MH - febbraio 2016 - Chiesa Valdese di Pinerolo
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MH - febbraio 2016 - Chiesa Valdese di Pinerolo
Avere coraggio di Alberto Mallardo, Osservatorio MH sulle migrazioni a Lampedusa Lampedusa, Agrigento (NEV), 3 febbraio 2016 - “Era da quando avevo quindici anni che avevo in mente di andare in Europa ma allora non mi era consentito sognare. La mia famiglia non mi avrebbe mai dato il permesso di partire per paura delle possibili ritorsioni del governo. Così continuai ad andare a scuola fino a quando iniziò il servizio militare. A quel punto non potei più prendere nessuna decisione: cosa fare, cosa pensare, dove andare, la tua vita era completamente nelle loro mani. Per me è stato uno dei periodi più difficili della mia vita”. È così che inizia il racconto del viaggio affrontato da Saare (nome di fantasia), ragazzo eritreo che ha deciso di narrarci la sua storia. Una storia che nasce dall’impulso di sfuggire alla morte o forse piuttosto dal desiderio di evitare una vita non vissuta. Per noi europei è difficile capire cosa significhi abitare un paese schiacciato da un’ombra che si estende ben oltre i suoi confini nazionali e che perseguita i suoi esuli anche a migliaia di chilometri di distanza. Un paese in cui il servizio militare coinvolge chiunque dai diciassette ai cinquant’anni e il cui unico scopo è di fornire manodopera gratuita al regime di Afewerki. Un paese in cui le caserme si trasformano in centri di reclusione per la popolazione e in cui le prigioni diventano dei veri e propri centri di tortura per chi si oppone al regime. Saare ci racconta di come, prima di partire dal suo paese, non avesse compreso pienamente tutte le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per arrivare in Europa. Aveva avuto modo di ascoltare alcune delle storie di chi ce l’aveva fatta ma molti probabilmente avevano omesso i dettagli più dolorosi del viaggio. Ciò nonostante i suoi occhi ci trasmettevano la determinazione di chi ha intrapreso un percorso determinato a superare gli eventuali ostacoli che gli si fossero parati davanti. Ricordo quando una mattina Saare, riferendosi alla protesta messa in atto in quei giorni da chi come lui era trattenuto nell’hotspot di Lampedusa, sorrise e mi disse: “Chi non rischia qualcosa non ottiene nulla”. Questa riflessione Saare deve averla fatta anche quando, dopo sei anni di vita rubata dall’esercito eritreo, decise di lasciare il suo paese e scappare illegalmente in Sudan. In Sudan si affidò ad una rete di trafficanti che lo avrebbe dovuto condurre in Libia. Nel mezzo del deserto però, il pick-up su cui viaggiava fu fermato dai predoni del deserto che rapirono lui e i suoi compagni di viaggio in modo da poter pretendere un riscatto dalle loro famiglie. Al contrario delle persone provenienti da altre nazioni, gli eritrei non hanno però un paese in cui tornare, un paese pronto a riaccoglierli né tantomeno a trattare per loro in caso di difficoltà. Le maglie di una rete composta da trafficanti, militari al soldo di autorità più o meno riconosciute e forze di polizia corruttibili e perciò già corrotte si stringono intorno a queste persone perché più deboli e ricattabili. Chi non riesce a pagare, o a farsi inviare i soldi dai propri familiari, rischia quindi di concludere il suo viaggio con l’asportazione di un rene o di altri organi. La famiglia di Saare riuscì a pagare il riscatto e lui fu affidato a un'altra banda di trafficanti che dopo averlo rinchiuso per giorni in una grande stanza, senza acqua per lavarsi e con un solo pasto al giorno, lo condusse attraverso il deserto del Sahara verso le coste libiche. In Libia dopo diversi mesi di attesa fu fatto imbarcare su un’imbarcazione da pesca che dopo tre lunghi giorni di viaggio lo condusse a Lampedusa. Nell’isola pelagica Saare ha vissuto per oltre un mese e mezzo poiché rifiutava di farsi identificare. Oggi è in Sicilia in attesa di essere ricollocato in un paese europeo dove iniziare una nuova vita. Ogni storia come quella di Saare, produce una crepa in quel muro di indifferenza mista a paternalismo che divide noi da loro. Ogni crepa accresce la consapevolezza che un cambiamento generale nelle politiche sull’immigrazione è necessario e urgente. Perché queste memorie non si perdano e vengano ricordate con forza occorre continuare a raccontare, finché non si raggiunga una moltiplicazione delle voci tale da essere assordante. La leggerezza della relazione umana, al di là di lingue, culture e costumi diversi di Franco Causarano, operatore culturale alla Casa delle culture di Scicli Scicli, Ragusa (NEV), 3 febbraio 2016 - Solo due anni di pensione ed eccomi di nuovo a fare scuola, ad insegnare una lingua. Prima, per 38 anni, l’inglese alle scuole medie con i ragazzi dagli 11 ai 13 anni; adesso a “MH - Casa delle Culture” a Scicli, con i minori che arrivano dal Nord dell’Africa. Questa volta insegno l’italiano. Una classe aperta agli arrivi, ma che sostanzialmente si è stabilizzata attorno ad un gruppetto di quattro diciassettenni egiziani. L’esperienza è in itinere e tutta da vivere e da scoprire nei suoi aspetti relazionali e, se si vuole, culturali. Lontani i dibattiti televisivi e il vociare dei politici, finanche le notizie di cronaca rimangono fuori dall’auletta che ci ospita. L’impegno e il tempo sono totalmente presi dal rapporto insegnamento-apprendimento. Una full immersion nella lingua italiana che dai momenti di primo impatto, fatti di gestualità, comprensione verbale, passa ai dialoghi brevi essenziali, alla memorizzazione e quindi al gioco della produzione lessicale. Ci sarà, nelle prossime settimane, la lingua scritta e naturalmente la lettura. Nell’aula i ragazzi spesso sono attratti da due grandi cartine geografiche dell’Africa e dell’Europa. È l’occasione per conoscere terre e città. Fanno domande. Ci si capisce già con un gesto o un verbo appena appreso. Li vedo sorpresi, ma piacevolmente coinvolti. Tutto procede nella normalità del rapporto docente-discente, ma c’è qualcosa che è difficile spiegare da un punto di vista della pedagogia o della didattica. Entrano in gioco – sono entrati in gioco – rapporti relazionali attivanti a loro volta processi di fiducia e di reciproca simpatia. È la leggerezza della relazione umana, al di là di lingue, culture e costumi diversi. Aiuta in tutto ciò la struttura e l’organizzazione, ben pianificata, di Mediterranean Hope. Ci si sente tranquilli e l’ambiente mette tutti (migranti, volontari, docenti, operatori sociali) a proprio agio, in grado cioè di partecipare nella quotidianità del vivere. Alla “Casa delle Culture” incontro altri amici docenti che mettono il proprio tempo a disposizione degli ospiti. Tanti giovani di Scicli trovano il modo per farsi vedere e socializzare. Alcuni sono compagni nella frequentazione dell’Istituto superiore dove vanno i miei quattro studenti (sono sei nell’ultima settimana, per l’arrivo di due diciottenni di nazionalità marocchina). Insomma una situazione che a 65 anni, mi fa ancora scoprire la vita. Mia e soprattutto degli altri. Cronaca da Beirut: il primo corridoio umanitario – una conquista per nulla scontata di Francesco Piobbichi e Simone Scotta Beirut, Libano (NEV), 10 febbraio 2016 - Ci sono giornate che scorrono come molte altre. Ci sono invece giorni che valgono anni, e la giornata del 3 febbraio per noi di anni ne è valsi molti. Era iniziata bene, eravamo nel centro di Beirut, tra clacson e smog, fermi a un bar ad attendere la notizia, “l'OK” scritto in un messaggio di WhatsApp da parte di Maria Quinto che era andata a parlare con le autorità libanesi. Avevamo tutto: i visti per motivi umanitari delle autorità italiane, i biglietti aerei, il nostro amico tassista Bayan pronto per andare a Tripoli a prendere la famiglia scappata tre anni prima da Homs e che aspettava con ansia il via libera per fare le valigie per partire per l’Italia. Avevamo tutto, mancava solo quell'OK, il via libera da parte delle autorità libanesi. La sera prima c'eravamo lasciati dicendoci che ormai era fatta. Che lo scoglio più grande era passato. Ma questa storia non era iniziata in questa giornata di febbraio, era iniziata molto prima, quando era arrivata una mail che raccontava la storia di una bambina siriana di nome Falak (7 anni), scappata dalla guerra, e malata di retinoblastoma, che viveva in un garage di Tripoli, nel nord del Libano, non lontano dal confine siriano. La storia era arrivata a noi dall'isola di Lesbo, come una pallina di pingpong che rimbalza tra attivisti della frontiera. A raccontarla era stato uno zio di Falak che era arrivato con un gommone nell'isola greca. Avevamo deciso così di partire, quasi di corsa, i primi di gennaio e andare a trovare la famiglia che viveva a Tripoli. E lì avevamo deciso che occorreva fare di tutto per poter portare Falak, suo fratello e i suoi genitori in Italia. Il tempo intanto era passato, e Falak, dopo l'intervento che le ha asportato l’occhio sinistro, aveva bisogno di iniziare la chemioterapia. Ma in Libano la cura avrebbe dovuto pagarla la famiglia. Cosa per loro impossibile. Solo attraverso i corridoi umanitari si poteva aprire un varco per salvarla. Il 3 febbraio sembrava tutto risolto, e le ansie accumulate per più di un mese sembravano sparite. Mancava solo quell'OK. Ci si è gelato il sangue invece quando abbiamo letto che il padre non poteva più partire, che c'era un problema nel visto, e che quindi la famiglia si sarebbe dovuta dividere. Mamma e figlia potevano partire, padre e figlioletto le avrebbero raggiunte in seguito. Migrare vuol dire lasciarsi tutto alle spalle e iniziare una nuova vita, ma dividersi nel momento del salto della frontiera è cosa drammatica. Li abbiamo visti piangere salutandosi, abbiamo condiviso le loro preoccupazioni, Bayan è stato molto di più che un tassista, è stato un pezzo di umanità incontrata per strada che ha saputo darci una mano. “Basterebbe poco” ci diciamo, tra noi. Ci facciamo forza perché questo progetto dei corridoi umanitari apre un varco nella frontiera europea, ed è un progetto che potrebbe aprire un dibattito politico enorme. Eppure davanti a queste storie mastichiamo amaro. Le ore passano e la giornata sembra finire così, come quando ti pareggiano all’ultimo minuto. Mentre beviamo l'ultimo caffè turco di una infinita serie però, riceviamo la notizia inaspettata, c'è il via libera anche per il padre! Anche lui ha il visto! Ma è tardi ormai, le agenzie per prenotare gli aerei sono chiuse, e Tripoli è lontana da Beirut. Decidiamo di provarci comunque, prenotiamo il biglietto aereo con l'Iphone sfruttando la rete wifi del bar, andiamo a prendere il visto di corsa e chiamiamo il padre dicendogli di prendere le sue cose, prendere un taxi e raggiungerci a Beirut. Non avendo il visto con se potrebbe essere fermato lungo il percorso, e potrebbe essere portato in commissariato per gli accertamenti. Così lo chiamiamo ogni venti minuti, il suo viaggio sembra interminabile, ma alla fine, nel pieno della notte, arriva insieme a Hussein, il fratellino di Falak. Saliamo nel suo taxi sgangherato con un tassista di Tripoli che non conosce le strade di Beirut ed impiega due ore per trovare l'albergo di Falak e della madre. Il tempo di farsi una doccia, e siamo in aeroporto, pronti per partire. “Che giornata!” ci diciamo tra noi, mentre le luci di Beirut ci salutano, che giornata... Passare questa frontiera ci sembra un rito, fatto di mille prove, ostacoli, emozioni, ed ogni volta che dentro l'aeroporto passiamo un controllo sembra che questa famiglia perda qualcosa e guadagni qualcos'altro. Quando l'aereo prende il volo Falak e suo fratello ridono, li disegniamo che volano sopra una piuma che passa la frontiera, Falak inizia a colorare il disegno, mentre sua madre scrive la richiesta di asilo che presenteranno a breve alle autorità italiane. A Fiumicino gli ultimi controlli, le ultime paure cadono dietro le spalle, si apre una nuova vita, e l'abbraccio dello zio di Falak arrivato di corsa dalla Germania è una sorpresa enorme che emoziona tutti. Ce l'hanno fatta, ci diciamo con gli occhi gonfi, ma che giornata... “Mai più morte e sfruttamento” di Marta Bernardini, operatrice dell’Osservatorio a Lampedusa attualmente alla frontiera tra USA e Messico Arizona, Stati Uniti (NEV), 24 febbraio 2016 - Come ogni settimana mi trovo al rifugio per migranti a Nogales, in Messico, a pochi passi dal confine con gli Stati Uniti. Qui alla Kino Border Initiative (KBI), gestita dai gesuiti, oggi sono tutti emozionati. Gli occhi del mondo intero sono puntati proprio sul Messico, su questa frontiera e sulle persone che l’attraversano. Uno schermo è pronto tra i tavoli e le panche dove i migranti ricevono due pasti caldi al giorno e informazioni sui loro diritti. Sta per essere proiettata la visita del Papa a Ciudad Juarez, altra città di confine dove si raccolgono tante storie e volti di chi è in fuga da violenza e disperazione. Joanna Williams, giovane operatrice della KBI, mi racconterà poi che proprio un anno prima il gruppo dei gesuiti aveva invitato il Pontefice a visitare la città di Nogales “per condividere quello che facciamo qui, qual è la situazione dei migranti e come cerchiamo di umanizzare questa realtà difficile”. Perché il Messico è uno dei paesi con maggior tasso di violenza, dove i cartelli della droga hanno un forte controllo sulla popolazione e uno stretto legame con istituzioni e forze di polizia. Non diversa, se non addirittura peggiore, la situazione di alcuni paesi del Centro America come Honduras, Guatemala, El Salvador dai quali moltissime persone sono costrette a fuggire per povertà e abusi quotidiani da parte di spietati gruppi criminali, che non si risparmiano in uccisioni violente o sparizioni ingiustificate. Joanna mi racconta di quanto sia difficile, nonostante queste siano le situazioni da cui si fugge, riuscire a fare richiesta di asilo negli Stati Uniti, perché serve dimostrare di essere vittime di atti di persecuzione, non solo di violenza. “Se fuggi dal tuo paese - continua l’operatrice - perché tutti i tuoi vicini sono stati uccisi, la tua famiglia è stata uccisa, il tuo negozio è stato bruciato e sei stato avvicinato dai cartelli della droga, potrebbe non essere abbastanza per richiedere protezione, e comunque dovresti attendere almeno sei mesi in un centro di detenzione statunitense”. Per questo molti cercano di passare il confine illegalmente, tanti non ci riescono perché spariscono prima per mano dei trafficanti, o muoiono nel deserto, altri vengono fermati dalla Border Patrol, la polizia di frontiera e inseriti nel sistema penale degli Stati Uniti. “Molti migranti che incontro qui a Nogales – racconta Joanna – mi dicono di essere colpevoli, perché hanno attraversato il confine senza permesso. Non sono minimamente consapevoli dei loro diritti, perché nessuno gliene ha mai parlato. Ma come ha detto il Papa, non si tratta di numeri, sono persone, sono storie, sono esseri umani”. La frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico è anche una delle più militarizzate al mondo e il sistema di criminalizzazione dell’immigrazione è così profondo che, come racconta Joanna, molte persone interiorizzano lo status di criminale che viene loro attribuito, passando mesi in prigioni e centri di detenzione per essere poi deportati in Messico o in altri paesi del Centro America, trasformati da vittime a criminali. Il lavoro della KBI, quindi, è anche quello di raccogliere le testimonianze dei migranti sugli abusi che hanno subito, sia in Messico da parte dei trafficanti e delle stesse autorità, come la polizia, che negli Stati Uniti da parte della Border Patrol o nei centri di detenzione. Le violenze sono molto frequenti e i migranti sono tra i soggetti più vulnerabili, la cui voce e le cui denunce rimangono inascoltate. “Come la nostra, sono tante le iniziative che difendono i diritti umani dei migranti, e quando il Papa ha fatto riferimento a queste organizzazioni è stato un momento molto emozionate e di grande incoraggiamento, – dice Joanna, e prosegue – il nostro lavoro non è solo di tipo umanitario ma è anche politico. Noi cerchiamo di rispondere al meglio ai bisogni delle persone che incontriamo, ma nel momento in cui diamo cibo, acqua, facciamo fare le telefonate, ti chiedi perché le persone siano in quella situazione e le riflessioni sulle implicazioni politiche delle migrazioni sorgono spontanee”. Quindi “Mai più morte e sfruttamento”, parole che riecheggiano dall’alto della recinzione tra Stati Uniti e Messico, uno dei tanti muri del nostro tempo, simbolo di ingiustizia e ineguaglianza costantemente sotto i nostri occhi.