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80 Days:
Il colore della passione
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Una ragazza e il suo violino
Do la colpa a Vivaldi.
Più in particolare, al mio cd delle Quattro stagioni, che adesso giace a faccia in giù sul comodino, accanto a Darren, il mio
ragazzo, che dorme russando piano.
Abbiamo litigato quando lui è rientrato alle tre del mattino da un viaggio di lavoro e mi ha trovata distesa sul parquet
del suo salotto, nuda e intenta ad ascoltare musica al volume
più alto consentito dall’impianto stereo. Ovvero altissimo.
Il presto dell’Estate, il Concerto n. 2 in Sol minore, stava per
entrare nel vivo quando Darren spalancò la porta.
Non mi accorsi del suo ingresso finché non sentii sulla spalla destra la suola della sua scarpa scuotermi. Aprii gli occhi
e lo vidi chino su di me. Aveva acceso le luci e il cd si era improvvisamente zittito.
«Che cazzo stai facendo?» chiese.
«Ascolto la musica» risposi con un filo di voce.
«Questo lo sento! L’ho sentito fin dalla strada!» urlò.
Era stato a New York e aveva un aspetto straordinariamente
fresco e riposato per uno appena sbarcato da un lungo volo.
Indossava metà del suo abito da ufficio – camicia bianca immacolata, cintura di pelle e pantaloni blu scuro a righine sottili – e teneva la giacca ripiegata sul braccio. Stringeva con forza l’impugnatura del trolley. Evidentemente stava piovendo,
anche se io non me n’ero accorta, dato l’altissimo volume della musica. La valigia era lucida di pioggia, che scorreva via
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in rivoletti e si raccoglieva in una pozza sul pavimento di legno proprio accanto alle mie cosce. La parte inferiore dei suoi
pantaloni era bagnata e gli aderiva alle gambe.
Girando la testa verso la scarpa di Darren, scorsi due centimetri di polpaccio umido. Lui emanava un odore muschiato,
un misto di sudore, pioggia, lucido da scarpe e cuoio. Alcune
gocce d’acqua scivolarono dalla scarpa sul mio braccio. Vivaldi produceva immancabilmente un effetto molto particolare
su di me e né l’ora antelucana né l’espressione irritata sul volto di Darren bastarono a distrarmi dalla sensazione di calore che si diffondeva rapida lungo il mio corpo, accendendomi come sempre il fuoco nelle vene. Mi voltai, mentre la sua
scarpa premeva ancora leggermente sul mio braccio destro,
e risalii con la mano sinistra lungo la gamba dei pantaloni.
Lui fece un passo indietro, come se si fosse scottato, e scrollò la testa.
«Cristo santo, Summer…»
Trascinò il trolley contro la parete accanto alla rastrelliera
dei cd, tolse le Quattro stagioni dal lettore e poi si diresse verso la sua stanza. Pensai per un istante di alzarmi e di seguirlo, ma lasciai perdere. Non avrei potuto averla vinta in una
discussione con Darren senza i vestiti addosso. Speravo che,
se avessi continuato a rimanere distesa immobile, sarei riuscita a disinnescare la sua rabbia rendendomi meno visibile: in
fondo, se non mi fossi alzata, il mio corpo nudo in posizione
orizzontale si sarebbe mimetizzato meglio con il pavimento.
Udii il rumore dell’anta dell’armadio che si apriva e il familiare ticchettio delle grucce di legno che cozzavano l’una contro l’altra mentre lui appendeva la giacca. Stavamo insieme da
sei mesi e non l’avevo mai visto gettare il cappotto su una sedia o sullo schienale del divano, come avrebbe fatto una persona normale. Appendeva la giacca nell’armadio, poi si sedeva per sfilarsi le scarpe, si toglieva i gemelli, si sbottonava
la camicia e la buttava direttamente nel cesto della biancheria sporca, quindi si levava la cintura e la metteva sull’apposita rastrelliera di metallo nell’armadio, accanto a una mezza
dozzina di altre cinture in tonalità sobrie di blu, nero e marro8
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ne. Indossava slip firmati, il genere che preferivo in un uomo,
minuscoli short di cotone elasticizzato con una spessa fascia in
vita. Adoravo il modo provocante in cui aderivano al suo corpo, anche se con mio perenne disappunto lui si metteva sempre una vestaglia e non girava mai per casa con addosso solo
la biancheria intima. Diversamente da me, che stavo bene nella mia pelle, Darren si sentiva offeso dalla nudità.
Ci eravamo conosciuti a un concerto l’estate precedente. Per
me si era trattato di una grande occasione: uno dei violinisti
si era ammalato e io ero stata ingaggiata all’ultimo minuto
per suonare nell’orchestra un pezzo di Arvo Pärt… che peraltro detestavo. Lo trovavo sconnesso e monotono, ma per
un posto regolare su un palcoscenico vero, ancorché piccolo,
avrei suonato anche Justin Bieber, fingendo persino di divertirmi. Darren era tra il pubblico e lo spettacolo gli era piaciuto.
Aveva una fissazione per le rosse e in seguito mi confessò che
non era riuscito a vedermi in faccia a causa dell’angolazione
del palco, ma in compenso aveva goduto di una magnifica
visione della sommità dei miei capelli. Disse che risplendevano sotto i riflettori quasi fossi avvolta dalle fiamme. Aveva
ordinato dello champagne e aveva usato i suoi contatti con gli
organizzatori del concerto per incontrarmi dietro le quinte.
Non mi piace lo champagne, ma lo bevvi comunque, perché lui era alto, affascinante e quanto di più vicino a un vero
fan avessi mai avuto.
Gli chiesi che cosa avrebbe fatto se mi fossero mancati i denti davanti o se non gli fossi piaciuta per qualche altra ragione,
e lui rispose che ci avrebbe provato con la percussionista, che
non aveva i capelli rossi ma era comunque piuttosto attraente.
Poche ore dopo ero ubriaca e distesa nella camera della sua
casa di Ealing, a chiedermi come fossi finita a letto con un uomo
che aveva appeso la giacca e sistemato le scarpe in perfetto
allineamento. Comunque, aveva un uccello bello grosso e un
appartamento carino, e anche se scoprii che detestava tutta la
musica che io invece amavo, nei mesi successivi passammo
insieme la maggior parte dei weekend. Sfortunatamente per
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me, trascorremmo troppo poco di quel tempo a letto e decisamente troppo in giro per mostre d’arte intellet­tualoidi che a
me non piacevano e che, ne ero convinta, Darren non capiva.
Gli uomini che mi vedevano suonare nei luoghi tradizionalmente destinati alla musica classica invece che nei pub o nelle
stazioni della metropolitana sembravano commettere lo stesso
errore di Darren, convinti che io possedessi tutte le caratteristiche che associavano a una violinista classica. Secondo loro,
avrei dovuto essere beneducata, perbene, colta, istruita, signorile e aggraziata, con un guardaroba pieno di abiti semplici
ed eleganti da indossare sul palcoscenico, nessuno dei quali
volgare o succinto. Avrei dovuto portare tacchi­bassi ed essere
inconsapevole dell’effetto suscitato dalle mie caviglie sottili.
In realtà, avevo un unico abito lungo per i concerti, che avevo comprato per dieci sterline in un negozio vintage di Brick
Lane e avevo fatto modificare da una sarta. Era di velluto
nero, a collo alto e con una profonda scollatura sulla schiena,
ma la sera in cui avevo conosciuto Darren era in lavanderia,
così avevo acquistato un tubino da Selfridges con la carta di
credito e avevo nascosto le etichette nella biancheria intima.
Grazie al cielo, Darren era un amante composto e non aveva
lasciato macchie né su di me né sull’abito, per cui il giorno
dopo avevo potuto restituirlo senza problemi.
L’appartamento in cui trascorrevo le notti dei giorni feriali si
trovava in un condominio a Whitechapel. In realtà, più che un
appartamento, era una stanza dotata di un letto singolo abbastanza largo, uno stand appendiabiti che fungeva da armadio,
un piccolo lavello, un frigorifero e un fornello elettrico. Il bagno
era in fondo al corridoio, in comune con altre quattro persone
che incontravo occasionalmente, ma che in genere si facevano
gli affari loro. Nonostante si trovasse in un quartiere modesto
e il palazzo fosse fatiscente, non mi sarei mai potuta permettere di abitarvi, se non avessi fatto­un patto con l’affittuario, conosciuto in un bar dopo una visita al British Museum. Non mi
aveva mai spiegato perché volesse affittare la stanza per una
cifra inferiore a quella che pagava lui, ma m’immaginavo che
sotto le assi del pavimento ci fosse un cadavere oppure un na10
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scondiglio di polverina bianca, e spesso la notte non riuscivo
a prendere­sonno aspettando di sentire i passi di una squadra
speciale anticrimine che faceva irruzione nel corridoio.
Darren non era mai stato a casa mia, un po’ perché avevo­la
sensazione che non si sarebbe azzardato a metter piede nell’atrio
prima di aver fatto sterilizzare l’intero edificio e un po’ perché
mi piaceva che una parte della mia vita fosse solo mia. Inconsciamente, forse, sapevo che la nostra relazione non sarebbe durata e non avevo voglia di ritrovarmi con un amante scaricato
che lanciava sassi contro la mia finestra nel cuore della notte.
Lui mi aveva proposto più di una volta di trasferirmi a casa
sua, così avrei risparmiato i soldi dell’affitto e avrei potuto
comprare un violino più bello o pagare le lezioni di musica,
ma io avevo rifiutato. Detesto vivere con altra gente, soprattutto con gli amanti, e avrei preferito arrotondare le mie entrate di notte all’angolo della strada piuttosto che farmi mantenere da un fidanzato.
Udii lo scatto attutito della custodia dei gemelli che si chiudeva, serrai le palpebre e strinsi le gambe nel tentativo di render­
mi invisibile.
Lui tornò in salotto e mi passò accanto per andare in cucina. Sentii lo scroscio dell’acqua nel lavello, il lieve sibilo del
gas e, dopo qualche minuto, il suono del bollitore. Aveva uno
di quei bollitori moderni ma dal funzionamento antiquato
che doveva essere riscaldato sul fornello finché non emetteva un fischio. Non riuscivo a capire perché non potesse comprarsene uno elettrico, ma lui sosteneva che l’acqua, scaldata così, aveva un sapore diverso e che una tazza di tè come si
deve doveva essere preparata con dell’acqua come si deve.
Io non bevo tè. Il solo odore mi dà il voltastomaco. Bevo caffè, ma Darren si rifiutava di prepararmelo dopo le sette di
sera: era convinto che mi tenesse sveglia e diceva che la mia
inquietudine­notturna teneva sveglio anche lui.
Mi rilassai sul pavimento e finsi di essere altrove, rallentando il ritmo del respiro nel tentativo di rimanere immobile,­
come un cadavere.
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«Non riesco nemmeno a parlarti quando sei in questo stato,
Summer.» La sua voce arrivò fluttuando dalla cucina, incorporea. Era una delle cose che più mi piacevano di lui, la ricca tonalità del suo accento da scuola d’élite, a volte tranquilla e calda,
altre fredda e dura. Sentii un’ondata di calore tra le cosce, allora strinsi le gambe più che potevo, pensando a quando Darren
aveva steso un asciugamano sotto di noi l’unica­volta che avevamo scopato sul pavimento del salotto. Odiava il disordine.
«Quale stato?» chiesi, senza aprire gli occhi.
«Questo! Nuda e distesa per terra come una pazza! Alzati
e mettiti addosso qualcosa, cazzo.»
Bevve l’ultimo sorso di tè e io, nel sentire il lieve schiocco
che faceva deglutendo, lo immaginai in ginocchio con la bocca tra le mie cosce. Il pensiero mi fece arrossire. A Darren non
piaceva leccarmi, a meno che non fossi appena uscita dalla
doccia, e anche in quel caso la sua lingua era riluttante e cedeva il posto alle dita alla prima occasione. Preferiva usare
un dito solo e non l’aveva presa bene quando avevo allungato la mano per invitarlo a mettermene dentro due.
«Cristo, Summer» aveva detto, «se continui così a trent’anni sarai sfondata.» Poi era andato in cucina e si era lavato le
mani con il detersivo per i piatti prima di tornare a letto e
sdraiarsi su un fianco, addormentandosi con la schiena rivolta verso di me, mentre io, sveglia, fissavo il soffitto. A giudicare dallo sciacquio vigoroso doveva essersi lavato le braccia
fino ai gomiti, come un veterinario pronto a far nascere un
vitello, o un sacerdote in procinto di compiere un sacrificio.
Da allora mi ero astenuta dall’incoraggiarlo a riprovare con
più dita.
Darren mise la tazza nel lavello e mi passò di nuovo accan­
to, questa volta diretto in camera. Dopo che fu scomparso alla
vista, aspettai un attimo prima di alzarmi in piedi, imbarazzata al pensiero di quanto gli sarei sembrata oscena nella mia
nudità, anche se a quel punto mi ero ormai del tutto ridestata dalla trance indotta da Vivaldi e il corpo iniziava a dolermi e a essere percorso dai brividi.
«Vieni a letto, quando sei pronta» mi disse lui.
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Sentii che finiva di svestirsi e si coricava. Allora mi infilai la
biancheria intima e aspettai che il suo respiro si facesse profondo e regolare prima di scivolare tra le lenzuola accanto a lui.
Avevo quattro anni quando sentii per la prima volta le Quattro
stagioni. Mia madre e i miei fratelli erano andati a trovare mia
nonna per il weekend. Io mi ero rifiutata di partire senza mio
padre, che non poteva venire per impegni di lavoro. Mi ero
aggrappata a lui e avevo cominciato a urlare, mentre insieme
a mia madre cercava di convincermi a salire in auto. Alla fine
avevano ceduto e mi avevano consentito di rimanere a casa.
Mio padre aveva permesso che saltassi la scuola materna
e mi aveva portata con sé al lavoro. Avevo passato tre splendidi giorni di libertà quasi totale scorrazzando per la sua officina, arrampicandomi su mucchi di pneumatici e inalando
l’aria che sapeva di gomma mentre lo osservavo sollevare
con il cric le macchine e infilarcisi sotto, lasciando sporgere
solo le gambe. Stavo sempre vicino a lui, perché avevo una
tremenda paura che un giorno il cric potesse cedere facendogli cadere l’auto addosso e tagliandolo in due. Non so se fosse per arroganza o per stupidità, fatto sta che anche così piccola pensavo che io sarei stata capace di salvarlo, che con la
giusta dose di adrenalina sarei riuscita a sollevare la vettura
per i pochi secondi necessari a liberarlo.
Dopo che aveva finito di lavorare, salivamo sul suo furgone e iniziavamo il lungo tragitto di ritorno verso casa, facendo una sosta per un cono gelato, anche se in genere non mi
era concesso mangiare dolci prima di cena. Mio padre ordina­
va sempre malaga, mentre io sceglievo un gusto diverso ogni
volta, oppure due mezze palline di gusti diversi.
Una notte in cui non riuscivo a dormire ero andata in salotto e lo avevo trovato sdraiato al buio, apparentemente addormentato, anche se non respirava come uno che dorme.
Aveva preso il giradischi dal garage e io sentivo il lieve fruscio della puntina a ogni giro del disco.
«Ciao, piccola» disse.
«Che cosa stai facendo?» chiesi.
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«Ascolto la musica» rispose, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Mi sdraiai accanto a lui avvertendo il calore del suo corpo
vicino al mio e il lieve sentore della gomma nuova mescolato
a quello della pasta lavamani. Chiusi gli occhi e rimasi immobile, finché il pavimento scomparve e rimanemmo solo io, sospesa nel buio, e il suono delle Quattro stagioni sul giradischi.
In seguito avevo chiesto a mio padre di mettere quel disco
più volte, forse perché ero convinta che il mio nome – Summer,
“estate” – derivasse proprio da uno dei quattro concerti, una
teoria che i miei genitori non confermarono mai.
L’entusiasmo era stato tale che per il mio successivo compleanno mio padre mi regalò un violino e fece in modo che
prendessi lezioni. Ero sempre stata una bambina impaziente e piuttosto indipendente, il genere di persona che potrebbe non essere adatta a frequentare lezioni dopo la scuola o
a studiare musica, ma io desideravo moltissimo, più di ogni
altra cosa al mondo, suonare qualcosa che mi consentisse di
volare via come la notte in cui avevo ascoltato Vivaldi. Così,
dalla prima volta in cui misi le mie piccole mani sull’archetto e sullo strumento, non smisi di esercitarmi tutte le volte
che potevo.
Mia madre cominciò a preoccuparsi che diventasse un’ossessione e avrebbe voluto togliermi il violino per un po’, in
modo che mi dedicassi di più ai compiti e magari mi facessi
qualche amica, ma io rifiutai con decisione di separarmi dal
mio strumento. Con l’archetto in mano avevo la sensazione
di poter prendere il volo in qualunque momento. Senza di
esso non ero niente, solo un corpo come tutti gli altri, ancorata al suolo come un masso.
Superai rapidamente tutti i livelli dei libri di musica per
principianti e a nove anni suonavo con una maestria che andava ben oltre le aspettative della mia stupefatta insegnante
di musica della scuola.
Mio padre fece in modo che prendessi lezioni aggiuntive da
un vecchio gentiluomo olandese, Hendrik Van der Vliet, che
abitava a due vie di distanza da noi e usciva raramente di casa.
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Era un uomo alto, incredibilmente magro, che si muoveva con
difficoltà, come se fosse attaccato a dei fili e fosse circondato
da una sostanza più densa dell’aria; sembrava una cavalletta
che nuota nel miele. Quando prendeva in mano il violino, il
suo corpo diventava liquido. Guardare i movimenti delle sue
braccia era come vedere un’onda che si gonfia e si rompe nel
mare. La musica fluiva dentro e fuori di lui come la marea.
A differenza di Mrs Drummond, la mia insegnante di musica della scuola, che si era dimostrata stupita e scettica riguardo ai miei progressi, Mr Van der Vliet sembrava indifferente. Parlava di rado e non sorrideva mai. Benché vivessimo
in un piccolo centro della Nuova Zelanda, Te Aroha, poche
persone lo conoscevano e, per quanto ne sapevo, non aveva
altri allievi. Mio padre mi disse che un tempo aveva suonato
nella Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam diretta
da Bernard Haitink e che aveva abbandonato la carriera per
trasferirsi in Nuova Zelanda dopo aver conosciuto una donna del luogo a uno dei suoi concerti. Lei era morta in un incidente d’auto il giorno in cui ero nata io.
Come Mr Van der Vliet, anche mio padre era un uomo
tranquillo, ma si interessava alla gente e conosceva tutti a Te
Aroha. Prima o poi anche alla persona più schiva capitava di
trovarsi con una gomma a terra, che fosse di un’auto, di una
moto o di un tosaerba e, vista la fama che si era fatto di accettare anche le riparazioni più insignificanti, mio padre era
spesso impegnato in questo o quel lavoretto per gli abitanti della nostra cittadina. Tra questi, Mr Van der Vliet, che un
giorno era entrato nell’officina per far riparare la ruota di una
bicicletta e ne era uscito con un’allieva di violino.
Provavo una sorta di curiosa lealtà nei suoi confronti, come
se in qualche modo fossi responsabile della sua felicità, dato
che ero venuta al mondo il giorno in cui sua moglie era morta. Mi sentivo in dovere di compiacerlo e sotto la sua guida
mi esercitavo finché non mi facevano male le braccia e mi si
consumavano i polpastrelli.
A scuola non ero né particolarmente amata né emarginata. I voti erano nella media e io non mi distinguevo in alcun
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modo tranne che in musica, materia nella quale le lezioni private unite al talento mi permettevano di collocarmi ben al di
sopra dei miei coetanei. Mrs Drummond mi ignorava, forse
temendo che la mia bravura avrebbe fatto sentire inadeguati
o invidiosi i compagni.
Tutte le sere andavo nel garage e suonavo il violino o ascoltavo dischi, di solito al buio, fluttuando con la mente nel repertorio classico. Talvolta mio padre si univa a me. Quasi
mai parlavamo, ma io mi sentivo sempre vicina a lui grazie
all’esperienza condivisa dell’ascolto, o forse a causa della nostra reciproca eccentricità.
Evitavo le feste e non socializzavo granché. Di conseguenza, le esperienze sessuali con i ragazzi della mia età erano limitate. Ancor prima dell’adolescenza, però, avvertii dentro
di me una tensione, il primo segnale di quello che in seguito
sarebbe diventato un robusto appetito sessuale. Suonare il
violino sembrava acuire i miei sensi. Era come se le distrazioni annegassero nei suoni e tutto sparisse ai margini della
percezione, tranne la sensazione del mio corpo. Con l’adolescenza cominciai ad associare questa sensazione all’eccitazione sessuale. Mi chiedevo perché il desiderio si risvegliasse
in me con tanta facilità e per quale motivo la musica avesse
un effetto così potente. Ho sempre temuto che i miei impulsi
fossero eccessivi, anormali. La mia relazione con Darren mi
spinse a domandarmelo anche più spesso di prima.
Mr Van der Vliet mi trattava come se fossi uno strumento.­
Mi spostava le braccia nella posizione corretta o mi metteva
una mano sulla schiena per farmi stare diritta, come se fossi
fatta di legno invece che di carne. Sembrava del tutto inconsapevole del proprio tocco, quasi che io fossi un’estensione
del suo corpo. Non si comportò mai in modo meno che corretto e casto, eppure, a dispetto di ciò e nonostante la sua età,
il suo odore lievemente acre e il suo viso ossuto, iniziai a provare qualcosa per lui. Era insolitamente alto, più alto di mio
padre, forse intorno ai due metri, e torreggiava sopra di me.
Se adesso non supero il metro e sessantacinque, da adolescente gli arrivavo a malapena al petto.
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Iniziai ad aspettare con ansia le lezioni per ragioni che andavano oltre il piacere di perfezionare il mio modo di suonare. Di tanto in tanto fingevo di prendere una stecca o facevo
un movimento goffo del polso nella speranza che lui mi toccasse la mano per correggermi.
«Summer» mi disse un giorno con voce sommessa, «se continui a fare così non ti darò più lezioni.»
Non suonai mai più una nota sbagliata.
Fino a quella sera, poche ore prima che Darren e io litigassimo per via delle Quattro stagioni.
Stavo suonando una serie di brani con un aspirante gruppo di blues rock in un bar di Camden Town, quando all’improvviso mi si erano irrigidite le dita e avevo mancato una
nota. Nessuno degli altri membri della band se n’era accorto e, fatta eccezione per un pugno di fan sfegatati di Chris, il
cantante e chitarrista, la maggior parte del pubblico ci ignorava. Era una serata dal vivo che cadeva di mercoledì e la gente che frequentava il locale durante la settimana era persino
più distratta degli ubriachi del sabato sera, perciò a parte i
sostenitori irriducibili, il resto degli avventori era lì solo per
farsi una birra e due chiacchiere, non certo per ascoltare musica. Chris mi aveva detto di non preoccuparmi.
Lui suonava sia la viola sia la chitarra, anche se aveva quasi
abbandonato il primo strumento per cercare di conquistarsi un maggior appeal commerciale con il secondo. Avevamo
entrambi una passione per gli strumenti a corda e per questa
ragione tra noi si era creata una sorta di legame.
«Capita a tutti, dolcezza» aveva detto.
Ma non a me. Ero mortificata.
Me n’ero andata senza bere un bicchiere insieme agli altri
del gruppo e con la metropolitana avevo raggiunto l’appartamento di Darren a Ealing, dove ero entrata usando il mazzo di chiavi di riserva. Avendo fatto confusione con gli orari
dei voli, pensavo che lui sarebbe arrivato la mattina dopo aver
preso l’ultimo aereo e sarebbe andato in ufficio senza passare
da casa, dandomi così l’opportunità di dormire in un letto co17
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modo tutta la notte e di ascoltare un po’ di musica. Un’altra
delle ragioni per cui continuavo a frequentarlo era la qualità dell’impianto stereo del suo appartamento, nonché la superficie di pavimento libera su cui potersi sdraiare. Darren
era una delle poche persone di mia conoscenza ad avere ancora un vero stereo, completo di lettore cd, e a casa mia non
c’era abbastanza spazio per stare sdraiata per terra, a meno
di non infilare la testa nella credenza.
Dopo qualche ora di Vivaldi in loop, avevo concluso che la
nostra relazione, benché piacevole, stava soffocando la mia
vena creativa. Sei mesi di arte moderata, musica moderata,
barbecue moderati con altre coppie moderate e sesso modera­to
mi avevano portata a dare uno strattone alla catena che avevo acconsentito a farmi mettere al collo, un cappio che mi ero
fabbricata con le mie stesse mani.
Dovevo trovare un modo per uscirne.
In genere Darren aveva il sonno leggero, ma dopo i voli di
rientro da New York prendeva regolarmente un sonnifero per
evitare il jetlag. Vedevo baluginare il blister vuoto nel cestino­
della cartastraccia. Persino alle quattro del mattino aveva scrupolosamente gettato la confezione nella spazzatura invece di
lasciarla sul comodino fino al giorno dopo.
Il cd di Vivaldi era a faccia in giù accanto all’abat-jour. Per
Darren lasciare un cd fuori dalla custodia era la più grande
espressione di disappunto. Nonostante il sonnifero, ero sorpresa che riuscisse a dormire con il disco che rischiava di graffiarsi accanto a lui.
Sgattaiolai fuori dal letto all’alba, dopo aver dormito al massimo un paio d’ore, e gli lasciai un biglietto sul bancone della cucina. “Scusa per il rumore. Dormi bene. Ti chiamo ecc.”
Presi la Central Line della metropolitana in direzione del
West End senza sapere esattamente dove stessi andando. Il
mio monolocale era perennemente in disordine e non mi piaceva esercitarmi lì troppo spesso, perché le pareti erano sottili
e avevo paura che gli inquilini della stanza accanto prima o
poi si stancassero del rumore, per quanto piacevole (o, alme18
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no, così speravo che fosse). Smaniavo dalla voglia di suonare, se non altro per sfogare le emozioni che si erano accumulate durante la notte.
All’altezza di Shepherd’s Bush la metropolitana era piena
zeppa. Avevo scelto di rimanere in piedi all’estremità del vagone, appoggiata a uno dei sedili pieghevoli vicini alla porta,
perché era più comodo che stare seduta con la custodia del
violino tra le gambe. Adesso ero schiacciata in mezzo a una
calca di impiegati sudati, sempre più numerosi a ogni fermata, ogni volto più infelice del precedente.
Indossavo l’abito lungo di velluto nero che mi ero messa­la
sera prima per il concerto con la band e un paio di Dr Martens
di pelle rosso ciliegia. In occasione dei concerti di musica classica mettevo le scarpe con i tacchi, ma preferivo sostituirle con
gli anfibi per il ritorno a casa perché avevo l’impressione che
conferissero una nota di minacciosa baldanza ai miei passi
mentre camminavo per l’East End la sera tardi. In piedi, a testa alta, immaginavo che, vestita in quel modo, la maggior
parte della gente sul vagone, o almeno quelli che riuscivano
a vedermi nella calca, sospettassero che stessi tornando a casa
dopo una notte di passione.
Vaffanculo. Avrei tanto voluto essere reduce da una notte di
passione. Con Darren sempre in giro per lavoro e io a suonare­
in tutte le serate che riuscivo a procurarmi, era quasi un mese
che non scopavamo. E quando lo facevamo, raggiungevo­raramente l’orgasmo e solo dopo essermi toccata in fretta e con
imbarazzo, cercando disperatamente di godere e preoccupata
del fatto che masturbarmi dopo il sesso facesse sentire il mio
partner inadeguato. E tuttavia lo facevo lo stesso, anche se
sospettavo che lui si sentisse davvero inadeguato, perché altrimenti avrei finito per passare le successive ventiquattr’ore
insoddisfatta e tesa.
A Marble Arch salì un muratore. L’estremità del vagone era
già stipata di gente e gli altri passeggeri lo guardarono storto
mentre cercava di guadagnarsi un posto in un angolo­ vicino
alla porta davanti a me. Era alto, muscoloso, e aveva dovuto rattrappirsi per permettere alla porta di richiudersi alle sue spalle.
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«Andate avanti, per favore» disse un passeggero in tono
for­zatamente cortese.
Nessuno si mosse.
Sempre beneducata, spostai il violino per fare un po’ di
spazio, togliendo ogni schermo tra me e l’uomo.
Il treno ripartì con uno scossone, facendo perdere l’equilibrio ai passeggeri. Lui fu sbalzato in avanti e io irrigidii la
schiena per rimanere in equilibrio. Per un momento sentii il
suo busto premere contro di me. Indossava una camicia di
cotone a maniche lunghe, un gilet catarifrangente e un paio
di jeans scoloriti. Non era grasso, ma era massiccio, come un
giocatore di rugby fuori allenamento, e, pigiato in quel vago­
ne con le braccia alzate per reggersi al sostegno sopra la sua
testa, dava l’impressione di indossare vestiti leggermente
troppo piccoli per la sua taglia.
Chiusi gli occhi e immaginai come potesse essere sotto i
jeans. Non avevo avuto modo di guardarlo sotto la cintura
quando era salito, ma la mano con cui si teneva al corrimano
era grande e tozza, per cui pensai che la stessa cosa dovesse
valere per il rigonfiamento nei pantaloni.
Entrammo nella stazione di Bond Street e una biondina con
il viso atteggiato a una cupa determinazione si preparò a infilarsi nel vagone affollato.
Pensiero fugace: il treno avrebbe sussultato di nuovo ripar­
tendo?
Sì.
L’uomo incespicò verso di me e io, in un impeto di audacia, strinsi le cosce e percepii il suo corpo che si irrigidiva. La
biondina iniziò a farsi largo, dando una gomitata nella schiena
al muratore mentre estraeva un libro dalla borsa voluminosa.­
Lui mi si avvicinò per lasciarle un po’ di spazio, o forse voleva semplicemente godersi la vicinanza dei nostri corpi.
Strinsi le cosce con più forza.
Il treno sobbalzò di nuovo.
Lui si rilassò.
Adesso il suo corpo premeva con decisione contro il mio e
io, incoraggiata da quella vicinanza apparentemente casuale,
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protesi leggermente il bacino, cosicché adesso i suoi jeans mi
toccavano l’interno della gamba.
Lui spostò la mano dal sostegno sopra la testa alla parete­
del vagone appena sopra la mia spalla; adesso sembrava quasi
che ci stessimo abbracciando. Immaginai di sentire il fiato
che gli si mozzava in gola e il battito che accelerava, anche­
se qualunque possibile rumore fu inghiottito dal fracasso del
treno che correva dentro il tunnel.
Il cuore mi batteva forte, e provai una fitta di paura, temen­
do di essermi spinta troppo in là. Che cosa avrei fatto se quel­
l’uomo mi avesse rivolto la parola? E se mi avesse baciata?­Mi
chiesi come sarebbe stato avere la sua lingua in bocca, se fosse uno che sapeva baciare, il tipo che faceva guizzare la lingua dentro e fuori come una lucertola, o se invece mi avrebbe
afferrata per i capelli facendomi reclinare la testa­all’indietro
per baciarmi e prendersi quello che voleva.
Sentii un’ondata di calore umido tra le cosce e mi resi conto, con un misto di imbarazzo e piacere, di avere le mutandine bagnate. Per fortuna avevo resistito all’impulso di uscire
senza biancheria intima quella mattina, infilandomi un paio
di slip che avevo lasciato a casa di Darren.
L’uomo muscoloso adesso si era voltato verso di me, cercan­
do di incrociare il mio sguardo, ma io tenni gli occhi bassi e assunsi un’espressione impassibile, come se la pressione del suo
corpo contro il mio non fosse nulla di sconveniente, nulla di diverso da quello che mi capitava ogni giorno in metropolitana.
Temendo ciò che sarebbe potuto succedere se fossi rimasta
intrappolata un solo minuto di più fra la parete del vagone
e quell’uomo, sgusciai sotto il suo braccio e scesi dal treno a
Chancery Lane senza voltarmi. Mi chiesi se mi avrebbe seguita. Chancery Lane era una stazione tranquilla; dopo il nostro contatto sul vagone, gli sarebbe potuto venire in mente
ogni genere di servizietto clandestino, facilitato dal mio abito che non avrebbe frapposto ostacoli. Ma il treno ripartì portandosi via il mio uomo muscoloso.
Una volta uscita dalla metropolitana, avevo intenzione di
andare al ristorante francese all’angolo dove servivano le mi21
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gliori uova alla Benedict che avessi mai mangiato da quando
avevo lasciato la Nuova Zelanda. La prima volta, avevo detto allo chef che la sua era la colazione più buona di tutta Londra. «Lo so» aveva ribattuto. Capivo perché gli inglesi detestavano i francesi: sono un popolo di spocchiosi, ma a me la
cosa piace, e tornavo in quel ristorante più spesso che potevo.
Adesso, però, troppo agitata per far caso alla direzione da
prendere, svoltai a destra invece che a sinistra. In ogni caso
il locale francese non apriva fino alle nove. Forse avrei trova­
to un posticino tranquillo ai Gray Inn’s Gardens; avrei potuto suonare un po’ prima di far colazione.
Mentre camminavo in cerca del vicolo privo di cartello stradale che portava ai giardini, mi resi conto di trovarmi proprio
a Holborn, davanti al locale di striptease in cui ero stata qualche settimana dopo il mio arrivo in Gran Bretagna. C’ero andata con Charlotte, una ragazza con cui avevo lavorato per
un breve periodo mentre giravo per l’Outback australiano e
che avevo incontrato di nuovo in un ostello durante la mia
prima sera a Londra. Lei aveva sentito dire che lì ballare era
il modo più facile per fare soldi. Passavi un paio di mesi in
qualche bettola e poi trovavi lavoro in uno dei locali chic di
Mayfair, dove le celebrità e i calciatori ti avrebbero infilato
manciate di banconote nel perizoma come fossero coriandoli.
Charlotte mi aveva portata con sé in quel locale per dargli­
un’occhiata e vedere se riusciva a trovare un lavoro. Con mio
disappunto, l’uomo che ci aveva accolte nell’ingresso con la
moquette rossa non ci aveva fatte entrare, come mi sarei aspettata, in una stanza piena di signore poco vestite che si divertivano ballando, ma ci aveva portate nel suo ufficio attraverso una porta laterale.
Aveva chiesto a Charlotte di parlargli delle sue esperienze
precedenti, che non esistevano, a meno che non si volessero
contare come tali le esibizioni di ballo sui tavoli nei nightclub.
Poi l’aveva squadrata da capo a piedi come un fantino avrebbe fatto con un cavallo a una fiera del bestiame.
Dopodiché aveva fatto la stessa cosa con me.
«Sei in cerca di un lavoro anche tu, tesoro?»
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«No, grazie» risposi. «Ne ho già uno. Sono qui solo per accompagnare la mia amica.»
«Niente palpeggiamenti. Li sbattiamo fuori, se ci provano»
aggiunse speranzoso.
Scossi la testa.
Avevo preso in considerazione la possibilità di vendere il
mio corpo, ma, a parte i rischi, avrei preferito prostituirmi. In
qualche modo, mi sembrava più onesto. Trovavo che lo spogliarello fosse un po’ artefatto. Perché spingersi fino a un certo punto e non fare il servizio completo? In ogni caso, avevo
bisogno di avere le serate libere per i concerti e mi serviva un
lavoro che mi lasciasse energia per suonare.
Charlotte era rimasta circa un mese in quel locale, prima di
essere licenziata dopo che una delle altre ragazze aveva spifferato che era uscita con due clienti.
Una coppia giovane. «Con l’aria innocente come piace a te»
mi aveva detto Charlotte. Erano arrivati un venerdì sera tardi,
lui su di giri e la sua ragazza elettrizzata e civettuola, come se
non avesse mai visto il corpo di un’altra donna. Il ragazzo si era
offerto di pagare un ballo e lei si era guardata intorno nel locale e poi aveva scelto Charlotte. Forse perché non aveva ancora
nessun orpello adatto a una spogliarellista­o perché non aveva
le unghie finte come le altre ballerine. Era ciò che la distingueva.
Charlotte era l’unica spogliarellista­che non sembrava tale.
Era bastato qualche istante a far eccitare la ragazza, e lui
era diventato paonazzo. Charlotte si divertiva a traviare gli
innocenti ed era stata lusingata dalla loro reazione al modo
in cui lei muoveva il corpo.
Si era protesa in avanti, colmando la distanza che la separava da loro.
«Vi va di venire da me?» aveva sussurrato all’orecchio di
entrambi.
Dopo un primo imbarazzo i due avevano finito per accettare e tutti e tre si erano stipati sul sedile posteriore di un taxi,
diretti all’appartamento di Charlotte a Vauxhall. La sua proposta di andare invece a casa della coppia era stata liquidata in modo sbrigativo.
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La faccia della sua coinquilina, mi aveva raccontato poi, sarebbe stata da fotografare, quando la mattina dopo aveva aperto la porta della sua camera senza bussare per portarle una tazza di tè e l’aveva trovata a letto non con uno sconosciuto, ma
con due. Adesso sentivo raramente Charlotte. Londra aveva
un modo tutto suo di inghiottire la gente, e mantenere i contatti
non era mai stato il mio forte. Però quel locale me lo ricordavo.
Si trovava non in fondo a un vicolo buio, come ci si sarebbe
potuti aspettare, ma sulla via principale, tra un fast food e un
negozio di articoli sportivi. Poco più avanti c’era un ristorante
italiano dov’ero andata una volta per un appuntamento, reso
memorabile dal fatto che avevo accidentalmente bruciato il
menu tenendolo aperto sopra la candela al centro del tavolo.
La porta d’ingresso era un po’ arretrata rispetto alla strada e l’insegna non era illuminata al neon, ma comunque se si
guardava bene il posto, con la sua vetrina oscurata e il nome
piuttosto squallido – Sweethearts –, non c’era possibilità di
sbagliarsi sul fatto che si trattasse di un locale di striptease.
Presa da un’improvvisa curiosità, strinsi forte la custodia
del violino, feci un passo avanti e spinsi la porta.
Era chiusa. Sbarrata. Il che non era poi così strano, visto
che erano le otto e mezzo di un giovedì mattina. Spinsi anco­
ra, sperando che si aprisse.
Niente.
Due uomini su un furgone bianco rallentarono e abbassarono il finestrino.
«Torna all’ora di pranzo, dolcezza» mi urlò uno dei due, con
un’espressione più di compassione che di attrazione. Con il
vestito nero e i residui del pesante trucco da rockettara della
sera prima, probabilmente avevo l’aria di una ragazza disperata in cerca di un lavoro. E se lo fossi stata davvero?
Adesso ero affamata e avevo la gola secca. Le braccia cominciavano a dolermi, visto che continuavo a stringere la custodia
del violino con forza, com’ero solita fare quand’ero turbata o
stressata. Non ebbi il coraggio di andare al ristorante francese senza essermi fatta una doccia e con addosso gli abiti del
giorno prima. Non volevo che lo chef pensasse male di me.
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Presi la metropolitana per tornare a Whitechapel, camminai­
fino al mio appartamento, mi sfilai il vestito e mi rannicchiai
nel letto. La sveglia era puntata sulle tre del pomeriggio,
così sarei potuta tornare sottoterra e suonare per i pendolari dell’ora di punta.
Persino nei giorni peggiori, quelli in cui le dita erano così
goffe da sembrare salsicce e il cervello come immerso nella colla, trovavo sempre il modo di esibirmi da qualche parte, fosse pure in un parco davanti a un pubblico di piccioni. Non era
tanto perché fossi ambiziosa o mirassi a fare carriera nel mondo della musica, anche se naturalmente sognavo di essere notata e ingaggiata e di poter suonare al Lincoln Center o al Royal
Festival Hall. No, era solo perché non potevo farne a meno.
Mi svegliai alle tre, riposata e con una visione delle cose molto più positiva. Sono un’ottimista per natura. Ci vogliono
un certo grado di follia o un atteggiamento molto positivo o
un pizzico di entrambi per indurre una persona a trasferirsi­
dall’altra parte del mondo con nient’altro che una valigia, un
conto in banca in rosso e il sogno di farcela. I miei malumori
non duravano mai a lungo.
Avevo un guardaroba pieno di vestiti per suonare in strada,
la maggior parte recuperati nei mercatini e comprati su eBay,
dato che non avevo troppi soldi. Mettevo raramente i jeans
perché, avendo la vita molto più stretta dei fianchi, detestavo
provarmi i pantaloni, così indossavo quasi sempre gonne e
abiti. Avevo un paio di jeans tagliati al ginocchio per i giorni
da cowboy, quando suonavo musica country, ma quella era
una giornata da Vivaldi, il che imponeva un look più classico. Il vestito di velluto nero sarebbe stato l’ideale, ma era appallottolato sul pavimento dove l’avevo lasciato quella mattina e aveva bisogno di un altro giro in lavanderia. Presi invece
una gonna nera a coda di pesce e una camicetta di seta color
crema con un delicato colletto di pizzo che avevo trovato in
un negozio vintage, lo stesso dove avevo comprato il vestito
nero. Misi dei collant opachi e un paio di stivaletti alla caviglia con le stringhe e il tacco basso. L’effetto, speravo, era pu25
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dico, gotico-vittoriano, il genere di look che io amavo e Darren detestava; era convinto che il vintage fosse uno stile per
aspiranti alternativi che si lavavano poco.
Quando arrivai a Tottenham Court Road, la stazione dove si
trovava il mio posto prestabilito per suonare, la folla dei pendolari aveva appena iniziato a infittirsi. Mi sistemai vicino al
muro ai piedi della prima rampa di scale mobili. Su una rivista avevo letto uno studio secondo il quale la gente era più disposta a dare qualcosa a un musicista di strada se aveva avuto
prima qualche secondo per decidere di mettere mano al portafoglio. Quindi la mia postazione era perfetta, perché i pendolari mi guardavano mentre scendevano con la scala mobile e
avevano l’opportunità di tirar fuori il denaro prima di passare
oltre. Non ero proprio sul loro percorso, comunque, e la cosa
sembrava funzionare con i londinesi, ai quali piaceva avere
la sensazione di aver fatto la scelta di spostarsi di lato per lasciar cadere gli spiccioli nella custodia del violino.
Sapevo che avrei dovuto cercare il contatto visivo e sorridere per ringraziare le persone che mi davano le monete, ma
ero così persa nella musica che spesso me ne dimenticavo.
Mentre suonavo Vivaldi, non avrei potuto connettermi con
nessuno. Se nella stazione fosse scattato l’allarme antincendio, probabilmente non me ne sarei neanche accorta. Appoggiavo il violino sotto il mento e nel giro di qualche minuto i
pendolari scomparivano. Tottenham Court Road scompariva. Rimanevamo solo io e Vivaldi in loop.
Suonai finché le braccia cominciarono a farmi male e lo stomaco si mise a brontolare, indizi certi del fatto che mi ero fermata più a lungo del previsto. Arrivai a casa alle dieci di sera.
Contai i soldi solo il mattino dopo e mi accorsi che c’era una
banconota rossa nuova di zecca ripiegata con cura all’interno
di un piccolo strappo nella fodera di velluto della custodia.
Qualcuno mi aveva dato cinquanta sterline.
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