e/o incapacità di sviluppo per un sistema che usa la coercizione e la violenza
come forma di relazione con la forza lavoro?
Una produttività più alta che in fabbrica non si raggiunge solo per lo scoppio della guerra?
Cioé un sistema che partiva da basi arretrate avrebbe operato il balzo se non si fosse
arrivati allo scontro col Nord già più avanzato.
A cosa ci servono queste domande di un dibattito degli anni 70?
1). Capacità di sviluppo del sistema schiavistico in un economia avanzata come la nostra
(le zone grigie e il livello dei profitti generati attraverso lavoro schiavo in segmenti del
mercato ufficiale ma largamente informale e deregolamentato di fatto come edilizia,
commercio, ecc.).
2). Che rapporto intercorre tra la cultura dello schiavo e quella del suo padrone? Quanto il
padrone è capace rendere l'universo culturale dello schiavo tale da farlo divenire
dipendente? (cfr. nigeriane, cinesi, indiani, in India).
81
Lee Tucker
Children slaves in modern India, in: Human rights quarterly, n. 3, 1997.
15 milioni di child bondage labourers dai cinque anni in poi, i prestiti vengono offerti con lo
scopo di avere lavoro in cambio. L'85% dei bambini lavora nell'agricoltura. Le principali
industrie sono quelle delle sigarette, della seta, dei tappeti, dei lavori in pelle; nei servizi le
occupazioni sono camerieri, hotel, domestici e prostituzione. Parliamo quindi di industrie e
settori che sono in relativa espansione per via del boom dell'artigianato "etnico" nel Nord
del mondo. Causa del lavoro schiavo non è solo la povertà: non c'è welfare per cui a
un’urgenza di qualche tipo si risponde singolarmente con la richiesta di un prestito,
assenza di microcredito per piccole imprese e famiglie, educazione inadeguata e
tradizione culturale di caste e tribù (da noi diremmo minoranze etniche). I bambini sono
"unaware of their rights...girls are more docile than boys".
L’articolo prosegue con una rassegna dei livelli di sfruttamento (minimo 10 ore al giorno),
punizioni, paghe, condizioni di lavoro e danni alla salute. Dato molto importante: i bambini
liberi, messi anch’essi al lavoro in condizioni non facili, guadagnano da 5 a 6 volte di più.
Alison Sutton
“Slavery in Brazil”, Slavery International, 1994.
Schiavitù da debito o anche da povertà, nel senso che si reclutano persone al limite della
sopravvivenza si presta loro del denaro in maniera da lasciarlo alle famiglie, li si trasporta
e poi gli si fa pagare col lavoro. I reclutatori (i gatos, gatti) sanno quando il raccolto va
male e si presentano sul posto con i camion gridando che loro offrono lavoro a condizioni
ottime, ecc.
Il sistema di reclutamento è anche questo a filiera, ci si vende la manodopera prestando
soldi, facendo i documenti, trasportando, offrendo beni di lavoro e di consumo.
Le persone trasportate lontano hanno meno modo di ribellarsi, sono fuori dal contesto,
indebitate dall’inizio di quello che in teoria dovrebbe essere il nuovo lavoro, non sono
vicini a organizzazioni sindacali e associative, dipendono per tutto dal padrone (nel caso
diminiere, campi ecc.).
Qui abbiamo la diversità sul debito nella storia, il perché l’indebitato viene allontanato dal
proprio contesto a differenza che in passato. Nel caso dell’India siamo invece in presenza
di una realtà diversa, in un contesto in cui sono le famiglie locali a indebitarsi:mancanza di
sviluppo e sistema delle caste convivono.
82
Anita Chan
Labour standards and human rights: the case of chinese workers, in: Human rights
quarterly, n. 4, 1998.
L'articolo si occupa delle condizioni di lavoro dei lavoratori cinesi. L'autrice spiega come il
mercato creato dalle "foreign funded enterprises" è quello più duro, dove si verificano con
più forza le violazioni e la messa in schiavitù.
Gli "schiavi" sono una categoria molto simile a quella di cui noi ci occupiamo: i migranti,
che all'interno del paese sono 144 milioni e rappresentano quella "forza lavoro periferica e
flessibile nel nuovo, libero mercato del lavoro che è stato spesso salutato come la pietra
di svolta del successo economico della Cina". I cinesi migranti hanno, in altra regione
dalla loro, lo status di foreign nationals (la paura di spostamenti di massa e di
inurbamento incontrollato delle autorità cinesi), per cui hanno accesso a molti meno diritti
(scuola, social welfare, ecc.) rispetto al luogo di residenza (primo passo indietro rispetto
allo status pieno di cittadinanza), non possono portare la famiglia e sono discriminati
socialmente. Per lasciare la campagna devono avere il permesso di partire e quello di
lavorare sul posto, la residenza. Se si viene trovati senza documenti si viene rispediti a
casa passando per l’equivalente dei nostri centri di detenzione.
Condizioni di lavoro in fabbriche joint-ventures: punzioni (faccia al muro davanti a tutti,
bambini al lavoro, impossibilità di uscire dalla fabbrica, turni di lavoro fino a 16 ore, botte).
Bonded labour: il management paga le tasse per ottenere il permesso e fa ripagare gli
operai con il lavoro - una lettera citata dice: “Caro compagno sindacalista, qui non è come
ci avevano detto…” E’ una pratica tipica dello schiavismo del Sud del mondo quella di
andare, fare i contratti con promesse e, una volta arrivati far valere il debito contratto da
quello che diventa uno schiavo.
A volte il management tiene i documenti per i quali ha prestato i soldi, così il lavoratore se
ne resta nelle residenze fatiscenti delle fabbriche perché, se fermato dalla polizia non ha
con sè i documenti.
Paghe: straordinari non pagati, più lunghi di ciò che la legge consente, quando pagati a
tariffa oraria normale, “no day off”. Multe, deduzioni dalla paga per comportamento,
ritardo, malattia, condizioni di lavoro pericolose e paura di protestare.
83
Laura Furlotti
“Devianza minorile zingara”, in: R. Bisi, “Percorsi per un'età difficile”, Franco
Angeli, Milano, 1998.
L’autrice parla degli argati, "operai": bambini venduti nei Balcani e schiavizzati. La
devianza tra i giovani Rom coincide largamente con il reato di furto (70%). La Furlotti
distingue tra argati e giovani zingari, ladri perché emarginati e attratti dai nostri modelli di
consumo. L'autrice lavora al Centro femminile di transizione, Bologna. Si tratta di un buon
saggio per descrivere e riassumere in breve la moderna condizione zingara nelle nostre
città.
Sul primo numero di Carta, Marco Revelli e Antonio Tabucchi parlano di integrazione ai
gradini più bassi, questo saggio conferma quell’analisi.
S. Becucci
“La criminalità cinese in Italia tra stereotipo e realtà”, in: Quaderni di sociologia, n.
11, 1996.
Ci interessa come strumento per individuare le modalità dello schiavo da debito cinese in
Italia. Il lavoro parla di come la gran parte dei delitti per cui i cinesi in Italia vengono
indagati e condannati siano impiego di manodopera clandestina, falsificazione documenti,
introduzione illegale di persone nel paese e altri reati che potrebbero avere relazione con
la schiavitù da debito. L'interesse sta inoltre nelle modalità di non denuncia e di rispetto
delle regole delle persone coinvolte nell tratta e nel legame con organizzazioni criminali:
nessuno si ribella (paura, integrazione in una comunità forte che prevede tutto -casa, cibo,
medicine, vestiti oltre che, naturalmente, il lavoro-, paura della mafia cinese anche se i
"trattatori" non sono membri della Triade.
Judith Ennew
“Debt bondage, a survey”, Slavery International, 1984.
Il debt bondage viene definito da una convenzione del 1956, ma è comunque difficile da
definire perché prende forme e spesso si basa su contratti formali e/o informali. Secondo
l’autrice questa è la forma peggiore di schiavitù.
Segue percorso storico interessante. Bloch: transizione al feudalesimo e costruzione di un
sistema servile regolato successivo alla schiavitù “allo stato puro”. Con la colonizzazione
viene adattato e incoraggiato qualsiasi sistema di schiavitù e servitù nel quale ci si
imbatte. Questione sottolineata è il fatto che i latifondisti (landowners) delle colonie
vengono a trovarsi nella situazione di “imprenditori capitalisti collocati in un sistema
mercantile mondiale”.
Da Hall (articolo citato, in bibliografia): Storicamente il debt bondage si trova nelle regioni
povere. Il contadino è condotto, forzato a indebitarsi dalla povertà della terra e dal
monopolio del landlord sulla manodopera, monopolio che gli consente di tenere i salari
bassi. Il meccanismo del salario basso rende permanenti le condizioni di indebitamento e
struttura un rapporto di favori e prestiti in cambio di obbedienza servile (il legame si rende
indispensabile, come da noi nel sistema migratorio di alcune comunità). Il meccanismo è
spesso accentuato dal fatto che il monopolio può anche essere degli strumenti, cose,
della possibilità di accedere ai mercati (stiamo parlando di campagne) che rendono la
dipendenza totale.
Ameica Latina, primi del 900: persone pagate per fare il lavoro di reclutamento nelle città
(da noi, oggi, avviene il contrario: campagna→città o Sud→Nord del mondo.
84
Il debito familiare è ereditario nelle quattro direzioni: genitori→figli→genitori e
coniuge→coniuge o fratello→fratello.
Storicamente il debt bondage si manifesta in società che contengono forme
precapitalistiche di economia, si rafforza e sviluppa in economie in fase di
modernizzazione
La grande differenza con la schiavitù antica (o totale) è relativa allo status dello schiavo:
nel diritto romano questi è Res (cosa) e non persona. Si tratta di persone comprate o
vendute o catturate in guerra.
Siamo quindi di fronte a un sistema che si perpetua con le stesse modalità di quello
descritto da Meilassoux per l’Africa subsaheliana. La schiavitù di questo tipo è ereditaria
nel senso che il figlio di una cosa è a sua volta una cosa.
Generalmente lo schiavo di questo tipo è straniero, quello indebitato è del posto.
Anche in questo caso siamo di fronte a una differenza di ordine di cose, da noi può essere
sottomesso a organizzazioni del suo paese ma vive altrove.
Anche le leggi ebraiche distinguono questi due tipi di schiavo, comprato e da debito
(quest’ultimo ebreo). Lo schiavo da debito mantiene lo status di persona, viene pagato per
il lavoro che fa, non è proprietà di nessuno e può, in alcuni casi, persino controllare parte
dei mezzi di produzione. Lo schiavo da debito può persino mantenere forme di status
civile normali (forme che si allargano, si restringono, a seconda delle condizioni, del
paese, del padrone, dell’età, ecc.).
Lo schiavo da debito in genere fa lavori bassi, non solo nel senso del tipo di lavoro ma
anche della mansione: non è manodopera specializzata, non serve sia bravo a fare il
lavoro.
Meglio se schiavo visto che non deve essere bravo. Può essere sostituibile con gran
facilità: lavori di quantità e non di qualità. Pensiamo all’industria edilizia contemporanea e
alla sua stansardizzazione, perdita di artigianalità: la catena del subbappalto è fatta in
maniera tale che le piccolissime imprese che usano lavoro al nero non hanno bisogno di
operai esperti. Per impianti e rifiniture ci sono o le grandi ditte o gli specialisti. In Vietnam
e nel Sud est asiatico capita spesso di vedere operai edili lavorare al telaio dell’edificio per
poi trovare ditte specializzate australiane a coordinare il lavoro di cantiere anche come
capisquadra operai). Lo stesso vale per la prostituzione.
Alain Testart
“L’esclavage comme institution” in: “L’Homme”, n.145, 1998
L’articolo è estratto da un numero monogragico della rivista francese di antropologia
L’Homme apparso in occasione dei 50 anni dalla proclamazione, da parte dell’ONU,
dell’abolizione della schiavitù. La questione centrale posta è quella della definizione della
nozione di schiavitù, perché si rileva la non generalizzabilità di molti dei criteri che
sembrano determinare, in diversi contesti storici e geografici, la condizione di schiavitù. Il
punto è quindi individuare dei caratteri universali del fenomeno schiavistico, perché non
esiste un tipo di ruolo, degli oneri o uno stile di vita che si possano dire tipici della
condizione di schiavitù. Fondamentale, nella definizione, è il fatto che la condizione di
schiavo sia individuata da un preciso status all’interno della società, e quindi dal diritto, e
da una precisa determinazione di alcune limitazioni che sono proprie a quello status (cioè
dall’assenza di diritti che invece sono goduti dagli altri membri della società). Viene
contestata la definizione di schiavitù come determinata da una forma di proprietà, per la
variabilità culturale di questa nozione e l’universalità della presenza e del riconoscimento
di forme schiavistiche. Due elementi sono sottolineati come importanti per definire la
nozione di schiavitù:
85
0) l’esclusione: fortemente correlata allo status nella società, la condizione dello schiavo
è segnata dalla sua esclusione da una delle dimensioni sociali considerata come
fondamentale nella specifica società. Si tratta di una delle dimensioni che in tale
società fondano l’identità sociale di ognuno e al tempo steso la sua appartenenza alla
comunità. Ne deriva quindi che lo schiavo è una persona che ha perso l’identità,
spesso è tagliato fuori dai suoi legami sociali di parentela.
1) La possibilità di trarne profitto in diversi modi, che vanno dallo sfruttamento della sua
forza lavoro alla vendita, dalla disposizione dei suoi beni al sottometterlo a debito.
Questo elemento di definizione non permette di differenziare la schiavitù da altre
forme di servilismo, bensì da altre forme di dipendenza come quella dei vassalli o dei
prigionieri.
La forma dell’esclusione è variabile, non si può definire a priori da quale dimensione viene
considerato escluso uno “schiavo” se non in riferimento a una specifica società: è la
comunità religiosa per il diritto islamico, è la sottomissione al pagamento delle imposte per
i regimi che vedono in questo atto la relazione con il sovrano e così via.
Dunque è la società che definisce il tipo di schiavitù, e l’utilizzo che ne fa dipende dalle
sue strategie e dai rapporti sociali fondamentali che la strutturano: non considerando
questo dato, non potremo riconoscere l’effettiva presenza di forme schiavistiche se non
associate alle immagini di miseria cui le consideriamo normalmente abbinate. Non bisgna
soprattutto dimenticare la diversità delle forme possibili della schiavitù per non
confonderla con una qualsiasi forma di dipendenza che può apparire come insopportabile.
Questo porta a concludere che, ad esempio, le persone sottomesse a debito ( gagé in
francese, pawn in inglese) istituzione ben conosciuta in Africa, pur essendo soggette a
una dipendenza forte e a volte a vita, non possono dirsi schiavi dal punto di vista del loro
status giuridico, pur essendolo per le loro condizioni materiali
Un’ulteriore precisazione riguarda il termine “integrazione”, utilizzato per negare la realtà
della schiavitù nelle società di lignaggio, per il quale è opportuno definire rispetto a quale
raggruppamento essa ha luogo: famiglia (unità domestica) o parentela (lignaggio). Lo
schiavo antico è incluso nel primo come insieme dei residenti della domus che include
anche gli animali e le cose sotto l’autorità del paterfamilias , ma non nel gruppo di
parentela, alla gens. Quindi è al tempo stesso incluso ed escluso.
Viene inoltre introdotta una distinzione tra sociétés esclavagistes (schiaviste) e sociétés à
esclavage (che utilizzano la schiavitù) secondo la possibilità, presente nella seconda
solamente, di assimilazione degli schiavi ai liberi con il loro passare attraverso fasi di
emancipazione. In quest’ultima la differenza tra i modi di vita dei gruppi liberi e degli
schiavi non è ovviamente troppo flagrante perché non sarebbe logico maltratta oltre
misura quello che verrà poi considerato un pari. Questo dimostra maggiormente la legge
secondo la quale la schiavitù viene utilizzata conformemente ai bisogni della società
perché questa strategia di adozione è tipica delle società di lignaggio nelle quali ognuno
ha interesse ad aumentare il numero dei familiari.
Maurice Lengellé-Tardy
“L’esclavage moderne”, Ed. PUF (Que sais-je? N.3470), Paris, 1999
Il libro fa parte di una collezione enciclopedica che punta a fornire, in un centinaio di
pagine, un primo quadro piuttosto generico rispetto a uno specifico tema, in questo caso il
fenomeno della schiavitù nel mondo attuale. Il risultato è un affresco molto approssimativo
della persistenza di forme di sfruttamento schiavistico, paraschiavistico e all’interno delle
quali l’autore inserisce anche forme di sopraffazione tout court (come ad esempio quella
dei funzionari delle amministrazioni dello Stato).
Manca in pratica una definizione di quello che si intende con il termine schiavitù, che
prende in questo contesto un significato di senso molto comune; la prospettiva dell’autore
è comunque quella che vede lo schiavismo come una caratteristica necessaria e
86
intrinseca al consumismo, al progresso della produttività del lavoro e della divisione
internazionale del lavoro. Si parla comunque della necessità di trovare delle nuove
definizioni per identificare lo schiavismo contemporaneo, che senza dubbio non risulta più
dalla possibilità legittimata giuridicamente dell’uso e abuso di una persona, bensì da
quella di sfruttamento e usufrutto legittimata dal sistema economico internazionale.
Vengono riportate poche fonti relative al fenomeno, tra le quali D. Torrés “Esclaves”,
Paris, 1996 del quale riporta tre nuovi criteri per la definizione de “la servitude
contemporaine”: il sequestro, la confisca dei documenti e l’assenza di remunerazione
legale. Evidentemente i criteri di definizione del fenomeno allo stato attuale devono
essere molto ampi, diversificati quanto i possibili legami di dipendenza che si sviluppano
tra attuali padroni e schiavi. In bibliografia vengono riportati i riferimenti di alcune
organizzazioni internazionali che si interessano, tra altre questioni, anche a questo
fenomeno (Unesco, Nazioni Unite, Consiglio D’Europa, Amnesty International) e di alcune
che se ne occupano in maniera esclusiva (Anti Slavery, Comité contre l’Esclavage
Moderne).
87
ALLEGATO 4
Elenco delle strutture di Roma per i
minori
88
Il presente elenco di strutture riguarda principalmente i servizi residenziali presenti nel
Comune di Roma che accolgono minori in età adolescenziale.
IPAB - CF “PITIGLIANI”
ARCO DEI TOLOMEI, I - 00153
TEL. 58.00.539 /8
PROTEZIONE DELLA GIOVANE
VIA URBANA, 158
TEL. 48.80.056
ASS.NE REFFO
VIA ONGANIA N.29
TEL. 06 59.26.096
ASS.NE REFFO
VIA DEI VOLSCI, 79/A
TEL. 44.69.070
ASS.NE REFFO
VIA DI GROTTA PERFETTA, 130
TEL. 54.11.782
ASS.NE REFFO
VIA DEI VOLSCI, 79/A
TEL. 44.69.070
FOCOLARE DI ROMA
P.ZA BUENOS AIRES, 5
TEL. 85.43.460
PICCOLA CASA DI S. GIUDA E TADDEO
VIA GRADISCA, 16
TEL. 85.48.531
SUORE PIE OPERAIE DELL’IMMACOLATA
CONCEZIONE
VIA DEI SABELLI, 177
TEL. 44.69.815
CF “CASA DELLA MAMMA”
VIA UDINE, 2
TEL. 44.23.12.10 - 44.23.12.18
SUORE DELLA SACRA FAMIGLIA
VIALE CORTINA D’AMPEZZO, 112
TEL. 33.12.783
CF "G.B. TAYLOR"
VIA DELLE SPIGHE, 8
TEL. 23.16.093 - 23.02.461
“FELIX” COOP. PARSEC
VIA DI TORRE SPACCATA, 157
TEL. 23.89.541
COMUNITA’ PINO PETOCHI
VIA CALPURNIO BELLICO, 82 - CASAL
CONGREGAZIONE SUORE DELLA CARITA’
DI N.S.
VIA MERULANA, 170
TEL.70.49.39.17
LA MIA CASA (ASS. NE REFFO)
VIA VITTORIO PUTTI, 4
TEL. 53.46.834
ASS.NE REFFO
VIA DI GRO'ITA PINTA, 19
TEL. 68.71.789
ASS.NE REFFO
VIA SEGRE, 7 - 00146
TEL. 55.66.291
ASS.NE REFFO
VIA PIETRO PAOLO VERGERIO 15
TEL. 33.80.507
IPAB - PIA CASA DI CARITA'
VIA SANTA AGATA DEI GOTI, 8
TEL. 67.95.547
CF "IL TETTO”
LUNGO TEVERE DANTE, 5
TEL. 55.65.949
COOP. SOC. “RIFORNIMENTO IN VOLO”
VIA UDINE, 24 - 00161
TEL/FAX 44.24.60.94
“SESAMO” COOP. IL CAMMINO
VIA GUELFO CIVININI, 31
TEL. 82.30.01
SUORE DELLA SACRA FAMIGLIA
VIA CASILINA, 631
TEL 24.15.573
PRONTO INTERVENTO CARITAS
VIA DI TORRE SPACCATA, 157
TEL. 23.26.72.02
ELVIRA E DINO VASELLI
VIA A. COPPI, 14
TEL. 78.10.894
ORFANATROFIO FEMM. ANTONIANO
CIRCONVALLAZIONE APPIA, 146
TEL. 780.31.36
89
MORENA
TEL. 79.84.72.93
SACRO CUORE DEL VERBO INCARNATO
VIA LUDOVICO CARDI, 9 - ACILIA
TEL. 52.35.23.29
ORFANATROFIO “MADONNA DEL DIVINO
AMORE”
VIA ARDEATINA, 1221
TEL. 71.35.51.21 (71.39.247)
LA FOGLIA
VIA L. RUSPOLI, 64
COOP. SOC. ACQUARIO 85
VIA ORIO VERGANI 4
TEL./FAX 65.91.008
RONCONI – PENNESI
VIA P. M. MARTINEZ, 8
TEL. 53.63.95
CASA PICCOLE APOSTOLE SOCIALI
VIA A. TRAVERSARI, 21
TEL 58.03.122
SUORE FIGLIE DEL CROCIFISSO
CIRC.ZIONE GIANICOLENSE, 125
TEL. 58.23.06.48
VILLAGGIO “SOS"
VIA M. DI PIERRI, 34
TEL. 62.41.276
ASS.NE “LA NUOVA STAGIONE”
VIA ALCIATI, 9
TEL 52.50.349 ACILIA
“LA PROVVIDENZA"
VIA CASALI DI PORTA MEDAGLIA, 1
TEL. 71.39.247
CENTRO INIZIATIVA AMICA
VIA ORTI SPAGNOLI, 108
TEL. 55.01.916
CITTÀ' DEI RAGAZZI
LARGO CITTA'DEI RAGAZZI, 1
TEL. 65.77.10.91 / 13.03
B.R. FANFANI
VIA DEL CASALETTO, 400
TEL. 65.74.21.39
CF “FOCOLARE CASA NOSTRA"
VIA DEL VASCELLO, 21
TEL. 58.03.540
CF “BICE PORCU"
VIA DEL CASALETTO, 400
TEL. 65.74.02.41
ASS.NE “LA NUOVA STAGIONE"
VIA ORBASSANO, 8 - 00166
TEL. 62.40.885
CITTÀ’ DELLE RAGAZZE
VIA CASALE SANSONI, 15
TEL. 30.81.06.89
VILLA MATER DOMINI
VIA FONTANILE NUOVO, 81 - 00135
TEL. 30.81.49.39
SUORE DI MARIA CONSOLATRICE
VIA TORFANINI, 27
TEL. 33.61.00.76
CF CARITAS “S. CHIARA”
VICOLO DI GROTTA ROSSA, 25
TEL. 33.23.387
IPAB - OPERA ASILO DELLA PATRIA
VIA DELLA CAMILLUCCIA, 537
TEL. 32.94. 227 - 32.92.311
IL CILIEGIO
VIA LUBRIANO, 40
TEL. 33.26.23.09
90
SERVIZI SOCIALI CIRCOSCRIZIONALI
I CIRCOSCRIZIONE
VIA VITTORIO AMEDEO II, 14
00185
TEL 06-77.20.84.97
III CIRCOSCRIZIONE
VIA GOITO 35
00185
TEL 06 69.60.36.45/47
V CIRCOSCRIZIONE
VIA TIBURTINA N. 1163
00156
TEL. 06-69.60.56.40
VI CIRCOSCRIZIONE
VIALE GIORGIO MORANDI
00155
TEL 06 – 22.88.423
IX CIRCOSCRIZIONE
VIA TOMMASO FORTIFIOCCA, 71
00179
TEL 06 69.60.96.40
XI CIRCOSCRIZIONE
VIA BENEDETTO CROCE 50
00142
TEL 06-54.15.690
II CIRCOSCRIZIONE
VIALE ADRIATICO 136 (sede provvisoria)
00141
TEL. 06 81.82.802
IV CIRCOSCRIZIONE
VIA MONTE META N. 21
00141
TEL 06- 69.60.46.76
VI CIRCOSCRIZIONE
VIA ACQUA BULLICANTE N. 26
00176
TEL 06-24.30.20.68
VIII CIRCOSCRIZIONE
VIALE DUILIO CAMBELOTTI, 11
00133
TEL 06 69.60.86.43
X CIRCOSCRIZIONE
PIAZZA CINECITTA’, 11
00175
TEL 06 69.61.06.52
XII CIRCOSCRIZIONE
VIA IGNAZIO SILONE II PONTE
00144
Tel 06 .50.09.32.34
XV CIRCOSCRIZIONE
VIA PORTUENSE n. 579
00149
TEL 06 69.61.56.47
XIII CIRCOSCRIZIONE
VIALE DEL LIDO, 6
00121
TEL 06 56 27 876
XVII CIRCOSCRIZIONE
VIA DEL FALCO, 6 – 00193
TEL 06 68 61 050
XVI CIRCOSCRIZIONE
VIA FABIOLA, N. 14
00152
tel 06 – 69.61.66.40
XIX CIRCOSCRIZIONE
VIA MATTIA BATTISTINI, 464
00167
TEL 06 69.61.92.23
XVIII CIRCOSCRIZIONE
VIA ADRIANO I, n.4
00166
TEL 06 66 25 047/ 06 66 25 987
XX CIRCOSCRIZIONE
VIA CASSIA n. 472
00189
TEL 06 33.11.17.04
91
ALLEGATO 5
Primo elenco dei Testimoni Privilegiati
92
Elenco testimoni privilegiati
Servitù da debito
Osservatorio per la lotta all’usura (CGIL – CISL – UIL)
CESPI (Ferruccio Pastore)
CGIL Regione Lazio (Alfredo Zolla)
Antonella Ceccagno – Sinologa
Marco Strano - Università di Roma
UNICRI (Paola Montini)
Carla Collicelli – Censis
OIM (Maria Teresa Albano)
Servitù domestica
APICOLF (Linda Abando)
FILCAMS (Claudio Treves)
CARITAS (Lidia Pittau)
UIL IMMIGRATI (Pilar Saravia)
CFMW (Nelly Tang)
Maria Grazia Ruggerini – LE NOVE
Giovanna Campani – Università di Firenze
Maria De Lourdes Jesus – Giornalista RAI
Servitù da lavoro forzato
Operatori di ORMA (Osservatorio su rifugiati, migranti e richiedenti asilo)
Sindacalisti dei settori agricolo, edile e manifatturiero
Immigrati di diverse nazionalità
Operatori dei centri di accoglienza per immigrati
Giovanna Altieri – IRES CGIL
Settore Minorile
Coop. Aquilone (Anna Maria De Celli)
UISP
Operatori dei carceri minorili
CPAM Caritas –(Gianni Fulvi)
Claudio Marta – Università di Napoli
ARCI Solidarietà del Lazio
Opera Nomadi
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