Sussidio didattico relativo all`incontro con padre Cesare Falletti
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Sussidio didattico relativo all`incontro con padre Cesare Falletti
Sussidio didattico relativo all’incontro con padre Cesare Falletti Torino, 7 novembre 2008 Parte prima Frammenti di storia e spiritualità locale Testimonianze di autori vari www.dominustecum.it 1. Pra ’d Mill tra passato e presente La valle, l’antico villaggio e il nuovo monastero. A un pugno di chilometri da Bagnolo Piemonte, oltre i boschi di castagni, c’è una radura scoscesa dove nel Settecento sorgeva un fortino isolato, a guardia di montagne al confine con la Francia. Era un insediamento feudale ed agricolo con il castello, le case coloniche e una cappella dedicata all’Annunciazione. La valle è un luogo di solitudine e di pace, di prati e di boschi, solcata dalle fresche acque del torrente. Attorno alle antiche pietre conservate sorge attualmente, grazie ad un’opera laboriosa di restauro, una costruzione recente con il chiostro, le celle, i laboratori, la chiesa e i luoghi di accoglienza ai pellegrini. L’antico presidio è oggi trasformato nel Monastero di Pra ’d Mill, un piccolo insediamento di Cistercensi che arrivano dall’Abbazia dell’Isola di Lérins, nei pressi di Cannes. Il fortino è divenuto la casa dei novizi. Al suo fianco c’è una minuscola chiesetta. Dal lato opposto una vecchia baita, ristrutturata per far posto alle celle dei monaci. Dalla preistoria alla fondazione. Su un’isola della Costa Azzurra, nella baia di Cannes, sin dall’inizio del V sec. Sant’Onorato con alcuni compagni volle vivere la vita monastica fondando uno dei primi monasteri d’Occidente. Oggi, al seguito di una tradizione di sedici secoli quasi ininterrotta, l’Abbazia Cistercense di Lérins continua a vivere la stessa ricerca di Dio, condotta sotto la Regola di San Benedetto. Nel 1986 i monaci di Lérins accolgono l’invito ad aprire una nuova comunità. La scelta cade su Pra ’d Mill nella Valle dell’Infernotto, una località silenziosa e austera, protetta e nascosta. La loro presenza in questo angolo del cuneese è motivata da una chiamata della Chiesa piemontese attraverso l’invito di vescovi, sacerdoti e laici, ma anche dal forte afflusso di ospiti italiani nel Monastero di Lérins e dall’entrata nella comunità monastica dell’isola di numerosi fratelli italiani. La donazione della famiglia Isola permette di attuare il progetto. Qualche anno fu dedicato al restauro di parte degli edifici. Nel Luglio 1995 due fratelli vennero a stabilirsi sul luogo. Dopo aver abitato per circa quattro anni nella parte bassa della proprietà (antico castelletto e cappella dell’Annunciazione del XVIII secolo), la comunità si trasferì più in alto, dove vi erano alcune cascine. Lì era già stata allestita la foresteria. La carta ufficiale della fondazione venne firmata dall’Abate Nicolas (poi arcivescovo di Tours) il 25 Marzo 1998, a novecento anni dalla fondazione di Citeaux (21 marzo 1098). La professoressa Leletta d’Isola vide così avverarsi il desiderio di una presenza monastica nella proprietà della sua famiglia a Pra ’d Mill. A lei, ai suoi consigli e alla sua preghiera si deve in massima parte la fondazione del monastero. 2 Il progetto. Pra ’d Mill prima del nostro arrivo era una piccola borgata di pastori, ormai disabitata per gran parte dell’anno. Nel 1990 un vasto incendio distrusse parte dei fabbricati e danneggiò tutta la Valle. Il progetto del monastero è dell’architetto Maurizio Momo, con la consulenza dell’architetto Aimaro Isola e la collaborazione dell’architetto Franco Brugo. La realizzazione è opera di artigiani locali. L’impressione che la costruzione offre a prima vista è di leggerezza. Se ci si avvicina, però, ci si accorge che tutto è molto robusto. Se vi si vive per un po’ ci si accorge che l’edificio è funzionale, ma curato e bello anche nei particolari. La scelta dei materiali - pietra e legno - è stata dettata dall’architettura tradizionale di queste zone montane. In tal modo s’è potuto approfittare appieno dell’abilità di artigiani che da generazioni lavorano la pietra grigia di Bagnolo e mettono in opera travature in legno. Un grande tetto. Una coperta appoggiata sul prato. Colonne che sembrano confondersi con il bosco vicino e sollevano il tessuto di pietre per quel tanto da trovare riparo. Sul retro un po’ di movimento. Un campanile modesto si leva dal centro. In cima, la croce: convergenza e vertice di tutta la costruzione. E poi l’antica grangia, conservata nelle sue linee. C’è vita, movimento, ma non agitazione. Le finestre cerchiate di chiaro guardano intorno con discrezione. All’interno della cappella il soffitto sale veloce verso il pozzo di luce che piove sull’altare. Tutto è semplice, allo scoperto. Eppure vi è custodito un segreto. Forse è dietro quella colonna. Forse sta entrando dalle grandi finestre verso la montagna, quegli affreschi che variano di continuo, obbedienti alle stagioni e ai capricci del cielo. O forse è scritto sui fogli di pietra che fanno l’ambone. Le pietre della legge, della sapienza, nascosta dai secoli ed ora scoperchiata per gli occhi che sanno guardare, per le orecchie che sanno ascoltare, per le bocche che sanno tacere e cantare. La Regola di San Benedetto. I monaci cistercensi di Pra ’d Mill appartengono alla Congregazione della Immacolata Concezione, sono dediti alla preghiera, alla penitenza, al lavoro manuale e seguono la Regola di San Benedetto. Una campana scandisce i ritmi della vita monastica. I monaci della valle non sono predicatori, pastori o animatori, ma fratelli silenziosi davanti al Signore, che adorano, lodano e ringraziano, invocando Dio a nome di tutti gli uomini e in unione con loro per essere l’eco del «fiat voluntas tua» di Maria. Il loro motto è: «La nostra vita è nascosta in Dio con Cristo e con Maria». La spiritualità cistercense. Conosciamo la spiritualità dei primi Cistercensi per mezzo dei documenti primitivi dell’Ordine: ci restano due versioni del Piccolo esordio, storia degli inizi - il Grande esordio è della fine del XII secolo - e due della Charta Caritatis, oltre a tre Lettere di Santo Stefano Harding, il terzo abate di Citeaux. Da questi testi si possono facilmente dedurre i principali elementi della loro spiritualità: 1. Il culto della Regola di San Benedetto, che va inteso come una ricerca di verità e di autenticità di vita monastica. Nella Regola si trovano consigliate anche le fonti della loro vita spirituale: la Sacra Scrittura e gli scritti dei Padri della Chiesa, che furono, si può dire, il pane quotidiano del loro spirito. 2. La solitudine, che permette l’osservanza della Regola, e deve garantire l’otium monastico. «Ozio» nel senso dei latini, cioè il contrario degli affari, tempo libero per ciò che è propriamente umano, tanto che si parla di «ozio laboriosissimo». 3. L’amore di Cristo per essere «poveri col Cristo povero». Povertà non solo materiale, ma imitazione dello spogliamento di Cristo, che porta alla semplicità e sobrietà della vita fin nella liturgia e nelle costruzioni. Un gran numero di monaci scrittori fiorisce nel XII secolo. Dalle loro opere possiamo individuare una spiritualità comune, notevole per la coerenza della dottrina e l’unità interiore tra la teoria e la pratica della vita monastica. 3 Conformemente a San Benedetto, i Cistercensi vedono il monastero come una «scuola del servizio divino», dove si impara la ricerca e l’esperienza di Dio, compito principale del monaco, e ci si esercita ad abbandonare tutto ciò che può impedire od ostacolare il raggiungimento dell’obbiettivo. I vari modi di qualificare la scuola monastica potrebbero essere considerati un riassunto della loro spiritualità: scuola di Cristo, del Salvatore, dello Spirito Santo; scuola di amore, di pietà, di virtù, di umiltà; scuola di filosofia cristiana, di studi spirituali, ecc. Ma, in pratica, che cosa si insegna in questa scuola dai tanti nomi eppure unica per tutti i monasteri? Possiamo distinguere tre argomenti: 1. Anzitutto l’uomo deve conoscere se stesso: questo invito già si poteva leggere sul tempio di Apollo a Delfi, fatto proprio anche dai filosofi. Per i Cistercensi, seguendo la tradizione dei Padri, l’uomo ha un’altissima dignità: è creato ad immagine e somiglianza di Dio e chiamato a vivere con Lui. Ma è lo stesso uomo che, a causa della colpa originale di Adamo, è sottomesso al peccato, che ha perso la somiglianza con Dio e offuscato la sua immagine. I nostri autori, però, sono fondamentalmente ottimisti: l’uomo conserva, nel disordine del peccato, le capacità innate di conoscenza e di amore e un’aspirazione al bene, che è, almeno implicitamente, rivolta al bene supremo, Dio. L’uomo può, quindi, ritornare a Dio più con un atto d’amore che con la sua ragione. 2. La pratica dell’ascesi ha un duplice aspetto: negativo, di rinuncia a tutti i desideri disordinati; positivo, perché rende capaci di rientrare in se stessi per riscoprirvi, mediante le virtù monastiche dell’obbedienza, umiltà, silenzio, carità fraterna, la capacità di conoscere ed amare Dio. 3. Il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio occupa un posto centrale. Cristo è l’unico mediatore tra l’uomo e Dio; è, nella sua umanità particolarmente venerata, il modello, l’uomo perfetto che il monaco dovrà imitare per restaurare la somiglianza originale con Dio. Il risultato della scuola monastica è l’esperienza di Dio, descritta in diversi modi: visione di Dio, unione spirituale con Dio, pace e riposo in Lui, gioia, giubilo e contemplazione. E questo amore di Dio è inverato e verificato nella carità fraterna, nel servizio reciproco richiesto dalla vita monastica. L’accoglienza. «Tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo, poiché un giorno il Nostro Signore ci dirà: “Ero forestiero e mi avete visitato”. A tutti si renda il dovuto onore». Così recita la Regola di San Benedetto al capitolo 53; agli ospiti, aggiunge il santo, spetta il compito di esserne degni. Così sin dall’inizio pellegrini e viandanti non hanno mai bussato invano alla porta di Abbazie, Conventi, Certose o Monasteri. Se è vero che numerose foresterie sono in disuso, è vero anche che molte altre sono state costruite o restaurate e offrono accoglienza oggi come in passato a credenti e non, personaggi famosi o persone comuni che desiderano trascorrere un periodo in un ambiente di pace e serenità per meditazioni o semplicemente per riposo. Al di là delle considerazioni artistiche (molti di questi luoghi sono infatti capolavori architettonici o custodiscono opere di inestimabile valore), si tratta di luoghi dove la natura regna ancora sovrana fuori delle rotte battute dai più; anche per questo aiutano chi si avvicina a trascorrere una vacanza diversa, che diventa occasione per staccare dalla routine stressante di tutti i giorni e fermarsi a pensare, a rientrare un po’ più in se stessi e nel proprio mistero. Nella misura delle loro possibilità, i monaci offrono accoglienza nel loro ambiente a quanti desiderano trascorrere in modo sereno e disteso un tempo di preghiera, di silenzio, di riposo. Orari di preghiera. «Ora et labora», preghiera e lavoro sono il cardine della vita monastica e gli ospiti possono unirsi alla preghiera dei monaci. In relazione al tempo liturgico vengono seguiti i seguenti orari di preghiera: 4 Orario normale (dalla Pentecoste al cambio dell’ora legale) Sveglia Ufficio delle letture Lectio Lodi Capitolo Lavoro Terza Messa Sesta Pranzo Nona Lavoro Vespro Adorazione Cena Lettura spirituale Compieta Feriali 03.55 04.15 segue 07.30 segue segue 10.00 11.45 con la Messa 12.40 dopo il pranzo 14.30 17.15 segue 18.40 segue 20.00 Festivi 03.40 04.00 segue 07.30 segue --10.30 10.30 12.15 12.30 14.30 --17.15 segue 18.40 segue 20.00 Deserto --in solitudine in solitudine 07.30 ------07.30 --12.30 ----17.45 in solitudine 18.40 segue 20.00 Attività manuali. I monaci di Pra ’d Mill hanno un laboratorio di marmellate, fatte artigianalmente, poco zuccherate, senza conservanti né coloranti. È possibile trovare marmellate dal gusto classico o molto originale come marmellata di zucchine, di pere al vino, di mele al caffè, di kiwi, di pesche, di albicocche, di ciliegie, di mele ed uva. Oltre all’apicoltura e quindi alla produzione del miele millefiori e del miele con frutta secca (noci, nocciole ecc.), seguita da padre Isidoro, i monaci lavorano un terreno di loro proprietà (un castagneto) e coltivano piccoli frutti e alberi da frutta. Nel monastero vengono impartite anche lezioni di iconografia e vengono effettuati lavori di artigianato con il rame. Padre Zeno negli ultimi anni è diventato l’erede dell’ultimo stagnino delle Valli Po ed Infernotto, Cicles di Barge. Nel 2002 i monaci di Pra ’d Mill ricevettero il riconoscimento dal Club del Papillon di «artigiani radiosi». La comunità e il suo priore. La comunità di Pra ’d Mill è composta da otto monaci: cinque professi solenni, un professo semplice e due novizi. La formazione dura quattro anni ed è assicurata dall’Abbazia di Lérins. Il priore della comunità è padre Cesare Falletti. Qualche notizia sulla sua vita può illuminare il percorso che permise, a partire dall’ultimo decennio del millennio scorso, il graduale irradiarsi del monachesimo da una nota località di mare a uno sperduto borgo montano. Cesare nasce a Torino il 22 ottobre 1939. Trascorre la giovinezza a Roma dove compie gli studi classici e frequenta la Facoltà di Giurisprudenza. A 22 anni decide di prepararsi al sacerdozio, studia all’Università Gregoriana e vive al Collegio Capranica. Ordinato sacerdote nel 1966, l’anno seguente torna in Piemonte, viene incardinato nella diocesi di Fossano (CN) e per volontà dell’arcivescovo di Torino, il cardinal Michele Pellegrino, diventa vicerettore del nuovo Seminario Regionale per le «vocazioni adulte» di Torino. Lavora in quel Seminario per quattro anni, per poi realizzare il suo desiderio di vita monastica maturato ormai da una decina di anni. Nel 1971 entra nell’Ordine Cistercense presso il Monastero di Lérins (Francia), dove continua la formazione monastica fino alla professione solenne, che avviene nel 1979. Nel 1995 viene inviato in Piemonte per iniziare 5 una nuova esperienza come Priore del Monastero Dominus Tecum, dipendente da Lérins, in Diocesi di Saluzzo, a Pra ’d Mill, comune di Bagnolo Piemonte (CN). 2. Il ritorno dei monaci cistercensi Cesare Falletti Un presente che nasce dal passato. La presenza di monaci cistercensi nel saluzzese ha radici antiche e risale agli albori stessi dell’ordine monastico che ebbe tra i suoi primi grandi protagonisti San Bernardo. La tradizione infatti ci racconta che il Monastero di Staffarda, voluto dal marchese di Saluzzo Manfredo I del Vasto e fondato tra il 1135 e il 1138, abbia avuto come suo primo abate un monaco di nome Pietro, discepolo dello stesso San Bernardo. I primi monaci, giunti a Staffarda dall’Abbazia di Tiglieto e dunque dai monti appenninici che separano il Piemonte dalla Liguria, trasformarono ben presto le aree incolte e acquitrinose della zona in una fiorentissima azienda agricola il cui nome era rappresentato dall’abbazia stessa. Un’abbazia costruita secondo i modelli della Borgogna dove l’Ordine Cistercense era nato, in uno spirito tuttavia di adattamento, che per un verso coniuga in modo originalissimo romanico e gotico, mentre per l’altro presenta una funzionalità eccezionale per il fine agricolo per cui venne pensata. In un clima monastico rigoroso e incentrato sulla preghiera e sul lavoro, i Cistercensi trasformarono le aree circostanti il monastero non solo in un’azienda agricola di prim’ordine, ma in una vera e propria realtà economica in grado di provvedere da sé a tutti i suoi bisogni e di estendere i suoi possedimenti e il suo influsso ad un territorio molto vasto, che comprendeva Verzuolo, Savigliano e si spingeva fino alle porte di Torino attraverso una fitta rete di terreni e cascinali, frutto di donazioni ed acquisti. [...] Con la fine del XIII secolo, allo splendore subentrò un’inarrestabile decadenza. E a poco valsero i tentativi fatti per contrastare il declino sempre più evidente: gli sforzi di riportare la comunità monastica allo slancio e allo zelo iniziali non produssero i frutti sperati. L’Abbazia di Staffarda venne dunque prima sottoposta all’istituto della commenda e poi, nel 1750, dichiarata decaduta come «mensa abbaziale» autonoma. Questa decisione, che sembrava decretare la fine definitiva della presenza monastica cistercense nel saluzzese, non avrebbe tuttavia impedito ai Cistercensi, agli albori del terzo millennio, di tornare a riproporre in queste stesse zone la testimonianza di una vita evangelica umile e nascosta. Sulla via del ritorno. La vita monastica maschile, verso la metà del XX secolo, era pressoché inesistente e solo negli ultimi trent’anni di quel secolo si poté assistere ad un approfondimento spirituale capace di far rifiorire anche in quest’area il monachesimo. [...] Gli italiani del nord-ovest scoprivano alcuni importanti monasteri francesi che, nel corso degli anni ’70, divennero meta di sempre più numerosi pellegrinaggi da parte di uomini e donne che cercavano il silenzio e la preghiera. Questa scoperta era destinata non solo a durare nel tempo, ma anche a consolidarsi sempre più. Il risultato, retrospettivamente evidente, è rappresentato dal costituirsi di un vero e proprio legame di singoli e gruppi di quest’area italiana, cristiani e non, con questi monasteri d’oltralpe, la cui influenza sulla vita spirituale dell’area ligure e piemontese non tardò a farsi sentire. Uno di questi monasteri, divenuto a partire dagli anni ’70 una delle mete spirituali fisse di molti italiani, è l’Abbazia di Sant’Onorato costruita di fronte a Cannes, in Costa Azzurra, su una delle Isole di Lérins. Il monastero, la cui fondazione risale agli albori del monachesimo occidentale (inizi del V secolo) ed ha come protagonista il santo di cui l’abbazia porta il nome, ha avuto un’espressione prestigiosa sia dal punto di vista storico che da quello teologico e monastico. Il silenzio dell’isola non mancò di produrre grandi frutti. [...] La forma di vita monastica attualmente praticata nell’Abbazia di Sant’Onorato affonda le sue radici in un terreno fertilissimo. L’isola, che ha visto monaci assenti per 6 un’ottantina d’anni a seguito della rivoluzione francese, è ora affidata ai monaci di Sénanque, antica Abbazia Cistercense della Provenza. [...] Pra ’d Mill: la scoperta di una perla preziosa. L’afflusso di italiani prima provenienti da tutta la Penisola e l’entrata di un significativo numero di essi come monaci nell’Abbazia di Sant’Onorato hanno rappresentato un orizzonte all’interno del quale si è cominciato a pensare alla necessità di dar vita ad una realtà monastica analoga a quella di Lérins anche in Piemonte. Questa intuizione, rafforzatasi nel tempo a seguito delle espresse richieste avanzate in tal senso dagli ospiti italiani nell’abbazia, laici, preti o vescovi che fossero, si è concretizzata con un invito preciso fatto pervenire nel 1986 all’abate dall’allora arcivescovo di Torino cardinal Ballestrero. L’accoglienza favorevole dell’invito da parte della comunità monastica di Lérins apriva la strada a quella che sarebbe diventata l’esperienza monastica di Pra ’d Mill. La decisione dei monaci di Lérins di scegliere Pra ’d Mill quale luogo per l’insediamento della nuova fondazione italiana appare tuttavia legata ad una proposta in ultimo indipendente dalla richiesta avanzata alla comunità monastica francese dal cardinal Ballestrero. Da tempo infatti la famiglia dei Baroni d’Isola, discendenti dei conti Malingri di Bagnolo, aveva offerto all’Abbazia di Lérins un terreno di sua proprietà situato fra i comuni di Barge e di Bagnolo Piemonte, al fine di farvi nascere un Monastero Cistercense. Il terreno offerto, ubicato a 870 metri di quota e a dieci chilometri di distanza dal centro di Bagnolo Piemonte, è costituito da una radura posta sulle pendici della riva destra dell’Infernotto (torrente che scende tra le Valli del Pellice e del Po), circondata da boschi in cui prevale il castagno e delimitata dalle cime della Ostanetta, della Rumella, della Selassa e del Castello Oddino. Antico insediamento di pastori, prima dell’arrivo dei monaci era esclusivamente abitato in tempo di transumanza. Vi erano, in un piano più a valle, una cappellina e un castelletto, entrambi in stato di avanzato degrado, e più a monte, a circa duecento metri di distanza, un gruppo di cascine in pessimo stato. Leletta d’Isola, la professoressa di Filosofia che ne era proprietaria, aveva già da vari anni invitato i monaci di Lérins ad andare a visitare il posto. Fu per assecondare questo desiderio che, una sera del settembre ’84, un gruppetto di monaci e di amici laici si trovarono a salire fin lassù. La notte era già scesa e la strada non invitava certo a salire, ma, giunto ugualmente sul posto, il piccolo gruppo di cui facevo parte si fermò a pregare nella cappellina alla luce di una pila elettrica. La lettura di un testo biblico, non programmata, così recitava: «Vidi poi un nuovo cielo e una terra nuova, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà “Dio con loro”». Il brano colpì la nostra attenzione e ci convinse che quel posto attendeva una nuova fondazione monastica. Quel testo dell’Apocalisse che parla del «Dio con loro», unitamente al quadro posto sopra l’altare nel quale è raffigurato l’angelo nel momento in cui saluta Maria dicendo: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te», costituirono la ragione profonda della scelta del nome del monastero che più tardi a Pra ’d Mill fu eretto: «Dominus Tecum». A sancire la nascita ufficiale del nuovo monastero sul terreno di Pra ’d Mill, donato ai monaci cistercensi di Lérins dalla famiglia dei Baroni d’Isola, fu la celebrazione di una messa nel settembre ’88, che a sorpresa raccolse oltre quattrocento persone. La nascita del Monastero Dominus Tecum: un’avventura che continua. [...] Nel 1987 venne costituita l’Associazione Dominus Tecum, che poco dopo avrebbe ricevuto la donazione di Pra ’d Mill da parte dei Baroni d’Isola. I lavori di restauro potevano dunque cominciare. Non avendo tuttavia l’Associazione altre entrate che i doni degli amici, restava da affrontare il problema economico. [...] Dopo sei anni, nei quali i monaci di Lérins venivano regolarmente a Pra ’d Mill a trascorrere qualche giorno di ritiro o di riposo, a partire dal luglio ’95 un mio confratello 7 ed io potemmo installarvici, cominciando in tal modo sul posto una vita monastica «regolare». Questa presenza si tradusse immediatamente in un rilevante afflusso di pellegrini che domandavano ospitalità e nella richiesta di qualche giovane di entrare a far parte della comunità. Nell’autunno dello stesso anno, inoltre, iniziarono i lavori di restauro delle cascine situate a monte della radura di Pra ’d Mill. [...] In seguito fummo impegnati nella costruzione di una chiesa abbastanza ampia da accogliere i numerosi fedeli presenti la domenica e nelle grandi feste. Venne così sempre più profilandosi quel che è l’attuale monastero, con una quindicina di celle per i monaci, un refettorio sufficientemente ampio, una cucina spaziosa, una biblioteca in fase di allestimento, una serie di laboratori e una foresteria capace di consentire agli ospiti di respirare e condividere la vita monastica. Nel frattempo i monaci della comunità aumentavano. […] La crescente presenza di monaci a Pra ’d Mill si è tradotta anche in un mutamento del paesaggio: i terreni circostanti il monastero, lasciati a lungo abbandonati, hanno ripreso ad essere curati sia attraverso un’azione di rimboschimento che ha visto piantare oltre mille alberi da frutto e da ornamento, sia mediante l’inizio di nuove coltivazioni nelle zone a prato. [...] Monaci a Pra ’d Mill: un presente che guarda lontano. Il Monastero Dominus Tecum, dopo ormai alcuni anni di presenza in provincia di Cuneo, appare ben inserito sia nel contesto ecclesiale che in quello sociale. [...] Essere presenti come monaci in uno specifico territorio non vuol dire avere il ruolo di un museo in cui si vengono a conoscere realtà d’altri tempi, fosse pure una splendida musica gregoriana. Significa invece vivere una fedeltà dinamica in cui i veri valori della vita monastica voluti dai Padri del deserto del IV secolo, da San Benedetto nel VI e dai riformatori, tra i quali nel XII secolo spicca San Bernardo, sono autenticamente cercati, accolti, osservati ed amati da uomini attenti e sensibili anche ai valori del loro tempo. […] 3. L’anima del Monastero di Pra ’d Mill Intervista a padre Cesare a cura di Alberto Burzio, giornalista e scrittore - Aprile 2000. [Oltre al sito citato in apertura di capitolo, cf. il libro «Pane, terra e montagne. 31 storie di vita», Ed. Primalpe - CN, rist. 2008, pp.56-61]. In un’oasi di pace. Padre Cesare Falletti, monaco cistercense, ha gli occhi azzurri, lo sguardo sorridente e la figura del saggio. È lui l’«anima» del nuovo monastero, nato in questi anni a Pra ’d Mill, in una conca esposta a mezzogiorno, sotto la mola di Punta Ostanetta (2.375 metri), tra i boschi di castagni, a quasi 900 metri di quota. A Pra ’d Mill sorge il Castlas, casa-forte di montagna costruita nel ’700 da un conte di Bagnolo, che era soldato dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. I proprietari di Pra ’d Mill, Aimaro e Leletta d’Isola, negli anni scorsi hanno donato il Castlas e i terreni ai monaci cistercensi dell’isola di Lérins (in Francia): e così è nata l’idea del monastero sulle Alpi Cozie, a una dozzina di chilometri da Bagnolo, in un’oasi di pace, lontano dai clamori del mondo. Nel 1988 i monaci iniziano a venire a Pra ’d Mill: «Da soli o in gruppi, per giorni di riposo o di ritiro - sorride padre Cesare - abbiamo iniziato a frequentare questi luoghi, iniziando a restaurare qualche vecchio edificio». Il primo nucleo del Monastero Cistercense è il Castlas, ben restaurato: vicino c’è una chiesuola bianca, appena sopra le baite e la foresteria. Ma procediamo con un po’ di ordine, iniziando dalla «carta d’identità» di padre Cesare. «Sono nato il 22 ottobre 1939 a Torino, ho trascorso gli anni della mia giovinezza a Roma. La ricerca della risposta alla chiamata di Dio non è stata facile, il percorso è stato un po’ sinuoso. Dopo il Liceo, mi sono iscritto a Legge: ma non mi sono laureato. A 22 anni sono entrato in Seminario, anche se “sentivo” dentro di me che quella non era proprio la mia 8 strada…». Ordinato prete diocesano, don Cesare Falletti ritorna a Torino, dove assume l’incarico di vicerettore del Seminario delle vocazioni adulte. Gli anni del Concilio. «Erano gli anni del Concilio - racconta padre Cesare - un tempo forte, per me, di una buona formazione spirituale e intellettuale e di conoscenza della Chiesa». Nel 1971 va in un monastero in Savoia: inizia così a conoscere la vita monastica francese. Due anni dopo entra nel Monastero dell’Isola di Saint-Honorat (Îles de Lérins), di fronte a Cannes, dove resta fino al 1995. Concluso il periodo di noviziato, partecipa alla vita del monastero francese, svolgendo varie mansioni (tra le quali quelle di distillatore e di cuoco). Dall’anno 1991 diventa «Maestro dei Novizi». Monaco cistercense. Perché è entrato proprio fra i monaci cistercensi? Padre Cesare sorride: «Ho scelto - o, meglio, il Signore ha scelto per me - un’Abbazia Cistercense, perché i valori di quest’Ordine (la povertà, la semplicità di vita, la liturgia, la vita fraterna, il lavoro manuale, la solitudine silenziosa, la vita nascosta, con una forte devozione alla Vergine) corrispondevano a quello che andavo cercando». Pochi anni dopo, a Lérins, entrano nel monastero alcuni giovani italiani e intanto gli ospiti italiani (piemontesi, liguri, veneti e lombardi) sono sempre numerosi. «Si capiva che c’era una chiamata da parte dell’Italia - sottolinea - e questa si è concretizzata con un invito, nel 1986, dell’arcivescovo di Torino di allora». Dopo i primi anni di presenze saltuarie, nel luglio 1995 l’abate di Lérins manda due monaci per iniziare una presenza permanente a Pra ’d Mill: nasce così il Monastero Dominus Tecum. Dopo due anni arriva un terzo monaco; e l’anno scorso il quarto: oggi, con padre Cesare ci sono fratel Isidoro, fratel Zeno, fratel Paolo. Altri due monaci - in formazione a Lérins - li raggiungeranno fra non molto tempo. Padre Cesare, cosa è cambiato a Pra ’d Mill da quando siete arrivati voi? «Sul posto, tante cose. Abbiamo restaurato molto, e abbiamo dovuto riprendere i lavori per la foresteria, perché con il nostro arrivo è cominciato anche l’afflusso di gente che vuole vivere qualche giorno o qualche momento della giornata insieme a noi». Nel frattempo, i monaci si sono rimboccati le maniche: hanno pulito i terreni, soprattutto sistemando i boschi che erano molto danneggiati dall’incuria e dagli incendi; hanno piantato alberi (più di 700) curando i meli, i peri e i castagni. Il restauro delle vecchie abitazioni è proceduto - nel pieno rispetto dell’ambiente e dello stile delle case preesistenti - e sono già stati ricavati non solo la foresteria, ma pure il monastero in cui potranno vivere stabilmente nove monaci. Monaci fra i boschi. «Per la foresteria siamo stati aiutati da contributi CEE - spiega padre Cesare - per tutto il resto è la Provvidenza (grazie all’aiuto, all’affetto e alla solidarietà di tanti amici) che hanno permesso l’avanzata sorprendente dei lavori. L’accoglienza da parte della Chiesa e della popolazione locale è stata sempre più che cordiale, e sorprendente, per noi, l’affluenza degli ospiti». Oggi, aggiunge, «dobbiamo pensare a costruire una chiesa: perché l’attuale cappella è in verità il refettorio degli ospiti, ma per garantire loro una certa tranquillità e solitudine è necessario condurre altrove chi viene solo per pregare e per visitare. Naturalmente, il problema è di natura economica». Con una battuta, dice che «dobbiamo trovare l’equilibrio fra una santa prudenza e un’altrettanto santa imprudenza!». Tra solitudine e condivisione. Essere monaci oggi: cosa significa per voi? «Vuol dire dare il primato a Dio, vuol dire vivere preferendo sempre la carità al successo, all’efficienza, al benessere. Dobbiamo saper essere dei veri adoratori di Dio, attenti all’uomo: sapendo donare la nostra vita in un atto di amore per Dio e per gli altri uomini, nostri fratelli, come Cristo in Croce. Il monaco deve sapere essere solo e dimenticato da tutti, pronto però a condividere con tutti (senza distinzione alcuna) coloro che cercano quella che è 9 la nostra ricchezza: il silenzio, la preghiera, la pace di questo luogo, insieme a un cuore fraterno che accoglie ma non fa domande. Cercando solo Dio e tutto ciò che Lui vuole». Chi viene a bussare all’uscio di Pra ’d Mill? E cosa cerca? «Viene molta gente: vengono in tanti in questa Valle a cercare Dio, anche se non sanno nominarlo. Persone di tutte le età, preti, laici, uomini e donne, impegnati e non. Cosa vengono a cercare? Non lo so, o, meglio, so che dietro a quella che neppure loro sanno, sono alla ricerca di Dio, della bellezza del suo volto sorridente ed accogliente, misericordioso e stimolante verso la pienezza della vita». Le giornate dei monaci scorrono all’insegna dell’«ora et labora» («prega e lavora»): pregano liturgicamente con sette «uffici» al giorno (che si susseguono dalle quattro del mattino fino alle otto della sera) e pure in lunghi tempi di Lectio divina e preghiera personale e solitaria. «Viviamo silenziosi - spiega padre Cesare - perché la preghiera invada tutto il nostro quotidiano. Nelle ore di lavoro, nel cuore delle nostre giornate, per ora ci preoccupiamo di mettere a posto Pra ’d Mill e di scoprire quali sono le possibilità future di lavoro artigianale. Anche l’accoglienza degli ospiti fa parte del nostro lavoro e ci occupa abbastanza tempo. La Messa, nei giorni feriali, è verso mezzogiorno; di domenica, alle ore 10.30». Preghiera e lavoro. Perché la preghiera, il «deserto» per voi è così importante? «Pregare è qualcosa di vitale, perché significa accettare e acconsentire alla presenza di Dio, che ci attira e ci salva; pregare è rispondere a un amore gratuito, sorgente della nostra vita e di cui abbiamo un bisogno assoluto. La preghiera ci permette di vederci e accettarci così come siamo, visto che siamo amati così: in questo sguardo su noi stessi, non narcisistico, dobbiamo imparare ad amare il prossimo». Quanto al «deserto»: «È la situazione in cui siamo noi stessi, senza maschere davanti a Dio. E il monaco è colui che sa vedere le proprie miserie, le proprie debolezze, come anche la propria bellezza, solo perché Dio lo guarda e lo ama. In tal modo acquista un cuore universale». Che cosa è cambiato, per voi, su queste montagne, rispetto alla vita di Lérins? «Tutti e quattro, sentiamo che non è cambiato nulla. La vita è la stessa, il nostro cuore anche. Cambiano le cose esterne: la forma e le dimensioni della Comunità religiosa, là eravamo trenta, qui siamo in quattro. Capita che là avevamo le mareggiate, qui ci sono le nevicate: in realtà, la vita che viviamo è la stessa, ci sono mesi in cui diciamo «se possiamo, veniamo»: qui come in Francia. La vita monastica, quando l’uomo si spoglia delle cose accessorie, è uguale, dappertutto». 4. Una gita a Pra ’d Mill Ines Roscio Pavia (2004) La Valle del Po è la più conosciuta delle valli cuneesi, è chiusa al fondo dal Monviso, dove nasce il più grande fiume d’Italia. Il Monviso, che all’epoca dei romani era chiamato Vesulus, visto da qui è imponente. Si sale da Saluzzo, pittoresca cittadina con un centro storico formato da vecchie case e campanili in cotto, nota per l’antiquariato e per la lavorazione del ferro battuto e del peltro. Anticamente Saluzzo era un fiorente Marchesato. Ci dirigiamo verso la solitaria Abbazia di Staffarda, monastero cistercense del XII-XIII secolo. È uno dei più insigni monumenti religiosi medioevali del Piemonte, con campanile e facciata di architettura lombarda, con portico ogivale e un bel chiostro, più tardo. Proseguiamo fino ad arrivare a Bagnolo e da qui incominciamo a salire verso il Monastero Dominus Tecum che si trova ad ottocentosettanta metri di quota. Dopo alcuni chilometri e mezz’ora di salita, tornante dopo tornante - quando incominciamo a chiederci chi possa aver avuto l’idea di costruire un monastero quassù - ecco che la strada finisce e ci troviamo di fronte a questo villaggio-monastero. Fino a dieci anni fa era disabitato, ora pietra su pietra sta risorgendo. Al momento si lavora alla costruzione del chiostro e, proprio sotto, ad un ampio locale per la lavorazione 10 del miele. La chiesa è semplice ed essenziale, realizzata con la calda pietra di Bagnolo e, come tutte le chiese, invita alla riflessione e alla preghiera. Intorno ad essa ruota il villaggio. Alcune foresterie sono ancora in disuso, ma molte sono state restaurate ed offrono accoglienza a credenti e non, a personaggi famosi ed a persone comuni. Intorno un panorama superbo che spazia fra le cime innevate dell’Ostanetta e del Rumella. Lo sguardo si fa curioso, e l’aria è fresca e pura. Il monastero è abitato da una decina di monaci cistercensi affiliati all’Abbazia dell’Isola di Lérins, in Costa Azzurra. Ci viene incontro padre Cesare che alcuni anni fa, per primo, da solo incominciò con grande tenacia a vivere qui. Ci spiega che fu la fede di una donna a desiderare un monastero a Pra ’d Mill: Leletta d’Isola, sorella dei conti di Bagnolo. I primi monaci, andati in avanscoperta, un po’ sconcertati per la posizione solitaria del villaggio, accettarono la sfida, anche se la risistemazione del luogo presentava molte difficoltà. Il motto è da sempre «Ora et labora». Sono state riadattate le antiche case e la vecchia stalla è oggi il refettorio della clausura. Nel bosco c’è persino il «romitaggio», una piccola baita dove i monaci periodicamente si ritirano in solitudine per la preghiera. I Cistercensi sono agricoltori, temprati a ben altro che ai calli sulle mani. Hanno iniziato con tenacia e pazienza a ripulire il bosco, raccogliere bacche e castagne, il sambuco e piccoli frutti. A creare intorno un ambiente confortevole con prato, aiuole e fiori. Attirate dal profumo dei fiori, ecco l’arrivo delle api che richiesero la costruzione di alveari. Il miele è purissimo di ottima qualità e di un bel colore dorato. I prati, i castagneti e gli ambienti di altura offrono, nella bella stagione, un ampio ventaglio di fioriture da cui si ricava una vasta gamma di mieli assai qualificati, magari da spalmare sul pane abbinati ai formaggi, miele che ha il sapore dell’acacia, del castagno, del tiglio e millefiori. I paesani dei dintorni non arrivano mai a mani vuote, portano loro ortaggi e frutta. A fratel Matteo e fratel Zeno venne l’idea di fare melate e confetture, mentre fratel Paolo insegna a dipingere icone moderne con corsi di cadenza mensile. La qualità delle confetture divenne sempre più variata, alle castagne e al sambuco si aggiunsero mirtilli e lamponi, mele e menta, mele e caffè, pere e brachetto, kiwi, zucchine, prugne e tè, mandorle, noci e miele, limoni e amaretti. Ora la varietà è tale da farne una golosità da non perdere. Il lavoro è sempre arduo e intenso, ma sorretto dalla Regola Benedettina regala una serenità invidiabile, anche se alla sera la schiena si fa dolente. Il villaggio rinato prende forma, le case sono restaurate, si vive nella percezione del lavoro che dona consapevolezza, il pensiero di fare qualcosa di concreto. La giornata dei frati è piena: sveglia impietosa alle 3,45 per la recita del Mattutino, in chiesa per le preghiere prima della colazione, poi al refettorio e il gusto di assaporare le confetture, anche se con parsimonia. Fuori è ancora buio e ognuno si avvia verso la propria occupazione. Al rintocco della campana del mezzogiorno, il ringraziamento a Dio per quello che la terra dà e una breve sosta per un pranzo frugale. Di nuovo alle proprie mansioni, ad occuparsi degli ospiti e dei visitatori che, con la bella stagione, sono sempre più numerosi, cercando di accontentare le esigenze di tutti. La preghiera della sera, e alle nove si riposa. Tanta semplicità colpisce, come pure colpisce la serenità che traspare dai monaci, la calma della loro laboriosità, la loro espressione paziente, il viso sorridente. Si indovina, sotto questi sai bianchi, uno spirito integerrimo, appagato e soddisfatto dell’opera compiuta. Noi che ci sentiamo tanto ricchi, meglio vestiti, che ci orniamo del nostro orgoglio, ci rendiamo conto che questa vita apparentemente modesta, ha una ragione. Da dove è venuta la forza per costruire tutto questo? Partendo da un’estrema povertà, come si è potuto arrivare a tanto? Padre Zeno risponde per tutti: la Divina Provvidenza - che ha sempre pensato a riempire la cassetta posta fuori dal refettorio - ha pensato a condurre qui famigliole in gita che si fermano per un pasto frugale, acquistano libri, marmellate, melate, confetture nello spaccio, persone in cerca di serenità che riempiono le camere degli ospiti. Mentre nelle città non ci si accorge nemmeno che il tempo passa, quassù lo spirito acquista consistenza e si ricarica: si ha tempo per contemplare il paesaggio, per camminare fra i boschi, sentire l’odore della terra. Si ha la percezione del vento che scorre fra i capelli, si 11 notano le farfalle, si osserva l’erba dei prati così uguale e così diversa, si avverte il rumore della ghiaia sotto i passi, il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle foglie, lo sguardo segue le nuvole che si rincorrono. È una vita bifronte, parsimoniosa e semplice, ma nello stesso tempo ricchissima, forse invidiabile. Si è assaliti da una valanga di pensieri che fanno riflettere e ci si sente immersi in una grande, secolare umanità. Piano piano ti tornano in mente le Laudi delle Creature di San Francesco, cerchi di ricordare le parole studiate a scuola… «Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi, con coloriti fiori et herba». Lasciamo Pra ’d Mill al tramonto e lentamente, scendendo i tornanti, ci rendiamo conto di quanta «vita» questa giornata ci ha donato. Non solo i prodotti in vendita sono gustosi, squisiti, di sapore genuino, veramente accattivanti. È soprattutto l’ospitalità ad essere data col cuore. *** Il materiale che costituisce questa «Parte prima» del lavoro, oltre ai §§ 1 e 3-10 della «Parte seconda», è stato ripreso dal sito citato in apertura col consenso del responsabile, padre Cesare Falletti, cui va un sentito grazie. Il § 2 della «Parte seconda» risulta invece da scansione elettronica di testo in fotocopia rilasciato dall’autore stesso al termine dell’incontro in cui è stato presentato. 12 Parte seconda Avvolti nella luce della Parola divenuta evento Meditazioni CESARE FALLETTI 1. Il Silenzio Torino Spiritualità 21 settembre 2006 Quale valore ha il silenzio nella vita spirituale cristiana? Solamente se si vive una dimensione di solitudine più o meno radicale è possibile accedere al silenzio? La testimonianza diretta dell’esperienza monastica e i testi della grande tradizione benedettina faranno da guida in una discussione sul significato cristiano del silenzio, tema cardine nella storia della spiritualità, ma anche fonte di una sapienza concreta e quotidianamente vissuta. Il tema che mi è stato richiesto è «Il silenzio». Quando ne ho parlato con amici, molti hanno commentato ironicamente sul fatto del parlare del silenzio, tanto che ho avuto la tentazione di passare con voi semplicemente un lungo tempo di silenzio, per scoprire quale lavoro compie in noi, lavoro spesso più in profondità della parola stessa. Ma forse è bene guardare il silenzio non solo come esperienza interiore di pace, di meditazione, di riflessione, ma, ed è quello che vorrei riuscire a fare, nella sua dimensione relazionale: il silenzio come relazione fra persone umane e in cammino di sempre maggiore umanizzazione. Il silenzio è certamente una mercanzia che ha acquistato valore, merce rara di cui, sentendone la mancanza, si scopre quanto è necessaria per la salute, fisica, psichica e spirituale. Non per nulla un film come Il grande silenzio ha riscosso un enorme successo, anche se dubito sia riuscito a passare il vero messaggio dei Certosini e che la massa abbia colto il significato del silenzio monastico vissuto con un tale assoluto. Resta il fatto che già il titolo prometteva qualcosa di cui si sente la necessità e la mancanza. La parola «silenzio», però, non è una parola dal significato chiaro e univoco: ha una grande varietà di significati e di interpretazioni: altro è, infatti, il silenzio del cristiano che prega, altro quello del monaco zen che medita; altro è il silenzio della natura, altro quello di un laboratorio di ricerca, altro quello del pensatore e altro quello dell’uomo umiliato e ridotto al silenzio; altro è il silenzio che fa correre il tempo fra due innamorati, altro è il lunghissimo e insopportabile silenzio del broncio. Non credo che il silenzio sia qualcosa per «addetti ai lavori», che abbia bisogno di particolari condizioni, o di una vita speciale, quale la vita monastica. Il silenzio è aiutato da tutto questo, ma non ha un grande significato se non è qualcosa che «lavora» il cuore, cioè la parte più personale di noi stessi. Se pensiamo al silenzio, lo colleghiamo immediatamente all’assenza di rumori esterni, balsamo in un mondo chiassoso, lo desideriamo come riposo; ma quando siamo in un luogo in cui si «sente il silenzio», non sempre siamo capaci di sopportarlo. Il mondo in cui viviamo è tale che rischia di farci sentire invisibili, anonimi, e il farsi sentire, dire, esprimersi, essere riconosciuti nelle proprie idee, qualunque valore esse abbiano, è diventata un’ambizione grande, un bisogno impellente. Lo testimoniano i numerosissimi programmi radiofonici che si basano sulle telefonate degli ascoltatori. 13 Se, dunque, da una parte si sente un grande bisogno di silenzio, dall’altra vi è ancor un maggior bisogno di parlare e di parlare ad alta voce, di farsi sentire e nel migliore dei casi di comunicare. Voglio, allora, classificare in tre punti quello che chiamerei «il silenzio positivo» e poi trattare anche di quello «negativo». 1. Innanzitutto ciò che il silenzio fa nascere in noi è la conoscenza di noi stessi; proprio perché spegne la nostra immagine, quel look che sembra farci esistere, essere qualcuno, visti, riconosciuti e possibilmente ammirati, siamo costretti a prendere coscienza di noi stessi e a vivere delle nostre proprie risorse. È un grosso lavoro, pesante, e spesso non facile da sopportare. Comporta una tentazione di fuga e di immersione in un rumore, in cui non ci sia più l’obbligo di essere veri, nudi, se stessi. La nudità dell’uomo può essere accolta soltanto nell’innocenza del bambino o nell’umiltà di chi crede nella forza della verità, che libera. Adamo (l’uomo), vistosi nudo, ha avuto paura e si è nascosto, si è vestito, cioè si è presentato con un’immagine di sé costruita, ma non autentica. L’umiltà è ciò che fa grande l’uomo perché lo libera dai complessi, di colpa o di grandezza, dal delirio di onnipotenza che si schianta continuamene con i limiti della natura umana, dalla paura dello sguardo degli altri e dalla dipendenza dal giudizio altrui. Nel silenzio, soprattutto in quello di fronte ad altri, più ancora che in quello del solitario, ci si consegna nella verità. La parola maschera, dice e presenta ciò che vogliamo dire, far sapere o far vedere, dirige lo sguardo altrui in settori «presentabili»; nella vulnerabilità del silenzio ho un solo difensore: Dio, o per lo meno la mia coscienza, che però accusa più spesso di quanto non difenda. Gesù stesso, che è detto la Parola - il Verbo -, al momento della Passione è stato in silenzio, totalmente consegnato nelle mani degli uomini e totalmente reso saldo dalla fiducia nel Padre. 2. In secondo luogo, il silenzio ci purifica: c’è un testo biblico, ripreso dalla Regola di San Benedetto, in cui si dice: «Nel molto parlare non eviterai il peccato», perché la parola trascina l’uomo ed è difficile dominare la lingua. San Giacomo nella sua Lettera: «Così anche la lingua: è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, ma la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,5-9). Il silenzio è un luogo in cui le passioni trovano una forza positiva; liberate dall’immediatezza, prendono una forma guidata dalla ragione e il cuore, la volontà, sceglie il meglio. Inoltre permette di prendere distanza dall’ambiente che condiziona e toglie la libertà di essere il meglio di se stessi. Nel silenzio l’uomo non diventa assente, indifferente al mondo che lo circonda, quasi sprezzante del chiacchiericcio che domina, delle mode che imperano, delle notizie che volteggiano, false come bolle di sapone. Il vero silenzio è attento, presente, ma libero. Posso dire del silenzio ciò che San Bernardo dice della «considerazione» (cioè di quella attenzione prudente - non timorosa, ma equilibrata - che occorre a chi governa, ma ogni uomo deve governare almeno se stesso! È un po’ ciò che la Bibbia dice del Saggio): «In primo luogo la considerazione purifica la sorgente stessa dalla quale prende origine, cioè la mente; regola poi le passioni, dirige le azioni, corregge le intemperanze, modera i costumi, conferisce dignità e ordine al comportamento, e da ultimo concede la scienza delle cose divine e umane. È sempre questa considerazione che dipana ciò che è intricato, mette freno alle cupidigie, raccoglie quello che è disperso, penetra nei segreti, indaga la verità, vaglia il verosimile, smaschera gli inganni e le finzioni. Essa ancora predispone le cose da fare, riflette su quelle fatte, in modo che nella mente non rimanga niente di 14 scorretto o da correggere. È essa infine che nella prosperità fa presagire la sventura e nelle avversità la fa quasi dimenticare, qualità che sono tipiche una della prudenza, l’altra della fortezza» (De cons. I,7). Per terminare questo punto voglio sottolineare un aspetto che troviamo nel Vangelo: Gesù è la Parola; raramente è presentato in silenzio. Il silenzio di Dio è terribile per l’uomo, ma quando l’uomo non ascolta, Dio non può parlare; pensiamo al silenzio davanti agli accusatori della donna adultera, davanti ad Erode, così superficiale e pieno di sé. Vi è dunque un silenzio che non è malvagità, ma è severità, un silenzio che non può donare perché nessuno tende le mani per ricevere. È un silenzio doloroso per colui che deve esercitarlo, perché brucia dal desiderio di donarsi, deve trattenersi per il rifiuto che gli si oppone. È un silenzio di attesa, non di condanna, pieno di fiducia e di speranza. 3. Per questo, in terzo luogo voglio parlare sul silenzio positivo che è quello dell’ascolto, apertura alla parola - e per un cristiano alla Parola. È accoglienza dell’altro, senza tentativo di ridurlo a sé, cosa che permette di crescere, perché l’ascolto ci colma di nuove ricchezze, mette in noi una novità che non possiamo generare da soli. La parola è un seme che, caduto in terra, comincia a lavorare. Seguendo la parabola evangelica, essa può cadere su un terreno senza profondità, un terreno senza silenzio e trovare una rapido eco, senza verità né consistenza. È tutto il mondo del pettegolezzo, delle notizie non controllate, della maldicenza. La parola fa sempre un cammino: «Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale» - dice, mi sembra, Metastasio; la mancanza di accoglienza della parola nel silenzio la fa lievitare nella falsità, ma le dà poco tempo di vita. L’ascolto silenzioso permette di giudicare, vagliare e cogliere il vero significato della parola e anche di scegliere liberamente se aderire o no. Credo che nel cristianesimo il silenzio per l’ascolto, e non fine a se stesso o per una certa purificazione della mente, sia qualcosa di molto importante. Il cristianesimo è una fede che mette in relazione, un cammino di comunione che parte dall’ascolto e arriva alla visione. Nel tempo presente c’è solo l’ascolto, la visione sarà dopo la Risurrezione. Ora non ci può essere ascolto che conduce alla comunione senza silenzio, né per la comunione con Dio, né per quella fra persone umane e neppure per quella forma di comunione, di ben di altro genere, che possiamo avere con il creato, che è cosa buona e bella e che ci è stato dato perché potessimo crescere come persone realizzate nell’ascolto e nella contemplazione anche della natura. Non dimentichiamo però che questo aspetto è ben secondario di fronte alla comunione interpersonale, che è anche un modo privilegiato sulla terra per entrare in comunione con Dio. Il silenzio permette di vedere l’altro, lasciarlo esistere altro da noi, dargli quella libertà che il suo essere persona esige. Senza silenzio davanti a sé si ha solamente uno specchio, perché l’«io» si proietta sempre in avanti e fa da schermo all’autentica visione dell’altro. Il silenzio in questo è povertà, rinuncia di dominare, di controllare, di dirigere; è l’antidoto al delirio di onnipotenza che sta sempre in agguato in fondo al nostro cuore. Questa è la vera umiltà: accettazione di essere e di non apparire altro attraverso parole che mi «presentano», mi mettono in luce, mi fanno prevalere, ma mascherano la mia bellezza, la truccano come il volto di un attore. In questa linea possiamo comprendere come esiste un silenzio che è parola e una parola che è silenzio, cioè tutte quelle parole che permettono e aiutano l’altro a crescere, a fargli trovare di fronte a me e agli altri la sua vera dimensione. La parola che aiuta è silenzio, come quella che incoraggia o che istruisce, perché nasce da un vero ascolto ed è concavo, cioè accogliente. Ugualmente il silenzio che permette all’altro di essere vero e di crescere è parola. Per dare una breve, e per forza troppo sintetica definizione, direi che il vero silenzio è la parola giusta, detta e ascoltata, perché una relazione interpersonale se è senza parola è senza comunicazione e se è senza comunicazione è senza relazione, cosa che distrugge la persona umana e per un cristiano distrugge la comunione fraterna e quindi con Dio, che è vita dell’uomo. 15 Esiste anche un silenzio negativo che, se pur non fa rumore, fa chiasso e ferisce la relazione. Innanzitutto ogni chiusura in sé o blocco di contatto, quali possono essere il broncio, il rancore, il disprezzo. Invece di far esistere l’altro lo si annulla, lo si devisualizza, lo si esclude, lo si combatte, lo si uccide, forse non fisicamente, ma senza offrirgli la pace. È purtroppo un silenzio frequente e che rende il clima pesante, assordante, picchia sulle tempie dell’uomo. Tale silenzio costruisce un muro intorno alla persona che lo vive, lo richiude in una fortezza che lo illude di vivere in un mondo libero, mentre la libertà è al di fuori, nella verità dell’incontro e, se è il caso, del perdono. Ci sono poi i silenzi che escludono il piccolo, il povero, il forestiero; quei silenzi che appaiono all’improvviso quando un estraneo o una persona non desiderata appare. Anche in questo caso si interrompe la comunione, senza crearla fra coloro che sembrano allearsi. Ogni esclusione, se non per motivo di vera prudenza, è rottura di comunione non solo con un terzo, ma fra i due che sembrano essere d’accordo, perché la comunione è circolare come la Trinità e non è mai ridotta a un vis-à-vis. Parola e silenzio non sono opposti, ma sono al servizio l’una dell’altro; si completano e danno una pienezza alla relazione interpersonale. Altra è invece l’opposizione fra il silenzio e la curiosità, che non è un rispetto del silenzio, ma una violazione di esso. Il desiderio di conoscere e di sapere immette nell’uomo un giusto interrogativo, che favorisce la conoscenza e la comunione; la curiosità è rapina di qualcosa su cui non si ha diritto, è voler possedere ciò che non compete, spesso un segreto, la cui privatezza è un diritto dell’uomo. Questo, infatti, non contraddice la comunione, anzi la esalta, perché permette all’uomo, grazie alla virtù della prudenza, di non caricare un peso ingiustificato sull’altro. Il segreto è vero silenzio quando rispetta la giustizia o quando si carica nella carità di un peso che potrebbe schiacciare un’altra persona o ledere i diritti di qualcuno. Tali sono i segreti detti professionali. Il silenzio è la sorgente della pace del cuore: l’uomo arrogante, ed è il più diffuso e peggior male dell’uomo, parla ad alta voce, moltiplica le parole, si agita e si innervosisce se non è ascoltato, ha un cuore sempre inquieto e mai stabile. L’uomo umile e portatore di pace non ha bisogno di alzare la voce, sa che ogni sua parola e ancor più il suo silenzio comunica, mette in comunione lasciando liberi di accettare o no il suo dono. Non si stupisce se non è ascoltato, non si inquieta se non gli si dà ragione. Il suo cuore è fisso nella solidità dell’amore di Dio. Per concludere voglio citare un testo del Vangelo di Matteo su Gesù: «Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti» (Mt 12,19-21). 2. Il Silenzio - Ascolto della Parola Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo Torino, 28 marzo 2007 La Regola di San Benedetto comincia con la parola «Ascolta». Non è solo una parola pronunciata tanto per cominciare un discorso o consegnare una serie di imposizioni, regole, modi di fare. È una parola importante, scelta con cura, per creare un clima, dare una luce, indirizzare una vita. Certo, «Ascolta» può voler dire: «Obbedisci»; e quindi creare un clima di passività, di esecuzione non intelligente di fronte a un potere che vuole imporsi, a una necessità di ordine sociale o semplicemente comune che non tiene conto del singolo e in fin dei conti fa entrare in un mondo disumanizzato. Ma non è certo questo lo scopo di Benedetto. Dicendo «Ascolta» egli vuole mettere in relazione più persone, far sì che ci sia una comunicazione in vista di una comunione. Il maestro chiede di essere ascoltato, perché 16 non vuole imporsi. Chi parla, nella Regola si autodefinisce «il Padre che ti ama», oppure si può credere che sia qualcuno che parla ed invita ad ascoltare il «Padre Dio» che ci ama. L’ascolto è dunque la risposta non ad un’imposizione, ad un ordine imperioso, ma ad un amore che si offre e che domanda una risposta di amore e non di esecuzione passiva. Penso che sia questo clima di comunicazione in vista di una comunione nell’amore che ha fatto sì che tutta la Regola fosse sempre letta come un discorso spirituale e non legislativo ed abbia superato i secoli nutrendo la spiritualità non solo dei monaci, ma di tutta la Chiesa e ancora oggi sorprenda per la sua capacità di far respirare, tanto che sempre anche molti gruppi di laici o singole persone ne fanno il loro faro di vita spirituale. San Benedetto è, però, anche iconograficamente rappresentato molto spesso con un atteggiamento severo e col dito sulla bocca, come per imporre il silenzio. Le due cose vanno insieme. Nell’intestazione del film Il grande silenzio c’è una frase molto forte: «Solo in completo silenzio si comincia ad ascoltare, solo quando il linguaggio scompare si comincia a vedere». Se la parola «Ascolta» ha un ampio significato e crea un clima, anche la parola «silenzio» va letta e spiegata in modo da non essere fraintesa. Il silenzio ha un vero significato solo se è unito all’ascolto, se è per l’ascolto, cioè per la relazione fra due o più persone; e l’ascolto è vero solo se è nel cuore di un vero silenzio, non di un mutismo sterile e chiuso in se stesso, o indifferente e menefreghista, o altezzoso e sprezzante, o offeso e imbronciato, ma tutto teso all’accoglienza, alla risposta, alla sete di ricevere per essere in comunicazione. Infatti se l’ascolto è in vista della comunicazione, anche il silenzio deve esserlo. «Solo in completo silenzio si comincia ad ascoltare», cioè solo quando smettiamo di proiettare i nostri ragionamenti, le nostre idee e aspettative, o solo quando le nostre parole non fanno barriera contro il presentarsi e l’avvicinarsi dell’altro, il nostro orecchio può ricevere una parola e trasmetterla al cuore, e si apre la strada a una profonda accoglienza e comprensione, alla volontà di bene che ci permette di entrare in comunione con qualcuno. Certo, il silenzio non è solo questione di suoni e si può essere silenziosi nel caos di una città e chiassosi nel silenzio del deserto. Così come ci sono dei silenzi chiassosi, quando il nostro cuore è in rivolta e i nostri gesti nervosi, violenti, incapaci di fare attenzione ai presenti e delle parole che aiutano a vivere il silenzio, a scendere là dove il cuore ha un orecchio che ascolta. Ma quel titolo dice di più: «solo quando il linguaggio scompare si comincia a vedere». Naturalmente non si parla della capacità visiva, ma di uno sguardo che può accogliere la persona così com’è, senza lenti deformanti a proprio uso e consumo, uno sguardo intelligente che scopre la realtà profonda, smaschera l’appariscente superficialità e svela il senso profondo delle cose: ci fa vedere l’uomo nella sua vera dimensione, nel suo bisogno di noi e nella sua ricchezza che può venirci offerta. Infatti il silenzio ci rende poveri, quasi senza diritti, mentre il linguaggio è una ricchezza che gestiamo e con cui rischiamo sempre di manipolare la realtà e soprattutto coloro che incontriamo. Il silenzio è dunque per una comunicazione libera e liberante in vista di una comunione, cioè di un’accoglienza reciproca che tende verso un’unica meta, che mette in comune i desideri che possono essere differenti, ma che si integrano, si aiutano e si stimolano a vicenda. Nel silenzio si esercita un’attenzione profonda all’essere dell’altro o degli altri, più che interessarsi al loro fare, alla loro efficienza o ad altri valori che sono sempre secondari di fronte all’essere e a quell’amicizia che scaturisce da un rapporto non interessato, non manipolante, gratuito, libero e spontaneo. 17 La prima attenzione silenziosa e accogliente è per la presenza di Dio. Nulla può essere importante più o come Lui, anche se questo non si traduce per forza in termini di tempo o di sentimento. Davanti a Dio il primo modo di stare è il silenzio. Questo silenzio può avere molte sfumature: la meraviglia e lo stupore, il timore o lo sgomento, l’adorazione o la rivolta. Ma non è un silenzio senza contatto, fine a se stesso, uno di quei silenzi che sembrano portare la pace all’anima, ma invece la chiudono in se stessa, in un proprio benessere egoista, nella sterilità dell’egocentrismo. L’altro non può mai scomparire dall’orizzonte cristiano, né il povero, né il fratello, né tanto meno Dio. Davanti a Lui il silenzio è attenzione ed ascolto. Il cristiano conosce la Parola di Dio e mai può cercare un silenzio che tenti di farla tacere. Non c’è nulla di più importante e di più urgente che l’ascolto della Parola di Dio: essa crea e salva, illumina e istruisce, cambia il cuore e la vita. L’uomo sta in silenzio e lavora il suo cuore perché sia silenzioso, affinché la Parola prenda il posto di tanti ragionamenti, discorsi, polemiche, giudizi o rifiuti che apertamente o sottilmente invadono il campo. Silenzio perché la Parola risuoni libera e trasfiguri l’uomo. Si dice «ascoltare il silenzio», ma nel cuore del silenzio deve sgorgare una Parola di Dio, altrimenti rinneghiamo la nostra stessa vita, che in ogni istante è detta da Dio, con una Parola creatrice e redentrice. «Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa», dice il Salmo. Anche se talvolta non ce ne accorgiamo, noi abbiamo sete della Parola di Dio, perché abbiamo sete di vita, di verità, di parole chiare, di orientamento; abbiamo bisogno che qualcuno ci dica che non siamo persi, che tutto non è assurdo, che siamo preziosi e che siamo amati. Abbiamo bisogno di un senso. Ascoltare in silenzio la Parola di Dio, farla risuonare nella nostra memoria non soffocandola con le nostre parole o ragionamenti, è lasciarsi penetrare da qualcuno più che da qualche cosa. «Il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi», in noi; questa Parola ci abita e non siamo più soli. Il silenzio fa lievitare la Parola e la fa crescere fino alla sua piena misura. Nel silenzio noi ci confrontiamo con essa, non per essere giudicati, ma per essere salvati. La seconda attenzione silenziosa e accogliente è alla realtà in cui viviamo. Siamo sempre tentati di pensare e di voler vivere in un mondo irreale, di cercare ciò che non può esistere, o per lo meno che non ci è dato, pretendendo essere ciò che non siamo, in un ambiente in cui gli altri non sono coloro che sono. Viviamo con i verbi servili al condizionale: vorrei, dovrebbe essere, potrei, farei, con dei «se» immaginari e spesso colpevolizzanti. Il silenzio ci permette e ci costringe a smettere di recitare una parte per accogliere ciò che è vero: io, gli altri, la situazione; ciò che succede, ciò che è così com’è. Questo non impedisce di voler cambiare le cose, cercare il bene dove sembra non esserci, correggere certe tendenze, ecc. Ma solo nel silenzio accogliente della realtà cominciamo a trovare la pace, a non accettare di essere divisi fra il sogno e la realtà, fra la nostra volontà, che è spesso capriccio, e ciò che può essere e deve essere, oppure non deve essere e ci poniamo di fronte al dovere di agire. Il silenzio ci rende vulnerabili alla realtà, ma ci permette anche di gustarla e di scoprire una bellezza che non potevamo supporre. Ciò che è, anche nelle eventuali brutture del suo essere, porta sempre una scintilla di luce e solo nel silenzio possiamo tirarla fuori dall’involucro di sporcizia o dal groviglio di cattiveria in cui ci è presentato. Accanto al silenzio che accoglie la realtà c’è quello che accoglie gli altri, ognuno in particolare. Silenzio di ascolto, di sguardo che non squadra e non investiga per criticare, o per cambiare, ma innanzitutto per meravigliarsi di ciò che l’altro è e capire cosa può essere secondo le sue capacità o le sue tendenze e non secondo i nostri progetti. Accogliere con un silenzio profondo e aperto l’altro è riconoscerlo come un essere unico, prezioso agli occhi di Dio e nostri, lasciarlo essere dapprima così com’è attendendo la stessa cosa da parte sua nei nostri confronti e solo in seguito, in caso opportuno, aiutarlo ad evolvere, cambiare, rispondere a delle aspettative. Il silenzio ci aiuta entrambi 18 a porci liberamente e a non dover usare armi tanto usate come quella dell’arroganza, della maschera, dell’aggressività. Il silenzio è infatti disarmante e nel silenzio si è vulnerabili, ma si rimane forti; vulnerabili perché il silenzio non è una difesa ed accoglie; forti perché si tiene in mano la situazione, proprio perché si è colui che accoglie in casa sua. Il silenzio è anche necessario per «coprire una moltitudine di peccati». Il libro del Siracide dice all’uomo che ha visto qualcosa che è bene taccia e che stia pur certo non lo farà scoppiare… Soffocare in sé quell’istinto che ci porta a divulgare tutte le notizie, i fatterelli, le cose viste e non viste, come se avessimo un irrefrenabile bisogno di parlare. La carità invece copre una moltitudine di peccati, nel doppio senso che col silenzio non punta il dito, ma ricopre di misericordia (non di complicità, per cui è una misericordia attiva) il peccatore, senza spargere tutto dappertutto, e del fatto che chi ha la carità vede il suo peccato essere nascosto agli occhi di Dio, cioè Dio non ne tiene conto. Il silenzio in tal modo diventa una misericordia, che accoglie e ascolta la povertà del peccatore e crea un clima che lo aiuta a convertirsi. Il silenzio di fronte agli altri è anche rispetto: non sappiamo cosa vive il nostro prossimo e sommergerlo con le nostre parole, le nostre risate invadenti e aggressive, i nostri gesti agitati e prepotenti può schiacciarlo, distruggerlo. Ogni uomo è un vaso fragile di cristallo o d’argilla, poco importa. Il silenzio lo porta con cura, prudenza e delicatezza nel cammino comune. Silenzio con gli altri vuol dire naturalmente parola giusta, appropriata e in tempo opportuno. Perché l’ascolto non è cosa passiva, ma stimolante. Se è cedere il posto all’altro, non è scomparire o rimanere passivo, come una mummia. Ogni comunione è dialogo. Accanto all’accoglienza degli altri c’è anche l’accoglienza di se stessi. In silenzio sotto lo sguardo di Dio rischiamo di aver paura delle nostre fragilità, ma disarmati, non volendo comprare Dio con una moltitudine di parole, attendiamo la salvezza. «È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. È bene per l’uomo portare il giogo fin dalla giovinezza. Sieda costui solitario e resti in silenzio, poiché egli glielo ha imposto; cacci nella polvere la bocca, forse c’è ancora speranza» (Lam 3,26-29). In questo libro disperato non sono le parole a consolare, ma il silenzio fa rientrare in se stessi e di fronte al disfacimento della società e della vita, nel ritorno in se stessi, nasce la speranza. L’ascolto silenzioso ci pone anche di fronte alla legge, agli usi e costumi del nostro mondo, al fare che ci circonda, non come dei trascinati da un movimento che travolge, ma come presenti liberamente. Viviamo in una società, buona o cattiva che sia, con le sue bellezze e le sue magagne, non siamo nel migliore dei mondi possibili, ma siamo nell’unico mondo che c’è. Da questa società noi non possiamo prendere distanza, ma neppure dobbiamo perdere la nostra libertà. Non è questione di conformarsi a questo mondo, come direbbe San Paolo, ma di amarlo, di non condannarlo, anzi di posare su di esso uno sguardo salvatore, come quello di Gesù sulle folle, su Gerusalemme, sulle varie persone tanto differenti che si presentavano a Lui. Non possiamo vivere liberamente se ci lasciamo trascinare dalle chiacchiere, dalle mode, dai vocii e dalle urla. I media ci presentano un mondo che in qualche modo dobbiamo amare e per amarlo dobbiamo cercare di vederlo nella sua verità, oltre gli scoop, oltre le notizie ad effetto, oltre le battaglie ideologiche e le lotte di potere mascherate in campagne etiche, sociali, economiche o di qualsiasi genere. Lo sguardo sul mondo e sulla storia è uno sguardo silenzioso, perché solo nel silenzio si riesce ad avere uno sguardo libero e salvatore. Nessuno ci chiede di vivere diversamente, di mostrare una originalità che ci porterebbe all’orgoglio. Gesù nel suo lungo silenzio di Nazareth ha vissuto come un cittadino qualunque. È il silenzio che dà il peso giusto alle nostre azioni e che ci permette di ascoltare le istanze vere e urgenti che alzano la voce o sussurrano nel chiasso del mondo. E nel silenzio diventiamo capaci di vedere cosa c’è di valido, quali sono le priorità, dove troviamo la verità. 19 Nel silenzio e solo in esso udiamo il grido dei poveri, strumentalizzato in tante maniere e con tanto chiasso. E quando il povero grida, «Dio lo ascolta», dice il Salmo. Non dobbiamo fare diversamente. Quando pensiamo al silenzio, la nostra fantasia rischia di correre ad un paesaggio idilliaco, in cui nulla disturba, in cui la pace dell’ambiente ci porta benessere e dove si trova quella distensione che lo stress quotidiano ci ruba. Certo occorre anche questo tipo di silenzio, come medicina dell’anima e del corpo. Ma il silenzio, quello vero, è altro: non è per quei privilegiati che possono evadere, né per chi cerca un’evasione rifugiandosi in energie benefiche. Il cristiano sa che dove non si è finalizzati alla carità non c’è Dio. E non serve a nulla avere un cuore che si dilata in un amore universale se non si sa amare il prossimo, come non serve correre ed essere onnipresente nelle cose benefiche o negli impegni sociali per dire che si ama Dio. Il silenzio ci fa scendere nel profondo e mettere radici nell’immobilità di Dio. Siamo ancorati solidamente in mezzo alle bufere della vita e se la superficie sembra scossa e turbata, il fondo del cuore rimane nella pace. Stralci di risposte dalla conversazione conclusiva ♦ Nella Bibbia c’è l’umile coscienza di non poter vedere Dio. Si aspira a vederlo, ma non c’è la visione. ♦ Il diavolo si riveste di luce. Dicono però i monaci: «Il diavolo fa tanto rumore, ma non ha pazienza e dunque scappa presto». ♦ Il silenzio di Cristo nei trent’anni di Nazareth lo portò a lievitare verso la Parola. Cristo è la Parola e rari sono i suoi silenzi: per lo più davanti a chi non è disposto a ricevere la Parola. ♦ Il cattivo silenzio: il muro, il muso, il muto. Il muro: la chiusura dentro una torre. Il muso: il broncio, il dopo litigata, ma è un silenzio che si scioglie da solo. Il muto: l’indifferenza. ♦ Il silenzio positivo: è per esempio quello della mamma che ascolta un discorso insensato del proprio bambino, un discorso che in quanto tale non regge, ma lasciandolo esprimere lo fa crescere e lo aiuta nella crescita. ♦ Il silenzio che lascia parlare l’altro, in contrapposizione al linguaggio che fagocita l’altro, la realtà e le situazioni… ♦ Il silenzio nel silenzio, il silenzio nell’abisso, il silenzio senza risposte… 3. Riflessioni sull’Eucaristia L’Eucaristia è il nostro cammino insieme verso il Regno, cammino di Chiesa e cammino col Cristo. Cammino verso l’Eucaristia che è porta del Regno, cammino dalla delusione alla Speranza perché il Cristo è risorto, cammino di dialogo con Dio che conduce alla pace con Lui e i fratelli. L’Eucaristia è dunque viatico, pane per il cammino, compagno di viaggio ed insieme viaggio; perché è il Dio con noi fino alla fine del mondo, come ci assicura la promessa del Risorto. Ma non è solo viaggio verso, è anche meta già raggiunta, segno del nostro essere già nel compimento, anche se non ancora i nostri sensi lo percepiscono. Come ogni sacramento, pur essendo una misericordia per la nostra 20 sensibilità, è anche un dono avvolto nel mistero: è grande il mistero della fede! E, come dicevano gli antichi, bisogna avvicinarsi tremando. L’amore per l’Eucaristia non deve permetterci una disinvoltura inopportuna e ingiusta. Il timore nell’avvicinarsi al grande mistero non è distanza, sospetto o timidezza, non è paura che ci allontana o ci raffredda, ma è verità: siamo chiamati a qualcosa che è infinitamente più grande di noi, che è pura grazia e solo grazie alla misericordia infinita possiamo avvicinarci con audacia (parresia) al sacramento. E nello stesso tempo non possiamo dimenticare che è il sacramento, la realtà, il grande avvenimento, del Dio trascendente nelle nostre mani! Grande è il mistero della fede e verso di esso avanziamo recandoci verso l’assemblea, la riunione, in un sýnodos che piano piano ci raccoglie tutti come fratelli in una sola casa, intorno alla mensa dello stesso Padre. Per ogni Eucaristia c’è un cammino per avvicinarsi alla Chiesa, in ogni Eucaristia c’è il momento penitenziale all’inizio: tutto è per toglierci di dosso ciò che ci separa - «anatema» - da Dio e dai fratelli. I gesti fisici di avvicinamento sono accompagnati da un cammino interiore; questo andare verso uno stesso punto mentre insieme si crea un’unità importante. Troppo spesso sottovalutiamo questi segni esteriori che sono attivi e lavorano in favore della vita spirituale. Come dice la Didaké, parlando dei grani dispersi sui colli e raccolti per fare un Pane unico, così la convergenza verso la Chiesa e verso l’unico altare lavora in favore dell’unità dei cristiani, unità non solo giuridica, ma soprattutto di fede e di cuore. Di questo dobbiamo anche tener conto quando pensiamo all’importanza della Messa domenicale. In ogni caso nell’Eucaristia ci rendiamo chiaramente conto che unità col Cristo e con i fratelli sono una sola cosa e che quel Pane posto sull’altare e che si irraggia, donandosi, è su tutti sorgente e culmine anche di tutto lo sforzo, la fatica dell’uomo per vivere da fratello con i suoi consimili, oltre che culmine e sorgente di tutta la vita di preghiera, cioè dello stare e avanzare verso la presenza del Dio vivificante. Cammino dunque che ci fa convergere verso un’unità, che insieme a tutti i nostri sforzi è anche misericordia e perdono, perché la divisione è peccato. L’Eucaristia comincia, dunque, con un cammino spirituale e fisico che ci raduna in assemblea, in comunione fraterna, grazie all’attrazione dell’Eucaristia stessa. Ma già in questa fase, che sembra solamente preparatoria, siamo avvolti nel mistero dell’epiclesi e della discesa dello Spirito che ci conduce, magari attraverso il deserto e le tentazioni, verso la Pasqua che celebriamo per fare di noi una Pasqua. L’opera dello Spirito, prima ancora di darci il Pane vivo dell’altare, è quella di unirci e purificarci e lavarci (bagnarci) perché noi stessi diventiamo un pane unico, ben impastato e pronto ad essere offerto. Lo Spirito ci dà la Parola, attraverso il servizio fedele della Chiesa. Questa, che ha invocato lo Spirito del perdono per riunire dei figli viventi in un sol cuore e un’anima sola, spinta dallo stesso Spirito ci dà la Parola, che ascoltiamo per diventare, uniti alla Parola Incarnata, noi stessi il pane dell’offerta gradita al Padre. È il mistero dell’Annunciazione che si rinnova continuamente: la Figlia di Sion in preghiera accoglie la Parola perché in lei e con lei questa diventi Eucaristia, unione fra il Verbo e l’umanità. Ogni momento è dunque dinamico, cammino e incontro, passaggio pasquale verso la vita. Come in Maria, terra e cielo sono uniti in una sola adorazione del Padre. Nell’Eucaristia tutto è uno: l’Eterno Creatore e le Creature contingenti, il cielo e la terra, gli esseri visibili e gli invisibili; tutto confluisce in un’unità che è gloria di Dio e vita degli uomini. I cinque sensi si uniscono all’intelletto e al cuore, la bellezza artistica alla purezza del cuore, il gesto significativo all’intuizione e alla proclamazione della verità, il peccato, gli angeli, i vivi e i morti; l’Eucaristia è la grande presenza, non solo silenziosa di Dio che si dà all’uomo, ma di tutta la creazione davanti al Creatore. L’Agnello che toglie il peccato del mondo lo porta nell’Eucaristia: per distruggerlo nell’atto unico e sempre presente della distruzione della propria carne e nella sua glorificazione. L’ascolto di Maria ha permesso l’Incarnazione del Verbo, opera dello Spirito, l’ascolto della Parola e l’offerta della terra ci introducono nei misteri. Il Corpo glorificato dalla Pasqua del Verbo, morto per amore per noi e risorto in questo stesso amore è presente; non solo ci riunisce, ma ci porta al Padre, portando via il peccato, cioè distruggendo il muro che ci separava dalla vita. L’Eucaristia è un fuoco più ardente della fiamma della 21 spada dei cherubini messi alla porta dell’Eden, e la distrugge, perché l’Amore è la giustizia di Dio, ed è più forte della giustizia a cui possiamo arrivare con il nostro senso della misura delle cose. A questo fuoco ci uniamo, perché Lui stesso si pone sulle nostre mani e sulle nostre labbra, e nel mistero diventiamo noi stessi fuoco, capaci di comunicare in modo nuovo con quanti contattiamo. Diventiamo teofori molto al di là delle nostre capacità. Non siamo più noi che agiamo e viviamo e che gli altri incontrano, ma in noi vive e opera l’incandescenza della divinità che vuole darsi. È ben poco pensare che Dio si è dato a me e che ora posso vivere in grande intimità con Lui. Perché divento portatore di un mistero di presenza divina che trabocca dai miei limiti e si versa sul mondo intero. Il «sinodo» intrapreso coi fratelli diventa fuoco avvolgente l’umanità intera. Nella comunione non succede nulla di meno; e tutti i miei limiti non possono impedire alla violenza dell’amore divino di versarsi come una cascata ben più potente del Niagara. È ciò che è successo nella Risurrezione del Corpo di Gesù, che ha trasfigurato tutta la creazione. «Andate... insegnate... Io sono con voi tutti i giorni»: questa Parola pasquale è l’invio della Chiesa verso la missione, è una Parola che ci abita, che ci dà il nostro volto, il senso della nostra esistenza, la vera dimensione della nostra personalità. Ci lancia ben al di là di quanto vorremmo fare o vivere, strappandoci dalle nostre paure e timidezze. Sappiamo che l’Eucaristia, che rimane in mezzo a noi, ci è data da adorare […] per portarci nel cuore del mondo dove Dio agisce, attraverso la nostra opera e ancor più vastamente attraverso la nostra preghiera. Stare lì, in adorazione, è una missione immensa, un viaggio che ci porta lontano dal nostro comodo, dalle nostre sicurezze personali. Ci pone nel cuore del fuoco che coinvolge nella sua dinamica tutto ciò che incontra. Adorare l’Eucaristia è vivere la missione del Cristo, Pane spezzato per la salvezza del mondo; non si può stare con Lui senza andare con Lui. […] L’Eucaristia: un mistero in cui dobbiamo immergerci pieni di gioioso stupore. 4. La Confessione Parlare della Confessione oggi è toccare un argomento che contemporaneamente crea difficoltà ed attira. La «pratica» di questo sacramento è molto cambiata; se da una parte non usa più confessarsi per routine, o perché «serve per l’acquisto delle indulgenze» (ed allora si faceva ogni quindici giorni), dall’altra se ne sente il bisogno, ma non è mai il momento, non si trova il tempo, non si riesce a darsi una ragione valida per doverlo fare. Si aggiunge a questo il fatto che il confessore, oggi più di una volta, è ricercato anche per un dialogo umano e spesso uno sconosciuto «non dice niente» e in più i preti sono sempre di meno. Cominciamo allora a chiederci cos’è questo sacramento, di cosa è il segno reale ed efficace, per capire cosa è importante vivere in esso e dunque anche «come farlo». Un sacramento è sempre una realtà umana, espressa in modo umano e semplice, senza riti misterici o magici, che ci porta ad un incontro con Dio. Certo occorre anche avere un significato per i segni e occorre riceverli con un atto di fede, sapendo che, come per incontrarci e salvarci Dio ha scelto la via dell’Incarnazione, così per farci ottenere la sua grazia Egli sceglie dei segni e dei mezzi che parlano all’uomo. Ora, nel sacramento della Riconciliazione, quale è il significato? Quando la si chiamava, e la si chiama ancora, «Confessione», l’impressione era, e può essere ancora, che la cosa importante sia dire i peccati e se ne è fatta perfino una mistica dell’umiltà, quasi a dire «mi umilio e sono perdonato». Questo è un modo per mettere al centro l’uomo e il suo operare, mentre in tutta la nostra fede è Dio che è al centro e che opera per primo. La Riconciliazione è innanzitutto un atto liturgico, anche se è celebrata al di fuori di uno spazio sacro, fra due sole persone, e senza una forma molto fissa. 22 In quanto tale è una celebrazione: celebrazione della gloria di Dio che si manifesta nella sua infinita misericordia. Andarsi a confessare è celebrare e, dunque, pregare e lodare Dio perché è buono, perché eterna è la sua misericordia. D’altra parte in latino il verbo che si traduce con confessare significa anche riconoscere pubblicamente. Il Credo è una confessione della fede. La prima cosa dunque alla quale bisogna prestare attenzione è questo riconoscimento della bontà del Signore, che celebriamo con un rito, per semplice e informale che sia. E questo rito, questa «Confessione», opera realmente in me, come ogni sacramento, una grazia che mi santifica, mi cambia, restaurando in me l’immagine di Dio. Perché lodo il Signore? Perché nonostante quello che ho fatto, la discordanza del mio comportamento, la lontananza del mio cuore da Dio, Egli mi precede offrendomi il perdono, dicendomi che per Lui è più importante la comunione con me che una rigida giustizia, che il suo stesso onore, che la necessità di riparare. Da una parte dunque è necessario che io riconosca che sono diventato dissimile, per mia responsabilità o anche per la sola fragilità umana, perché altrimenti non si capirebbe perché ringrazio, ma dall’altra celebro un sacramento con un atto di fede dicendo: l’amore di Dio è più grande del mio peccato che sparisce come nebbia al sole se con la mia volontà lo pongo davanti al Signore, o, meglio, acconsento che Dio lo perdoni. Posso fare questo solamente con un atto di fede circa il fatto che, quando chiedo perdono, Dio mi ha già perdonato, mi ha preceduto, perché altrimenti non potrei assolutamente fare un tale passo, che mi santifica e mi restaura nella intimità divina. È dunque importante saper dire i propri peccati per riconoscere che Dio non ama l’ideale di uomo che non sono, ma ama proprio me con la mia fragilità, la mia cattiveria, le mie ambiguità, la mia drammatica dissomiglianza dal Creatore, ma anche dalla creatura come l’ha voluta il Creatore. A questa creatura Dio non dice «mi hai deluso», ma «rialzati e cammina». Ancor più importante è celebrare con tutto il cuore la grandezza dell’amore divino che mi aspetta sulla porta, anzi esce dalla casa per venirmi incontro, abbracciarmi e dire «rivestitelo dell’abito di festa». Questo avviene prima del sacramento, e allora perché dover andare da un uomo e non porre semplicemente un atto di fede e di lode nel proprio cuore? Bisogna ricordare il perché dei sacramenti, di questi gesti umani con cui Dio tocca l’uomo, come i gesti di guarigione operati da Gesù. E così anche il perdono deve essere detto con parole umane, ascoltato e accolto da orecchie di uomo, occorrono gesti umani come l’andare, l’incontrare, il parlarsi. Se sono già perdonato, questo è da parte di Dio. Se vado a confessarmi è perché io devo dire, con gesti miei, che accolgo, acconsento al perdono. Mi sembra però che ci sia un’altra ragione molto importante per la presenza di un altro uomo in questo meraviglioso incontro fra Dio Salvatore e l’uomo peccatore: ogni gesto umano ha una profonda ripercussione su tutta l’umanità. L’unica natura che ci unisce ci rende tutti solidali. Per questo Dio incarnandosi ci ha salvati tutti. «Ogni anima che si eleva, eleva il mondo». E così ogni anima che si abbassa, abbassa il «tasso di carità» che impregna tutti gli uomini, abbassa il mondo. Di ogni nostro gesto siamo responsabili davanti ai nostri fratelli. Ma come essere perdonati da tutti coloro che abbiamo ferito, quando tanto spesso (pensiamo alla maldicenza) non possiamo neanche riparare materialmente il male fatto? Anche se chiedessimo perdono a tutti coloro che incontriamo non potremmo mai essere totalmente perdonati. La Chiesa si fa carico di questo dramma del peccato, e, mandata dall’Onnipotente, l’unico che può veramente riparare il male che abbiamo fatto, annuncia efficacemente il perdono, non solo di Dio, ma anche degli uomini. Il prete è mandato a portare questo annuncio. Nulla è irreparabile, e il mio essere perdonato, il ricevere la grazia della Misericordia divina, guarisce, in modo misterioso pur se non tangibile, anche le ferite che ho inflitto agli altri. E allora cosa dire? Cosa confessare? Il mio peccato vero non lo conosco neppure io. Il vero unico peccato è non essere come Gesù, il Figlio diletto, adoratore perfetto del Padre. 23 A volte questo «fondo di peccato» che è in me appare in un fatto evidente, allora so cosa dire; altre volte, la mia imperfezione non è dicibile se non con parole ripetitive e banali. Queste non sono da disprezzare: come per la preghiera, le parole veicolano l’indicibile. Non posso dire il mio peccato, allora dico i miei peccati. Gravi o leggeri che siano. Perché neppure io so se sono gravi o leggeri. Il mio rapporto con Dio e l’importanza della carità verso gli uomini sono tali che nessuna colpa è leggera e nello stesso tempo la mia debolezza è tale che sembra che nessuna colpa sia veramente grande. Occorre vivere con semplicità, dunque. Stando ben attenti a non cadere negli scrupoli. E lodare Dio perché è Lui ad essere importante e non noi, ciò che fa Lui e non ciò che facciamo noi! 5. Contemplare la Passione «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante» (Qo 3,2), un tempo per agire e uno per contemplare, possiamo aggiungere. Siamo giunti alla fine del tempo della Quaresima: tempo «attivo» per cristiani in quanto è il tempo del cammino della conversione, il tempo dell’accelerazione, della corsa alla santità, il tempo del darsi da fare per cambiar vita, attraverso una gioiosa penitenza (come dice la nostra liturgia e in genere la tradizione monastica che parla di gioiosa tristezza, di lutto luminoso e di lacrime di luce). Tempo anche di una carità più solerte, più attenta, più generosa; tempo di preghiera più abbondante e insistente, di partecipazione ai sacramenti più intensa; tempo dunque di attività cristiane per controbilanciare alla tiepidezza del tempo dell’anno in cui il fedele è tentato di distrazione, di fare le fusa davanti al caminetto della sua fede. Si mette tutto in opera per ridar vita, calore e colore alla propria vita cristiana. Ora perciò siamo giunti, grazie alla serietà del nostro cammino quaresimale, alla Passione del Signore: la vera penitenza conduce alla coscienza che non possiamo salvarci da soli e l’ascolto della Parola, che ci salva, ci ferma davanti alla grandezza, la profondità, l’altezza, la larghezza del mistero che celebriamo. Entrando nella settimana della Passione vediamo Gesù partire da solo verso la Croce, verso l’epifania dell’amore divino per l’uomo, verso la trasfigurazione, attraverso il volto sfigurato di Dio, dell’uomo glorificato. Al termine del nostro sforzo, contempliamo la gratuità della salvezza! La penitenza ci prepara a conoscere il nostro peccato e la nostra debolezza, ci apre al riconoscimento della nostra povertà: solo quando siamo deboli incontriamo il Dio che si fa debole per incontrarci. Due potenze non possono che scontrarsi, due debolezze incontrarsi. Incontrando il Dio che si fa debole, inerme, innocente, indifeso, che si consegna nelle mani degli uomini, vediamo che ormai agisce da solo. Alla pesca miracolosa aveva chiesto l’aiuto di Pietro e dei suoi compagni, per la moltiplicazione dei pani ha mandato gli apostoli, per l’entrata in Gerusalemme ha fatto preparare tutto dai discepoli, ora invece avanza verso la croce da solo. Dopo la cena con i discepoli, l’ora di Gesù giunge e nell’orto degli Ulivi si dà al Padre per tutti gli uomini: «Sedetevi qui, mentre io prego... Restate qui e vegliate. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava...» (Mc 14,32-35); e Luca precisa che «si allontanò da loro quasi un tiro di sasso» (Lc 22,41). Il tiro di sasso è insieme vicino e lontano; si può vedere, ma non toccare. La lapidazione, infatti, si usava per non toccare, non contaminarsi con l’impurità dell’adultera o del bestemmiatore. Dopo averlo toccato per guarire ed essere stati toccati da Lui, aver camminato di fianco a Lui, dopo avere preparato la Sala della Cena con Lui, i discepoli vedono Gesù diventare inafferrabile, si allontana senza abbandonarli, per vivere da solo l’essenziale della sua missione. Ad essa li assocerà più tardi, qui «partì da solo»; nel loro vegliare con Lui potevano solo guardarlo, non aiutarlo, servirlo, salvarlo. Nella Passione lo si può contemplare. 24 Non è più l’ora di lavorare su noi stessi, di affaccendarci a servirlo nel prossimo, non è più l’ora di piangere i nostri peccati e di lavare i suoi piedi con le nostre lacrime, e le sue membra, che sono i poveri, con la nostra carità. Tutto sembra fermarsi per lasciare Gesù partire da solo. È l’ora di accettare la nostra inutilità e di contemplarlo agire per noi, di essere bambini, impotenti che vedono la mamma o il babbo trafficare per loro. Siamo salvati gratuitamente da Gesù solo. Dio è il nostro Salvatore, non ce n’è un altro, neanche noi stessi. Noi siamo morti a causa del nostro peccato, immobili; solo Lui può avanzare e scendere nei nostri inferi per strapparci dalle tenebre e dall’ombra della morte (Lc 1,79). La sua Passione, nella carne umana che ha preso dalla Vergine Maria, è sotto lo sguardo del Padre che gli manda il Consolatore; al Battesimo, alla Trasfigurazione, nei miracoli la voce del Padre era con Lui e glorificava il Suo Nome. Ora non si manifesta più la Gloria, ma la debolezza. L’uomo incontra Dio nella debolezza, nell’impotenza, nell’abbandono e la debolezza di Dio e dell’uomo si incontrano nella consolazione. «È quando sono debole che sono forte, perché nella debolezza si manifesta la potenza di Dio» (II Cor 12,9-10), ma la potenza di Dio si manifesta crocifissa e salva, e risorgendo dal sepolcro con tutti coloro che sono stati vinti dalla forza della morte. Unito a tutti noi Gesù scende nell’estrema debolezza; nessuno può seguirlo, perché è da solo. Nella debolezza sferra l’ultimo attacco al Principe, al Satana, al tentatore, all’accusatore e lo vince in un atto di totale abbandono, di completa obbedienza. «…Non come voglio io, ma come vuoi Tu!» (Mt 26,39). «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46). Nella sua debolezza Gesù salva l’uomo, ma nella sua potenza si scontra con la morte; si lascia vincere da essa per giungere all’estremo dell’amore, ma la distrugge per operare il bene di tutti gli uomini. La Passione di Gesù non è soltanto il momento in cui noi dobbiamo fermarci per contemplarlo e ammirare la sua vittoria per noi, è anche il totale abbandono al Padre e il Padre gli dà lo Spirito che lo consola e lo risuscita, e risuscita anche noi. La potenza di Dio, la forza dello Spirito Santo, agisce innanzitutto nell’estrema debolezza del Dio incarnato. Prima delle meraviglie della Pentecoste e ancor prima della gloriosa esultanza suscitata dal soffio nel Cenacolo la sera di Pasqua, lo Spirito che ha sempre condotto Gesù nella sua vita terrena è presente nella debolezza della sua carne, per essere, dopo la Risurrezione, presente nella debolezza delle sue membra. Non solo nell’orto degli ulivi Gesù vive la sua missione da solo: è solo anche nell’«Ecce Homo» (Gv 19,5). È l’uomo che da solo sta davanti a tutti gli uomini, Lui da una parte, la moltitudine dall’altra. Il vero uomo è Lui, il Primogenito, Colui che farà essere uomini tutti gli altri. Solo davanti agli uomini, ma anche solo davanti al Padre per dirgli: «Ecco l’uomo che hai perso nel Paradiso per un atto di disobbedienza, ora eccolo che torna a Te nella più perfetta obbedienza». Primogenito, che si vedrà seguito dalla moltitudine dei fratelli, dei redenti. Alla fine dirà al Padre: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13). Nella Passione contempliamo il nostro ritorno al Padre e, contemplando Gesù-l’Uomo, vediamo che «la sua apparenza era sfigurata fino a non essere più di uomo» (Is 52,14): vediamo in Lui ciascuno di noi, tutti noi, finalmente a viso scoperto davanti al Padre. Adamo esce dal suo boschetto! Nudo e ferito. L’uomo acconsente a perdere la sua bellezza, per ricevere la bellezza di Dio. È il contrario del peccato originale. Il volto sfigurato in cui solo il Padre scorge lo splendore dell’uomo trasfigurato dall’amore per noi. Solo, nella sua immensa sofferenza, non vuole solitudine da primo della classe, dell’unico, ma chiama alla comunione d’amore con la Trinità tutti gli uomini: «Padre, perdona loro…» (Lc 23,34), «…oggi sarai con me nel paradiso…» (Lc 23,43). La solitudine di Gesù, contemplata, porta alla comunione con Dio e quindi fra tutti gli uomini. Sua Madre stava presso la croce e accanto il discepolo: «…Ecco il tuo Figlio!... …Ecco la tua Madre!…» (Gv 19,26-27). Maria, la credente, l’innocente, la silenziosa, vive anch’essa la solitudine del Figlio. La Croce li unisce e dalla comunione fra i due «soli», dal loro dolore e dal loro amore, tutta l’umanità è raccolta in una vasta Comunione. La Trinità si riflette nell’umanità e la porta del Paradiso si riapre. Gesù, l’Uomo, può risorgere. 25 6. Dio ci ha amati per primo «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). La manifestazione dell’amore non è un semplice fare, ma una rivelazione di Dio. Dio è Amore, Dio è Carità, Dio è Dono. Tutto ciò che è amore, carità e dono trova in Dio la sua sorgente. Non siamo noi che spontaneamente, quasi per un bisogno naturale o per un eccesso della bontà della nostra natura, amiamo, ma è Dio che ama e ama per primo, accogliendoci nella sua dinamica dell’amare. Perciò nel «non siamo noi, ma è Dio» non c’è solamente un parallelismo, noi e Lui, ma un rapporto di origine, di causa. Il suo amore precede e suscita ogni altro amore. La traduzione latina tradizionale (Vulgata), usata nella Chiesa occidentale per molti secoli, ha voluto giustamente sottolineare questa anteriorità dell’amore di Dio, aggiungendo nel cuore del nostro versetto «per primo», che era implicito nel testo greco originale. Cosa vuol dire «per primo»? Non è solo una questione cronologica: Dio è prima di noi, per cui ci ha amati prima, ma noi rispondendo col nostro amore rispondiamo adeguatamente a questo suo amore. Non è neppure unicamente sottolineata l’iniziativa divina, a cui corrisponderebbe l’adesione umana. «Per primo» vuol dire in un modo che è al di fuori, oltre, ogni altro modo di amare. Primo vuol dire un modo nuovo, un modo unico, così come il Primogenito è anche l’Unigenito, non solo uno dei suoi tanti figli, ma la sorgente del nostro essere tutti figli. Nello stesso modo il suo «amare per primo» è sorgente di ogni altro amore, è un amore nuovo, unico, che non può esistere all’infuori di Lui. Giovanni l’aveva già detto nel versetto precedente: «In questo si è manifestato l’amore di Dio», nell’invio del suo unico Figlio. Ma questa missione del Figlio ci fa penetrare a fondo il mistero di Dio. Non noi, ma Lui ha amato in modo assolutamente nuovo, ineffabile, irripetibile. Questo amore si è manifestato, è diventato atto concreto, perché l’amore - Agápe vive manifestandosi in una direzione concreta in cui c’è un amante, un amato e un gesto d’amore. Per questo il soggetto dell’amore non è l’amato, non è colui che risponde, ma colui che ha l’iniziativa, il primo che manifesta in cosa consiste l’amore. E l’amore non è misurato dal bisogno dell’amato o da quanto egli sia capace di ricevere, ma dalla novità, che è gratuita iniziativa di chi ama per primo, che manifesta in cosa consiste l’amore, che genera una risposta d’amore, o per lo meno lancia la sfida e attende che essa sia raccolta. Colui che ama, ama gratuitamente, ma amando e generando amore attende una risposta che sia manifestazione che l’amore generato è vivo. San Giovanni non teme di ripetersi continuando ad affermare con tono stupito, meravigliato, quasi esaltato, come con un inno di trionfo: «In questo l’amore si è manifestato», cioè è vero amore perché Dio ha mandato il suo Figlio. È un amore concreto, efficace, «perché noi avessimo la vita per Lui» (I Gv 4,9), ma nel ripetersi avanza con una spirale crescente: l’ha mandato «come vittima di espiazione dei nostri peccati». Questo ci fa comprendere quanto sia infinito l’amore di Dio. Il peccato è un’offesa fatta a Lui, un rifiuto del suo amore, della sua paternità, del suo voler essere «il nostro Dio». L’amore non pensa a se stesso e all’offesa ricevuta; è ferito dal male che fa a se stesso colui che lo rifiuta. Per questo, amando, Dio-amante si fa vittima del peccato della creatura amata per poterla guarire dal morbo segreto che la uccide. La morte è privazione della vita e il peccato è separazione dall’unica sorgente della vita. Il Signore della vita vuole donarla; si avvicina all’uomo per toccarlo con il suo dito vivificante, per renderlo davvero vivente. Nel Deuteronomio Mosè dice al popolo: «Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7) e Legge, Profeti e Salmi continuamente ricordano che Dio ha scelto Giacobbe, il popolo di Israele, per renderlo il suo popolo, un popolo di viventi ed Egli stesso essere il suo Dio. Il peccato 26 in questo contesto è soprattutto quello di andarsene a cercare un altro Dio ed ogni volta che mettiamo qualcosa davanti a Dio, che preferiamo a Lui noi stessi o un’altra creatura, cadiamo nel peccato generatore di morte. Dio ha dunque manifestato il suo amore mandando il suo Figlio come vittima, non come giudice, dittatore che rimette le cose a posto, per l’espiazione del fatto che non l’abbiamo voluto come Dio. Questo è l’amore «primo, unico, nuovo». Il Padre ha dato Colui che amava di più, il suo Figlio Unigenito, per amore della creatura che era diventata sua nemica. «Non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32): ha dato il Giusto per gli ingiusti. Questa è la manifestazione dell’amore e non ve n’è di più grande. Inoltre dicendo: «In questo sta l’amore», San Giovanni dice: non ce n’è un altro. Non sono lunghi discorsi sull’amore, su cosa vuol dire amare, quando e quanto valga la pena di amare o a cosa serva, ma si afferma un fatto, un gesto, una carità concreta che manifesta l’amore più di tanti lunghi discorsi. «Ha dato», e fra le righe sembra di poter leggere: solo Lui può amare così, solo Lui che è l’amore. Dio è uno e unico in tutto, soprattutto nell’amore e nell’amare. Tutta la teologia di Giovanni gira intorno a questa unicità dell’amore divino. Dio ha dato e ha dato totalmente, senza mai riprendere. La sua fedeltà si manifesta nel non riprendersi il dono del suo Figlio, nonostante tutte le reazioni possibili degli uomini. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito» (Gv 3,16) e l’ha dato in modo definitivo, irrevocabile, un dono senza riserve e in maniera perfetta. «Gesù... dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1); questa Parola porta in sé il significato di pienezza e di perfezione insuperabile. Ma l’unicità di questo amore non significa monopolio. Se l’amore umano, anche il più alto e il più bello, rimane di natura differente dall’amore divino, Dio può comunicare all’uomo qualcosa del suo amore e del suo amare. I cristiani sono chiamati dal vecchio Giovanni «gli amati». Non è solo, infatti, un modo epistolare di dire «Carissimi!», è una definizione del cristiano stesso a cui l’apostolo si rivolge: amati, non da me, ma da Dio. E se siete tanto amati, non potete far altro che amare, portati dallo stesso movimento che fa scendere l’Unigenito in mezzo agli uomini. Amandovi, Dio vi comunica la sua capacità di amare, la natura del suo amore. L’amore con cui il cristiano ama non è suo, ma egli si trova come trascinato dal tornado di amore da cui è amato. Se contemplo l’amore divino sono trasportato quasi irresistibilmente ad amare nello stesso modo. «Amati, se Dio ci ha amato (così), anche noi dobbiamo amarci (così) gli uni gli altri» (I Gv 4,11): non c’è soluzione di continuità, ma la conseguenza appare evidente. Se il torrente, il fiume d’acqua viva dell’amore si riversa su di noi, è necessario che ci facciamo trasportare in questa novità di vita. Il «dobbiamo», prima di essere un imperativo morale, è una conseguenza logica. «Così» avviene, a meno che opponiamo la nostra resistenza alla corrente che ci investe. Nella traduzione della Bibbia che usiamo in Italia si salta la parola «così», ma mi sembra che sia proprio la contemplazione del modo di amare di Dio che provoca nel cristiano un movimento d’amore per i fratelli. L’amore di Dio è così meraviglioso che non possiamo fare a meno di provare ad amare anche noi per ottenere nella nostra vita una tale bellezza! 7. Lo Spirito Santo Lo Spirito Santo è l’Incarnazione. La presenza del cristiano nel mondo non è solo una presenza politica o di servizio sociale; in quanto testimone di Cristo è anche testimone e portatore della salvezza che il Verbo, incarnandosi, ha donato all’umanità. Questa salvezza è nello stesso tempo attiva oggi ed escatologica, cioè comincia subito e trova la sua perfezione nel compiersi dei tempi. Il cristiano, battezzato, cioè immerso nella vita divina attraverso la Pasqua - morte e Risurrezione di Gesù - con la sua stessa 27 presenza nel mondo porta il messaggio della salvezza, a cui è chiamato e a cui è tenuto a collaborare, con la sua vita, la sua intelligenza, la sua carità, i suoi talenti. Questa collaborazione alla salvezza è per lui possibile perché con il Battesimo ha ricevuto la forza e la sapienza dello Spirito Santo. Senza lo Spirito Santo, infatti, tutto è avvenimento o personaggio puramente storico, il cristianesimo è una semplice ideologia e la Chiesa una organizzazione semi-politica (cosa che provoca tante volte giustamente una forte critica proprio da chi le è più affezionato). Lo Spirito Santo opera un salto qualitativo; la presenza che è azione dello Spirito Santo opera un cambiamento qualitativo nelle persone (e, attraverso loro, nelle istituzioni e nella storia) e le fa passare dallo stato carnale o psichico allo stato pneumatico, spirituale, come dice San Paolo. E questo per mezzo di una relazione personale: perché lo Spirito Santo è persona, cioè capace di una relazione libera con le altre persone non solo divine, ma anche umane in cui ci sia influenza e rispetto di libertà, dono e attesa, servizio e amicizia, parola e ascolto, incitamento e attesa. In altre parole, lo Spirito Santo è capace di amicizia, perché la perfezione della relazione fra le Persone è l’amicizia. L’amicizia è luce nella vita di qualcuno: non cambia perciò la storia, ma cambia il modo di esserci dentro. Per questo senza lo Spirito Santo amico le persone sono solo personaggi della storia, il cristianesimo è ideologia morta e non cammino vivificante, la Chiesa è organizzazione e struttura politica e non Madre generante alla Vita. Possiamo infatti vedere le cose con la Luce o senza la Luce. Esse sono quelle che sono, nella loro limitatezza, nel loro spessore, nel loro essere prive di vita. Una forma estetica senza vita. Con lo Spirito Santo esse acquistano luce, vitalità, capacità di servizio e mezzi di salvezza. Prendiamo una lampadina spenta: vetro e fili. Può anche avere una forma bella, ma è perfettamente inutile. Accesa non cambia il suo aspetto e i sui fili, ma è trasfigurata: ciò che si vedeva perde interesse, che viene portato invece su ciò che essa comunica e che non è uso: la luce. Ecco dunque che l’amicizia personale dello Spirito, ricevuta da noi povere persone opache, ci fa diventare luminosi, capaci di portare la luce al mondo, senza perdere nulla della nostra povertà naturale. Ma come si comunica l’amicizia dello Spirito Santo, cioè come si dà a noi lo Spirito Santo? Come quello che è; lo Spirito non dà cose estranee a Lui, ma comunica solo Se stesso, nella sua unità col Padre e il Figlio. E chi è lo Spirito Santo? Cerchiamo nel Vangelo: è Dono. Dono del Padre e di Gesù, che dice: vi darà, vi darò, vi manderà. L’Incarnazione del Verbo è dono del Padre così come la discesa dello Spirito è un dono (non è una tangente, ma dono gratuito per puro amore disinteressato!) che testimonia l’amore del Padre e del Figlio. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5). Ecco il dono: l’amicizia che unisce le tre persone è messa nei nostri cuori e noi siamo capaci di amicizia divina. Vivere non secondo la carne, cioè l’istinto, le passioni, le mode, l’influenza della società, ecc., ma avere uno sguardo pneumatico, cioè secondo lo Spirito; questo dono è Dio. «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rom 8,9). Così superiamo il meccanismo della storia che diventa invece economia di salvezza, l’ideologia e la politicizzazione degli strumenti di salvezza, per farci vivere e comunicare, in una carne mortale, la Vita nella sua piena realizzazione: «il nostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito è vita a causa della giustificazione» (Rom 8,10). Viviamo già, dunque, nella nostra situazione di fragilità e di peccato, una vita libera da questi limiti, che è amicizia divina ed essere già seduti con Cristo nella gloria (Ef 2,6); non però da soli, come il Cristo non ha voluto essere solo, ma con tutti i fratelli. Da qui l’impegno richiesto ai cristiani di vivere come uomini spirituali e non carnali o psichici: azioni, sguardi, parole, gesti, pensieri, tutto deve essere mosso dallo Spirito in lotta con la carne, e tale è la condizione dell’uomo che cammina verso la sua meta, la comunicazione con la Trinità. Questo dono è Spirito di Verità. «Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo 28 conosce. Voi lo conoscete, perché Egli dimora presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,16-17). Lo Spirito ci ricorda le Parole di Gesù che è Verità. Evangelizza, dunque. Il dono dell’amicizia è illuminante, cioè fa splendere (conoscere, capire) le parole di Gesù Verità e dà rettitudine a quelle degli uomini che sono messaggio della Parola di verità. Ricevere l’amicizia significa essere docili (nella sua etimologia questa parola significa: disposti ad essere utili) alla luce dello Spirito di verità; lasciarci condurre da Lui e non dalle voci del mondo il cui principe è menzognero fin dall’origine. Lo Spirito, illuminando, non plagia, ma dà discernimento e conoscenza, ci fa riconoscere la moneta autentica con la vera effigie e di metallo prezioso, e ci conduce all’unità perché ci fa convergere, lasciando spazio alle differenze personali, ma mettendo tutti in cammino, verso la libertà che è Dio. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32) e «dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (II Cor 3,17). Questa è la libertà dei figli. Lo Spirito Santo ci fa prendere coscienza che siamo figli di Dio e dunque eredi e ci fa aspirare alle cose del Padre, pur tenendoci ben radicati, attraverso la carità, alla comunione con tutti gli uomini. In questa tensione il cristiano diventa lievito che fa crescere tutta la pasta umana verso la trasfigurazione nella vita divina. 8. In cammino verso la Risurrezione (1a parte) La «festa delle feste» è Pasqua: tutto il mistero divino, l’economia della salvezza, è un cammino verso la Pasqua di Cristo. Il lungo tempo della preparazione alla venuta di Gesù, i duemila anni di cui parla l’Antico Testamento, sono in vista dell’Incarnazione del Verbo, e l’Incarnazione del Verbo è per la Risurrezione. Dio è venuto a cercarci dove siamo, per portarci là dove è Lui. Detto questo comprendiamo quanto sia giusto che ci prepariamo durante un lungo tempo a questa «festa delle feste». La preparazione non è un tempo di riflessione, di studio, oppure una serie di azioni da compiere, ma un cammino di tutta la persona che tende verso una meta, che desidera arrivare, e arrivare in un posto in cui è aspettato o, meglio, da Qualcuno che lo attende. Tutto l’anno liturgico è questo cammino, ma la Quaresima è il momento in cui, invece di rallentare lo sforzo perché la meta è vicina, siamo chiamati a raddoppiare lo zelo nel camminare per poter conquistare la vetta. Siamo chiamati a risorgere alla vita nuova, a vivere la vita divina. Il Figlio ci parla del Padre di cui è la perfetta immagine: «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9) e la parola che usa frequentemente è «come». «…Siate come il Padre…», «…come me…», «…amate come me…», «…fate come il Padre…». Il Vangelo, che è la Buona Novella della nostra chiamata e della nostra salvezza per condurci al Padre, è cosparso di questa parolina. Sembra che non vi sia altro modo di camminare per giungere alla beatitudine, alla comunione con il Padre, alla perfezione della vita umana. Solo lo sguardo trasfigurante verso Gesù ci permette di avanzare verso la vita. Come il Padre, come il Figlio: lo Spirito ci conduce verso la restaurazione della nostra somiglianza divina, già data ad Adamo, ma sfigurata dal peccato, conducendoci nel deserto, perché questa trasfigurazione si compia. Le prime due domeniche di Quaresima ci fanno ascoltare e meditare due Vangeli: quello delle tentazioni di Gesù nel deserto, dove è stato condotto dallo Spirito, e quello della Trasfigurazione sulla montagna, in cui la luce divina si comunica all’uomo attraverso l’umanità del Verbo. La Quaresima è, dunque, un cammino nel deserto, un tempo di spogliazione di tutto per riconoscere che le cose sono solo i contorni della strada, doni che ci sostengono nella fatica dell’andare, ma che portano sempre con sé il rischio di distrarci dall’avanzare speditamente; tempo in cui la povertà ci fa riconoscere che Dio è l’unico necessario, che è la Vita e che la nostra vita è totalmente dipendente da Lui. 29 Il deserto però è anche esperienza del suo occhio attento e paterno, che ci segue passo passo conducendoci alla Terra Promessa, attraverso la montagna della Legge, il Sinai, il comandamento che ci apre gli occhi alla vera nostra natura e che ci insegna ad essere ciò che siamo, immagine di Dio; Terra Promessa in cui il nostro volto risplende di una luce divina, l’uomo senza opacità né ambiguità, senza impurità né doppiezze, semplificato da una volontà che doma e corregge le voglie disordinate per unificarle in una volontà di comunione, di amore, di carità perfetta. Perché questo è lo scopo della nostra vita: attraverso le prove e le tentazioni che ci stimolano e ci provocano a dichiarare di chi siamo amici, raggiungere il monte dell’incontro, dove con il volto trasfigurato possiamo vedere Dio, e godere di questa visione e di tutto ciò che essa ci porta. L’aspetto penitenziale della Quaresima ha come unico scopo di concentrare la nostra attenzione sull’unico necessario, di farci correre con cuore libero («dilatato» - dice un Salmo, ripreso dalla Regola di San Benedetto) verso la meta che è vedere Dio ed essergli simili. Nella mitologia si trova la figura di una principessa che correva veloce e che si era promessa in sposa a chi l’avrebbe battuta nella corsa. Il conquistatore, correndo davanti a lei, faceva cadere delle mele d’oro, che arrestavano la principessa mentre si attardava a raccoglierle. È così che fu battuta. La mela d’oro, il frutto dell’albero del Paradiso, continua ad arrestarci e spesso a deviare il nostro percorso, facendoci troppo spesso andare molto lontano dal retto cammino. La Quaresima diventa un tempo di grazia in cui sentiamo l’avvicinarsi della Vita, non della morte, come l’ha sfigurata certa spiritualità medioevale, ripresa volentieri nel secolo romantico. Questo sguardo sfigurato sulla Quaresima ha spostato l’accento dalla vita alla morte e soprattutto dal desiderio alla paura di Dio, che si è annidata nel cuore dell’uomo con il peccato di Adamo. In tal modo l’aspetto penitenziale della Quaresima e della penitenza cristiana in genere, da preparazione gioiosa e fervente è diventato punizione e tortura, dolore cercato e tremore, a tal punto che all’avvicinarsi di questo tempo ci si stordiva con il Carnevale, per non pensarci. Nel suo rapporto con Dio, l’uomo deve ricominciare sempre a convertirsi dal timore all’amore, per comprendere in tal modo che la Quaresima ci chiama ad affrettare la nostra preparazione alla Risurrezione, risorgendo ogni giorno a vita nuova. Tempo di urgenza che non si sofferma tanto a meditare il momento della morte-Risurrezione della «nostra ora», ma si applica a risorgere subito per unirsi al Cristo risorto. La Pasqua diventa così il tempo delle nozze della nostra umanità con Cristo. Il passaggio dal timore all’amore, che è la grande conversione dell’uomo e dunque il suo cammino verso la Risurrezione, è passaggio religioso dalla magia alla pietas, cioè dal «fare» che costringe Dio a non infierire su di noi poveri peccatori, bloccandolo in un certo senso o comprandolo, all’«amare» che, affidandosi all’Amore-Misericordia senza limiti, agisce in comunione «come» il Dio che suscita e risuscita la nostra vita. Se non c’è Risurrezione, il mio rapporto con la divinità non può essere che di difesa perché, anche se concepisco che il Potente mi aiuta ed è buono con me, la mia relazione con Lui non può uscire dall’avvenimento, da ciò che succede, da ciò che vivo ora, per cui devo rendermelo propizio e parare i colpi. La sua giustizia non è salvezza. Se la gratuità del suo amore non giunge a ridarmi una vita nuova, dopo che la mia attuale - lo vedo - è insufficiente a darmi la beatitudine a cui aspiro, o dispero, o chiedo un’altra possibilità in cui cercherò di comprare la beatitudine che non ho ottenuto in questa vita (di qui la credenza nella reincarnazione così diffusa nella nostra società, poco abituata alla gratuità dell’amore). La fede nella Risurrezione mi dà invece il gioioso desiderio di entrare in comunione con Dio, di essere con Lui, per vivere con Lui, di partecipare alla sua stessa vita, e questo non solo come premio per le mie buone azioni, ma perché la mia carne, la mia umanità, inscindibilmente anima e corpo, si è preparata giorno dopo giorno a ricevere ciò che non può darsi. Questa preparazione avviene in un alternarsi di tempi «forti» che ci stimolano e tempi più «ordinari» in cui la corda del nostro arco, senza distogliersi dall’obbiettivo, si distende, 30 perché la debolezza dell’uomo non può vivere in una continua tensione verso l’Assoluto, come gli angeli, senza spezzarsi. Il cammino verso Pasqua di tutta la vita, di tutto l’anno liturgico, è fatto dell’alternanza di tempi forti e ordinari, che hanno però in comune di mantenere sempre fisso l’obbiettivo dell’incontro trasfigurante con Dio. 9. In cammino verso la Risurrezione (2a parte) Quali sono i passi o i mezzi che possiamo usare in questo cammino? Per muoversi occorre avere una meta. L’uomo va verso un punto che desidera raggiungere, oppure fugge da ciò che lo impaurisce, ma sempre cercando un punto in cui trovare riparo. Il cammino della nostra vita tende anch’esso ad una meta; per questo non è bene ritardarlo con troppi sguardi indietro. Considerare il passato, cosa che spesso genera sensi di colpa o rimpianti entrambi sterili, è positivo solamente nel caso in cui si vuole ringraziare, perché il ringraziamento suscita fiducia per il cammino futuro. Guardare una meta comporta una conversione, voltarsi verso di essa e intraprendere risolutamente il cammino. Voler tendere alla Risurrezione, alla somiglianza con Dio, all’acquisto della vita divina, richiede necessariamente la decisione di «convertirsi», di darsi un nuovo orientamento, di partire staccandosi da ciò che ci lega in un modo o in un altro. Tutte le esigenze evangeliche ci portano a questo. Si cerca di distinguere fra comandamenti e consigli, fra ciò che è chiesto a tutti o solamente a qualcuno, ma sono sottigliezze. Gesù chiede a tutti di seguirlo nel cammino verso Gerusalemme, che Lui ha intrapreso risolutamente e dove si compirà la sua e la nostra Pasqua, cioè il passaggio da una vita di morte alla Vita divina. E il primo passo per convertirci è il riconoscere che la nostra direzione non è buona, cioè riconoscere che in noi domina il peccato, la non conformità con il progetto di Dio, l’autonomia invece della comunione. «Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di Lui un mentitore e la sua Parola non è in noi» (I Gv 1,10). La sua Parola di vita, che mi è data per la mia salvezza, non sarebbe vera e quindi sarebbe inutile. Troverò in me stesso la mia salvezza; questo è il continuo sforzo dell’uomo, ma è una fatica di Sisifo. Riconosco il mio peccato e lo confesso, non per disprezzarmi, ma per confessare la mia fede: Dio Misericordioso è mio Salvatore, vuole e può salvarmi. Se mi converto a Lui, realizzerà questa meraviglia e avrò la vita. Dal momento che mi riconosco legato, dipendente dalla sua bontà misericordiosa, comprendo che nella mia conversione devo slegarmi da ciò che prende il posto del Salvatore, a cui sono attaccato in modo squilibrato, in cui tendo a riconoscere la mia felicità. È tutto il ruolo dell’ascesi: non debbo cercare di soffrire, ma accetto che questo lavoro di liberazione mi faccia soffrire, perché ciò a cui tendo è più importante, più urgente di ciò che mi soddisfa immediatamente. L’ascesi è stimolo e garanzia dell’amore. Non c’è modo più grande di dire il proprio amore che morire per l’amico, dice Gesù. Ma la morte non è un gran gesto, nobile e vuoto, è una necessità nell’espressione dell’amore fedele. Se non muoio per te, in questa circostanza precisa, non ti amo. Il suicidio non è morte per amore, perché questa non è mia volontà, una mia decisione, ma esigenza di un contesto che mi chiede di essere fedele fino a tal punto. Gesù è morto perché è rimasto fedele alla Parola di Verità che ci salva e ci rende liberi, non perché trovava che era bello morire per dare un bell’esempio. E così i martiri. La morte vivificante è sempre una fedeltà alla Verità. L’ascesi è su questa linea. Piccole morti per essere liberi da ciò che si impone falsamente come necessità salvatrice. La forma più tipica dell’ascesi e fra le più importanti è il digiuno, perché tocca un aspetto vitale della nostra esistenza: se non mangiamo moriamo. Ma l’avidità suscitata dall’istinto di sopravvivenza diventa ricerca di felicità e alla fine dipendenza dal cibo. Il cibo, da elemento necessario e buono, dono di un Dio che si occupa di noi e quindi luogo di comunione, diventa un fine in sé. «Non addormentatevi nel mangiare e nel bere, cioè 31 mangiando e bevendo; non dimenticatevi che la sorgente della vita è Dio». Il digiuno ci provoca; suscita in noi la paura della morte (o semplicemente dello star male), ci fa reagire di fronte alla mancanza di qualcosa che non ci è sempre necessario. Per questo trovo che il migliore digiuno non è il grande exploit, bensì la fedeltà in una certa rinuncia. Ma tutte le altre forme di ascesi hanno la stessa dinamica: - la veglia, con il suo aspetto più di liberazione dalla schiavitù del tempo, che dell’accumulare sonno; - la sobrietà nell’uso delle cose e tutte le varie rinunce alle cose materiali, intellettuali e anche spirituali; - la povertà scelta come stile di vita e come luogo d’amore preferenziale per il Signore; - la castità, scelta di amore per Dio o per il coniuge o per tutti gli altri, invece di una ricerca del piacere per sé o del colmare la voragine che scava continuamente la nostra affettività e desiderio di possedere non solo le cose, ma anche le persone; - l’elemosina, come spogliamento di beni su cui contiamo troppo per il nostro benessere; - l’obbedienza, come scelta di preferenza della gioia dell’altro piuttosto che della mia. Ecc. Tutte queste cose, che sono un lavoro su di sé per essere liberi, ricevono la loro autenticità e bellezza se vissute nella carità, senza la quale tutto è solo un vuoto risonante. La carità verso Dio e verso il prossimo è con l’umiltà il terreno sicuro per il cammino. Senza l’amore per Dio non si può andare verso di Lui; e senza l’amore per i fratelli la carità è solo un’illusione. L’umiltà è ciò che ci fa essere veri, senza maschere o artifici, luogo su cui scende la benedizione trasfigurante di Dio. Tutto questo va vissuto secondo le quattro virtù cardinali. La prudenza che ci fa scegliere le cose giuste e utili per noi e per gli altri, ciò che fa crescere, in modo che il diavolo non porti via con un soffio ciò che abbiamo costruito con leggerezza. La fortezza che ci fa esser fedeli nel tempo e non uomini di un momento come coloro che hanno ricevuto la Parola sulla pietra. La temperanza o la giusta misura in tutto, che ci libera dagli affanni e dalle preoccupazioni che soffocano ogni buon desiderio. La giustizia che ci fa avere uno sguardo corretto su di noi, su Dio e sugli altri e orienta l’ascesi verso un bene armonioso e ben ordinato in modo che porti molto frutto. Ed infine la preghiera: rimanere col cuore orientato verso Dio, attenti alla sua presenza, pieni di azione di grazie per il suo amore e portando davanti a Lui il peso e la fatica dell’umanità. 10. Ave Maria Sunto del libretto «Ave Maria», Effatà Ed., Cantalupa (TO) 2003 Unitre di Barge - 12 dicembre 2004 Ho pensato di proporvi un commento alla preghiera più conosciuta nella Chiesa cattolica d’Occidente dopo il Padre nostro: l’Ave Maria. Penso che sia importante conoscere non solo le parole, ma anche la storia e il vero contenuto, la struttura e le implicazioni di quello che non è solamente una preghiera, ma che ritengo possa anche dirsi un elemento importante della nostra cultura e una vera professione di fede. È un testo molto antico, almeno nella sua prima parte, e comune, salvo alcune sfumature, alle Chiese d’Oriente e d’Occidente. La prima parte è dei primi secoli, certamente anteriore al X secolo. I monaci dell’XI e XII secolo, molto devoti alla Madonna, in particolare i Cistercensi, ne hanno fatto la preghiera principale al di fuori dell’Ufficio divino. Un Certosino ha «inventato» il rosario, ricevuto e propagandato poi in modo molto diffuso dai Domenicani. La seconda parte è stata composta verso la fine del XIV secolo e l’aggiunta alla prima parte è stata ratificata dall’autorità della Chiesa, in modo particolare da San Pio V, Papa domenicano, che ha affidato alla recita del rosario la vittoria sui 32 musulmani di Lepanto. Questa vittoria, che oggi la storiografia ha molto ridimensionato, ma che è rimasta nella mentalità popolare cristiana come uno dei grandi momenti della difesa dell’Occidente cristiano, ha avuto luogo il 7 ottobre (1571), giorno in cui ancora oggi si festeggia la Vergine del Rosario. La prima parte dell’Ave Maria è nel contempo una Lectio divina con la sua ruminatio, una lode e una contemplazione. Il testo è esclusivamente biblico, salvo la parola «Gesù», che è un’aggiunta posteriore. Nella Chiesa bizantina si dice: «hai partorito il Salvatore delle nostre anime», il che equivale a «il frutto del tuo seno Gesù», essendo il significato di Gesù = Salvatore. La seconda parte ha invece piuttosto un tono di supplica, molto influenzata dalla spiritualità tardomedioevale in cui il peccato e la morte erano molto presenti. Oggi abbiamo una preghiera molto equilibrata, con una introduzione biblica, come devono esserlo in genere le preghiere, e una risposta alla Parola dovuta al senso di fragilità dell’uomo e al suo bisogno di affidarsi alla Potenza divina attraverso l’aiuto dell’intercessione di Maria. Fra le innumerevoli preghiere mariane, anche molto antiche (la più antica pare essere il Sub tuum dei primissimi secoli), l’Ave Maria si è imposta proprio per questo grande equilibrio e giustezza liturgica e teologica. Non ci sono sbavature. La liturgia non ha fatto sua questa preghiera in quanto tale, ma necessariamente ne riporta vari pezzi, soprattutto quelli che sono più direttamente biblici. Perché pregare Maria? Bisogna innanzitutto demolire una tendenza a fare di Maria qualcuno di più dolce e mite di Dio, di più buona, in un certo senso. Questa è una contraddizione. Nessuno ci ama più di Dio e nessuno è più buono verso di noi di Lui. Non ci sono mediazioni fra il Padre e i figli, salvo il Figlio che ci ha dato di essere suoi coeredi, di essere veramente figli, grazie alla sua Incarnazione, alla sua morte e alla sua Risurrezione. Maria non può che essere un pallido riflesso della tenerezza di Dio. È vero che a causa del nostro peccato abbiamo la tendenza a nasconderci da Dio, come Adamo; ma in tal caso passare da Maria sarebbe inutile. Maria ci spingerebbe a uscire allo scoperto e a guardare Dio in faccia, ad avere fiducia in Lui e a riconoscerlo come la sorgente della sua stessa tenerezza. Allora è inutile pregare Maria? Maria è forse solamente una via di facilità o una scorciatoia che evita la collera divina? Non è certo questo. È il riflesso della grandezza e dell’estrema esigenza dell’Assoluto divino. L’Ave Maria contiene e ordina tutti questi elementi; ci fa capire perché pregare Maria e come pregarla. Bisogna però prima fare una piccola deviazione per parlare della Comunione dei Santi, che è il luogo della preghiera con i santi, piuttosto che ai santi. Non siamo soli. Preghiamo nella Chiesa e con la Chiesa. La nostra preghiera non è un grido solitario in un deserto, ma una nota essenziale che si inserisce nell’armonia del canto di tutta la Chiesa e di tutta l’umanità. Siamo fatti voce di ogni creatura che loda il Signore. La Chiesa è un corpo, animato e vivificato dallo Spirito Santo, e composto da cellule viventi, legate le une alle altre. Fra queste i santi sono coloro che sono più lavorati dallo Spirito e più lavorano per il bene comune, anzi che diventano canali della forza dello Spirito verso il corpo intero. Fra di essi la Vergine, per misterioso disegno di Dio, grazie alla sua Immacolata Concezione, la sua Assunzione, ma anche a causa della profondità delle sue virtù teologali e cardinali, ha un posto unico nel corpo, e dunque anche nella preghiera del corpo. Nell’Ave Maria si manifesta la purezza e la trasparenza di Maria, tanto che nulla si ferma a lei, tutto passa a Dio. Se diciamo Maria, lei dice Gesù. È la dinamica della prima parte. Maria → Gesù e ripetendo sovente questa preghiera entriamo in un ritmo che ci conduce sempre più verso l’intimità con Gesù. Come la preghiera orientale a Gesù. Esaminiamo dunque i vari elementi della preghiera. Innanzitutto il saluto: «Ave!». In greco è χαιρε! Che vuol dire rallegrati. In ebraico è certamente: Shalom! Il saluto di pace. Ora questo si inserisce totalmente in un contesto ed una tradizione biblica. Non è un educato «buongiorno», ma un augurio e un annuncio. Maria faceva parte del popolo che viveva con una forte attesa messianica, in una totale dipendenza dalla benedizione divina. La Pace e la Gioia sono i segni che questa benedizione è data, i segni della prosperità, 33 anche materiale, dell’attenzione che Dio ha verso il suo popolo, che ha sempre sofferto per la mancanza della pace. È Dio stesso la Pace e la Gioia, l’atteso, il Messia. Sono i doni dello Spirito. Dicendo χαιρε, l’angelo dice una parola efficace: Dio è presente e realizza la promessa, le profezie. Salutando dunque Maria, noi diciamo che Ciò che speriamo è in lei, Ciò che crediamo si trova in lei, Ciò che amiamo è la bellezza stessa che rende bella Maria. Salutandola entriamo in un mondo nuovo, il mondo divino. La incontriamo e ci porta a Gesù. «Piena di grazia», κεχαριτομήνη, un verbo difficile da tradurre, fissata nella grazia, che l’ha invasa fin dalla concezione e rimane in modo permanente. Per cui è grazie a questo verbo che si è arrivati alla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione. La grazia è Dio stesso che si dà e lei è consenziente al dono. Questa parola dell’angelo rende la nostra preghiera contemplativa, perché entriamo in un mondo non più nostro, ma il mondo dell’azione salvifica di Dio, della sua bellezza, della sua santità. Come dice Maria nel Magnificat: si è chinato sulla sua umile serva. Ma i privilegi di Maria non ci lasciano indifferenti perché sono per noi: Maria è l’imbuto della grazia, che attinge nell’infinito oceano e lo riduce alla nostra taglia. «Il Signore è con te»: è un augurio che attraversa tutta la Bibbia; è un saluto frequente ed è paragonabile allo shalom. La presenza del Signore è una condizione indispensabile per il popolo. Se il Signore è con noi, faremo cose grandi, ma se il Signore si ritira, siamo perduti. Mosè ha messo la presenza del Signore come condizione indispensabile per partire per l’Esodo. Ancora oggi la Chiesa impiega questa formula come saluto-auguriobenedizione del sacerdote sui fedeli. Abbiamo la formula all’ottativo, ma nel testo originale non c’è il verbo, per cui si traduce anche al presente: il che equivale ad un annuncio, a una buona novella, un vangelo. In Maria tutto si compie e l’attesa tocca il suo termine. Il Verbo si è fatto carne e il seno di Maria è come l’umanità intera che riceve il Signore e dà la sua carne. «Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno»: non è più una parola dell’angelo, ma di Elisabetta. Anche di Elisabetta si dice che parlò sotto l’influsso dello Spirito Santo, quindi è anche questa una Parola di Dio. Noi parliamo a Maria con Dio. La grandezza di questa preghiera è il coro unico che facciamo con Dio nel parlare a Maria. Ma questa doppia benedizione è discendente e ascendente, perché il frutto del seno di Maria è Gesù, il Figlio uguale al Padre, Dio da Dio. Dio benedice la donna, ma la donna-Chiesa-umanità benedice Dio. Partorire nel dolore era una conseguenza del peccato, e ancora nell’Apocalisse la donna grida nelle doglie del parto, perché è la Chiesa che deve annunciare al mondo il Salvatore, attraverso persecuzioni e fatiche. Ma Dio fa della «maledizione» una «benedizione». Vediamo qui il rapporto fondamentale Eva-Maria, già accennato da San Paolo. Eva, la donna, ha portato la maledizione e partorito Adamo, l’uomo, destinato al sudore e alla morte. Maria, la nuova donna, ha portato la benedizione e partorito il nuovo Adamo, destinato alla gloria, Gesù, ma in Gesù Redentore, Verbo che si è fatto carne, tutta la natura umana è ormai destinata alla benedizione. Dicendo «benedetto il frutto del tuo seno» benediciamo Dio e restituiamo la benedizione. «Gesù»: finendo questa prima parte con il Nome di Gesù, concludiamo il passaggio da Maria a Gesù. Maria ci ha introdotti a Lui, e dicendo il suo Nome, secondo la tradizione semitica, noi provochiamo una presenza, una speciale protezione, un’unione e comunione con il Salvatore. «Santa Maria, Madre di Dio»: questa frase, a cui siamo tanto abituati, è a rigor di termini assurda. Dio non ha una madre, perché è eterno. E non dobbiamo lasciarci scivolare nelle teogonie della mitologia antica. Possiamo dire questa frase (che in greco è θεώτοκος e in latino Dei Genitrix, cioè «colei che ha partorito Dio») grazie alla definizione del Concilio di Efeso. Nestorio infatti diceva che questo titolo era eretico, ma il Concilio ha definito Gesù Cristo una sola persona, Dio e Uomo, per cui quello che si dice dell’uomo si può dire della seconda persona della Trinità. Se Maria è madre di Cristo, è dunque madre di Dio, ma è più esatto dire: «Colei che ha partorito Dio», naturalmente nella sua natura umana. Ad ogni modo dal 431 questo titolo di Maria è stato molto impiegato. Resta il fatto che Dio è il Santo, cioè l’inaccessibile, il purissimo, e se possiamo dire «Madre di Dio» è 34 perché Lui stesso ha voluto farsi Figlio dell’uomo, nostro fratello. Per questo dicendo «Madre di Dio» diciamo anche madre nostra. C’è dunque, più che una devozione, una professione di fede nell’Incarnazione. E ogni preghiera deve cominciare con una professione di fede. Come «piena di grazia» ci fa dire che la grazia si è chinata su di noi, così «Madre di Dio» è una professione di fede nell’Incarnazione redentrice e nella nostra divinizzazione. «Prega per noi peccatori»: grazie alla sua divina maternità, Maria ha un ruolo particolare nell’intercessione dei santi per noi. La sua umanità è unita a quella di Cristo suo Figlio, che ha preso la sua carne e il suo sangue; l’intercessione continua del Verbo fatto carne e glorificato davanti al Padre la trova dunque unita particolarissimamente a Lui. L’intercessione di Maria presenta innanzitutto al Padre l’umanità «riuscita», cioè secondo il disegno originale, senza macchia; è la bellezza che innamora Dio. In seguito è la carità di chi non è ripiegato su di sé dal peccato. E la carità copre una moltitudine di peccati; ruolo materno quanto mai, ma anche di cooperazione stretta col Redentore. Questi ruoli non sono certo esclusivi di Maria, perché è il ruolo di tutti i battezzati, ma in Maria hanno una intensità particolare. Questa preghiera è per noi peccatori. C’è anche qui un ricordo della «preghiera a Gesù» tradizionale. Dicendo «peccatori», noi diciamo l’urgenza di questa intercessione. Il peccato è seme di morte, per asfissia progressiva. Come dice il Salmo, «l’acqua mi giunge alla gola». Se rimaniamo nella nostra autosufficienza, che ci illude di sicurezza, possiamo dire come è stato detto nel ’68: «La preghiera è un lusso!», ma se prendiamo coscienza del nostro peccato, la preghiera è una necessità. Quando la barca affondava, senza fare complimenti gli apostoli svegliarono Gesù che, stanchissimo, dormiva. «Adesso e nell’ora della nostra morte»: la frase viene dalla spiritualità dei secoli XIIIXV in cui era forte il senso della morte. C’erano le ondate di peste nera, che rendevano molto precaria la vita. Però noi diciamo «adesso», cioè: subito! Si continua il tema dell’urgenza della preghiera. Se diciamo «prega per me», può essere una frase fatta, senza spessore. Ma se diciamo «prega per me subito», la cosa diventa seria. Oltre all’immediatezza c’è anche la durata. Maria ci accompagna sempre, lungo il cammino della vita. La sua presenza materna, discreta, non può mancarci. Questo ci ricorda la sua presenza nella vita di Gesù. «Ora»: sono le nozze di Cana, in cui Lei fa scattare l’Ora. E poi c’è la presenza alla croce, nell’ora della morte di Gesù. Il ricordo evangelico è forte. Per cui anche se questa parte è meno biblica della prima, la Scrittura non è assente. In questa ultima frase c’è un forte senso del tempo: lo scorrere del tempo provoca un’angoscia, specie dopo una certa età. Non possiamo fermarlo, non possiamo recuperarlo. La presenza di Maria nel nostro tempo è la presenza protettiva e distensiva di un’amica, di una persona che sa dare pace e serenità. Invocando Colei che è già in cielo, con tutta la sua umanità, noi rendiamo la nostra finitezza una non-finitezza, per cui il nostro cammino sulla terra si apre ad una vita senza confini. Amen. 35 Parte terza Sul monte della Presenza: scrivere per annunciare I libri pubblicati da padre Cesare Falletti PIER GIUSEPPE PASERO «Sul monte della Presenza» è il titolo della collana che vide apparire le prime due pubblicazioni di padre Cesare, la quale si muoveva con l’intento di delineare in termini biblici ed esperienziali i fondamenti dell’esistenza cristiana. Ma l’immagine metaforica s’adegua bene ad essere obiettivo puntato su tutti gli scritti di cui il monaco cistercense ci ha fatto dono nell’arco di quasi un trentennio. La sua è certamente una visione della realtà ed un’esperienza di vita incentrata sul messaggio biblico-evangelico, secondo una dimensione fondamentalmente cristocentrica, trinitaria ed agapica, che sosta dinanzi al mistero di Dio e ne attende il compimento. Essa però non perde mai di mira l’uomo nel suo dramma, ma sa proiettarlo nella luce che gli deriva dall’essere soggetto su cui Dio tiene desto lo sguardo e dal poter diventare parte di una comunità d’amore: due prospettive che tolgono l’io dal rischio del solipsismo per lanciarlo verso la grandezza e la bellezza di essere un «tu» assolutamente unico sia per Dio che per i fratelli che in Dio si amano. In questa sezione saranno prese in considerazione le sette pubblicazioni di padre Cesare, oltre le quali va ricordata una breve monografia dal titolo «Un rituale per colmare l’insonnia», contenuta nel libro «Stress e insonnia» (Libreria Editrice Psiche, Torino 1981). Lo scopo è di fornire una sintesi di queste opere, alcune non più facilmente reperibili, restituendone lo spirito di fondo e improntandolo con una serie di spigolature, date dalla scelta di numerose citazioni, frammenti in cui si condensano intuizioni originali e profonde, letterariamente non sintetizzabili se non al prezzo di sfregio e corruzione. Si spera così di fare un piccolo dono a quanti non dispongono della possibilità o del tempo di scorrere per intero tali scritti, ma anche di richiamare alla memoria, per chi invece ne avesse già letto uno o più, i punti salienti che stanno alla base di un percorso spirituale protratto negli anni. Un lavoro che tende ad essere qualcosa di più rispetto ad una semplice recensione per articolo da giornale o da rivista, pur nella consapevolezza che riassumere è sempre impoverire: e di ciò dovrà scusarsi con l’autore dei testi sia chi va scrivendo queste pagine, sia chi, leggendole, ne usufruirà e renderà propria la loro limitazione. 1. Fatti a immagine. Esortazione alla vita divina Ed. Paoline, Roma 1980. Pagg. 150. L’apertura del testo è un richiamo all’essenziale, ben simboleggiato dal deserto, terra di povertà dove occorre imparare ad apprezzare senza spreco il poco che viene offerto. La tradizione monastica è simile a quel deserto, dove si tramanda nello Spirito la semplice verità di sempre, la verità di Gesù che è Via, Verità e Vita attraverso uno sguardo di fede che sa vedere l’Invisibile e scopre in Lui la realtà di un Dio che è amore, che «si accosta alla nostra esistenza affinché riceviamo, alla mensa del suo mistero, l’Immagine in cui è la nostra gloria di uomini e la nostra esultanza di cristiani» (11). 1._Fatti a immagine. L’amore trinitario di Dio trova nell’uomo la sua immagine. Ne consegue che «vivere non è fare. Vivere è amare, comunicare il proprio segreto e cogliere quello dell’altro» (16). Ma se l’uomo ha ricevuto l’immagine di Dio, deve conquistarsene la somiglianza, specie riconoscendo «la grandezza di Dio che è dono di sé» (19). Purtroppo gli 36 uomini, riponendo fiducia più nelle cose che nel loro Creatore, hanno perso anche l’immagine, al punto che Dio proibisce la rappresentazione del suo volto (Dt 5,8), fino a manifestarlo nuovamente in Colui che, facendosi simile a noi, rese davvero noi simili a Lui. «In un volto simile al nostro ha brillato la Luce dello Splendore infinito, e noi abbiamo contemplato l’Invisibile» (22). Amore insondabile che prende dimora nel grembo di una donna, passa attraverso il mistero della croce e giunge fino al «mistero del sepolcro in cui l’uomo giaceva e il Verbo vegliava, in attesa della fede degli uomini» (24), chiamati a «lasciare il sonno dei morti per vivere la vita del Vivente» (26). Lo sguardo sull’Invisibile che si fa sguardo sull’amore trinitario è il principio della trasfigurazione dell’uomo, del suo recupero della somiglianza con Dio. Dal momento del Battesimo in poi la vita del cristiano «si svolge in un ambiente divino» (34), dove entrando in sintonia col dono della «grazia» egli diventa capace di «conversione». Per suo mezzo sarà condotto «di tappa in tappa, da Nazareth, luogo della semplicità, della presenza, dell’intimità, alle rive del lago di Tiberiade, luogo del servizio fraterno; dal Tabor, luogo della contemplazione, a Gerusalemme, luogo della Pasqua, dal Calvario, dono di sé, al sepolcro da cui risorgerà, al Monte degli Ulivi da cui salirà verso il Padre e regnerà con Cristo in perfetta unione alla Trinità Eterna e Beata» (37). 2._Discesa agli Inferi. Il cammino del ritorno a Dio si estende per l’umanità dalla Genesi all’Apocalisse. «In Adamo riconosciamo i quattro atteggiamenti fondamentali del peccato come mancanza d’amore: l’orgoglio di voler essere dio senza Dio, il rifiuto della propria fragilità, la rottura con il fratello e la disperazione del perdono» (42-43). Sarà la Buona Novella di Gesù ad offrire liberazione. Il mistero dell’Incarnazione comunica la possibilità di un nuovo sguardo, perché davanti a quel mistero «non è il peccato che mi interessa, e non su di esso fermo il mio sguardo dopo averlo riconosciuto. Questo sarebbe ancora una forma di egocentrismo, una tentazione a considerare ciò che è mio. Sono invece chiamato a contemplare le meraviglie di Dio e la meraviglia del suo perdono. Dono di grazia e caduta non sono sullo stesso piano (Rm 5,15), non sono da guardare con lo stesso metro. Se guardo il peccato mi contemplo. Se guardo il dono della grazia contemplo Dio: il Dio buono e amico degli uomini, lento all’ira e pronto alla misericordia: il Dio amore. Più guardo Dio con uno sguardo di fede, più in me cresce la speranza: fiduciosa e paziente attesa della salvezza. Cresce la carità: desiderio di essere con Lui, attrazione per essere come Lui» (49-50). «Affinché noi potessimo vivere questo grande mistero di redenzione, ci ha lasciato il sacramento del perdono, capolavoro del suo amore, dono tra i più preziosi» (51). «L’amore che ci guarisce non lascia posto al rimorso, né alla vergogna, ma mette nel nostro cuore il pentimento, quello che i nostri Padri chiamavano “la compunzione”. Il rimorso è senza speranza, la vergogna nasce dall’orgoglio; sono due sentimenti da cui l’amore di Dio ci ha liberati. Eppure il nostro cuore piange; lacrime che rinnovano l’acqua in cui siamo stati immersi il giorno del nostro Battesimo» (55). Sono lacrime simili a quelle di un bambino grazie alle quali siamo rifatti figli, reimmersi nell’intimità divina, «lacrime che irrigano il terreno sterile, roccioso e pieno di rovi e lo rendono terreno fertile» (58). Se il peccato chiude l’uomo in se stesso, il pentimento lo apre alla misericordia. Alla scuola di Cristo s’impara la verità dell’umiltà. «Dio è umile nel creare», si ritira come Creatore e lascia all’uomo l’accorgimento del suo passaggio nelle opere fatte. «Dio è umile nel salvare», fino ad assumere la condizione di schiavo consentendo il non riconoscimento di sé. «Dio è umile nel rivelarsi: “Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,26)» (61-62). «La via dell’umiltà sta nel cercare l’ultimo posto, non quello visibilmente ultimo, ma quello che nessuno vuole, perché non fa risaltare la propria personalità». «L’orgoglio è una rapina, perché facciamo diventare nostro ciò che è di Dio» (62), mentre «l’umile è un povero che non cerca neanche il suo diritto, ma è geloso solo della salvezza dei suoi fratelli». «Dalle piccole cose in cui affonda le sue radici, ai diritti più grandi, l’umiltà cerca sempre l’amore piuttosto che l’avere» (63). L’obbedienza filiale di Gesù al Padre è il suo primo grande insegnamento, conseguenza dell’amore e non del timore, «la libertà più assoluta che permette una totale 37 gratuità e la dilezione dell’altro fino a dargli la propria vita» (67). «Nella sua Pasqua Dio ha preferito noi a se stesso, per questo si è fatto obbediente fino alla morte. Il preferire l’altro è la luce dell’obbedienza. L’obbedienza è un atto di fede: sia perché la fede è obbedienza, sia perché l’obbedienza si fonda sulla fede nella Parola di Dio» (68). L’obbedienza alla volontà del Padre costituisce l’uomo corredentore col Cristo e quindi in modo speciale fratello del Cristo. Oltre il pentimento, l’umiltà e l’obbedienza, i gradi ulteriori per ricevere la vita divina sono costituiti da ascesi, silenzio e solitudine. Nel dono di sé l’uomo è coinvolto in quel movimento con le facoltà affettive e psicofisiche, dove «il corpo stesso non è qualcosa di accessorio. […] Il nostro corpo non è la parte più lontana e dissimile da Dio. Nella nuova economia, in cui l’orgoglio ci ha fatti stranieri e l’Incarnazione figli, il corpo, in tutto simile a quello del Cristo, ci fa partecipare in modo sicuro alla somiglianza divina» (71). Di qui il valore del digiuno, della veglia, della sobrietà. Digiuno eucaristico, dove «il corpo ha fame e l’anima si nutre di Dio» (73). Digiuno che, attraverso una corretta disciplina, aiuta a far diminuire le forze dell’aggressività. «Se il digiuno è per amore, sarà liberata la potenza di amare» (74). Digiuno di purificazione che deve evitare il rischio dell’orgoglio e delle «rivincite aristocratiche: disprezzo per le “cose materiali”, falso ascetismo, separazione dai peccatori. La luce dell’umiltà e dell’amore eviterà al cristiano questa trappola» (75), dividendo il tempo tra la rinuncia e la festa. La veglia è saper attendere nella speranza, nella pazienza, accompagnati dalla grazia. «Veglia d’amore e non d’efficacia, perché “se il Signore non costruisce la casa invano vi faticano i costruttori… invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore; il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno” (Sal 126,1-2)» (77). Veglia sui gesti e sui pensieri, in armonia col desiderio di Dio e con lo Spirito che è in noi. Infine la sobrietà come capacità di rinunciare al superfluo. Altro grado è il silenzio. Esso predispone all’ascolto. «Il silenzio è come l’aratro che passa e rende il terreno pronto per ricevere il seme» (81). Ascolto che è apertura agli altri e all’Altro. Un silenzio che non sia chiusura in un mutismo dovuto a stizza, disprezzo e odio. Silenzio esterno che deve accompagnarsi al silenzio interiore, quindi evitare la mormorazione, la masticazione di fiele, il rumore interiore della preoccupazione. Silenzio che diventa atto di adorazione e perciò di trasformazione, «perché la Parola è scesa in noi e nel silenzio cresce» (86). Ultimo grado è la solitudine, il deserto, «il luogo dell’esperienza che Dio è con noi», pur essendo anche «il luogo della tentazione» (88). «Dio ci chiede il coraggio di rimanere soli per poter scoprire che non siamo soli. “Solo con il Solo”, “separato da tutti e unito a tutti”. Queste antiche definizioni del monaco eremita sono ancor oggi una porta aperta per scoprire il valore della solitudine nella città, per trovare una risposta all’isolamento di cui gli uomini della nostra generazione, e forse di tutte le generazioni, sono vittime. Babele era l’aggregazione: insieme costruivano, lavoravano, ma non comunicavano. Abramo è la comunicazione: solo nel deserto è diventato padre di una moltitudine numerosa più delle stelle del cielo e della sabbia del mare» (90). «L’ultimo spogliamento del vecchio uomo, per cui riceviamo la vita incorruttibile, è la morte. Al di là di essa noi saremo come Dio perché lo vedremo come Egli è. Mistero grande e terribile quello della nostra morte, pieno di lacrime e immerso nella luce della speranza. […] Gesù stesso si è turbato di fronte alla morte. […] L’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza dell’amore; dunque è un’onnipotenza vulnerabile, che si lascia colpire dolorosamente dal male» (92). Ma il pensiero della morte può spingere più in alto il cuore e dilatare lo sguardo, in un distacco dalle cose che pure usiamo. A fianco delle morti dei martiri c’è un morire quotidiano dovuto a limitazioni e sofferenze. «La nostra morte quotidiana è l’unico mezzo per essere cristificati. La croce non può essere evitata; essa infatti illumina tutta la vita di Gesù sulla terra e ci fa riconoscere il Risorto» (97). La Parola della croce è scandalo e follia (I Cor 1,23). «“Ma il terzo giorno risorgerà”. Il cristiano, come Gesù, non può mai parlare della morte senza parlare della Vita. La morte è e rimane una stonatura nel progetto di Dio; stonatura dell’uomo su cui Dio ha composto una meravigliosa variazione che rende ancor più bella tutta la sinfonia» (99). 38 3._Ascesa al Padre. La conoscenza attraverso le idee non è sufficiente all’incontro con Dio, che invece è possibile nell’Incarnazione del Verbo e quando ci si spoglia «dell’uomo vecchio per rivestire il Cristo. Spogliamento è segno di povertà ed è nella situazione del povero che comincia ad apparire il vero volto del Cristo. La povertà di Betlemme è la prima cornice dell’epifania di Dio; la povertà del cuore è la prima beatitudine. Ai poveri è riservato il primo annuncio della Buona Novella; e l’abbandono di tutto per seguirlo è la prima richiesta del Messia ai suoi discepoli» (104). «Dio solo basta: ecco la sorgente della povertà; e beati coloro che hanno un cuore capace di essere ancorato su questo assoluto» (105). «La povertà è un vuoto che chiama», un vuoto «infinitamente dilatabile», mentre «l’amore per le ricchezze circoscrive il nostro desiderio e sterilizza la nostra capacità di amare e di godere» (106). L’implacabile logica del possesso allontana dal Regno dei Cieli e dalla beatitudine che ne scaturisce. Essa vincola a ciò che sta entro uno spazio, impedendo a qualsiasi ricco quella «mobilità richiesta da Colui che viene come un lampo, che guizza da Oriente ad Occidente» (107). Infine, «la povertà si accompagna al nonpotere», e addirittura evita la tentazione di «voler essere proprietari di Dio» (111): non sarà Davide a costruire un tempio per Dio disponendo come vuole lui del Santo e del Trascendente, ma sarà Dio a costruire a Davide una casa per essere presente fra i suoi discendenti. Alla povertà è indissolubilmente congiunta la castità, che «non è una legge, ma uno spirito; non è un dato a priori, è una scoperta di tutti i giorni; non è una rinuncia, è una scelta» (113). Castità non è un non avere, ma una capacità di donare, non è una chiusura, ma un’apertura. La stessa verginità di chi si consacra a Dio è la «disponibilità di una terra» a ricevere per grazia, pur dentro una conquista lenta e faticosa, il seme del Verbo di Dio: «niente in Lui non è Dio, niente in Lui è lontano dall’uomo» (113). La verginità vede instaurato il suo significato essenziale nel mistero della salvezza, perciò «ha una dimensione cosmica, eterna, infinita: la dimensione di Dio» (114), per cui, «in un desiderio assoluto di Dio, l’uomo sceglie di non condividere più il suo corpo, neppure con una persona amata», mentre lo sposato «riceve dal coniuge il sacramento dell’amore di Dio, e non considera più suo il proprio corpo, ma della moglie e questa del marito (I Cor 7,6) ed entrambi di Dio» (115-116). «Davanti all’opera di Dio il vergine sta in adorazione come dietro le quinte della creazione e della salvezza» (117), e si fa trasparenza e presenza di Dio in mezzo agli uomini. Un mistero grande che non tutti possono comprendere. «Ci sono verità che si afferrano solo con il cuore», al quale si dovrebbe restituire un primato oltre ogni dominio sovrano della ragione, dove non «la parola e l’idea siano più importanti della verità» e dove non sia la sessualità a «monopolizzare tutta l’area dell’amore» (120). L’impronta trinitaria della creazione è un’impronta d’amore ed è una chiamata rivolta a noi uomini ad essere concreatori di un Dio dal quale nell’atto della creazione non fummo semplicemente «detti», ma «fatti» con le sue Mani, quindi «sorti dalle sue carezze» (123) per essere come Lui capaci di amare e di creare. «Creare non è fare. Il fare ci lega e ci lascia nel campo ristretto e soffocante dell’efficacia, del risultato, della quantità. Il creare ci porta nel vasto e incommensurabile spazio della sete sempre saziata e sempre nuova, del desiderio che abbraccia l’infinito, del clima in cui tutto diventa luce, colore, armonia, profumo, dolcezza. […] Per Dio agire e creare non sono per l’utile, ma per l’amore: il suo metro non è il rendimento, la funzionalità, la quantità, ma il bello, il buono, la gioia, la qualità» (122). Col fare l’uomo corre il rischio di diventare un mercenario, col creare resta nella condizione dell’innamorato che vuole pace, gioia e bellezza. L’amore ha la durata della vita e il suo frutto è la santità. Ma il creare dell’uomo esige totale povertà perché anche l’uomo, come Dio, «non può trattenere la sua creazione, può solo darla» (124), in un atto di uscita da se stesso che esprime fede, speranza e carità. Tutto il creare converge nella lode di Dio, mentre «cielo e terra in Gesù sono uniti in un’unica liturgia» (127), dove cessa ogni separazione tra sacro e profano e tutto viene assunto nel divino. «Arte che canta e danza la bellezza e la gioia del vivere con Dio» (128), la liturgia comunitaria non è solo rito, è vita. In essa la proclamazione della Parola di Dio provoca la parola dell’uomo. Più ancora, la liturgia è «gesto, immagine, suono, colore, luce, profumo. Non è solo intelligenza, anima, pensiero; è anche corpo, partecipazione 39 della materia creata a lode del Creatore», ed anche simbolo: «Il simbolo non è solo per la comprensione, è anche per l’espressione della mia preghiera. Mai potrò dire con parole ciò che dico bruciando l’incenso, accendendo una candela, prostrandomi fino a terra» (131). A fianco della liturgia comunitaria sta la preghiera personale, mediante la quale ognuno è «solo col Solo» (133). Non sarà un «capolavoro letterario», ma certamente un «cuore a cuore con Dio» (134) nella verità dell’interiorità. Nella preghiera personale, al di sopra di ogni sentimento, anche «il “non sentire niente” purifica il nostro amore, per l’inoltro nella fede, senza alcun ritorno su se stessi. […] Pregare è soprattutto ascoltare, rispondere e non interrogare. […] Qualunque sia il modo, la preghiera è sempre uno sguardo verso l’Altro» (135), attraverso quel Nome che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2,9), quel ponte tra l’uomo e Dio che è Gesù. L’amore di Dio che chiama gli uomini uno per uno li «mette in comunione con gli uomini di tutte le epoche» (137). La preghiera rivolta ai santi, coloro che si sono trasfigurati nella luce divina, costituisce «un riconoscimento della grandezza che Dio dà alla sua creatura rendendola tempio della sua Gloria e manifestazione della sua Bontà» (140). La comunione tra gli uomini è un progetto che si realizza nel mistero della comunione trinitaria che a loro si estende. «Ma l’uomo riceve questa invasione di Dio per Maria» (141), «il luogo dell’incontro, dell’abbraccio, del dono: luogo senza macchia, senza ostacolo. Nazareth, Betlemme, Cana, il Calvario, il Cenacolo, il Deserto, il Cielo sono le sette tappe attraverso le quali Maria conduce l’umanità nel cuore della Trinità» (142). «La vergine di Nazareth», «la donna silenziosa e povera di Betlemme», «la sposa di Cana splendente di bellezza», «la madre al Calvario» con «l’anima trafitta dalla spada», «l’orante del Cenacolo», «la donna che grida per le doglie e il travaglio del parto» e «fugge nel deserto», «il Segno grandioso nel cielo, la Donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle» (142-144): questa donna «è il canale in cui l’infinito di Dio ha preso una dimensione umana e può essere ricevuto da ciascun uomo» (145). 2. Togliti i calzari. Per avvicinarsi a Dio Ed. Paoline, Roma 1983. Pagg. 116. Introduzione. «Una delle cose più belle della vita è vedere il Signore che lavora un cuore per attirarlo a sé e riempirlo della sua grazia. È anche uno dei momenti in cui ci si sente più disarmati e incapaci di portare a compimento un’opera cominciata» (7). Il Regno di Dio cresce nel tempo, come un seme gettato nella terra. Verso quel Regno è impossibile camminare da soli. È Dio che chiama gli uomini, come in una notte inattesa chiamò i pastori di Betlemme (narrazione evangelica sulla cui scansione si struttura tutta la presente riflessione), o come un giorno chiamò Mosè verso un roveto che ardeva di un fuoco che nasceva da nulla e non si consumava, dicendogli: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Es 3,5: passo che ispira il titolo del libro in questione). Quel fuoco sconvolse chi lo aveva veduto, che da una dimora di corte passò ad essere profugo. «Non è facile cogliere subito il significato di un incontro con Dio» (9). Mosè stesso di fronte al fuoco della chiamata «si sente legno verde»; quella chiamata però presto «si presenta come missione e invito all’intimità», mentre Dio «gli rivela il suo nome, si fa suo amico, illumina il suo volto, gli apre il suo segreto e scopre il suo progetto» (10). Di fronte alla Parola che chiama, l’uomo è invitato semplicemente a dire il suo «sì». La notte. «Alcuni pastori vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8). La magnificenza dell’opera della creazione rivela un Dio che agisce con amore di Padre. Gli elementi e le creature servono l’uomo affinché l’uomo possa servire Dio. Ma scoraggiato per il male e per molte sventure, nella percezione dell’assenza di Dio, l’uomo dice che Dio non esiste. «Il fatto è che Dio non vuole clienti, ma degli amici, non vuole schiavi, ma dei figli! […] Cerca degli innamorati, che lo amino perché Lui ci ha amati per primo, perché è bontà, perché è bellezza, perché è beatitudine. […] Il vero ateismo […] è un rifiuto della dipendenza, della relazione, che s’impone come necessaria, se affermiamo che Dio c’è» (15). «Se Dio non c’è tutto è permesso, nel potere e nel piacere. […] Non c’è nessuna 40 chiave che possa aprire la scatola del mio egoismo, del mio egocentrismo se non l’adorazione in cui si fondono in un movimento unico la grandezza e la piccolezza dell’uomo, la verità e l’amore, la seduzione e il dono libero, la gioia e la sete tormentosa di toccare, vedere, amare, raggiungere e congiungersi con l’Infinito» (16). Il superamento dell’allontanamento dell’uomo da Dio avviene nel prodigio che ha per nome Gesù, dove Dio e uomo si incontrano, nel doppio movimento della sete di amore di Dio per l’uomo e della sete di amore dell’uomo per Dio. Se Dio tace, tace per amore: nel «cuore dell’ateismo», «all’apice dell’assenza», l’uomo scopre che «non può morire la Presenza» (19); le sue labbra mormorano «Tu» e gridano: «Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26,9). L’uomo scende alle radici del proprio cuore, scopre la disperazione, muore di sete nel deserto dell’ateismo. Ma «Dio è fedele e non permette che l’uomo sia tentato oltre le proprie forze e perisca» (21). L’urgenza è ritrovare quella Presenza e gridare che Dio c’è, ritrovare Colui che disse: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). «In Gesù Dio entra nella nostra vita non solo come un pensiero, ma come un ospite» (23). Desiderio e paura. «Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete”» (Lc 2,9-10). Nella solitudine e nella notte dell’uomo, «tutto è attesa, tutto è capacità di ricevere, sete, desiderio. […] Siamo fatti per l’Infinito e solo l’Infinito può rispondere pienamente al nostro desiderio» (26). Tuttavia c’è nell’uomo una complicità col proprio peccato fino alla paura di esserne guarito, c’è la paura di spogliarsi di sé per rivestirsi di Dio, una ribellione alla figliolanza divina, in contrasto con l’esortazione di San Paolo quando scrive: «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Rm 8,15). Spesso è la stessa teologia che non sa cogliere nel segno il rapporto tra uomo e Dio, per cui dovremmo «accettare di “lavare” questa nostra teologia nell’acqua viva della Parola di Dio» (28), soprattutto per non porre limiti alla grandezza della misericordia divina. La paura s’insedia nei cuori che non accettano di essere feriti dall’amore, «proviene da uno sguardo egocentrico» (30). Ma chi smette di barricarsi nella sua fortezza e scopre la grandezza di Dio, i suoi tesori, sarà disposto a tutto, fino a comprendere che «la parabola del tesoro nel campo e della perla preziosa esigono la totalità» (31), la disponibilità a lasciare ogni cosa per incontrare l’Amore. «Dio basta perché l’amore basta. […] Non è vero che ho bisogno di tante cose se il Signore mi chiede di lasciarle. Non è vero che ho tanti doveri se essi mi impediscono di dire un pieno sì all’entrata della sua volontà nella mia vita» (33). Ma l’uomo ha paura e la stessa storia biblica mostra grandi personaggi attraversati da essa, come pure dal sentimento della propria incapacità. «Se Maria, l’Immacolata ha temuto, non dovrei forse tremare io che sono nato e vivo nel peccato? Il timore di non essere all’altezza della grazia, di non essere mai capace di rispondere, di non reggere, di non essere fedele, è principio di sapienza e fondamento dell’umiltà» (36). Anche a Giuseppe «il Signore ha dovuto ricordare che lo Spirito Santo non è bloccato nella sua opera dalla debolezza dell’uomo, ma solo dal suo rifiuto» (37). Occorre perciò superare persino ogni forma di sacro timore, per «volare verso il Sole dell’amore con le stesse ali dell’Aquila divina» (ib.), secondo un’espressione di Santa Teresa del Bambin Gesù. E l’umiltà quale mezzo di accoglienza della nostra piccolezza ci offrirà la grazia mediante cui saremo fatti tempio di Dio. Il grande invito. «La gloria del Signore li avvolse di luce… “Ecco, vi annunzio una grande gioia”» (Lc 2,9-10). «La gioia divina data agli uomini è sempre un turbine trinitario, vortice d’amore, di esultanza, di festa delle Tre Persone che si danno l’una all’altra e che prendono in sé la creatura dandole tutta la loro ricchezza, rendendola capace di partecipare e di contemplare l’infinita bellezza. […] Il dono della gioia ci è offerto: a noi tocca tendere le mani per prenderlo» (39). Ma occorre lasciarsi afferrare dallo spirito delle beatitudini. Gesù passò tra gli uomini «sgranando una litania di beatitudini» (42), dalla mangiatoia alla croce, nell’accoglienza della volontà del Padre. La gratuità della chiamata divina esige da parte umana un aprirsi alla risposta. E l’insistenza di Dio è sempre nei termini di proposta, perché «l’amore è delicatezza, umiltà, pazienza» (47). Ma la risposta di accoglienza significa partecipazione all’opera per una nuova creazione. Coloro che davvero vi parteciperanno saranno investiti di una nuova luce e saranno trasfigurati. «Come ogni 41 dialogo d’amore, la risposta al Signore è fatta di ascolto e dono, proposta e concessione, dimenticanza di sé e attenzione all’altro» (50), passando attraverso quel «bagno d’amore che è la croce», «vocazione alla gioia» perché «vocazione alla Risurrezione» (52). In cerchio intorno al fuoco. «I pastori dicevano fra loro: “Andiamo”» (Lc 2,15). «Cercare insieme» e «vegliare insieme» (53). «Dall’oscurità alla luce, dal timore all’amore, dalla diffidenza all’intimità, la luce ci conduce per un cammino di unità. Gli uomini sono divisi, perché non sanno guardarsi con occhi nuovi, non sanno riceversi gli uni gli altri nella luce» (54). L’amicizia è condivisione: «condivisione di tutto, perfino della propria oscurità, della propria miseria, della propria debolezza» (56). Come membri della Chiesa, dono di Dio, gli uomini sono immersi nell’acqua e nello Spirito Santo, e insieme sono perdonati. Con l’offerta del perdono stanno sotto lo sguardo paterno di Dio per orientare il loro sguardo oltre il loro peccato, ma la loro amicizia in una comunità di amore significa comprendersi e fortificarsi a vicenda. Così potranno diventare testimoni dell’amore, essendo l’amore fraterno «epifania dell’amore di Dio e attuazione concreta dell’amore per Lui» (59), capacità di uscire da sé in un incessante sapersi donare. Ma «non si inventa l’amore, neanche l’amore fraterno: lo si impara dall’unico che ama e che è sorgente d’amore» (61). L’amore in forma di amicizia non misura il suo darsi e si spinge senza paura di essere in perdita, come insegna l’Amore crocifisso. «Si ama dando e dimenticandosi, per la gioia di dare e non per il frutto che ne ricaveremo» (62), nel segno dell’amore di Dio che per l’uomo offre il proprio Figlio fino al sangue. E dallo sguardo rivolto al Crocifisso l’uomo impara a conoscere la sofferenza del prossimo, l’ingiustizia, l’innocenza oltraggiata, partecipando in qualche modo con Cristo al mistero della redenzione e accendendo altre anime col fuoco dell’amore. «L’amicizia vera diventa in tal modo un cammino di poveri che avanzano dandosi la mano» (64), mentre nel Dio che è amicizia e dono, «sorgente di amicizia e di dono», gli uomini diventano una comunità ad «immagine della Trinità» (65). Essi non si scelgono, ma sono scelti (cf. Gv 15,16). La giovinezza dell’amore è in questo saper ricevere ad ogni istante l’altro «come un dono scelto con attenzione dal Padre per noi» (66), che non sarà più un intruso, ma il dono che Egli «mette nelle mie mani vuote e tese: vuote di ogni progetto e tese per mendicare l’amore e la capacità di amare», in spirito di «solidarietà nel ricevere e vivere il perdono» (67). Amare con cuore di carne significa tenerezza sensibile e possibilità di venirne feriti. L’amore autentico non protesta anche quando non comprende e subisce ingiustizie. Quella vulnerabilità suscita a maggior ragione capacità e desiderio di amare, diventa cammino orientato alla Luce affinché «il Cristo regni in tutti i cuori» (70). Saper dire: «Sì». «Andiamo fino a Betlemme» (Lc 2,15). Strappati dalla luce, i pastori uscirono dalla loro notte per aderire a un invito da cui erano stati risvegliati. Per sentire ed accogliere la voce di quell’invito occorre avere uno sguardo da bambini, uno sguardo non viziato, uno sguardo che non calcola e perciò non mira alla quantità, ma vede le qualità, come lo sguardo di Gesù che penetra nei cuori e valorizza l’agire secondo le capacità di ognuno. Le vie di Dio non sono le vie dell’uomo, ma chi s’incammina sulle vie di Dio assume un nuovo sguardo. Nella sua povertà sa di «essere un vuoto che solo la Trinità può colmare» (75), perciò la povertà è strumento per potersi mettere nella condizione di ricevere la pienezza: la divinizzazione. «La povertà ci permette di partire, di sradicarci» (ib.), come fu per il popolo ebreo durante la schiavitù in Egitto o durante l’esilio a Babilonia. Ma furono anche i poveri ad aver accolto per primi la Buona Novella. La povertà di Maria le permise di dare all’umanità il Verbo di Dio, mediante un «Sì» che «ha legato l’Infinito con il finito, che ha reso capace il finito di accogliere l’Infinito» (75-76). Il «non avere» diventa condizione del partire e del ricevere, del decidersi per Dio. «Il cammino che seguirà il primo distacco sarà un susseguirsi di impoverimenti e dunque una crescita dello spazio per Dio, un crescere del nostro essere divino» (77). Dal vecchio mondo al regno della luce: «Il nostro Battesimo ci ha fatto cominciare un cammino; lungo tutto il resto della vita siamo chiamati a viverlo, a ratificarlo, a essere coloro che siamo. Il Battesimo ci ha dato la vita divina, con l’Eucaristia noi riceviamo Dio stesso in noi per divenire il suo Corpo» (ib.). Nelle difficoltà del cammino l’uomo non deve però perdere il ricordo del Volto che un giorno gli si è rivelato e lo ha chiamato, deve conservare il ricordo 42 delle meraviglie che Dio ha compiuto, come recita il Salmo 135 (v. 4 e ss). «La storia della Chiesa, come quella del popolo di Israele, è una testimonianza che Dio trionfa nonostante la miseria, la debolezza, il peccato degli uomini, e non solo dei nemici, ma anche degli eletti. La sua potenza si rivela nella nostra debolezza» (79). Bagaglio necessario e cammino. «Andarono dunque senza indugio» (Lc 2,16). Per incontrare Colui che ci viene a cercare, il Buon Pastore il cui cuore batte per noi, è fondamentale l’atteggiamento della disponibilità interiore, come l’atteggiamento di Maria quando disse: «Sia fatto di me secondo la tua Parola» (Lc 1,38), o quello di Gesù che verso il culmine della sua missione si pronunciò dicendo: «Non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39). La corrente dell’amore divino parte dal Padre con l’opera della creazione e passa per il Figlio con l’opera della redenzione. «O Dio che in modo meraviglioso hai creato l’uomo e in modo più meraviglioso ancora l’hai ricreato!» (82), canta la liturgia. Disponibilità ad entrare in quella corrente d’amore, che è anche la corrente della gioia, non significa cammino facile. Se all’intimità della vita trinitaria si arriva per una via stretta, ciò è richiesto perché il nostro cuore, l’interiorità, possa dilatarsi. Oltre la disponibilità sta il discernimento, che si attua seguendo principalmente tre piste: la pista della nostra storia con l’attenzione a quanto in essa si presenta; la pista dell’attrazione profonda che subiamo quando «scendiamo nel luogo della pace, del silenzio, dell’incontro»; la pista del consiglio che passa attraverso una persona di fiducia, un consiglio che diventa un ricevere luce nel cammino. Sono passi che tendono «a costruire una vita in dialogo» (86), una vita che discende da Chi ne è l’autore ed è resa consapevole di essere immersa nel suo amore. Alla scuola di Gesù, mite ed umile di cuore, essa si trasfigura in «scuola d’amore, di pace, in cui le materie sono le beatitudini» (ib.), in un clima di unità e solidarietà. «La vita è una proposta; la vita è una risposta. La proposta è infinita. Dio infatti non ha riservato nulla per sé; ci dà veramente tutto. La risposta non può essere che crescente per ricevere il tutto infinito» (87). Con questa prospettiva il cristiano starà al servizio del mondo anche quando sarà contestato o perseguitato, anche quando si sentirà straniero nel mondo e la croce non sarà risparmiata. Ma nel saperla portare e nell’avere il coraggio di portarla consisterà la sua arte, congiunta con l’arte di Dio che sa prendere l’uomo per mano. La grotta dell’incontro. «Trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2,16). È Dio che cerca l’uomo. In Maria, Madre di Dio, incontriamo suo Figlio. Egli sta sulle sue braccia, com’è pure raffigurato nelle rappresentazioni artistiche, per essere dato a noi. Infatti, «trovare Maria non vuol dire fermarsi a lei, ma lasciarsi prendere dal suo movimento di ascolto della Parola, di adorazione, di accoglienza al Dio che viene» (94), fino al tuffo «nel vortice vivificante dello Spirito che in lei compie la meraviglia del mistero dell’amore divino per noi» (95). Maternità divina e maternità umana. Sulla croce Gesù affida il discepolo a sua madre e sua madre al discepolo. Così lei diventa madre della nuova umanità, l’umanità rinata in Cristo, in quel segreto che è «passaggio del divino nell’umano e dell’umano nel divino» (97). L’incontro con Gesù porta pacificazione, dilatazione del cuore, apertura alla speranza, comunione serena con Dio e con le creature: «Fiumi d’acqua viva […] fertilizzano il deserto dell’umanità» (98). «Ciò che Maria ha ricevuto noi possiamo riceverlo», mentre «al passaggio di Maria tutto stilla abbondanza» (99), perché lei ha saputo vivere sotto lo sguardo di Dio. Al fianco di Maria si svolge la vita di Giuseppe, un povero di Nazareth chiamato a non temere di condurre i suoi giorni nella semplicità e nell’oscurità «con colei che il Dio che aveva fatto tremare Mosè, Isaia e Geremia aveva scelto come madre» (100). Maria e Giuseppe si riconobbero in un cammino di dono. «Giuseppe era un povero, non un potente; come i poveri egli non poteva forzare la storia a suo profitto, ma la riceveva come un invito a servire il Signore. Era il suo modo di vincere il mondo. Erode il Grande, potente e ambizioso, non ha segnato il mondo quanto l’umile e perseguitato carpentiere di Nazareth, la cui forza era l’unità interiore che lo rendeva solido come una roccia» (101-102), ma anche ricolmo di fiducia, di stupore e di ammirazione. Un canto nuovo. «I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio» (Lc 2,20). L’incontro con Gesù fa dileguare le tenebre e trasfigura la vita. Gli uomini non vivono più 43 una vita lontana da Dio, ma una vita di fedeltà che è vita di intimità e di trasparenza in Dio, in quell’unità che è la comunione ecclesiale, la quale non è di portata esclusiva, ma di portata universale. «L’unità con la Trinità realizza l’unità e la pace fra tutti gli uomini e diventa luce e testimonianza e chiamata per il mondo intero; non è dunque un privilegio di pochi, ma la missione di ogni cristiano, sua gloria, sua felicità e suo servizio» (106). «Il Cristo stesso vive il suo mistero di salvezza, mistero pasquale, nelle sue membra che sono i battezzati» (107). L’accoglienza del Cristo si fa infine inno di ringraziamento, in cui traspare la sua genuina realtà: «L’uomo è un essere di luce che si realizza unicamente liberando la luce di cui è impastato. Nel Battesimo egli è immerso nella luce divina e deve testimoniarla fino all’ultimo soffio; nell’Eucaristia la luce del mondo viene e rimane in lui trasfigurandolo e l’abbraccio del perdono lo lava e rilava dal fango che si incrosta in lui: una restaurazione continua in cui la pazienza di Dio è più grande dell’ostinazione e della debolezza dell’uomo» (109). La vita sacramentale trasfigura gli uomini e li rende un popolo di testimoni, di cercatori e di diffusori della vita. «Più che di sicurezze dogmatiche la Chiesa è ricca del sapersi salvata, ricca dunque di un dono assolutamente gratuito su cui non ha nessun diritto di proprietà e che può ricevere solo annunciandolo, proponendolo e condividendolo. L’amore infatti è vivo solo quando si diffonde. Da duemila anni questa salvezza è annunciata e trasmessa di bocca in bocca, di mano in mano» (110). La sua fiaccola continua ad attraversare spazi e tempi per giungere fino alle nostre mani. A noi l’impegno di «portarla, tenerla accesa e passarla alle generazioni future», nel segno del riconoscimento dell’opera di Dio nella storia affinché anche i fratelli siano aiutati «a leggerla e a rispondervi» (112). L’annuncio è un cantare le meraviglie di Dio, fino alla suprema: «Cristo è risorto!». Sull’esempio di Lui come Buon Pastore, il cristiano reso responsabile della salvezza del mondo deve disporsi a dare la vita per le pecore del Signore. Ma la sua azione resta un canto, un «canto innamorato e fiducioso» simile al «faro di un porto in una notte oscura e di tempesta» (114), una danza d’amore per Dio e per gli uomini. 3. Il Salmo 136: scuola di preghiera Ed. A.V.E., Roma 1988. Pagg. 32. «Rimanere pazientemente sotto lo sguardo di Dio, in una ripresa continua dell’atto di fede e dell’atto di speranza» (5). Compiere ogni azione nel nome del Signore Gesù, secondo l’esortazione della Lettera di San Paolo ai Colossesi (3,17). Abitare nella casa del Signore e rimanere nel suo amore: un tema ricorrente nella Sacra Scrittura, questa «lettera di amore che Dio ha scritto agli uomini» (6), come la definiva San Gerolamo. I Salmi costituiscono «centocinquanta preghiere in cui Dio e l’uomo si incontrano, si confondono, mescolano le loro voci. Parole sgorganti dal cuore dell’uomo che soffre, che ama, che impreca, che canta, che geme, che ascolta; parole del povero oppresso, dell’innamorato, di colui che pensa al passato e ringrazia e di colui che cerca invano una risposta alle apparenti aberrazioni della vita. […] Preghiera che l’uomo canta al suo Dio, ma in cui Dio parla all’uomo. Preghiera detta dal Dio fatto uomo» (ib.). La scelta di un motivo ispiratore per una riflessione sulla preghiera cade sul Salmo 136, un Salmo dai molteplici accenti, dove il desiderio intenso di Dio si fonde con la povertà esperienziale dell’uomo. 1 Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. 2 Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. 3 Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, 44 canzoni di gioia, i nostri oppressori: “Cantateci i canti di Sion!”. Come cantare i canti del Signore in terra straniera? 5 Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; 6 mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia. 4 Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme dicevano: “Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta”. 8 Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. 9 Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra. 7 L’interpretazione che di questo Salmo viene fornita abbandona completamente il contesto dell’esegesi storico-letterale, s’innalza ai livelli di una lettura allegorica e proietta il fedele negli spazi della spiritualità e della mistica, lasciando venire delicatamente in trasparenza la via etica della fede. V._1. I fiumi di Babilonia, il Tigri e l’Eufrate, sgorgavano dall’Eden per renderlo fecondo e delizioso. Ora sono i fiumi dell’esilio su cui si versano lacrime. La terra è diventata straniera, gli uomini non sono più nella loro terra. Costruendo la torre dell’orgoglio hanno voluto farsi un nome dimenticando il Nome. Abramo uscirà dalla terra dell’orgoglio per avventurarsi sotto la guida di Dio verso la terra della Promessa. Così i fiumi di quella terra «lasceranno il posto al piccolo Giordano. […] L’orgoglio di Babele si lava nell’umiltà di Gerusalemme» (9). Il ricordo di Gerusalemme in terra straniera si fa «memoriale», che nell’ottica cristiana ha nell’Eucaristia il suo vertice. Il ricordo di Sion diverrà ricordo di Colui che siede in Sion, grazie alla fede che «vede oltre il velo dell’invisibile» e «riceve la rivelazione» (8). Vv._2-3. «La scena è lussureggiante: salici che fanno scendere i loro rami verso l’acqua di grandi fiumi, prati verdi, arpe e canti», ma al ricordo del fedele appare «l’umile città bruciata dal sole, pietra e deserto, là dove Dio ha scelto di fissare la sua dimora». La città della ricchezza può essere la città dell’illusione. Qui gli oppressori chiedono canzoni di gioia, «come se il lusso di Babilonia potesse bastare a far sgorgare un canto innamorato», disconoscendo che «la gioia ha una sorgente sigillata di cui non abbiamo la chiave» (10). V._4. «Il Salmo si muove da una passività piagnucolosa a una sana aggressività» (11), dal lamento al grido di guerra. Il passaggio avviene per «la sfida del vincitore e il ricordo di Dio. La prima è tutto il mondo della tentazione, della prova, il secondo è la preghiera contemplativa» (ib.). Di fronte al nemico che esagera si risveglia la grazia che già risiede in noi. La prova è necessaria e Babilonia crollerà, anche se la gioia che appare al ricordo di Gerusalemme è ancora solo promessa. Si sta sospesi sull’interrogativo, mentre un cuore puro si consegna al rischio della verità. «Intelligenza e amore vanno insieme. Si conosce per amare e se non si conosce non si ama e se si ama si vuol conoscere» (13). Perciò la preghiera si fa interrogazione. Una tappa che sta oltre l’insinuazione del Tentatore: «Cantateci i canti di Sion» e in cui si attende di poter sentire l’esortazione della Verità: «Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 149,1), che sarà il canto del comandamento dell’amore: «Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui» (I Gv 4,16). «L’assoluto dell’amore nelle due direzioni: Dio e i fratelli» (14). 45 V._5. Gli uomini sono chiamati ad essere gli «interlocutori innamorati» (ib.) di Dio, ad amarlo attraverso i fratelli che s’incontrano. Amore per Dio ed amore per gli uomini. «Dimenticare questa concordia nel lodare è dimenticare l’essenziale: Gerusalemme segue necessariamente il servizio reciproco: un servizio effettivo. È il ruolo della mano. Se dimentico Dio e il fatto che tutto è per Lui, la mia destra si paralizza», perciò «il canto è un’armonia fra i “due amori” che fanno un solo amore» (15), secondo la testimonianza di Gesù, Figlio di Dio, perché chi guarda verso Dio vede anche la verità delle creature e la verità che è dentro il proprio cuore. V._6. «Dal sospiro velleitario all’atto di volontà che libera l’amore» (16). Il continuo ricordo di Dio diventa per l’uomo sorgente zampillante della sua gioia. Ma la fragilità del ricordo richiede capacità di silenzio. «Preghiera e silenzio si chiamano l’un l’altro. […] Il silenzio è una povertà volontaria e il povero trova il suo rifugio nel Signore» (17). «La grande povertà delle piccole cose fa crescere l’intimità, il ricordo di Gerusalemme. […] Il silenzio introduce alla gioia» (18). «Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme!» (Sal 121,1-2). V._7. «Edom è ogni uomo che non guarda in alto e si allaccia alle cose materiali, al piccolo bisogno, al successo immediato, senza vivere di fede e di speranza». […] Edom è chi «non comprende il mistero, non vuole vivere l’esigenza di Dio, men che meno quella del perdono fraterno» (19). Ma su altro fronte sta il giorno di Gerusalemme, il «giorno della kénosis, dell’umiliazione, della distruzione, della morte. “Crocifiggilo, crocifiggilo”. […] Edom è divisione, la kénosis di Gesù è unificazione» (ib.), per cui il giorno di Gerusalemme sarà il giorno della salvezza. «I nostri occhi malati hanno bisogno di essere toccati dalla kénosis, che è mitezza ed umiltà, che è il cuore di Gesù», senza dimenticare che «la kénosis non è solo l’umiliazione del Verbo incarnato, è anche la libertà e l’amore con cui Egli l’ha vissuta» (20), ciò che ha fatto di noi «dei peccatori amati e redenti gratuitamente» (21). V._8. L’orgoglio s’infrange, Babilonia è vista miserabile, «devastatrice devastata» (21), senza futuro. La chiamata alla vita evangelica si riassume nella proclamazione di un’espressione: «Beato!», e le beatitudini rivolgono gli animi verso Dio e verso l’ascolto della sua Parola. «Il Beato è il Cristo che ha reso a Babilonia il male che ci ha fatto, distruggendo la potenza del Principe di questo mondo». […] La Luce è venuta a combattere le tenebre, affinché tutto sia luce» (22). Gli uomini si troveranno a casa quando potranno dire «Padre nostro» e dove potranno cantare: «È buono e soave che i fratelli vivano insieme» (Sal 132,1). V._9. I piccoli di Babilonia «sono tutti i compromessi con i segreti del nostro cuore, con i pensieri, gli sguardi obliqui, i ragionamenti giustificatori, i patteggiamenti col mondo, le falsità e i risentimenti» (23). Le impurità nascoste nell’intimo sono paragonabili a bambini che però possono assurgere a dignità regale. «Schiacciare tutto questo formicolio impuro del nostro cuore è più urgente di molte opere grandiose di devozione o carità, perché è dal cuore che sgorga tutto il male. Beato chi sbatte tutto ciò contro la Pietra, e la Pietra è il Cristo (I Cor 10,4)» (23), la roccia su cui merita costruire l’umana dimora. [Alle pagine di commento al Salmo 136 fa seguito una scelta di alcuni brani dal commento che allo stesso Salmo fu composto da Sant’Agostino. Cf. pp. 25-32]. 4. Ave Maria. Un commento biblico e teologico per conoscere la preghiera più amata Effatà Ed., Cantalupa (TO) 2003. Pagg. 48. [Di questo libretto è gia stato riportato in una sezione precedente un sunto rilasciato dall’autore stesso. Cf. «Parte seconda», n° 10]. 46 5. Eucaristia. Sorgente della vita spirituale Effatà Ed., Cantalupa (TO) 2005. Pagg. 48. L’Eucaristia è un «dono trasfigurante» che non può ridursi ad un rito sociale, la cui celebrazione in tante occasioni rischia di occultarne il «senso spirituale» (8). Centro della vita cristiana e pratica che attesta un forte attaccamento dei fedeli, essa richiede di tanto in tanto soste di riflessione. Eucaristia e vita spirituale. Dall’unità su cui è costituito, l’uomo aspira ad un centro in cui convergano le attività e siano unificate le differenze. Nel mistero di Cristo è portato in comunione con la Trinità e, attraverso il mistero della Chiesa, in comunione con i fratelli. La vita spirituale del cristiano è sguardo ed entrata nel Mistero. Di qui il significato della vita mistica, non intesa come vita straordinaria, né come vita distolta dalle realtà terrestri. L’asse verticale e l’asse orizzontale della croce non s’incrociano per restare indipendenti: «Cristo, Verbo di Dio, una delle tre Persone divine, inchiodato su di essa li unisce e li inscrive nel cerchio dell’Amore» (14). L’amore come essere amati da Dio e come risposta di amore ci fonda nella relazione con Lui. E la salvezza «è la comunione con Dio nel cammino sulla terra» (16), con lo sguardo rivolto al Crocifisso che è anche il Signore glorioso. Nella liturgia si raccolgono insieme le opere umane per offrirle a Dio, ma anche «l’energia di Dio che ci fa agire sulla terra»; tutto quanto è umano si unisce alla «bontà creatrice e redentrice, affinché l’uomo collabori alla trasfigurazione del mondo» (17). Culmine e fonte dell’azione ecclesiale, come recita la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, la liturgia chiede ai fedeli di «esprimere nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede» (SC, n° 10). Ma la liturgia coinvolge corpo e spirito e a sua volta culmina nell’Eucaristia, «il sacramento di Cristo nel suo movimento pasquale, […] Lui stesso sorgente e culmine della divinizzazione a cui siamo chiamati» (19), comunione trinitaria ed ecclesiale, cioè unione con Dio non meno che con gli uomini, nel ristabilimento del progetto originario della creazione infranto dal peccato. Eucaristia e Chiesa. Nell’accettazione del proprio stato creaturale e nella libera disponibilità ad accogliere la grazia, sotto la spinta dello Spirito l’uomo si dirige verso un dono e realizza il primo tempo della conversione. I convenuti in un’assemblea per la celebrazione dell’Eucaristia già nell’atto del muoversi verso un luogo comune, un centro, mostrano un segno di conversione. Il sacramento del Battesimo immerge il fedele nella vita dello Spirito, ma il Battesimo porta con sé una volontà di vita ecclesiale, volontà di unione con tutti i battezzati. Il trovarsi raccolti in assemblea avviene in una dimensione che è anche di carattere fisico, di presenza corporea in uno stesso luogo. In essa non si può avanzare verso Dio se qualche cosa ci separa da Lui, come pure dai fratelli. Perciò si dice: «Confesso a Dio e a voi fratelli», e l’offerta deve essere presentata dopo essersi riconciliati con i fratelli (Mt 5,23-24). Non ci sarà mai innocenza piena, e di fatto l’Eucaristia non sarà «un convergere di santi, ma di peccatori aspiranti alla santità, nella carità divina e fraterna» (26). L’ascolto della Parola orienta gli uomini verso una comunione fatta di amicizia, come disse Gesù al termine del suo cammino a fianco degli uomini: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Nell’amicizia c’è intimità e c’è reciprocità. E mentre la Parola svela il mistero di Dio, lentamente conduce anche l’uomo verso una piena consapevolezza di sé, alla sua identità creaturale, frutto a sua volta della stessa Parola. Nel sacramento eucaristico Dio e l’uomo si incontrano nel trasformarsi di pane e vino, «frutto della terra e del nostro lavoro» e in quanto tali simboli dell’intero creato, in Corpo e Sangue di Cristo. Il fuoco dell’amore divino portato sulla terra da Gesù inonda così la creazione fino all’incandescenza e la Chiesa si fa Corpo di Cristo. «Il cammino esteriore piano piano diventa un cammino interiore di trasfigurazione, per cui gli uomini e i credenti, avvicinandosi all’altare e fra di loro, diventano presenza del Signore morto e risorto, che salva il mondo e lo offre al Padre» (32-33). E alla luce del sacrificio di Cristo 47 che dinamizza la vita spirituale, l’uomo responsabile passa dal ricevere al donarsi, secondo la dinamica dell’amore. L’Eucaristia ristabilisce una nuova comunione con Dio «attraverso la stessa vita del Dio fatto uomo, che si dà come cibo, come sorgente di vita, come Pane che noi assimiliamo, ma che in verità ci assimila a sé. Perché siamo noi che diventiamo Dio e non Dio che diventa noi nella comunione» (35). Se Dio s’è fatto uomo, nella consumazione eucaristica si capovolge la prospettiva ed è l’uomo a ricevere la vita divina, grazie alle «prospettive infinite nascoste sotto la piccolezza e la prossimità dell’ostia» (36), come scriveva Teilhard de Chardin. L’uomo reso teoforo diventa in tal modo lievito di vita per la vita del mondo, unità dell’umanità in un solo corpo e in un solo spirito. Ancora Teilhard de Chardin: «Tutte le comunioni di una vita formano una sola comunione. Tutte le comunioni di tutti gli uomini viventi attualmente formano una sola comunione. Tutte le comunioni di tutti gli uomini presenti, passati e futuri formano una sola comunione» (37). Portatori della presenza di Cristo e della Trinità, «presenza che si dilata nel mondo e lo conduce al suo fine», con l’Eucaristia i fedeli si mettono altresì in rapporto col mistero che è «sorgente e culmine di tutta l’evangelizzazione» (38). La liturgia terrestre non è solo eco della liturgia celeste, ma un coro unico con la liturgia celeste. Quel coro è dunque la voce di tutte le creature esistenti sulla terra o che già l’hanno oltrepassata, un coro «davanti al Dio tre volte Santo» (40). L’Eucaristia ci è data per essere adorata. «Adorare l’Eucaristia è vivere la missione del Cristo, Pane spezzato per la salvezza del mondo: non si può stare con Lui senza andare con Lui» (42), impregnati dal mistero della redenzione e nel segno della grazia che è dono di Dio ed è strumento di trasfigurazione. A coronamento del mistero eucaristico sta il tema e la realtà del martirio. «Il martire è anch’esso Eucaristia e il cristiano testimone, “martire” di Cristo nella sua vita, è un’Eucaristia vivente» (45). Intanto silenziosamente avviene la crescita del Regno di Dio in mezzo a noi, tra un già e un non ancora. 6. Come voce di sottile silenzio. Interiorità e rapporto con Dio Ed. Paoline, Milano 2006. Pagg. 112. Introduzione. «L’uomo che sale con fatica su una montagna solitaria, quando si ferma per ritrovare il respiro o guardare il percorso fatto, vede in modo diverso il luogo da cui proviene. La sua percezione delle cose diventa più ampia e si ridimensionano le forme del mondo che lo circondava» (5-6). Chi attende impaziente che Dio si manifesti con violenza è destinato a rimanerne deluso. Elia sul monte Oreb scopre la presenza di Dio non nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nel mormorio di un vento leggero (cf. I Re 19,8-13). «Dio non si lascia afferrare, né possedere: si dà liberamente, gratuitamente, “per primo” (I Gv 4,19). Accolto nella fede, dimora in chi lo ascolta, una presenza “sottile” ma forte, una Parola che è rumorosa come il vero silenzio, che scava nel cuore e ci fa udire “parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare” (II Cor 12,4)» (7). «La Parola di Dio apre il nostro sguardo all’incontro con gli uomini e le donne del nostro tempo e dovunque possiamo bere alla fonte di acqua viva, perché Colui che è la Sorgente ha preso il volto dell’uomo e abita la povertà di ciascuno, fa proprie tutte le ferite dell’umanità e le rende feconde» (8). Qui è un cammino che copre l’arco intero della vita e grazie al quale si perviene a scoprire che non solo la trascendenza è il mistero di Dio, ma più ancora la sua vicinanza e la sua intimità all’uomo, la sua presenza nell’umanità. La presenza di Dio. La fede non assopisce gli interrogativi umani su Dio. Giovanni, verso il quale andavano un tempo le folle, quando si trova in carcere manda i discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11,3). Gesù non rilascia rassicurazioni facili, permette piuttosto esperienze della sua presenza che recano impronte significative. Dio, infatti, «non si rende presente in modo convincente, assoluto, vincolante. È un mistero rivelato a chi vuole comprenderlo, a chi vuole lasciare che la propria vita sia coinvolta in un’avventura di povertà e umiltà, di 48 speranza sicura» (11). Gesù stesso offre spunti e mezzi per riconoscerlo, «non l’evidenza che abbaglia» (12). Il volto di Dio non può essere visto (cf. Es 33,18-23). Le sue risposte sono un silenzio misterioso che rimandano l’uomo a se stesso. «Da Lui siamo raggiunti nella povertà, nell’abbandono, nella solitudine. Nel deserto» (14). Ma anche nella domanda sul «Chi» cerchiamo. «L’uomo è stato creato per amare e non per fare; fare è un modo di amare, e non l’amare un modo del fare. […] Il fare uccide l’uomo quando ne diviene lo scopo, quando il fine sta nel successo dell’opera e non nella verità della relazione» (15). Immagine di un Dio Trinità, l’uomo è chiamato a vivere nella comunione, nella rinuncia ad ogni forma di autonomia che sfiguri la relazione. L’ostacolo alla relazione è un diaframma che biblicamente si chiama «peccato». L’uomo per uscirne deve portarsi alla presenza di Dio e dei fratelli, fuori del proprio territorio, compiere un «esodo». «Convertirsi è “rendersi” all’altro» (17). Seguire quel desiderio inesprimibile celato nel nostro cuore che infine lascia che l’altro si renda presente in noi. Rimanere in Lui. La presenza di Dio nell’uomo restaura il suo essere fatto ad immagine di Lui. Alla ricerca di Dio siamo condotti per un ricordo, la memoria di un’esperienza o di un momento unico. «È l’incontro forse inaspettato con Lui che ci sradica dalle nostre posizioni e fa di noi dei cercatori sempre pronti a ripartire per terre nuove. […] Il pellegrino dell’Assoluto [...] è un essere sempre contento perché cammina sulla Roccia della presenza divina» (20), che però è un instancabile avanzare tanto con la speranza quanto nell’amore: «Non si può godere della divina presenza, senza essere dinamizzati nella carità» (22). Uscire, camminare, avanzare. Fidarsi di una Parola che è luce. Memoria di un incontro che lavora e purifica il cuore. Percezione di una Presenza che è mistero. Avvicinamento al «mondo dell’amore offerto, dell’amicizia proposta come clima di vita», per ritrovarsi davanti al «Tutt’altro», all’«Inafferrabile», la cui «bellezza infinita non è sopportabile ai nostri occhi» (24) e la cui manifestazione induce un senso di timore e tremore, in quanto rimane «il Dio nascosto, il Dio santo, il Dio tremendo» (26). «Per questo non ci si può avvicinare a Dio con disinvoltura, anche se si può e si deve avere l’audace semplicità dei bambini, secondo l’invito di Gesù stesso» (27). «Il timore umile ma fiducioso fa nascere nel cuore l’amore, in modo che più siamo coscienti della distanza ontologica fra Dio e noi, più sperimentiamo la vicinanza; in un certo senso più la filosofia ci dice che Dio è distante, più la teologia ci dice che è vicino fino all’unità, perché Dio ha voluto essere più grande del suo essere infinito, facendosi piccolo come noi, per essere in comunione con noi» (28). Ascoltare la Parola. «Per quel misterioso senso delle cose divine che, nonostante il suo volto spesso troppo umano, la Chiesa ci comunica, essa ci chiama a fare di tutta la nostra giornata un atto di adorazione e un tempo di ascolto» (29). «La Parola è creatrice ed è nello stesso tempo relazione fra Creatore e creatura» (30). La creazione scaturisce dalla Parola di Dio, e dalla stessa Parola scaturisce la redenzione. L’incontro con Dio avviene grazie alla sua Parola e al nostro ascolto, una Parola che è spesso silenzio e il cui vero esegeta è lo Spirito Santo. Un cammino che ha per modello «l’erranza di Abramo». «Saper ascoltare comprende una conversione al silenzio che trasforma il nostro volerci imporre in apertura alla realtà dell’altro, il nostro voler essere al centro in una comunione circolare dove la comunicazione e la vita nascono dall’essere insieme. Non c’è esodo più grande. […] Il cristiano non ascolta il silenzio, ma Qualcuno che parla nel silenzio» (32-33), nella grotta dell’intimità dove si tesse il mistero della comunione, del cammino verso Dio e verso gli uomini in «attesa fiduciosa e dinamica» e si prepara lo «spazio di accoglienza alla vita» (35). Una lettera da casa. I Padri hanno visto nella volontà di Dio di mettersi in comunicazione con l’uomo il ruolo particolare della Sacra Scrittura, «lettera d’amore di Dio all’uomo», secondo San Girolamo, o «lettera proveniente dalla patria, mentre noi siamo emigrati in terra straniera» (37), secondo San Cesario d’Arles. «La Parola di Dio è, dunque, non solo una lettera su Dio ma di Dio», grazie alla quale «siamo anche istruiti su ciò che non conosciamo ancora» (38). Essa porta agli uomini l’amore, li allontana dalla solitudine e fa risuonare nei loro cuori lo spirito delle beatitudini. Ma indispensabile resta sempre l’ascolto, perché «chi ascolta è discepolo, cioè qualcuno che sa di aver bisogno di un 49 Maestro. Questa è la vera sapienza» (41). «L’apertura alla Parola che ci raggiunge, ci rende disponibili e attenti anche a tutti i passaggi attraverso cui ci perviene la voce di Dio, in particolare la voce degli uomini. Sono i postini che recano la Buona Novella. Isaia diceva già: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio” (Is 52,7). Quando aspettiamo una notizia importante, l’arrivo del postino, il controllo della posta elettronica, la voce che ci dice: “C’è una lettera”, fanno sobbalzare il nostro cuore. Così è per l’arrivo a noi di una Parola di Dio» (42). Il cristiano sa riconoscere quella Parola, per esempio, tanto «negli scritti di un mistico che balbetta le sue intuizioni sconvolgenti» quanto «sulle colonne di un quotidiano che racconta, spesso banalizzandola, la vita mai banale degli uomini» (43). Comprendere e ricordare. «Quando si ama, si vuole entrare nella vita della persona amata e si desidera che questa entri a far parte della nostra vita» (44), senza per questo cadere in una fusione che annulli la personalità. Ma nell’irriducibilità dell'altro a se stessi occorre mantenere sempre viva nei suoi confronti, e proprio in nome dell’amore, la capacità di interrogare. È così anche dinanzi alla Parola di Dio, che «non ha trovato una lingua al di fuori dei tempi, dei popoli e delle culture. Eppure la Parola di Dio è Parola più grande della parola umana, si nasconde in essa, la riassume tutta e la sorpassa; si fa capire da tutti e in tutte le epoche “parla”. […] La Parola trasmette un mistero, un volto velato, una luce nascosta, l’altro. […] L’intelligenza accoglie la Parola divina, la osserva per scoprirne la bellezza. Vuole assaporarne il messaggio» (45). Ma l’uomo rimane «al di qua del mistero» (46). Forse la luce della conoscenza emana il suo raggio quando egli scopre di non comprendere nulla. Di qui l’importanza del «ripetere la Parola, come un bambino che impara a parlare. […] Significa accettare che essa bussi alla nostra porta per farsi aprire; è vivere un’adorazione accogliente; è sentirsi piccoli davanti a una grandezza che attira, trasformandola in preghiera, in scambio fra Dio che parla e l’uomo che risponde, Dio che insegna e l’uomo che impara, l’uomo che chiama e Dio che porge l’orecchio» (47). Grazie alla comunione con Dio che si realizza tramite la Parola data ed accolta, l’uomo riceve un’identità che lo rende più grande di quel che è e lo innalza ad essere mistero per se stesso. Memorizzare la Parola, fino a tessere un complesso di risonanze che generano nella memoria una piccola Bibbia, una sequenza di luci che tracciano il cammino: «Lampada ai miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino» (Sal 118,105). La Parola che portiamo in noi, in una convivenza di silenzio e dialogo, ci introdurrà col cuore nel mistero trinitario: «oltre la ragione, ma non senza la ragione, per intuire qualcosa che la ragione non raggiunge» (51). Dalla lettura alla fede… La Parola di Dio «non si impone, per riceverla bisogna aprirsi» (52) e «grazie alla fede l’uomo sa come Dio sa, sa perché Dio sa, perché Dio ha parlato, si è rivelato» (53). Nell’abbandono a Dio l’atteggiamento umano si fa dinamico fino a spingersi «oltre i confini dell’umanamente possibile, del prevedibile, del calcolabile» (ib.). «L’ambiente umano diventa ambiente divino. Apriamo gli occhi e vediamo l’invisibile se accettiamo di vedere con l’umiltà di chi crede, con la forza di chi spera, con l’intelligenza di chi ama» (54), fino ad ottenere la forza di acconsentire al progetto divino che trasforma la nostra vita. …E dalla fede alla vita. «Con la fede le parole scritte o annunciate sono diventate fibre viventi della nostra esistenza, carne della nostra carne, cuore del nostro cuore» (56). La Parola ci purifica mentre svela la nostra identità per ricostruirla capace di un nuovo canto. Ci spoglia di quel che siamo per renderci mendicanti di un dono d’amore ed aperti a riceverlo. «La nostra vera natura è questa nudità che ci lascia solo essere figli spogliandoci da tutto ciò che ci sottrae all’amore paterno, che ci rende semplici come Dio è semplice» (59), fino al ripristino della somiglianza dell’uomo con Dio laddove l’uomo risponde con l’amore all’amore. Presenza di Dio nei sacramenti. Riceviamo la Parola di Dio con l’intero essere nostro, che è spirito, anima e corpo. E Dio, nella sua fantasia, ci incontra in molti modi e secondo quel che siamo. «La Presenza divina, le nozze fra Dio e l’umanità, trova un’intensità particolare in quello che noi chiamiamo “sacramento”» (62), che in senso 50 ampio riguarda qualsiasi segno fisico atto a divenire strumento di incontro con Colui che resta «inaccessibile, invisibile, inconoscibile» (63), passando anche attraverso la corporeità, fatta di sensi. La rappresentazione figurativa del divino nell’arte, per esempio, è il frutto di occhi che cercano Dio nella bellezza pur non vedendolo. L’orecchio è l’organo di passaggio della Parola di Dio, e con l’udito si ricorre alla musica e al canto che potenziano nel culto l’intensità della comunione con Dio. Nelle religioni il tatto si esprime mediante la devozione del toccare oppure del baciare (il bacio della croce, il bacio delle icone). I profumi come l’incenso, gli oli consacrati, l’acqua di rose in alcune Chiese dell’Oriente indicano l’importanza dell’odorato, mentre il gusto occupa un posto di rilievo attraverso un cibo o una bevanda che si consumano in un banchetto. Ed anche in relazione ai sette sacramenti vi sono sempre elementi sensibili che rendono viva e vivificante la Presenza reale di Dio, dall’acqua del Battesimo al crisma della Confermazione o dell’Unzione degli infermi, dal suono della parola nel sacramento del Perdono a tutti i simboli della Liturgia Eucaristica, alla quale si ricorre anche per la celebrazione dell’Ordinazione sacerdotale o del Matrimonio. Gli uomini come presenza. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). L’uomo è sacramento della presenza di Dio sia perché ne porta l’immagine, sia perché il Verbo di Dio, incarnandosi, è divenuto simile a noi. Oltre la grandezza e la bellezza della creazione, di cui un Salmo canta: «Sopra i cieli si innalza la tua magnificenza» (Sal 8,2), Dio si rivela in frangenti sempre più piccoli: «il roveto ardente interpella, nascosto nel deserto, un solo uomo, profugo e mercenario; il Sinai è terrificante agli occhi di un popolo errante, ma Elia vi incontra il Signore in un soffio leggero, o meglio nella “voce di un silenzio sottile”. La nascita di Gesù è in una grotta, i Magi fanno parlare la città per un breve momento; il Battesimo nel Giordano, in cui Dio si è rivelato Trinità, passa quasi inosservato e la notte di Pasqua è un mistero che solo Dio conosce» (72). Ma oltre questi momenti particolari della storia salvifica, è nella dimensione della vita ecclesiale che ogni uomo assurge a parola e presenza di Dio, si fa teofania. Il volto di Cristo è presente sia in chi attivamente agisce con la parola, l’aiuto e l’esempio, sia in chi passivamente mostra difetti, povertà e infermità. Adorazione del Dio nascosto nel fratello che riflette la sua luce infinita, nell’unicità di ogni uomo derivante dal fatto che «nella sua infinita bellezza il Creatore non si riflette due volte alla stessa maniera, perché l’infinito non può ripetersi» (73). Di qui la necessità di rispettare l’alterità del fratello, la sua irriducibilità alle nostre aspettative, benché uno solo sia «Colui che cerchiamo e troviamo sul volto di tutti» (75), invisibile con la presenza del suo Spirito, ma visibile nella presenza degli altri, tanto più là - dice il Vangelo - «dove sono due o tre riuniti nel mio nome» (Mt 18,20), in un’opera costante di trasfigurazione della propria umanità. Incontrare… «In Gesù, Dio si è fatto prossimo» (77), uomo al fianco degli uomini per proporre loro l’amicizia di Dio. Ma non esiste amicizia senza sguardi che s’incrociano. Nella contemplazione, lo sguardo attento è ad un contempo immobile e dinamico, disponibile all’attesa e allo slancio, all’ascolto e alla proposta. «Incontrare Dio provoca timore perché siamo più disarmati davanti alla tenerezza e alla misericordia che di fronte all’aggressione e alla violenza» (78). Ma la contemplazione di Dio passa attraverso il riconoscimento della nostra debolezza. «Finché lo sguardo orgoglioso si alza fiero verso il cielo, Dio si nasconde, come se fosse assente. […] Quando questo sguardo si vela di lacrime, l’occhio del cuore vede l’invisibile. Le lacrime sono la lente necessaria per vedere il Dio di tenerezza e di misericordia, il Dio della gioia e del perdono, della fantasia d’amore e della provvidenza, della correzione rigorosa e della forza della salvezza» (79). «Le lacrime sono una beatitudine che si unisce a quella dei poveri, degli umili, dei miti, ma anche a quella dei misericordiosi e di quanti vivono la vera compassione, avendo un cuor solo con i sofferenti». […] Nelle lacrime diciamo sempre la nostra piccolezza» (80). Le lacrime di chi è affaticato ed oppresso dispongono all’accoglienza di un incontro che alleggerisce il peso da portare, rendono l’uomo capace di arrendersi all’amore di Dio. Ma quando sono le lacrime del Verbo di Dio, esse scorrono «per lavare e ridare la meraviglia che l’uomo prova quando guarda se stesso nella luce di Dio. […] Gli occhi del Verbo piangono per darci 51 “occhi che vedono”. […] Sono l’epifania degli occhi del Padre che vede da lontano» (84). Lacrime che non accusano, ma che invitano ad una festa, come nella celebre parabola del figliol prodigo. «L’incontro è sempre festa e intimità, luce e penombra, qualcosa di definitivo e di fragile, come le nozze umane che devono essere celebrate ogni giorno perché l’altro o l’altra non diventi straniero» (85). …Con umanità. Quando nella Regola di San Benedetto si parla dell’accoglienza degli ospiti, si valorizza l’importanza delle relazioni umane anche per chi si è ritirato nella solitudine e vive separato dal mondo. La priorità spetta alla preghiera comune, all’umiltà e alla cortesia come segno di carità. Se la relazione della vita trinitaria resta il modello delle nostre relazioni interpersonali, unità ed alterità debbono trovare in queste ultime un’analoga realizzazione, perché «l’amore vuole che l’altro sia altro» (88). Succede invece spesso che nelle relazioni umane interpersonali si ponga l’accento, più che sull’essere persone con altre persone, sul proprio ruolo, «sorgente di arroganza e divisione. […] L’arroganza è una piaga pericolosissima perché genera conflitti, diffidenza, rabbia e desiderio di rivincita o vendetta: cioè degrada i rapporti umani facendoli diventare rapporti di forza. E la troviamo nelle persone migliori. L’arroganza si infila dappertutto, anche nel clero, nei vescovi, in chi opera la carità, in chi si dà con estrema generosità al servizio degli altri, fra amici incrinando l’amicizia, nei rapporti di lavoro bloccando la cooperazione. È onnipresente e la vigilanza deve essere instancabile» (89). L’arroganza può giungere addirittura a fare del servizio uno strumento di potere. Invece l’umiltà è rinuncia ad ogni potere e guarda con benevolenza verso chiunque, compresi gli infimi e i peccatori. Così è della mitezza, che ha «un fondo di tenerezza e una carica di fortezza» e costituisce «il modo con cui possiamo donarci agli uomini» (92). Il conflitto necessario. Se da un lato «il conflitto, uccidendo la relazione, uccide l’uomo» (93), dall’altro «la paura di un conflitto rivela grande egocentrismo e mancanza di realismo. Le divergenze di opinioni, come un’offesa che ha ferito, trovano in genere una via di libertà e di pace se sono messe in luce, non per diventare armi che distruggono, ma per aprire un varco in una comunicazione che si va chiudendo» (94). Ciò richiede una costante attenzione alla persona e un rendersi capaci di ascolto che sono atteggiamenti di non poco conto. «Il primo elemento della comunicazione non è ciò che devo dire, ma a chi devo parlare, con chi entro in contatto» (95). Altro elemento non trascurabile per una comunicazione autentica è l’uso del linguaggio. Come per farsi comprendere dagli uomini Dio ha parlato un linguaggio umano, così quando l’uomo si rivolge all’uomo deve a volte accantonare certi propri bagagli, perdere certa ricchezza, anche spirituale, per favorire una reale comunicazione. «L’umiltà di Dio sta nel suo velarsi per rivelarsi» (97). Anche gli uomini debbono imparare a non invadersi a vicenda, a non investirsi con la loro arroganza, ma piuttosto a lasciarsi toccare dalla realtà dell’altro: «Per ascoltare è necessario credere che l’altro abbia qualcosa da dirmi» (ib.), che sia trattato non come un chiunque, ma come una persona che porta un nome, una storia, un’identità. La comunicazione è saper abbandonare le parole dette per annientare e saper favorire le parole che invitano ad esistere e fanno crescere. Tali parole non provengono dal nulla. «Il silenzio è la culla in cui nasce la comunicazione e il setaccio in cui questa perde tutto ciò che le toglie vita, annulla il suo scopo, la degrada ad ammasso di parole senza vita; è la terra in cui la comunicazione si nutre e porta frutto» (98). Esso «squarcia le tenebre della solitudine» affinché il nostro vivere non diventi una realtà «simile all’atrio di una stazione in cui sfioriamo una massa di persone, ma non incontriamo nessuno» (99). Purificare il cuore. [Nel capitolo sono anticipati o riassunti i temi che trovano un più ampio sviluppo nella pubblicazione successiva, dal titolo: «Un cuore puro», cui si rinvia]. Un pensiero per concludere. «Dio è amore e l’amore lo si attende come sorpresa totalmente gratuita e secondo l’intuizione e l’inventività di chi ama» (110). Occorrono però fiducia e pazienza dilatate nel tempo e con umiltà, con la forza di alzarsi ogni mattina dicendo, come diceva un antico monaco: «Oggi comincio» (111). 52 7. Un cuore puro Libreria Editrice Psiche, Torino 2008. Pagg. 96. La pienezza della legge si compie, secondo la prospettiva cristiana, nell’amore, e l’amore, come ben canta l’Inno alla carità (I Cor 13,4-6), presuppone che il centro dell’uomo, il suo cuore, sia «puro», fino ad essere capace di «dilatarsi a una dimensione tendente all’universale» (8), in una scelta di comunione invece che di autonomia, auroreferenzialità ed egocentrismo. La purificazione del cuore significa stabilità nella verità e nella libertà, crescita in umanità ed incontro con Dio, che rappresenta in definitiva lo scopo dell’uomo. Un cuore puro non significa assenza di peccato. Ma è necessario il riconoscimento che nell’uomo c’è un disordine che lo fa sconfinare non solo dall’essere cristiano, ma a volte anche dall’essere autenticamente umano. L’uomo è chiamato a quell’ordine in cui crescono in lui, contemporaneamente, umanità e divinità, in un restauro in Cristo della sua immagine e somiglianza con Dio. Avverrà così all’unisono l’abbraccio di Dio e l’abbraccio dei fratelli. Il cammino dell’uomo si volge ad una meta, e la meta è Dio quale vero riposo e pacificazione che consegue a tutta la ricerca umana. Le tappe percorse nel tempo ricevono una più giusta luce in un orientamento verso Dio che è l’Infinito e l’Eterno. «Solo la bellezza di Dio risponde al desiderio di bellezza che ogni uomo porta in sé» (20). Nel discorso delle Beatitudini Gesù dice: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). E in un altro passo evangelico Egli afferma che a rendere immondo l’uomo è ciò che esce dalla bocca perché proviene dal cuore (Mt 15,17-19). Lì va rivolta l’attenzione. Ma un cuore sinceramente affranto «si lascia ferire dalla luce divina» ed è riammesso «alla presenza di Dio, in piedi, con fiducia, capace di dialogo e di amicizia» (22). Di fronte all’impotenza della volontà e ai moti incontrollabili di istinti e desideri si può comprendere che la purificazione del cuore richiede un’azione da parte di Dio, con disponibilità da parte umana alla collaborazione. Questo significa che «la vita spirituale dell’uomo è una sinergia, cioè un lavoro comune tra Dio e l’uomo» (25). «Il lavoro di Dio è una mano tesa che invita la mano dell’uomo a rispondere. Michelangelo nella Cappella Sistina, nel famoso dipinto della creazione di Adamo, rappresenta il Creatore che arriva con potenza, quasi con violenza, con il dito teso verso l’uomo. Questi è invece rappresentato come totalmente impotente, mollemente sdraiato a terra, ma con un dito alzato e teso verso il Creatore che viene. Anche se le due forze non sono certo paragonabili, il lavoro di conversione, di purificazione del cuore, lo sforzo della vita e dell’amore che illumina l’esistenza, sono una sinergia, un incontro di forze ineguali, ma entrambe mosse da una volontà libera che in Dio è amore perfetto e nell’uomo una tensione verso tale amore» (26). Sarà la grazia a rendere il cuore dimora divina. E sarà in Gesù che l’uomo potrà essere preso per mano per essere condotto in un movimento che è il lavoro di Dio, fino alla partecipazione gioiosa della comunione trinitaria. L’umile ascolto della Parola di Dio e la partecipazione ai sacramenti celebrati nella Chiesa sono strumenti indispensabili per ricevere la grazia ed entrare in un cammino di purificazione. Senza però dimenticare che la vita quotidiana, nella sua semplicità, nelle sue fasi e fino ai risvolti ultimi, offre gli strumenti principali per intraprendere quel cammino di purificazione guidato da Dio. L’ascolto della Parola è una parte attiva cui l’uomo non può sottrarsi. Leggere il testo per lasciarlo scendere dentro di sé, meditarlo per gustarlo, pregare perché la Parola orienti verso il dialogo e l’amicizia con Dio, senza tralasciarne lo studio, il quale assume la forma di «una seria ricerca della Verità in cui l’intelligenza deve piegarsi a dei dati che non dirige» (41). Tutto questo per rispondere «a Colui che è al di là di ogni conoscenza e di ogni riduzione a sé» (42), come attesta la chiamata di Giona nella sua missione di inviato da Dio verso la corrotta città di Ninive. Ma nel cuore dell’uomo c’è un lato «bambino» che ne esprime tutta la bellezza e che, se reiterato, lo renderà grande nel Regno dei Cieli (cf. Mt 18,3-4). L’intervento di Dio è uno sguardo, una presenza che può presentarsi come fuoco o come brezza leggera: «nella Bibbia ci sono entrambe le possibilità; sulla stessa 53 montagna si presenta nel fuoco a Mosè e nella brezza leggera ad Elia. Troviamo questi due modi anche nella vita di Gesù. Al lebbroso con molta dolcezza Gesù ha detto: “Lo voglio, sii mondato!” (Lc 5,13), mentre nel tempio, per purificare, ha usato una grande energia, addirittura la violenza (cf. Gv 2,14-16)» (44). Anche gli uomini hanno bisogno di trovare nel loro cammino una persona di fiducia che li sappia accompagnare aiutandoli a vegliare, una persona autorevole che sia capace di essere propositiva e mai impositiva. Il cuore che si volge verso la Luce si stabilisce in un cammino di ascesi e in primo luogo realizza una metánoia, un cambiamento di atteggiamento interiore, che da un lato è «movimento progressivo che scende in profondità», dall’altro è «apertura a un mondo nuovo, a una presenza nuova» (50). Convertirsi vuol dire voltarsi, anche se non tutto il male che dimora nell’intimo viene cancellato. Convertirsi è lasciarsi raggiungere dallo sguardo e dalla presenza di Colui che è l’Amore. Il pentimento è accompagnato dalle lacrime che sgorgano dal cuore. Esse scaturiscono dalla percezione che Dio ci manca, o dal fatto della sua assenza, di cui parlano i mistici. Tra l’uomo e Dio c’è una distanza invalicabile, ma «nella sua pedagogia per aiutarci a incontrarlo e a vivere nella fedeltà, Dio più spesso si nasconde per essere cercato; questo nascondersi è necessario per introdurci nella verità, perché Dio non può essere raggiunto che con la fede e questa è oscura» (54). Assenza apparente in una presenza reale, che richiede da parte umana una risposta di fede, di speranza e di amore. Una seconda causa delle lacrime di pentimento è la presa di coscienza della manchevolezza umana, come pure della sua piccolezza per la quale non di rado il cuore si strugge. Ciò avviene quando si sa di stare di fronte ad una Presenza: «Come Creatore Dio desidera vedere la bellezza della sua creatura, che è riflesso della propria bellezza trinitaria, cioè una bellezza di comunione. Come Padre desidera vedere il volto del Figlio riflesso nel volto dei figli, perché il suo amore sia ricevuto e viva; come Amico desidera l’intimità, l’appartenenza» (54-55). La Madre del Signore è un dono ed è una luce sulla via della compunzione, perché è Colei che, «incrollabile nella fede e forte nella speranza, è stata sotto la Croce per ricevere il Sangue della Redenzione e insieme noi come figli da suo Figlio» (56). Grande artefice della purezza è l’umiltà, che nel cuore dell’uomo si origina «da una docile presenza a Dio, cioè dal fatto che accettiamo di non essere il centro del creato e neanche dei nostri interessi, ma che la nostra è vita vera quando muoviamo nell’orbita intorno a Dio, quando il nostro centro è Dio stesso. Verità di larga portata, perché non è solo questione dell’esistenza di Dio, ma del fatto che il nostro vero realizzarci sta nella comunione con Dio e con gli altri» (59-60). «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria», recita il Salmo (113B,1), mentre il proprio bene è nella ricerca del bene degli altri. Con lo spirito di umiltà l’uomo si libera dal personaggio che vorrebbe essere e che lo paralizza, per essere infine anche libero da molte contraddizioni inevitabili, non ultima la contraddizione della morte. L’umiltà porta al riconoscimento che la nullità dell’uomo in sé e per sé è superata nel divenire qualcuno grazie all’essere amato da Dio. E tale riconoscimento si traduce visibilmente in atteggiamenti concreti, senza più imporsi, soverchiare, primeggiare, aggredire. L’ascesi cristiana si differenza dallo stoicismo, da cui pure ha attinto elementi etici, perché culmina nel trovare «una serenità davanti a Dio e una capacità di relazione libera con il prossimo» (66). La purificazione del cuore passa anche attraverso la carità. Nello sforzo per amare i fratelli viene impedito il ripiegamento su di sé ed attuato il dispiegamento verso gli altri, grazie a cui si viene liberati da sguardi impuri dovuti a malizia, doppiezza e volontà di sfruttamento degli altri. La forma più alta della carità fraterna si ha nell’amicizia, ma l’amore è un cammino, un desiderio che esprime ancora mancanza, una volontà di crescere verso un fine. Un uomo dal cuore puro è vulnerabile, «non ha difese di fronte alla sofferenza del fratello, la prende su di sé, la porta, come l’Agnello che prende sulle spalle e toglie il peccato del mondo»; ha bisogno «dello Spirito Paraclito che imprime in lui il volto e la forza di Cristo» (71). Un cuore puro si qualifica innanzitutto nella semplicità, attraverso un passaggio dalla molteplicità all’unità, dal caos degli idoli all’ordine dei valori. Ma al contempo si volge senza compromessi ad un amore unico, accogliendolo come grazia di 54 Dio. Lotta, ascesi, tensione: nell’essere un permanente cercatore, l’uomo può trovare pace se con Gesù sa portare la Croce. «Un cuore pacificato con se stesso […] è il frutto di un lungo cammino che non ha mai sosta. L’apparente immobilità di un falco o di un’aquila costa uno sforzo ben più grande di una picchiata o di un volo battendo le ali» (77). Il cuore dell’uomo è una proiezione verso il reale, verso l’esterno, in un rapporto col Tu e tutto quanto lo circonda, «perché l’uomo è creato capace e bisognoso di relazione, di dialogo, di incontro e di confronto» (ib.). Sguardo di speranza per superare gli ostacoli, sguardo positivo che ricostruisce da ogni perdita o mancanza, sguardo che volgendosi ad altro si riconosce essenzialmente bisognoso di essere riconosciuto ed amato, sguardo che infine scopre la meravigliosa bellezza del Creatore e delle creature. Semplicità del cuore come capacità di cedere: la lotta per la pace è accettare di perdere la battaglia della ragione di parte o degli interessi del singolo, nella rinuncia a parteggiare con gli aggressori. Semplicità del cuore come fiducia negli altri, allontanando atteggiamenti di sospetto e di difensiva. Semplicità del cuore come lotta contro ogni «volontà di male verso Dio e verso gli uomini o anche verso se stessi» (87), resa possibile, per usare un’espressione di San Francesco di Sales, da «uno sguardo che va diretto verso Dio» (88). La pace che inonda l’interiorità dell’uomo è perciò contemporaneamente apertura a Dio e dialogo con gli uomini, tra gratuità e perdono, bontà e superamento delle offese, in attesa di una giustizia che verrà dall’alto, come canta il Salmo 84 (vv. 11-12): «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo». Ma anche, secondo il detto di un antico monaco: «Metti la pace nel tuo cuore e una moltitudine intorno a te sarà salvata» (91). 55 Parte quarta L’incontro con padre Cesare Liceo D’Azeglio - Torino, 7 novembre 2008 1. Presentazione e introduzione Pier Giuseppe Pasero In apertura. Anzitutto un saluto e un grazie di cuore a padre Cesare per aver accettato di venire come monaco a parlare in un Liceo, in primo luogo a studenti, però anche a tutti gli amici qui presenti. Un avvenimento insolito nella scuola laica dei nostri giorni, ma certamente nel rispetto dei valori più autentici che sono insiti nel concetto di laicità, che richiede la capacità di apertura alle più svariate esperienze della nostra humanitas, di cui l’esperienza religiosa in generale, e monastica in particolare, sono come tante altre esperienze parte rappresentativa. Quando chiesi a padre Cesare se fosse stato disposto a venire a parlare dell’esperienza monastica in questo Liceo, mi rispose con un quasi convinto «No!», marcatamente secco ma col sorriso sulle labbra, ricordandomi la sua esperienza di insegnante di Religione, della durata di tre ore (io credevo fossero tre giorni, in realtà, chiedendo precisazione, mi è stato riferito poco fa che si trattò di ben tre ore!), in un Liceo torinese: era il ’68, uno degli anni più caldi e furenti di tutta la storia della scuola italiana. L’ironia sottesa in quel «No!» lo faceva però oscillare tra il «Ni!» e il «Sì!», non so se più per desiderio di riprovarci o se per atto irrinunciabile di carità cristiana. Forse per entrambi! In seguito a varie vicende e un po’ di insistenza, eccoci finalmente insieme. Si vedrà oggi che cosa ci regalerà la trasfigurazione di quel «No!», nel tentativo di far conversare mondo giovanile con fede e tradizione monastica, tra domande spesso forti e piene di attesa da un lato e presenza di un mondo misterioso dall’altro. La figura di padre Cesare e il Monastero di Pra ’d Mill. [Cenni a quanto esposto al punto n° 1 della «Parte prima»]. Perché questo incontro? Alla base vi sono motivi legati ad una storia personale. Incontrai padre Cesare per la prima volta nel Seminario di Fossano (CN) quando frequentavo la I o II Media. Nella memoria conservo ancora un nitido flash di quell’incontro, il ritratto di un personaggio tra il piacevole, l’interessante e l’affascinante. Lo conobbi meglio anni dopo durante due soggiorni nel Monastero di Lérins, il primo di una settimana nell’estate del 1977 e il secondo di tre settimane tra il febbraio e marzo del 1981. Furono settimane tra le più belle ed intense del mio cammino spirituale. E poiché la nostra ricerca dell’Assoluto, del Trascendente, di Dio passa anche attraverso le forme relative e contingenti che incontriamo, mi limito a dire, ovviamente con allusione a padre Cesare, che le persone che con il loro carisma sanno incidere gli animi si portano nel cuore per tutta la vita, anche quando fisicamente ci si fa latitanti nei loro confronti, tra responsabilità personali e circostanze non sempre dominabili. E contemporaneamente si ha il desiderio che amici o conoscenti le incontrino ed eventualmente facciano un’analoga esperienza. Ma oltre ai motivi di storia personale stanno motivi più sostanziali legati a quelle realtà specifiche del monachesimo, come il silenzio, la solitudine, la fede che nasce dall’esperienza dell’Amore… dentro cui senz’altro si configura un’esperienza di bellezza, di unità, di equilibrio e di serenità che non sempre costituiscono il pane quotidiano di chi 56 vive e insegue tutto ciò nel cosiddetto mondo, dove gli stimoli sono tanti e gli appagamenti pure, ma le frustrazioni non mancano. Anzitutto il significato del silenzio. «Il silenzio è come l’aratro che passa e rende il terreno pronto per ricevere il seme», scrive padre Cesare (Fatti a immagine, p. 81). Il silenzio non è solo un vuoto, ma un tempo che prepara all’ascolto di canti meravigliosi, o addirittura è già esso stesso una musica meravigliosa. Sentire il silenzio, respirare nella presenza e nella magnificenza di tutto ciò che esiste senza che noi abbiamo mosso un dito per farlo esistere. Il silenzio ci libera dal conflitto della parola, poi apre la strada ad un’arte della parola, infine, cristianamente, introduce all’ascolto della Parola. Non più la ricerca rumorosa, il voler trovare la verità a tutti i costi, piuttosto l’incanto di fronte alla verità dell’essere che ci trascende anche se non crediamo in nulla, lo stupore del trovarsi ad esistere, quindi il lasciarsi trovare ed incontrare da ciò che è altro rispetto a noi, e soprattutto dall’Altro. In secondo luogo il significato della solitudine. In un mondo globalmente interrelato c’è un’inspiegabile implosione del soggetto su se stesso: io penso, io voglio, io faccio, io sono fatto così… Quante volte ci sarà capitato di trovarci soli in mezzo a tanti! L’altro non è sempre un soggetto con cui si comunica, piuttosto una realtà di cui si ha bisogno e di cui si tenta di disporre a proprio piacimento. Quando in questo atteggiamento c’è reciprocità tutto funziona automaticamente bene. Non appena l’equilibrio di quell’atteggiamento reciproco si infrange, l’altro diventa qualcuno di cui liberarsi, qualcuno di cui non si vuol più sapere. Riflettere su quella rottura porta magari a constatare l’inautenticità del rapporto, ben manifesta in una frase ricorrente: «Io credevo che tu…». Saper stare soli a volte significa semplicemente l’eleganza di non tormentare gli altri, lasciar loro lo spazio dovuto, prevenire ed evitare le rotture. Ma saper stare soli è soprattutto predisporsi a quel senso dell’altruismo che è costitutivo di ogni rapporto, prestare attenzione all’altro secondo l’altro e non secondo se stessi, crescere insieme nel positivo che fin dall’origine è dato ad ognuno come talento differenziato, in una ricerca che si fa scoperta e creatività. «Dio ci chiede il coraggio di rimanere soli per poter scoprire che non siamo soli. “Solo con il Solo”, “separato da tutti e unito a tutti”. Queste antiche definizioni del monaco eremita sono ancor oggi una porta aperta per scoprire il valore della solitudine nella città, per trovare una risposta all’isolamento di cui gli uomini della nostra generazione, e forse di tutte le generazioni, sono vittime. Babele era l’aggregazione: insieme costruivano, lavoravano, ma non comunicavano. Abramo è la comunicazione: solo nel deserto è diventato padre di una moltitudine numerosa più delle stelle del cielo e della sabbia del mare» (Fatti a immagine, p. 90). Altra grande questione riguarda la fede. Nel mondo attuale la fede fa problema per chi crede e per chi non crede. E ben venga, perché vuol dire che una sensibilità rimane accesa, che si può ancora discutere di fede. Si dà invece la possibilità che la fede non faccia problema, e non perché sia all’opera con vigore, ma in quanto è stata spazzata via o non è mai comparsa. Ulteriore considerazione è che molto spesso non solo si vive senza fede, ma si vive bene senza fede. E bene in due sensi: anzitutto più leggeri dai fardelli di regole ed impegni, ma bene anche perché il tramonto della fede non significa necessariamente il tramonto dell’etica e quindi della capacità di agire nel bene, anzi, ora il bene assume finalmente una dimensione più umana, quindi più nostra. Di conseguenza la fede diventa una questione inutile, oziosa. Che farsene? Il credente non può reagire di fronte a questa condizione di fatto con recriminazioni moralistiche, con rammarico o con atteggiamenti sprezzanti. La sua carta vincente può invece far leva sulla categoria di bellezza. A chi dice che la fede è questione inutile ed oziosa vien da osservare, con richiamo ad una sapienza antica: non c’è forse un’affinità tra l’inutile e il bello? Quante cose inutili passano sotto i nostri occhi o sentiamo dentro di noi, che però sperimentiamo come realtà che si mostrano all’insegna di bellezza allo stato puro! Un’intera giornata trascorsa lavorando o studiando con l’obiettivo felicemente raggiunto di un profitto gratificante può non valere l’intensità e la meraviglia del sorriso di un bambino che corre a buttarsi fra le nostre braccia, può non valere lo sguardo nello sguardo di due persone che si amano, può 57 non valere una passeggiata in riva al mare mentre si contemplano colori, luci e movimenti. C’è una sfilza di esperienze di cui possiamo fare a meno, senza le quali giungiamo magari a domandarci perché vivere, con le quali invece il desiderio di vivere s’intensifica per dare ospitalità e significato anche agli attimi più difficili da attraversare. La fede sorge oltre l’utilità di ogni nostro fare. È rapporto con la gratuità del creato e della vita. È riconoscimento della grazia nella fragilità e nell’istante di tutto ciò che è e più ancora di tutto ciò che ha vita. È relazione con la fonte di ogni bellezza e con lo scorrimento delle forme non numerabili che la ritraggono, nella domanda sempre aperta sulla finalità del mondo come universo e del mondo come storia, in attesa del dispiegarsi della sua dimensione ultima che sarà compimento del suo mistero. Ancora nel suo libro Fatti a immagine, padre Cesare fa un’interessante osservazione sulla narrazione biblica della creazione dell’uomo: noi non fummo semplicemente «detti» da Dio, ma «fatti» con le sue Mani, quindi «sorti dalle sue carezze» (p. 123) per essere come Lui capaci di amare e di creare. «Creare non è fare. Il fare ci lega e ci lascia nel campo ristretto e soffocante dell’efficacia, del risultato, della quantità. Il creare ci porta nel vasto e incommensurabile spazio della sete sempre saziata e sempre nuova, del desiderio che abbraccia l’infinito, del clima in cui tutto diventa luce, colore, armonia, profumo, dolcezza. […] Per Dio agire e creare non sono per l’utile, ma per l’amore: il suo metro non è il rendimento, la funzionalità, la quantità, ma il bello, il buono, la gioia, la qualità» (ib., p. 122). Col fare l’uomo corre il rischio di diventare un mercenario, col creare resta nella condizione dell’innamorato che vuole pace, gioia e bellezza. L’amore ha la durata della vita e il suo frutto è la santità. Ma il creare dell’uomo esige totale povertà perché anche l’uomo, come Dio, «non può trattenere la sua creazione, può solo darla» (ib., p. 124), in un atto di uscita da se stesso che esprime fede, speranza e carità. L’avanzare considerazioni simili non toglie che una certa desertificazione dell’interiorità rischi di rendere impossibile, o comunque difficile, la comunicazione di grandi esperienze spirituali di cui la nostra umanità resta invece capace, cominciando col guardarle nell’estensione della loro altezza e profondità, ma anche nella loro espressione di bellezza. È quel che si cercherà di fare durante questo incontro, che sarebbe bello fosse vissuto come un piccolo simposio. A scuola, durante le lezioni di Religione, si affrontano criticamente tante questioni e si sconfina in un pensare di tipo filosofico, spesso senza arrivare a risposte chiare, anzi, certi tentativi di chiarificazione si trasformano qualche volta, purtroppo, in stati di ottenebramento. Qui invece è meglio mantenere uno spirito di semplicità, che vuol dire essenzialità, ma senza rinunciare a scavare in profondità. La tradizione monastica, fa notare padre Cesare in apertura del testo già più volte citato, simboleggia tale essenzialità e profondità nell’immagine del deserto, terra di povertà dove sopravvive chi apprezza il poco e non spreca nulla. Nell’esperienza monastica del deserto si tramanda la verità evangelica di sempre, la verità di Colui che è Via, Verità e Vita attraverso uno sguardo di fede che vede l’Invisibile e lo scopre come Amore. La semplicità, la profondità, la saggezza di sempre. La bellezza e il bene non di rado si nascondono in un sussurro. Bisogna avere un udito acuto, una sensibilità raffinata per poter sentire quel sussurro. Il nostro saper ascoltare non varrà meno delle parole che sentiremo pronunciare, perché è in questo intrecciarsi di parola e di ascolto che messaggio e silenzio diventano evento. Così le tante cose che già sappiamo, passando attraverso la trasparenza di una testimonianza, assumeranno il carattere di unicità. Evento: una parola grande, kairós, trasformazione di un momento del chronos da tempo lineare a proiezione di significato memorabile, l’istante che per la sua intensità e qualità si erige al di sopra dello scorrere di tanti altri istanti. Ma per afferrarlo ci vuole quel moto che è l’azione del cuore. E quando il cuore è toccato nel vivo, nella nostra interiorità (anima) prende magari il via un percorso infinito: «I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos», sentenziava Eraclito. 58 2. La vita monastica Padre Cesare Falletti [Di qui in poi il testo è trascrizione della registrazione] Mi è stato chiesto di presentarvi a grandi linee la vita monastica e i suoi valori fondamentali. Non guarderò dunque la storia o l’attualità, ma cercherò di delineare a grandi tratti ciò che fa vivere un monaco come me, oggi e in Occidente, anche se molto di quello che dirò vale altresì per coloro che seguono la stessa via con altre forme di vita monastica cristiana sparse per il mondo, sia in ordini tradizionali che in esperienze più moderne. Solo una piccola osservazione [fatta con sorriso divertito!…]. Non è tanto che non volessi venire per i motivi che sono stati detti, quanto perché il monaco è una persona che ha scelto di vivere nel nascondimento. Qui invece sono costretto alla visibilità. Spesso vengo chiamato per incontri come questo, ma poiché ho scelto la vita monastica sono chiamato in primo luogo a fare il monaco e non a mettermi in mostra. E qui non posso sottrarmi al mettermi in mostra, alla visibilità, perché tutti voi mi vedete. È difficile definire che cosa spinga un monaco a diventare monaco. Tutti i monaci ve lo diranno: rimane un mistero, come una gran parte delle scelte fondamentali di vita rimangono un mistero. Quando si chiede a una persona: «Perché hai scelto questo?», in momenti grandi come lo sposarsi, certe volte anche nello scegliere una carriera o simili, si sa che un «perché» logico rovinerebbe tutto. Toglierebbe qualche cosa che è stato invece un fuoco che ha spinto e che non è descrivibile. Si può dire che la vita monastica sia un modo per vivere il Vangelo con un sincero senso di assoluto, almeno nel desiderio, perché prima di arrivarci il cammino è lungo. Come dicevano gli antichi monaci: «Io non sono monaco, sto diventandolo, anche dopo sessant’anni di vita monastica». Però questo modo di vivere il Vangelo tutti i cristiani dovrebbero averlo. In genere è canalizzato in un compito specifico, come curare i malati, insegnare, predicare, andare missionari, oppure far crescere una famiglia, il volontariato… La vocazione cristiana permette una gamma di esercizi molto grandi. Invece il monaco non fa nulla di speciale che non sia semplicemente il voler essere un buon cristiano, secondo gli impegni essenziali del cristiano. Per questo, quel che veniva detto poco fa sulla stranezza che un monaco parli in un ambiente laico non è in fondo così strano, perché il monaco è soprattutto un laico, cioè un cristiano che non ha una missione particolare, ma che deve vivere il Vangelo, che cerca di leggere il Vangelo e metterlo in pratica nella sua vita quotidiana, in una vita con altri in cui la legge è la carità. Ciò avviene in mezzo ai fratelli, con un attaccamento profondo e sincero alla persona di Gesù risorto, volendo insieme a Gesù presentare al Padre tutti i fratelli in umanità, anche quelli distratti o contrari. Un compito semplice, ma grande e impegnativo e che esige responsabilità. Il monaco continua a cercare Dio perché sa che gli uomini sono amati ed attesi da Dio e sa di non arrivare a mani vuote o da solo, perché in Gesù morto e risorto siamo tutti uno. È proprio questo che il monaco sa e non c’è nessuno che possa dire «solo io», «la cosa riguarda me», o «la cosa tocca solo a me». Il monaco è sempre in contatto e parla sempre con gli uomini, e non si sa in una scelta di solitudine. Sembra strano, ma non si sa pensare da solo. Diversamente il monachesimo non sarebbe cristiano perché non coopererebbe alla salvezza degli uomini. L’ideale rimane semplicemente quello del Battesimo. Infatti la professione monastica, cioè l’impegno con cui ci si lega a Dio e al monastero, non è considerata un sacramento nuovo, ma nient’altro che un riaffermare la volontà di realizzare il Battesimo. Più che una spinta alla vita monastica, c’è anzitutto la spiritualità cristiana, per cui davvero non ci si sente differenti dagli altri cristiani che camminano sulla strada del Vangelo al seguito di Gesù. Le forme esteriori - ma sono forme esteriori - possono essere un po’ insolite, dall’abito a tanti altri segni come li viviamo noi (ascesi, preghiera, lavoro, povertà, silenzio, benevolenza, ecc.). In verità siamo molto meno uguali ai monaci di altre religioni, anche se le forme esterne sono molto simili perché sono forme che l’uomo trova spontaneamente, e molto più vicini ai cristiani che normalmente vivono nel mondo. Sembra strano, ma sono 59 solo forme, non scopi, ed è così che noi le sentiamo e le viviamo. Sappiamo che gli uomini di tutte le religioni vogliono avere un rapporto con Dio e trovano dei modi che sono simili per incontrare Dio, per cercarlo, per camminare. Per il monaco cristiano, l’attaccamento profondo e personale a Gesù fa sì che lo sguardo sia rivolto verso un volto che si è mostrato, l’attenzione è alla Parola che ha detto se stessa, quindi l’incontro e la ricerca sono orientati in modo molto speciale com’è il cammino cristiano. Il monaco è il battezzato che vuole seguire Cristo con tutto se stesso, prendendo la croce e divenendo simile in tutto al suo Maestro. È dunque un discepolo. Non bisogna pensarlo altrove che in questo semplice discepolato del Signore. Ci sono nella nostra vita i voti, forse ne avete sentito parlare. Si fanno i voti. Il monachesimo ha dei voti singolari. I voti monastici tradizionali, «stabilità», «obbedienza» e «vita monastica», non sono come i cosiddetti «consigli evangelici»: «povertà», «castità», «obbedienza», che indicherebbero un di più rispetto alla semplice vita cristiana, un’esagerazione. Per il monaco questo non esiste. Per il monaco c’è soprattutto un voto, quello di vivere la vita monastica, come la esprime la Regola di San Benedetto. Cambia il regolamento, mentre la Regola, fin dai tempi più antichi, comporta un modo di vita. C’è un modo di vita monastica, in cui ci si riconosce, e quello è il voto principale del monaco: voler vivere la vita monastica, alla quale si accompagnano due altri voti. Il primo è quello di legarsi a una comunità e di vivere in una relazione lunga, perché dura tutta la vita, con dei fratelli, rimanendo fedeli alla ricerca di amicizia, di fraternità, di servizio, e secondo l’esortazione della Regola di San Benedetto a sopportare molto pazientemente le infermità fisiche o psichiche dei fratelli, come va vissuta in genere la carità. L’altro voto è quello di obbedienza, cioè il rinunciare a un progetto proprio di vita, anche nelle cose spicciole, per riceverlo dalla direzione di un altro. Potrebbe sembrare una forma di dittatura, mentre questo in profondità vuol dire preferire far piacere all’altro piuttosto che a se stessi. L’ubbidienza fondamentalmente è infatti essere attenti all’altro e preferire sempre quello che vuole l’altro a quello che voglio io, nelle cose che ovviamente non siano assurde o criminali. La caratteristica dei monaci, un ideale verso cui orientano la loro ricerca, è di chiedere continuamente la grazia e la pace, la famosa pax, che non è la pax romana dove si domina tutto e si mette tutto a tacere con le legioni, ma è la pax benedectina, che è la pace del cuore, la pace con gli altri, ma anche la pace dentro di sé. La pace, la semplicità. «Il monaco - diceva un ex-professore di questa scuola, tanti anni fa - il monaco è strano perché, invece di pensare che cosa aggiungere, pensa sempre che cosa togliere». Ed è vero. Quello che il monaco cerca soprattutto è la semplicità della vita. Togliersi tutto ciò che lo ingombra nel cercare il volto di Cristo. Ci sono alcune figure importanti nella storia, che per noi sono figure di riferimento. Le loro vite non sono solo, come diciamo oggi, degli esempi della storia. Sono piuttosto delle parabole. C’è un Sant’Antonio, considerato il patriarca dei monaci, che ha dedicato la sua vita a vivere sempre più integralmente il Vangelo, in una preghiera sempre più continua, in una carità fraterna sempre più intensa, con un senso della Chiesa molto profondo, anche se viveva in fondo al deserto dell’Egitto e prendendo ispirazione di qui ha tracciato l’ideale della «strada del deserto». Il Vangelo è abbandonare tutto, proprietà, famiglia, direzione della propria vita, per vivere nella solitudine, nel nascondimento e nella preghiera incessante, come Gesù eterno adoratore del Padre, accogliente e paterno verso quanti avevano bisogno di Lui. C’è un San Pacomio, sempre del IV secolo, colui che ha inventato la vita detta «cenobitica», che noi oggi chiamiamo comunitaria, la vita del vivere insieme mettendovi come legge suprema la ricerca della preghiera e la carità tra fratelli. Ma che cosa cercano i monaci? E soprattutto che cosa cerca San Benedetto? Cerca intanto un ritorno, un ritorno a Dio, perché l’uomo si è allontanato. Si è allontanato fin da tempi immemorabili. Essendosi allontanato, la ricerca di Dio prende la forma di un ritorno, di un ritorno a casa. Gesù ne ha parlato con la parabola famosa del «figliol prodigo». La vita spirituale cristiana è innanzitutto questo ritorno. Il monaco sente molto il fatto che deve tornare, perché non basta entrare in monastero per essere perfetti, buoni e non avere più nessuna preoccupazione. No! Ci si ritrova in monastero esattamente come 60 si era prima. E dopo una prima illusione di essere finalmente riusciti ad arrivare da qualche parte, si scopre che per trovare Iddio bisogna ancora arrancare un bel po’. Dunque si torna. Perduta col peccato la somiglianza con Dio, il ritorno ha lo scopo di portare l’uomo dalla regione della dissomiglianza alla regione della somiglianza. Ritorno che prende anche la forma di una lotta, una lotta che oggi è messa un po’ in sordina, però esiste. È la lotta contro le tentazioni. Le tentazioni non sono un peccato. Le tentazioni sono tutti quei movimenti, anche molto contraddittori, che ci sono dentro di noi e ci impediscono di essere quello che vogliamo essere. Chi non ne ha l’esperienza? Da una parte c’è quindi l’ideale, dall’altra c’è quello che siamo. Quando sono entrato in monastero, la prima difficoltà che si è presentata è stata proprio quella. Nella precedente vita fuori, quando a un certo punto non ne potevo più, oppure avevo qualcosa che mi disturbava, mi recavo per esempio al cinema e ne uscivo più rilassato. A seconda di quanto ero a disagio, mi mettevo più vicino o più lontano dallo schermo in modo da dimenticare per un certo tempo il mio disagio e poi tornavo a casa tranquillo. Nella vita monastica, invece, nella solitudine e nell’ambiente molto spoglio, nel silenzio, i problemi si affrontano, e si devono affrontare fino in fondo. Finché non si sono affrontati fino in fondo si sta lì. La tentazione di fuga c’è, però si sta lì. Allora per noi è questa la lotta, il cammino: resistere anche davanti ai nostri disagi. Per trovare un’unificazione del cuore, una pace del cuore davanti a tutte le voglie contraddittorie, le rabbie, le collere che abitano l’uomo tranquillamente, o non tranquillamente, c’è il fatto che ci si affida a Dio, alla liberante volontà del Padre, come Gesù che rinunciò alla volontà propria e non come Adamo ed Eva che la vollero affermare. Il monaco chiede: «Dimmi qual è il mio cammino attraverso quella persona», che è il superiore del monastero, in modo da ricevere non passivamente il cammino che gli è dato, ma per ricevere una luce che gli permetta di trovare un’unità dentro di sé. Perciò nel monastero si vive, come dice San Benedetto, oltre che con una Regola come modo di vita, con un abate che è una persona che per il singolo in quel momento suggerisce quel che dice la Regola, gli adatta la Regola. E lo fa secondo il tempo, il luogo e la persona. Può chiedere di più, ma quando vede che si è più fragili chiede di meno. Quando invece pensa che ci sia un po’ di pigrizia o di stanchezza spinge ed incoraggia. Quindi c’è nell’abate l’aspetto carismatico che è più inventivo, e c’è invece la Regola per esprimere gli aspetti normativi della vita monastica. Norma e carisma, dunque. Per far questo il monaco sa che l’essenziale è l’umiltà, che è povertà sotto lo sguardo di Dio ed è vita nella verità. Cioè lasciarsi guardare prima da Dio, poi da se stessi e infine dagli altri così come si è, senza vivere di maschere, senza piangere sulla propria situazione e pian piano conciliarsi con se stessi. Perché non si può vivere in mezzo agli altri se non si è conciliati con se stessi. Accettazione paziente e perseverante di tutte le contrarietà e contraddizioni. Pace con il proprio passato. Si tratta di un lavoro che prende tempo, prende forza, si presentano degli alti e dei bassi, ma questo deve fare del monaco un uomo contento, perché qui è lo scopo. Contento non perché ha tutto quel che vuole, non soddisfatto perché ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, ma contento del suo cammino. E neanche contento di poco! Il monaco non si contenta di poco, ma è contento di quello che deve vivere. Un uomo nascosto, che non desidera apparire in gloria - per questo non volevo venire qui, non perché ci sia gloria, ma perché qui non si è tanto nascosti, infatti mi vedete - dunque un uomo nascosto e un uomo silenzioso. Silenzioso sia perché, come è stato detto, nel silenzio si scava una capacità di ricevere una Parola che è la Parola di Dio, ma che è anche la parola degli altri. L’urlo del mondo non ci lascia indifferenti. E poi silenzioso perché tante volte con le parole ci si vuole imporre, si vuole schiacciare gli altri, si vuole essere di più. E questo non può interessare la vita del monaco. C’è poi l’aspetto della solitudine, di cui però parlo sempre con molta cautela. Solitudine oggi vuol dire un dramma per troppe persone. Un dramma che i monaci non vivono, perché i monaci vivono con qualcuno. Vivono in una comunione fraterna, con degli affetti. È vero che la vita monastica è cominciata dal fatto di persone che han scelto la solitudine - «monaco» vuol dire «solo» -, che han deciso di non sposarsi per vivere nella preghiera e nell’incontro con Gesù davanti al Padre. Tale scelta crea una solitudine, certo! 61 Però davanti alla solitudine di oggi forse la nostra solitudine non restituisce il suo vero senso, perché la nostra solitudine è certamente una bella solitudine luminosa, e non una solitudine angosciosa. Come diceva un monaco del Medioevo: «Nessuno è mai meno solo quando è solo, quando crede in Dio». E poi soprattutto San Benedetto vuole un uomo «umano», un uomo pieno di umanità. In particolare un uomo attento ai deboli, attento ai poveri, in una lotta continua contro quei movimenti d’arroganza che ci tentano tutti, contro il disprezzo per gli altri, contro il potere che diventa oppressione, contro il cercare i deboli per sentirsi forti, contro il rinchiudere se stessi in una torre d’avorio, e senza scoraggiare nessuno con pretese impossibili, neppure si trattasse dell’obbedienza. Nessun valore è al di sopra dell’uomo, perché l’uomo è immagine di Dio. L’intera Regola di San Benedetto chiede a tutti, all’abate in particolare, comunque a tutti, di aiutarsi a vicenda per diventare più uomini, più umani, nel senso bello della parola «umano», cioè delle virtù e delle caratteristiche che qualificano l’umano. Ecco, è sostanzialmente questa per me, ma credo per tutti i miei fratelli, la vita monastica. Però spero che qualcosa venga fuori anche dalle vostre domande. pgp. Una relazione breve, ma molto intensa. Un concentrato della vita monastica. Ora apriamo un dibattito in forma di conversazione e diamo la precedenza agli studenti, che spesso in classe su alcuni temi toccati da padre Cesare pongono domande in modo molto simpatico, provocatorio, bello. Poi nascono discussioni che non finiscono. Qualche volta si salta anche l’intervallo. Speriamo che questa sera i loro interventi non manchino. Credo che pure loro un po’ di soggezione l’avranno, perché alcuni pensavano di trovare dieci, quindici, venti persone. Invece qui saremo più di cento, motivo per cui avranno un po’ di timore a parlare. …Chiamerò per nome se non vi farete avanti… [Qualcuno tra il pubblico bisbiglia una frase sul voto…]. Non c’è il voto. Anzi, no! Più le domande saranno provocatorie e piccanti, più il voto s’innalzerà. 3. Dibattito e conversazione D1_Matteo Stefani (3a D). Io ho alcune domande. La prima riguarda quello che ormai è un luogo comune. Quando si sente parlare di monaco benedettino si pensa subito allo slogan ora et labora. Quel che vorrei capire è questo: si diceva prima che la società cerca l’utile e il lavoro, quindi l’impegno quotidiano che si mette in quel che si fa è appunto la ricerca dell’utile. Come, invece, nel vostro modo di vivere, nel monachesimo, il lavoro assume un significato nuovo, l’agire umano in generale? E un’altra domanda riguarda questo stile di vita nuovo, diverso, rispetto allo stile comune: come si colloca, quale posto trova all’interno di quella grande comunità che è la Chiesa, cioè l’unione dei cristiani insieme, l’unione di tutta la cristianità? Grazie! R1_Padre Cesare. Comincio con una piccola curiosità. La famosa formula che tutti conoscono, che è ora et labora, non viene dagli ambienti monastici. Io sono benedettino, della Riforma Cistercense, ma sempre benedettino sono e quindi seguo la Regola di San Benedetto. Però un benedettino direbbe subito: sì, ora et labora, ma ci sono altre due componenti importanti che sono - lo dico in latino, visto che siamo in un Liceo Classico lege, perché tutta l’attenzione alla Parola di Dio è capitale, et ama, perché la vita fraterna è anche capitale. Quindi non è soltanto ora et labora, che sembra quasi un fatto stacanovista. È anche lege et ama. Premesso questo, è molto interessante quel che ha detto Matteo. La prima cosa, i monaci davanti a una domanda così, appena si trovano davanti alla parola «utile», si divertono a dire: «Noi siamo inutili». Perché? (…Poi non è che ci crediamo! Non crediamo di essere inutili. È una battuta!…). Ma perché tante volte si confonde la parola «utile» con la parola «produttivo», «efficace». E non è solo così l’utilità. Perché sappiamo che, se ci 62 fossero intorno a noi solo persone efficaci, staremmo malissimo. Per fortuna c’è gente che sa perdere il suo tempo con noi, ci sa sorridere, sa fermarsi un momento, sa essere attenta ai nostri stati d’animo su e giù, e via dicendo, per cui possiamo chiamare i tempi così gratuiti «inutili». Nessuno di noi oserebbe dirlo, forse, ma tutti ne abbiamo bisogno. Ecco, nella vita monastica c’è questo aspetto di gratuità. Aggiungerei due osservazioni. La prima: «gratuità» perché è importante che una parte dell’uomo, anche se piccola, si occupi di Dio. Dio ci ha dato tutto, gratuitamente, ci ama anche se non lo amiamo; come dice San Giovanni, «ci ha amati per primo», ci ha insegnato che l’amore è sempre un «per primo» e non una risposta a qualcuno che ci ha dato qualcosa. Dunque c’è un desiderio profondo di essere dentro la pasta dell’umanità, dentro la Chiesa, ma più ancora che solo della Chiesa, dentro tutta la pasta dell’umanità, perché non è che io sia diverso da tutti gli altri uomini. Detto questo, la seconda osservazione: ci può essere una parte che risponde gratuitamente alla gratuità di Dio. Diceva Santa Teresa del Bambin Gesù: «Io nella Chiesa voglio essere l’amore…». Chi oserebbe fare un’affermazione simile? Solo lei!… Però non aveva tutti i torti. In fondo è bello che nell’umanità ci sia una parte di gratuito verso Dio che è gratuito verso gli uomini. Poi è ovvio, si può anche essere utili agli uomini. Per esempio si accoglie, ma l’accoglienza per noi è soprattutto condividere la nostra vita. Noi condividiamo la nostra preghiera, la solitudine del nostro luogo, la ricerca di Dio, oppure la pace. L’accoglienza è anche un modo di dare gratuitamente, non è qualcosa di efficace, di operativo, di produttivo. Credo che se la Chiesa è un solo corpo, è bello che ci sia una parte un po’ più gratuita, che non ha sempre bisogno di fare, di essere necessaria. Forse rende anche bella la Chiesa. Noi ci collochiamo così dentro di essa, come una parte inutile, ma bella, che cambia la luce che c’è dentro la Chiesa. Nel mondo siamo pochissimi. I monaci in confronto al miliardo o ai sei miliardi di uomini - il miliardo della Chiesa o dei battezzati e i sei miliardi di uomini del pianeta sono un piccolo pugno di roba, ma Gesù direbbe «il lievito nella pasta». Ci son delle realtà che anche in pochissima dose cambiano il gusto di una torta o di un piatto, cambiano gli effetti di un quadro, e così via. Noi nella Chiesa ci collochiamo così. Ci sentiamo estremamente parte della Chiesa. Diceva Thomas Merton: «Se non ci fossero le suore di carità io dovrei andare a curare i malati, ma ci son le suore di carità, loro fanno quella parte del lavoro nella Chiesa, e io ne faccio un’altra». D2_Virginia Ajani (1a C). Si è parlato di equilibrio interiore, di silenzio e di solitudine. Per quanto riguarda la società, però, il monaco come colloca la sua figura? R2_Padre Cesare. Sembrerà strano, ma quando il monaco parla di Chiesa o di società non fa molta distinzione, e proprio per questo senso profondo che egli ha di comunione con l’«umano», più che con la Chiesa che annuncia il Vangelo. Certo che siamo parte della Chiesa, siamo battezzati, cerchiamo di vivere appunto il nostro Battesimo. Ma quando parliamo del fratello, dell’altro in genere, non è nei confini. Insomma, per noi Dio esiste ed è Lui il centro, quindi il fatto di essere con tutti gli uomini, suoi figli, davanti a Lui, è importante. Però non vedrei distinzione: Chiesa o società. Anche i non battezzati vengono in monastero, e non sono accolti in modo diverso dagli altri. Quello che noi possiamo dare a ciascuno lo diamo, poi ognuno prende quel che vuole. Certo che certe parole che si possono dire a una persona molto credente non si possono dire a una persona non credente. Questo fa parte dell’umano, ogni uomo non è uguale all’altro, quindi con un uomo bisogna rapportarsi sapendo chi è lui, non chi sono io. L’incontro prende colori diversi, ma davvero non pensiamo che ci sia la Chiesa, la società, il nostro gruppo o che altro. Siamo monaci per tutti. Per tutti! Poi ognuno vive della sua libertà. Dato che non facciamo niente, la gente non ha da ricevere o da riconoscere. Se vengono sono accolti. D3_Simona Fonti (1a B). Io non vorrei sconfinare troppo nel personale. Però mi piacerebbe sapere che cosa l’ha indotta a prendere i voti e soprattutto che cosa l’ha aiutata a diventare monaco. Grazie! 63 R3_Padre Cesare. C’è della gente come Simona che ha il dono di porre delle domande difficili. Lo dico subito: proprio spiegare che cosa sia successo non son capace. Quando verso la fine dell’Università ho avuto, in un giorno ben preciso, un’intuizione che il Signore, diciamo con linguaggio corrente, mi chiamava - non ho sentito niente, rassicuratevi!, però è stato qualcosa di molto forte dentro che al momento mi ha spiazzato e a cui non ero molto preparato - ho cominciato, com’è giusto e come consiglio a tutti, a lottare e a dire: «Non parliamone neanche!». Ed effettivamente dico sempre: «Avevo vinto il primo round», perché ero riuscito a togliermelo dalla testa. Non tanto il Signore - io ero cristiano, andavo a messa, pregavo… - però l’idea di interrompere la mia vita per far altro, e poi per un Altro un po’ speciale, non mi andava proprio e mi sembrava che non fosse per gente come me, anzi i preti, i monaci - i monaci per la verità non li avevo mai visti ma i preti mi sembravano gente che era nata così. E io non ero nato così! Un anno dopo il Signore ha saputo ridire le stesse cose e nella grande confusione ho detto: «Va bene, non posso più dir di no!». Ero libero, però mi sembrava che dir di no al Signore fosse una cosa un po’ grossa. Un po’ troppo! Per cui ho cominciato a dire di sì, mi son lasciato guidare. Io avevo questa intuizione della vita monastica che avevo trovata… strano! - ma l’avevo trovata in un romanzo americano, non assolutamente cristiano, dove a un certo punto un hippy passava in un monastero: mi aveva colpito molto la descrizione del monastero. E in un film comico, in cui si prendevano in giro i monaci, però in fondo mi piaceva quello che presentava. Quindi mi son visto monaco. Il prete al quale successivamente mi sono rivolto, vedendo che non ero troppo pronto, mi invitò ad entrare in Seminario e, come già è stato detto, ho seguito un curriculum abbastanza normale a Roma dove vivevo. Ma più andavo avanti e più conoscevo; più cominciavo a conoscere i monasteri e più capivo che era lì quello che cercavo e non altrove. Poi sono venuto a Torino. All’epoca in Italia il monachesimo era difficile da trovare. Invece in Francia era molto fiorente, per cui ho cominciato a girare in luoghi come Taizé, oppure presso il monastero che è vicino al Piemonte, il Monastero di Tamié. Dunque ho visto la vita monastica con delle persone concrete, non più pensando ai monaci come fantasmi che passavano nella fantasia. Quindi mi sono avvicinato e ho potuto prendere in concreto la decisione di entrare in monastero. Rimane il fatto che alcune realtà attiravano. Mi attirava molto la preghiera comunitaria, la vita di comunità e il lavoro manuale. Oggi direi che sono cose insufficienti per descrivere la vita monastica, però sappiamo che ciascuno di noi, quando fa le grandi scelte, non le fa su chissà quali fattori sconvolgenti, ma le fa su alcuni elementi che lo convincono. Poi, andando avanti, trova che ci sono elementi importanti ma secondari, e scopre che non sempre l’essenziale si può dire, non sempre si è capaci di dirlo. D4_Alessandro Zolt (5a D). Vorrei chiedere, tra i vari ordini di monaci e suore, c’è uno scopo finale comune, un significato comune? D5_Pietro Mazzucchelli (4a D). La mia è una domanda molto semplice. Vorrei solamente sapere come l’hanno presa i suoi parenti. [Gradevole ed esplosiva risata plateale]. Padre Cesare. Per fortuna… No! Purtroppo ci son troppe madri qui… D6_Prof.ssa Vienna Molinari Buonfiglio. Io vorrei sapere: il monachesimo femminile in che è differente nella sostanza da quello maschile? Poi, se lei potesse darci informazioni, a me interesserebbe il fenomeno, la scelta, la realtà del monachesimo, o maschile o femminile, attualmente come si può quantificare. E poi ancora, non c’è per caso il timore che il monachesimo scompaia se i monaci stanno sempre in disparte, non si fanno conoscere? I sacerdoti si fanno conoscere, in tutte le maniere, li vediamo agire, poi sono presenti con la televisione, con i giornali. I monaci no. Quindi come fanno le vocazioni ad essere sollecitate se questi monaci sono sempre nascosti? Grazie! 64 D7_Francesca Cremonini (5a G). Io vorrei rivolgerle due domande. Intanto, una, se lei non ha mai avuto, dopo questa sua vocazione, quindi negli anni successivi, dei dubbi sulla scelta che ha effettuato. E poi più che altro una domanda curiosa, ossia cosa fate voi durante il giorno, cioè come distribuite la vostra giornata? Grazie! D8_Marianna Burdet (5a C). Io vorrei sapere se c’è dell’altro oltre alla fede che manda avanti la sua voglia di continuare la vita del monaco. Padre Cesare. Allora, adesso spero di ricordarmi le prime domande! R4_Riguardo gli ordini monastici: ci sono vari ordini monastici. Perciò i monaci, strettamente parlando, sono di vari ordini. Ci sono ordini molto tradizionali come quelli con la Regola di San Benedetto ed ordini più moderni. Ce ne sono anche in Piemonte, sono abbastanza famosi. Ho poi parlato di Taizé, per esempio. Anche se è protestante è qualcosa di nuovo. Però nella vita strettamente monastica è sempre in sostanza tutto uguale, ci sono solo componenti leggermente differenti. I Cistercensi, di cui faccio parte, sono nati nell’età del Medioevo da categorie con la puzza al naso, che per umiltà han deciso che dovevano lavorare con le mani, poi non ci sapevano fare e facevano la vita di tutti. Però è rimasta nel loro DNA l’importanza del lavoro manuale, senza escludere la vita intellettuale. A proposito della solitudine, avrete sentito parlare del film Il grande silenzio. I Certosini hanno un senso della solitudine molto più forte della nostra. Però lo scopo essenziale, che ho cercato di dire, può andar bene per tutti i monaci. R5_Poi c’è la delicata questione dei parenti. Qui non posso dare delle statistiche. Io son stato per anni, e ancora adesso, colui che accoglieva i monaci, per cui la storia dei parenti la conosco abbastanza bene. Ci sono delle famiglie non direi contente - non ho ancora trovato famiglie contente, perché… non so perché! Ma mentre per i preti in genere il padre si arrabbia e la madre è contenta, per i monaci il padre è contento e la madre si arrabbia. Le madri, almeno per gli uomini, sono tigri. E credo che una delle prove che conferma la vocazione sia proprio la reazione delle madri. Perché? Non perché noi vogliamo fare del male alle madri, ma perché nell’immaginario romantico il monaco è un uomo che soffre, triste, incatenato. E le madri, che vogliono la felicità del figlio, ci stanno male, pensano che - poveretto! - chissà perché deve andare a soffrire per tutta la vita. In seguito si accorgono che il figlio rimane allegro, che sta benissimo e che non è morto di fame, e allora si consolano e sono contente anche loro. E in genere, dopo un po’ di anni, le famiglie diventano nostre famiglie, perfino nelle famiglie dove non abbiamo inizialmente legami. Questa condivisione della famiglia è per noi molto importante e molto bella. Però occorre superare una vera difficoltà. Ed un’esperienza dura per chi voglia diventare monaco è sapere che farà del male ai genitori. Su questa esperienza, l’immagine che io porto è quella di Gesù, che ha dovuto morire, e ha dovuto morire davanti a sua madre. E non doveva essere comodo. R6_Sul monachesimo femminile. Direi che il monachesimo è come la Chiesa. Ci sono dei posti in cui va bene e dei posti in cui sembra andar male. Non è detto che dove non ci sono vocazioni la Chiesa o il monachesimo vadano peggio. E non ci possono essere dei grandi numeri quando si cambia. Meno si è e più è facile cambiare. Quando il Signore vuole che ci siano dei cambiamenti fa venire le vocazioni. Ci sono dei monasteri che sono veramente all’estremo e dei monasteri in cui non si sa dove mettere la gente, non solo in Cina o in India o in Vietnam, ma anche in Italia. In Italia ci sono molti monasteri che stanno chiudendo e altri in pieno fervore. Quindi non si può dire che il monachesimo va bene o va male. È un mistero: perché quella casa si riempie e perché quell’altra si svuota? Certe volte i monasteri sono molto ferventi. Non so! Non so e credo che nessuno lo sappia. I tanti sociologi non sanno giudicare questi fenomeni. Però si constata che il monachesimo femminile, soprattutto in Italia e nei paesi più tradizionali, ha fatto più fatica dei monasteri maschili a sentire i tempi, a percepire i segni dei tempi e a vivere all’interno della comunità i valori nuovi che i giovani generano. E 65 credo che un monastero si riempia o si svuoti se la comunità che c’è è sensibile, ma non per dar ragione ai giovani. È vero che ogni generazione ha un bisogno vitale di vivere qualche cosa di sincero, di chiaro, che non corrisponde esattamente allo stile dei loro predecessori. Riproporre delle relazioni fraterne in un monastero odierno come poteva essere in un monastero del primo ’300 non è possibile. Sì, i rapporti non sono più così rigidi, perché la società non è più così. E non è che il monachesimo piomba dal cielo, ma viene dalla società. Credo che in molti monasteri femminili e in alcuni maschili certe volte la curva generazionale non sia stata presa per il verso migliore. Questo ve lo dico con molta circospezione, in punta di piedi, perché sarebbe un giudizio da calibrare più a fondo. Mi sembra però che la descrizione corrisponda ai fatti. Ci sono stati molti movimenti di riforma che hanno tentato di portare le donne a vivere nello stesso modo degli uomini, con valori monastici sempre uguali. (Non so se la risposta sia soddisfacente, perché bisognerebbe avere una psicologia femminile per sapere che cosa vada bene per le donne, che io non ho). Sui numeri non so rispondere, non so quantificare. Ho frequentato il Liceo Classico e non ho propensione a ricordare i numeri e le statistiche… R7_Circa i dubbi sulla scelta effettuata. Tutti i giorni ci si trova a dover rinnovare la scelta effettuata, perché il dubbio è un pericolo costante. Certamente ci sono stati momenti in cui avrei volentieri lasciato tutto, ma sull’onda di un rifiuto che è normale davanti ad inevitabili difficoltà o contraddizioni, pensare seriamente di cambiar strada, di tornare indietro, non credo che sia mai successo. Ci sono stati momenti difficili e più laboriosi, ma la meta che avevo scelto e verso la quale mi ero incamminato è sempre prevalsa su volontà contrastanti o su desideri che avrebbero potuto farla vacillare. Così ritengo sia stato per altri miei confratelli in momenti di crisi, i quali hanno sempre fatto ritorno. Quanto al modo in cui distribuiamo la nostra giornata… I monaci sono gente un po’ strana. Hanno il vizio di alzarsi presto la mattina. Noi cominciamo la nostra giornata verso le 3.45, che poi si struttura su tempi di preghiera e di lettura della Sacra Scrittura prolungate (mattino e sera), di lavoro di vario genere, col quale ci manteniamo, di momenti comunitari, come i pranzi in silenzio o la passeggiata del lunedì pomeriggio, durante la quale chiacchieriamo e discutiamo, e di alcuni momenti di decisione (chiamati i «capitoli»). Infine ha molta importanza anche lo studio. Il tutto vissuto con molta semplicità e serenità. R8_Infine la domanda sulla fede e che altro. Penso che la vita monastica sia forse l’unica vita che senza la fede non sta in piedi. Qualunque altra vocazione religiosa ha un fine o almeno un’utilità sociale che potrebbe giustificarla, mentre la vita monastica senza Dio non ha proprio nessun senso. Perciò trovare un sostituto della fede credo che sia assolutamente impossibile. Ma se Dio non esiste, la vita del monaco è davvero assurda. Un prete può almeno dire di aver aiutato qualcuno, una suora di aver curato gli ammalati, uno sposato di aver messo su famiglia, mentre il monaco non può accontentarsi di pensare l’utilità di aver fatto marmellate. Certo, può sentire l’assenza di Dio, l’abbandono di Dio, fare l’esperienza dell’ateismo, perché nessuno può vedere Dio o averne delle prove come vorrebbe. Ma è un’assenza che indica una presenza. Proprio per questo, però, la vita monastica può diventare davanti al mondo un segno della presenza di Dio, un segno che a sua volta mette invece in discussione l’altro ateismo, l’ateismo secondo cui Dio non esiste. Di fatto, un monaco è libero di tornare sui suoi passi, e vi sono casi eccezionali del genere. Come vi ho detto, però, la figura dell’abate ha anche la funzione di intervenire per aiutare, confortare e sollevare proprio nel contesto di queste difficoltà. Ed è quanto solitamente avviene. D9_Prof. Leonardo Ferrante. Lei ha detto che il monaco cerca l’essenziale, ossia che invece di pensare che cosa aggiungere, pensa sempre che cosa togliere. Come è possibile questo? 66 R9_Padre Cesare. Nella vita monastica, molto importante è la povertà. La povertà non è vivere di stracci. Sant’Agostino diceva che l’importante non è avere di più, ma avere bisogno di meno. E credo che in questa frase ci sia un po’ la chiave di risposta. Cioè, visto che il monaco cerca una vita essenziale, in cui l’importante è Dio, è stare davanti a Dio, egli lotta principalmente per non farsi sopraffare dai bisogni. Naturalmente le cose che ci sono utili non le escludiamo - che ne so, non è che viviamo ancora col carretto e l’asino per il trasporto di materiali, c’è un trattore. Ma è vero che quando il monaco pensa, in genere pensa di non aver bisogno, e quando può togliere ancora qualcosa è contento. Il bisogno non ha confini precisi, però il bisogno s’impone, per cui la lotta non va fatta sull’avere o non avere, ma se questo è un vero bisogno o se questo non lo è. E se ho un bisogno utile, divento schiavo, perché poi non è detto che possa averlo, o non è detto che possa averlo come voglio. Tutto questo mi turba, e io non ho tempo per essere turbato da certe cose. Ho altro da fare. Allora preferisco togliere il bisogno. D10_Prof.ssa Diana Strata. E questo è il discernimento, vero? R10_Padre Cesare. Senza il discernimento non esiste niente. Nella vita se non si è capaci di discernimento, se non si accetta di dover discernere continuamente, non si va avanti! D11_Federico Gribaudo (2a B). Vorrei sapere, come è vissuto il celibato in una società come questa che spesso lo disprezza? D12_Davide Oliva (2a D). L’altra domanda è: che cosa pensa di quel che frère Roger ha costruito a Taizé? D13_Valentina De Gregorio (2a B). Vorrei chiedere: in che modo in questa vostra solitudine partecipate anche della vita esterna al monastero, come la politica o realtà di questo tipo? D14_Denise Pace (2a B). Io vorrei sapere, dato che monaci e monache vivono in maniera separata, perché, se la visione è sempre la stessa, vivono una vita separata? Padre Cesare. Separata dal mondo o separata tra di loro? Denise. Tra di loro. D15_Signora Giulia [mamma di Valentina De Gregorio, 2a B]. Vorrei semplicemente chiedere: prima lei ha parlato di accoglienza. La domenica, se ho capito bene, c’è qualcuno di voi che si occupa di accoglienza. Cosa intende? Padre Cesare. Allora, tenterò di rispondere. R11e14_Parlare del celibato è una questione delicata, perché fa parte di quelle intuizioni che nella Chiesa son nate nei primi secoli e che poi son state esaltate da alcune figure di martiri, tipo Sant’Agnese, Sant’Agata, Santa Lucia e tanti santi martiri dei primi tempi, per un amore preferenziale, per un amore per il Signore, ripreso da Sant’Antonio e da tanti altri prima e dopo di lui - si conoscono molti nomi. Col fine di vivere per piacere solo a Cristo, come dice San Paolo, è emerso questo senso del celibato che ha dato il nome al monaco. Il monaco è, come ho detto prima, l’uomo «solo» perché non è sposato. Fatto che era inconcepibile nell’antichità, o almeno nel mondo ebraico, da cui è nato il mondo cristiano. Si vive il celibato con molta povertà, perché non basta sceglierlo per non pensarci più. È una realtà che va vissuta con umiltà e che dà fuoco all’amore preferenziale per Cristo, soprattutto per Lui, poi a causa di Lui anche per gli altri. Questo non vuol dire un cuore che non ama più, che non ha più affetti, ma un cuore che si dirige in modo diverso, un cuore dove c’è sempre la figura del Signore presente che dà colore a tutti gli affetti privati. Ciò comporta alcune conseguenze. Comporta il senso della prudenza, che vale per tutti. Chi vuole vivere un amore molto serio deve essere prudente, non può rischiare tutti 67 i tradimenti possibili. Poiché siamo come siamo, e non siamo angeli, c’è una prudenza nella separazione tra ordini monastici maschili e femminili. Non è che non ci vediamo mai o che non ci occupiamo gli uni degli altri. Abbiamo delle amicizie profonde anche in mezzo alle monache. Certe volte sbocciano in determinati incontri. Poi le amicizie monastiche sono del tutto insolite. Ci vediamo una volta ogni cinque anni e ci consideriamo molto amici, però sempre con grande senso di prudenza, perché la prudenza è un segno dell’amore. Non si vuole mettere a rischio il proprio amore. Anche la fantasia ci asserve, perché ogni tanto ci si trova nei pasticci, ci si trova innamorati. Anche solo per una persona che è passata. Occorre quindi essere anche un po’ furbi per non lasciarsi sommergere dal pensiero, dall’ossessione e simili. Naturalmente il celibato va vissuto in modo umano, senza negare che pone dei problemi. Pone dei problemi, delle difficoltà, richiede delle lotte, dei sacrifici, eccetera. Perciò bisogna sapere che cosa si vuole. Ma in genere, per vivere qualcosa di importante e di difficile, se non si sa cosa si vuole non ci si riesce. Qui non è in questione un aspetto solo secondario della vita del monaco. Tocca direttamente il fatto che egli ha deciso di dare la sua vita soprattutto al Signore, quindi nessun’altro viene a far da mediatore in questo amore. Per le persone sposate, si sa, c’è invece una mediazione nell’amore. L’amore serio arriva alla donna attraverso il marito e all’uomo attraverso la moglie, mentre al monaco arriva in un atto di fede e come dono di Dio. R12_Vi ho detto prima che ho conosciuto Taizé. Se allora, quando l’ho conosciuto - e non c’era ancora il «Concilio dei giovani» e tutto il resto - fosse stato possibile per un cattolico entrare a Taizé, forse sarei entrato a Taizé, perché ne ero rimasto davvero molto affascinato. E ho capito cos’era la vita monastica. Ho sempre molto stimato frère Roger, sia per quello che diceva, sia per quello che chiedeva di vivere ai suoi monaci. L’aspetto del Concilio dei giovani mi ha interessato meno, ma è nato in un momento in cui ero già entrato in un altro monastero, per cui ero meno coinvolto in quel che si viveva a Taizé. Però quel che vive la comunità di Taizé mi è sempre stato molto caro e molto vicino. R13_Sulla solitudine: allora gli altri non esistono, il mondo, la politica? Barack Obama non esiste? Sì, esistono! Perché non possiamo non interessarci, anche se ognuno lo fa con sfumature molto diverse. C’è gente che legge piuttosto le pagine dello sport. Non abbiamo la televisione, però i giornali li leggiamo. C’è gente - dicevo - che preferisce leggere le pagine dello sport e gente che preferisce leggere le pagine politiche. Questo è normale perché siamo diversi. Siamo anche molto diversi. Penso però che un disinteresse totale per la politica non sarebbe giusto, perché siamo chiamati a votare. E non è che andiamo a votare ad occhi chiusi: come capita la penna, si scrive. C’è da parte nostra un interesse e un amore per il mondo. Perché la politica non è solo l’Italia o la regione Piemonte. La politica è più vasta. Politica inoltre vuol dire guerre, vuol dire fatti disumani, avvenimenti molto disastrosi, quindi non possiamo dire «io non guardo», «io non vedo». È vero, non partiamo, non facciamo manifestazioni, però ci siamo, e dobbiamo esserci, per cui, pur non essendo in continua discussione politica, non possiamo neanche esserne completamente fuori. Ogni tanto fra di noi ne parliamo. Fa parte delle questioni che cerchiamo di affrontare, anche perché si dice che sia uno dei punti che mette più in disaccordo le comunità. (Ma su questo non c’è solo la politica, c’è anche la cucina). E quindi, quando ci sono dei rischi di frattura in comunità, si cerca di evitarli e di discuterne. Però almeno nella mia comunità se ne parla abbastanza serenamente. E non siamo assenti. R15_Infine l’accoglienza. L’accoglienza per noi non avviene soltanto la domenica. Noi abbiamo questo luogo di pace, di silenzio, bello. Abbiamo questa preghiera sette volte al giorno che è accoglienza perché si prega insieme. Questo fa sì che noi volentieri accogliamo. Ma non accogliamo perché facciamo l’albergo. Per noi l’accoglienza è proprio il fatto di dire che nel cuore di ogni uomo c’è un po’ di monaco. E noi diamo la possibilità di vivere questo pezzettino di monachesimo che c’è in ogni uomo offrendo lo spazio in cui si 68 vive. Magari c’è gente che entra con molta più forza nell’azione liturgica, nella solitudine, nella preghiera in chiesa, nell’adorazione. C’è gente invece che cerca con un po’ più di distanza. Ma non ho mai visto nessuno non coinvolto. Forse la gente viene qui per cercare qualcosa in modo un po’ più comodo, ma insomma noi, nella misura in cui possiamo, cerchiamo di aiutare la gente a cercare quel che cerca. D16_Signora Rita. Vorrei chiedere della preghiera. C’è l’azione della preghiera comunitaria, poi c’è la preghiera di rapporto con Dio, lo stare soli con Dio. Vorrei sapere, l’aspetto della contemplazione, della mistica, è un po’ privilegio vostro, oppure può essere anche coltivato? D17_Pietro Mazzucchelli (4a D). Solo più una domanda. Oltre la fede, una caratteristica che mi affascina molto del monachesimo è il fatto della sapienza. Perché voi, come ci dicono i libri di storia, avete sempre tramandato tutti i manoscritti classici e cristiani. Ma anche secondo lei la sapienza, la conoscenza, è un fattore determinante nel monachesimo? E poi anche voi nel monastero siete pieni di libri, avete una biblioteca, testi antichi come nei grandissimi monasteri? Padre Cesare. Rispondo prima a Rita, poi a Pietro. R16_Prima cosa, la vita mistica non è proprietà dei monaci. È un dono che lo Spirito Santo fa a chi vuole. Ci sono persone che hanno avuto delle vite profondamente di preghiera e di incontro e contemplazione di Dio dovunque, per esempio nel lavoro. Nella storia della santità ci sono dei santi agricoltori, oppure madri di famiglia o di tutti i generi che hanno avuto un incontro con Dio che noi ben conosciamo perché han saputo dirlo, ma quelli che non conosciamo sono molti di più. Quindi assolutamente noi non ci consideriamo in una vita mistica. Si parla della nostra vita come di vita contemplativa, ma semplicemente perché è un modo di dire una vita solo per Dio, non tanto di visione o che altro. È chiaro che la preghiera prolungata permette di incontrare una profonda assenza di Dio, perché Dio nessuno l’ha visto e non lo tocca. Però nel cuore di questa esperienza dell’ateismo, come prima dicevo, si crea alla lunga anche una presenza di Dio non definibile, per cui noi cerchiamo di pregare a lungo. Ma l’aspetto della preghiera non è l’aspetto che distingue i monaci, perché tutti sono chiamati a pregare. Quando qualcuno ha una vera chiamata alla preghiera, ce l’ha anche se non è in monastero e può viverla anche se non è in monastero. Chiaro che noi attraverso la preghiera liturgica, attraverso grandi spazi di preghiera, in clima di silenzio anche tra di noi, abbiamo un ascolto della Parola di Dio più grande. Poi cosa ne facciamo non lo so, però abbiamo una possibilità più grande. Ma non sotto l’aspetto mistico, quanto più sotto l’aspetto di dialogo con Dio. R17_E invece per Pietro, la sapienza. Per un monaco la sapienza non è saper molte cose, ma è avere un senso, un gusto e un discernimento delle cose profonde e della vita. Ora perché i monaci hanno salvato i manoscritti? Mica perché era bello e divertente! Ma perché sono persone attente all’uomo. Ed è strano come nel Medioevo, quando i monasteri rinascevano, erano forti ed erano vivaci, pieni di santi eccetera, nascesse il gusto, per esempio, per la letteratura pagana. Ma perché Omero, gli autori latini, i greci? Sapete infatti che copiavano anche dei testi scabrosi. Eppure la grande letteratura di tutti i tempi, compresa quella di oggi - l’altra scompare nel nulla, ma la grande letteratura parla dell’uomo e tocca il vivo dell’uomo. E il monaco ha questo senso di attenzione. È sempre attento all’uomo. Per cui l’amore per la conoscenza non è perché così ne sa di più, ma perché così capisce di più il lavoro di Dio quando crea l’uomo. E creare non vuol dire farlo partire, ma tenerlo in vita. È in atto il mistero dell’uomo. E chi conosce il cuore dell’uomo? Il mistero dell’uomo affascina e chi ama non può rimanere indifferente al mistero dell’uomo, e allora nei monasteri si ama anche leggere letteratura non cristiana, il cui contenuto abbia un certo valore, non i romanzetti. Però ciò che ha un certo valore sul 69 piano umano, ciò che ci fa conoscere meglio l’uomo, è sempre qualcosa che attira il monaco. Quanto al nostro povero monastero, ha solo tredici anni di vita e la biblioteca è ancora un po’ scarsa. Però… però è già bella. Non abbiamo antichi manoscritti, abbiamo poca roba antica, non certo tramandata dai nostri padri, perché il più vecchio sono io. Ho quindi tramandato poco, per ora. D18_Signor …? Io lavoro in America Latina e in America Latina non ci siete. Pochissimi monaci, anche se metà dei cattolici sono in America. Il monacato, soprattutto nel Sud, è quasi assente. C’è una spiegazione? Beh, storica sì, son duecento anni che sono indipendenti, ma non ha preso piede questo tipo di vita cristiana. R18_Padre Cesare. Sì, ci sono dei monasteri nell’America del Sud, nel Nord dell’Argentina e nel Sud del Brasile, cioè in quella fascia che anche sociologicamente è diversa dalle altre. È vero, è sempre stato un mistero il perché non nascano monasteri in Patagonia. Ci sono monasteri, ci sono fondazioni recenti di uomini, di donne in Cile, Colombia, Venezuela. Però credo che il monachesimo nasca in un terreno. Il terreno dell’America Latina, il suo terreno cristiano, sta ancora in pieno fermento, nel senso che non c’è ancora una figura di vita cristiana ben chiara, ben delimitata. È molto fervente, però non è ancora sufficiente. Il monachesimo si auto-produce. Sì, si fanno delle fondazioni, ma poi devono vivere. È un po’ quel che accade in Africa. Le fondazioni, in Africa, fanno fatica a viverle gli africani. In certe nazioni africane vanno molto bene e in certe altre bisogna continuare a mandare degli europei, che non è l’ideale, perché il monachesimo deve essere incarnato nel terreno. In Piemonte per duecento anni non ci son stati monaci. Il Piemonte non era una terra in cui il monachesimo riusciva a dimorare. Poi improvvisamente, a partire dal ’75, sono successe un sacco di cose. Non sono un sociologo e non credo che anche i sociologi ci capiscan qualcosa. Però credo che il monachesimo ci sia nella Chiesa e spunti un po’ naturalmente quando la Chiesa è in un certo stato - non stadio, ma «stato». In genere dove la Chiesa è in crisi. Ad esempio, parentesi. Chissà perché, il monachesimo è nato quando la Chiesa, dopo Costantino, si è subito corrotta, al di là di grandi santi, Agostino, Ambrogio… non ne dubitiamo. Ma c’era la lotta per il potere. E lì è nato il monachesimo per dire «No!». Finché eravamo martiri andavamo bene e adesso non andiamo più bene? Allora si è voluto qualcosa di più energico. Così ci sono delle epoche, tipo l’XI e XII secolo, molto difficili per la Chiesa, in cui il monachesimo fiorisce. Credo che il monachesimo sia sempre presente, ma è soprattutto nei momenti in cui la Chiesa deve ritrovare se stessa che il monachesimo si fa strada per dirle chi è. E forse l’America Latina non ne ha ancora un bisogno naturale. Poi un giorno, quando comincerà, magari quella terra sarà piena di monasteri. Anche se si dice, nei giri monastici, per quel che riguarda il Brasile, che le vocazioni che vengono da sopra San Paolo non reggono e quelle che vengono da sotto San Paolo reggono. Perché? Chi lo sa! Ma quando viene uno da sopra San Paolo i monaci dicono tutti: «Tanto non tiene!». pgp. Dopo questo ultimo caloroso applauso, che s’aggiunge ai precedenti, ringrazio a nome di tutti padre Cesare. Credo che il pomeriggio trascorso con lui resterà davvero memorabile nella storia della nostra scuola, sarà quel piccolo kairós cui accennavo in apertura, un evento significativo che si ergerà nel ricordo dei presenti al di sopra dello scorrere ordinario di tanti istanti della vita del nostro tempo. Ma avremo occasione di continuare ad approfondire con gli studenti il discorso iniziato oggi, magari anche con un breve soggiorno in monastero. Quindi grazie veramente al nostro interlocutore. Ancora un grande applauso per padre Cesare che ci ha consentito di fare un’esperienza così unica ed intensa! 70 Indice Parte prima Frammenti di storia e spiritualità locale Testimonianze di autori vari www.dominustecum.it 1. 2. 3. 4. Pra ’d Mill tra passato e presente Il ritorno dei monaci cistercensi (C. Falletti) L’anima del Monastero di Pra ’d Mill (A. Burzio) Una gita a Pra ’d Mill (I. Roscio Pavia) pag. ” ” ” 2 6 8 10 pag. ” ” ” ” ” ” ” ” ” 13 16 20 22 24 26 27 29 31 32 pag. ” ” 36 40 44 ” ” ” ” 46 47 48 53 pag. ” ” 56 59 62 Parte seconda Avvolti nella luce della Parola divenuta evento Meditazioni C. Falletti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. Il Silenzio Il Silenzio - Ascolto della Parola Riflessioni sull’Eucaristia La Confessione Contemplare la Passione Dio ci ha amati per primo Lo Spirito Santo In cammino verso la Risurrezione (1a parte) In cammino verso la Risurrezione (2a parte) Ave Maria Parte terza Sul monte della Presenza: scrivere per annunciare I libri pubblicati da padre Cesare Falletti P. G. Pasero 1. 2. 3. 4. Fatti a immagine. Esortazione alla vita divina Togliti i calzari. Per avvicinarsi a Dio Il Salmo 136: scuola di preghiera Ave Maria. Un commento biblico e teologico per conoscere la preghiera più amata 5. Eucaristia. Sorgente della vita spirituale 6. Come voce di sottile silenzio. Interiorità e rapporto con Dio 7. Un cuore puro Parte quarta L’incontro con padre Cesare Liceo D’Azeglio - Torino, 7 novembre 2008 1: Testo; 2 e 3: Trascrizione della registrazione 1. Presentazione e introduzione (P. G. Pasero) 2. La vita monastica (C. Falletti) 3. Dibattito e conversazione Accento manuale su χαιρε: p. 33,51 e p. 34,3 71 L’essenziale è l’umiltà, che è povertà sotto lo sguardo di Dio Cesare Falletti Immagine di copertina: «Commento di Sant’Ambrogio al Vangelo di Luca» (VI secolo. Laboratorio dell’Abbazia di San Giovanni Battista di Vertemate - Como) Elaborazione del testo: Ottobre - Novembre 2008 Siti consigliati: www.dominustecum.it www.abbayedelerins.com E-mail: [email protected] 72