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Indice
Introduzione. Che cos’è una Gestalt?
Capitolo primo
Allegoria del demonico: Figure alate dell’arte greca arcaica (1881)
1. Cenni biografici: dalla guerra franco-prussiana alla
Genremalerei di Monaco (1870-1875)
2. L’archeologia classica tedesca del XIX secolo fra
normativismo e storicismo
2.1 Winckelmann: il problema della imitazione e l’essenza –
formale – dell’arte
2.2 Brunn: i dilemmi dell’archeologia classica come scienza
formale storica nell’età del materialismo scientifico
3. L’opera: Figure alate dell’arte greca arcaica (1881)
3.1 La dissertazione
3.2 Il contesto scientifico-archeologico
4. «Un’estetica è concepibile solo come esito conclusivo di una
storia dell’arte comparata»: genealogia dell’estetismo vitalistico
Capitolo secondo
Metonimia ctonia: la creazione del Niederdeutschtum
1. «Costruire il futuro»: filologia contro umanismo (1881-1885)
2. La fucina della «missione dell’arte»: passaggi dresdesi
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Apoteosi della germanicità
3. L’archetipo in forma di storia: fenomenologia del
Niederdeutschtum
3.1 Il volumetto
3.2 Il contesto storico-scientifico: la Völkerpsychologie
4. Alla ricerca di un compagno di viaggio (I): Paul de Lagarde
5. Alla ricerca di un compagno di viaggio (II): Friedrich
Nietzsche
Capitolo terzo
Rembrandt come educatore
1. Il tratto pittorico allo specchio della germanicità: Rembrandt
come archetipo della Volksthümlichkeit
1.1 F. Nietzsche: Schopenhauer come educatore
1.2 G.W.F. Hegel: Rembrandt come archetipo della sintesi
(liberatrice) dello spirito universale
1.3 J. Burckhardt: Rembrandt come archetipo della scissione moderna tra etica ed estetica
1.4 W. von Bode: Rembrandt come archetipo della (riscoperta) Volksthümlichkeit
2. Rembrandt come educatore
2.1 Arte tedesca
2.2 Scienza tedesca
2.3 Politica tedesca
2.4 Formazione tedesca
2.5 Umanità tedesca
3. Visione contro lettera? Il Rembrandt langbehniano allo specchio della cultura europea di fine Ottocento
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Capitolo quarto
Il «tedesco Rembrandt» Julius Langbehn
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1. Il caso Langbehn: Rembrandt fra Kultur e Zivilisation
1.1 La pamphlettistica: il classico in forma di storia
1.2 Le recensioni: individualismo e individualità
2. Quaranta Lieder: «Si vedono sbocciare i fiori»
3. Il tedesco Rembrandt Julius Langbehn: «io sono la tua verità…»
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Indice
Capitolo quinto
Il «tedesco Rembrandt» critico della cultura europeo (1900-1945)
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1. Il Rembrandt langbehniano nella cultura tedesca di fine secolo
2. L’ultimo «tedesco Rembrandt»: la «Charakterkunst» cattolica
3. Langbehn a Weimar e nel Terzo Reich: alla ricerca di una
«visione» tedesca
3.1 Benedikt Momme Nissen e la cura delle opere inedite
del «tedesco Rembrandt»
3.2 La ricezione nazional-conservatrice: il tramonto del
«filosofo con l’uovo»
3.3 La ricezione religiosa: la polemica evangelica e «Fra le
epoche»
3.4 La ricezione estetico-filosofica: Liselotte Voss
3.5 La ricezione psichiatrica: Hans Bürger-Prinz
3.6 La ricezione accademica: Vittorio Beonio-Brocchieri
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Bibliografia
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Indice dei nomi
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Introduzione
Che cos’è una figura (Gestalt)?
«Abramo, Abramo!»
Rispose: «Eccomi»
Genesi (22,1)
Lo studio di una vita è sempre problematica. L’analisi di un’opera
è una porta aperta sul mondo. Avvicinarsi alla Germania contemporanea fingendo di ignorare il nazismo, oppure facendone una
sorta di sempiterno ubi consistam delle battaglie ideologiche fra le
parti, è quantomeno discutibile. Lo è nella misura in cui l’ossessiva ricerca di fratture spazio-temporali determina una sorta di isolamento fenomenico, in cui il racconto di una vicenda storica finisce per decadere a evento fine a se stesso su cui si abbatte la scure
del giudice o dell’accusatore di turno. Chiedersi che cosa sia tedesco (Deutsch) significa affrontare direttamente tutti i fantasmi che
avviluppano ancora oggi la storia dell’Europa contemporanea.
Chiedersi che cosa significhi essere europei non può prescindere
da un confronto serrato con la cultura prodotta dalla storia delle
sue parti.
La storia culturale della Germania di fine Ottocento è un terreno
di studi così affascinante che un sapere enciclopedico non sarebbe
in grado di abbracciarne la vastità e la profondità intrinseche. Un
esempio, forse, servirà a introdurre il lettore in questo affascinante
viaggio:
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Apoteosi della germanicità
[…] Al di fuori dell’opera precorritrice di Kant (Critica della capacità di giudizio,
1790), Schelling (Intorno al rapporto delle arti figurative con la natura, 1807), Solger
(Erwin. Quattro conversazioni intorno al bello e all’arte, Berl. 1815) ed Hegel (Lezioni
di estetica, a cura di Hotho, 1835-1838, 3 voll.), quasi tutti i più rinomati pensatori tedeschi hanno tenuto lezioni cattedratiche di estetica oppure le hanno
abbozzate. Vedi Herbart (nella Filosofia pratica generale, Gottinga 1808;
Introduzione alla filosofia, quarta ed., Königsberg 1837), Schopenhauer (Il mondo
come volontà e come rappresentazione, libro 3, quinta ed., Lipsia 1879); Fries (Manuale
di Estetica, Heidelberg 1832), Krause (Compendio di estetica, a cura di Leutbecher,
Gottinga 1837), Schleiermacher (Lezioni di estetica, a cura di Lommatzsch,
Berlino 1842). Cenni appropriati, specialmente sulla comicità e sulla teoria dell’umorismo, sono presenti nella Scuola materna di estetica di Jean Paul (1804).
Rappresentazioni sistematiche di tutta l’estetica, a parte i datati manuali di
Bouterwek, Wendt, Weber, Thiersch e altri, sono state fornite dall’hegeliano
F.T. Vischer (Estetica, Reutlingen 1846-57, sezione 3; in corposi paragrafi e
geniali annotazioni) nel panteistico semi-hegeliano C.H. Weiße (Sistema di estetica, Lipsia 1830, 2 voll.; dello stesso a cura di R. Seydel, Lipsia 1872), M. Carrière
(Estetica, terza edizione, Lipsia 1885, 2 voll.) in senso teoretico, tutti e tre dal
punto di vista dell’estetica del contenuto; poi l’herbertiano R. Zimmermann
(Estetica generale come scienza della forma, Vienna 1865) e il non-herbartiano C.
Köstlin (Estetica, Tubinga 1863-69, e Intorno al concetto di bellezza, Tubinga 1878)
e K. Lemcke (Estetica popolare, quinta ed., Lipsia 1879) dal punto di vista dell’estetica formale. Una posizione intermedia è occupata da L’estetica su base realistica di J.H. von Kirchmann (Berlino 1868, 2 voll.), mentre Deutinger, nella sua
Dottrina dell’arte (quarta e quinta parte del suo Sistema di filosofia positiva,
Ratisbona 1845-1847), e Dursch, nella sua Estetica (Stoccarda 1840), hanno fornito una rappresentazione estetica su basi cristiane. Nella sua Estetica nella storia
e come sistema scientifico (Lipsia 1875), C. Hermann è tornato al punto di vista di
Baumgarten; Siebeck (L’essenza della visione estetica, Berlino 1875) ha cercato una
convergenza con l’estetica del contenuto dal punto di vista herbartiano, mentre
Vischer nella sua autocritica (Passi critici, quaderni 5 e 6, Stoccarda 1866) lo ha
fatto con l’estetica formale e Fechner, nel suo Contributo all’estetica sperimentale
(Lipsia 1871) e nella sua Scuola materna di estetica (Lipsia 1876, 2 voll.), si è addentrato sulla via sperimentale, ma J. Volkelt (Il concetto di simbolo nell’estetica contemporanea, Jena 1876) ha cercato nuovamente di concepire simbolicamente il bello
come successe a Solger. La prima storia completa dell’estetica l’ha scritta
Robert Zimmermann (Vienna 1858) dal punto di vista herbartiano, una “critica” l’ha mossa M. Schasler (Berlino 1872) da un punto di vista hegeliano; la sot-
Introduzione
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tile e geniale, ma ritenuta soggettiva Storia dell’estetica in Germania di H. Lotze
(Monaco 1868) si rifà a Weiße. Intorno alla Storia della teoria dell’arte nell’antichità
si è cimentato E. in un’opera eccellente (Berlino 1834-1837, 2 voll.). Contributi
alla storia dell’estetica sono presenti negli Studi di storia dell’estetica tedesca a partire da Kant di Neudecker (Würzburg 1878)1.
[…] Critica della ragion pratica di Kant; Dottrina dei costumi di Fichte e
Schleiermacher; Filosofia pratica di Herbart; Fondamenti di etica di Schopenhauer.
Confronta inoltre Chalybäus, Sistema di etica speculativa (Lipsia 1850, 2 voll.);
Hartenstein, Concetti fondamentali di scienze etiche (Lipsia 1844); I.H. Fichte,
Sistema di etica (Lipsia 1850, 2 voll.); Ziller, Etica filosofica generale (seconda edizione, Langensalza 1886); Steinthal, Etica generale (Berlino 1885); Rothe, Etica
teologica (2 edizione, Wittenberg 1867-71, 5 voll.); Dorner, Sistema di dottrina dei
costumi cristiana (Berlino 1885). Per la storia dell’etica confronta Stäudlin, Storia
della filosofia morale (Hannover 1823); Henning, Principi di etica nello sviluppo storico (Berlino 1824); Janet, Storia della filosofia morale e politica (Parigi 1858);
Strümpell, Storia della filosofia pratica dei greci (Lipsia 1861); Ziegler, Storia dell’etica (Bonn 1881, vol. 1); Gaß, Storia dell’etica cristiana (Berlino 1881); Jodl, Storia
dell’etica nella filosofia moderna (Stoccarda 1881, vol. 1)2.
Queste due bibliografie furono poste in calce alle voci Ästhetik
(Estetica) ed Ethik (Etica) della quarta edizione del Meyers
Konversationslexikon, il grande dizionario enciclopedico tedesco pubblicato tra il 1889 e il 1891. Si tratta di una serie di titoli che dimostrano, di primo acchito, la ricchezza del dibattito filosofico nella
Germania ottocentesca. Basti solo notare la grande differenza di
spazio che intercorre fra le due voci: la prima possiede di gran
lunga una bibliografia più esaustiva. Il che può dipendere dalla sensibilità dell’autore, da problemi redazionali, da contingenze varie
oppure dal fatto che l’estetica era una disciplina di gran lunga più
visibile (accademicamente o pubblicisticamente parlando) rispetto
all’etica. Questo perché l’etica era trattata come una disciplina filo1
2
Meyers Konversationslexikon, 1. Band, 4. Auflage, Leipzig und Wien, 1888, p. 966.
Ivi, 5. Band, p. 881.
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Apoteosi della germanicità
sofica sganciata dalla religione?
Andiamo ancora oltre, questa volta ripescando il lemma Dämonisch
(Demonico) dallo stesso dizionario:
Nell’uso linguistico moderno si chiama demonico ogni influsso spirituale che
affronta l’essere umano quale potenza inevitabile che gli è in tal modo fatale o
rischia di diventarlo. Quindi d. possono apparire anche i voleri del fato esteriore, nella misura in cui si manifesta un legame spirituale interiore, non meno
che l’influsso spirituale promanato dal semplice aspetto personale o dalle
manifestazioni della volontà di un essere umano, così come gli istinti, i desideri, le passioni del proprio cuore e spirito (demonia di uno sguardo, della passione, dello spirito, ecc.). Nell’arte la luce del demonico è stata utilizzata in
maniera efficace soprattutto nelle tragedie (“Riccardo III”, “Lady Mcbeth”)3.
Questo libro muove dall’esigenza di rinsaldare costruttivamente il
legame tra piano etico e piano estetico nella narrazione storica del
passato, tra visione e azione. La scelta del tema non è affatto casuale. La Germania di fine Ottocento fu un laboratorio chimico che
sperimentò tutte le possibili soluzioni organiche e inorganiche ai
dilemmi sollevati dalla modernità. Con modernità intendiamo riferirci a una particolare situazione di distacco, di scollamento tra il
passato e il presente, tra ciò che veicola la memoria e ciò che l’essere umano è in grado di fare per il proprio benessere futuro. Non
siamo molto distanti dalla semantica dei tempi storici dello storico
tedesco Reinhart Koselleck, che parla specificamente di
Erfahrungsraum e Erwartungshorizont (spazio d’esperienza e orizzonte
d’aspettativa) per maturare la crisi della coscienza storica in età contemporanea4. La nostra ricerca, però, non ha una specifica ambizione sistematica o sistemica, non è una storia concettuale o la storia
di un pensiero. È la storia di una serie di eventi, di incontri che si
Ivi, 4. Band, p. 444.
R. KOSELLECK, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, 1996. Su
questo tema si confronti il recente volume di G. MARRAMAO, La passione presente.
Breve lessico della modernità-mondo, Torino, 2008.
3
4
Introduzione
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sono consumati intorno a un’idea e un ideale, a un personaggio e
un attore storico, in contesti spesso diversi eppure limitrofi, accomunati da un medesimo anelito. È una storia sociale delle idee.
Una storia sociale delle idee parte da una Gestaltung per poi individuarsi nelle varie Gestalten che ha saputo assumere nel corso del suo
percorso storico. In tedesco, Gestaltung designa struttura, creazione,
organizzazione. Gestalt rimanda, invece, a una forma, a una figura,
a uno sguardo che raccoglie l’universo. Da uno scorrimento anche
sommario delle due bibliografie sopra riportate potremmo notare
non solo la differenza quantitativa (il lemma Ästhetik è di gran
lunga più complesso e articolato rispetto a quello Ethik), ma anche
la presenza di Immanuel Kant come terminem a quo. Nel primo caso,
infatti, partiamo dalla Critica della capacità di giudizio (1790) e terminiamo con la storia dell’estetica di Georg Neudecker. Nel secondo
caso, invece, esordiamo con la Critica della ragion pratica (1788) per
approdare alla storia di Friedrich Jodl, presidente del Monistenbund
(Unione dei monisti). Alla base di una storia sociale delle idee vi è
dunque un nodo etico-estetico irriducibile: ricostruire un immaginario singolare-collettivo che dia voce in capitolo all’aspirazione
totalizzante di ogni essere umano all’interno di una Gestaltung ben
precisa. Questo problema gnoseologico e semantico introduce una
visione della realtà organica: individuare un «demonico» (quale
condizione di possibilità di una Gestaltung) per dar voce alla Gestalt
di volta in volta modellata per comprenderlo al suo interno5.
Nel 1901 il sociologo tedesco Heinrich Pudor, noto soprattutto
quale padre dei Wandervogel (movimento giovanile tedesco) e del
5
Cfr. M. ASH, La psicologia della Gestalt nella cultura tedesca dal 1890 al 1967, edizione italiana a cura di C. Morabito e N. Dazzi, Milano, 2004; K. KOFFKA, Principi di
psicologia della forma, nuova ed. riveduta, Torino, 2006.
6
Cfr. T. ADAM, Heinrich Pudor. Lebenreformer, Antisemit und Verlegen, in M.
LEHMSTEDT und A. HERZOG (Hrsgb.), Das bewegte Buch. Buchwesen und soziale, nationale und kulturelle Bewegungen um 1900, Wiesbaden, 1999, pp. 183-196.
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Apoteosi della germanicità
cosiddetto «nudismo»6, pubblicò uno studio dal titolo Die neue
Erziehung. Essays über die Erziehung zur Kunst und zum Leben (La nuova
educazione. Saggi intorno all’educazione all’arte e alla vita).
Discutendo dell’educazione alla contemplazione artistica
(Kunstbetrachtung), Pudor osservava la vera e propria rivoluzione nell’ambito della storia dell’arte compiuta a fine Ottocento dall’opera
del critico Ivan Lermolieff (alias Giovanni Morelli): Die Werke italienischer Meister in den Galerien von München, Dresden und Berlin (Le opere
dei maestri italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino, 1880):
La novità introdotta da Morelli consisteva nell’aver rimarcato come per conoscere i monumenti artistici non dobbiamo far ricerca nelle biblioteche, ma piuttosto vedere [anschauen] direttamente le opere d’arte e che, per poterle comprendere, bisogna studiare soprattutto la dottrina delle forme [Formlehre] artistiche7.
Pudor ci dice una cosa molto importante: i monumenti vanno visti,
prima che capiti. Vanno visti, però, all’interno di una struttura ben
precisa. La teoria delle forme artistiche, da mero esercizio teorico
effettivo, si trasforma nella struttura necessaria all’interno della
quale ricostruire una figura artistica, uno sguardo capace di raccogliere l’universo.
Se la centralità accademica dell’arte è andata crescendo nel corso
degli ultimi decenni del XIX secolo, questo è largamente dipeso
dal fatto che l’estetica si è in qualche modo emancipata dalla parola scritta per farsi viva figura di riferimento. Non lo è stato per tutti
gli addetti ai lavori, beninteso, ma è in qualche modo inevitabile
che chiunque affronti quel periodo storico tenga conto della profonda rilevanza assunta dalla «visione» anche e soprattutto nell’evoluzione della realtà etico-politica. La «visione» è andata progressivamente spezzando il proprio legame con il tutto per farsi
7
H. PUDOR, Die neue Erziehung. Essays über die Erziehung zur Kunst und zum Leben,
Leipzig, 1902, p. 113.
Introduzione
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strumento di una tecnica e semantica del potere politico che ancora oggi – più che mai – dimostra l’abisso ormai esistente con il
mondo passato. Fra spazio d’attesa e orizzonte d’aspettativa non
vi è più alcuna differenza.
Chiediamoci a questo punto se la creazione di una Gestalt rappresenti un anelito trasversale nel mondo culturale e politico europeo
di fine Ottocento. Stiamo cercando di capire se una storia sociale
delle idee possa incardinarsi intorno alla costruzione di un archetipo di riferimento meta-temporale e temporale in pari misura,
cioè intorno a un modello di riferimento in forma di storia, storicizzato. Se questo è possibile, allora come possiamo dar vita a una
comparazione delle diverse Gestalten che non faccia perdere di
vista la peculiarità dei singoli progetti, ma che riesca in qualche
modo a tener conto dell’universale anelito umano verso un porto
sicuro d’approdo?
Nella raccolta di saggi letterari intitolata A lélek és a formák (L’anima
e le forme, 1910), il giovane impiegato ministeriale ungherese
György Lukács testimonia la crisi profonda che travaglia gli uomini di lettere e, più in generale, la propria epoca. L’opera verrà tradotta l’anno successivo in tedesco con il titolo Die Seele und die
Formen (Berlino, Fleischel). Discutendo della tragedia neoclassica di
Paul Ernst, Lukács faceva questa illuminante osservazione:
Il centro dell’opera di Paul Ernst è l’etica della poeticità, così come il centro
della produzione di Hebbel è la psicologia della poeticità. Poiché per entrambi la forma diventa fine dell’esistenza, imperativo categorico della grandezza e
dell’autoperfezione, l’uno viene ritenuto un freddo formalista e l’altro un
metafisico della patologia. Ma mentre il destino degli eroi di Hebbel è la lotta
tragica impotente di uomini veri per ridurre alla dimensione dell’uomo tutto
ciò che nella forma ha vita, ossia ciò che è più profondamente problematico –
i momenti supremi dell’esistenza empirica esperiti psicologicamente – Ernst
pone questo mondo chiuso, finito, superiore, come un ammonimento e un
richiamo, come luminoso punto di riferimento per il cammino degli uomini,
senza curarsi della sua realizzazione effettiva. La validità e la forza dell’etica
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Apoteosi della germanicità
sono indipendenti dal loro essere rispettate. Perciò soltanto la forma purificatasi sino all’eticità – senza per questo divenire cieca e povera – può dimenticare l’esistenza di ogni problematicità e bandirla per sempre dal suo regno8.
Forma purificatasi sino all’eticità: ecco una petizione di principio
degna del futuro grande intellettuale comunista. Lukács ci sta
dicendo che Ernst ha compiuto il salto nel regno delle forme, ha
dunque risolto il problema dell’esistenza purificando la forma da
ogni legame con la pratica: il sogno nascosto della ragion pura kantiana si è dunque realizzato.
Un secondo salto ci catapulta nel saggio Der Arbeiter. Herrschaft und
Gestalt (Il lavoratore. Dominio e forma, 1932) di Ernst Jünger.
Sono passati oltre vent’anni. Di mezzo c’è stata la Prima guerra
mondiale, la crisi politica, sociale ed economica dell’Europa imperiale e, in Germania, l’agonia della traballante repubblica nata a
Weimar, nella città dei due classici per eccellenza (Goethe e
Schiller). Un giovane e noto scrittore nazional-conservatore si
interroga non tanto sul significato del concetto di lavoratore, ma su
cosa «veda» il lavoratore stesso. La differenza è fondamentale:
In via transitoria, si considerino «forma», indipendentemente da quella gerarchia, le grandezze così come esse si offrono ad un occhio il quale intuisca con
uno sguardo che il mondo è riassunto da una formula più decisa di quanto non
sia la formula di causa ed effetto, senza tuttavia scorgere l’unità sotto il cui
segno questo compendio si delinea.
Nella forma è racchiuso il tutto, che comprende più che non la somma delle
proprie parti, ed era un obiettivo irraggiungibile per un’epoca atomizzante.
Questo è il segno del tempo che viene: in esso, noi vedremo, sentiremo e agiremo di nuovo sotto il dominio delle forme. Il livello qualitativo di un intelletto e il valore di un occhio sono decisi dal grado in cui ad essi si rende visibile
l’influenza delle forme. […]
Dal momento in cui si entra nelle forme e se ne ha esperienza, tutto diviene
G. LUKÁCS, Paul Ernst, in id., L’anima e le forme, traduzione e nota di S. Bologna,
con uno scritto di F. Fortini, Milano, 2002 , pp. 261-262.
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Introduzione
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forma. La forma non è quindi una nuova grandezza che dovrebbe essere scoperta in aggiunta a quelle già note, ma ad un nuovo colpo d’occhio il mondo
si manifesta come il teatro delle forme e delle loro reciproche relazioni9.
Pudor si chiedeva in che cosa consistesse la bellezza di un’opera
d’arte: chi e che cosa discrimina l’opera d’arte da vedere? In altre
parole, come fare in modo che non si perda l’«aura» di irripetibilità
nella relazione tra il soggetto guardante e l’oggetto guardato? È
ancora possibile parlare di Urteilskraft, di capacità di giudizio?
La caratteristica [Die Eigenart]. La caratteristica dell’artista, della scuola, del
panorama, del paese, dell’epoca e così via è il presupposto [Bedingung] dell’opera d’arte. Se impariamo a conoscere la caratteristica dell’artista, della scuola, del
paese eccetera, e se conosciamo quella del paese, della scuola e dell’artista, possiamo comprendere la caratteristica dell’opera d’arte.
La caratteristica è alla lunga ciò che costituisce l’anima dell’opera d’arte. “La
caratteristica che rispecchia il mondo è arte”, come dice l’autore di Rembrandt
come educatore. […]
Pudor sferrava un duro attacco allo storicismo estetico sostenendo
che non bastava trattare la storia dell’arte da un punto di vista evolutivo e/o – hegelianamente parlando – circolare (le triadi del dentro, fuori e dentro-fuori). Non bastava nemmeno trattarla da un
punto di vista culturale e relativizzante, come era stato fatto sino a
quel momento dai più insigni studiosi (il riferimento era la Cultura
del rinascimento di Jacob Burckhardt)10. Bisognava, piuttosto, prender
in considerazione anche il lato individuale, l’individualità dello studioso dell’arte coinvolto nella «visione». Il principio individualistico riusciva così a coniugarsi con quello etico, come insegnava sem9
E. JÜNGER, L’operaio. Dominio e forma, a cura di Q. Principe, Parma, 19952, pp.
31-32.
10
Cfr. V. REINHARDT, Jacob Burckhardt und die Erfindung der Reinaissance. Ein Mythos
und seine Geschichte, Bern, 2002.
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Apoteosi della germanicità
pre l’anonimo autore (Verfasser) del libro su Rembrandt: «L’onore
dell’artista consiste nel fatto di restare sempre fedele a se stesso».
La storia dell’arte diventava anzitutto una storia morale dell’arte11.
Se il contenuto dell’arte è il «Gefühl» (sentimento), l’arte non può
essere voluta di per se stessa. Pudor faceva riferimento alla piega
estetizzante di un certo decadentismo compiaciuto di sé, ma anche
al nudo e crudo naturalismo francese di Zola, che aveva in qualche
modo fatto scuola nella letteratura europea di fine Ottocento.
L’arte esisteva innanzitutto per gli esseri umani, non per i singoli
artisti. «L’artista non crea solo per creare, per rappresentare, ma per
vedere». Vedere che cosa? Creare che cosa? Ecco la risposta dell’autore:
Creare significa anzitutto vivere. Chi non crea, non conosce la vita. La creazione artistica consiste nel porre per così dire l’“idea” nello spazio e nel tempo,
in modo da poterla vedere veduta. La vista [Anschauen] è quindi il fine dell’opera d’arte. Per quali altri motivi dovrebbe vivere e splendere una Venere di Milo
nel corso dei secoli? Essa deve essere vista. E non solo da parte dell’artista, che
ha creato l’opera, ma anche da chiunque altro12.
L’arte è religione, il suo esercizio è un servizio divino13. Nella
Grecia antica arte, fede e idealismo erano un tutt’uno. «L’arte era la
fede e la fede era l’arte ed entrambi erano ideali». Pudor attaccava
il barocco e il rococò (Bernini in particolar modo) in quanto latori
di stili inorganici, contrapponendovi un’arte charaktervoll, morale.
Ogni arte genuina è volksthümlich, cioè nazional-popolare. Per preparare il terreno a quest’arte bisognava strappare l’arte dalle dita
Cfr. PUDOR, Die neue Erziehung,, cit., pp. 116-117.
Ivi, p. 124.
13
Il mito antico era, secondo Walter F. Otto, la «rivelazione dell’essere nella
forma». A questo riguardo si veda W.F. OTTO, Die Gestalt und das Sein. Gesammelte
Abhandlungen über der Mythos und seine Bedeutung für die Menschheit, Düsseldorf und
Köln, 1955, pp. 83 ss.
11
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Introduzione
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fredde e ossute della scienza; bisognava porre l’accento sul contenuto e sul sentimento. Ogni arte popolare doveva essere nazionalpopolare, cioè radicarsi in qualcosa di solido e di concreto14.
Struttura, figura, forma, arte, religione: questi cinque gradini ci
accompagnano nel percorso di una storia morale. Non siamo
molto lontani, in questo viatico, dall’affermazione fatta da Carlo
Ginzburg intorno ai pregi e ai difetti di un paradigma indiziario:
l’idea di totalità in ambito storiografico può reggere nella misura in
cui viene abbandonata la velleità di conoscere direttamente la connessione profonda che spiega fenomeni superficiali15. A fine
Ottocento prendeva il via l’esperimento psicanalitico, con i suoi
«giochi linguistici» (Witz e lapsus). Qualche anno prima, un filologo classico sassone poi dipartito dall’umano consesso razionale
pubblicava sequele di scritti aforistici formulando giudizi sull’uomo
e sulla società sulla base di sintomi, di indizi. Contemporaneamente, un anonimo archeologo classico, cresciuto nel solco del
Totalitätsideal (ideale totalizzante) romantico, trascorreva la stragrande maggioranza del suo tempo osservando edifici, abitazioni,
paesaggi, leggendo libri e quadri, scoprendo il «Charakter» nell’arte
omerica, poi nell’arte rembrandtiana, infine nell’arte cattolica. Era
alla ricerca di un quid capace di tenere insieme il tutto. Come scrisse in Der Geist des Ganzen (Lo spirito del tutto), Langbehn intendeva dimostrare l’esistenza di Omero (negata energicamente da molti
filologi) «sulla base della struttura interiore, rigorosa, compiuta,
artistica, per così dire misurata e calcolata, della sua opera»16.
Appare chiaro da questa affermazione perentoria di Langbehn che
l’obiettivo del nostro lavoro non è di tipo biografico. Non è nemCfr. PUDOR, Die neue Erziehung, cit., pp. 131 ss.
Cfr. C. GINZBURG, Radici di un paradigma indiziario, in id., Miti, spie, emblemi.
Morfologia e storia, Torino, 2003, p. 191.
16
Cfr. J. LANGBEHN, Lo spirito del tutto, a cura di B.M. Nissen, prefazione di G.
Manacorda, traduzione di M. Berti, Brescia, 1934, p. 209.
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Apoteosi della germanicità
meno critico-letterario, de-costruttivo, teso a sovrapporre testo e
contesto in un schellinghiano sopraggiungere dell’indifferenziato17.
Il piano etico e quello estetico, vita e opera, sono inseparabili. Gli
studiosi che si sono occupati di Langbehn nei decenni passati
hanno vanamente cercato di individuare un filo logico e coerente
nelle peregrinazioni di questo strano figuro, lasciandosi spesso
prendere da una eccessiva – e a nostro modo di vedere ingiustificata – vis polemica riferendosi al suo approdo volksthümlich. Alcuni
(Fritz Stern e George L. Mosse) lo hanno inserito tra i benemeriti
precursori del Terzo Reich, tra una sequela di personaggi oscuri,
secondari, afflitti da ressentiment, invidiosi, catatonici; degenerati, in
poche parole (Untermensch?)18. Non sono stati gli unici a de-umanizzare i cosiddetti nazisti in nuce semplicemente diagnosticandone
patologiche devianze. Abbiamo anche alcuni psichiatri tedeschi
degli anni Trenta (Hans Bürger-Prinz), che, compiendo un’operazione speculare agli ebrei émigrés negli Stati Uniti, lo hanno inserito
nella categoria degli irriducibili schizofrenici, degli individui sconfitti dalla vita, dei fanciulli adusi alla sublimazione artistica, che
Sigmund Freud definirebbe incapaci – da buoni membri del ceto
borghese – di sfuggire all’edipica castrazione del Dio-padre19.
Accanto alla strabordante – e non sempre critica – produzione
della storiografia ad hominem, che ha fatto professione di fede in
un umanesimo quantomeno sospetto, la letteratura langbehniana
ha seguito le alterne vicende delle differenti correnti etico-politiche di volta in volta intervenute nel dibattito sull’arte. Abbiamo
Cfr. B. BEHRENDT, Zwischen Paradox und Paralogismus. Weltanschauliche Grundzüge
einer Kulturkritik in den neunziger Jahren des 19. Jahrhunderts am Beispiel August Julius
Langbehn, Frankfurt am Main, 1984.
18
Cfr. F. STERN, The Politics of Cultural Despair. A Study in the Rise of the Germanic
Ideology, Berkeley, CA, 1961; G.L. MOSSE, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano,
1994.
19
H. BÜRGER-PRINZ und A.M. SEGELKE, Julius Langbehn, der Rembrandtdeutsche.
Eine pathopsychologische Studie, Leipzig, 1940.
17
Introduzione
| 21
un filone di studi interessato unicamente al volume su
Rembrandt in chiave propedeutica alla cosiddetta
Heimatkunstbewegung o al Kunsterziehungbewegung, cioè all’arte quale
catartica porta d’accesso al suolo materno o alla educazione creativa20. Abbiamo un filone folcloristico, interessato a riscoprire il
gusto dei sapori locali e popolari (pittorici e artistici, in special
modo)21. Abbiamo un filone di studi più marcatamente macropolitico, che, non sfuggendo del tutto all’aurea legge della casualità storica, dibatte intorno alla forza e alle forme assunte dalle
destre antisemite, imperialiste e pangermaniche nel lungo fin secolo tedesco22. Abbiamo un filone storico-artistico, di nuova germinazione, più interessato a comprendere le dimensioni della ricezione dell’opera di un autore (nel caso specifico, Rembrandt)23.
Accanto a novelle querelles tra antichi e moderni, vale a dire intorno alle dimensioni del classico greco e medievale nella creazione di
una mitologia germanica, va osservata la quasi totale assenza di un
dibattito serio sul cattolicesimo germanico. Molto è stato scritto e
detto intorno al carattere strumentale assunto dal cristianesimo in
Cfr. K. ROSSBACHER, Heimatkunstbewegung und Heimatroman. Zur einer
Literaturgeschichte der Jahrhundertwende, Stuttgart, 1975; P. JOERISSEN, Kunsterziehung
und Kunstwissenschaft im Wilhelmischen Deutschland, 1871-1918, Köln, 1979.
21
O. LAUFFER, Niederdeusche Landschaft und niederdeusches Volkstum, Hamburg, 1938.
22
G. ELEY, Wilhelminismus, Nationalismus, Faschismus. Zur historischen Kontinuität in
Deutschland, Münster, 1993.
23
J. STÜCKELBERGER, Rembrandt und die Moderne. Der Dialog mit Rembrandt in der
deutscher Kunst um 1900, München, 1996; A. CHALARD-FILLAUDEAU, Rembrandt,
l’artiste au fil des texts. Rembrandt dans la littérature et la philosophie européennes depuis
1669, Paris, 2004.
24
Il classico lavoro è quello di ARMIN MOHLER (ed. it. La rivoluzione conservatrice in
Germania 1918-1932. Una guida, Napoli, 1990), che cita Langbehn fra i precursori del nazismo. Più in generale si confronti H.-W. SCHÜTTE, Lagarde und Fichte. Die
verborgenen spekulativen Voraussetzungen des Christentumsverständnisses Paul de Lagardes,
Gütersloh, 1965; L PAUWELS, Armin Mohler und die konservative Revolution. Zum
Erscheinen der 3. Auflage von Armin Mohlers grundlegendem Werk “Die Konservative
20
22
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Apoteosi della germanicità
funzione di mitogema arianizzante e de-giudaizzante24. Pochi, a
nostra conoscenza, sono i contributi dedicati a un cattolicesimo
nietzschiano25.
I lavori recenti di storici tedeschi come Stefan Breuer hanno aperto nuovi spiragli di luce intorno alla varietà di paradigmi scientifici
elaborati dalle destre in epoca Guglielmina, fornendoci importanti,
preziose e nondimeno euristicamente poco utili casistiche della konservative Revolution (rivoluzione conservatrice)26. La tendenza a
sovrapporre uomo e (un) libro (Langbehn e Rembrandt come educatore), motivata in base a una pur comprensibile prudenza filologica,
ha tuttavia decurtato lo studio dell’uomo del corno archeologico
precedente (la tesi di dottorato sulle figure alate nell’arte greca) e di
quello cattolico successivo (la raccolta aforistica del «tedesco
Rembrandt» e il postumo Spirito del tutto). Langbehn e Nietzsche si
incontrarono personalmente solo nel 1889, quando il filologo classico si trovava ricoverato nella clinica psichiatrica jenense. È forse
possibile parlare di una sorta di passaggio di consegna tra i due
uomini? Se la risposta può essere positiva, come spiegare gli sforzi
operati dal discepolo di Langbehn, il monaco benedettino Momme
Nissen, durante gli anni Venti (esattamente dopo il 1925, anno di
morte del vescovo Wilhelm von Keppler, strenuo avversario del
modernismo cattolico), per recuperare integralmente la figura
(Gestalt) del suo maestro attraverso la pubblicazione di un lavoro
Revolution in Deutschland 1918 – 1932” mit besonderen Hinweisen auf vergleichbare
Erscheinungen in den Niederlanden und Belgien, Hamburg, 1989.
25
Si prenda come esempio il seppur datato lavoro di G. KÖHLER, Nietzsche und
Katholizismus, Fulda, 1938.
26
S. BREUER, Anatomie der konservativen Revolution, Darmstadt, 1993; id.,
Grundpositionen der deutschen Rechten, 1871-1945, Tübingen, 1999; id., Ordnungen der
Ungleichheit. Die deutsche Rechte im Widerstreit ihrer Ideen 1871-1945, Darmstadt,
2001.
Introduzione
| 23
biografico e del suo opus cattolico? Come spiegare la veemente reazione mondo evangelico tedesco riflessa in una serie di studi biografici dedicati al tedesco-Rembrandt? Che ne è della comprensione mostrata dalla rivista «Zwischen den Zeiten», vicina alla teologia
della «Parola di Dio»? Che cosa vi è di eretico nel ravvisare il carattere decisamente iper-moderno di un cristianesimo ctonio?27
Abbiamo deciso di intitolare il libro Apoteosi della germanicità, per
sottolineare come l’epopea langbehniana testimoni il momento culminante di un processo storico e culturale tedesco. Il sottotitolo
indica il carattere (e provenienza) europeo – e non unicamente
tedesco – delle vicende personali e intellettuali di questo critico
della cultura. Da una parte abbiamo voluto rimarcare la «continuità» discontinua che connota la vita e l’opera di Langbehn.
Dall’altra, abbiamo segnalato il carattere più propriamente occidentale delle sue inquietudini, dei suoi viaggi e delle sue risposte esistenziali28. Le fonti utilizzate sono per lo più scritti editi, articoli di
giornali e di rivista, con un ampio ricorso alle pubblicazioni secondarie di carattere storiografico, letterario, antropologico, sociologico e filosofico. Non è stato possibile lavorare sui materiali d’archivio, se non marginalmente. Le carte di Langbehn depositate
all’Università Carl von Ossietzsky di Amburgo sono frammentarie,
illeggibili e pressoché inutilizzabili. Le altre corrispondenze reperite in altri fondi archivistici qua e là per la Germania ci testimoniano unicamente l’esistenza di rapporti con uomini del mondo culturale e politico tedesco, peraltro già segnalati da Momme Nissen
nella sua biografia del 1927. Un unico grande rammarico che ci
Vedi il capitolo quinto.
L’Europa come spazio culturale e politico autonomo va considerata a partire
da quelle che sono le due grandi radici filosofico-religiose: il monoteismo ebraico e il pensiero greco. Su questo tema non ci viene in mente nessun altro volume eccetto quello di L. STRAUSS, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico
dell’Occidente, introduzione di R. Esposito, Torino, 1998.
27
28
24
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Apoteosi della germanicità
resta è quello di non essere riusciti a lavorare adeguatamente sul
materiale iconografico, seguendo gli spunti di Giovanni Morelli e
inseguendo i riferimenti langbehniani alle opere di Rembrandt presenti nel libro del 1890 e altrove.
Il primo capitolo è dedicato al lavoro dottorale sulle figure alate
(Flügelgestalten) nell’arte greca arcaica. Abbiamo deciso di fornire un
breve quadro biografico del giovane Langbehn, per poi sospingerci sulla Gestaltung dell’archeologia classica ottocentesca (nel caso
specifico, Heinrich Brunn, il maestro winckelmanniano del nostro
personaggio). Dopo un’analisi dell’opera dottorale, abbiamo cercato di misurare le argomentazioni di Langbehn attraverso un confronto con altre pubblicazioni dell’epoca (il dizionario enciclopedico di mitologia greco-romana curato da Roscher). Ci siamo infine
sospinti sull’ottava tesi avanzata dal candidato durante la difesa
della sua dissertazione: che un’estetica sia concepibile solo come
risultato finale di una storia dell’arte comparata.
Il secondo capitolo è dedicato all’accantonamento della carriera universitaria e alla formazione della bassa-germanicità (Niederdeutschtum).
Siamo partiti dal fitto scambio epistolare (l’unico, a dire il vero, utilizzabile) con il docente ginnasiale Johannes Muhl per mettere in evidenzia la netta contrapposizione tra filologia (parola) e umanesimo
insorta in Langbehn dopo la fine della sua breve carriera universitaria. Abbiamo poi esaminato le sue peregrinazioni in lungo e in largo
per la Germania che lo avrebbero condotto alla redazione di un lavoro preparatorio al libro su Rembrandt: Niederdetuschtum, un contributo di psicologia dei popoli. Dopo un’adeguata contestualizzazione di
questo scritto, abbiamo ricostruito i rapporti intrattenuti con Paul de
Lagarde e Friedrich Nietzsche. Che cosa avvicinò l’archeologo di
Hadersleben all’orientalista autore dei Deutschen Schriften (Scritti tedeschi, 1878) e al filologo sassone distruttori degli idoli a colpi di martello? Che cosa li rendeva diversi l’uno dall’altro?
Il terzo capitolo è dedicato al libro su Rembrandt. Abbiamo inqua-
Introduzione
| 25
drato brevemente il problema del tratto pittorico allo specchio della
nazional-popolarità tedesca di fine Ottocento, cioè della validità
dell’arte per una cultura viva e popolare. Dopo una breve digressione sullo scritto nietzschiano Schopenhauer als Erzieher (Schopenhauer
come educatore, 1874), abbiamo ricostruito una sorta di genealogia della Gestalt rembrandtiana nel mondo europeo e tedesco di fine
Ottocento. Dalla Farbenlehre (Dottrina dei colori, 1810) di Goethe
siamo approdati sulle lezioni di estetica hegeliane, giungendo poi a
un saggio di Jacob Burckhardt su Rembrandt e agli studi di
Wilhelm von Bode, futuro direttore dei musei berlinesi. Abbiamo
poi inseguito Langbehn nei meandri del suo opus magnus dedicato a
Rembrandt (ventiquattresima edizione). Siamo infine approdati sul
grande dilemma tra visione e parola che attanaglia non solo questo
libro, ma anche il rapporto tra etica ed estetica novecentesco.
Il quarto capitolo è dedicato alla prima ricezione del libro su
Rembrandt. Siamo partiti dal dilemma langbehniano (e tipicamente europeo) tra cultura e civilizzazione (spirito e materia, anima e
corpo, eccetera), con l’obiettivo di analizzare la penetrazione del
suo estetismo vitalistico nel mondo tedesco di fine Ottocento.
Abbiamo privilegiato la pamphlettistica e le recensioni apparsi su
giornali e riviste, proprio per carpire la profondità e la capillarità
della diagnostica langbehniana. Abbiamo poi scorso la raccolta di
Quaranta Lieder edita nel 1891 e subito ritirata dal commercio a
seguito dell’accusa di contenuto «unsittlich» di alcuni. Siamo infine
approdati sulla raccolta aforistica che crea il mito del «tedesco
Rembrandt» (Rembrandtdeutsche), ponendo in un certo senso fine
all’esperienza direttamente rembrandtiana di Langbehn.
Il quinto e ultimo capitolo inizia dalla conversione di Langbehn al
cattolicesimo. Siamo partiti dal percorso convulso e tutt’altro che
lineare seguito da Rembrandt come educatore, che, ormai sganciatosi
dall’autore, ha attraversato una poliedrica ricezione nella Germania
di fine Ottocento e inizio Novecento. Siamo poi approdati sulle
26
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Apoteosi della germanicità
vicende personali del tedesco-Rembrandt, inseguendo le tappe del
suo avvicinamento alla Santa Madre Romana Chiesa. Abbiamo
constatato il profondo dialogo intessuto con il vescovo württemberghese Wilhelm von Keppler. Ci siamo soffermati sugli ultimi
scritti editi da Langbehn (in collaborazione con Momme Nissen).
Abbiamo infine dedicato un paragrafo alla ricezione dell’opera e
della vita del nostro (della sua figura, tanto per intenderci), nella
Germania weimariana e nazista.
La lista delle persone da ringraziare è lunga. Ringrazio l’editore leccese Icaro, nelle persone di Francesco Fiorentino e Valentina
Sansò. Ringrazio i docenti della Scuola Superiore di Studi Storici
dell’Università di San Marino, dove ho discusso la tesi di dottorato
da cui ho tratto questa pubblicazione. Ringrazio il personale della
medesima Scuola e delle biblioteche sanmarinesi. Ringrazio tutti i
personali delle biblioteche e degli archivi italiani e tedeschi per la
gentilezza e la disponibilità dimostrata durante la raccolta del materiale. Ringrazio tutti gli amici e colleghi che mi hanno fornito consigli scientifici e strategici (Valentina e Furio, in particolare).
Ringrazio mia moglie per la sua abnegazione. La mia speranza è
che questo libro aiuti la comprensione di un pezzo di passato che
per molti non è ancora passato.
| 27
Capitolo primo
Allegoria del demonico:
Figure alate dell’arte greca arcaica (1881)
Solo il corpo appartiene alle forze
che intessono l’oscuro destino;
libera invece da ogni violenza del tempo,
la forma, divina fra i divini,
la compagna dei giochi dei beati,
si libra in alti, nei campi della luce.
Se volete sospingervi in alto sulle sue ali,
gettate via le ansie terrene,
rifugiatevi nel regno dell’ideale,
lontano da una vita angusta e oscura!
F. Schiller, L’ideale e la vita (1795)
La civiltà consiste veramente nell’inserire
con devozione, con spirito ordinatore, e,
vorrei dire, con intento propiziatore,
i mostri della notte nel culto degli dèi.
T. Mann, Doctor Faustus (1947)
1. Cenni biografici: dalla guerra franco-prussiana alla
Genremalerei di Monaco (1870-1875)
La parabola esistenziale di August Julius Langbehn, figura marginale del mondo culturale tedesco di fine Ottocento (esempio paradigmatico di come un’opera sopravviva meglio e più a lungo del proprio autore), può essere considerata esemplificativa di un’intera
generazione che visse di prima persona i travagli, gli entusiasmi e –
soprattutto – le delusioni derivanti dall’unificazione di stampo piccolo-tedesca inferta da Bismarck alla Germania ottocentesca.
Questo capitolo ruoterà intorno al lavoro dottorale di Langbehn
cercandolo di contestualizzare all’interno della coeva
Altertumswissenschaft (scienza dell’antichità) e inseguendolo all’inter-
28
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Apoteosi della germanicità
no del progetto palingenetico meta-moderno perseguito dall’autore, che definiamo come ricerca di una Gestaltung tedesca1.
Forniremo soltanto alcune essenziali informazioni biografiche,
perché abbiamo privilegiato un’opera di ricostruzione e di decostruzione della figura dell’autore, che collochi il personaggio nel
lungo Ottocento tedesco; perché – nei limiti del possibile – intendiamo sfuggire all’agiografico ritratto del suo discepolo Benedikt
Momme Nissen o al ritratto psico-patologico fornito da Hans
Bürger-Prinz, che, in assenza pressoché totale di fonti archivistiche,
restano le uniche testimonianze in grado di restituirci organicamente il percorso esistenziale di Langbehn2.
Il padre di Julius, Johann Jakob, era vice-rettore del ginnasio di
Hadersleben, cittadina dello Schleswig settentrionale all’epoca – e
dopo la Prima guerra mondiale – in territorio danese.
Profondamente imbevuto di studi classici e cultore della Bildung
umanistica di marca humboldtiana3, Johann Jakob fu costretto dalle
autorità danesi a lasciare il proprio incarico d’insegnamento nel
1850 per ragioni politiche (l’utilizzo della lingua danese durante le
lezioni scolastiche era divenuta obbligatoria)4. La madre, invece,
Si confronti l’introduzione.
Cfr. BEHRENDT, Zwischen Paradox und Paralogismus, cit., pp. 3-5.
3
Il concetto di Bildung è difficilmente traducibile in italiano con una sola espressione. La radice deriva dal verbo bilden, che significa illustrare, rappresentare e
formare. Bildung significa contemporaneamente educazione, istruzione e formazione dell’essere umano; è un processo, oltre che un dato acquisito: è cultura
viva. Wilhelm von Humboldt (1767-1835), fondatore dell’università di Berlino,
la definì «uno sprone affinché tutte le forze dell’essere umano germoglino sull’appropriazione del mondo e conducano a una individualità e personalità autodeterminata». Cfr. P. GIACOMONI, Formazione e trasformazione. Forza e Bildung in
Wilhelm von Humboldt e la sua epoca, Milano, 1988; M. GENNARI, Storia della Bildung.
Formazione dell’uomo e storia della cultura in Germania e nella Mitteleuropea, Brescia,
1995.
4
Cfr. L.D. STEEFEL, The Schleswig-Holstein Question, Cambridge, MA, 1932, pp. 48 ss.
1
2
Capitolo primo
| 29
proveniva da una genia di pastori protestanti che risaliva al XVI
secolo5. La famiglia si trasferì a Kiel nel 1851, dove Johann Jakob
iniziò a dare lezioni private. Julius trascorse un’infanzia e un’adolescenza all’insegna delle ristrettezze economiche e dei lutti (la morte
del padre nel 1864), che, tuttavia, non gli impedirono di acquisire
autonomamente una profonda cultura classica tedesca6.
Nel 1869 Langbehn terminò il ginnasio e si iscrisse all’università di
Kiel, dove studiò filologia, scienze artistiche, scienze naturali e
matematica. Profondamente sensibile al richiamo nazionalistico
tipico di un giovane figlio di una comunità di frontiera, egli divenne membro della Burschenschaft (confraternita studentesca) Teutonia,
fondata nel 1817 durante la festa del castello di Wartburg7.
Nell’estate 1870, sulla scorta della propaganda del suo professore,
il chimico Justus von Liebig, il giovane Julius si arruolò volontario
con altri suoi compagni nelle truppe prussiane impegnate nella
guerra contro la Francia di Napoleone III. Come Friedrich
Nietzsche8, egli fu testimone partecipe ed entusiasta dell’unificazione tedesca9.
L’esistenza di Langbehn subì una seconda seria svolta nel 1873,
quando decise di lasciare Kiel per trasferirsi nel Sud cattolico, a
Monaco di Baviera. L’Atene tedesca, retta all’epoca dall’eccentrica
Per un quadro d’insieme delle Burschenschaften di Kiel si veda M. DOEBERL et al.
(Hrsgb.), Das akademische Deutschland, II. Band, Berlin, 1930, p. 889. Alcuni accenni alla confraternita langbehniana sono presenti nel Lascito del tedesco Rembrandt
Julius Langbehn, Cartone 1, fascicolo 1 (Ostelli della gioventù).
6
Cfr. B.M. NISSEN, Der Rembrandtdeutsche Julius Langbehn, 21-27. Tausend,
Durchgesehene Aufgabe, mit einem Nachwort von P. W. von Keppler, Freiburg
im Breisgau, 1927, pp. 20 ss.
7
Sul valore e la rilevanza simbolica della festa di Wartburg si veda G.L. MOSSE,
La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania,
1815-1933, Bologna, 1975, passim.
8
Cfr. D. LOSURDO, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino, 2002, pp. 5 ss.
9
Cfr. B.M. NISSEN, Der Rembrandtdeutsche, cit., pp. 22-24.
5
30
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Apoteosi della germanicità
figura di Ludovico II, re esteta decadente e wagneriano, rappresentava un lungo di richiamo privilegiato per uomini di lettere e artisti
divenuti paladini di un idealismo tardo-romantico che ambiva a fornire una versione del classicismo di Weimar «sia pur epigonale, ma
rinnovato o almeno aggiornato»10. Il giovane Julius, decisamente
restio a concludere la propria educazione estetica (a Kiel aveva
rifiutato il posto di assistente in un laboratorio chimico di Liebig),
fu assunto da una ditta tedesca come guida turistica, precettore e
segretario nell’Italia settentrionale (Verona e Venezia, in particolare, dove giunse – pare – attraversando a piedi le Alpi!). Le lettere
all’amico Johannes Muhl, suo conterraneo conosciuto sul fronte
francese (si tratta delle uniche testimonianze scritte conservate
nella loro totalità e unitarietà), descrivono con tono entusiastico le
bellezze artistiche architettoniche e naturali della città lagunare,
nonché l’assoluta bellezza della Basilica di San Marco («un oggetto
senza sfondo», per riprendere un’espressione di Nietzsche)11. Il
viaggio italiano, piuttosto aduso nel percorso educativo tedesco (si
pensi alla fuga di Goethe e alla Senhsucht romantica), si concluse nel
1875, dopo un breve soggiorno storico-artistico a Firenze12.
Langbehn rientrò a Monaco per riprendere nel semestre estivo gli
studi universitari interrotti a Kiel. Per i primi due anni seguì i corsi
di scienze naturali, all’epoca tenuti da personalità del calibro di
Moritz Wagner13; ma decise tuttavia di specializzarsi e di addottorarsi in scienze dell’antichità, nella fattispecie in archeologia, cattedra ricoperta allora da Heinrich Brunn. Durante il periodo studentesco, che si protrasse sino al 1880, il giovane di Hadersleben, come
Cfr. L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca, vol. III, t. 1: Dal Biedermeier al fine
secolo (1820-1890), Torino, 1971, § 176-177.
11
Cfr. B.M. NISSEN, Der Rembrandtdeutsche, cit., p. 28.
12
Cfr. Lascito del tedesco Rembrandt Julius Langbehn, Cartone 2, fascicolo 1 (Lettere a
Muhl).
13
Sulla figura di Moritz Wagner e sulla Völkerpsychologie rimandiamo al capitolo
secondo.
10
Capitolo primo
| 31
gli era accaduto in precedenza, visse di lavoretti saltuari e del sostegno di conoscenti e amici. Un evento apparentemente secondario,
ma tuttavia centrale nell’esistenza di Langbehn, accadde poco
prima della partenza per il viaggio italiano: la decisione di abbandonare la chiesa evangelica territoriale14.
La sua cerchia più intima comprendeva correligionari della
Germania settentrionale, uomini di lettere, intellettuali, compagni
di studi (Charles Waldstein, Wilhelm Schmidt e Robert Vischer,
figlio di Friedrich Theodor) e, soprattutto, artisti. Wilhelm Leibl,
Karl Haider e Hans Thoma, rinomati pittori di genere di fine secolo, oggidì caduti nel dimenticatoio, furono per un certo periodo in
stretti legami con lo studente originario di Hadersleben, confezionandone persino alcuni ritratti (Il filosofo con l’uovo di Thoma, su cui
ci soffermeremo in seguito). La frequentazione assidua del mondo
artistico e bohèmien monacense è senza dubbio una spia indiziaria
e l’esito di una particolare visione del mondo in corso di sedimentazione, refrattaria alla realtà filistea borghese della nuova Baviera
prussianizzante. Avanguardia o classicità? Romanticismo o modernismo? In una parola, quale ruolo avrebbe dovuto rivestire l’educazione artistica nel travagliato passaggio epocale marcato dall’unificazione tedesca bismarckiana? Questo era l’interrogativo che angustiava lo studente in archeologia15.
Waldstein descrive il giovane Langbehn in questi termini:
Assolutamente verace, contrario a ogni compromesso, egli si spingeva fino
all’estremo in base ai suoi principî. Quanto questo, a sua insaputa, gli fosse
instillato da tendenze soggettive o da pregiudizi, è un altro problema. Egli non
Cfr. J. LANGBEHN, Erklärung (München, 24 Mai 1875), in Lascito del tedesco
Rembrandt Julius Langbehn, Cartone 1.
15
Cfr. G. STEWART, Das klassische Schwabing. München als Zentrum der intellektuellen
Zeit- und Gesellschaftskritik an der Wende des 19. zum 20. Jahrhundert, München, 1973,
pp. 158 ss.
14
32
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Apoteosi della germanicità
era in grado di piegarsi e adattarsi, poteva avere da ridire con gli uomini o sul
destino, ma non poteva accettarlo dagli avversari. Questa fu la grande onestà
della sua vita. Fu uno dei pochi che osarono vivere i propri pensieri e convinzioni non solo a parole. Si appassionò di ogni problema esistenziale, anche il
più piccolo: provava tutto ciò che pensava e offrì una contraddizione così
diretta coi principi [filosofici] di uno Spinoza16.
Nel novembre 1876 Langbehn pubblicò sulla «Süddeutsche Presse»
(Stampa sud-tedesca), edita a Monaco, un articolo dedicato alla
locale «Deutsche Ausstellung» (la mostra tedesca chiamata
Dachauerinnen), dove venne premiata l’opera pittorica di Leibl. Il
Kunstfreund (appassionato d’arte, si noti l’uso affatto casuale dell’anonimato) descrisse accuratamente il formato della medaglia
offerta in premio dalla locale Accademia, che, durante una serata in
suo onore organizzata dalla comunità intellettuale del Nord, il vincitore aveva distrutto su sprone dell’amico. Tale medaglia era
descritta come il simbolo del malessere dell’arte tedesca contemporanea. Le due figure principali, che rappresentavano l’arte e i
mestieri, erano state riprodotte in modo triviale e artificioso
(Unnatur). Assenza di idee e di senso plastico, manierismo esasperato e cattivo gusto, in una parola – perdita completa di un canone.
Questo era il risultato della nuova arte tedesca prussianizzante:
L’esempio non è affatto insignificante, anzi è molto indicativo. Tale medaglia
così stravagante non deve destare maggiore meraviglia di quanto non succeda
alle “opere dei nostri padri” decantate a sufficienza in occasione dell’ultima
mostra e di quanto non presentino i magnifici maestri nei prodotti del
Rinascimento italiano.
[…] Speriamo che l’esposizione meccanica e artistica della medaglia non sia da
considerare un simbolo delle attuali condizioni artistiche monacensi. All’arte
tedesca non serve affatto tale vacuità e assenza di forma esteriore17.
Cit. B.M. NISSEN, Der Rembrandtdeutsche, cit., p. 35.
Die Münchener Preismedaille, von einem Kunstfreund, in «Süddeutsche Presse»,
München, 267, Samstag den 18. November 1876, p. 3.
16
17
Capitolo primo
| 33
La critica di Langbehn alla Cliquenwirtschaft dell’Accademia monacense, oltre a ripercuotersi sull’attività artistica di Leibl (pochi anni
dopo avrebbe abbandonato la pittura di genere)18, convogliava e
sintetizzava l’ostilità piuttosto marcata che serpeggiava in alcuni
circoli artistici tedeschi verso l’impressionismo francese e, più in
generale, il modernismo estetico19. Un cronista dell’epoca parlò,
non a torto, di «Triebkraft der Sehnsucht nach einer frei aus dem Boden der
eigenen Zeit gewachsenen Kunst», vale a dire di impulso nostalgico verso
un’arte libera cresciuta nel solco del proprio tempo. Uomini diversissimi come Böcklin, Feuerbach, Schwind e Thoma ridestarono
con la loro ardente e prolifica attività artistica «la vecchia nostalgia
tedesca di una serena interiorità, di favole e di sogni». Per questa
sequela di maestri della Genremalerei (pittura di genere) intenti a
ridefinire artisticamente l’archetipo della «germanicità», novità
significava rivolgere le proprie energie al proprio tempo. Essere
tedeschi significava nient’altro che essere conformi al paese, alla
terra su cui si era cresciuti20.
Il legame tra Genremalerei e critica al modernismo fuoriesce decisamente dall’ambito meramente artistico, estetico, per spingerci direttamente sul problema politico e identitario di una rielaborazione
archetipica dell’immagine di senso di fronte alla modernità sociopolitica. Come avremo modo di osservare in seguito, questa corrente artistica è la spia indiziaria della crisi della mimesis (il canone
dell’imitazione del classico). Per fare un esempio, un tedesco di fine
Ottocento non vede nella famiglia contadina rappresentata da
Thoma il significato allegorico che un fiammingo vedeva in un quaCfr. B. RÖHRL, Wilhelm Leibl. Leben und Werk, Hildesheim, Zürich und New
York, 1996, pp. 157 ss.
19
Cfr. P. PARET, German Encounters with Modernism, Cambridge, MA, 2001.
20
Cit. P.H. HEIN, Die Brücke ins Geisterreich. Künstlerische Avantgarde zwischen
Kulturkritik und Faschismus, Reinbek bei Hamburg, 1992, p. 39.
18
34
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Apoteosi della germanicità
dro di Pieter de Hooch o di Jan Vermeer, perché l’idillio del
Stillleben (natura morte) era pura forma, un «pittogramma puro», un
simbolo immediato e motivato, immobile, che non celava alcunché
dietro di sé21. L’operazione di recupero nostalgico di un passato
irrimediabilmente perduto, rielaborabile unicamente – e artificiosamente – attraverso una tipizzazione del mondo contadino, era ben
lungi dall’inserirsi nel solco mimetico della pittura fiamminga del
XVII secolo. A essere rappresentata, infatti, non era la realtà effettiva (Wirklichkeit), ma un’idea trasfigurata della realtà stessa
(Realität):
Nelle rappresentazioni olandesi [del XVII secolo] si legge il riconoscimento
del mondo e delle sue realtà, dietro le scene di genere del secolo scorso [il
XIX] non si cela alcuna affermazione genuina della realtà, ma la sua negazione. I quadri di genere di tardo Ottocento rappresentano soprattutto contenuto idealistico attraverso un linguaggio formale naturalistico. Questa contraddizione tra principî spirituali e mezzi artistici dovette ripercuotersi in una perdita
qualitativa. Perché il naturalismo idealistico è […] una contraddizione in termini
ed […] è proprio il paradigma del kitsch. Di contro, le scene di genere olandesi sono un’espressione omogenea di principî realistici, che poteva spingere l’illusionismo naturalistico sino ai confini più estremi e restava intatta davanti al
pericolo di scivolare nella trivialità22.
Nel 1883 Langbehn avrebbe dichiarato di considerare l’archeologia
semplicemente un Fachstudium, uno studio specialistico che, tra
quelli presenti nell’università monacense, meglio si addiceva alle
sue inclinazioni spirituali23. Quali fossero le sue reali intenzioni, le
sue aspirazioni missionarie e palingenetiche, fu subito chiaro nella
tesi di dottorato in archeologia greca discussa alcuni anni prima.
Cercheremo di dimostrare come la scelta del tema, il metodo, le
Cfr. J. DERRIDA, La verità in pittura, Roma, 1981.
Cfr. U. IMMEL, Die deutsche Genremalerei im neunzehnten Jahrhundert, Heidelberg,
Un. Diss, 1967, pp. 323-324.
23
Cfr. B.M. NISSEN, Der Rembrandtdeutsche, cit., p. 43.
21
22
Capitolo primo
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conclusioni, in una parola, la medesima archeo-logia di ascendenza
winckelmanniana nell’età del materialismo scientifico, lascino trapelare – quand’anche in forma metonimica – la profonda sintonia
di Langbehn con il tardo romanticismo in forma positivistica.
Possiamo anche scorgere una serie di assonanze con l’épistème
dell’Altertumswissenschaft: quello che, in senso lato, può essere definito il «paradigma ario» di biologizzazione dell’Origine (o della
Natura). Procederemo a inquadrare l’archeologia classica tedesca
nella seconda metà del secolo XIX attraverso la figura di Heinrich
Brunn e il travagliato passaggio dell’archeologia winckelmanniana
da scienza della forma (Form) a scienza della forma visiva (Gestalt);
analizzeremo la struttura e la simbologia della tesi di dottorato inserendola nel dibattito archeologico contemporaneo. Avanzeremo,
infine, alcune ipotesi di lettura capaci di rispondere alla quaestio di
fondo di questo capitolo e dell’intero lavoro: la ricerca di un archetipo visivo, oltre a marcare lo scarto con le fonti scritte, può essere
considerata una spia indiziaria dell’avvento della modernità biopolitica?24
2. L’archeologia classica tedesca del XIX secolo fra
normativismo e storicismo
Chiediamoci innanzitutto che cosa fosse diventata la scienza dell’antichità nel corso del XIX secolo. Nel 1867 Adolf Michaelis,
docente all’Università di Gottinga, sintetizzò in questi termini gli
esiti dell’archeologia classica tedesca post-romantica:
Naturalmente, il significativo entusiasmo della ricerca storica e filologica classica
negli ultimi decenni è tornato utile a tutti i rami della scienza dell’antichità, certa24
Cfr. R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, 2004.
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Apoteosi della germanicità
mente non a tutti nella stessa misura. Tra le discipline che hanno usufruito di questo nuovo sviluppo vi è la cosiddetta archeologia, la scienza dell’arte antica; sì, essa
ha acquisito solo recentemente il proprio meritato riconoscimento tra le discipline
sorelle. Perché finché la ricerca antica si limitò quasi esclusivamente al trattamento
puramente filologico delle opere scritte antiche, finché anche la ricerca storica riconobbe come pure e principali fonti quelle scritte, le opere d’arte antiche non poterono destare alcuna particolare attenzione in questo ambito, la cui considerazione
fu affidata preferibilmente agli artisti o ai mecenati, a prescindere dal fatto se l’arte
avesse occupato un posto così importante nella vita degli antichi greci e romani. Nel
frattempo, Winckelmann e i suoi diretti successori, Heyne, Visconti, Zoega, avevano intrapreso un trattamento più profondo e accurato dell’arte antica e delle sue
opere, ma solo il nostro secolo, che ha insistito nel considerare anche l’antichità classica un insieme vitale nella totalità di tutte le sue espressioni artistiche, è riuscito a
porre gli studi archeologici in un salutare interstizio degli studi filologici e storici,
facendone una parte così integrante della ricerca antica25.
L’archeologia ottocentesca non contribuì soltanto alla de-costruzione dell’immagine dell’Ellade idealizzata dai romantici e dell’elitario
Bildungsideal degli umanisti humboldtiani, ma lanciò – osserva
Suzanne Marchand – «una sfida metodologica all’egemonia della
filologia; dato che sviluppò mezzi di “lettura” degli oggetti piuttosto che dei testi, essa minacciò il monopolio filologico dell’interpretazione e perfino la definizione di cultura, in precedenza un attributo posseduto unicamente dalle civiltà letterate. Infine, cercando di
difendere il proprio status sociale opponendosi alle riforme educative successive agli anni Novanta dell’Ottocento, gli archeologi classici iniziarono a utilizzare i sostegni visivi per dimostrare le glorie
dell’Ellade – e dell’archeologia tedesca. L’estetismo neo-romantico
derivante da questo materiale fornì alla generazione successiva un
corpus di immagini idealizzate dell’antichità, che erano appropriate
a nobilitare l’elitarismo razziale, così come quello culturale»26.
Cit. H. SICHTERMANN, Kulturgeschichte der klassischen Archäologie, München, 1996,
p. 200.
26
S.L. MARCHAND, Down from Olympus. Archaeology and Philohellenism in Germany,
1750-1970, Princeton, NJ, 1996, p. X.
25
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Secondo la testimonianza di Ludwig Curtius, l’archeologia classica
ottocentesca, perfezionata da grandi personalità come Müller,
Welcker, Roß e Brunn, era un ampio edificio costituito da diversi
comparti. Alcuni utilizzarono un approccio prettamente filologico,
altri uno storico-politico, altri ancora uno storico-religioso.
Esisteva, infine, una schiera di archeologi legati a un approccio
squisitamente storico-artistico. Tra questi era annoverabile il professore monacense Heinrich Brunn, cultore indiscusso di
Winckelmann27.
Può sembrare paradossale il fatto che la convergenza di quattro
dinamiche storico-culturali ben precise (il processo di professionalizzazione e autonomizzazione dell’archeologia da ancella della filologia; la formalizzazione dell’Alterthumswissenschaft per merito dello
storicismo e del positivismo; lo «scontro» materiale-visivo con
l’Oriente vicino e anteriore determinato dai grandi scavi e dall’imperialismo europeo; la critica filologica della Sacre Scritture e la demitizzazione del racconto cristiano-giudaico) non sia in grado di
esaurire la figura di Brunn maggiormente di quanto non lo faccia
«l’ossessione culturale» tedesca per gli Elleni che, partendo dalla
Storia dell’arte antica di Winckelmann e passando attraverso il classicismo weimariano di Goethe e Schiller, sboccò nella mitologia di
Müller e nella dialettica tra apollineo e dionisiaco musicata da
Nietzsche nella Nascita della tragedia del 187228.
Allievo di Welcker e di Ritschl, Brunn approdò a Monaco di
Baviera nel 1865, dopo le esperienze al segretariato dell’Istituto
archeologico germanico di Roma e l’infelice parentesi di Bonn. La
Cfr. L. CURTIUS, Deutsche und antike Welt. Lebenserinnerungen, Stuttgart, 1950, pp.
163 ss.
28
Cfr. N. MILLER, Europäischer Philhellenismus zwischen Winckelmann und Byron, in
Propyläen Geschichte der Literatur. Literatur und Gesellschaft der westlichen Welt, IV.
Band: Aufklärung und Romantik 1700-1830, Berlin, 1983, pp. 315-365.
27
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Apoteosi della germanicità
coeva ascesa al trono di Ludovico II promosse il mecenatismo artistico (vedi la collezione della Gliptoteca). La capitale bavarese
divenne un centro di studi archeologici secondo alla sola Berlino in
tutta la Germania guglielmina.
Brunn può essere considerato il diretto successore della tradizione
archeologica winckelmanniana nella Germania Guglielmina,
mediata dall’opera di Friedrich Gottlieb Welcker e dal suo
Totalitätsideal (ideale totalizzante)29. Sine philologiae lumine caecutire
archaeologiam (senza la luce della filologia, l’archeologia è cieca) e in
critica arte malo errare via et ratione, quam sine ratione verum inverire (nella
ricerca scientifica preferisco sbagliare razionalmente piuttosto che
scoprire la realtà intuitivamente) furono i due motti posti in calce
alla sua tesi dottorale sugli artisti greci pre-alessandrini30. I suoi
principali lavori furono la Geschichte der Griechischen Künstler (Storia
degli artisti greci, 1853-59, 2 volumi) e la Griechische Kunstgeschichte
(Storia dell’arte greca, 1893-97, 2 volumi, incompiuta).
L’obiettivo principale della sua vasta produzione fu quello di «tracciare la traduzione dei caratteri mitologici nel “linguaggio” della
forma artistica e di preparare il terreno all’elaborazione di una
sequenza storica di forme raffigurate direttamente dai monumenti»31. Tale definizione della Marchand può essere corroborata da
altri scritti di Brunn e dal giudizio espresso su di lui da alcuni contemporanei. L’«inattualità» dell’archeologo classico può servire da
utile cartina al tornasole per ricostruire la storia della ricezione e
William M. Calder III definisce il Totalitätsideal come «la convinzione che le
fonti letterarie da sole non possano fornire una ricostruzione comprensiva dell’antichità, ma che debbano essere sfruttati tutti i resti materiali (archeologici,
architettonici, epigrafici, numismatici)». Tra i maggiori sostenitori vanno annoverati Welcker, influenzato da Goethe, e Müller. Cfr. N. THOMSON DE
GRUMMOND (ed.), An Encyclopedy of the History of Classical Archaeology, London
and Chicago, 1996, vol. II, p. 1121.
30
Cfr. H. BRUNN, Artificum liberae Graecae tempora, Bonnae, Univ. Diss., 1843.
31
Cfr. S.L. MARCHAND, Down from Olympus, cit., p. 110.
29