Untitled - Liceo Classico (Pietradefusi)
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Introduzione Il tema del convegno ha inteso valorizzare lo studio storico avviato da tempo all’interno del Liceo di Frigento, grazie alla collaborazione attiva dell’Assessorato alla Cultura e, in primo luogo, del responsabile della Biblioteca comunale, prof. Andrea Famiglietti, che ha fornito lo spazio logistico ed il supporto tecnico indispensabile alla buona riuscita dell’iniziativa. I ragazzi della classe V B del Liceo Linguistico, seguendo un progetto scolastico che ha previsto la flessibilità oraria, ha presentato numerose slides riassuntive per inquadrare il tempo storico in cui visse Marciano Di Leo, una delle glorie frigentine di cui numerosi scrittori di storia locale hanno criticato, in modo superficiale, l’operato e le sue scelte politiche di collaborare attivamente con il nuovo governo transalpino insediatosi nel Regno di Napoli all’inizio del XIX secolo. In realtà occorre tener presente che il Nostro era un uomo di Chiesa, legato alle tradizioni politiche e agli ideali monarchici ma, allo stesso tempo, capace di valutare con lungimiranza i benefici che le riforme murattiane avrebbero portato al Meridione. La sua scelta di collaborare fu certamente dettata da una profonda fiducia nella necessità di imprimere una svolta all’economia attraverso uno studio sistematico e preciso del territorio che lo guidò nella redazione della Statistica. Non sorprende, dunque, la sua condivisione del progetto politico napoleonico, ma, semmai, la scelta dei francesi di un chiedere a Marciano Di Leo, per molti un oscuro prete di paese di redigere un trattato di così rilevante valore. Che i nuovi conquistatori siano stati così imprevidenti da operare scelte a caso all’interno delle zone interne del Regno appare quanto mai improbabile, data la prova della scientificità e dell’attenzione con cui si mossero ad operare una radicale azione di rinnovamento della pubblica amministrazione. Il canonico Di Leo fu invece scelto perché è più che lecito supporre che fosse l’uomo adatto ad espletare il compito che gli venne assegnato, non fu un servo del Regime, ma uno studioso cosciente delle proprie capacità di analisi e di valutazione che volle dare prova della sua scienza. MARCIANO DI LEO E IL SUO TEMPO 1. Territorio e società nel Settecento Nel corso del Settecento si ebbe un progressivo aumento della popolazione in tutto il Regno di Napoli, ma la crescita non va intesa come un segnale totalmente positivo, trattandosi dello sviluppo più vulnerabile della società d’antico regime che vedeva l’aumento della natalità e non l’allungamento della vita degli individui. La messa a coltura di molte zone boschive non assicurò un incremento delle produzioni che allontanasse lo spettro della fame, infatti bastarono pochi anni di cattivi raccolti, causati da condizioni climatiche avverse, per rivivere le drammatiche vicende dei registri parrocchiali dove si riportava repentina morte aggressus tempora famis currenti come notazione a fianco a numerosi decessi avvenuti nel 1764. Da secoli il territorio era caratterizzato da un’economia di sussistenza che aveva il suo pilastro nell’estrema polverizzazione degli appezzamenti, in cui le maggiori ricchezze appartenevano alle famiglie dei notabili che avevano incamerato un gran numero di beni mobili ed immobili nel corso di vari decenni. Emblema di tale condizione fu la famiglia Grella, nella persona del notaio Pantaleone che, secondo i dati del catasto onciario di inizio Settecento, aveva un nucleo familiare costituito da 11 persone, possedeva una casa grande con giardino nel centro della città e quattro case piccole nei casali, ben 62 appezzamenti di terreno a vigneto, semitori e a pascolo, per 192 tomoli, circa 64 ettari, tenuti da 64 fittavoli che fornivano ben 176 ducati l’anno. A questo patrimonio andavano sommati anche i redditi provenienti da una miriade di bestie di ogni tipo che occorrevano per effettuare i faticosi lavori agricoli dei fittavoli, 20 buoi, 792 pecore, 190 arieti, 48 fra capre e capretti, un numero imprecisato di cavalli e giumente, una mula ed un somaro. Palazzo Grella-Vicario - STURNO 2. I religiosi e la carità cristiana Nell’ambito della società frigentina del Settecento un ceto a parte era quello dei religiosi, per lo più sacerdoti sotto vario titolo e responsabilità che affollavano le chiese di Frigento. Il Capitolo, in particolare, era composto da dieci prelati, tre Dignità, cioè Arcidiacono, Arciprete e Primicerio che tengono le sedi fisse e sette Canonici, come riporta Carmine Pascucci, i quali si dividevano equamente 1300 tomoli di grano esatti dagli affitti delle terre, dalle decime e dai prestiti in denaro. Nelle contrade, inoltre, sopravvivevano le cappelle intitolate ai santi e legate a jus patronato. La chiesa era riuscita ad ampliare il possesso di beni, terre e fondi, donati da numerosi benefattori che ponevano clausole specifiche per la gestione delle risorse e per l’elezione di un procuratore generale dei proventi e del sacerdote impegnato negli uffici religiosi, di solito appartenente alla famiglia del donatore. La cattedrale ed il campanile - FRIGENTO Ma la maggior parte della popolazione era costituita da bracciali e campesi, lavoratori impiegati alla giornata per le incombenze stagionali della raccolta dei prodotti agricoli, che vivono alla giornata con la zappa, et con l’andare nel Bosco a cavar legna, con l’animali […] et con l’altri esercizij con l’aiuto de’loro donne, et altre chi al filare, tessere, cucire, et altri esercizij di loro case, come riportava anche l’Apprezzo della città di Frigento dei tabulari Salvatore Pinto e Onofrio Tanga. Sempre più in basso vi erano i pastori di pecore, di capre e di maiali. Inoltre numerosi erano i poveri che vivevano di elemosina e di molti di essi si trova notizia nei registri parrocchiali in cui si dice che erano stati sepolti per amore di Dio nella cattedrale. Da una stima approssimativa dedotta dai dati catastali e dai registri parrocchiali, nella seconda metà del XVIII secolo, su una popolazione di circa tremila anime si contavano seicento persone indigenti o di età inferiore a sei anni, pertanto il 20% della comunità frigentina apparteneva alla cosiddetta fascia debole. Torre d’Aciello FRIGENTO Il welfare del tempo era promosso dalle elemosine e dalle donazioni che i più ricchi offrivano alle Congreghe di carità come sussidio ai poveri. Il canonico Carmine Pascucci, nel suo manoscritto Antichità, origine, guerre, distruzzione, et stato presente della città di Frigento, il canonico Carmine Pascucci, nel suo manoscritto Antichità, origine, guerre, distruzzione, et stato presente della città di Frigento, a fine Settecento ci conferma l’esistenza di tre congregazioni secolari nel centro, delle quattro esistenti fino a metà del secolo, poiché la congrega di Santa Maria di Loreto fu sciolta, e rimangono la Congrega delle Cinque Piaghe, o sia del SS. Sacramento, la Congrega del SS. Rosario, costruita dentro la Chiesa di San Pietro Apostolo, e la Congrega dei Morti, fondata nel 1747. Nei casali sturnesi operavano altre due congreghe, quella del SS. Rosario, istituita nel 1743, e quella del SS. Salvatore di due anni posteriore. Le azioni di assistenza sociale erano svolte anche dall’Ospedale, luogo di ospitalità non solo dei malati, ma di tutti i bisognosi, dei forestieri, dei pellegrini, esso divenne il ricovero di tutti gli sconfitti della fatica, di tutti i vinti dall’inedia, di tutti i tribolati dall’indigenza e dal morbo, come ebbe a dire uno scrittore ottocentesco. Nei registri parrocchiali compare moltissime volte la frase defuncta est in hospitali, riferita al decesso di numerosi poveri ospitati nell’ente pio cittadino che, da un documento del 1684, risultava costituito da cinque stanze e dotato di un fondo di cento ducati. Il Monte frumentario, istituito nel 1760 da monsignor Latilla, svolgeva un’ulteriore opera di supporto specifico alle famiglie prestando ad un interesse minimo ai contadini poveri il grano necessario alla semina, indispensabile alla sopravvivenza in una società flagellata dalla piaga ricorrente delle carestie e delle epidemie. Una lapide nella chiesa di San Marciano riporta che anche nella seconda metà del Settecento molti frigentini furono sterminati più dal flagello della fame che all’epidemia di tifo: Cives, heu, miserum, non tam morbo rum vi, quam famis flagello consumptos lapis iste tegit. A. D. MDCCLXIV. 3. La ventata rivoluzionaria del 1799 Il sistema dei privilegi feudali, perpetrato da anni di jus prohibitivi, impediva al dinamismo delle nuove forze sociali di rappresentare una società caratterizzata da istanze di innovazione profonda. Il riformismo illuministico ed il passaggio dagli ideali generalmente filantropici delle logge massoniche al concreto progetto politico dei primi club giacobini promosse una rapida diffusione del sentimento antiborbonico che culminerà con la congiura contro il re del 1794, come rileva Giuseppe Galasso. Con la campagna d’Italia di Napoleone si rinvigorì la ventata rivoluzionaria nel nostro Paese e le Repubbliche Sorelle sostituirono gli antichi stati italiani ed anche nei territori pontifici, dopo l’espulsione di Pio VI, nel febbraio del 1798, si proclamò la Repubblica Romana. Ferdinando IV, credendo di poter finalmente allargare i territori del suo stato con l’annessione di parti sottratte alla Chiesa, senza una formale dichiarazione di guerra iniziò l’occupazione di alcuni avamposti, ma i successi iniziali furono presto vanificati dall’avanzata delle truppe di Championnet e Macdonald che lo costrinsero ad una precipitosa fuga da Napoli verso la più sicura Palermo. Napoli insorse contro il vicario del sovrano, il principe di Strongoli Francesco Pignatelli, che aveva sottoscritto l’umiliante armistizio di Sparanise in cui si concedeva ai generali francesi la città di Capua, l’occupazione delle province settentrionali del Regno, la chiusura dei porti inglesi ed il pagamento dell’esorbitante cifra di due milioni e mezzo di ducati come indennità di guerra. L’attacco dei lazzari ai castelli della città segnerà l’inizio della rivoluzione del gennaio del 1799 che si concluderà con l’arrivo dei francesi nella capitale e la proclamazione della Repubblica Partenopea, a cui seguì la repubblicanizzazione delle università all’interno del Regno meridionale promossa dai giacobini della borghesia più attiva e da qualche nobile illuminato, come il principe di Torella Giuseppe III Caracciolo (1747-1808) feudatario di Frigento. Egli aderì con vivo entusiasmo alla rivoluzione e la vicinanza agli ideali illuministi tradiva la sua nomina e quella della moglie, Maria Beatrice d’Alarcòn y Mendoza (1746-1823), ad intimi della corte, ma lo avvicinava agli altri esponenti della nobiltà che, insieme al ceto più progressista, aveva promosso il rinnovamento e l’anticurialismo delle accademie settecentesche. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio i repubblicani avevano piantato nelle piazze dei centri regnicoli l’albero della libertà, addobbato di ghirlande, fiori e nastri colorati, sul quale campeggiava il berretto frigio ed il tricolore francese. Nei feudi irpini del principe furono gli studenti iscritti all’Ateneo di Napoli che portarono le loro idee rivoluzionarie, ma il ceto dei galantuonimi verso la nuova cultura transalpina ed i limiti culturali delle masse contadine, sobillate dal clero, resero vani gli sforzi di rinnovamento delle nuove istituzioni. L’euforia rivoluzionaria si spense rapidamente alla notizia dei successi con cui il cardinale Ruffo, a nome del re, stava risalendo la Penisola con l’esercito dei Realisti, fino a raggiungere Napoli il 13 giugno del 1799. A Frigento i tre figli del notaio Nicola Mannella, Giuseppe, Sabino ed Andrea, che avevano appoggiato apertamente la repubblica, trovando pochi proseliti alla loro causa, subirono per tre volte il saccheggio della loro abitazione e, soltanto il 26 maggio di quel fatidico anno, il santangiolese Giovan Battista Tarantino, grazie alla sua compagnia di armati, riuscì a ristabilire l’ordine nella città. Dopo alcuni giorni il Commissario generale per la Provincia di Montefusco, Giuseppe Rossi, e Vicario Generale della Diocesi di Sant’Angelo e Bisaccia […] si portò a Frigento e “Tutti si realizzarono”, come testimonia un documento del Capitolo firmato dall’arcidiacono don Vincenzo Santoli, dall’arciprete don Marciano Di Leo (1751-1819), dal primicerio don Nicola De Martino e dai canonici. 4. I beni del Reo di Stato ed il ritorno dei francesi nel Regno. L'attuale aspetto del Castello di TORELLA La partecipazione alla vita politica della Repubblica del ’99 e la strenua difesa dei castelli di Napoli, durante lo scontro con le truppe borboniche fecero sì che il principe fosse annoverato fra i “Rei di Stato” nel gennaio del 1801. Dopo il processo fu condannato a morte, ma il sovrano commutò la pena in ergastolo da scontarsi nell’isola di Favignana e lo privò di tutti i suoi beni. Una successiva grazia reale gli permise di lasciare la piccola isola delle Egadi e di vivere in esilio a Marsiglia fino al 1805 quando, ormai vecchio nel corpo ma ancora giovane nello spirito, seguì i francesi nel loro rientro trionfale nel Regno di Napoli. L'albero della libertà Il canonico Marciano Di Leo Il sequestro dei beni ha lasciato ai posteri una preziosa documentazione d’archivio inedita e ricca di riferimenti alle risorse del territorio frigentino, la Platea dello Stato di Torella in Principato Ultra, con rendite feudali e burgensatiche che il fù Principe di Torella possedeva nel feudo della Città di Frigento e nella Terra di Gesualdo, in cui si indicano le entrate in denaro ed in natura che gli affittuari dovevano al feudatario. In particolare si trascrivono i diritti feudali sul bosco di Migliano, ricco di Quercie e di Piante Selvagge dove possiede lo jus del pascolo dal primo Marzo al 4 Ottobre e dal 24 Dicembre a tutto detto 4 Ottobre per li Bovi domati. La vendita delle ghiande dava entrate che dipendevano dall’abbondanza del raccolto, per il 1799, in particolare, si quantificava un raccolto di 1149 ducati. A gennaio e a febbraio, inoltre, si concedeva ai frigentini una Fidarella per il pascolo dei loro animali che fruttava 60 ducati circa. Le restanti entrate erano relative alla mastrodattia, alla bagliva, alla fida degli erbaggi della strada napoletana, mentre altri proventi venivano dallo jus sui forni e dall’affitto di numerosi fabbricati sia a Frigento che nei Casali. Rendite feudali venivano anche dall’affitto di territori ai coloni, secondo un Piano della Rendita in Grano del Feudo di Frigento, che riporta un lungo elenco e la somma complessiva di 308 tomoli che, venduti a 16 carlini il tomolo, secondo la quotazione della dogana di Avellino, davano l’importo di 462 ducati. Le rendite burgensatiche, invece, derivavano dall’affitto della Difesa di Pesco Margiotta, dall’affitto di case, da prestiti in denaro e dall’affitto del Mulino alli Piani per un triennio a Mastro Vincenzo Moccia di questa Città che ne paga in ogn’Agosto annui 130 ducati. In questo periodo, lo spadroneggiare dei realisti e l’impunità loro assicurata dall’indulto del re delusero la parte più sana e colta della popolazione, avviando un processo culturale che permise la maturazione di nuove idealità riformiste sulle quali si radicheranno, di lì a poco, i progetti innovativi del Decennio francese. Ad amplificare il disagio vissuto dalle popolazioni meridionali vi fu il vigore con cui si accrebbe il male endemico del banditismo, favorito dalla conformazione dei luoghi montuosi dell’Irpinia, perfetto asilo per i colpevoli che sfuggono ai rigori della giustizia dove per vivere si fanno strada a furti e a rapine e altri delitti, come rilevava Marciano Di Leo in un suo scritto. A tal proposito, una relazione del Tribunale di Montefusco, del 26 febbraio del 1800, constatava amaramente che dopo la caduta della Repubblica Napoletana, la sopravvenuta reazione lasciava, dopo sette mesi di sanguinosa attività, largo margine all’esistenza di bande di facinorosi che invocano il nome regio e l’abusiva autorità di “commissionati” dando sfogo a private vendette, a rapine e violenze d’ogni sorta […]Dacché cessarono i saccheggi, le capricciose carcerazioni e violenze che di privata autorità commettevansi dagli amici dell’anarchia, cominciò a respirarsi aria più sicura e tranquilla, se questa non venisse annebbiata da disertori, miliziotti e da galeotti fuggitivi o licenziati li quali anche in comitive commettono omicidii. Guaio di cui questa Provincia, peraltro, non è andata mai esente, abbondando di facinorosi e di gente avvezza al sangue e alle rapine. Il dissenso dei più all’opera di restaurazione sanguinosa dello status quo ante peserà sulle sorti della monarchia che, dopo l’ennesima fuga in Sicilia sotto la protezione degli inglesi, lascerà il regno al ritorno dei francesi e al governo di Giuseppe Bonaparte, accolto trionfalmente anche da coloro che avevano diffidato dei conquistatori durante la loro prima discesa nella Penisola, come Marciano Di Leo che aveva appoggiato con forza il movimento sanfedista. Il Nostro, infatti, il 3 Maggio del 1799, sentendo vicina nelle Puglie la regale truppa uscì nella piazza e con l’onorata coccarda del Re animava il popolo ad abbattere l’albero infernale, seguito da don Ciriaco Flammia e gli altri zelanti regalisti frigentini, ma, dopo una lunga ed attenta riflessione, egli si convertì alle idee riformiste e dimostrò di essere una delle menti più brillanti del Regno, partecipando alla redazione della Statistica murattiana per Principato Ultra, una delle produzioni più significative del periodo storico in esame. Il docente referente Maria Pina Cancelliere