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EBRAISMO E CINEMA: LA CULTURA EBRAICA ATTRAVERSO LE IMMAGINI “VAI E VIVRAI” “Vai e vivrai” (tit. or. “Va, vis et deviens”) Regia: Radu Mihaileanu Interpreti principali: Yael Abecassis, Roschdy Zem, Moshe Agazai, Moshe Abebe, Sirak Sabahat, Roni Hadar Genere: drammatico Anno: 2005 (Francia, Israele, Romania) Trama Africa 1984. Il Mossad (servizio segreto israeliano), in collaborazione con la CIA, sta organizzando l’operazione segreta “Mosè” che ha come obiettivo quello di trasferire in Israele un folto gruppo di Ebrei etiopi (Falasha) facendoli passare per i campi profughi del Sudan. Una donna etiope cristiana chiede ad una donna ebrea, il cui bambino è morto, di aiutare suo figlio (che nel campo potrebbe morire di stenti) a raggiungere Israele. La donna accetta e il bambino, fingendo di essere suo figlio Schlomo, lascia il Sudan. Giunto in Israele viene dichiarato orfano ed adottato da una famiglia sefardita di Tel-Aviv. Gli anni passano, il bambino cresce e diventa adulto, ma non riesce a dimenticare la madre naturale che cercherà di ritrovare a tutti i costi…… Il soggetto del film Il soggetto è originale ed è stato scritto dal regista. In un’intervista egli ha detto che il film è nato dall’idea della lotta che ogni essere umano deve condurre per liberarsi ed per essere se stesso. Pur ricordandosi dell’operazione Mosè R. Mihaileanu ha raccontato che non si era mai reso conto dell’enormità di questa avventura umana. Poi a Los Angeles, durante un festival cinematografico, ha incontrato un Falasha che gli ha raccontato la sua epopea: il lungo viaggio a piedi fino in Sudan, la vita nei campi dei profughi, l’accoglienza in Israele. Il regista, colpito dalla storia, ha iniziato a raccogliere e a studiare tutto il materiale che è riuscito a trovare sull’argomento e si è recato anche in Israele per incontrare alcuni protagonisti dell’operazione Mosè (membri del Mossad, dell’esercito, dell’aviazione, sociologi, storici ed Etiopi non ebrei che vivono nel paese in clandestinità) dei quali ha raccolto le testimonianze. L’ispirazione per il titolo l’ha presa dal suo libro preferito (“Vie et destin”, una grande opera sulla guerra e sulla battaglia di Stalingrado, dello scrittore e giornalista sovietico Vassili Grossman). Contemporaneamente al film è uscito anche il romanzo con lo stesso titolo (pubblicato in Italia da Feltrinelli) scritto dal regista in collaborazione con il giornalista e scrittore francese Alain Dugrand nel quale vengono riportati minuziosamente i fatti storici dell’operazione di salvataggio dei Falasha. Il regista Radu Mihaileanu, regista rumeno naturalizzato francese, è nato a Bucarest nel 1958. Il padre Mordecai Buchman, ebreo e comunista, è stato perseguitato dai Nazisti (internato in un campo di concentramento è riuscito a fuggire) e ha dovuto cambiare il suo nome in Ion Mihaileanu. Successivamente, con la fine del nazismo e l’avvento del comunismo, sotto il regime di Ceausescu, il padre subisce nuovamente intimidazioni e persecuzioni. Il regista, inizialmente, si impegna nel teatro. Nel 1980, subendo le stesse persecuzioni del padre, decide di stabilirsi in Israele, ma in seguito emigra in Francia dove si stabilisce definitivamente. Trova lavoro come montatore e assistente di regia. Nel 1993 dirige il suo primo film (“Trahir” sulla storia di un perseguitato politico ai tempi di Ceausescu). Il successo arriva nel 1998 con il bellissimo film “Train de vie” sulla fuga immaginaria degli abitanti di un villaggio ebraico per salvarsi dai Nazisti. Successivamente dirige e produce (oltre che curarne la sceneggiatura) il film “Vai e vivrai” (miglior film al festival cinematografico di Vancouver nel 2005) dove, inserisce, come protagonista, la figura di uno “straniero” (un non ebreo) che per potersi salvare deve vivere in un “mondo” che non è il suo proprio come il regista che, costretto a scappare dalla Romania e a rifugiarsi in Francia, si è sempre sentito un “diverso” sia nel luogo di nascita che in quello di adozione (in un’intervista ha raccontato che spesso è stato definito “straniero” sia in Romania che in Francia. Il regista ha il merito di farci conoscere il dramma di un popolo poco conosciuto (oltre che nel libro del regista si trovano informazioni sui Falasha nel libro “Il mistero del sacro Graal” di Graham Hancock pubblicato in Italia nel 1999 a cura della casa editrice Piemme). Gli interpreti principali Il regista ha raccontato che la ricerca dei tre attori che interpretano il protagonista nelle diverse età della vita (infanzia, adolescenza e giovinezza) è stata piuttosto difficile, soprattutto per il più piccolo che doveva parlare 3 lingue e che è stato cercato a lungo in Francia, in Etiopia e in Israele. Inoltre i tre attori (Moshe Agazai, Moshe Abbebe e Sirak M. Sabahat) dovevano essere “somiglianti”. L’attore che interpreta Schlomo da adulto, per entrare in sintonia con gli altri due attori, è rimasto sul set anche quando si giravano scene in cui non recitava. Con i suoi consigli ha aiutato gli altri due interpreti e così sul set si è creata fra i tre attori una complicità che ha facilitato il lavoro del regista. La madre adottiva è interpretata dall’attrice israeliana (di origine marocchina) Yael Abecassis che mantiene il suo vero nome anche nel film. Il regista ha confessato di essere, da anni, un suo grande ammiratore e di averla scelta per le sue doti umane e artistiche e per il fatto che parla arabo. L’attrice, interprete di alcuni film del famoso regista israeliano Amos Gitai (un ruolo su tutti, quello di Rivka, la moglie che non può avere figli, in “Kadosh”) è particolarmente nota in Israele (dove ha recitato in film commerciali e partecipato a shows televisivi oltre che lavorare come modella). Ha lavorato anche con registi europei (ad esempio nel film “Sopravvivere coi lupi” della regista francese Vera Belmont). Per interpretare il padre adottivo il regista ha scelto l’attore e regista francese (di origine marocchina) Roschdy Zem molto noto in Francia. Notato dalla regista francese Josiane Balasko nella boutique di pantaloni dove lavorava come commesso ha intrapreso la carriera di attore arrivando a vincere la Palma d’oro a Cannes nel 2006 (con il film “Days of glory”). L’attore, inoltre, è stato più volte nominato ai César per le sue “caratterizzazioni” in ruoli di immigrato nordafricano. Per il film “Vai e vivrai” ha imparato l’ebraico. Tematiche presenti nel film Il film tratta diversi temi: l’affermazione dell’identità personale, l’importanza del rapporto madrefiglio, il razzismo nei confronti del “diverso”, la vicenda umana dei Falasha (e, inevitabilmente, anche di Israele). Come ha raccontato il regista il viaggio del protagonista per tornare ad essere se stesso è riassunto efficacemente nel titolo originale del film: va, vis et deviens. “Va” rappresenta l’infanzia con il distacco dalla madre e dalla terra natia, l’esodo e lo sradicamento. “Vis” rappresenta l’adolescenza del ragazzo che accetta la sua nuova condizione e, anche se deve fingere, cerca di omologarsi per poter, appunto, vivere. “Deviens” rappresenta la maturità dove il protagonista può scegliere liberamente di tornare ad essere se stesso ritornando là da dove è venuto e compiendo il suo destino. Con questi tre verbi viene rappresentata la “circolarità” della vicenda umana di “Schlomo”. Il “cerchio” si chiude quando il protagonista torna a casa, in Africa. Nel film, a sottolineare quanto il rapporto affettivo madre-figlio sia fondamentale, sono presenti ben 4 figure di madri: quella naturale, quella che accetta lo scambio con il proprio figlio morto, quella adottiva e, in ultimo, la moglie che capisce il dramma di Schlomo quando diventa madre essa stessa. Ognuna di questa madri accompagna il protagonista per una parte della sua vita (anche brevissima come succede per la seconda madre) e lo aiuta a crescere, a capire, a scegliere cosa vuole essere. Su tutte si erge la madre naturale che accetta il sacrificio più grande (separarsi da lui perché si possa salvare) e che è insieme “genitrice, terra, patria” alla quale bisogna tornare. Il film, attraverso la vicenda del protagonista, ci mostra cosa succede quando i Falasha arrivavano in Israele. Il protagonista, pur essendo formalmente ebreo, (anche se in realtà non lo è) nel paese è considerato un “diverso”, perché ha la pelle nera e subisce il razzismo degli Israeliani più retrivi, contro i quali il regista prende posizione in maniera ferma e decisa. Nella realtà è avvenuto proprio questo: il governo israeliano ha sempre promosso nei confronti dei Falasha una politica di drastica “ebraizzazione” secondo i canoni di Israele” ignorando totalmente la lingua e la cultura di questo popolo e annullandone l’identità. Un popolo che è stato a lungo perseguitato in Etiopia e che ha visto riconosciuta la propria “ebraicità” dalle autorità rabbiniche solo nel 1975. Oggi i Falasha residenti in Israele (più di 120.000) sono soggetti a discriminazioni e patiscono disagio economico e sociale. La disoccupazione è alta, il 60% delle famiglie dipende dall’aiuto sociale e la comunità ha denunciato che alcuni anni fa sulle loro donne è stato testato un farmaco (già testato in USA sui cittadini indigenti) che ha causato problemi di sterilità. Nel 2013 il governo israeliano, per limitare gli ingressi di ebrei etiopi, ha interrotto l’operazione “Ali di rondine” (iniziata nel 2010) per consentiva i ricongiungimenti con i parenti. Si afferma che questi immigrati sono ormai troppi e che costano. Contro questa politica si sono fatti sentire diversi intellettuali ebrei come, ad esempio, l’influente rabbina Shira Milgrom di New York. Nel film, anche se non direttamente, vengono evocate altre due “storie”: quella del popolo palestinese e quella del continente africano. La prima si coglie nelle parole del nonno adottivo (papi) che, nel kibbutz, dice a Shlomo: “Vedi questo albero, l’abbiamo piantato noi, cinquanta anni fa ……..ma vedi quello laggiù? C’è da molto prima che noi arrivassimo qui ……….dobbiamo vivere insieme, condividere il territorio…..” La seconda è accennata nella sequenza conclusiva dove il regista mostra per brevi istanti la vita di coloro che sono rimasti in Africa, nei campi profughi. Le persone ammassate le une sulle altre, la sporcizia, la povertà, l’abbandono sono strazianti, una ferma denuncia contro guerre e colonialismo. Recensioni Il film ha convinto critici e pubblico ricevendo ottime critiche. Eccone due: la prima di un critico cinematografico, la seconda di uno spettatore. Nel 1984 avviene l'operazione Mosè, iniziativa congiunta tra Israele e USA che porta dall'Etiopia in Terra Santa, attraverso il Sudan, migliaia di ebrei etiopi, opinabili discendenti del re Salomone e della regina di Saba, detti falascià ("emigrati, esiliati"). Scritto dal regista rumeno (Train de vie) da un suo romanzo, insieme con Alain-Michel Blanc, racconta le peripezie di un piccolo etiope cristiano che, per sottrarlo alla carestia e al regime filosovietico di Menghistu, la madre affida a un'altra donna, ebrea, il cui figlio è morto da poche ore. A lui, ribattezzato Schlomo, la donna straziata dice: "Va', vivi e diventa!". In Israele, in quanto ebreo benché di pelle nera, gli si riconosce il diritto di vivere, crescere e diventare uomo. Per farlo, però, deve mentire, obbedire alla legge dell'appartenenza, lottare con coraggio contro la solitudine e la diversità, sia pure aiutato dall'affetto di una francese che lo adotta e da due figure paterne che gli insegnano "a essere sé stesso, prima ancora che falascià o cristiano" (R. Escobar). Si rivede con piacere l'attrice israeliana Abecassis, cara al regista Gitai, una delle donne più affascinanti passate sugli schermi dei primi anni 2000. ( Morando Morandini). Bellissimo film. Storia di un ragazzino etiope cristiano con una madre che lo induce a fingere di essere ebreo per poter andare in Israele insieme ad un gruppo di Ebrei etiopi e salvarsi così dalla fame e dalla vita di stenti che conducono in un campo profughi del Sudan. In Israele il bambino viene adottato da una famiglia ebrea. Il ragazzino è traumatizzato, non vuole saperne di questa famiglia e farà fatica ad adattarsi ad un altro tipo di vita, al razzismo e alla cattiveria della società israeliana che disprezza le persone dalla pelle scura anche se professano la stessa religione. Il film, nonostante la drammaticità della vicenda, sembra una poesia. Immagini straordinarie, sentimenti autentici ed attori stupendi. (P. Manganini) ANALISI EBRAICA DEL FILM Per riuscire a comprendere questo film occorre partire da una premessa e da alcune conoscenze: chi sono gli ebrei? Il termine ebreo deriva dal verbo ebraico avar che significa passare, attraversare: gli ebrei erano dunque popoli nomadi, proprio come gli arabi, il cui nome ha la stessa etimologia. Chi per primo nella Torah è stato chiamato ebreo? E’ una persona nata in Mesopotamia, a Ur dei Caldei, Abramo, che si è lasciato guidare da Dio verso la terra della promessa, di cui non ha avuto durante la sua esistenza altro possesso che la tomba della sepoltura della moglie Sarah e della sua famiglia. Chi sono asKenaziti, sefarditi, falashim? Sono gli ebrei della diaspora, della dispersione ebraica che dopo il 70 e ancora di più dopo il 135, quando Gerusalemme è stata distrutta dai Romani, sono fuggiti in direzioni diverse, chi verso il nord- Africa e la Spagna (i Sefarditi), chi verso il nord dell’Europa (gli Askenaziti), chi verso le zone dell’attuale Etiopia ( i Falashim). Il film si sofferma in particolare sui falashim, chiamati anche ebrei neri ed è quindi interessante parlarne. Il termine falasha in amarico significa esiliato o straniero, quindi designa un popolo che è vissuto in mezzo da altri popoli mantenendo le proprie tradizioni, orgoglioso della propria appartenenza religiosa e cercando costantemente una difficile integrazione in altri paesi. I falashim sono noti anche come Beta Israele, cioè casa di Israele. Si ritengono discendenti della regina di Saba, che secondo la tradizione venne tanto onorata dal re Salomone durante la sua visita per rendergli omaggio da generare da lui un figlio, Menelik. Da questa vicenda si ritiene sia derivata la discendenza che avvicina ebrei a Etiopi. Tutto questo creerebbe però, secondo la visione dell'Ebraismo ortodosso, alcuni problemi perché l'ebraicità è trasmessa in linea femminile ed essendo la Regina di Saba non ebrea, neanche suoi discendenti dovrebbero non esserlo. Nel loro lungo e difficile adattamento in Etiopia gli ebrei etiopi hanno finito un po’ con l’assomigliare nei gesti rituali e nelle tradizioni ai cristiani e ai musulmani che vivono nel loro paese, tanto da sentirsi fratelli e da condividere la loro vita e le loro esperienze e persino atteggiamenti di preghiera come le prostrazioni. Parlando di cristiani etiopi dobbiamo citare i copti ortodossi, miafisiti o monofisiti, tra i primi convertiti al cristianesimo grazie alla predicazione di San Marco, discepolo di San Paolo, che sono orgogliosi di aver mantenuto il cristianesimo nella purezza originaria, rifiutando il Concilio di Calcedonia. E’ stata una delle Chiese a soffrire di più dell'avanzata araba nel Nordafrica. A loro volta adattandosi ai costumi religiosi islamici ed ebrei circoncidono i figli maschi e si prostrano durante le loro preghiere. Dopo il 1977 una situazione drammatica causata da carestie e dalle repressioni del governo in Etiopia convinse il governo israeliano ad intervenire in aiuto degli ebrei che erano emigrati con cristiani e musulmani verso il Sudan, decidendo di trasportarli nel proprio territorio in maniera massiccia attraverso un ponte aereo: si susseguirono così le tre operazioni denominate Operazione Mosè, Operazione Giosuè e Operazione Salomone. Intorno al 1991 il numero totale degli ebrei trasferiti in Israele fu di circa 90.000, l'85% della comunità presente, un vero e proprio esodo. L’operazione Mosè ,il cui nome aveva un alto valore simbolico perché richiamava l’uscita dall’Egitto e dalla schiavitù egiziana venne affidata in tutta segretezza al Mossad e fu quasi sicuramente favorita dal versamento di una cospicua somma di denaro. La ElAl mise a disposizione tutti i suoi aerei e tra il 21 Novembre 1984 e il 5 Gennaio 1985 furono trasportati a Tel Aviv, con l’autorizzazione del governo sudanese e in piena notte, circa 8.000 falascià. Quando l’operazione però divenne nota, gli Stati arabi costrinsero il Sudan a ritirare la propria autorizzazione, interrompendo il ponte aereo e lasciando in Sudan un migliaio di ebrei etiopici. Fu il vice Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, a risolvere la questione, incaricando la CIA di recuperarli e trasportarli in Israele. Questo drammatico periodo è il tema del film, anche se l’operazione Giosuè de l1985 e quella Salomone del 1991 non furono certo meno attese e meno traumatiche per quella popolazione in fuga da guerre e carestie. Questa gente era guidata da un sogno, quello che aveva alimentato per anni loro preghiere e le loro speranze: il ritorno alla terra promessa, in quel paradiso in cui scorre latte e miele, in cui i neri diventeranno bianchi, nel luogo della pace vera, come indica anche il nome Gerusalemme, città della pace. Per loro tutta Israele era Gerusalemme, la città di Dio, la città dell’uomo, la loro città. Questa grande migrazione non può non farci pensare all’uscita dall’Egitto, quindi il nome della prima missione pare voler collegare il passato al presente in modo suggestivo. Dopo la lunga marcia disperata nel deserto e le tragedie che sterminarono intere famiglie, ecco gli aerei che facevano pensare alle parole bibliche: ”Vi ho portato sopra le ali di una grande aquila e vi ho condotto a me”. Ecco l’alyiah, la salita verso la città di Dio, verso il suo monte santo passando per le vie del suo cielo, là dove Lui è più vicino. In ebraico il termine nesher, aquila, indica l’animale sollecito verso i propri piccoli, protettivo; quindi è immagine di Dio che veglia sul suo popolo. L’aquila diventa simbolo di una ascesa che unisce a Dio e gli aerei si tramutano in strumento di salvezza.. Una donna cristiana disperata, già privata degli altri figli in seguito a queste terribili vicende, allontana da sé nel tentativo di salvarlo il suo bambino imponendogli di unirsi agli ebrei in fuga e lo congeda con le parole: ”Vai, vivi e diventa… Non tornare prima di allora”. Diventa cosa e come? La domanda non ha risposte ma la speranza è affidata anche alla fortuna riposta nel cornetto che gli pone al collo, dato che non può vestirlo della sua croce cristiana. Il figlio non capisce la ragione di questo ordine che lo sconvolge e vivrà tutti gli avvenimenti successivi tirandosi dietro un forte senso di colpa. La luna, che il bambino contempla nel cielo, diventa immagine della mamma lontana . Anche il popolo ebreo viene paragonato alla luna. Quando verrà il Messia, e la luna è immagine di questa attesa e della speranza nel suo ritorno, sia la luna che il popolo saranno restaurati nella loro antica gloria: “E la luce della luna sarà come la luce del sole” (Gs 30, 26). Così nel film la luna diventa attesa del ritorno dalla mamma, destinata a riportare luce e fiducia nel cammino, a riconciliare il presente col passato. E’ interessante notare come la morte di un bambino ebreo si accompagni alla rinascita di un bambino cristiano e come la mamma ebrea, ben consapevole della diversa religione del bambino che le è stato silenziosamente affidato, pur nella sua disperazione lo protegga e lo aiuti, cedendogli anche quel nome Solomon che era quello del figlio, insieme ai nomi di tutta la sua famiglia, una identità che lo deve accompagnare perché possa sopravvivere. Anche questo nome, come quello degli altri falashim, verrà mutato in un nome considerato più ebraico, quasi nel tentativo di facilitare un faticoso inserimento nel paese. In realtà spesso gli ebrei nel corso della loro esistenza, quando è in atto un mutamento della propria vita o intendono iniziare una fase nuova della loro esistenza, o dopo una grave malattia, decidono di mutare il loro nome. Mutare nome è quindi disporsi ad accogliere un tempo nuovo. Il primo impatto con Israele, il cui nome potrebbe essere anagrammato in “canto di Dio”, rivela invece una realtà confusa, in cui gli stessi ebrei hanno costumi, stili, approcci religiosi e culturali diversi, appartenenze politiche differenziate, comportamenti spesso contrastanti, atteggiamenti talvolta razzisti. Non è un mondo omogeneo quello che il nuovo Shlomò si trova ad affrontare e del resto l’odierna Israele è proprio così, un paese in cui essere ebreo spesso significa solo avere una mamma ebrea ma si è atei o almeno ci si professa tali, pur mantenendo il rispetto di quanti professano la loro religione e comunque con la possibilità sempre aperta di una teshuvà, di un ritorno in qualunque momento della propria vita. La famiglia che adotterà Shlomo dopo la morte della donna ebrea che lo ha salvato e la cui morte lo fa sentire orfano per la seconda volta, il difficile periodo del collegio con confronti spietati con gli altri e l’impossibilità di comunicare la propria disperazione, è una famiglia ebraica con la mamma di origine francese che ha mantenuto la lingua francese accanto a quella ebraica, come succede spesso per le famiglie provenienti dalla diaspora; c’è un nonno sefardita che ha vissuto in Egitto e conserva il calore, la semplicità, la dolcezza dell’anima sefardita. Non sono i valori religiosi che ispirano i genitori ma quelli politici, la voglia di aiutare, la tensione verso la pace e la giustizia. Sono dunque pronti a capire e a gestire i problemi di Shlomo in una società che a livello umano appare talvolta chiusa e a livello religioso impositiva, tanto da creare innumerevoli problemi ai falashim, non considerati veri ebrei nonostante un responso rabbinico che dovrebbe rassicurare. Gli scontri con gli ortodossi radicali sono inevitabili e aggressivi, anche perché condotti con l’inganno, nascostamente; pretendono di prelevare una goccia di sangue dal pene di ogni falasha già circonciso e di imporgli un bagno rituale come segno di conversione per consentire il loro inserimento religioso nel paese. Le offese rivolte con disprezzo ai falashim sono altrettanto numerose come quando li si definisce “neri”, quindi diversi, chiamando addirittura in causa in vane discussioni il colore della pelle di Adamo che non può essere altro che bianca o quando li si accusa di portare in Israele malattie sconosciute. A questi problemi religiosi (è interessante il fatto che il bravo papà che si definisce ateo porti i due maschi al Muro del pianto per metterci un bigliettino con un desiderio: qui il valore religioso pare smarrirsi in un rituale quali magico e non ci si cura del fatto che un ebreo in questi foglietti non dovrebbe porre nessuna richiesta ma solo una preghiera o un ringraziamento a Dio. Shlomo di fronte a danti bigliettini tra le grosse pietre pone una domanda importante:-Perché tanti desideri? La gente non è felice qua a Gerusalemme?) si aggiungono poi nello sviluppo del film tutti gli altri problemi di Israele: la guerra, gli insediamenti, la morte di Rabin, la violenza, l’abbandono del paese, il lungo servizio militare e la disponibilità ai richiami nell’esercito in ogni situazione di allarme, le difficoltà finanziarie… Tra questi problemi si muove Shlomo che ostinatamente vorrebbe mantenere, pur nell’obbedienza alla mamma ebrea che gli ha raccomandato :”Impara le tradizioni e avrai salva la vita”, la propria identità per timore che la mamma al suo ritorno possa non riconoscerlo. Nella sua semplicità di bambino scopre durante la lezione di catechismo davanti al rabbino e al capo religioso della comunità etiope la sua conoscenza del cristianesimo ma non è per questo respinto o condannato. Il nonno, sensibile ai bisogni di questo bambino alla ricerca di se stesso, gli regala un libro in amarico dicendo che lo leggerà quando avrà imparato a leggere la sua lingua: non vuole che finisca sradicato dalla cultura del proprio paese e sembra capire anche quanto Shlomo non svela a nessuno, supportandolo nella sua crescita con il suo affetto. La mamma da parte sua cerca di avvicinarsi più che può a questo bambino che sente profondamente infelice, che parla poco ma che un giorno comunica con lei attraverso una storia che la colpisce, quella di spine conficcate sotto le unghie e su tutto il corpo, troppe e dolorose. Allora non cerca un rabbino per chiedergli aiuto ma un guaritore falasha, certa che solo in quel mondo che lei non conosce potrà trovare la risposta giusta per il figlio. E’ interessante il fatto che il ragazzo, all’insaputa della famiglia, si avvicini sempre più al capo religioso falashà, un uomo acuto, sensibile, ironico che nel corso degli anni successivi gli farà da guida e finirà per considerarlo un figlio. In lui avvertiamo la nostalgia profonda che lo lega all’Etiopia e che si esprime nella tristezza del venerdì, quando non si sente più uscire dalle case il profumo delle challoth, il pane del sabato che le donne preparavano nelle loro case. “Nel paese della Torah niente ha più odore” afferma con malinconia. Ma forse altro è l’odore che si aspettava da Israele, quello dell’accoglienza, della simpatia, del rispetto. Da lui Shlomo impara il valore ebraico della interpretazione che deve essere usata nello studio dei testi sacri: essere capace di interpretarli significa farli propri e riuscire ad inserirli nelle proprie esperienze di vita. Lo capisce bene Shlomo ormai cresciuto che cerca attraverso l’interpretazione di conquistare la simpatia del padre di Sarah, la ragazza che gli sta a cuore e che lo disprezza perché è nero. La sua brillante esposizione, lodata e applaudita, non smuove però l’uomo, che anzi si irrigidisce ancora di più. Sarah è forte, paziente, affettuosa, pronta a corteggiare questo ragazzo; anche lei ci porta a conoscenza dei problemi di convivenza tra gruppi diversi, pur con una appartenenza religiosa comune: la famiglia arriva al punto di lacerarsi la veste e di considerarla morte quando deciderà di sposare Shlomo senza la sua approvazione. E’ lucida, radicale nelle sue espressioni, come quando si parla del Kibbutz, una realtà superata, che lei considera morta ma che tanto piace ai genitori di Shlomo che per rieducarlo gli hanno trascorrere un periodo in uno di essi, che loro ben conoscono. Non ha torto Sarah: attualmente il governo israeliano li considera in grave crisi e sta studiando come attirare in essi delle persone per evitare che muoiano. Durante il periodo nel kibbutz Shlomo confessa al nonno il suo attaccamento al paese, ponendosi il problema palestinese e il timore che il popolo ebreo dopo tante sofferenze finisca col perdere la terra che ha conquistato con fatica. Il nonno semplicemente dichiara che la terra va condivisa, come il sole e l’ombra perché gli altri conoscano l’amore e l’amore è sempre un rischio. Poi scherzando ammette di non essere credente. Ora pare strano che in un film in cui ci sono continui riferimenti religiosi ed in cui gli ebrei sembrano vivere una apparente forma di religiosità solo prendendo parte al bar mitzwà dei figli e alla disputa religiosa in una sinagoga o ad un matrimonio, gli unici che veramente parlano di Dio siano i falashim diseredati, affidati alla sua provvidenza. Appaiono loro il vero popolo della promessa, i veri usciti dall’Egitto per andare verso la terra che Dio ha preparato per loro ma di cui sono solo ospiti, non padroni. Mentre la realtà penosa dei falashim si intreccia con la storia di Shlomo apprendiamo il numero drammatico di dodici suicidi al mese nella loro comunità, segno che Israele non riesce ad integrarli e che queste persone vivono un disagio che non riescono a superare. “Siamo condannati a vivere” dichiara il chesh a Shlomo, quindi non c’è gioia in questo stare nella terra promessa; “per quaranta anni avremo sofferenze e tristezze”. L’analisi di questa frase sconvolge: il quaranta è nell’ebraismo un numero di giorni infinitamente lungo e il quaranta è il numero degli anni passati sotto la guida di Mosè nel deserto, tempo di purificazione e di rieducazione prima di poter entrare nella terra della promessa. Forse questa Israele così contradditoria non è ancora la terra anelata ma è ancora il paese dell’esilio e quei quaranta anni sono nuovi anni di espiazione e di rieducazione in attesa che Dio aiuti a riconoscere la vera Israele, terra di giustizia e di pace? Lui da parte sua ha ancora un compito: servire chi è sopravvissuto. Dalla tragedia ha potuto salvare una sola cosa, la Torah ed è questa Parola che assicurerà la vita del suo popolo. Non è il libro in quanto tale il vero valore perché ben altri testi si possono trovare nel paese del Libro, ma la fede che unisce la sua gente e a cui lui sente il dovere di dedicarsi perché possa continuare a camminare nella speranza. E’ attraverso questo uomo forte e grazie alle vicende dolorose della sua esistenza che egli confida al giovane amico che Shlomo ben presto matura una decisione che il padre non capisce, considerandolo quasi un traditore, un vigliacco: non vuole servire Israele con le armi, ma con la parola. E’ un’obiezione di coscienza che il governo israeliano rifiuta, tanto da condannare al carcere gli obiettori perché considera imperativa la difesa del proprio territorio. Poi ecco la decisione di andare a studiare medicina in Francia, di nuovo esule e solo ma con la forza di chi crede ormai nelle proprie scelte. Ormai laureato, diventato grande, sposato e padre di un figlio può far ritorno nella sua terra alla ricerca della madre: non è più il burattino dell’operazione Mosè ma un adulto consapevole e merita quell’incontro e quell’abbraccio tanto atteso. La storia dei falashim in Israele non è conclusa: processi per rimandare a casa quanti non vengono considerati ebrei, difficoltà nel lavoro, difficoltà nelle scuole, disadattamento giovanile, problemi di inserimento e nell’apprendimento dell’ebraico, lavori sottopagati, condizioni di vita miserevoli. Ancora oggi nella sola Tel Aviv vivono 25.000 profughi da Egitto ed Eritrea considerati clandestini, che conducono un’esistenza estremamente precaria e che il governo israeliano vuole rimandare nei loro paesi di origine considerandoli di disturbo nonostante la loro manodopera a basso costo aiuti l’economia della nazione. Tutto continua…nell’amarezza. Scheda film a cura di Adriana Marenzi. Approfondimenti sulla cultura ebraica a cura di Miriam Cimnaghi.
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